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BATTISTA MONDIN
Storia della Metafisica Volume 2
EDIZIONI STUDIO DOMENICANO
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Finito di stampare nel
mcsc
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giugno 1998 presso le Grafiche Dehoniane Bologna —
INTRODUZIONE
Dalla metafisica classica alla metafisica cristiana La metafisica classica conclude la
millenaria avventura con due famose opere di Proclo che hanno per titolo: Elementi di teologia e Teologia platonica. Questo riferimento alla teologia è un fatto importante e altamente significativo. Esso sta ad indicare che la ”teologia" non è estranea bensì connaturale alla metafisica; non è un clandestino entrato abusivamente ncl territorio della metafisica bensì il suo legittimo proprietario. Del resto già Aristotele aveva detto che la "filosofia prima" è doppiamente teologica: perché tratta di Dio e perché Dio è Colui che possiede in modo eccellente questa conoscenza. La metafisica corrisponde essenzialmente, come sappiamo, alla ”seconda navigazione”. Questa conduce la ragione oltre il mondo sensibile, oltre il mondo naturale della fisica, e la eleva al mondo sovrasensibile, che è il mondo metafisico dello spirito. La lunga e paziente esplorazione del mondo dello spirito portò la metafisica classica, nella sua fase conclusiva, alla scoperta di Dio: l'unico Dio (l’Uno, il Bene) di Plotino, Porfirio e Proclo. Così l'ultimo approdo della ”seconda navigazione" non è un principio primo anonimo, un Motore immobile, bensì Dio stesso, e un Dio che assume connotazioni spiccatamente religiose e non più semplicemente metafisiche, un Dio che non è più unicamente oggetto di metafisica contemplazione, ma anche di mistica unione, colui con il quale l’anima ama restare ”sola con il Solo”. Su questo terreno, il terreno di Dio, avvenne il passaggio, non forzato ma naturale, dalla metafisica classica alla metafisica cristiana. Certo per il cristiano Dio non è il punto d’arrivo della ‘seconda navigazione", cioè il risultato di una ricerca filosofica, bensì è il punto di partenza di una professione di fede. Dio non è una scoperta della "seconda navigazione", ma è il dono di una speciale rivelazione, la rivelazione che Cristo, il Figlio di Dio, fa all'umanità. È lui che rivela il volto trinitario cli Dio, il volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E tuttavia anche il cristiano può parlare filosoficamente di Dio. Così il pensatore che vuole parlare di Dio, può fare un duplice discorso: un discorso di fede e un discorso di ragione. l due discorsi possono correre paralleli, poiche il discorso di fede si basa esclusivamente sullautorità: l'autorità dei sua
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Introduzione
Profeti, di Cristo, degli Apostoli. Basta invocare la testimonianza di Mo-
sè, di Cristo e degli Apostoli e già si sa tutto ciò che si deve sapere su Dio. Invece il discorso di ragione si basa esclusivamente sui "puri ragionamenti” e sull’evidenza razionale. Ma poiché è sulla stessa e unica intelligenza del credente che gettano la loro luce i due lumi della fede e della ragione, è inevitabileche i due discorsi vengano ad intrecciarsi e a fecondarsi a vicenda. C'è una fede che si arricchisce dei concetti della ragione, e c'è una ragione che si arricchisce dei doni della fede. Come dice Hegel, «il principio della religione cristiana deve venire elaborato per il pensiero, la conoscenza pensante se lo deve appropriare, esso si deve realizzare in lei, di modo che la conoscenza pensante pervenga alla conciliazione, abbia in sé l'idea divina, e la ricca cultura dell'idea filosofica si unisca col principio cristianoml Così la metafisica cristiana diventa teologica in una maniera ancora più intensa e più esplicita della metafisica classica, e tutto questo senza venire meno alla sua specificità di essere un discorso rigorosamente razionale, condotto secondo i criteri, le regole e i metodi della filosofia. Ma è una metafisica che si avvantaggia di alcuni teoremi di origine rivelata, che risultano tuttavia validi anche dal punto di vista della ragione, teoremi che la filosofia greca non aveva mai acquisito e riconosciuto, in particolare il teorema della creatio ex nihilo e quello del valore assoluto della persona.
Pertanto la metafisica cristiana riprende il camminano della ricerca della Causa ultima e del Principio primo, là dove l'avevano lasciato interrotto i due grandi padri della metafisica greca, Platone e Aristotele, e lo riprende facendo tesoro sia dei loro preziosissimi insegnamenti sia del grande potenziale filosoficoche portava con sé il cristianesimo. Così, nella loro ‘seconda navigazione” i metafisici cristiani procedono più sicuri e spediti, perché la loro navicella e sospinta dai venti della divina rivelazione.
Il potenziale filosoficoe metafisico del cristianesimo Per capire i nuovi sviluppi e le nuove acquisizioni che farà registrare la metafisica cristiana rispetto alla metafisica classica dobbiamo anzitutto considerare che il cristianesimo conteneva in sé virtualmente una potente struttura filosoficae razionale.
1)
G. W. F. HFLJEL, Lezioni sulla Storia dellafllosofia, III, Firenze 1967, p. 101.
Introduzione
ll cristianesimo è
una
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religione e non una filosofia: un'azione di sal-
(una Heilsgesclzrîclzte) e non una speculazione filosofica. Il suo obiettivo non è, come per la filosofia, fornire una spiegazione esaustiva della realtà, ma stabilire un rapporto di comunione dell'uomo con Dio. Di questo presentano una chiara conferma anche la vita e gli insegna-
vezza
menti di Cristo. «Se richiamiamo brevemente alla memoria in che modo fu accolto il messaggio che Gesù predicò e quello di coloro che ad esso si convertirono, dobbiamo concludere che non ebbe nulla a che fare con la filosofia: il Padre nostro, il Sermone della montagna, le beatitudini, la parabola del figliol prodigo, i detti e le ammonizioni di Gesù, come sono raccontati dai tre Vangeli, sono per lo più piani, molto semplici, fino al punto da distinguersi in modo antitetico non solo da ogni filosofia, ma anche da complicate religioni, come quella legalitaria dell'Antico Testamento o quella ellenica, legata alla formalità del rito. La purezza di cuore, l'essere come fanciulli dinanzi a Dio, la semplicità della fede designano il carattere religioso della nuova credenza, che non vuole essere altro che pura religione della intenzione, lontana da ogni fede legalitaria e formalismiculturali»? E tuttavia la salvezza voluta e attuata da Cristo abbraccia e investe tutto l'uomo e, quindi, tocca tutte le sue facoltà. La sua azione salvifica riguarda anche l'intelligenza e non soltanto la volontà e il cuore. E ciò che salva l'intelligenza è la conoscenza della verità. Per questo Gesù Cristo vuol essere non soltanto via e vita, ma anche verità: «Ego sum zaia, veritas et vita» (Gv 14, 6). Il suo Vangelo non è solo l'annuncio di una buona novella, della venuta del Salvatore, della liberazionedalla schiavitù del peccato e della morte, ma anche la luce che squarcia le tenebre e dissipa l'errore, luce che illumina la mente e le fa conoscere le grandi verità su Dio, sull'uomo, sul mondo e sulla storia. Il cristianesimo rivela molti misteri del tutto inaccessibilialla ragione. Tali sono i misteri della Trinità, della Incarnazione, della grazia santificante, del Corpo mistico, della risurrezione della carne. Rivela però anche alcune importantissime verità che la ragione di per sé poteva raggiungere ma che di fatto non aveva mai raggiunto. A questo secondo gruppo di verità si dà il nome di rivelabile, mentre il primo gruppo viene detto ritrelatr) (revclatitnùfiIl secondo gruppo rappresenta il potenzialefilosoflco e rnetaflsico del cristianesimo.
2) E. HOFFMANN, Platonisnzo e filosofia cristiana, tr. it. Bologna 1960, pp. 138-139. 3) Questa distinzione tra revelatirm e rezvelabile è stata introdotta da E. Cilson, per definire l'area della filosofia cristiana, che è quella del rcvelabilc. Cf. E. CILSON, L0 spirito della filosofi}: medioevale, Brescia 1983.
Introduzione
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Il potenziale filosofico e metafisico presente nel cristianesimo, che contribuì ad arricchire ulteriormente sul piano razionale le grandi conquiste che la metafisica classica aveva già guadagnato con la "seconda navigazione”, riguarda alcune importantissime verità, esposte qui di seguito, che la filosofia greca non era neppure riuscita a sfiorare da vicino e di cui ignorava i concetti e talvolta persino i termini.
lL CONCETTO DI CREAZIONE Per i
greci
il mondo
era una
realtà divina ed eterna,
senza
origine e
fine; gli archetipi della realtà (le Idee per Platone, le forme per Aristotele, i logo! spermatikoî per gli Stoici, gli atomi per Democrito e per senza
gli Epicurei) erano essenzialmente immutabili. Così il concetto di creazione inteso come produzione totale di una cosa dal nulla restò totalmente estraneo ai greci. L'unico tipo di azione che essi riconoscevano era la trasformazione, la produzione cioè nella materia di una nuova forma mediante la eliminazione della forma precedente, oppure la emanazione, cioè la processione spontanea di nuovi esseri da un essere precedente. Persino al Demiurgo di Platone e al Logos degli Stoici non è consentito di fare di più. Ex nihilo nihil fit fu sempre il primo assioma della metafisica classica, condiviso non solo da Parmenide e da Eraclito, ma anche da
Aristotele, da Plotino e da Proclo. La creazione intesa come di produzione una cosa dal nulla assoluto e non semplicemente da un nulla relativo è un concetto squisitamente biblico e cristiano, Concetto che esalta per un verso l'assoluta trascendenza di Dio rispetto ad ogni altra realtà, e per un altro verso sottolinea la radicale dipendenza di ogni cosa da Dio. Creazione dice contingenza e precarietà rispetto alle cose, ma allo stesso tempo attesta bontà e munificenza da parte di Dio. Creazione significa che il mondo non è il prodotto di divinità maligne, incuranti della sua sorte, non è frutto del caso, non nasce e perisce ciclicamente, ma è un effetto meraviglioso della bontà di Dio. Platone e da
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IL CONCETTO DI
SPIRITO
Il termine pneuma (spirito) ricorre spesso nella filosofia greca, specialmente negli Stoici. Ma viene usato per designare, oltre che l'aria e il vento, il principio vitale, e di conseguenza anche l'anima. Ma anche di questa gli Stoici hanno una concezione pesantemente materialistica. Anche quando Platone e Aristotele, con la "seconda navigazione”, raggiungono la dimensione dell’immateriale, questa non viene definita come spirito, ma piuttosto come Nous, ossia come attività intellettiva.
Introduzione
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Per i greci «lo spirito non è adunque spirito individuale; questa lacuna è colmata dal Cristianesimo, in cui lo spirito è come presente, attuale, immediatamente esistente nel mondo, e dello spirito assoluto si ha coscienza come di un uomo immediatamente presente>>.4 L'idea che lo spirito costituisca il livello più elevato della realtà e che riguardi non soltanto un'attività ma possa anche designare individui, sostanze e persone, questa è una conquista del Cristianesimo. È nel Cristianesimo che 10 spirito diviene coscienza autotrasparente, una realtà "in sé e per (per usare il linguaggio di Hegel), libera iniziativa e assoluta libertà. E nel Cristianesimo che il mondo della "seconda navigazione” diviene il mondo dello spirito e degli spiriti. Con l'identificazionepoi di una delle Persone della Trinità con lo Spirito e facendo di lui lo Spiritus creator che comunica l'esistenza a innumerevoli esseri spirituali e materiali, nuovi grandissimi orizzonti vengono spalancati alla metafisica.
sé"_
lL
VALORE ASSOLUTO DELL'UOMO E n. CONCETTO DI PERSONA
Il cristianesimo ha il duplice merito di aver affermato il valore assoluavere introdotto il concetto di persona per designare che hanno in se stesse un valore assoluto. Nonostante il suo straordinario umanesimo la cultura pagana greco-romana non riconosceva valore assoluto all'individuo in quanto tale, ma faceva dipendere il suo Valore esclusivamente dal ceto, dal censo e dalla razza. Invece col Cristianesimo «ogni soggetto, l'uomo come uomo, ha per sé un valore infinito, è destinato a partecipare a questo spirito, il quale anzi, in quanto è Dio, deve nascere nel cuore dell'uomo, d'ogni uomo. L'uomo è destinato alla libertà; lo si riconosce qui come libero in sé>>.5 Ma anche il Concetto di persona è ufiacquîsizionedel Cristianesimo. Storicamente il vocabolo "persona" segna la linea di demarcazione tra la cultura pagana e la Cultura cristiana. La vicenda è nota: sia in greco sia in latino, fino a Tertulliano, il significato che si dava al termine persona (che è l'equivalente del greco prosapon) era quello di "maschera" oppure di ”vo1to”.6 Fino all'avvento del cristianesimo non esisteva né in greco né in latino una parola per esprimere il concetto di persona così come Yintendiamo noi oggi, perché nella cultura pagana questo concetto non c'era affatto. to dell'uomo e di tutte quelle realtà
4) G. W. F. HEGEL, op. citi, p. 92. 5) Ibidwp. 101. 6) ll grande storico Zeller osserva che «nella filosofia greca antica manca persino il termine per esprimere la personalità» (E. ZELLER, Die Philosophie dei‘ Griechcn in ihrer geschichtlichcn Entzuicklung, 7“ ed., Lipsia 1920, p. 84).
In traduzione
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«L'uomo antico scrive Mounier è assorbito dalla città e dalla famiglia sottoposto a un destino cieco, senza nome, superiore agli stessi dèi. L'istituto della schiavitù non offende gli spiriti più nobilidi quei tempi. I filosofi non prendono in considerazione se non il pensiero impersonale, il cui ordine immobile regola la natura come le idee: la comparsa del singolare è come una incrinatura nella natura e nella coscienza fwur)‘ Il Cristianesimo in mezzo a queste incertezze porta all'improvviso una nozione decisiva della persona. Non sempre si comprende oggi lo scan—
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dalo che essa costituì per il pensiero e per la sensibilitàgrecaifi Solo grazie al concetto di persona un essere dotato di dignità infinita e di un valore assoluto portato dal cristianesimo, che fa di tutti gli uomini delle immagini di Dio create direttamente da Lui, diventano illegittime, ingiuste, odiose tutte le discriminazioni basate sul sesso, sull'età, la razza, la lingua, il potere, l'avere, il culto ecc. Tutti gli uomini sono egualmente degni di stima, di rispetto, di amore, persino i propri nemici, in modo particolare i più deboli, i più poveri, i più umili e indifesi. Grazie a questo concetto rivoluzionario di persona i filosofi cristiani potranno sviluppare, al posto dell'umanesimo aristocratico e razzista dei greci, un umanesimo veramente universale. —
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IL CONCETTO DI LIBERTÀ
greci avevano indubbiamente un grande concetto della libertà politica, che però, più che come libertà individuale e personale, era intesa come libertà collettiva, libertà della e nella polis. Essi, invece, non raggiunsero mai il concetto della libertà psicologica, quella libertà che rende l'uomo sovrano di se stesso e delle proprie azioni. Questo concetI
precluso perché consideravano l'uomo incatenato da tre il Fato, la Natura e la Storia. Scrive Hegel in una irremovibili: potenze famosissima dell'Enciclopedia: delle scienze filosofiche: «Intere parti pagina del mondo, l'Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l'hanno ancora: essi sapevano per contrario, soltanto che l'uomo ‘e realmente libero merce la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.) e mercé la forza del carattere e la cultura, mercé la filosofia (lo schiavo anche come schiavo in catene è libero). Quesfidea è venuta al mondo per opera del Cristianesimo, per il quale l'individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, è destinato ad avere una relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo dimori in lui: cioè l'uomo è in sé destinato alla somma libertà».8 to era loro
7) 3)
E. MOUNIER, II personalismo, Roma
1966, pp. 14-16. G. W. F. I-IEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Bari 1951, pp. 442-443.
Introduzione
IL CONCETTO DI
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STORIA
La storia dai greci era concepita come una sequenza cronologica meccanica e fatale di eventi, non come un insieme di momenti propizi (kairoi) offerti all'uomo, dinanzi ai quali egli è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità.ll concetto cristiano della storia è diametralmente opposto al concetto greco di un movimento circolare che ritorna su se stesso dopo un determinato numero di anni (calcolati generalmente in diecimila). I Cristiani hanno un concetto lineare e ascensionale della storia, e questa nel suo svolgimento ha già segnato un momento (kairòs)
decisivo, quello dell'avvento di Cristo. «Il tempo storico ha per il cristiacarattere del tutto diverso da quello del ciclo cosmico, dato che la storia ha nella irripetibilitàdell’apparizione di Cristo, una data centrale (...). Così in epoca cristiana l'antica idea della ciclicità dell.a storia del no un
mondo si evolve in quella di una dimensione lineare (...). Con l'ammissione del tempo lineare e della sua data Centrale, sono di massima escluse dalla Coscienza Cristiana antiche concezioni, quale per esempio, quella dell'intero ritorno di tutte le cose. Uapparizione di Cristo è avvenuta una volta per tutte in modo definitivo; con ciò anche la storia nella quale egli è entrato, è un avvenimento irripetibile»? UN
NUOVO CONCETTO DI
DIO
Al concetto antropomorfìco e polìteistico del divino che prevaleva nella cultura greco-romana, il cristianesimo contrappone un concetto assolutamente nuovo in cui si intrecciano mirabilmentealcune prerogative che esprimono la sua distanza infinita dall'uomo e dal mondo (come l'unicità e l'infinita) e altre che sottolineano la sua vicinanza e intimità con l'uomo e con il mondo (come la paternità, la bontà, la mise ricordia ecc.). Al concetto di un Dio anonimo e assolutamente ineffabile della metafisica greca, un Dio nascosto che non entra in comunicazione con gli uomini, un Dio che si trova oltre i confini dell'essere e del conoscere, il cristianesimo contrappone il concetto di un Dio che parla, che crea, che rivela se stesso, un Dio che manifesta il suo triplice volto. Le conseguenze che questo nuovo concetto di Dio avrà per la metafisica cristiana saranno importantissime e decisive.
9)
E. HOFFMANN, 0p. cit, p. 158.
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Introduzione
lL CONCETTO DI CARITÀ (CARITAS, AGAPE) I greci avevano indubbiamente un vivissimo concetto dell'amore. L'amore era per essi una delle due forze primarie (l'altra era l'odio o l'inimicizia) che alimentavano la vita dell'universo. L'amore era però inteso come desiderio, come eros, come brama di raggiungere la piena realizzazione di se stessi (con la generazione fisica, l'arte oppure la filosofia). 1 greci ignoravano l'amore come donazione di se stessi, l'amore come carità o agape, l'amore altruistico, gratuito, disinteressato, universale, qual è l'amore di Dio per gli uomini. Questo è il nuovo genere d'amore rivelato da Gesù Cristo. Ueros è essenzialmente un amore antropocentrico: l'uomo ne è la sorgente e anche il traguardo finale; lfixgape è eminentemente teocentrico: Dio è il suo punto di partenza e anche il suo punto d'arrivo; è un amore che procede da Dio, è un dono di Dio con cui l'uomo ama il prossimo e Dio stesso. Uagape è la caritas di cui parlano S. Paolo e S. Giovanni mentre l'eros è l'amore di cui parlano Platone e Plotino. «Uagape è il punto centrale del cristianesimo, è il motivo cristiano fondamentale prima di ogni altro, è la risposta sia alla questione etica che a quella religiosa. Uagape si presenta a noi come una creazione completamente nuova del cristianesimo. È il motivo che impronta di sé tutto il cristianesimo, il quale senza di esso perderebbe il suo carattere peculiare. Ijagape è la concezione fondamentale originaria del cristianesimmflo Grazie aIVagape «il cristianesimo ha operato una trasformazione totale per quanto riguarda il problema etico e il problema religioso (...) il cristianesimo ha prodotto un mutamento tale nel modo di porre sia il problema etico sia quello religioso, che essi non hanno più il medesimo significato di prima; più ancora, ha dato loro una risposta nuova. Questo mutamento ha la sua radice nel concetto di agapemîî Ma oltre che sul problema etico e religioso il concetto di agape ha una vasta risonanza anche sul problema metafisico. Mentre il massimo Concetto di Dio cui era giunta la metafisica ellenica era quello di Bene, che però era più oggetto dell'eros che sorgente d'amore; nella nuova metafisica cristiana l'amore si identifica con la natura stessa di Dio: "Deus caritas est" sarà la nuova definizione di Dio. Attingendo al preziosissimo capitale filosoficoe metafisico che la rivelazione cristiana aveva elargito all'umanità, i filosofi cristiani faranno fare alla "seconda navigazione" enormi progressi. Con un lavoro assiduo e costante che si protrarrà per oltre un millennio quel maestoso edificio metafisico che Platone, Aristotele, Plotino e Proclo avevano già innalzato, Verrà ulteriormente consolidato e Completato in tutte le sue parti.
l“) A. NYGREN, Eros e Agape, Bologna 1971, p. 29. n) Îbid, pp. 24-25.
In traduzione
13
Le caratteristiche della metafisica cristiana
Dopo l'infuocato dibattito degli Anni Trenta intorno alla filosofia criqualcuno si domanderà se si possa parlare propriamente e legittimamente di metafisica cristiana, 0 se non valgano anche per questa espressione le obiezioni sollevate da Brunschvicg e da Heidegger contro
stiana
la filosofia cristiana.
L. Brunschvicg sosteneva che l'espressione "filosofia cristiana" è una contradictin in terminis. Infatti, «o il battesimo somministrato da S. Tommaso alla dottrina aristotelica ne conserva l'essenza Oppure la trasforma sostanzialmente: nel primo caso, la filosofia tomista essendo nella sua intima natura aristotelica o pagana non è di tipo cristiano; nel secondo è una fede e non una filosofia (...). Ciò ci induce a concludere: l'autore di un sistema di filosofia può essere cristiano, ma questo fatto è ufiaccidentalità senza rapporto con la filosofia, come nel caso di un trattato di matematica o di medicina; oppure se il suo cristianesimo ha preso possesso dell'uomo tutt'inter0, il suo modo di fare filosofico non è più quello dei ÎÌIOSOÎÈL” L'argomento di Heidegger è ancora più radicale. A suo parere al cristiano manca addirittura la disposizione psicologica per operare seriamente da filosofo, e segnatamente da metafisico, in quanto il filosofo, e soprattutto il metafisico, sollevano questioni ultime che il cristiano a motivo della sua fede non può esprimere seriamente. Secondo Heidegger la fede esclude la filosofia (la metafisica) nel suo oggetto stesso, poiché questo consiste nell'interrogativo sul fondamento dell'esistente: «Perché vi è, in generale, Yessente e non il nulla?». E poiché nella fede il credente confessa che l'ente è creato da Dio, egli nega, con la sua stessa confessione, ogni ulteriore diritto alla domanda metafisica. «Colui che rimane sul terreno della fede può senza dubbio in qualche modo riproporre la domanda, può parteciparvi, ma non può veramente interrogarsi Con serietà senza tradire la propria fede (...). Egli non può comportarsi che "come se" ; egli non può formulare realmente la domanda nella pienezza della sua capacità interrogativa né partecipare all'angoscia che le è inseparabile; la sua fede nel Creatore lo sottrae alla vertigine dellînquietudine metafisica. In conclusione, l'idea di una filosofia cristiana non può essere che un equivoco>>fl3 Altrove, per mostrare l'insensatezza dell'espressione "filosofia cristiana", Heidegger la paragona all'espressione "ferro legnoso", una espressione ovviamente non sensata, perché ciò che è ferro non è legno e ciò che è legno non è ferro.
12) In "Bulletin de la Société Francaise de Philosophje”,pp. 75-76, 1931. 13) M. HEIDEGGER, Einfiirung in dcr Metaphysik, Tùbingen 1953, p. 6.
Introduzione
14
Brunschvicg e per Heidegger l'espressione ”filosofia cristiana”, e analogamente l'espressione "metafisica cristiana”, possono avere soltanto un significato storico e culturale (in quanto si riferiscono a una filosoPer
e da autori cristiani), ma non possono sostanziale. teoretico e avere un significato Contro Brunschvicg, Heidegger e molti altri storici laici negatori della filosofia cristiana, Maritain, Gilson, Blondel, Marcel, GarrigouLagrange, Masnovo ecc.” hanno mostrato che di filosofia cristiana (e implicitamente di metafisica cristiana) si può parlare correttamente non soltanto in senso storico e culturale, ma anche in senso teoretico e sostanziale, senza cadere in nessun ”equivoco” e senza incorrere in alcuna contraddizione. Del resto basta il minimo di obiettività da parte dello studioso della filosofia medioevale per riconoscere che in autori come
fia fatta in
una
cultura Cristiana
Agostino, Boezio, Anselmo, Tommaso, Scoto non ci troviamo di fronte a sistemi filosofici che meritano l'appellativo di “cristiano" soltanto per ragioni storiche e culturali, ma anche per ragioni intrinseche, teoretiche, sostanziali. In effetti si tratta di sistemi in cui gli autori cristiani non si sono accontentati semplicemente di ripetere le dottrine dei grandi filosofi greci ma hanno elaborato sistemi nuovi nei quali la forma rimane quella specifica della filosofia, mentre alcuni contenuti sono derivati
direttamente dal Cristianesimo, per es. i concetti di creazione, di persona, di spirito, di libertà, di storia, di agape, dell’unicità di Dio, della bontà della materia ecc. Prendendo una per una queste verità anche gli storici di fede laica riconoscono che esse debbono la loro origine al cristianesimo, ma non vogliono ammettere che sono stati i pensatori del medioevo a conferire loro uno statuto filosofico e un'espressione razionale. Questo sarebbe un merito della filosofia moderna. Ma qui ci troviamo di fronte a una patente falsificazione della storia, come ha mostrato in modo inconfutabileE. Gilson nella sua opera magistrale L0 spirito della filosofia medioevale“ e nelle sue eccellenti monografie sul pensiero filosofico di S. Agostino, S. Bonaventura, S. Tommaso e Duns Scoto. Il merito di aver costruito con verità accessibilidi per sé alla ragione umana, ma che di fatto a questa vennero rese note per la prima Volta dalla divina rivelazione, un patrimonio filosofico ricchissimo, spetta ai Padri e agli Scolastici, a quei valenti pensatori cristiani che portano il
di Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio Nisseno, Basilio, Pseudo Dionigi, Agostino, Boezio, Anselmo, Alberto Magno, Bonaven— tura, Tommaso, Scoto.
nome
14)
Sul dibattito intorno alla filosofia cristiana si veda L. BOGLIOLO, Il problema della
filosofia cristiana, 3 ed., Roma 1995. 15) E. GILSON, L0 spirito della filosofia", cit.
Introduzione
La sintesi tra ro
15
pensiero ellenico e verità cristiane non è affatto un "fer-
legnoso” come affermava Heidegger, ma una costruzione armoniosa,
frutto di un'operazione intelligente che, da una parte, ha consentito al Cristianesimo stesso di assumere un'espressione razionale che prima non aveva e, dall'altra, ha permesso alla filosofia, specialmente alla metafisica, di guadagnare nuovi contenuti preziosi che i filosofi greci non avevano saputo darle. Abbiamovisto di quale straordinario potenziale filosofico ‘e stato portatore il cristianesimo. Si tratta di un potenziale che viene ad arricchire, anzitutto e soprattutto, la metafisica. Esso infatti non riguarda la logica, la gnoseologia, l'antropologia, la morale, l'estetica o la politica. In tutti questi campi moltissimo era già stato detto e non di rado in modo conclusivo dalla filosofia ellenica. Le verità più difficili da scoprire erano quelle che la metafisica greca aveva cercato di raggiungere con la ”seconda navigazione”, ma il più delle volte senza riuscirci. Ora, è proprio su queste supreme verità: la Causa ultima, la sua natura, le sue proprietà, le sue operazioni, l'origine prima delle cose, che il cristianesimo irradia la sua fulgida luce. È dalle nuove verità contenute nel grande potenziale filosofico del cristianesimo che la metafisica cristiana deriva le sue principali caratteristiche. Essa sarà sempre una metafisica creazionistica, personalistica, spiritualistica ed agapica. Infatti le dottrine che fanno da sostegno al nuovo edificio metafisico cristiano sono: 1) il "teorema della creazione", l'assetto cioè che gli enti traggono origine dal nulla per libera decisione di Dio; 2) il mondo trascendente è il mondo dello Spirito, non delle Idee o delle Forme; 3) e un mondo abitato da esseri intelligenti e liberi,ossia da persone; 4) è un mondo in cui regna sovrano l'amore (agapc) e in cui anche l'essere, la verità, la potenza, il bene sono espressioni dell'amore, un amore ovviamente personale e spirituale. H. Heimsoeth ha colto molto bene le peculiarità della metafisica cristiana nel suo importante saggio l grandi tenzi della metafisica occidentaleflv Anche a suo parere i tratti salienti della metafisica cristiana sono il creazionismo, il personalismo, lo spiritualismo e l'amore. Ecco quanto egli scrive nel capitolo dedicato all'anima:
«(Nella visione cristiana) ciò ed essenze, corpi o idee,
posto l'accento non sono più solo anime individuali, persone con conflitti e destini interiori. Alla loro più pura interiorità è proposto il più immane dei compiti: non è questione di come esse sussistano in un tutto visibileo invisibilee ad esso abbiano parte, ma di come esse cose
16) Mursia, Milano 1973.
su
ma
cui è
16
Introduzione
ogni rapportino interiormente a uno Spirito sottratto ad Dio volta è che a sua o perSpirito persona, superiore. oggettività sonale, che è conoscenza di ciò che accade all'uomo. Già di per sé la dottrina della creazione comporta l'assoluto prevalere di ciò che e spiri— si situino, si
terrena
questo nuovo senso soggettivo-personale: intelletto e volontà pensati come funzioni superiori di un essere naturale che si eleva dalla materia all'attività vitale e ancora aIYagire razionale, ma l'intera natura, il cosmo stesso è visto come prodotto di un atto personale che si compie mediante pensiero e volontà. Mentre Pantichità
tuale in
non sono
pensato fino al suo tramonto secondo concetti naturali e catedell'essere (il mondo come processo ascendente di vita obiettive gorie o irradiarsi di luce), qui tutto segue dal concetto centrale di Persona e dalle ‘categorie dellinteriorità” (il mondo come creazione, e ciò in piena opposizione a Platone, eliminando ogni essere ideale 0 materiale che preceda l'atto spirituale o ne sia il presupposto). Il principio èoriginario, l'unico bene, non è l'essere nel senso di Parmenide, non ”idea” del bene, né nous come forma perfetta e fine motore-immobile, ma persona divina, che sa e vuole, ama e dona. La soggettività del Dio personale non viene "mescolata" con ciò che è materiale e singolo quando essa lo pensa, entra intima relazione con esso, come invece si mescolano con la materia la forma e l'idea quando le si riferiscono nel loro operare: conseguentemente questo Dio non deve distogliersi dal mondo e rivolgersi in se stesso per conservare la sua altezza e la sua purezza (m). Ora il vero essere non è più un sistema di strutture intelastri ligibili,non è più forma sostanziale e neppure il cosmo degli di di orbitanti o degli atomi sferici, ma un regno persone spirituali, soggetti che vogliono e sentono, che stanno tra di loro e con la persona divina in relazioni affettive, di amore e dedizione, di accostamento o allontanamento da essi stessi operato>>J7
aveva
Divisione della storia della metafisica cristiana La metafisica cristiana ha una storia millenaria, che sostanzialmente coincide col Medioevo. Ma se si fa partire il Medioevo dalla caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d. C.), allora l'arco della storia della metafisica cristiana supera i confini medievali, perché i suoi inizi risalgono al II secolo dell'era cristiana. Due sono le grandi epoche in cui si può facilmentedividere la metafisica cristiana: l'epoca dei Padri che va fino al VII secolo, e l'epoca degli Scolastici che giunge fino al XV secolo. Ciò che caratterizza le due epoche è il diverso rapporto che esse hanno coni due padri della metafisica classica, Platone e Aristotele.
17)
H. HEIMSOETH, l grandi temi della pp. 110-111. I corsivi sono miei.
metafisica occidentale, Mursia,
Milano 1973,
Introduzione
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La Patristica, praticamente, ignora Aristotele e assume come unico interlocutore Platone; elabora una metafisica in cui si fa largo uso del metodo, delle categorie e delle dottrine platoniche. Così la metafisica dei Padri può essere definita una metafisica cristiano-platonica: è cristiana nella sostanza e platonica nella forma. La Scolastica non ignora Platone anzi, nell'epoca della Scolastica esiste sempre una forte Corrente platonica, che difende energicamente la causa della metafisica cristiano-platonica e la arricchisce ulteriormente. Ma con la scoperta cli Aristotele, nel secolo XII, l'interlocutore privilegiato dei filosofi e dei teologi cristiani non ‘e più Platone bensì Aristotele. Così la Grande Scolastica elabora una metafisica che è cristiana nella sostanza e aristotelica nella forma. È una Inetafisica cristiano-aristotelica. Entrambe le epoche hanno scritto pagine indelebili non solo per quanto attiene la storia della Chiesa e del Cristianesimo, ma anche la storia del pensiero cristiano, dei dogmi, della teologia, della filosofia, della morale e della metafisica. Entrambe hanno avuto un inizio, uno sviluppo e un tramonto. In entrambe ci sono state figure maggiori e figure minori. La nostra attenzione in questa storia della metafisica cristiana si fermerà soprattutto sulle figure principali ma senza trascurare
quelle minori.
CLEMENTE E ORIGENE: I CREATORI DELLA METAFISICA CRISTIANA
La scuola di Alessandria La culla della metafisica cristiana fu Alessandria
d'Egitto. Quando
nacque il cristianesimo questa città era il centro culturale più importante dell'impero romano, avendo preso il posto che precedentemente era stato di Atene. L'epoca ellenistica della cultura greco-romana ebbe come centro Alessandria, dove si Coltivava la matematica, la geometria, l'astronomia, la musica, la storia, la letteratura, l'arte e la filosofia. Ad Alessandria fioriva anche la più numerosa comunità ebraica della diaspora, una comunità colta che aveva provveduto alla traduzione in greco della Bibbia, la famosa traduzione dei LXX. l dottori ebrei cercarono anche un terreno d'intesa tra le dottrine religiose rivelate e la filosofia pagana, rimuovendo le divergenze più gravi con l'interpretazione allegorica delle Scritture Sacre. Ad Alessandria, a cavallo tra il I sec. a. C. e il I sec. d. C. visse, insegnò e compose le sue numerose opere il giudeo Filone. Questi, rinnovando i quadri della metafisica platonica, creò un nuovo genere di filosofia, quella che G. Reale chiama ”filosofia mosaica". In effetti Filone diede vita a una nuova forma di platonismo, riformato in alcuni punti essenziali, «Filone riguadagna in pieno il concetto dell'incorporeo e così si riaggancia all’autentico spirito del platonismo al di là dei fraintendimenti dell'Accademia eclettica, ma riforma il concetto di Dio ponendolo al di sopra delle Idee, riforma la concezione delle Idee facendoneproduzioni e pensieri di Dio, trasforma in senso creazionistico l'attività demiurgica della divinità, riforma il concetto di legge morale facendone un ”comandamento" di Dio, trasforma l'antropologia introducendo alcune novità rivoluzionarienella concezione dell'anima, che frantumano non solo gli schemi della psicologia platonica, ma anche quelli di tutta la grecitàw
1)
G. REALE, Storia della filosofia antica, IV, Milano 1996, p. 253.
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Parte prima
Nella sua filosofia e nella sua metafisica Filone cerca di armonizzare la fede con la ragione e la rivelazione biblica con la filosofia ellenica. Dal loro connubio le acquisizioni della metafisica platonica uscivano consolidate e ampliate. L'uso del metodo allegorico nell'interpretazione dei testi sacri gli forniva uno strumento prezioso per ricavare da essi Verità metafisiche e morali che la sola interpretazione letterale non sembrava accreditare. Con la costruzione della sua metafisica mosaico-platonica Filone aveVa indirizzato Con decisione il pensiero occidentale Verso la metafisica religiosa, che in Filone diviene appunto la metafisica mosaica, mentre nei cristiani diverrà la metafisica cristiana e nei musulmani la metafisica islamica. Alla scuola di Filone i dottori cristiani di Alessandria impararono a fare filosofia, e a elaborare una metafisica cristiana, creando una sintesi tra filosofia greca e il potenziale filosofico del cristianesimo. Ad Alessandria il cristianesimo era giunto già alla fine del primo secolo e vi aveva impiantato una fiorente comunità. La tradizione attribuisce a S. Marco l'evangelizzazionedi Alessandria. Girolamo dice che da allora «sempre ci furono ad Alessandria dottori della Chiesa»? Anche Eusebio attesta che era «antico uso che vi fosse ad Alessandria una scuola di sacre lettere»! Come ci informa Clemente Alessandrino, verso la fine del Il sec., Panteno, un cristiano di origine sicula, Vi aveva fondato una scuola privata. Notizie più ampie su Panteno ci ha lasciato Eusebio nella sua Storia ecclesiastica, dove si può leggere tra l'altro quanto segue: «Ad Alessandria dirigeva allora la scuola un uomo celeberrimo e di grande cultura, Panteno. Egli proveniva dagli stoici, tra i quali primeggiava. Si narra che egli mostrò un ardore vivissimo e un cuore pieno di coraggio verso la Parola di Dio, e che si fece araldo del Vangelo di Cristo tra le nazioni d'Oriente, ove si spinse sino all'India (...). Dopo numerosi successi, da ultimo Panteno passò a dirigere la scuola alessandrina, dove a voce e con gli scritti commento i tesori dei dogmi divini».4 Dopo la morte di Panteno la direzione della scuola di catechesi fu assunta da Clemente che procuro di conservarla e di accrescerla. Il cambiamento della scuola da opera privata in istituzione pubblica avvenne quando il vescovo di Alessandria, Demetrio, ne affidò la direzione a Origene, con l'incarico di trasformarla da semplice scuola catechetica in
2) GIROLAMO, Vir. i'll. 36, 1. 3) EUsEBio, Hist. eccl. V, 10, 1. 4) llîid, V, 10, 1-4.
Clemente e
Origene
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teologia scientifica. Sorse così il Didaskalcion, «la prima università teologica dell'antichità cristiana»: in essa gli studi biblici erano con» dotti con notevole rigore scientifico e l'approfondimento dei misteri della fede era compiuto ricorrendo ai procedimenti e ai concetti della filosofia, di quella platonica in modo particolare. Come centro di studi accademici la scuola di Alessandria seguì le sorti del suo fondatore, Origene. E così, dopo la sua partenza da Alessandria il Didaskaleion decadrà nuovamente al livello di scuola catechetica. Ma come indirizzodi pensiero la scuola di Alessandria non cessò di esistere neppure con la scomparsa di Origene. Anzi, da questo punto di vista, questa scuola resterà viva per molti secoli ed eserciterà un influsso costante e profondo su tutta la teologia orientale, conferendole le seguenti caratteristiche: «l'utilizzazionedella filosofia, la predilezione per il metodo allegorico nella esegesi scritturistica e la scuola di
forte tendenza, sostenuta da un tratto fondamentale idealistico, all'indagine speculativa del contenuto soprannaturale delle Verità rivelatemî Il merito principale della scuola di Alessandria è di avere creato la scienza teologica, concedendo la cittadinanza cristiana alla filosofia e costruendo una solida metafisica cristiana.
Clemente Alessandrino VITA E OPERE
Clemente nacque verso il 150 d. C. probabilmente ad Atene. Si converte al cristianesimo durante l'adolescenza. Avido di cultura e di verità viaggia moltissimo, fino a quando si stabilisce ad Alessandria, dove viene creato ”presbitero” e gli viene affidata la direzione del Didaskaleion, che, come sappiamo, era la più importante scuola di catechesi dell'epoca. Costretto a lasciare la scuola durante la persecuzione di Marco Aurelio, si rifugia in Cappadocia presso il discepolo S. Alessandro che era diventato vescovo in quella regione. Successivamente svolge la sua attività religiosa anche ad Antiochia, meritandosi gli elogi dello stesso Alessandro. La fine della sua vita è fissata tra il 212 e il 216. Della vasta e feconda attività letteraria di Clemente sono giunte a noi quattro opere: il Protrettico (una durissima critica delle religioni pagane); il Pedagogo (un trattato sulla formazione del cristiano perfetto, che assume come maestro Gesù Cristo); il Quis dives salvetur (unbrazione sul giusto e buon uso delle ricchezze); e gli stremati Note di vera filosofia, la prima e fondamentale esposizione della filosofia cristiana. -
5)
H. IEDIN
(ed.), Storia della Chiesa, I, Milano 1976, p. 299.
24
Parte prima
GLI OBIETTIVI APOLOGETICI E
SPECULATIVI DEGLI STROMATI
Clemente può essere definito il Filone cristiano; egli cerca di fare per il cristianesimo ciò che Filone aveva già fatto per il giudaismo: difenderlo dalle ingiustificate accuse dei pagani e dei giudei, trasformare i dogmi della fede cristiana in verità di ragione, dando loro un solido statuto logico e dottrinale. Questa duplice finalità, apologetica e speculativa, è apertamente ed esplicitamente espressa negli stremati. A proposito della finalità apologetica Clemente scrive: «E tempo di mostrare ai greci che solo lo gnostico (il filosofo cristiano) è veramente pio, per cui quando i filosofi avranno imparato qual è il vero cristiano, condanneranno la loro ignoranza. Essi perseguitano alla cieca, a caso, il nome, e senza criterio chiamano atei coloro che conoscono il vero Dio. E con i filosofi conviene forse ricorrere agli argomenti razionali più convincenti, sì che essi già esercitati sulla base della loro cultura possano intendere, anche se non si sono ancora mostrati degni di partecipare alla potenza della fede» (VII, 1, 1). Il fronte apologetico non include soltanto i pagani e i giudei ma si estende anche agli eretici, in particolare agli gnostici e ai fideisti, che osteggiavano la filosofia considerandola un gravissimo pericolo per la fede. Contro tutti costoro Clemente combatte con particolare acrimonia; si può dire che la polemica percorre tutta l'opera. Ma l'obiettivo più importante degli Stromati è quello speculativo. E quanto dichiara lo stesso Clemente all'inizio dell'opera: «Questi Stromati racchiuderanno pertanto la verità mescolata alle teorie dei filosofi, o meglio inviluppata e nascosta in esse, come nel guscio la parte commestibile della noce: ‘e conveniente infatti che i semi della verità siano lasciati in custodia ai soli coltivatori della fede. Non mi sfugge poi quello che è sempre ripetuto da certi pavidi ignoranti: sostengono l'opportunità di occuparsi delle cose più essenziali, cioè di quelle che contengono la fede, e di trascurare quanto è estraneo e superfluo come travaglio per noi inutile, che ci impegna in attività che non servono al nostro scopo. Alcuni anzi sono d’avviso che la filosofia è penetrata nella nostra vita provenendo dal maligno, escogitata da un malvagio inventore a rovina del genere umano. lo mostrerò al contrario lungo tutti questi Stromzzti che il vizio, sì, ha una natura malvagia e non potrà mai adattarsi a coltivare un bene qualsiasi, e lascerò Capire in certo modo che fra le opere della divina provvidenza ‘e anche la filosofia» (I, 1, 18). Ciò che intende fare Clemente per il cristianesimo è esattamente quello che Filone aveva già fatto per il giudaismo. Filone aveva creato una ”Filosofia mosaica”; Clemente vuole creare una "filosofia cristiana”. Quella che Clemente chiama ”gnosi” o ”vera filosofia" è una sintesi tra cultura greca e cristianesimo, e la sua metafisica è essenzialmente una sintesi tra la metafisica platonica e le verità fondamentali del cristianesimo. x
Clemente e Origene
LA
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LECITTIMAZIONE DELLA FILOSOFIA
Uno degli obiettivi principali che Clemente si proponeva con i suoi Strorrzati era perciò quello di provare che la filosofia non era un'invenzione del maligno bensì un’opera della divina provvidenza e che dal suo buon uso il cristianesimo avrebbe tratto grandissimo vantaggio. La legittimazione della filosofia viene compiuta da Clemente con tre tipi di considerazioni. Anzitutto, in sede storica, egli fa vedere che la filosofia fa parte di quel piano salvifico disegnato da Dio per preparare tutti gli uomini e non solo i giudei all'avvento di Cristo: «Ciò che la Legge è stata per i giudei, la filosofia lo è stata a sua volta per i gentili fino allavenuta di Cristo»
(VI, 17, 159). Infatti «quei giudei che hanno creduto nella venuta di Cristo e nell'insegnamento delle Scritture pervengono alla conoscenza della legge; coloro invece che si dedicano alla filosofia, mediante l'insegnamento del Signore sono introdotti alla conoscenza della vera filosofia» (VI, 7, 59). La verità è una sola ed essa si identifica sostanzialmente col Logos, però dentro il vastissimo orizzonte di verità del Logos c'è posto anche per la filosofia e a questa Clemente riconosce la capacità di cogliere frammenti di verità: «sia la filosofia barbara (dei cristiani) che quella greca si sono procurate brandelli dell’Eterna Verità» (I, 13). Nell’itinerario che l'uomo deve percorrere per raggiungere la pienezza della Verità ci sono varie tappe: la tappa iniziale è quella della filosofia, la tappa finale quella della gnosi, la quale però richiede sempre la fede: solo chi si lascia ammaestrare dalla fede, «possiede la carità e, proteso verso la gnosi, marcia velocemente verso la salvezza» (VI, 17, 154). Un secondo gruppo di considerazioni riguardano l'utilità della filosofia. Non solo essa non è dannosa per la fede, ma può diventare una sua importante ancella che l'aiuta a difendersi dagli attacchi dei nemici, a combattere le eresie, a migliorare l'espressione dei misteri cristiani e ad agevolarne l'accettazione da parte dei greci. «Quando ti sarai fortificato con la cinta della filosofia, renderai la fede inaccessibilealla sofistica» (I, 5, 28). La filosofia «aiuta a distinguere le eresie dalla verità» (I, 9, 43). «Lo gnostico si serve dei rami del sapere come tecniche sussidiarie per comunicare fedelmente la verità, nei limiti del possibile ed evitando oggi distrazione, e per difenderla dagli argomenti che hanno per obiettivo la distruzione della verità. Perciò lo gnostico non sarà rnanchevole di quanto nel curricolo scolastico e nella filosofia greca può contribuire al progresso della sua educazione; ma non vi si dedicherà in maniera principale ed esclusiva, bensì solo in certe circostanze e in modo subordinato. Così egli sarà in grado di adoperare rettamente ciò di cui gli eretici fanno cattivo uso» (VI, 10, 83). In un celebre passo del Primo libro degli
26
Parte prinza
Stromati Clemente definisce il ruolo ancillare della filosofia. Leggiamolo insieme: «Come gli studi ciclici sono utili per l'acquisto della filosofia, che è la loro padrona; similmente la filosofia giova all'acquisto della salvezza (sophias). La filosofia è una via della saggezza, la quale è la scienza delle cose umane e divine e delle loro cause. Essa è pertanto signora (kyria) della filosofia, come questa lo è rispetto agli studi preliminari. Infatti la filosofia effettua il controllo della lingua, dello stomaco e del basso ventre; ma se viene praticata per la gloria di Dio e per la gnosi, essa diviene più angusta e più nobile» (I, 5, 30). Il terzo gruppo di considerazioni riguardano le qualifiche e le virtù del ”filosofo cristiano”, lo ”gnostico”. Lunghe pagine nell'ultima parte degli Stromati sono dedicate a delineare nel modo più completo possibile le caratteristiche e le prerogative del cristiano "gnostico”, vale a dire del filosofo cristiano. Clemente in questo modo vuole sfatare tutti i pregiudizi che circolavano nella comunità cristiana nei confronti di quella intellighentsia cristiana che nella esposizione dei dogmi faceva ricorso alla filosofia. Egli lanciava così la sua sfida ai nemici interni del cristianesimo. Le correnti gnostiche, che pullulavano e sfiaccavallavano in tutto il mondo greco-orientale, avevano intaccato la genuina sostanza del cristianesimo e questo giustificava l'allarme e le denunce di Ireneo e Tertulliano. Confusi intrecci fra teosofie orientali, filosofia greca e religione cristiana, avevano dato vita a una serie di concezioni ibride nelle quali poteva trovare posto qualsiasi tipo di pratica condotta umana e che giustificavano anche posizioni opposte a quelle cristiane. Clemente contrappone a questo insidioso e inquietante prodotto dell’eresìa un suo tipo di "gnostico", che congiunge alla più perfetta aderenza al messaggio evangelico una profonda conoscenza filosofica. Servendosi della filosofia egli non solo vive ma riconosce nella loro identità le verità di fede; coglie sotto la lettera delle parole del Signore lo spirito che vi traluce e che il semplice fedele non vede; scopre per divina illuminazionela progressiva vicenda della manifestazione del Logos nella storia; e al Logos riconduce ogni attività e l'essenza stessa della ragione umana. Fede e ricerca, religione e ragione, cultura biblica e cultura classica operano una sintesi esaustiva nell'anima dello ”gnostico". Clemente insiste a proclamarsi banditore e cultore della ”vera filosofia”, la quale in ultima analisi è quel Cristianesimo a cui tutta la filosofia greca ha portato il proprio contributo e la ricchezza del suo pensiero. In fondo, la sua vita e la sua opera sono un’ardita risposta alla tesi del filosofo pagano Celso per la quale fra cristianesimo e grecità non ci poteva essere conciliazione.Con la legittimazione della filosofia Clemente operò una svolta decisiva sia per il cristianesimo sia per la filosofia, e da quella svolta traevano vantaggio sia il cristianesimo sia la cultura classica.
Clemente e
Origene
27
Il cristianesimo ne usciva più maturo e più credibile, acquistava un'espressione culturale più avanzata e più raffinata, penetrava anche negli strati più colti della società, diventava cultura e fermento di una nuova cultura e si creava una propria arte, una propria filosofia e una propria teologia. Ma anche la cultura classica ne traeva grandissimi benefici. I suoi tesori non sarebbero andati dispersi o distrutti, ma sarebbero stati custoditi, preservati e accrcsciuti. Il caso più palese e più importante è quello della metafisica: il cammino iniziato da Platone e da Aristotele con la ”scconda navigazione” Viene ripreso già dallo stesso Clemente e condotto verso traguardi fino ad allora imprevisti e insperati.
IL PLATONISMO DI CLEMENTE Ai tempi di Clemente lo scenario filosofico era dominato da quattro scuole: stoica, epicurea, scettica e medioplatonica. Volendo creare una filosofia cristiana l'autore degli Stromati segue l'esempio di Filone, il quale, come sappiamo, nella elaborazione della sua filosofia mosaica aveva optato per Platone, a motivo della considerevole affinità che presentano la sua antropologia, la sua metafisica e la sua morale con gli insegnamenti della Sacra Scrittura. Clemente è un appassionato ammiratore di Platone, al quale elargisce ogni sorta di elogi. Lo chiama «Yamico della verità, quasi ispirato da Dio» (1, 8, 42). Citando Numenio scrive: «Chi è Platone se non Mosè che parla greco?» (I, 22, 150). Infatti il fondatore dell'Accademia, meglio di qualsiasi altro filosofo greco, ha riconosciuto la vera natura di Dio, del mondo, dell'uomo, e ha compreso che il destino dell'uomo consiste nel distaccarsi dal mondo e dal proprio corpo e nel diventare simile a Dio. Per questo in teologia (= metafisica), antropologia ed etica i riferimenti espliciti o impliciti di Clemente a Platone sono continuifi Clemente è platonico nel modo di definire la filosofia, nonché nella scelta del metodo, delle tematiche e dei principi. Platonico è anche il concetto che Clemente ha della filosofia. Platoniche sono le seguenti definizioni: «La filosofia è la scienza del bene e della verità in se stessa» (I, 19, 93); «la filosofia è il desiderio del vero essere (tou ontcîs nntos) e delle conoscenze che ad esso conducono» (II, 9, 45).
b)
Cf. E.
DE
FAYE, Clément dfllcxandric. E tude sur Ies rappurts du christianismc et de la
plzilosophiegrecqzie au Ile siede, Paris 1906, pp. 219ss.
Parte prima
28
Il metodo che Clemente raccomanda è Ecco un bel testo a questo proposito:
quello della dialettica platonica.
una scienza atta a scodialettica esamina la realtà La prire la rivelazione dell'essere (...) vera via via trascende le le Dominazioni Potestà; poi e e sa distinguere all’Essenza sovrana e osa spingersi oltre, verso l’Iddio dell'universo. Né promette esperienze profane, ma scienza di realtà divine e celesti, cui tiene dietro unînadeguata pratica delle cose umane, nelle parole e nelle azioni. A buon diritto dunque anche la Scrittura desidera che noi diventiamo dialettici siffatti e così esorta: "Fatevi banchieri di buona riputazione”; "certe cose ripudiatele, ma il bene conservatelo" (1 Ts 5, 21). Infatti questa autentica prudenza dialettica è una capacità di discernimento nel mondo dell'intelligibilee atta a rilevare la sostanza fondamentale di ogni ente, senza contaminazione e nella sua limpida purità. Essa è, in altri termini, una facoltà versata nella distinzione dei vari generi di cose, che discende fino alle più particolari e fa apparire ogni essere nella sua reale purità. Per questo essa sola conduce alla vera sapienza, la quale è una facoltà divina, capace di conoscere l'essere come è e che possiede in sé la perfezione, libera da qualsiasi affezione» (I, 28 177-178).
«La
dialettica, secondo Platone nel Politico, è
dalla consapevolezza che questo mondo non è "seconda la navigazione” e «osa spingersi oltre, verso intraprende l’Iddio dell'universo». Anche precisando l'ambito della ricerca filosofica Clemente dichiara di volere seguire Platone; il suo ambito è quello "teol0gico”(o metafisico): è 10 studio dei «misteri veramente augusti» (I, 28, 176). Esso coincide con l'ambito della “gnosi", la quale «è la comprensione sicura degli intelligibili e può a buon diritto dirsi scienza. Di questa la parte che riguarda il mondo divino ha per compito di indagare che cos'è la causa prinza e che cosa ciò ”per cui tutto fu fatto e senza il quale niente fu fatto” (Gv 1, 3); e anche che cos'è che in parte esiste come permeante il mondo e in parte come contenente; e ciò che è ”congiunto" e ciò che è “disgiunto", e qual è il posto che ciascuna di queste cose occupa e quale attività e funzione esplica. Per quanto poi riguarda il mondo umano la gnosi indaga che cos'è l'uomo in sé, che cosa è secondo e che cosa contro la sua natura, e come gli si conviene essere agente e paziente; indi quali sono le sue specifiche virtù e vizi, e il bene e il male e ciò che è intermedio; e tutto ciò che concerne fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, la più perfetta di tutte le virtù» (VII, 3, 17). La dialettica,
tutto
mossa
Clemente e
(Jrigene
29
ÎJESEGESI ALLEGORICA E UINFLUSSO DI FILONE Tra i maestri di Clemente non c'è però solo Platone. Un altro maestro importante è Filone. Questi fu per Clemente una. fonte non meno influente di Platone. Egli infatti persegue gli stessi obiettivi e si avvale degli stessi metodi del grande giudeo di Alessandria. Il suo obiettivo è quello di elaborare una filosofia religiosa, una ”gnosi", che abbraccia anche gli insegnamenti della Scrittura oltre quelli della filosofia; e perse-
gue questo obiettivo avvalendosi, come
allegorico.
aveva
fatto Filone, del metodo
Con Filone egli distingue nella Scrittura due sensi, un senso letterale e uno allegorico o parabolico? E così divide gli insegnamenti Scritturistici in due livelli, uno di immediata comprensione e uno invece espresso in forma oscura e coperta che reca profitto solo a chi sa interpretare (cf. V, 4, 21; VI, 15, 124), ossia lo gnostico. Infatti né i profeti né il Signore stesso hanno enunciato i misteri divini in una forma semplice, immediatamente comprensibilea tutti, ma hanno parlato per parabole (cioè per allegorie), come gli stessi apostoli hanno constatato (Mt 13, 24); e ciò per vari motivi: per invitare i più zelanti a ricercare con applicazione e abilità, e perché molti non preparati adeguatamente ricaverebbero più danno che utilità dall’intelligenza profonda della Scrittura. I santi misteri sono riservati agli eletti, agli gnostici: ecco perché sono espressi in parabole, che ‘e lo stile caratteristico della Scrittura. Desegesi allegorica, che cerca il senso recondito ma vero della parola di Dio, è il compito principale dello gnostico. A Clemente non sfuggono i rischi che comporta questa ricerca, e gli eccessi dell’allegorismo gnostico stavano lì a dimostrarlo. Perciò osserva che si trova la verità non quando si cambia il senso del testo, perché così si può deformare ogni verità, ma solo se l'interpretazione di un passo porta ad affermare ciò che è conviene e alla maestà di Dio, e se essa è fondata proprio perfettamente sui testi scritturistici. Rimane comunque saldo il principio della grandissima utilità dell'interpretazione allegorica: «Utilissimo è dunque per molti aspetti il genere dell'interpretazione simbolica. È un aiuto alla retta dottrina teologica, alla pietà, alla dimostrazione della intelligenza, all'esercizio della concisione nel discorso, a una prova di sapienza»
(I, 28, 177).
Seguendo Filone, Clemente trae dalla Scrittura una grande messe di allegorici, che si riferiscono a Cristo (senso cristologico), all'uomo (senso antropologico), al mondo intelligibile (senso cosmologico), alla
sensi
7)
Cf. H. WOLFSON, The Philosophy of the Church
Fathers, l-Iarvard 1956, pp. 45-60.
Parte prima
30
spirituale (senso morale) ecc. «Ma bisogna anche riconoscere che, nonostante i vistosi imprestiti della esegesi filoniana, Clemente se ne differenzia in modo fondamentale perché la sua interpretazione del Vita
Vecchio Testamento resta saldamente ancorata a Cristo, cioè alla storia»)? Così, mentre da Platone Clemente attinge il metodo dialettico, da Filone
apprende il metodo allegorico. Il primo gli consente di costruire la
metafisica, il secondo lo mette in condizione di elaborare una metafisica cristiana.
Tutto questo ci autorizza a definire la metafisica di Clemente una metafisica cristiana platonico-filorziana.
come
DivisioNE DELLA FILOSOFIA
Richiamandosi chiaramente a Filone, Clemente afferma che la “filosofia di Mosè” abbracciava quattro aspetti: «quello storico e quello legislativo propriamente detto, specifici entrambi del campo etico; terzo, quello ”liturgico”, appartenente alla teoria della natura. Quarto, superiore a tutti, è l'aspetto teologico» (I, 28, 176). La divisione della filosofia
etica, fisica e teologia qui prospettata era in uso presso i medioplatonici, ma H. A. Wolfson ha mostrato che si può farla risalire a Filone, in
suggerisce il testo clementine? Come la filosofia mosaica anche la filosofia cristiana si divide in tre parti: una riguarda la morale, l'altra la fisica e la terza la teologia. La parte più importante è ovviamente quella teologica. E Clemente ci ricorda che a questa parte Platone aveva dato il nome di epoptica (epopteia contemplazione);mentre Aristotele l'aveva chiamata metafisica (I, 28, 176). La metafisica, come sappiamo, può procedere sia ”dal1'alto", praticando la Via del descenszis, sia "dal basso”, seguendo la via dell'ascensus. La prima era stata seguita da Platone e dai neoplatonici, mentre la seconda era stata praticata da Aristotele. Clemente ha elaborato una ”filos0fia cristiana” che è essenzialmente una teologia, vale a dire una riflessione razionale ordinata e approfondita sui misteri della fede. Ora, il metodo della teologia è sempre necessariamente un metodo ”dall’a1to”: il suo punto di partenza non sono le esperienze ed i fenomeni di questo mondo bensì le verità rivelate. Pertanto anche la metafisica che troviamo incorporata nella filosofia cristiana di Clemente è una metafisica che procede dall'alto. come
=
3) M. SIMONETTI, Profilo storico delfcscgcsi patristica, Roma 1981, p. 41. 9) Cf. H. A. WOLFSON, 0p. cit, pp. 53-54.
Clemente e Origene
31
Partire dall'alto significa partire da Dio, dallo studio della sua natura, dei suoi attributi e delle sue operazioni, per passare poi allo studio delle sue creature, da quelle più perfette a quelle meno perfette. Non solo Clemente ma anche quasi tutti i metafisici cristiani seguiranno questa dialettica del descensus. E questo sarà anche l'ordine della nostra esposizione
del loro pensiero.
ESISTENZA E
NATURA DI
DIO
Il guadagno speculativo della metafisica cristiana di Clemente, quello decisivo per i suoi futuri progressi, riguarda il principio primo: quella Causa prima che era stato l'obiettivo costante della ricerca della metafisi-
ellenica, e a cui erano giunti molto vicini Platone con le sue dottrine sull’Uno e sul Bene e Aristotele con la dottrina sul Motore immobile. Seguendo Filone, Clemente pone una netta distinzione tra l'esistenza e la natura di Dio. Commentando il celebre versetto dell’Es0d0 in cui Yaweh dice a Mosè che potrà vedere le sue spalle ma non il suo volto, egli afferma che le spalle si riferiscono all'esistenza mentre il Volto si riferisce alla natura di Dio, e che la prima è conoscibile mediante le opere della potenza divina, mentre la seconda è inconoscibile (I, 4, 26s). Nel libro V degli Stronzatz‘, che è quello in cui Clemente tratta più ampiamente l'argomento della conoscenza di Dio, egli dice che l'esistenza è manifesta a tutti; l'essenza, invece, Dio la rivela solo ad alcuni privilegiati. Infatti «tutte le nazioni credono che Egli esiste; ma solo a pochi sono state svelate le cose contenute "nel mistero di Dio. È per questo motivo che Platone, nelle epistole, parlando di Dio dice: "Ti devo scrivere in enigma, affinché se questa lettera viene smarrita per terra o per mare, colui che la legge non possa comprenderla. Perché il Dio dell'universo che sorpassa qualsiasi parola, pensiero e concetto, non potrà mai venire insegnato con la scrittura, essendo ineffabilenella sua natura"» (V, 10, 64). Clemente considera l'esistenza di Dio un fatto di evidenza quasi immediata e non il frutto di complesse argomentazioni. «Il Padre e Pastore di tutte le cose scrive Clemente è riconoscibileda tutte le cose, per mezzo di un potere innato senza insegnamento: dalle cose inanimate, perché possono avere simpatia verso l'essere vivo, e dagli esseri anica
-
—
mati gli uni, già immortali, operando di giorno in giorno, gli altri, ancomortali, in parte nel timore, e ancora nel grembo della madre, in parte usufruenti di libera riflessione, come tutti gli uomini, Greci e barbari. E nessuna stirpe non solo di agricoltori o di pastori può vivere senza la ra
fede per prenozione nell'essere superiore. Perciò ogni popolo, che si estenda nelle regioni dell'Oriente o dell'occidente, del settentrione o del
32
Parte prima
mezzogiorno, tutti hanno una sola e medesima prenozione di Colui che ha stabilito il suo impero, se è vero che gli effetti più universali della sua attività hanno pervaso egualmente tutte le cose» (V, 14, 133). La Conquista principale della metafisica cristiana di Clemente riguarda l'unicità della Causa prima. Contro il politeismo della religione popola-
anche contro il dualismo metafisico di Platone e di Aristotele, Clemente afferma l'assoluta unicità di Dio: «Dio, che è senza origine, è il principio unico e completo di ogni cosa» (IV, 25, 162). Tutti i principi costitutivi del mondo sono stati creati, anche la materia. «I filosofi,gli Stoici, Platone, i Pitagorici, Aristotele e i Peripatetici considerano la materia come uno dei principi primi e non riconoscono l'esistenza di un principio unico. Si tenga però ben presente che essi non attribuiscono alla materia prima né qualità né forma; Platone poi la identifica col non-essere, sapendo che unico è il Principio prima vero e reale» (V, I4, 89). Con chiara allusione a un passo delle Allegorie della Legge (2, 3) di Filone, Clemente afferma che «Dio è una cosa sola, al di là dell'uno e al di sopra dell'unità stessa. Perciò anche la particella tu, la quale ha forza dimostrativa, dimostra che Dio, il quale era, è e sarà, è veramente unico».10 Durissime sono le critiche che Clemente muove al politeismo dei greci e dei romani, soprattutto nel Protrettico. In quest'opera egli si propone di mostrare, da una parte, la stupidità e l'immoralità del politei— smo; dall'altra, la ricchezza spirituale e la purità trascendente della dottrina del Logos incarnato. Nella denuncia degli errori del politeismo egli attinge a piene mani alla ricca letteratura che gli Stoici, Filone e gli Apologisti avevano già messo a sua disposizione: «Opinioni false e lontane dal vero, opinioni fragili e caduche scrive Clemente hanno allontanato l'uomo dalla Vita divina, l'hanno disteso a terra, e l'hanno indotto a venerare cose tratte dalla terram“ Tra le ragioni che hanno favorito l'0rigine del politeismo Clemente annovera le seguenti: il fascino delle creature, il terrore dinanzi alla potenza della natura, l'esaltazione delle passioni e dei sentimenti più forti dell'uomo, la deificazione degli eroi. Molto importante e originale è anche il modo con cui Clemente sottolinea il carattere personale di Dio. Il Dio della metafisica cristiana di Clemente è dotato di intelligenza, volontà, libertà, potenza e bontà. «Dio non è buono involontariamente: la bontà non appartiene a lui come la proprietà di riscaldare al fuoco. ljelargizione del bene in Lui è volontaria, anche quando è stato invocato (...). Perciò Dio non fa il bene per necessità, ma per libera scelta» (VII, 7, 42). La potenza divina non ha li— re, ma
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1°) CLEMENTE, Pedagogo l, 8. 11) 113., Protrettiro c. 2.
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Clemente e Origcne
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miti, in quanto al di fuori di Dio non c'è nulla che gli possa imporre delle restrizioni. Però, essendo Dio anche somma sapienza, la sua poten-
può agire sregolatamente, ma agisce col massimo ordine. più. Nella sua metafisica essa prende il posto occupato dalla trascendenza nella metafisica di Filone. La bontà gode di un primato assoluto rispetto a tutti gli altri attributi di Dio: da essa procedono la creazione e la provvidenza:
za non
La bontà di Dio è l'attributo su cui Clemente insiste di
«Prima di divenire creatore era Dio, era buono e per questo volle essere demiurgo e padre».12 La bontà di Dio trascende la bontà di qualsiasi creatura, è unica. Mentre la bontà delle creature è sempre soggetta a qualche limitazione, quella di Dio è infinita. Mentre quella delle creature è spesso interessata, quella di Dio è sempre disinteressata e liberale. È una bontà che agisce con impeto e che si traduce continuamente in fatti: «Come non vi è luce la quale non illumini; né movente che non muova, né amante il quale non ami, nemmeno v'è bontà la quale non benefichi e non conduca a salute».13 A coloro che obiettano che Dio non è buono perché si adira e castiga gli uomini Clemente replica: «Nessuna cosa può essere odiata dal Signore. Egli infatti non può odiare una cosa e Volere allo stesso tempo che esista quello che ‘e odiato da lui; né può volere che non esista e far esistere quello di cui non vuole l'esistenza; né può non volere che esista quello che è».14 Una obiezione più forte contro la bontà di Dio e la divina provvidenza, che sarà sempre una spina nel fianco della metafisica e della metafisica cristiana in particolare, e che Clemente non si stanca mai di controbattere, è quella che si basa sull'esperienza del male. Se Dio è causa universale, ne consegue che è anche causa del male, ma allora come si può dire che Dio è infinitamente buono? A questa obiezione Clemente replica che «Dio non è mai causa del male, perché tutte le cose sono ordinate alla salvezza dell'universo sia ingenerale sia in particolare» (VII, 2, 12). Clemente tuttavia non si accontenta di respingere le accuse contro la bontà di Dio. Rimanendo fermamente ancorato alla dottrina dell'esistenza di un unico principio supremo di tutta la realtà, egli condanna decisamente la dottrina di coloro che cercavano di risolvere il problema del male ponendo due principi primi, uno per spiegare le Cose buone, l'altra quelle cattive, ossia il dualismo manicheo. Nell'ultimo capitolo del lV libro degli Sii/amati Clemente attacca fieramente questo determinismo pessimistico e dimostra che è una dottrina insostenibileperché per spie-
12) ID., Pedagogo I, 20. 13) Îbid. 14) Îbid.
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gare il male non occorre escogitare l'esistenza di una divinità cattiva, ma basta la libertà dell'uomo. Per tutte queste ragioni a Dio noi ci possiamo rivolgere col pronome Tu. Dio è un Tu non un Esso; è una persona, non un principio neutro e impersonale. Dio è un padre che prende amorosa cura di tutte le sue creature, e dell'umanità in modo del tutto speciale. INCONOSCIBILITÀ E INEFFABILITÀDI Dio L'assoluta trascendenza di Dio, anzitutto a livello ontologico e poi, conseguentemente, anche a livello gnoseologico e semantico era stata una delle grandi conquiste della metafisica mosaica di Filone, il quale però per la formulazione di questa dottrina aveva trovato ottimi spunti in Platone -nell’Epist0la VII, nel Timeo e nel Simposio sull'esempio di Platone, di Filone e altri filosofi greci, Clemente introduce nella metafisica cristiana la dottrina dellfizpofatisnzo. A questo tema egli dedica vari capitoli del libro V degli Stromati, dove adduce molti argomenti e molte testimonianze a sostegno della tesi della inconoscibilitàe della ineffabilità di Dio. È il primo trattato di un autore cristiano sui nomi divini, un trattato destinato ad avere un posto importante sia nella teologia filosofica sia nella teologia dogmatica. Clemente afferma con grande decisione che nessun concetto umano può comprendere la realtà di Dio e nessuna parola umana può descriverla. Ecco un testo esemplare a questo riguardo: —.
<<... Alcuni hanno chiamato Dio abisso, perché tiene come avvolte e abbracciate in seno tutte le cose: irraggiungibileed infinito insieme. Ed è precisamente questa la questione teologica più difficile da trattare: se il principio di ogni cosa è difficile da rintracciarsi, allora il primo e più antico principio sarà sommamente difficileda dimostrare, perché è esso anche per gli altri esseri tutti causa della nascita e dell'esistenza. Come infatti potrebbe essere definito Colui che non è né genere né differenza né specie né individuo né numero e nemmeno accidente né soggetto cui qualcosa possa capitare come accidente? Né si potrebbe dire rettamente un tutto: il tutto è dell'ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell'universo. Né, infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile;per questo è anche infinito, non nel senso dell'impossibilità di percorrerlo, ma dell'assenza di distanze e di dimensioni, pertanto è senza figura e innominabile.E se mai vogliamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente, o l’Uno o il Bene o l'intelletto o l'Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non diciamo (queste definizioni) come proferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio applichiamo begli appellativi, perché il pensiero possa basarsi su di essi senza aberrare con il ricorrere ad altri: ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso
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sono indicativi della potenza dell’Onnipotente. Poiché le cose di cui si parla sono desìgnabiliin base alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere assunto a proposito di Dio. E nemmeno con la scienza della dimostrazione, perché quella si costituisce sulla base di premesse anteriori e più note, mentre all’Ingenerato nulla preesiste. Resta dunque che noi pensiamo Plgnoto solo per grazia divina e per il Logos che da esso procede» (V, 12, 81-82).
In questa Concettuosa pagina Clemente condensa una lunga serie di ragioni per cui Dio è a un tempo inconoscibile(agnostos) e ineffabile (arretos): 1) alcune sono tratte dalla natura stessa di Dio, la sua infinità, la semplicità, l'assenza di qualità e di relazioni ecc.; 2) altre sono ricavate dalla nostra limitata capacità conoscitiva, che è sempre legata alle immagini, alle figure, alle argomentazioni; 3) altre, infine, sono dedotte dalla struttura e dai procedimenti del linguaggio umano, che per definire una
deve sempre porre delle distinzioni (specie, genere, differenza, soggetto ecc.). Per tutte queste ragioni, «il Dio dell'universo che supera qualsiasi nome, nozione e concetto non può essere espresso a parole o Cosa
per iscritto da parte degli uomini, ma è conoscibile solo mediante la potenza che da lui procede. Infatti l'oggetto della ricerca è incorporeo e invisibile, ma la grazia della ”gnosi” proviene da Lui attraverso il Fi-
glio» (V, 11, 71).
Come abbiamo già rilevato Yapofatismo e con esso la teologia negativa entra nella metafisica cristiana per merito di Clemente e non di Plotino, come spesso si afferma. Quando Clemente scrisse i suoi Stromatz’ probabilmentePlotino non era ancora nato. E certamente negli ambienti cristiani gli Stromati di Clemente furono assai più letti ed apprezzati delle Enneadz" del pagano Plotino. IL TEOREMA DELLA CREAZIONE Abbiamogià ricordato che il postulato fondamentale della metafisica ex nihilo rzihil fit. Su questo postulato si reggeva il convincimento comune a tutti i filosofi greci, inclusi Platone e Aristotele, che il mondo è increato ed eterno. Filone nella sua metafisica mosaica aveva abbandonato l'ex nihilo nihil fit e l'aveva sostituito con il teorema della creatio ex nihìlo. Era stata la più grande rivoluzione metafisica della storia. Ma nel creazionismo di Filone c’erano ancora alcune esitazioni piuttosto gravi. Egli aveva limitato l'azione creatrice di Dio solo alle creature spirituali (Logos, Potenze, Idee, anime), mentre aveva demandato al Demiurgo e alle sue Potenze la creazione del mondo materiale. Inoltre non aveva preso una posizione chiara e inequivocabileriguardo alla materia; per questo alcuni studiosi pensano che Filone considerasse la materia increata ed eterna.
classica era:
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Su
questi punti
Clemente compie
un
passo decisivo:
egli applica il
teorema della creazione a tutto l'universo, sia spirituale che materiale, cioè lo estende anche alla materia. Egli afferma ripetutamente che Dio ò creatore di tutto, inclusa la materia. Dio ‘e la Causa d'ogni cosa sia nell'ordine fisico che morale, sia nell'ordine del pensiero che in quello dell'azione. «Dio, il quale è senza principio (anarkos) è il principio unico e totale di ogni cosa (arké ton olon pantelès), il principio efficiente. In quanto è l'essere, è il principio primo nella sfera dell'azione; in quanto è bontà è il principio primo nella sfera dei costumi; in quanto è intelligenza è il principio primo del ragionamento e del giudizio». «Eterna è l'azione benefica di Dio e la giustizia a Lui connaturata procede veramente uguale per tutti da un principio che non ha principio: si attua secondo il merito di ciascuna cosa, ma non ha mai avuto principio. Dio non ha avuto principio del suo essere Signore e Bontà: egli e sempre ciò che è e non cesserà mai di essere benefico, anche se conduce ogni cosa a fine» (V, 14, 141). «Mentre l'arte umana produce case, navi, città, quadri, come dire tutto quello che Dio crea? Guarda l'universo intero: è tutto opera sua. Il cielo, il sole, gli angeli e gli uomini "sono opera delle sue mani” (Ps 8, 3). Come è grande la potenza di Dio! Frutto esclusivo della sua bontà è la creazione del mondo. Dio solo creò, perché Lui solo è veramente Dio. Col suo semplice desiderio Egli produce le cose. Al suo puro volere segue la genesi delle cose>>J5 Nello svolgimento della sua azione creatrice Dio non ha bisogno d'aiuto ma fa tutto da solo, col suo semplice atto di volontà: «al suo comando vengono all'esistenza tutte le cose».16 Clemente elimina tutti gli intermediari che Filone aveva introdotto per spiegare la creazione del mondo. La causa suprema di tutte le cose non può essere che una e da essa le cose derivano tutta la loro realtà. La presenza di altre cause oltre che compromettere la sovranità di Dio non giova alla soluzione del problema della creazione e perciò viene eliminata. Le opere principali della creazione sono il cielo, il mondo e l'uomo: l'uomo è il fine per cui Dio ha creato il cielo e la terra. «La sua potenza ordinatrice prima si occupa del mondo, del cielo, dell'orbita del sole, del giro e del corso degli astri, in vista dell'uomo, poi si occupa dell'uomo stesso, intorno a cui pone ogni cura; e stimando questa la sua maggior opera, diede alla sua anima come guida la moderazione e la saggezza, dotò il corpo di bellezza e di giuste proporzioni; riguardo poi alle azioni dell'umanità, ispirò tutto ciò che v'è in esse di buono e di bene ordinato».17
15) lD., Potrettico c. 4. 16) lD., Pedagogo I, 6. 17) Îbid., l, 2.
Clemente e
Origcne
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IL Locos
Quello del Logos era stato un dato teoretico centrale in alcune metafisiche elleniche (in particolare in Eraclito e negli Stoici) e nella metafisica mosaica di Filone. Nella metafisica cristiana di Clemente il ruolo del Logos diventa ancora più importante e decisivo. In Filone il Logos svolge soprattutto due funzioni: di creatore del mondo materiale e di mediatore tra Dio e gli uomini. Anche Clemente assegna queste due funzioni al Logos ma le mocifica profondamente adeguandole alle esigenze dei due massimi misteri del cristianesimo: i misteri della Trinità e dell'Incarnazione. Inserito nel mistero della Trinità, il Logos non è più una creatura come in Filone, bensì il Figlio unigenito del Padre a Lui consostanziale. Il Logos è preesistente ed eterno: «Egli era da prima; Egli era ed è principio di tutte le cose».18 «Egli è strumento di Dio (organon ton theou) tutto
armonioso, melodioso, santo, Sapienza (Sophia) sopramondana, celeste Logos».19 A questo livello di seconda persona della Trinità, Egli è Logos oziranios (Verbo celeste) sempre congiunto alla Sophia hyperkosnzios (sapienza sovramondana). Egli è sempre accanto al Padre come Principio divino (arché theia) di tutto ciò che procede da Dio, e insieme col Padre e con lo Spirito è il creatore dell'universo. Integrato col mistero dell'Incarnazione, il Logos è la persona divina che assume la natura umana, diventa uomo come noi, e svolge per noi un'azione mediatrice infinitamente più possente e più efficace di quella del Logos filoniano. Il Logos divino è colui che si è fatto uomo per educare, ammaestrare, salvare e condurre gli uomini alla vita eterna: «... sì, ti dico, il Logos divino si è fatto uomo, perché anche tu da un Uomo possa imparare come l'uomo diventa Dio».20 sull'identità divina del Logos incarnato Clemente fa affermazioni chiare ed esplicite: «È questi il Canto nuovo, la manifestazione rifulsa ora in mezzo a noi del logos preesistente che era in principio (Gv 1, 1); è apparso adesso, dunque, il Salvatore che preesisteva; è apparso Colui che era in ”Colui che è”, giacché il Logos è colui che era presso Dio (Gv l, 1); il Maestro è apparso, per mezzo del quale sono state create tutte le cose; il Logos che, dopo averci offerto di vivere in principio, creandoci, ci ha poi insegnato a ben volta apparso come Maestro, per donarci finalmente, in quanto Dio, di vivere eternamente>>21 In Cristo risiede ogni Virtù e ogni
vivere
una
13) lD., Protretticu I, 6. w) Ibid.
20) Ibirt, I, 8. 21) Ibid, 1, 7.
Parte prima
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perfezione: «Perfetto in tutte le virtù è colui che ”si è rivestito" dell'uomo
per amor nostro»
(IV, 21, 30).
La funzione mediatrice che Cristo è chiamato a svolgere generalmenviene designata da Clemente col titolo di ”Maestro" 0 "Pedagogdfi te E un titolo che si intona perfettamente con i destinatari dei suoi scritti che sono i pagani colti, i filosofi, i quali si attendevano la salvezza dalla filosofia, che nell'antichità era sempre concepita come via di salvezza. E pertanto chi voleva salvarsi si metteva alla scuola dei filosofi, maestri di saggezza, di verità e quindi della vita beata. E cosi Clemente non si stanca mai di ripetere che l'unico Vero Maestro è Cristo. Noi «sappiamo che il Figlio di Dio è il nostro maestro per questo abbiamo fiducia che il suo insegnamento è vero» (V, 13, 85). «Bisogna quindi apprendere la verità attraverso Cristo» (Ibid., 86). «La superbia fa proclamare certi uomini come loro maestri, mentre l'insegnamento di tutto ciò che giustifica risale al Signore» (VI, 7, 55). «La nostra ”gnosi", il nostro giardino spirituale, è lo stesso Salvatore nel quale siamo stati innestatì, trasferiti e trapiantati nella terra buona dalla vita vecchia; e il trapianto conferisce alla bontà dei frutti. Luce ‘e il Signore e la vera ”gnosi” è lui, nel quale siamo stati trasferiti» (VI, 1, 4). In quanto Pedagogo Cristo è anche "Medico" dell'umanità, guarendo tutti, portando gli uomini attraverso la illuminazionedella ”gnosi” alPimmortalità e alla vita eterna.
IL MONDO Come abbiamo già rilevato, Clemente introduce nella metafisica cristiana l'idea rivoluzionariadella creazione del mondo ex nihilo: il mondo è generato e pertanto non può essere eterno. Sennonché il suo desiderio di far coincidere gli insegnamenti della ‘Tilosofia cristiana" con quelli della filosofia ellenica lo porta ad attribuire la dottrina della creazione del mondo anche a Platone; il quale però avrebbe mutuato questa idea da Mosè. Ecco quanto scrive Clemente a questo riguardo negli Stromati: «Che il mondo sia generato ‘e ancora una teoria che i filosofi desunsero da Mosè. Platone, ad es., ha detto espressamente: "È sempre stato, senza aver avuto alcun principio qualsiasi? È nato, perché è visibileed è tangibile, e se è tangibileha anche un corpo”. E dopo, quando dice: ”Scoprire il creatore e padre di questo universo è difficile impresa", non solo dimostra che il mondo è stato generato, ma rivela che è nato da Quello come figlio e Quello è chiamato suo "padre”, per dire che è nato da Lui solo ed è venuto ad esistere dal nulla» (V, 14, 92). Tutti i principi costitutivi del mondo sono stati creati, anche la materia, poiché «Dio è il principio unico e completo d'ogni cosa» (IV, 25, 162).
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«I filosofi, gli Stoici, Platone, i Pitagorici, Aristotele e i Peripatetici considerano la materia come uno dei principi primi e non riconoscono l'esistenza d'un principio unico. Si tenga però ben presente che essi non attribuiscono alla materia né qualità né forma; Platone poi la identifica col non-essere, sapendo che unico è il principio primo vero e reale»
(V, 14, 89).
aisthetòs) Clemente contrappone l'uniil (kosnzos noetòs), quale comprende sia le idee-pensieri intelligibile di Dio, sia le creature spirituali, gli angeli (cf. V, 14, 93). Gli angeli sono visti da Clemente quali strumenti o intermediari del Logos, partecipi della sua luce, ma distinti e subordinati a lui. La loro Allunivcrso Sensibile (kosmos
verso
pensante”. Clemente parla anche di gerarchia angelica. angeli "primogeniti", che la stessa perfezione. Essi il medesimo d'essere tutti e possiedono grado i sacerdoti altri Gli sommi sono degli angeli. angeli primogeniti contemplano il volto del Padre, cioè il Logos, e sono da lui illuminati.Gli altri sono illuminatidagli angeli superiori, e a loro Volta si fanno intermediari per comunicare alla Chiesa la luce divina. Con gli angeli comunicano in modo speciale i cristiani che praticano la "gnosi”z «lo gnostico prega con gli angeli, al pari di chi sia già divenuto ad essi simile (...) anche quando prega da solo, avendo seco il coro dei santi che rimane con lui»
natura viene descritta come ”fuoco
Vengono anzitutto sei
una
(VII, 12, 78).
L'UOMO, ICONA DI DIO Nella dottrina sull'uomo si
rispecchia quella
concezione fortemente
unitaria che Clemente ha della realtà, una concezione che riesce ad armonizzare aspetti delle cose, come fede e ragione, filosofia e cristianesimo, materia e spirito, corpo e anima che non solo gli gnostici e i manichei, ma anche cristiani come Taziano, Ireneo e Tertulliano non riusciranno a conciliare. Nell’antropologia di Clemente Viene bandita ogni forma di dualismo e, soprattutto, di manicheismo. L'uomo, secondo Clemente, è costituito essenzialmente di anima e di corpo, anche se la
priorità ontologica viene ovviamente assegnata all'anima. Ecco come egli descrive i rapporti tra anima e corpo in un bel testo degli Stromati:
«È da tutti ammesso che parte superiore dell'uomo è l'anima, inferio-
il corpo. Ma ne l'anima è buona per natura, né d'altronde è per e nemmeno ciò che non è buono è senz'altro cattivo. C'è dunque qualche medietà e, nell’intermedio, cose che vanno scelte e cose che vanno respinte. Era dunque opportuno che il composto umano, fatto nell'ambito del sensibile, fosse costituito di elementi diversi sì, ma non avversi, corpo e anima. Pertanto le buone re
natura cattivo il corpo;
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azioni in quanto ”mìgliori", sono sempre attribuite alla parte superiore, la spirituale, invece quelle compiute per voluttà e peccaminose sono imputate alla parte inferiore, appunto peccaminosa. Così l'anima del sapiente e "gnostico", che è come ospite del corpo, si comporta verso di esso in modo serio e rispettoso, ma senza troppo attaccamento, disposta a lasciare lì per lì "l'abitacolo", quando il momento della partenza la chiami» (IV, 26, 165).
Delle Varie prerogative di cui è dotato l'uomo, quella su cui Clemente insiste maggiormente e il suo essere icona di Dio (Ìmlîgfi Dei). Clemente riconosce tre specie di icone di Dio: quella del Logos, quella del cristiano e quella di ogni uomo. All'ultima che è la somiglianza naturale che l'uomo ha con Dio dà solitamente il nome di eikon, mentre alla somiglianza speciale di cui gode il cristiano dà il nome di homoiosis. La prima appartiene a tutti, l'altra soltanto a pochi, ed è frutto della grazia di Cristo. La somiglianza con Dio non riguarda il corpo ma soltanto l'anima nelle sue facoltà superiori dellintendere e del volere: «L'espressione "a immagine e somiglianza” non si riferisce al corpo, perché è inammissibile che il mortale assomigli all'immortale, ma all’ìntelletto e alla ragione, ossia a quelle parti dell'uomo in cui il Signore può fissare convenientemente, come un sigillo, la rassomiglianza rispetto al beneficare e al comandare» (ll, 19, 102). Sulla iconicità divina dell'uomo Clemente costruisce tutta la sua spiritualità. Anche in questo caso egli attinge molto da Platone e da Filone, ma lo fa rileggendo i loro insegnamenti in chiave cristiana. Tutta la spiritualità clementina è centrata sull'idea della assimilazione a Dio, prendendo come esempio il grande Pedagogo, Gesù Cristo. "Gnostico" è colui che imita Dio. A questo tema Clemente ha dedicato molti capitoli degli Stromati. Ecco due passaggi significativi. «Questi è lo "gnostico", "ad immagine e somiglianza": colui che imita Dio per quanto è possibile, nulla tralasciando di quanto giova a questa realizzabilesomiglianza. Egli è continente e paziente, vive secondo giustizia, domina le passioni, dà ciò che ha, per quanto può, benefica con la parola e con l'opera. "Grandissimo nel regno, dice la Scrittura, è quegli che opera e insegna" (Mt 5, 19), perché imita Dio facendo del bene in modo simile: i doni di Dio sono di utilità comune» (II, 19, 97). «Uassimilazioneal Logos nella misura del possibileè il nostro fine, e così pure la riabilitazionealla perfetta adozione filiale attraverso il Figlio. Essa glorifica sempre il Padre attraverso il "gran sacerdote" che si è degnato di chiamarci "fratelli" e "coeredi"» (II, 22, 134). Clemente è uno dei classici della spiritualità cristiana; sia nel Pedagogo sia negli stremati egli ha definito la condotta del vero gnostico con grande dovizie di dettagli, trattando ampiamente della castità, del
Clemente e
Origene
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matrimonio e del "martirio". Il vero "gnostico" tiene l'anima libera dal cor 0; morto al mondo e g li è otenzialmente "martire", meritevole d'oup m lode come 1 martiri a ani che sacrificano la Vita alla atria 0 P? ure a g. ....Pg.. ...P un'idea. Tutti 1 cristiani, uomini e donne, schiavi e liberi possono accedere a uesta as ra filosofia della sofferenza, e anche in uesto Cristo, F.’ che P rovò Il martirio nella sua P ersona, ci è Maestro. n
n
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.
Tre sono, secondo Clemente, 1 gradi per giungere alla perfezione: la feder la " g nosi" e l'amore; senza l'amoreJ la fede e la osi non bastano:
«È detto infatti: ”A Chi ha sarà dato in aggiunta": alla fede la gnosi, alla gnosi l'amore, all'amore l'eredità. E ciò avviene quando uno si fa dipendente dal Signore per fede, per gnosi e per amore, e ascende con
Lui là dove è il Dio e Custode della nostra fede e del nostro amore (...). La gnosi conduce a un fine che è senza limiti perfetto, insegnandoci in anticipo lo stile di vita secondo Dio, che sarà nostro quando saremo fra dèi, liberati da ogni castigo e pena che in conseguenza dei nostri peccati sopportiamo per una correzione salutare. Dopo questo riscatto il premio e l'onore sono concessi ai perfetti, che hanno cessato la pena di purificazione e anche ogni altro ministero, sia pur santo e in cose sante. Divenuti "puri di cuore" li aspetta quindi la reintegrazione definitiva nella contemplazione eterna per l'unione con il Si-
gnore» (VII, 10, 56). «Trasferite in luoghi più ameni le anime "gnostiche" non abbracciano più la divina visione di riflesso o attraverso specchi, ma sono convitate allo spettacolo quanto più è possibile luminoso e perfettamente puro, del quale non si saziano, anime straordinariamente infiammate d'amore. Godono eternamente di eterna letizia e perdurano nel tempo infinito, onorate della identità della loro somma elevazione:
contemplazione comprensiva dei "puri di cuore”. Questa è dunque l'attività del perfetto "gnostico”: essere vicino a Dio attraver-
tale è la
so il gran sacerdote (Cristo), assimilandosi per quanto Signore mediante tutto il culto dedicato a Dio» (VII, 3, 13).
si
può al
CONCLUSIONE La fama di cui ha
goduto Clemente Alessandrino presso i Padri greci
è sempre stata altissima. Massimo il Confessore lo chiama "filosofo dei
filosofi", "maestro divino".
Tutti gli storici riconoscono in Clemente il padre della metafisica cristiana e il creatore della teologia scientifica, nonché il primo grande artefice della ellenizzazione del cristianesimo a livello speculativo, e per questo egli viene esaltato o condannato a seconda che si veda in questo evento un'operazione positiva che ha consentito al cristianesimo di dispiegare tutto il suo potenziale culturale o invece un'operazione negati-
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che ha corrotto la purezza originaria della fede cristiana, facendola degenerare da fede in filosofia. La seconda valutazione è stata espressa da Harnack, il quale ha scritto che Clemente «ha modellato totalmente la tradizione ecclesiastica secondo una filosofia della religione di tipo ellenisticomîî Ma questo giudizio è da ritenersi assolutamente infondato. va
Infatti la gnosi salvifica di cui parla Clemente è legata inscindibilmente al Cristo—Logos e viene data in dono da Dio all'uomo; proprio questo fondamentale dato biblico—cristiano non può essere occultato da un vocabolario preso dalla sapienza dei misteri e da una forma di pensiero filosofico-religiosa. Nel cristianesimo c'è vera gnosi solo in base a una previa rivelazione di Dio. Oggi generalmente si ritiene che Pellenizzazione del cristianesimo operata da Clemente negli ambiti della speculazione filosofica e della teologia dogmatica sia stata una grandissima conquista. Come ha scritto Mondésert, l'incontro tra ellenismo e cristianesimo operato da Clemente Alessandrino è stato «uno degli incontri più fecondi della storia delle
ideemîì Per quanto attiene la metafisica, a Clemente spetta il merito di avere gettato le basi della metafisica cristiana. Di quest'ultima egli ha legittimato l'esistenza, rivendicando al cristiano il diritto e il dovere di capire il significato della propria fede e di renderla comprensibile anche ai pagani. Quella di Clemente è una metafisica largamente debitrice a Platone e a Filone. Nella struttura piramidale, nel metodo dialettico, nella costruzione ”dall’alto” è una metafisica platonica e filoniana; nell'utilizzazionedel metodo allegorico è filoniana. Ma la metafisica di Clemente è innovatrice rispetto a Platone e a Filone su tre punti di capitale importanza: la rigorosa applicazione del teorema della creazione con l'eliminazione di qualsiasi intermediario e con Pestensione della creatio ex nihilo anche alla materia; l’affermazione categorica dell’unicità della causa prima; la caratterizzazione in senso cui l'uopersonalistico e agapico del primo principio, Dio: ‘e un Dio conDio che è ed è un intrattenere soprattutto mo può rapporti personali, l'uole sue con del creature, i con essenzialmente amore, rapporti quale innodall'amore. dettati Queste importanti mo in particolare, sono tutti vazionì trasformano la metafisica ellenica in metafisica cristiana.
22) A. V. HARNACK, Dvgmengesdzichte l, p. 648. 13) C. MONDÉSERT, Clément dfllexandrie, Paris 1944, e Clemente, Roma 1984, pp. 162
s5.
p. 10. Cf. B. MONDIN, Filone
Clemente e K
\
Origene
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riore. L'insegnamento a un pubblico eterogeneo, formato non solo di crima anche di pagani, eretici e gnostici, 10 convinse della necessità di una conoscenza più approfondita sia della Scrittura sia della filosofia. A tal fine si accinse allo studio della lingua ebraica e visitò laiPalestina per conoscere personalmente i luoghi geografici nominati dalla Bibbia. Contemporaneamente frequentò le lezioni di Ammonio Sacca, padre del neoplatonismo alessandrino. Tutto CÌÒ non lo distolse dall'insegnamento e dalla pubblicazione dei suoi primi commenti alla Scrittura. Con tutta probabilità l'eccessiva importanza data alla filosofia nella spiegazione delle verità della fede dovette suscitare nellaChiesa di Alessandria qualche riserva sul suo pensiero che, con l’andar degli anni, di fronte a ipotesi di eccessiva novità, si tramutò prima in opposizione decisa e infine in rottura aperta. L'occasione fu data dalla sua ordinazione sacerdotale (230), durante un viaggio ad Atene, a opera di Teoctiso di Cesarea e di Alessandro di Gerusalemme, senza l'autorizzazionedel suo vescovo Demetrio. Durissimi furono i provvedimentipresi nei suoi confronti. Rientrato in patria, in due sinodi locali fu privato dell'insegnamento, deposto dall'ordine presbiterale e scacciato dalla comunità. Decisioni poi ratificate dal pontefice romano Ponziano e da altri Vescovi, a eccezione di quelli della Palestina, Fenicia, Arabia e Acaia. Fu questo uno dei momenti più dolorosi e difficili della vita di Origene, ma egli si riebbe ben presto dalla prova. AbbandonataAlessandria si ritirò a Cesarea di Palestina presso l'amico Teoctiso: qui aprì una scuola superiore di teologia, che sarà la continuazione di quella di Alessandria. Allînsegnamento univa la predicazione pressoché quotidiana alla comunità dei fedeli; contemporaneamente attendeva alla composizione di opere di diverso genere: commenti scritturistici, omelie, lettere, opere ascetiche e apologetiche. Durante la persecuzione di Decio (249-250), ormai Vecchio, venne imprigionato e brutalmente torturato per la fede. Liberato, morì poco dopo in conseguenza delle sofferenze subite in carcere. Sepolto a Tiro, la sua tomba era visibilefino al sec. Xlll nella cattedrale della città. stiani
OPERE
Origene è probabilmentel'autore più fecondo dell'antichità sia pagache cristiana: l'elenco delle sue opere, tramandato da Girolamo nella lettera 33 a Paola, ancorché incompleto è sorprendente. Purtroppo la maggior parte di esse è andata perduta e solo una piccola parte ci è pervenuta o nell'originale greco o in traduzione latina (Rufino, Girolamo) o in frammenti. La loro distruzione fu causata dalle lotte origeniste del IVVI secolo, che culminarono con la condanna di Giustiniano prima (543) e del Conciliodi Costantinopoli dopo (553). na
Clemente e
a)
Origene
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Opere esegetielze
A questo gruppo appartengono anzitutto gli Esapla, opera monumentale in cui, a fianco del testo originale ebraico della Bibbia, fu disposta la traslitterazione in greco e le traduzioni più accreditate del tempo: Aquila, Simmaco, LXX, Teodozione. Gran parte della Bibbia, inoltre, fu da lui commentata in tre diverse forme: del commento erudito, dell'o-
melia e dello ”scolio". Gli Scolii erano brevi annotazioni su passi particolari della Scrittura. Delle varie raccolte nessuna ci è pervenuta integra; molto di questo materiale è reperibilenelle Catene. Le Omelie erano prediche rivolte, durante Fazione liturgica, ai fedeli di Cesarea su interi libri della Bibbia o lunghi brani di essa. Delle 574 trascritte dagli stenografi ce ne sono pervenute circa 200. In greco ci restano 20 omelie su Geremia; nella traduzione latina di Rufino: 16 sulla Genesi, 13 sull’Esodo, 16 sul Levitico, 28 sui Numeri, 26 su Giosuè, 9 sui Giudici, 9 sui Salmi; nella traduzione di Girolamo: 2 sul Cantico, 9 su Isaia, 14 su Ezechiele e 39 su Luca. I Commentari sono ampi commenti a interi libri della Scrittura di Ca-
speculativo e scientifico, in cui prevale l'interpretazione allegoriDi essi ben poco ci è rimasto: solo parti del commento al Cantico, Matteo, a Giovanni e alla Lettera ai Romani.
rattere ca.
a
b) Opere sistematiche Due sono le grandi opere sistematiche di Origene: I principi e Contro Celso. La prima fu composta ad Alessandria Verso il 220: in quattro libri vi vengono esposte in modo sistematico e approfondite con procedimento teoretico tutte le verità principali della fede cristiana. Ci è pervenuta nella traduzione latina di Rufino della cui attendibilitàmolto si è discusso e si continua a discutere. La seconda, il Contro Celso, fu composta verso il 246 per confutare il Discorso veritiero del medioplatonico Celso (i 178). È la più completa e importante apologia del cristianesimo tra quelle scritte nei primi secoli.
c) Altre opere La preghiera, trattato sulla preghiera in genere, con un commento molapprofondito del Padre nostro; La Pasqua, trattato su questa festa; Dispute con Eraclide, resoconto stenografico di una discussione teologica tenuta con il vescovo Eraclide di Arabia. DelFampioepistolario ci sono giunte solo due lettere: una indirizzata a Gregorio il Taumaturgo, suo discepolo a Cesarea, l’altra a Giulio l'Africano sul valore storico dell'episodio di Susanna. to
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Parte prima
IL GENIO DI ORIGENE
Origene è indubbiamente uno dei grandi geni dell'umanità e, con S. Agostino, uno dei due massimi geni del cristianesimo. Sullo sviluppo del pensiero e della cultura della Chiesa bizantina il ruolo di Origene è analogo a quello fondamentale svolto da Agostino nella Chiesa latina: «È praticamente impossibile sopravvalutare Origene e la sua importanza nella storia del pensiero cristiano: in essa, il posto che gli spetta è certo a fianco di Agostino e di Tommaso. A chi intraprende delle ricerche di patristica capiterà come allo scalatore: poco a poco scompaiono ai suoi piedi quelle cime che un momento prima lo impressionavano, mentre dietro ad esse sorge, maestosa, la cresta più alta del massiccio. Dopo i maestri di Cappadocia fino ad Agostino, Dionigi, Massimo, Scoto Eriugena e Eckart, nessuno dei grandi è riuscito a sfuggire al quasi magico potere di attrazione esercitato dall"’uomo di acciaio" (come Origene veniva chiamato) (...). Nessun altro nella Chiesa è rimasto sempre così invisibilmenteonnipresente come Origene». (H. U. v. BALTHASAIÌ).
La grandezza e il genio di Origene non sono mai stati messi in dubbio da nessuno, neppure dai suoi critici e dai suoi avversari. Ecco per es. cosa scrive di lui Vincenzo di Lerino, uno dei suoi critici più severi:
intelligenza era così vasta, penetrante, acuta, nobile, da non rivali. Aveva poi una tale conoscenza della dottrina cristiana e una così grande erudizione che poche cose gli sfuggivano della filosofia divina, quasi nessuna di quella umana, che egli non avesse acquistatciiìîprofondità. La sua scienza non si limitò alle opere greche, ma si estese anche a quelle latine ed ebraiche. La sua eloquenza era così piacevole, pura, soave, che si sarebbe potuto dire che miele, non parole, fluisse dalle sue labbra. Non c'erano questioni difficili a esporre che egli non rendesse limpide con la forza del suo ragionamento, né cose che sembravano ardue che egli non rendesse facilissime (...). Nessun mortale ha scritto più di lui, tanto che non è possibile, io penso, non solo leggere tutte le sue opere, ma neppure trovarle al completo (...). Innumerevoli sono i dottori, i vescovi, i confessori, i martiri usciti dalla sua scuola. È veramente impossibilecommisurare l'ammirazione, la gloria, il favore che egli acquisto presso tutti. Chi, per poco religioso che fosse, non è corso da lui fin dalle più remote piaghe della terra? Dalla storia sappiamo che fu riverito non solo dai privati, ma dallo stesso imperatore» 25 «La
sua
avere
25)
VINCENZO DI LERINS, Il commonitorio c. i7.
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Parte prima
ragionamento»,26 ma non lo fa in modo frammentario, o quel particolare mistero, ma globalmente, inserendo in un'unica grande struttura razionale tutta l’economia della salvezza, tutti i suoi attori, tutte le sue Vicende, anticipando di molti secoli quanto tenteranno di fare Hegel e Schelling nel secolo XIX e Tillich e Teilhard de Chardin nel secolo XX. Fu questo tentativo di razionalizzazioneglobale della rivelazione a suscitare le maggiori diffidenze, le critiche più aspre, e le scomuniche solenni nei confronti di Origene. Egli sarà condannato
zare
la fede col
chiarendo questo
nome del cristianesimo biblico per i suoi cedimenti alla filosofia e al1’ellenismo in generale. Il Concilio costantinopolitano del 553 lo conclannerà per avere «restaurato i miti ellenici» (tas ellenikas mythopoias). L'obiettivo specifico dell'opera è esplicitato dallo stesso Origene nei termini seguenti: «Ordinare in un tutto organico l’esplicazione razionale di tutti questi argomenti (insegnati dalla Chiesa), sì da mettere in evidenza le verità sui singoli punti con dimostrazioni chiare e inoppugnabili e ordinare, in tal modo, un'opera organica con argomenti ed enunciazioni, sia quelle che avrò trovato nelle Sacre Scritture sia quelle che avrò potuto di lì dedurre grazie a una ricerca condotta con esattezza e rigore logico»)? Come risulta da questo brano, l'intento di Origene nei Principi è duplice: sistematico (trattare di tutti gli argomenti conordin-e) e raziocinativo 0 filosofico (proporre ogni verità con argomentazioni valide e con rigore’ logico). Nel quadro delle verità cristiane Origene distingue due gruppi: quello delle verità già chiaramente definite dalla Chiesa (su Dio, Cristo, lo Spirito Santo, l’anima, la risurrezione dei morti ecc.) e quello delle verità che sono tuttora oggetto di discussione. I1 ricorso alla filosofia si può operare in entrambi i casi, ma, ovviamente, è più urgente e fecondo nel secondo che nel primo. L'opera si compone di quattro libri che trattano rispettivamente: I) il mondo trascendente (Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo, Angeli, anime ecc); II) il mondo storico (creazione del mondo e dei progenitori, economia dell'Antico Testamento, incarnazione del Salvatore; risurrezione e castigo); III) il mondo umano (il libero arbitrio, la sapienza, Yimago Dei ecc); IV) il mondo scritturistico (interpretazione della Scrittura, simboli-
in
smo
ecc.).
25) De Princ, IV, 1, I. 27) lbiii,Prefazione.
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Parte prinza
50
filosofia, secondo l'uso che si faceva di questo termine ai tempi di Origene, può abbracciare tutti e tre i rami della sapienza. Riguardo al delicato problema dei rapporti tra filosofi e Cristianesimo Ori gene condiLa
vide sostanzialmente la tesi di Clemente Alessandrino. Al pari del suo egli ritiene che tra filosofia e cristianesimo non esista uno stato di inimicizìa bensì cli solidarietà e di alleanza. ln effetti, a suo parere, il ruolo della filosofia è stato favorevole al cristianesimo sia prima sia dopo la venuta di Cristo. Prima di Cristo essa ha preparato i greci a intendere e ad accogliere la Parola (il Logos) della Rivelazione; dopo Cristo essa fornisce al credente lo strumento adeguato per approfondire e ”rigorizzare" le verità rivelate dalla Parola di Dio, «mediante dimostrazioni chiare e inoppugnabili». Quale uso il credente debba fare della filosofia Origene lo spiega chiaramente in una lettera al suo discepolo Gregorio Taumaturgo, nella quale dice tra l'altro: «Le tue disposizioni naturali possono fare di te un compiuto giurista romano o un filosofo greco appartenente a una della scuole più stimate. Io, però, Vorrei che tu utilizzassi tutte le tue risorse naturali avendo come obiettivo la dottrina cristiana. Quanto allo strumento da impiegare, avrei desiderato che tu prendessi dalla filosofia dei greci tutto ciò che può servire come insegnamento enciclico o di propedeutica per introdurre al cristianesimo maestro
Clemente e
Origene
51
questa osservazione Origene conclude che «chiunque arriva all'insegnamento cristiano dalle dottrine e dalle discipline dei greci è in grado di giudicare della sua verità>>38 stabilendo in tal modo una certa affinità Da
almeno P r0 P edeutica tra verità ellenica e verità cristiana. Certo Ori Eene, con questo, non intende in nessun modo scambiare i ruoli specifici del cristianesimo e della filosofia: il primo posto per quanto concerne la verità spetta sempre al cristianesimo: «La parola divina scrive Origene ha la sua dimostrazione propria, più divina che non quella greca basata sulla dialettica. E questa dimostrazione divina l'Apostolo la chiama "dimostrazione mediante lo Spirito e la potenza” (1 Cor 2, 4)».39 Ma ciò non toglie che della stessa verità accolta con certezza per fede si possa acquisire anche urfevidenza razionale, ricorrendo al procedimento filosofico. Frutto dell'applicazione di questo procedimento alle verità annunciate da Cristo su Dio, sull'uomo e sul mondo è la filosofia cristiana.“ -
—
-
-
UNA METAFlSiCACRISTIANA DELLA LIBERTÀ
esegesi biblica e creatore della teologia sistematica, Origeeccellente metafisico. Egli sentiva il bisogno di creare una grande impalcatura metafisica in grado di contenere e sorreggere tutte le Verità che la rivelazione biblica e la sapienza filosofica avevano messo a disposizione dell'intelligenza umana. Da una parte C'era il grande modello della metafisica platonica, che a sostegno del mondo sensibile presentava un vasto mondo intelligibile; dall'altra c'era il quadro ricchissimo dei misteri cristiani, che però erano disposti secondo una sequenza storica senza nessi speculativi. Origene intravede la possibilità di fondere in una grande sintesi la metafisica platonica e i dogmi cristiani Padre della
ne era
anche
un
dando così vita alla nuova impalcatura della metafisica cristiana. I germi di una metafisica cristiana c'erano già in Clemente ma si trattava ancora soltanto di abbozzi. Origene passa dalle felici intuizioni del maestro al sistema, grazie alla scoperta di un principio capace di unificare tutta la realtà: è il principio della libertà. Dalla munifica libertà di Dio traggono origine tutte le creature, che all'inizio sono tutte spirituali e tutte dotate di libertà e che in seguito si dispongono secondo un ordine gerarchico in base all'uso che fanno della libertà. Così Origene Costruisce una metafisica della libertà che è indubbiamente una metafisica cristiana, perché, come sappiamo, la libertà è una delle grandissime acquisizioni del cristianesimo.
38)
39) 4°)
Ibid. Ibid. Cf. H. CROUZEL,
Origène et la philosophie, Parigi 1962.
52
Parte prinza
Così mentre la metafisica di Clemente era
una
metafisica
”gnostica”
che restava ancora all'interno della prospettiva intellettualistica della metafisica classica, Origene ne dischiude una diversa e nuova interpretazione, che più tardi sarà ripresa e approfondita da Agostino, BonaVentura, Scoto: cioè quella della metafisica volontaristica, che si basa sul primato della Volontà e della libertà rispetto all’intelletto e alla contem-
plazione.
Come tutte le metafisiche di stampo platonico, anche la metafisica cristiana di Origene procede ”dall’alto”. Così, nei Principi l'ordine della trattazione è il seguente: la Trinità, la creazione, la degradazione e cadu-
.
ta, le nature razionali, gli esseri incorporei, gli angeli, il mondo, l'incarnazione del Salvatore, Yanima, il libero arbitrio, i movimenti delle creature razionalibuone e cattive, la fine. Dominata dal principio della libertà, la struttura dell'universo origeniano è altamente dinamica a ogni livello, e l'instabilità nel bene che caratterizza le creature al momento della loro creazione permane immutata: ogni creatura, sia nel premio (angeli) sia nella punizione più (demoni) o meno grave (uomini) preserva la prerogativa del libero arbitrio, che permette a chi ha peccato di purificarsi e di risalire all'antica condizione, ma fa anche si che la creatura che si trova attualmente nel possesso del bene lo possa perdere per sua colpa e precipitare nel peccato, allontanandosi da Dio in maniera più o meno rilevante. Abbiamo così passaggi dall'una all’altra categoria di esseri: i demoni possono diventare uomini e poi angeli; gli uomini possono progredire al rango angelico o regredire a quello demoniaco: mentre gli angeli possono degradarsi fino a diventare uomini e diavoli. Come si vede, nell'universo metafisico origeniano la libertà regna veramente sovrana. DIO 1: LA TRINITÀ
Come si è detto, il primo argomento di cui Origenesi occupanei Principi è il mistero trinitario, che Viene svolto studiando distintamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Nella trattazione di questo mistero Origene non dipende né poteva dipendere da Plotino come frequentemente si afferma —, perché Plotino era molto più giovane di lui, e di lui Origene ignorava sia le opere che il pensiero. Del resto, se avesse conosciuto la dottrina plotiniana delle tre ipostasi primarie ed eterne (l’Uno, il Nous e la Psychè) avrebbe certa-
mente dato una formulazione migliore del mistero trinitario, specialmente per quanto attiene la terza persona, lo Spirito Santo. Inoltre soltanto trattando del Padre, che per Origene e sinonimo d_i_[_)io_(h0 egli attinge abbondantemente alla filosofia: mentre per parlare del Figlio
tlz/eòs),
Clemente e
e dello Spirito Santo, la Scrittura.
sua
fonte
Origcne
principale, quasi esclusiva, è
53
la Sacra
Dio è quella di assolutamente il carattere spiriaffermare, soprattuttoueontjrogli fitoici, tuale e quindi incorporeo della sua naturaÌScrive Origene: «Non si deve credere che Dio sia corpo o sia racchiuso in un corpo, bensì che egli è di natura intellettuale semplice, cui assolutamente nulla si può aggiungere, perché non si pensi che Egli abbia in sé qualcosa di più o di meno: ma Egli è in senso assoluto monade e, per così dire, enadeî‘ intelligenza e fonte da cui deriva ogni intelligenza e tutta la sostanza intellettuale» La
prima preoccupazione di Origene trattando di
(I, 1, 6).
Come
Filone, a sostegno della ineorporeità di Dio Origene adduce
l'argomento della immaterialità della nostra intelligenza: «L'intelligenza per muoversi ed agire non ha bisogno di spazio materiale né di dimensione sensibile né di figura corporea o di colore, né assolutamente di alcuna di quelle che sono le proprietà del corpo e della materia. Perciò quella natura semplice, che è tutta intelligenza, per muoversi ed agire non può trovare ritardo e indugio: altrimenti sembrerebbe che per tale aggiunta sia in qualche modo limitata e impedita la semplicità della sua natura divina: sarebbe composto e molteplice ciò che è principio di tutte le cose: e sarebbe molteplicità e non unità ciò che, privo di ogni mesco-
lanza corporea, deve consistere, per COSÌ dire, nella sola forma della divinità» (I, 1, 6). Il linguaggio di questi passi è quello proprio della metafisica platonica e medio-platonica. Dio è monade o enade, realtà semplicissima e unica, appartenente al mondo intelligibile(kosmos noetòs) e non a quello sensibile:la sua natura e tutta intelligenza, Assolutamente trascendente il mondo della materia, Dio supera infinitamente anche la Capacità di comprensione della nostra intelligenza: «La sua realtà è incomprensibilee imperscrutabile. Qualunque cosa infatti potremo pensare e comprendere di Dio, dobbiamo credere che Egli sia di gran lunga superiore a ciò che di Lui pensiamo (...). Fintanto che la nostra intelligenza è chiusa nelle angustie della carne e del sangue ed è resa più tarda ed ottusa dal contatto con questa materia, anche se al confronto della natura corporea è di gran lunga s periore, tuttavia quando tende alle realtà incorporee e Cerca di compr nderle, ha a stento il valore di una scintilla o di una lucerna. Ma fra le realtà intellettuali, cioè incorporee, che cosa è tanto superiore a tutti, tanto ineffabilmentee inestimabilmenteeccellente quanto Dio? Perciò la sua natura non può essere compresa dalla Capacità della mente umana, anche se è la più pura e limpida» (l, 1, 5).
54
il
Parte prima
lneornprensibilenella sua natura e indefinibilenella sua essenza, Dio,
PadreÎ/non rimane tuttavia inaccessibileall'intelligenza umana, per-
ché, pur non potendo con le sue forze concepire Dio quale è in se stesso, tuttavia «dalla bellezza delle sue opere e dalla magnificenza delle sue
creature, essa lo riconosce padre dell'universo» (I, 1, 6). Origine di ogni essere e di ogni vita, il Padre è anche origo orrmium divinitatis. In lui ”è” l'unità positiva di Dio. Pertanto contro lo gnostifici-
4
smo di Marcione Origene riafferma l'unità armoniosa dell'economia trinitaria, quale disegno misericordioso e provvidenziale di Dio per l'uomo. ll Padre è Purché (origine) e da lui scaturiscono, in modo derivato,
Spirito. Il Figlio non e creato e non è "emanato" ma è di una "generato", generazione spirituale, esente da ogni corporeità, e ab aeterno. Il Figlio è perfettamente consostanziale al Padre, è Figlio per natura e non per adozione, pertanto egli è homoousios (della stessa sostanza del Padre). Tuttavia il Figlio è ministro del Padre, a lui subordinato. Solo il Padre ‘e uno, mentre il Figlio, il Logos, è uno e molti, esprime molteplici attività, come insegna la Scrittura. Questa subordinazione è anche in Dio stesso. Infatti, tutti i poteri e tutte le perfezioni sono anzitutto del Padre e lo sono in grado sommo, e poi del Figlio: «anche nel conoscere il Padre è maggiore del Figlio, sì che egli è conosciuto da se stesso in maniera più pura e perfetta di quanto sia CDHOSCÌUÎD dal sia il Figlio che lo
FlgllO»
Clemente e
Origene
55
stioni, sarà necessario esporre l'attività specifica dello Spirito Santo e l'attività specifica del Padre e del Figlio. Dio padre, che tutto abbraccia,
giunge a ciascuno degli esseri facendolo partecipare del suo essere e facendolo essere ciò che è: il Figlio è inferiore rispetto al Padre giungendo soltanto alle creature razionali, infatti è secondo dopo il Padre; ancora inferiore è lo Spirito Santo che giunge solo ai santi. Perciò la potenza del Padre è maggiore di quella del Figlio e dello Spirito Santo; quella del Figlio è maggiore rispetto allo Spirito Santo; quella dello Spirito Santo a sua volta è maggiore rispetto agli altri esseri santi» (I, 3, 5). Questo passo attesta l'ambiguità del pensiero originario nella questione trinitaria: da una parte si vede la sua volontà di affermare la divinità delle tre divine persone, dall'altra è evidente la tendenza verso un marcato subordinazionismo, assegnando l'attività ontologica più importante al Padre. In questo testo si può cogliere anche una certa analogia tra le attribuzioni ipostatiche di Origene e quelle di Plotino, ma è evidente anche la differenza. Infatti in Plotino principio dell'Intelligenza è l’Uno; mentre Ylntelligenza è principio dell'Essere, e l’Anima è principio della Vita. Ma come abbiamo già osservato, Origene ignorava il pensiero di Plotino, mentre è molto probabileche Plotino conoscesse quello di Origene. LA CREAZIONE
Origenc fa suo il principio chiave della metafisica cristiana, il teoredella creazione. Con Clemente egli afferma che tutto ciò che non è Dio è stato tratto dal nulla. Lui è l'unico principio di tutte le cose. Anche la materia ‘e creata e, perciò, non può essere coeterna a Dio: «Tutte le
ma
cose sono
state create da Dio
e
nulla c'è che da lui non abbia avuto l'es-
perciò Vanno rifiutate e respinte le false affermazioni di taluni sulla materia coeterna a Dio o sulle anime ingenerate cui Dio avrebbe dato non tanto l'esistenza quanto l'ordine e la condizione di vita» (l, 3, 3). Mentre Origene non nutre dubbi circa il fatto della creazione, egli avverte un grave problema per quanto concerne il tempo: la creazione ha avuto luogo sin dall’eternità, come insegnavano i filosofi oppureflè sere;
tempo, come afferma la Scrittura? Origene premette che non c’è mai stato un momento in cui Dio sia rimasto ÎTÌOPGTOSO: «Dio, buono e padre benigno di tutti, è potenza che insieme benefica e crea. Ed è assurdo ed empio pensare che anche per un solo istante queste facoltà siano state inerti, poiché non è lecito supporre anche stata realizzatanel
sfuggita che le facoltà alle quali principalmente dobbiamo un degno concetto di Dio, siano state un momento immobili,senza ope-
solo di
56
Parte prima
rare in maniera degna di sé. Infatti non dobbiamo pensare che le facoltà che sono in Dio, anzi che sono Dio, siano state impedite dall'esterno, ma d'altra parte non dobbiamo credere che, non essendoci alcun ostacolo, esse si siano infastidite e abbiano trascurato di operare ciò che fosse degno di loro. Perciò non possiamo supporre neppure un momento in cui quella facoltà benefica non abbia operato il bene. Ne risulta che sono sempre esistiti gli oggetti cli tale bene, cioè atti di creazione e creature, e che la facoltà di Dio beneficandosecondo l'ordine ed il merito abbia dispensato a queste benefici in virtù della sua provvidenza. Di qui ricaviamo che non c'è stato momento in cui Dio non sia stato benefico e provvide» (I, 4, 3).
Ma se Dio non è mai stato inoperoso, ciò significa che il mondo è eterno? Origene trova una risposta a questo difficile quesito, distinguendo con Platone tra mondo delle idee e mondo reale. Il primo, che Contiene le idee di tutto ciò che è stato creato, è sempre esistito nel Logos, la divina Sapienza: invece il secondo ha avuto inizio nel tempo.
«Orbene, in questa Sapienza, che
contenuta,
era
sempre col Padre,
era
sempre
preordinata sotto forma di idee, la creazione, sì che non c'è
stato momento in cui l'idea di ciò che sarebbe stato creato non era nella la Sapienza sapienza (...). E se tutto è stato fatto nella Sapienza, è sempre stata, precostituiti sotto forma di idee sempre esistevano
poiché
nella Sapienza gli esseri che successivamente sarebbero stati creati anche secondo la sostanza (...). Pertanto se tutto ciò che è sotto il sole è esistito già nei secoli che sono stati prima di noi, poiché non c'è nulla di nuovo sotto il sole, senza dubbio sono sempre esistite tutte le cose, i generi e le specie, e si potrebbe dire anche ciò che è numericamente uno. Comunque, in ogni modo risulta chiaro che Dio non ha cominciato a creare in un dato momento. mentre prima non lo faceva» (l, 4, 4-5).
Origene._giudica questa sua soluzione adeguata e soddisfacente: «Mi sembra che forse in questo modo noi, nei limiti della nostra pochezza, possiamo pensare Dio in maniera ortodossa, poiché non diciamo le creature ingenerate e coeterne a Dio, e d'altra parte neppure che Dio, non avendo fatto prima niente di buono, abbia cominciato ad operare in seguito a un cambiamento» (I, 4, 5). Ma non sono stati dello stesso avviso molti studiosi di Origene, che lo hanno accusato di considerare il mondo coeterno a Dio. E questa concezione gli è comunemente attribuita anche da studiosi moderni. Eppure, come ben rilevano Crouzel, Orbe, Simonetti e altri, dai passi che abbiamo riferito risulta che l'unico mondo di cui Origene ha ammesso la coeternità rispetto al Padre è il mondo delle idee collocato nel Figlio. Ciò che si può rimproverare ad Origene è di usare il termine "creazione” con una certa leggerezza. In effetti non si può dire che le idee
Clemente e
Origene
57
archetipiche che abitano nel Logos siano state ”create”: la crepitio ex nihilo si riferisce al mondo reale e non a quello ideale. Dal punto di vista metafisicoQrìgene realizza invece una grande conquista togliendo le Idee dall’lperuranjo e inserendole nella Mente divina, il Logos. Con questa operazione egli riesce ad eliminare quel doppione del mondo sensibile, che era il principale rimprovero che Aristotele muoveva a Platone. Su questa via si era già incamminato Filone, il quale tuttavia concepiva la Idee sia come pensieri della Mente divina sia come realtà sussistenti create dalla potenza di Dio. Questa ambiguità è completamente rimossa da Origene. LE CREATURE RAZIONALÌ
Singolarissima e assai discussa è la dottrina di Origene sulla condizione delle creature razionali. Si badi bene che si parla di creature razionali e non di creature spirituali, perché mentre è assolutamente fuori discussione che per Origene Dio è incorporeo, e quindi spirituale, pare invece che egli ritenga necessario per tutte le creature, compresi gli angeli, il possesso di un corpo. Abbiamogià presentato la metafisica di Origene come una metafisica dellaglibertà. La libertà è anzitutto perfezione essenziale di Dio: Egli è libero e crea liberamente. Ma la libertà, secondo Origene, è anche dote essenziale e non eliminabiledi tutte le creature razionali, e sulla libertà si regge tutta la struttura dell'universo creato. Le creature razionali sono suddivise da Origene in tre ordini: creature angeliche, uomini e demoni.
L'appartenenza a
un ordine o a un altro non dipende dalla volontà di bensì dalla libera scelta della creatura. AppartengonoealPordine Dio, angelico le creature che aderiscono fermamente ‘al Bene; all'ordine umano quelle che aderiscono al Bene con esitazioneed-incostanza; infine appartengono all'ordine demoniaco quelle che aderiscono con tenacia al male. Secondo Origene l'appartenenza a un ordine o a un altro non è mai definitiva, perché il libero arbitrio rimane sempre prerogativa essenziale della creatura razionale, e con questa facoltà essa è sempre in grado di cambiare la propria collocazione nell'universo: l'angelo può diventare demonio e viceversa, il demonio può diventare angelo. Ecco il testo di esemplare chiarezza in cui Origene ha proposto questa ardita e assai controversa teoria: i
l
«Questi
tre nomi
(creature celesti, terrestri e infernaliiindicano il
complesso di tutti gli esseri creati, cioè tutti coloro che avendo avuto unica e uguale origine, variamente spinti ognuno dai suoi impulsi, sono stati distribuiti in diversi ordini a seconda dei loro meriti, poiché
58
Parte prinza
in tutti costoro il bene non era presente in maniera sostanziale, come invece in Dio, in Cristo e nello Spirito Santo. \ «Infatti nella sola Trinità, che è il Creatore di tutte le cose, il bene esiste in modo sostanziale: gli altri esseri lo posseggono in forma accidentale e tale che può venir meno, e si trovano nella beatitudine solo allorché "
partecipano della santità, della sapienza e della stessa divinità. Se però trascurano questa partecipazione, per la propria inerzia, chi prima chi dopo, chi più chi meno, diventano causa della propria caduta. Poiché, come ho già detto, grandissima è la varietà di queste cadute, per cui uno decade dalla propria condizione, in rapporto ai movimenti della mente e della volontà, in quanto uno più leggermente uno più gravemente scende in basso, il giusto giudizio della Provvidenza fa sì che ad ognuno tocchi ciò che merita per il suo peccato in rapporto alla
diversità dei movimenti e delle scelte. Fra coloro che sono rimasti nella condizione iniziale (...) alcuni sono assegnati all'ordine degli angeli, altri delle potenze, altri dei principati, altri delle potestà (...). in «Coloro poi che sono decaduti dalla primitiva beatitudine, ma non maniera irrimediabile, sono assoggettati, per essere amministrati e retti, agli ordini beati di cui sopra abbiamo parlato, perché usando del loro aiuto, migliorati da precetti e da insegnamenti salutari, possano essere restituiti alla primitiva condizione di beatitudine. Per quanto posso supporre, credo che di costoro è formato l'ordine degli uomini
(..,).
«Anche coloro che agiscono sotto il comando del diavolo (...) negli ultimi tempi e per mezzo di pene più pesanti e dolorose, lunghe e sopportate, per così dire, per molti secoli, tutti rinnovati dagli insegnamenti e da severe correzioni saranno reintegrati prima fra gli
angeli poi fra le gerarchie superiori; e così assunti gradatamente sempre più in alto arriveranno fino alle realtà invisibilied eterne, dopo aver percorso uno per uno gli uffici delle gerarchie celesti al fine di essere istruiti. Di qui, come penso, si deduce che ogni creatura razionale può passare da un ordine all'altro e giungere, uno per uno, da tutti a tutti, poiché ciascuno in forza del libero arbitrio progredisce e regredisce variamente in relazione ai propri movimenti ed impulsi» (I, 6, 2-3).
In tale incessante cambiamento si inserisce l'azione salvifica del Logos, iniziata già dopo il peccato, al fine di recuperare tutte le creature razionali decadute nel male e di riportarle alla condizione iniziale, che costituirà la condizione finale. In quest'opera di salvezza sono coinvolti anche gli angeli buoni, i quali offrono il loro servizio per riabilitarel'uomo verso la scelta del bene e il progresso continuo in esso. Ogni angelo ha una mansione diversa dagli altri in forza dei propri meriti, dello zelo e delle virtù manifestate prima della organizzazione del mondo. Scrive Origene: «Nell'0rdine degli arcangeli, è stato attribuito a ciascuno questo o quel genere d'ufficio: altri hanno meritato d'essere iscritti nell'ordine degli angeli e di agire sotto l'autorità di questo o quell'arcangelo, di
Clemente e Origenc
59
questo 0 quel capo 0 principe del suo ordine» (I, 8, 1). Agli angeli e stato concesso di ordinare e governare l'universo, alle potenze di esercitare il loro influsso su coloro che hanno bisogno di avere potenza nei loro comandi, ai troni di giudicare e di dirigere coloro che ne hanno bisogno, alle dominazioni di governare i servì. Ai meriti di ogni angelo corrisponde il giudizio equo e giusto di Dio, il quale affida a ciascuno la mansione corrispondente alle sue virtù e ai suoi talenti, senza cadere in parzialità. Tutto è ordinato dalla superiore sapienza divina, per cui nulla
avviene a
caso o
disordinatamente.
L'Uomo Secondo Origene, dote fondamentale, primaria dell'uomo, come del resto di qualsiasi altra creatura razionale è il libero arbitrio. In effetti, in quanto essere razionale, l'uomo «oltre la capacità rappresentativa possiede anche la ragione, che giudica le rappresentazioni respingendone alcune e accettandone altre. D'altra parte, poiché nella natura della ragione c'è la capacità di giudicare il bene e il male, noi in base ad essa giudichiamo il bene e il male, scegliamo il bene ed evitiamo il male, e siamo degni di lode se ci diamo alla pratica del bene, degni di biasimo se facciamo l'opposto» (III, 1, 3). L'uomo a Causa del cattivo uso del libero arbitrio da parte dell'anima, proprio da quel momento è costituito "naturalmente" oltre che di anima anche di corpo (cf. IV 4, 8). Sulla natura dei rapporti tra anima e corpo il pensiero di Origene non risulta abbastanza chiaro: da una parte egli sembra concepire la corporeità come un fenomeno accidentale e provvisorio, dovuto all'abuso del libero arbitrio; dall'altra, invece, sembra considerarla un elemento conIn quesostanziale all'anima razionale, quale sigillo della sua sarebbero la più concepista seconda ipotesi la materia e corporeità non te come principi fisici ma metafisici, connessi con la mutabilità e l'imperfezione della creatura razionale. Lì materia diviene allora un concetto limite: è cioè l'espressione della mutabilità e dell’imperfezione dell'anima. E alla luce di questo concetto si comprende come Origene possa affermare che solo la Trinità, in quanto perfetta e immutabile,è incorporea. Questo viene, però, a complicare un po’ le cose per quanto concerne la spiritualità dell'anima, che Origene afferma e dimostra con notevole sicurezza. A coloro che sostengono che l'anima è corporea infatti replica:
finitczza},
rispondessero come mai essa sia in grado di accogliere dimostrazioni di argomenti così importanti, difficili e sottili. Donde a lei la capacità della memoria, donde la capacità di contemplare le realtà invisibili,donde deriva al corpo la comprensione di realtà certamente incorporee? In che modo una natura corporea «Vorrei che mi
spiegazioni e
Parte prima
60
può applicarsi allo studio delle scienze e cercare la spiegazione razio-
nale delle cose? Donde deriva la conoscenza e intelligenza anche delle verità divine che manifestamente sono incorporee? A meno che uno creda che, come la figura del corpo e la forma delle orecchie o degli occhi conferisce una certa attitudine a udire e vedere, e come le singole membra, che sono state modellate da Dio, ricevono dalla loro forma una certa propensione a ciò che per natura è la loro funzione, analogamente si debba pensare che la forma dell'anima e della intelligenza sia stata modellata esattamente perché essa possa conoscere e intendere le varie cose e sia mossa da impulsi vitali. Ma in riferimento al fatto che l'intelligenza esiste e si muove intellettualmente non riesco a comprendere quale colore uno le possa attribuire» (I, 1, 7).
Notevole anche
l'argomento con cui Origene dimostra Hmmortafità
dell'anima: anch'egli si richiama all'agire spirituale dell'anima, in particolare la conoscenza di Dio. Secondo Origene sarebbe stato empio supporre «chelintelligenza, che è capace di accogliere Dio, possa essere soggetta alla morte secondo la sostanza, quasi che il fatto di comprendeDio
sia sufficiente ad assicurarle l'eternità. Infatti, anche se l'intelligenza per trascuratezza perde la capacità di accogliere Dio in sé in maniera pura e integra, conserva però in sé la possibilità di ricuperare una migliore conoscenza, allorché l'uomo interiore, che è detto anche razionale, Viene reintegrato nell'immagine e nella somiglianza di Dio che lo ha creato» (IV, 4, 9). Oltre che di anima e di corpo spesso Origene presenta l'uomo come dotato anche di spirito (pneuma): «L'uomo è composto di anima e spirito» (IV, 2, 4). Lo spirito è la sua parte migliore, ciò per cui l'uomo trascende se stesso e diviene partecipe della vita divina: «Questo spirito precisa Origene non è lo Spirito Santo, ma parte del composto umano come insegna lo stesso Apostolo».41 È quindi, senza dubbio, spirito dell'uomo. Ma appartiene all'uomo più come capacità passiva che attiva: esso funge da soggetto dell'azione dello Spirito Santo. «La natura umana è debole, e ha bisogno dell'aiuto divino per divenire più forte. Leggiamo che "la carne è debole". Con quale mezzo può dunque essere fortificata? Certamente con l'aiuto dello spirito: "Lo spirito infatti è pronto, ma la carne e debole” (Mt 26, 41). Chi vuole diventare più forte non deve fortificarsi che nello spirito. Molti si fortificano nella carne, rinvigoriscono il corpo; ma l'atleta di Dio si deve fortificare nello spirito, e quando si sarà così rinvigorito, Calpesterà la sapienza della carne e, divenuto spirituale, assoggetterà il corpo alla potestà dell’anima».4l re
non
corpo,
—
-
41) Heraclr, VII, 20. 42) Commento a Luca, Serm. 11, 3.
Clemente e
Origerte
61
è la parte migliore dell'uomo: ciò per cui egli trascende se stesso. Ma in che cosa consiste più precisamente la trascendenza dello spirito? E. I. Dupuis, che ha dedicato uno studio particolareggiato alla concezione origeniana dello spirito dell'uomo, dichiara: <
Lo
spirito
distinto e trascendente, la presenza santificatrice dello
Spirito divino».44
Lo spirito vivifica per una vita qualificata: la vita divina; rende cioè partecipi della vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La triplice
partecipazione alla vita divina avviene come segue: «Mentre per prima gli esseri hanno l'essere dal Padre, per seconda cosa l'essere razionali dalla Ragione (logos) divina, per terza l'essere santi dallo Spirito Santo, d'altra parte diventano capaci di accogliere Cristo in quanto giustizia di Dio quelli che già prima saranno stati santificati dallo Spirito Santo, e l'azione di Dio che comunica a tutti l'essere, risulta più splendida e più radi0sa»_45 Un ruolo importante nell’antropologia origeniana assume il concetto di imago DeifiCommentando il versetto biblico: «Dio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1, 26) Origene distingue due livelli di iconicità: quello originario (della creazione) e quello conclusivo (della beatificazione).Il primo è quello della semplice immagine ed è esclusivamente dono di Dio; il secondo, che è quello della somiglianza, oltre che dono di Dio è anche conseguenza dellbperosità umana: «così, essendogli stata concessa all'inizio la possibilità della perfezione per mezzo della dignità dell'immagine, l'uomo può alla fine realizzare la perfetta somiglianza per mezzo delle 0pere».4‘= Il peccato non distrugge Fimago Dei ma la guasta profondamente, tanto da trasformarla da immagine di Dio in immagine dell'uomo terrestre: «Ci sono due immagini dell'uomo: una, quella che l'uomo ha ricevuto da Dio al tempo della creazione, come dice la Genesi: ”a immagine e somiglianza di Dio" (Gen 1, 27); l'altra è l'immagine dell'uomo "terrestre", che egli ha ricevuto più tardi a causa della sua disobbedienza e del suo peccato, quando fu cacciato dal paradiso, sedotto dalle lusinghe del "principe di questo mondo" (Gv 12, 31). Come una moneta o un denaro, porta l'effigie dell'imperatore da mondo, così chi compie le opere del cosa
43)
E.
I. DUPUIS, L’Esprit de l'homme. Efude sur Fanfhrapologie religieuse d'Origèrze,
Bruges 1967, p. 9. 44) lbid., p. 109. 45) Principi, I, 3, 8. 46) Haiti, III, 6, 1.
62
Parte prima
principe delle
tenebre porta l'immagine di colui di cui ha compiuto le E Gesù ordina di restituire questa immagine e di" strapparla dal opere. loro volto, per riprendere quella secondo la quale all'origine noi fummo creati a somiglianza di Dio».47 Come si vede, sia Yimago che la similitudo sono intese da Origene non come qualità statiche ma fortemente dinamiche, che possono crescere o diminuire sia per opera dell'uomo sia per grazia di Dio.48 «I segni dell'immagine divina si riconoscono non nella figura del corpo che è corruttibilema nella prudenza, giustizia, moderazione, virtù, sapienza, disciplina dell'anima, di tutto quel complesso di virtù, che in Dio sono presenti in maniera sostanziale e che possono trovarsi nell'uomo grazie alla sua operosità e alla imitazione di Dio».49 Per accostarsi sempre più al modello divino, migliorando un po’ alla volta la propria similitudo, l'uomo deve cercare di riprodurre in se stesso, nella propria condotta, lelfatièzkie di quella che è l'immagineperfetta di Dio, il Cristo, il Logos incarnato. «Alla maniera di coloro che dipingono immagini e, una volta scelto ad es. il volto di un re, rivolgono la loro abilità artistica a un modello unico, così ciascuno di noi, trasformando la sua anima a immagine di Cristo, compone di lui un'immagine più o meno grande, talvolta trascurata e sporca, talaltra chiara e luminosa e rispondente all'originale. Quando dunque avrò fatto grande l'immagine dell'immagine, cioè la mia anima, e l'avrò magnificata con le opere, con il pensiero, con la parola, allora l'immagine di Dio diviene più grande, e lo stesso Signore, di cui l'anima è l'immagine, è magnificato nella nostra anima».50 IL METODO ALLEGORICO
grandissimo metafisico, Origene è stato anche un geniale brillante esegeta. E la sua esegesi della Scrittura gioca un ruolo fondamentale anche nella sua metafisica e nella sua teologia. Per quanto concerne l'interpretazione della Sacra Scrittura Origene è stato per il cristianesimo quello che era già stato Filone per l'ebraismo. In questo campo il giudeo di Alessandria fu il maestro sia di Clemente che di Origene. Entrambi apprendono da Filoneil metodo dell'interpretazione allegorìca o simbolica della Scrittura, ma rispetto a Filone ne allargano immensamente il campo, perché tutto l'Antico Testamento diventa allegoria del Nuovo e Cristo diviene il centro di tutte le trame Oltre che
teologo e
un
47) Conzmento a Luca, Serm. 39, 5. 4*‘) Cf. H. CROUZEL, Théologie de l'image de Dieu chez Origèize, Paris 1956. 4") Principi, IV, 4, 10. 5“) Commento a Luca, Serm. 8, 2.
Clemente e
Origene
63
simboliche. Ma mentre Clemente si
era accontentato di fare delle sempliapplicazioni del metodo allegorico, Origene nei Principi stende il primo trattato di esegesi biblica, fissando criteri precisi sia per l'interpre-
ci
tazione letterale sia per la simbolica. E
pera.“
questo il tema del IV Libro dell'0-
Origene, come si sa, è uno dei massimi assertori e uno dei più geniali interpreti del significato allegorico della Scrittura. Per lui il simbolismo
biblico è
una delle Verità fondamentali del Cristianesimo. Già nella “Prefazione” dei Principi leggiamo: «È tramandato (dalla predicazione apostolica) che le Scritture sono state composte per opera dello Spirito di Dio e contengono non solo quel significato che è manifesto, ma anche un altro che sfugge ai più. Infatti ciò che è scritto è figura dei misteri ed immagine di realtà divine. Su questo punto una sola è la convinzione di tutta la Chiesa: che tutta la legge è spirituale (Rm 7, 14); ma quello che la legge vuole spiritualmente significare non e noto a tutti, ma soltanto a coloro cui nella parola di sapienza e scienza (1 Cor, 12, 8) è stata donata la grazia dello Spirito santo».52 «Non si deve pensare che i fatti storici siano figure di fatti storici e le realtà corporee di realtà corporee, ma le realtà corporee sono figure di realtà spirituali e i fatti storici degli intelligibilìmì"? Ma anche la conoscenza di Dio attraverso il simbolismo biblico non è cosa facile: la si acquista solo a prezzo di studio assiduo, di intelligenza acuta e di fede profonda. E anche con queste disposizioni si otterrà sempre una conoscenza limitata. .
pietra, la quale pietra è Cristo, affinché attraquesta spalle, ossia affinché tu possa contemplare alla fine dei tempi, per mezzo dell'incarnazione, ma non potrai mai veder la mia faccia».54 «Per coloro che attendono alla sapienza e alla conoscenza non c'è traguardo. Infatti che limite si può assegnare alla conoscenza di Dio? Più ci si avvicina e più si scoprono abissi; più la si scruta e più ci si accorge che è ineffabillee incomprensibile,La Sapienza di Dio, è impossibile comprenderla e giudicarla (...). Quando si è progrediti un po’ nella conoscenza, quando si acquista un po’ d'esperienza, si sa che, dal momento in cui si è giunti a una certa contemplazione e scienza dei misteri spirituali, l'anima vi dimora come in una tenda, Ma ciò che s'è trovato spalanca nuove prospettive e introduce alla compren«Io farò
verso a
51) 52)
53) 54)
un
buco nella
stretta fessura tu possa vedere le mie
Sul pensiero esegetico di Origene si veda H. DE LUBAC, Storia e spirito. prensione della Scrittura secondo Origene, Roma 1971. De principiis, l, Pref. 8. Com. in Inlumnenz 10, 18. Hom. in Ps. 36, 4, l.
La
com-
64
Parte prima
sione di altre verità: occorre allora levare le tende, portarsi più in alto e stabilirvi la dimora dell'intelligenza, fissata in questo luogo dalla solidità dei significati che vi trova. Di nuovo, questi significati la conducono ad altri significati spirituali, che derivano dai primi come conseguenza certa e così, andando sempre avanti, l'anima pare passare di tenda in tenda. Non c'è istante in cui l'anima, che ha acceso la fiaccola della conoscenza, possa oziare e riposare; essa ‘e continuamente sospinta dal bene al meglio e da questo a qualcosa di ancor più
perfettomî"
«Le P arole di Cristo sono sem re comP.iute, ma allo stesso tem o sono anche in via dl compimento; ogni giorno esse S1 compiono, eppure il loro compimento non è mai terminato».56 .
.
.
.
.
.
.
Ciò fa parte della natura stessa dell'uomo, la quale è essenzialmente quella di un cercatore: «egli si rinnova ogni giorno».57 Il progresso non s’arresta neppure in Cielo, «perché la conoscenza dei segreti si rinnova continuamente, come pure la rivelazione degli arcani da parte della Sapienza divina, non soltanto agli uomini, ma altresì agli angeli e alle virtù celesti».58 Alla fine del De principiis, commentando il testo di Isaia sui Serafini, Origene spiega che essi velano la faccia e i piedi di Dio, perché il principio delle cose e di Dio, cioè gli archai, e la fine delle‘ cose e di Dio, ossia i tele, sono velati. Perciò, prosegue Origene, «riteniamo che questi beati spiriti e potenze sono vicini ai princìpi delle cose e li conoscono più di quanto non li conoscano le altre creature: tuttavia, per quanto esteso possa essere ciò che queste potenze hanno conosciuto per rivelazione del Figlio di Dio e dello Spirito Santo, per quanto numerose possano essere le cognizioni che hanno potuto ottenere, molto più numerose di quelle che hanno le creature inferiori, ‘e per loro impossibilecomprendere tutto, perché sta scritto: la maggior parte delle opere di Dio restano nascoste (Eccli. 16, 21)».59 La questione più spinosa per mente
antropomorfico che
Yesegeta veniva dal linguaggio pesantela Sacra Scrittura usa spesso per parlare di
Dio. Quale senso dare a questo linguaggio? Questa questione era stata sottovalutata dai predecessori di Origene, Filone e Clemente, ma ai suoi tempi essa si imponeva con singolare gravità e urgenza in conseguenza delle difficoltà sollevate da Celso contro il linguaggio antropomorfico
55) 55) '57) 53) 59)
Hom. in num. 17, 4. In Mattheitnz com. scr. 54 in G. C. S. II, pp. 123-124. In Ezech. Hom. 13, 2. Cant. com. 2 in G. C. S. Vlll, p. 186. De principiis, 1V, 3, 14..
Clemente e
Origene
65
delle Scritture. Questi aveva affermato che Dio è inconoscibilee ineffabile e aveva trovato scandaloso il linguaggio antropomorfico della Bibbia. Tale linguaggio, a suo avviso, non fa conoscere nulla di Dio, anzi lo
rende maggiormente incomprensìbilefi" Prendendo le difese del linguaggio della Sacra Scrittura, Orìgene concede a Cclso che le espressioni antropomorfiche non possono e non devono essere intese letteralmente e condannagli eretici, i quali calunniano Dio attribuendogli letteralmente le passioni di cui parla la Scrittura.“ «Non si deve credere che ciò che chiamiamo ”collera” nel caso di Dio sia una passione. Come infatti sarebbe possibile che ci siano passioni in colui che è assolutamente senza passioni? Dio non patisce; è immutabileméî«Quando la Scrittura dice che Dio si lamenta o gode, odia 0 esulta, si deve capire che questo è espresso in modo figurato o antropomorfico. La natura divina non viene mai toccata dalla passione o dal mutamento; essa si trova perpctuamente in stato di beatitudine>>f=3 Però Origene respinge la tesi di Celso secondo cui il linguaggio antropomorfico sarebbe privo di qualsiasi significato e non potrebbe esprimere nulla della realtà di Dio. Contro questa tesi egli afferma che anche il linguaggio antropomorfico ha un suo valore e significato. Per provarlo adduce il seguente argomento: «Chi è in grado di esprimere a parole la differenza tra la dolcezza di un dattero e quella di un fico? E chi può distinguere a parole le qualità proprie di ciascun essere?...».64 Ciononostante nessuno di noi osa squalificare il nostro linguaggio. Altrettanto si deve dire anche del linguaggio antropomorfico che adoperiamo per parlare di Dio: «Se si concepisce la possibilitàdi suggerire con parole qualcosa che riguarda Dio come un modo di guidare l’udit0re e di fornirgli qualche pensiero su di Lui secondo le capacità dalla natura umana, allora non avrà nulla di strano il dire che Dio può essere denominato mediante le nostre parole>>fi5 Ma come si fa a stabilire esattamente il significato del linguaggio antropomorfico allorché ha per referente Dio? Origene propone il seguente criterio: «Tutto ciò che si dice di Dio secondo il corpo, dita, mano, braccia, occhi, bocca, piedi, non indica membra umane come le nostre, ma designa col nome delle membra corporee le sue facoltàmfi‘)
6D) Cf. C. Celsum, VI, 65. '51) Cf. De principiis, IV, 2, 1. 62) Frag. in Iohmmcm in G. C. S. IV, p. 526. 53) Hom. in nunL, 23, 2. 64) C. Celsum, VI, 65‘ 65) Ibid. 66) Cf. De principiis, ll, 8, 5.
Parte prima
66
come individuare esattamente le facoltà o potenze di Dio designate dalle espressioni antropomorfiche? Ciò si ottiene, secondo Origene, ricorrendo all’analogia. Per esempio, Dio è chiamato luce perché ha verso le intelligenze un ruolo analogo a quello della luce Verso gli occhi; è chiamato fuoco perché consuma i nostri peccati come il fuoco la legna; è detto Spirito perché conserva la vera vita come l'alito conserva la Vita del corpo,“ il Figlio è detto anima di Dio perché «come l'anima diffusa in tutto il corpo muove e fa tutto, così il Figlio uni genito di Dio, che è sua parola e sapienza, si estende a tutte le facoltà di Dio, unito con lui>>f>3 Questa, in sostanza, è la dottrina di Origene circa la natura e il valore del linguaggio teologico. Essa compie sensibiliprogressi rispetto a quella dei suoi predecessori su due punti: sul fondamento ontologico e sulle espressioni antropomorfiche. Quanto al fondamento ontologico Origene lo pone nel simbolismo: è il carattere simbolico delle cose e delle parole a rendere il nostro linguaggio atto a esprimere, certo in maniera limitata e imperfetta e tuttavia vera, la realtà di Dio. Quanto alle espressioni antropomorfiche esse non sono prive di significato, ma indicano alcuni attributi di Dio e precisamente gli attributi dinamici (o come li chiama Origene, le facoltà o potenze). In conclusione, come Filone e Clemente, così pure Origene si muove lungo la linea platonica, ossia lungo la linea dell’apofatismo. Ancheper Origene Dio, qual è in se stesso, nella sua vera natura, è essenzialmente inconoscibile.Ma come i suoi due predecessori anch'egli cerca di salvaguardare l'elemento biblico della conoscibilità ed effabilità di Dio. Questo però lo riferisce alle potenze, alle facoltà, agli attributi dinamici di Dio. Così egli viene a sostenere un catafatismo limitato alle proprietà dinamiche di Dio e ai suoi rapporti col mondo e con l’uomo, che è il catafatismo già ammesso da Filone e da Clemente. Con questa distinzione capitale fra apofatismo circa la natura divina e catafatismo circa gli attributi dinamici di Dio i tre grandi pensatori religiosi di Alessandria hanno offerto una soluzione al problema del linguaggio teologico che troverà largo seguito durante tutto il periodo patristico e oltre.
Ma
'
57) 53)
Cf. Comm. in Iohanrtenz, 13, 23. De principiis, II, 8, 5.
Clemente e Origene
ORIGENE
E
67
UORIGENISMO
Origene fu indubbiamente il più grande genio speculativo della Chiesa greca ed uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. Tuttavia egli fu anche una figura discussa e controversa. Per Valutare giustamente ii pensiero teologico di Origene occorre tener conto sia delle sue intenzioni sia dell'epoca in cui egli scrisse le sue opere. Le sue intenzioni erano squisitamente speculative, "gnostiche”, tese alla ricerca della «conoscenza profonda ed esatta dei divini misteri».69 Per fare questo spesso egli si incammina in territori sconosciuti, ancora inesplorati, formulando ”ipotesi” che non avevano la pretesa di proporre soluzioni definitive. Inoltre Origene non poteva ancora contare su quella grande auctoritas, preziosissima per il teologo, che è il Magistero ecclesiastico. Solo con i grandi Concili ecumenici del IV e V secolo, questi provvederà a completare la Regala fidei, fissando argini invalicabilianche per la ricerca teologica. Per questo motivo, benché Certe tesi di Origene, come quella delrapocatastasi, risultino palesemente eterodosse, tuttavia possono essere qualificate come pienamente eretiche. La scuola di teologia che Origene aveva creato prima ad Alessandria il famoso Didaskalezbn e successivamente a Cesarea in Palestina, scomparve con la morte del suo fondatore. Ma non scomparve il pensiero del non
-
-
sommo
nella
maestro che,
pensiero si
VI
come
si è
teologia orientale. Ben accese
detto, lascio tracce indelebili soprattutto
presto, pero, intorno alla sua opera e al suo
un'aspra polemica che
si concluderà soltanto nel
secolo, ai tempi di Giustiniano, con la condanna formale e solenne
dell’origenismo.
La controversia ”origeniana" esplose quasi all'improvviso alla fine del IV secolo dopo che per oltre cent'anni tutti i grandi Padri greci e latini da Gregorio Taumaturgo a Basilio, da Gregorio di Nazìanzo a Gregorio di Nissa, da Atanasio a Dìdimo il Cieco, da Ilario di Poitiers ad Ambrogio di Milano avevano avuto parole di grande elogio per le dottrine di Origene. La controversia sull’ortod0ssia del teologo alessandrino fu iniziata nel 394 dal Vescovo Epifanio di Salamina, con la iscrizione del nome di Origene nel suo catalogo degli eretici. Da quel momento egli si sentì necessariamente impegnato a lottare contro l'influenza degli scritti origeniani soprattutto negli ambienti monastici della Palestina. Epifanio conquistò alla sua causa anche Girolamo che in un primo tempo era stato un convinto ammiratore di Origene. Nel contempo dalla parte di Origene si era schierato Rufino, amico di Girolamo e curatore —
—
59) Principi, IV, 2, 7.
68
Parte prima
della traduzione latina dei Principi. A quel punto tra i due si scatenò una delle polemiche più aspre e meno edificanti della storia della Chiesa. Agostino espresse forse l'opinione di molti, quando definì la polemica di queste due personalità un tempo amiche magnum et triste miraculunt e si domandò avvilito se non dovesse temere di diventare egli stesso nemico di un suo amico «poiché ciò che noi ora deploriamo è potuto accadere tra Girolamo e Rufino».70 Ad ogni modo Girolamo con la sua forte personalità riuscì a guadagnare al partito antiorigenista sia il patriarca di Alessandria, Teofilo, sia il vescovo di Roma, papa Atanasio. In un sinodo all'inizio del 400
Teofilo fece condannare l’origenismo e intraprese di conseguenza una propaganda antiorigeniana di vaste proporzioni. In una serie di lettere pasquali che Girolamo tradusse in latino e fece diffondere, egli metteva in guardia i cristiani dell'Egitto dalle ”bestemmie”, dalla ”follia”, «dal1’errore delittuoso di Origene, quesfidra di tutte le eresie». Papa Atanasio fece altrettanto: come ci informa Girolamo" egli condannò «alcune dottrine blasfeme a lui presentate, e altre ancora da lui messe per iscritto, insieme con il loro autore» e comunicò questa condanna anche a Simpliciano, vescovo di Milano. Infine un decreto imperiale vietò la lettura degli scritti di Origene. Girolamo aveva così raggiunto il suo obiettivo e aveva fatto trionfare le sue idee. Una condanna formale di Origene come eretico venne soltanto l50 anni più tardi, sotto l'imperatore ”teologo” Giustiniano, con il V Concilio ecumenico tenuto a Costantinopoli (553). In codesto Concilio furono pronunciati quindici anatematismi, i quali però non riguardavano direttamente Origene bensì gli origenisti del tempo. Infatti Origene non vi figura che come uno dei loro ispiratori, insieme a Pitagora, Platone e Plotino. Guillaumont ha mostrato che gli anatematismi riportano passi ripresi dalle opere di Evagrio e non da quelle di Origene. Di fatto però la condanna dell’origenismo fu intesa anche come condanna del suo fondatore, il che determinò da parte dei posteri la concezione di Origene come eretico. A proposito di questa condanna il Crouzel osserva che essa fu pronunciata da accusatori che erano totalmente privi di senso storico e dell'idea dello sviluppo del dogma. «Non si può giudicare veramente un autore che mettendosi con il pensiero, nella misura del possibile, nelle prospettive della sua epoca. Orbene tra la piccola Chiesa perseguitata del tempo di Origene e la Chiesa dominatrice postcostantiniana la distanza è grande. La reazione all’arianesimo e alle eresie conseguenti, i primi concili ecumenici,
70) AGOSTINO, Epist. 73, 6, 10. 71) Cf. GIROLAMO, Epist. 88.
Clemente e
Origene
69
hanno fissato il dogma
e il vocabolario teologico su punti che, al Origene, potevano ancora essere oggetto di ricerca. L0 si è interrogato in funzione delle eresie, non della sua epoca, ma di quelle seguenti e si è trovata la sua risposta, non nella globalità della sua pro-
tempo
di
duzione letteraria poiché allora non si faceva un lavoro del genere ma in passi isolati. Orbene non si può pretendere in un autore anteriore a un’eresia di avere la stessa sensibilità su quel punto di un posteriore ad essa. Possono sfuggire al primo espressioni goffe, anc e se, studiato nella totalità dell’opera, appaia ortodosso, ed è proprio nella maggior parte delle occasioni il caso di Ori gene. Inoltre non sono state distinte le sue opinioni da quelle dei cosiddetti origenisti e sono state attribuite al maestro quelle dei secondi. Se l’eresia è la rottura delle antitesi che caratterizzano l’ortod0ssia, i discepoli non hanno rispettato l’equilibrio e le sfumature che attraversano il pensiero origeniano e, ciò facendo, essi non potevano che renderlo eretico. C'è da aggiungere che certe incomprensioni della sua opera provengono soltanto dal vocabolario e che il fatto che Origene non si preoccupi di ”definire" le sue posizioni non ha migliorato il problema>>.72 -
-
teologo
Nel giudicare Origene si sarebbe dovuto tener conto anche dello spirito volutamente ecclesiale di tutta la sua opera. Nonostante tutta l'indipendenza e la immunità da preconcetti della sua ricerca, Origene volle esclusivamente servire la Chiesa e fu sempre pronto a sottomettersi al suo giudizio: «Se io egli scrisse una volta rivolgendosi alla Chiesa che porto il nome di presbitero e che ho da annunciare la parola di Dio, tradissi mai la dottrina della Chiesa e la regola del Vangelo, cosicché a te, Chiesa, fossi di scandalo, possa l'intera Chiesa con unanime decisione, mozzare e gettar via me, sua destra».73 Tali sentimenti avrebbero dovuto impedire che, in tempi posteriori, con la condanna di singoli errori e singole opinioni sbagliate si annoverasse Origene tra gli eretici e si proscrivesse anche l'intera sua opera. Ad ogni buon conto la tardiva condanna del V Concilio ecumenico non poté cancellare l'apporto enorme che Origene aveva dato per secoli allo sviluppo delle scienze teologiche né privare la Chiesa orientale di quell’atmosfera di elevata spiritualità che Origene vi aveva impresso in modo indelebile. La sua opera vasta e multiforme aveva segnato una svolta importante nella storia del dogma e della teologia e aveva fissato, per la speculazione successiva, orientamenti e linee di sviluppo decisive. —
72) H. CROUZEL, Storia della teologia I, Casale Monferrato 1993, pp. 179-223; 215. 73) In 10s. hom. 7, 6.
-
Parte prima
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I DISCEPOLI DI ORIGENE: GREGORIO IL TAUMATURGOE PANFILO DI CESAREA Abbiamo già avuto modo di ricordare che come istituzioni scolastiOrigene ad Alessandria e a Cesarea si estinsero con la morte del maestro. Si andò invece affermando la scuola di Alessandria come indirizzo teologico basato sulla interpretazione alle— gotica della Scrittura e sull'approfondimento filosofico della Parola di Dio, che erano i tratti più salienti della teologia di Origene. Questa scuola resterà viva e vitale per molti secoli e diventerà l'indirizzo dominante della teologia greca. Tra i primi rappresentanti della scuola alessandrina vanno segnalati Gregorio il Taumaturgo e Panfilo di Cesarea, entrambi discepoli di Origene.
che i centri di studio fondati da
Gregorio il Taumaturgo religione cristiana assieme al fratello Atenodoro, Gregorio fu discepolo di Origene durante il suo soggiorno a Cesarea. Venne poi consacrato vescovo del Ponto (240 circa). Partecipò insieme al fratelConvertito alla
lo al Concilio di Antiochia contro Paolo di Samosata. Grazie alla sua predicazione e ai numerosi miracoli che gli valsero il titolo di "taumaturgo" il Ponto si convertì rapidamente al cristianesimo. I Padri cappadoci del IV secolo lo consideravano come il fondatore della Chiesa di -
-
Cappadocia.
intitola Expositiojiìiei, ed è importante S0prattutto come chiara attestazione di fede nella unità e consostanzialità della Trinità. Vi si legge tra l'altro: «Trinità perfetta in gloria, eternità, sovranità né divisa né spartita; non vi è nulla pertanto di creato 0 di inferiore nella Trinità né di aggiunto, quasi che prima non fosse e poi sia sopravvenuto; né mai dunque mancò il Figlio al Padre né al Figlio lo Spirito, ma invariabilmentee immutabilmente sempre è la stessa Trinità». Una formula esemplare, come si vede, che precorre chiaramente il Simbolo atanasiano. La
sua
opera
maggiore si
Panfilo di Cesarea Proveniente da una nobilefamiglia di Beritus (Beirut), Panfilo ricoprì varie cariche pubbliche, poi si trasferì a Cesarea per dare nuovo slancio alla scuola fondata da Origene e qui fu ordinato sacerdote dal vescovo Agapio. Restauro e sviluppò la biblioteca annessa alla scuola e organizzò un laboratorio di copisti. Nella scuola cercò di restare fedele alle
Clemente e
Origene
71
intenzioni di Origene continuando con Vinsegnarnento e la ricerca scientifica la tradizione del maestro. Il suo interesse principale fu volto al testo della Bibbia e alla raccolta degli scritti di Orìgene. Durante la persecuzione di Diocleziano Panfilofu martirizzato dopo una lunga prigionia (‘t 310). In carcere scrisse unflàpologia di Origene in sei libri, dei quali soltanto il primo è stato conservato in una traduzione latina di Rufino. Citando numerosi testi di Origene, alcuni dei quali sconosciuti, Panfilo confuta le accuse riguardanti il pensiero di Origenc sulla Trinità, l’lncarnazìone,la storicità della Scrittura, la risurrezione, le pene infernali, l'anima e la metempsicosi. Panfilo sottolinea inoltre il carattere ipotetico e antitetico delle speculazioni di Origene: esse cioè non sono da intendere come affermazioni dogmatiche ma come tesi spesso contrapposte dialetticamentel'una all'altra.
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Suggerimenti bibliografici LA SCUOLA DI ALESSANDRIA
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cura
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Clemente e
Origene
73
ORIGENE Edizioni: PC 11-17; GCS, 12 v01l., Berlin 1899-1959 (edizione critica di quasi tutte 1c opere origeniane). Traduzioni italiane (testi in ordine alfabetico): Commento al Cantico dei Cantici, M. SIMONETTI, Roma 1976; Commento al Vangelo di S. Giovanni, E. CORSINI, Torino 1968; Commento al Vangelo di Luca, S. ALIQUO C. FAILLA, Roma 1974; Conzmento alla lettera ai Romani, F. COCCHINI, Casale 1986; Contro Celso di Origene, A. COLONNA, Torino 1971; Esortazione al martirio, C. NOCE, Roma 1985; Omelie su Ezechiele, N. ANToNIoNo, Roma 1987; Omelie sul Cantico dei Cantici, M. I. DANiELî, Roma 1990; Omelie sul Leoitico, ID., Roma 1985; Omelie sai Numeri, ID., Roma 1988; Omelie sulla Genesi, ID., Roma 1978; Omelie sall’Esodo, ID., Roma 1981; l Principi, M. SIMONETTI, Torino 1968; Sulla Pasqua: ll papiro di Tura, C. SGHERRI, -
Milano 1989.
Repertori bibliografici: H. CROUZÉL, Bibliographie critique d’Origène, (pressoché completa fino al 1969), con supplemento fino al 1980 (ibid. 1982); ID., The Literatare on Origen 1970-1988, in “Theological Studies” 49 (1988), pp. 499-516. Studi principali": Atti dei colloqui internazionali su Origene: Origeniana, Bari 1973; Origeniana Secanda, Roma 1980; Origeniana Tertia, Roma 1985; Origeniana Quarta, lnnsbruck 1987; Origeniana Quinta, Lovanio 1992; H. U. v. BALTHASAR, Parole et mystère chez Origène, Paris 1957; F. BERTRAND, Mystique de lesus che: Origène, Paris 1951; R CADIOU, La jeunesse d’Origène, Parìs 1935; A. CASTAGNO MONACI, Origene predicatore e il suo pubblico, Milano 1987; H. M. CORNELIS, Les fondarnents Cosmologiques de Peschatologie d’Origène, Paris 1959; H. CROUZEL, Origène et la philosophie, Toulouse 1962; ID., Origène et la connaissance mystique, Toulouse 1961; ID., Théologie de l ‘irrzage de Diea chez Origene, Paris 1956; ID., Origène, Paris 1985; ]. DANIELOU, Origène, Paris 1948; E. DE FAYE, Origène. Sa vie. Son oeuvre. Sa pensée, 3 V0l1., Paris 1923-1928; H. DE LUBAC, Storia e spirito. La comprensione della Scrittura secondo Origene, Roma 1971; E. I. DUPUI5, L'Esprit de l'homme. Etude sur Fantliropologze religieuse d’Origène, Bruges/Paris 1968; R. P. C. HANSON, Allegory and Eoent. A Stady of the Soarces ami Significanceof Origerfls Interpretation of Scriptare, London 1955; M. HARL, Origène et la fonctiort révélatrice da Verbe lncarne’, Paris 1958; L. LIES, Wort una Euclzaristie bei Origenes, lnnsbruck 1978; F. MOSETTO, l miracoli evangelici nel dibattito tra Celso e Origene, Roma 1986; P. NAUTIN, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris 1977; D. PAZZINI, In principio era il Logos. Origene e il prologo del Vangelo di S. Giovanni, Brescia 1983; H. PIETRAS, L'amore in Origene, Roma 1988; G. SFAMENI GASPARRO, L’Aia 1971
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GLI ANTIMETAFISICI: IRENEO, IPPOLITO, TERTULLIANO
Mentre ad Alessandria, per opera di Clemente e di Origene, si gettale basi della metafisica cristiana, in tutti gli altri centri più importanti della Chiesa antica: Roma, Cartagine, Antiochia, Lione si in gaggiava un’aspra lotta contro la filosofia, poiché si scorgeva in essa la matrice principale di tutte le eresie. E in realtà, nel secondo secolo, le eresie andavano pullulando ovunque e diventavano un gravissimo pericolo per la Chiesa. Si moltiplicavano le eresie trinitarie (modalismo, monarchismo, adozionismo ecc.), ma l’eresia più pericolosa e più eversiva per il cristianesimo era lo gnosticismo. In questo sistema filosofico-religiososi mescolavano con estrema libertà dottrine cristiane, teorie filosofiche e religioni orientali. A suscitare il sospetto che la filosofia non fosse di nessuna utilità per la fede, e che anzi costituisse per essa una gravissima insidia, fu proprio lo gnosticismo. E così molti scrittori cristiani che, nel II e III secolo, scendono in campo contro lo gnosticismo, sono apertamente ostili alla filosofia in generale e alla metafisica in particolare e questo anche quando ricorrono al linguaggio filosofico di Platone o degli Stoici. Ma che cos'era precisamente lo gnosticismo? Vano
L0
gnosticismo «Dire, in breve e con una certa chiarezza, che cosa sia stato quello che
viene designato come ‘gnosticismo’, è assai arduo. E ciò non soltanto per la quantità e difficoltà di questioni particolari che lo studioso deve affrontare, ma per la complessità stessa del fenomeno, e la serie di problemi generali, tuto‘ collegati, che esso presentaml Come descrizione generale dello gnosticismo può valere la seguente: è un sincretismo religioso della tarda antichità che, sulla base di un dualismo religioso di origine orientale, univa a concezioni proprie del tardo giudaismo alcuni elementi, seppure svisati, della rivelazione cristiana.
1)
A PINCHERLE, Introduzione al cristianesimo antico, Roma 1988, p. 77. .
Parte prinza
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Esso faceva della salvezza una questione di conoscenza (gnosis): conoscenza di Dio, dell'origine delle cose, del male, della serie delle creature (coni) che si dispongono tra Dio e l'uomo, del liberatore dell'umanità che è l'ultimo eone, Cristo, nonché della propria condizionedi imprigionamento nella materia, realtà essenzialmente cattiva, contrapposta a Dio. Soltanto mediante la conoscenza e l'adesione a questa teoria esoterica (= riservata agli iniziati) si acquista la salvezza. L'origine dello gnosticismo è avvolta in una fitta nebbia che neppure l'importante scoperta di una biblioteca appartenente a una comunità gnostica (13 manoscritti di papiro contenenti oltre 40 opere finora sconosciute) effettuata a Nag Hammadi nell'Alto Egitto nel 1945-1946 ‘e riuscita a dissipare. Secondo alcuni studiosi il fenomeno gnostico avrebbe avuto una diffusione maggiore del cristianesimo e si sarebbe sviluppato in Oriente già prima di Cristo. Ma questa tesi non pare reggere all'esame critico, il quale mostra che di fatto non esiste traccia di vero e proprio gnosticismo prima del cristianesimo, che tutti gli gnostici di cui noi abbiamo notizia sono cristiani e che pertanto la gnosi è un fenomeno specificamente cristiano. Secondo A. D. Nock «nell'ambiente in cui si sviluppò il cristianesimo primitivo potevano esistere elementi suscettibilidi entrare nella costruzione di diversi edifici gnostici ma non esisteva nessun sistema gnostico; poteva esserci una propensione a creare dei miti, ma non vi si discerne alcun mito specifico; c'era una condizione spirituale ”gnostica" ma non si era ancora cristallizzata in nessuna formulazione e nessuna comunità si era affermata come seguace di una formulazione del genere»? Non soltanto le origini ma anche gli insegnamenti degli gnostici risultano piuttosto incerti, dato che non conosciamo quasi del tutto le loro opere. Tutto ciò che noi sappiamo del loro pensiero ci è giunto attraverso i loro avversari di parte cattolica, Ireneo in modo particolare. Si tratta indubbiamente di punti importanti e probabilmente conformi al loro
pensiero, ma non possono rappresentare un resoconto completo dei loro
sistemi. l
capisaldi dello gnosticismo sono quattro: 1) è una teoria della sal-
il suo obiettivo è svelare all'uomo il cammino che lo liberi dal del male e del peccato e lo introduca nel regno di Dio; 2) la salvezregno si fonda sostanzialmente sulla conoscenza (gnosi), la quale è frutto di za una speciale rivelazione (esoterismo); 3) essa implica una visuale totalmente ncgativa nei confronti di questo mondo e della vita presente (dualismo); 4) opera inoltre una separazione tra l'Antico e il Nuovo Testamento, respingendo il primo e accogliendoil secondo. vezza:
2)
A. D.
NOCK, Christianisnte et Hellénisme, Paris 1973, p. 19.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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Attraverso questa caratterizzazionegenerale dello gnosticismo si può agevolmente individuare una serie di filoni culturali che sono confluiti nella Vasta sintesi sincretistica operata dagli scrittori gnostici. Gli elementi più importanti sono i seguenti. C'è innanzitutto il filone orientale dell'astrologia iraniana e del dualismo zoroastriano. Il pronunziato dualismo che sancisce l'assoluta opposizione tra luce e tenebre, tra il bene e il male va ricercato nel mondo religioso di Zoroastro, mentre le speculazioni gnosti che sulle costellazioni, sulla stella polare quale principio del regno della luce, sulle sfere dei sette pianeti maligni o arconti provengono dalle concezioni astrologiche del mondo assiro-babiloncse.Viene poi il filone dellapocalittica giudaico-cristiana, con le sue drammatiche visioni, che ha popolato il cielo, la terra e la storia di innumerevoli esseri benefici (angeli) e malefici (demoni) e di moltissimi intermediari. «Non è da ‘escludersi che il settarismo del tardo giudaismo abbia esercitato una funzione mediatrice tra le correnti iraniche ed ellenistiche da una parte e il movimento gnostico dall'altra; poiché è provato che vi erano eretici giudei che indulgevano a correnti di pensiero dualistiche».3 C'è inoltre Yelemento della concezione soteriologico-religiosa della filosofia. Già si è spiegato nel precedente capitolo come la filosofia nel tardo ellenismo fosse intesa come via di
salvezza: la filosofia procurando la conoscenza della verità, forniva anche una sicura guida morale e quindi assicurava l'acquisto della virtù e il raggiungimento della felicità. Gli gnostici si qualificano tutti come filosofi e così non a torto Ireneo e Tertulliano dichiarano che tutte le eresie procedono dalla filosofia. Un altro punto caratterizzante è il sincretismo religioso, particolarmente vivo e attivo durante i primi secoli del cristianesimo. Il sincretismo religioso appariva congeniale in un momento in cui l'esigenza di una religione individuale di ”redenzione”, ossia di ”salvezza” era fortemente sentita. Al decadimento delle città-stato (polis) si era accompagnato quello dei culti cittadini e degli dei olimpici. La formazione del grande Stato, l’impero, con popolazioni numerose e assai eterogenee soprattutto nelle grandi città e nei centri di incontro di carovane e di traffici e sviluppatesi da originarie colonie militari «favoriva il formarsi di un sincretismo culturale e religioso che assorbiva elementi di svariata origine; e poi scambi o scontri di uomini, prodotti e idee che risalivano a tempi antichissiminfi Sul terreno del grande sincretismo religioso già in atto lo gnosticismo poté giocare abilmentetutte le sue carte. C'è infine il -
-
3)
4)
H. IEDlN (ed), 0p. CÎÈ, p. 242. A. PINCHERLE, 0p. cit, p. 81.
78
Parte prinza
filone cristiano che funge da catalizzatore di tutti i precedenti filoni:Cristo diviene il rivelatore e il redentore, colui che procura la gnosi salvifica. La sfida che lo gnosticismo portava alla Chiesa era assai grave e pericolosa. Esso minacciava di fagocitare il cristianesimo dentro un movimento interreligioso di più ampio respiro e di appropriarsi della Chiesa e delle sue strutture dottrinali, liturgiche e missionarie per metterle a servizio della propria causa; mentre allo stesso tempo snaturava la sostanza stessa della Chiesa, trasformandola da comunità cattolica aperta a tutti (semplici e dotti, analfabeti e intellettuali, poveri e ricchi, barbari e civili) in una setta elìtaria per classi colte. Il pericolo fu avvertito prontamente e la risposta fu sollecita. Alla sfida dello gnosticismo la Chiesa rispose con tutte le armi di cui disponeva: anzitutto con le armi della propria autorità, definendo il canone delle Scritture e la Regala fidei e, quindi, con le armi della teologia, invitando i suoi pensatori più preparati e più intelligenti a sottoporre a una critica serrata e convincente le tesi e le dottrine dello gnosticismo. Ma prima di esaminare le risposte alla gnosi della Chiesa e degli scrittori ortodossi, vediamo brevemente che cosa insegnavano Valentino e Marcione, che furono i più validi esponenti dello gnosticismo.
Valentino Secondo Ireneo, «Valentinofu il primo della setta denominata gnostica che, adattando i principi di essa al carattere particolare della sua scuola, elaborò il sistema gnosticow In effetti con Valentino «lo gnostici-
trovò palesemente il suo maggiore ingegno e, predicato da lui con grande slancio religioso e poetico, esso divenne un serissimo pericolo per il genuino cristianesimomé Valentino, egiziano di origine, venne a Roma verso il 140. A un certo momento abbandonò l'ortodossia e fondò una scuola dove diffuse le sue dottrine. Sotto papa Aniceto lasciò Roma per recarsi in Oriente, forse a Cipro. Ritornato a Roma, vi morì poco dopo il 160. Valentino scrisse inni, omelie e varie lettere, ma nulla ci è pervenuto della sua vasta produzione letteraria, se si eccettua un inno conservatoci da Ippolito. Alcuni scritti della biblioteca gnostica di Nag Hammadi (E0. Veritatis, Ev. Philippi, Tract. Tripartitus ecc.) rispecchiano dottrine ricollegabilial suo sistema ma difficilmente possono farsi risalire a VaSITLO
lentino stesso.
5) IRENEO, Adv. Haer, l, 11, 1. 5) H. JEDIN (ed), op. cit, p. 245.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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Il sistema di Valentino è più complesso e più dialettico di quello degli altri gnostici. Esso si basa su una diade 0 coppia (sigiz-ìe) originaria: l’Esse.re primo e perfetto, invisibile, eterno, increato, non nominabile (il suo unico nome è Abisso), accanto al quale sta, in figura femminile, il Silenzio (Sigé, nome femminile in greco) o Nozione. Da questa prima coppia discendono immediatamente altre tre coppie, così da formare con esse la Ogdoade (otto coppie): l'Intelletto e la Verità, il Verbo e la Vita, l'Uomo e la Chiesa. Dalla Ogdoade procede una serie interminabile di altre diadi, le quali tutte insieme formano il Pleroma. L'ultima creatura del Pleroma, Sophia, concepì il desiderio smodato di Vedere il Padre, e questa passione è all'origine del cosmo, perché Sofia decadde e il Padre dovette frenarla, mandando Horos, il "limite"; ma dalla sua ignoranza, disperazione c angoscia nacquero gli angeli, i quali crearono l'uomo e gli insufflarono l'elemento psichico che lo lega alla materia. Ma, a loro insaputa, l'uomo ha ricevuto anche un elemento "pneumatico". Qualora questo sia destato ed educato dalla Vera gnosi che il Salvatore ha portato sulla terra, l'elemento spirituale dell'uomo alla fine del mondo sarà salvato e potrà tornare a riunirsi con la luce. Per rendere possibile al mondo inferiore di ascendere alla luce, Gesù si è fatto uomo e su di lui lo Spirito è disceso nel momento del battesimo. Il cammino verso la luce conduce l'anima attraverso il regno delle potenze ostili, che essa riesce a vincere con l'aiuto dei riti e delle preghiere della Chiesa. Valentino ammetteva che certe Verità (la legge scolpita nei cuori) si trovano anche nei libri dei filosofi.
Marcione Sebbene il sistema di Marcione abbia ben poco in comune con i sistetipici dello gnosticismo, Ireneo lo include nel numero degli gnostici e 1o presenta come un lontano discendente di Simon Mago. Al pari di lui, abusando del nome di Gesù, Marcione «ha diffuso perversamente, per mezzo di un nome buono, la sua dottrina e, offrendo, per mezzo della dolcezza e del lustro del nome, l'amaro e perverso Veleno del serpente, che è il principe dell’apostasia».7 Marcione, figlio di un Vescovo di Sinope, sul Mar Nero, venne a
mi
Roma probabilmenteperché già in contrasto per ragioni teologiche con la sua Chiesa —sotto il pontificato di Igino (134-140), dove entrò a far parte della comunità cristiana del luogo, che egli aiutò con generosi sussidi finanziari. Ma neanche a Roma le singolari opinioni di Marcione -
7) IKENEO, 0p. cit., I, 27, 4.
80
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favorevole accoglienza e, nell'autunno del 144 egli si sedefinitivamente dalla Chiesa cristiana. Subito dopo comincio a far parò propaganda delle sue idee e a procacciarsi seguaci che strinse in una solida organizzazione.Dappertutto, accanto alle comunità cristiane, sorsero gruppi marcioniti a capo dei quali erano posti dei vescovi, che a loro volta erano coadiuvati da presbiteri. Uefficiente organizzazione differenziava sostanzialmente le comunità di Marcione dagli altri gruppi gnostici, conferendo loro un particolare dinamismo che le fece divenire un serio pericolo per la Chiesa. La dottrina più nota di Marcione è quella che pone una netta separazione tra il Dio-Demiurgo dell'Antico Testamento, tutore infallibiledella giustizia e il Dio-Padre del Nuovo Testamento, mosso esclusivamente dalla bontà e dall'amore. Ecco una breve sintesi del suo pensiero come ci viene proposta da Ireneo nel suo Adversus Haereses: trovarono una
«[Marcione] bestemmiandosenza pudore il Dio che fu annunciato dalLegge e dai Profeti, dice che è autore dei mali, che desidera le guerre,
la
è anche incostante nelle sue decisioni e in contraddizione con
se
stesso.
Dice poi che Gesù, inviato dal Padre, che è al di sopra del Dio creatore del mondo, venne in Giudea al tempo del governatore Ponzio Pilato, che era procuratore di Tiberio Cesare, si manifestò in forma umana a quelli che erano in Giudea, abolì i Profeti e la Legge e tutte le opere del Dio che ha creato il mondo, che egli chiama Kosmokrator Inoltre, mutilando il Vangelo di Luca e togliendo tutto ciò che è stato scritto sulla generazione del Signore e molte parti dell'insegnamento che si ricava dai discorsi del Signore quelle in cui è scritto con la massima chiarezza che il Signore riconosce come suo Padre il creatore di questo mondo ha persuaso i suoi discepoli che lui è più veritiero degli apostoli che hanno trasmesso il Vangelo. Egli però non trasmette loro il Vangelo, ma una piccola parte del Vangelo. Similmente ha mutilato anche le lettere dell’apostolo Paolo, togliendo tutti i passi in cui l'apostolo parla chiarissimamente del Dio che ha creato il mondo, dicendo che questi è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, e tutto ciò che l'apostolo ha insegnato citando i passi profetici che preannunciano la venuta del Signore. Si salveranno solo le anime che avranno appreso la sua dottrina, essendo impossibile che il corpo, preso dalla terra, partecipi alla salvezza. Alla bestemmia riguardante Dio ha aggiunto anche questo, facendosi portavoce del diavolo e dicendo tutte cose contrarie alla verità» .3 -
—
Come risulta anche dalla testimonianza di Ireneo, a sostegno della propria dottrina Marcione invocava soprattutto l'autorità di S. Paolo, specialmente la sua affermazione che la Legge mosaica era stata abrogata da Cristo, promulgando la nuova Legge cristiana dell'amore e del
S) Ibid, I, 27, 2-3.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
81
dedotto che le due leggi, così contrastanti tra loro, entrambe opera dello stesso autore. Quel contrasto potevano tra cristianesimo e "mondo", fra l'Antico Testamento e il Nuovo che Marcìone metteva in evidenza indicando, in uno scritto apposito, le Antitesi tra l'uno e l'altro veniva così esasperato in un dualismo che al "Dio giusto" delle Scritture del giudaismo, al Dio creatore del mondo sottoposto al male e alla corruzione, opponeva il "Dio buono", misericordioso e redentore del cristianesimo. Grazie all’abile propaganda e a1l'efficiente organizzazione Marcione guadagnò al suo movimento moltissimi adepti, diventando una seria minaccia per la Chiesa cristiana, la quale avvertì ben presto il bisogno «di riesaminare sempre più a fondo il proprio atteggiamento rispetto alla Sacra Scrittura e alla norma della fede, per rivedere le proprie forme di organizzazione e per dispiegare tutte le proprie interne energie per far fronte a tale minaccia»)? Di fronte alle fantastiche e arbitrariedottrine teologiche degli gnostici, alla loro discriminazione tra Antico e Nuovo Testamento e all'uso indisciplinato, selettivo e fazioso della Scrittura le cose più urgenti da fare per la Chiesa erano due: definire esattamente il Canone delle Scritture ispirate; formulare le dottrine essenziali del Credo cristiano. Di questi importanti interventi del Magistero ecclesiastico in questo volume noi non ci occuperemo perché non hanno alcun interesse per la storia della metafisica. Studieremo invece le prese di posizione e le elaborazioni dottrinali di alcuni scrittori cristiani del Il e III secolo, in particolare Ireneo, Tertulliano e Ippolito, perché smascherando gli errori degli gnostici oltre che alla difesa dell'ortodossia essi contribuirono alla salvaguardia del grande patrimonio della metafisica cristiana, mantenendo inalterate le sue dottrine più caratteristiche: l'unicità del principio primo, il creazionismo, Yintrinseca bontà della materia, il personalismo, l'appartenenza essenziale dell'uomo al mondo dello spirito, il valore assoluto dell'uomo, la libertà umana, l'immortalità dell'anima, la provvidenza divina.
perdono.
Ne
non
aveva
essere
-
-
Ireneo Ireneo nacque con ogni probabilità a Smirne o dintorni verso il 135140. Ricevette un'ottima formazione religiosa, filosofica e teologica da Policarpo, come rammenta egli stesso nellbàdversus haereses: «Noi l'abbiamo visto (Policarpo) nella nostra prima età; egli ebbe vita longeva ed
9)
H. IEDIN
(ed.), 0p. cit, p. 25D.
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era molto vecchio quando lasciò questa vita con un gloriosissimo e nobilissimo martiri0».I0 Altri suoi maestri, secondo Eusebio, furono Papia e Melitone. Non si sa quando e perché Ireneo lasciò l'Oriente per trasferirsi a Lione, dove venne prima ordinato prete e successivamente nominato vescovo di quella città, dove svolse una intensissima attività pastorale. Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum (I, 27) scrive che Ireneo «succedette al martire Potino nell’episcopato e in breve spazio di tempo, con la sua predicazione, rese cristiana tutta la città di Lione», Con non minor impegno si oppose con 1a predicazione e con gli scritti allo gnosticismo nelle sue varie forme, in particolare a quella di Valentino che si andava diffondendo nella Gallia del Sud. Eusebio ci presenta Ireneo come un autentico operatore di pace (che è il significato etimologico di ”Ireneo”),descrivendo la controversia per la celebrazione della Pasqua sorta tra i vescovi dell'Asia e papa Vittore (nel 190-191) che li minacciò di scomunica. In tale circostanza lreneo, a nome delle Chiese della Gallia, scrisse al pontefice una lunga lettera dove <
OPERE Secondo Eusebio” e Girolamo” Ireneo scrisse numerose opere. Di però, oltre a tre lettere (a Florino, a Blasto e a papa Vittore sulla data della Pasqua) soltanto due sono giunte sino a noi: 1. Denzonstrotìo apostolicae praedicationis, cioè: Esposizione della predicazione agaostolica. È un'eccellente sintesi della fede cattolica in 10D brevi
fatto
capitoli.
2. Adoersus
haereses, libri quinque (Contro le eresie, in cinque libri), nota
anche sotto il titolo: De detectione et eversione falso cognomùratae agnitionis (Smaschemmentoe confutaziorze della falsa gnosi), un titolo decisamente più eloquente dei primo. Ambedue le opere furono scritte in greco, ma a noi sono giunte soltanto nella versione latina, certamente anteriore a S. Agostino e che forse era già conosciuta da Tertulliano.
W) IRENEO, op. cit., III, 3, 4. 11) EUSEBIO, Hist. EccL, V, 24, 1. 12) Ibid. 13) GIROLAMO, Vir. i'll. 35.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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U/ldversus haereses è un'opera monumentale che impressiona sia per la massa di notizie raccolte intorno alle numerosissime sette gnostiche, sia per l'ottima conoscenza di tutta la Scrittura, cioè dell'Antico e del Nuovo Testamento. L’opera si articola in due parti: la prima (che abbraccia i primi due libri) espone il pensiero degli gnostici e lo sottopone a severa critica; la seconda (che comprende gli ultimi tre libri) presenta la posizione della fede’ cattolica su Dio, Padre e Creatore, e su Cristo Salvatore.
CRITICA
DELLO GNOSTICISMO
Ireneo vive nel momento storico della massima espansione dello gnosticismo, un sistema di pensiero filosofico-religioso, che faceva della salvezza una questione essenzialmente intellettuale, noetica (gnosi conoscenza): la salvezza si trova esclusivamente nel sapere; perfetta conoscenza è anche piena redenzione. Alcune tendenze vi aggiungono anche riti e misteri (battesimi, unzioni ecc.) come mezzi di salvezza. La concezione gnostica porta alla formazione di due grandi cicli di miti: uno cosmologico, a cui appartiene chiaramente la caduta dell'uomo e il suo stato di perdizione; l'altro soteriologico, che comprende la via della salvezza. I massimi esponenti dello gnosticismo ai tempi di Ireneo erano Basilide e Valentino in Egitto e Marcione a Roma. Ireneo avverte l’estrema gravità del pericolo che corre la fede cristiana nell'operazione di inculturazione del cristianesimo operata dallo gnosticismo: il pericolo della sua trasformazione in una filosofia (la quale in quell'epoca era sempre presentata dai pitagorici, dai platonici, dagli stoici come via di salvezza) e Io dichiara espressamente nel Prologo dellvldversus haereses: =
-
—
«Alcuni, ripudiando la verità, stanno introducendo dottrine fallaci e, dice l'Apostolo (1 Tm 1, 4), "genealogie interminabili,che sono
come
sollevare questioni, che a contribuire a quelYedificazionedi Dio che ‘e basata sulla Fede (pistis)", e grazie alla loro forza di persuasione ingegnosamente combinatasviano la mente dei meno esperti e li fanno prigionieri falsificando i detti del Signore e, diventando così cattivi interpreti di ciò che è stato bene detto; rovinano molti allontanandoli, con il pretesto di una conoscenza (gnosi), da colui che ha formato
più atte a
ordinato questo universo, come se potessero mostrare qualche cosa di più alto e più grande del Dio che ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi; in maniera persuasiva, grazie all'arte della parola, inducono i semplici a un atteggiamento di ricerca, ma li rovinano in maniera assurda perché rendono il loro pensiero blasfemo e assurdo nei confronti del Demiurgo, non potendo essi distinguere il vero dal falso».14 e
14)
Adv. haen, I, prol. l.
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Parte prima
Per denunciare e smascherare questi gravissimi errori Ireneo scrive il suo Adversus haereses. Nei cinque libri in cui si articola quest'opera Ireneo, attingendo alla sua vasta e solida cultura storica, biblica e teologica, mostra l'estrema fragilità del sistema religioso architettato dagli gnostici, evidenziando la falsità dei loro procedimenti, dei criteri di verità e dei contenuti dottrinali, relativi a Dio, al mondo, a Cristo e all'uomo. Due sono gli argomenti principali addotti da Ireneo contro lo gnosticismo: il primo riguarda il rapporto salvezza-gnosi, ìl secondo concerne la regola della Verità. Per quanto attiene il rapporto salvezza-gnosi Ireneo fa Vedere che riporre la salvezza esclusivamente nella perfetta conoscenza, come fanno gli gnostici, significa renderla impossibilenon solo nella vita presente ma anche in quella futura, perché mai sarà consentito all'uomo di raggiungere una perfetta conoscenza di Dio, ossia una conoscenza tale che faccia scomparire la fede. Richiamandosi a S. Paolo il quale dice che anche nella Vita futura permangono la fede, la speranza e la carità,” Ire— neo fa notare agli gnostici che, distrutta nell'altra vita ogni cosa imperfetta, rimangono quelle perfette: fede, speranza e caritàflé Pertanto gnosi e fede procedono unite, come speranza e carità. D'altronde la gnosi senza la carità è vana. Solo la carità conferisce e suggella la perfezione." La gnosi stessa nel suo grado supremo di intuizione è ordinata alla carità; infatti «la carità ha maggior valore della gnosi».18 Invece di erigersi a «vetta e corona della regola» cristiana con autonomia sulla fedesperanza-carità, come vogliono i seguaci della setta, la gnosi deve accompagnarsi alla pistis (fede) e restare sottomessa alla carità, regina del cristiano nel mondo presente e in quello futuro. Assicurato il primato dclla carità, Ireneo distingue due forme di conoscenza di Dio: una secundum magnitudinem, cioè secondo la sua effettiva grandezza, e un'altra secundum dilectionem, cioè fondata sull'amore di Dio. Ora la prima, che è quella inseguita dagli gnostici, è irrealizzabile:«secondo la grandezza non c'è modo di conoscere Dio, è impossibile misurare di chi è il Padre. Ma secondo l'amore che conduce a Dio mediante il suo Logos quando gli siamo docili impariamo sempre (prima e dopo Cristo) che esiste un Dio così grande ed è lui che da solo ha stabilito e scelto e adornato e contiene tutte le c0se».19 Dio, perciò, rimane inconoscibile nella -
'15) Cl. Î C0713, 9-13. 15) Cf. Adi). Haen, II, 28, 3. 17) CE. lbidq IV, 12, 2. 13) lbiLL, IV, 33, 8. 19) lbid, IV, 20, 1.
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grandezza, ossia nella sua essenza (come diranno in seguito il Nisseno e S. Agostino), ma può essere conosciuto nel suo amore, ossia nelle
sua
opere: la creazione del mondo e la salvezza dell'uomo. Il Dio trascendente crea e guida il mondo per amore e si fa conoscere all'uomo attraverso il suo Figlio sempre per amore. Per capire Dio occorre perciò cambiare il concetto di conoscenza: capire che la conoscenza di Dio non è una proprietà dell'uomo, ma è una capacità donata da Dio stesso a chi lo conosce e lo segue. In tal modo essa non è una proprietà di alcuni privilegiati, come affermano gli gnostici, ma una possibilità per tutti: per coloro che accolgono lo Spirito di Dio nel proprio cuore. Il secondo argomento contro gli gnostici è tratto dalla "regola della Verità". Agli gnostici, i quali pretendono di crearsi una propria verità reclamando un'interpretazione esoterica delle Scritture, Ireneo replica che la "regola della Verità”, ossia ciò che in seguito sarà chiamato "simbolo della fede”, non può essere affatto una questione privata. Non esiste altra regula oeritatis che quella che la Chiesa ha ricevuto dagli Apostoli. «Questo annuncio (kerygma) che ha ricevuto la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, come gente di un'unica casa con cura custodisce e come avesse un'anima sola e un sol cuore similmente crede e come dotata di un'unica bocca armoniosamente annuncia e insegna e trasmette. Se anche in effetti sono diverse le lingue del mondo, unico e lo stesso è il contenuto della tradizione (parad0sis)».’-’0 Quali siano gli articoli fondamentali della regala veritatis Ireneo lo espone ampiamente e dettagliatamente nella Demonstratio apostolicae praedicationis; ma in breve sintesi che è una chiara anticipazione del Simbolo apostolico lo dice anche nelP/ldversus Iiaereses, nell'ultimo capitolo del Primo Libro, che vale la pena riprendere integralmente: sue
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—
«Noi teniamo salda la regola della Verità: che c'è un solo Dio onnipotente, che per mezzo del suo Verbo ha fondato, ordinato e creato dal nulla tutte le cose, come dice la Scrittura (...). Ora dicendo ”tutte le cose" non se ne esclude nessuna, ma per mezzo di lui il Padre ha fatto tutte le cose: quelle visibili come quelle invisibili,quelle che si percepiscono con i sensi come quelle che si conoscono con l'intelletto, le temporali in base a qualche economia come le eterne. Non le ha create per mezzo di angeli né di alcune potenze staccatesi dal suo Pensiero, perché il Dio di tutte le cose non ha bisogno di nulla, ma per mezzo del Verbo e del suo Spirito crea, dispone, governa e dà a tutte le cose l'esistenza. Egli è colui che ha creato il mondo, che comprende tutte le cose; egli è colui che ha plasmato l'uomo, ‘e il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, al di sopra del quale non
2°) Ibid, I, 10, 2.
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Parte prima
n'è un altro, né il Principio né la Potenza né il Pleroma; egli è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Tenendo salda questa regola, anche se presentano insegnamenti molto numerosi e diversi, è facile per noi dimostrare che si sono allontanati dalla Verità. Infatti, quasi tutte le eresie che esistono dicono bensì che Dio è uno solo, ma con la loro errata concezione ne cambiano la natura, mostrandosi così ingrati nei confronti di colui che li ha creati, come lo sono le nazioni con la loro idolatria. Essi disprezzano l'opera plasmata da Dio (l'uomo) e compromettono la propria salvezza, essendo severissimi accusatori di se stessi e falsi testimoni. Essi risusciteranno bensì nella carne, sebbene non lo vogliano, per conoscere la potenza di colui che li risuscìterà dai morti ma non saranno annoverati con i giusti per la loro incredulità». ve
L'UNITÀ DI DIO Nella sua polemica contro gli eretici Ireneo si sofferma soprattutto su due errori tipici dello gnosticismo: uno riguarda l'unità di Dio e l'altro la bontà della materia e, nel caso dell'uomo, del corpo. Clì gnostici contrapponevano il Dio del Nuovo Testamento, che sarebbe il Dio dell'amore, al Dio dell'Antico Testamento, che sarebbe il Dio della giustizia e della vendetta. Ireneo fa vedere invece che nonostante la diversità dei due Testamenti,Dio rimane uno solo, sovrano dell'universo e creatore del nostro mondo e dell'uomo, autore sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento. L'unità di Dio è attestata dal carattere unitario della ”econ0mia" divina, del piano di salvezza. Ispirandosi all'esemplarismo platonico, Ireneo presenta Dio come un artista che prima progetta e poi realizza l'intero piano della salvezza, e lo fa secondo le esigenze dell'esemplarismo, restando quindi fedele, nell'esecuzione della copia, all'immagine originaria. L'Artista divino non ha bisogno «come un operaio poco capace o come un ragazzo che incomincia a imparare un mestiere» di un modello estraneo da copiare. Dio prende il modello originario da se stesso: è suo Figlio, la sua Parola, il Logos. In lui il Padre esprime in maniera perfetta e allo stesso tempo progetta tutto ciò che vuol creare. Neppure il peccato dell'uomo riuscirà a far fallire l'opera di Dio, perché Dio può e vuole sollevare ciò che è caduto e, salvando, trasformare i tempi dell'esilio nella pienezza dei tempi. «L'arte di Dio non conosce nessun rallentamento. E così potente da suscitare figli di Adamo addirittura dalle pietre (...). La luce non viene meno per colpa di coloro che si sono abbaglianti e che non hanno voluto ritenere in se stessi la sua arte».21 Poiché per pura grazia il "sì" di Dio supera ogni reale e
21)
Adv. haen, v, 1, 3.
l renco,
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possibile "no" dell'umanità, «Adamo non si svincolerà mai dalle mani di Dio».22 Questa legge vale finché dura la storia. Nella sua opera Dio vuole perseguire fino alla fine la meta che si è proposto col suo piano eterno di "salvezza": la manifestazione reciproca di Dio e dell'uomo. Dio non vuole affatto la glorificazione di se stesso a scapito dell'uomo, ma per il suo bene, per la sua salvezza. Ne’ tuttavia la salvezza dell'uomo può avvenire ai danni di Dio, cioè sottraendosi a Lui, ma nell'unione con Lui: «poiché la gloria di Dio è l'uomo vivente e la vita dell'uomo è la visione di Dio».23 Dopo che il primo incontro dell'uomo con Dio, nel paradiso terrestre, è apparentemente fallito, per qualche tempo il dialogo viene interrotto, ma non a lungo. Dopo il diluvio, Dio rinnova la sua alleanza con l'umanità, prima stringendo un patto speciale con Israele, successivamente inviando nel mondo il suo Figlio unigenito e dando Vita alla Chiesa col concorso dello Spirito Santo. Agli argomenti con cui gli gnostici rimarcavano la diversità dei due Testamenti Ireneo risponde ammettendo che c'e una diversità profonda soprattutto sul piano morale, e perciò non si deve prendere tutto ciò che dice l'Antico Testamento come norma indiscussa di condotta. Tante cose, come le debolezze o i peccati di alcuni grandi personaggi, sono state raccontate per insegnarci l'umiltà: per farci riflettere pensando che, se hanno sbagliato uomini così grandi, anche noi possiamo sbagliare. E per questo dobbiamo essere indulgenti con i nostri padri che sbagliareno e vigilanti per non sbagliare noi a nostra volta. Inoltre il diverso modo di agire dipende non già da colui che agisce, ma dalla diversa capacità dell'uomo nell'accogliere i doni di Dio. Come la madre dà ai propri figli un cibo diverso, a seconda dell'età, scegliendo il cibo più adatto e più utile, così Dio nel corso dei secoli si è rivelato all'uomo secondo le capacità che questi aveva di accoglierlo: con segni, parole e precetti diversi. E i cristiani oggi non devono rifiutare tutto questo, ma interpretarlo alla luce della rivelazione portata da Cristo, secondo l'insegnamento dei presbiteri. Negli eventi e nelle istituzioni antiche si devono vedere figure delle realtà cristiane e nelle profezie il preannuncio di queste stesse realtà. Così il disagio di fronte all'Antico Testamento si supera se lo si legge pensando alla graduale educazione e preparazione dell'uomo ad accogliere la piena rivelazione di Dio in Cristo e alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa.
22) lbid. 23) 1514., II, 24, 7.
Parte prinza
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L'UOMO Il secondo errore che Ireneo non si stanca di denunciare negli gnostici riguarda il loro concetto della natura umana. Come i manichei anche gli gnostici avevano un concetto dualistico non solo di Dio (contrapponen— do il Dio del Nuovo Testamento a quello dell'Antico) ma anche dell'uo-
soltanto affermavano che l'uomo è costituito di due sostane corpo, ma consideravano il corpo umano come incapace di accogliere la salvezza, e quindi destinato alla distruzione, perché il corpo proviene dal mondo terrestre, che è opacità e pesantezza, e come mo.
Essi
non
ze, anima
tale non può
essere
elevato alla sfera del divino, che è spirito, pienamen-
te libero dalla pesantezza della materia. In primo luogo Ireneo replica agli gnostici che anche la carne ha un Valore positivo e questo per tre motivi: perché l'ha creata Dio con le sue mani (il Figlio e lo Spirito); perché se l'è appropriata Cristo facendosi uomo; perché è destinata a essere glorificata mediante la risurrezione. In secondo luogo, Contro gli gnostici i quali sostenevano che la carne non ha
alcun rilievoperché il valore dell'uomo dipende dallelemento spirituale, cioè dall'anima, Ireneo fa vedere che l'anima non ò l'uomo, ma una parte dell'uomo come la carne, e che questa ne è elemento essenziale, né più né meno dell'anima; cosi l'uomo perfetto non è l'anima come sostenevano gli gnostici seguendo Platone, ma è la carne vivificata dall'anima che porta in sé lo Spirito di Dio. Pertanto il corpo non è un elemento accessorio, con cui l'anima si trova occasionalmente a contatto e di cui farebbe volentieri a meno, ma una componente essenziale dell'uomo, creata originariamente da Dio, per mezzo della quale si esprime l'amore a Cristo. Ireneo pensa alla vita morale dei cristiani, che si esprime nella carne, come la castità e l'elemosina e in modo particolare al martirio. È nella totalità del suo essere, anima e corpo, che l'uomo è immagine di Dio. La creazione dell'uomo non è, come vogliono gli gnostici, opera degli angeli o di altri esseri inferiori, bensì della Trinità, perché soltanto Dio può fare un'immagine di Dio. Al «Faciamus hominem ad imaginem...»î4 Ireneo dà un significato Trinitario: il Padre si rivolge al Figlio e allo Spirito. Queste due Persone sono le "Mani di Dio" con cui si realizza la creazione25 Il modello assunto da Dio (Trinità)per la creazione dell'uomo è il Logos, ma non il Logos preesistente eternamente in Dio, bensì il Verbo incarnato: «Questo si mostrò vero allorquando il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all'uomo e l'uomo simile a sé, affinché attraverso la somiglianza con il Figlio, l'uomo divenga pre-
24) 25)
Gen 1, 26.
Cf. Adî). 114187., Il, 47, 2; III, 38, 2,‘ lV, 62, 2.
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zioso di fronte al Padre. Infatti, nei tempi passati si diceva bensì che l'uomo è stato fatto a immagine di Dio, ma non appariva tale, perché era ancora invisibileil Verbo, a immagine del quale l'uomo era stato fatto: e appunto per questo facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne, confermo l'una e l'altra cosa: mostrò veramente l’immagine, divenendo egli stesso ciò che era la sua immagine, e ristabilì saldamente la somiglianza, rendendo l'uomo simile al Padre invisibileattraverso il Verbo che si vedemîé Come dice chiaramente questo testo, è l'Uomo—Dio, il Verbo incarnato, quale esisteva da tutta l'eternità nei disegni divini, che ha svolto la funzione di modello dell'uomo. Si può arguire che l'immagine del Verbo nell'uomo non comprende soltanto la dimensione spirituale ma tutta la realtà umana e quindi anche la dimensione somatica; Ireneo pone in effetti fortemente l'accento sulla corporeità e l'immagine viene spesso messa in rapporto con la carne e col plasma: «imaginem quidem habens in plasmata>>27
Ireneo opera una distinzione, che sarà poi costantemente seguita dai Padri e dagli Scolastici, tra imago e similitudo. Uimago si ritrova nella natura umana, anima e corpo, e non Verrà mai meno neppure dopo il peccato di Adamo. Mentre la sinzilitudo è un dono soprannaturale concesso ad Adamo, perduto col peccato e restituitoci da Gesù Cristo con la grazia. La similitudo consiste essenzialmente nella presenza dello Spirito Santo: «sirnilitudinem vero assumens per Spiritumm?“ L'infusione dello Spirito Santo provoca nell'uomo un autentico e profondo cambiamento di essere: gli restituisce l'essenza originaria. La carne, ossia l'uomo naturale, corpo e anima, pur restando ciò che è, si ignora e assume il modo di essere dello Spirito.” Ciò non avviene di colpo: la similitudo è il risultato di un lungo processo che neppure consegue il suo compimento nella Vita presente. La rassomiglianza piena con Dio avrà luogo con la risurrezione, che spalanca la porta alla visione di Dio, alla comunione con lui, alla gloria, alla immortalità: tutti privilegi dell'uomo spirituale o perfetto. La sinzilitudo, realizzando il progetto inteso da Dio con la creazione dell'uomo, compromesso dalla caduta, è come una creazione continua messa in atto dalle "Mani di Dio" (il Verbo incarnato e lo Spirito Santo), poiché il dono dello Spirito, che è il costitutivo essenziale della
similìtudo, procede dal Padre e dal Figlio.
26) 11nd,, v, 16, 2. 27) 11nd,, V, 6, 1. 28) Ibid. 29) Cf. ibid., V, 9, 2.
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Parte prima
Un'altra dottrina gnostica contro cui Ireneo non si stanca di combattere è la divisione degli uomini in due classi: quella dei perfetti e quella dei semplici. I primi sarebbero esenti da ogni colpa e da ogni peccato, mentre i secondi sarebbero soggetti al male e al peccato. Tutto questo accadrebbeper decreto divino. Contro questa discriminazione Ireneo pone l'accento sulla libertà, come prerogativa Comune e propria di tutti gli uomini, e come ragione ultima della bontà e della malizia delle proprie azioni e quindi anche della propria condizionemorale e spirituale. Non era ovviamente ancora la soluzione adeguata al problema, ma era indubbiamente una risposta valida contro lo gnosticismo.
Ippolito, discepolo di Ireneo Ippolito, teologo e scrittore ecclesiastico del III secolo, fu degno discepolo del suo grande maestro Ireneo. Poche sono le notizie sicure sulla sua vita e la sua persona. Greco di nazionalità e di lingua, fu a Roma avversario deciso di papa Callisto e riuscì contro quest'ultimo a farsi eleggere vescovo (non si sa di quale diocesi) dai suoi partigiani. Fatto deportare in Sardegna dall'imperatore Massimino (anno 235), assieme al
papa Ponziano, con cui si era riconciliato,vi morì martire. Fino alla metà del secolo scorso di Ippolito erano noti solo pochi testi, di cui la maggior parte non erano che frammenti; in seguito però un inventario più accurato dei manoscritti greci e orientali ha fatto scoprire un numero rilevante di sue opere. Esistono inoltre diversi scritti che non portano il suo nome, ma che gli sono stati attribuiti dagli storici moderni, tra i quali il più conosciuto è l’Elenc0 contro tutte le eresie (Pizilosophumena). Gli scritti di Ippolito si possono suddividere in due gruppi: quelli di genere esegetico e quelli di genere polemico. Al primo gruppo appartengono: Commento a Daniele, Commento al Cantico, Davide e Golia, Benedizione di Giacobbe, Benedizione di Mosè, Sullflntîcrìsto, Sulla Genesi (frammenti), Sali ‘Apocalisse (frammenti). Al secondo gruppo appartengono: Contra Noetam e Elenchos o Philosophumena. Durante gli ultimi decenni il Nautin e qualche altro studioso hanno messo in dubbio che i due gruppi di opere così profondamente diversi per stile e contenuti possano appartenere allo stesso autore e hanno cominciato a parlare di due Ippoliti: un Ippolito esegeta, che è l’Ippolito di cui abbiamo le notizie storiche riferite sopra, e un Ippolito eresiologo, contemporaneo al precedente, discepolo lui stesso di Ireneo, ma di cui si ignora l'esatta provenienza e ogni altro dato biografico. Ma questa duplicazione non pare giustificata (a Bardy, Richard ecc.), perché la diversità dei temi trattati, degli stessi destinatari e probabilmente della -
—
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data di composizione sono motivi più che sufficienti a giustificare le notevoli differenze che si incontrano nei due gruppi di opere. Ad ogni modo Yapporto di Ippolito alla teologia è considerevole sia nel campo esegetico sia in quello più propriamente teologico, e in entrambi i casi l'influssodel suo maestro Ireneo è evidente. In campo esegetico Ippolito fu il creatore di un genere letterario autonomo con le sue opere dedicate espressamente alla interpretazione, se non ancora di un intero libro della Sacra Scrittura, di passi anche ampi, senza finalità polemiche o catechetiche. Si tratta di opere in cui il testo in questione viene riportato passo per passo, ognuno seguito dalla spiegazione, di norma piuttosto stringata, in cui comunque non mancano spunti dottrinali in funzione antieretica e talvolta aperture di carattere morale e parenetico. Come Ireneo anche Ippolito nella sua esegesi fa ampio ricorso alla tipologia, ma questa ricerca non di rado pregiudica la serietà delYesegesi stessa, date le evidenti forzature cristologiche della tipologiafio Gli influssi di Ireneo su Ippolito sono ancora più evidenti negli scritti polemici. Qui Ippolito riprende il pensiero del suo maestro su alcuni argomenti fondamentali: la condanna della filosofia, il valore della tradizione, la dottrina trinitaria, specialmente con riferimento al Logos, in opposizione al modalismo e all’adozionismo. Anche Ippolito come Ireneo vede nella filosofia il germe di tutte le eresie. Secondo Ippolito la verità non si attinge dai filosofi ma dalla scienza di Dio e «questa non si impara se non dagli oracoli di Dio» ossia dalla Sacra Scrittura. «Come infatti, qualora uno volesse coltivare la sapienza di questo secolo, non potrebbe farlo se non attingendo alle dottrine dei filosofi, così pure noi, Volendo coltivare la pietà verso Dio, non possiamo farlo altrimenti che sulla base dei detti di Dio. Quanto perciò annunciano le divine Scritture, intendiamolo, e quanto insegnano, apprendiamolo: e così come il Padre vuole essere creduto, crediamo; e come vuole che il Figlio sia glorificato, glorifichiamolo. E tutto ciò intendiamolo non a nostro arbitrio, non a nostro piacimento, né usando violenza alle cose che Dio da sé liberamente ha cedute, ma in quel preciso modo che Egli ha voluto mostrare tramite le stesse sacre Scritture>>fi1 Le Scritture sono quindi l'unica fonte di verità a cui il cristiano e il teologo devono attingere, ma non possono farlo arbitrariamente, ossia prescindendo dalla tradizione. E questa da Ippolito viene fatta consistere ancor prima di ogni eventuale espressione dottrinale, «nella legittima successione (diadoché) apostolica, la quale fa sì che la grazia dello Spirito
3“) Cf. M. SIMONETTI, Profilo storico dellfizsegesi patristica, Roma 1981, pp. 30-35. 3‘) Contra Noetum, 9.
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Parte prinza
(che è lo Spirito di verità) che per primi gli Apostoli hanno ricevuto, giunga fino ai presenti successori (diadokoi) dei quali, noi, partecipi della stessa grazia, dello stesso sacerdozio, dello stesso magistero e computati a custodi della Chiesa, non chiudiamo occhio, né tacciamo la retta dottrina, che piuttosto non desistiamo un solo istante, impegnandoci con tutta l'anima e il corpo, da rendere giustamente quel che è giusto a Dio, che ci benefica, nella prova, non prendendoci altra rivalsa che quella di
inflessibiliin ciò che ci è stato affidatoml Per il mistero trinitario Ippolito usa formule che, pur prestandosi ancora ad ambigueinterpretazioni, sono tuttavia chiare e categoriche sia sull'esistenza delle tre persone sia sulla loro distinzione. Scrive Ippolito nel Contra Noetun: (11-12): «In altra maniera non può essere riconosciuto un unico Dio, se non credendo realmente nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo. I giudei infatti glorificarono il Padre, ma non gli resero grazie, poiché non riconobberoil Figlio. I discepoli riconobbero il Figlio, ma non nello Spirito Santo, perché questo lo negarono. Riconoscendo dunque il Logos paterno come economia e volontà del Padre, che cioè il Padre non altrimenti vuol essere glorificato che mediante il Figlio che così, risorto, trasmise ciò ai discepoli dicendo: ”Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mi 28, 19), mostrando che chiunque omette uno di questi non glorifica Dio perfettamente. Attraverso questa Triade infatti il Padre è glorìficato. In effetti, il Padre volle; il Figlio fece; lo Spirito Santo manifestò. Tutte le Scritture ne danno annunzio...» L'origine del Figlio dal Padre è espressa in termini di generazione: «sulla base della propria immanente conoscenza, Egli (il Padre) genera da sé il Logos, non ancora il Logos come voce, ma come pensiero interiore (endiathetos logismòs) di tutto. Questo solo egli generava da "ciò che è”, poiché «ciò che è” era lo stesso Padre, da cui procede ”ciò che fu generato”».33 Il Logos è generato dal Padre come «”pensiero interiore”, in vista della creazione, dove il Logos opera come ”Voce primogenita” (prototokos phoné) ”causa prima di tutto ciò che diviene"».3tOltre che la funzione di creatore del cosmo Ippolito assegna al Logos la funzione di reggitore del cosmo: «Tutto regge il Logos di Dio, il Figlio primogenito del Padre, la Voce apportatrice di luce prima ancora della stella del mattino>>fi5 Ippolito ha idee molto chiare e usa espressioni felici anche a proposito della realtà teandrica del Cristo, il Logos incarnato. essere
i
33) Philosoplzumena,pro]. 33) Philos, 10. 34) Ibid. 35) Ibid.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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«Questo Logos scrive Ippolito nei tempi recenti, il Padre inviava, -
—
parlare per mezzo di un profeta, né solo volendo offrire materia congetture con un qualche oscuro annuncio, ma disponendo che
non a
di
egli apparisse proprio di persona
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Parte prima
Ciò che differenzia le due teologie, oltre la lingua, è il rapporto con la filosofia. Infatti, mentre la teologia greca in campo filosofico ha come principale alleato Platone e il platonismo, la teologia latina (fino a Agostino) assume come alleato primario Zenone e lo stoicismo, che in quell'epoca era l'indirizzo filosofico seguito dai grandi scrittori latini: Seneca, Svetonio, Marco Aurelio. Ne consegue un interesse più spiccato della teologia latina per i problemi morali, pratici e istituzionali.
VITA E
OPERE
Tertulliano nacque a Cartagine intorno al 160 da genitori pagani e lui giovane fu un pagano convinto: prendeva parte alle forme più deteriori del paganesimo, frequentando i misteri di Mitra e allo stesso tempo avversava e derideva il cristianesimo. Ricevette un'educazione classica completa, comprendente anche un'ottima conoscenza del greco. Datosi allo studio della giurisprudenza ne divenne in seguito assai esperto. Si convertì al cristianesimo Verso l'anno 195 e portò nella difesa della nuova fede tutto Yardore del suo cuore e Yacutezza del suo possente ingegno. Fortemente rigorista con se stesso si lascio trascinare dentro la spirale dell’eresia montanista, che abbracciò apertamente nel 213. Dopo la sua aperta rottura con la Chiesa istituzionale, intraprese un’aperta polemica contro i vescovi e i cattolici. Infine si separò anche dal montanismo e costituì una propria setta. Tertulliano visse assai a lungo, ma sono ignoti sia la data sia il luogo della sua morte, che sembra avvenuta intorno al 240. La produzione letteraria di Tertulliano è imponente e si occupa, si può dire, di tutte le tematiche religiose, daltapologetica alla polemica antieretica, fino alle tematiche strettamente teologiche. i suoi scritti si dividono in tre gruppi: a) Scritti del periodo cattolico (197-208): Apologeticunz, Ad nationes, De testimonio animae, De spectaculis, De praescriptione haereticorum, De horatione, De baptismo, De patientia, De poenitentia, Ad uxorem, Adversunz Hermogenem, Adversus Iudeos. b) Scritti del periodo di transizione: Adversus Marcionem, De pallio, AdÌJEYSIJS Valentinianos, De anima, De carne Christi, De resurrectione carnis, De idolatria, Ad Scapulam. c) Scritti del periodo montanista: Adversus Praxeam, De fu ga in persecutione, De monogamia, De jejunio, De pudicitia. stesso da
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APOLOGIA DEL CRISTIANESIMO Tertulliano viene ricordato anzitutto come apologista del cristianesiNel suo Apologeticum egli demolisce tutte le accuse che venivano mosse ai cristiani, dimostra l'illegalità dei processi a cui venivano sottoposti e delle condanne che venivano loro inflitte, ed elenca una serie di titoli che rendono il cristianesimo superiore a ogni altra religione: le virtù dei cristiani, il loro eroismo, il loro martirio fonte di nuove conversioni. Lflpologeticum servirà da modello a tutti i futuri apologisti del cristianesimo da Agostino, fino a Pascal e a De Maistre. La maggior parte degli argomenti dellflàpologeticum si riscontrano già mo.
negli apologisti precedenti (Quadrato, Giustino, Taziano, Atenagora) ma
Tertulliano li riprende con tono personalissimo e con un'aspra aggressività che non risparmia neppure i filosofi tradizionalmentepiù venerati. Con compiaciuta ironia mette spietatamente in luce l'inconsistenza della religione pagana, con sottile dialettica rileva le incongruenze dei nemici dei cristiani sia sul piano giuridico sia su quello morale, con entusiasmo e passione descrive ora la superiorità dei cristiani sui loro avversari sotto ogni aspetto, ora l'ingiustizia di cui sono fatti oggetto, ora la libertà cui hanno diritto nel professare la loro fede, rifiutando all'imperatore gli onori divini che non gli spettano. I due argomenti a cui Tertulliano, da buon giurista, insiste giustamente sono quelli della illegalità dei processi e delle condanne e quello della prescrizione (praescriptio). Tertulliano ricorda ai giudici romani che è assolutamente illegale condannare una persona soltanto a causa del nome che porta: ciò che conta sono i fatti e non i nomi. Un uomo deve essere condannato per le azioni compiute, se sono cattive, e non soltanto perché porta il nome di cristiano, di ebreo, di assiro ecc. Dell'argomento della illegalità dei processi e delle condanne Tertulliano si avvale contro i magistrati e contro le autorità romane. Invece contro i filosofi, che manovrano l'opinione pubblica e muovono ai cristiani le accuse più subdole e pesanti, Tertulliano si serve dell'argomento della prescrizione: «Noi senza indugio poniamo una prescrizione contro i nostri falsari». È l'argomento che sfrutterà soprattutto contro gli eretici, ma se ne serve anche contro i filosofi; solo che mentre contro gli eretici l'appello alla prescrizione per rivendicare la proprietà piena e previa della verità rivelata trae valore dall’apostolicità, e quindi dalla trasmissione autorevole e garantita della verità evangelica, nel caso dei filosofi la cosa diventa molto più complessa: occorreva sostenere che in un modo o nell'altro i greci avevano appreso le grandi verità filosofiche dagli ebrei, e più precisamente che Platone aveva derivato i suoi insegnamenti da Mosè. Questa era già la tesi di Clemente Alessandrino e Tertulliano la fa sua: «la Scrittura fu il tesoro per ogni sapienza venuta dopo».
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Parte prima
CRITICA DELLE ERFSIE
sappiamo, numerose opere di Tertulliano sono dirette contro eretici: Marcione, Valentino e Prassea in modo particolare, e contro le gli loro rispettive eresie: il dualismo manicheo (Marcione), lo gnosticismo (Valentino),e il monarchismo (Prassea). In questo lavoro, anziché impegnarsi sul terreno esegetico per demolire una a una le interpretazioni errate che venivano date dell'Antico e del Nuovo Testamento, cosa che sarebbe andata assai per le lunghe dando luogo a interminabilidiscussioni, Tertulliano preferisce affrontare la questione alla radice facendo intervenire il principio della praescriptio. Questo è uno strumento giuridico, molto usato nei tribunali romani, con cui si solleva una eccezione pregiudiziale alla causa stessa, eccezione tale per cui si impedisce alla controparte di muovere le sue accuse e di rivendicare le proprie pretese. Applicare agli eretici questa figura giuridica significa all'inizio che qualunque affermazione essi presumano avallare con le Scritture non ha valore, perché essi non posseggono alcun titolo di diritto sulle Scritture, in quanto queste sono state consegnate da Gesù Cristo agli apostoli e ai loro successori: «è da qui dunque che muoviamo la prescrizione: se il Signore Gesù Cristo invio gli Apostoli a predicare, nessun altro predicatore deve essere accolto, al di fuori di quelli che Egli stesso ha istituiti».37 Ecco come nel De praescriptione ÌTLIEYEÌÌCOTLITTZ viene formulato questo criterio di verifica della verità e di accertamento dell'ortodossia nella Come
Chiesa:
quali osino rifarsi all'età apostolica, sì insegnate dagli apostoli per essere nate sotto di loro. Si può delle loro replicare ad esse: mettano fuori dunque le carte di nascitadal princichiese; sciorinino i cataloghi dei loro vescovi mostranti sin pio la loro successione, sì da far vedere che quegli che fu il primo vescovo ricevette Yinvestitura e fu receduto da uno degli apostoli o almeno da un uomo apostolico, c e con gli apostoli avesse avuto costanti rapporti. Questo è il modo col quale le chiese apostoliche esibiscono i propri titoli: così la Chiesa di Smirne mostra che Policarpo fu collocato su quella sede da Giovanni; così quella di Roma fa vedere
«Può darsi che ci siano eresie le da parer
che Clemente vi fu ordinato da Pietro; e così pure le altre esibiscono i Vescovi che, costituiti nell’episcopato dagli apostoli, sono per loro i veicoli della semente apostolica. Può essere che gli eretici architettino una tradizione simile: che cosa non si fanno lecito dopo avere bestemmiato Dio? Ma anche se costruissero una tradizione simile, non farebbero un passo innanzi, ché basterà sempre mettere a fronte alla dottri-
37) Apolugeticum, c. 21.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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quella degli apostoli, per mostrare come la loro sia diversa e un apostolo e neppure da un uomo apostolico. Difatti come gli apostoli non insegnarono dottrine diverse tra loro, così gli uomini apostolici non divulgarono dottrine contrarie agli apostoli, a meno di ammettere che essi unacosa avessero appresa e un'altra predicatam-‘S
na
loro
contraria, e quindi non derivi da
Tertulliano è un critico severo, aspro, sarcastico, talvolta violento, della cultura pagana e, quindi, anche della filosofia. Nella filosofia egli vede la sorgente e la causa di tutte le eresie: «Le eresie, in sostanza, vengono fornite dalla filosofia. È da qui che derivano gli ”eoni”, le non meglio definite ”forme" e la "triade umana” (= uomini ilici, psichici, pneumatici) presso Valentino, che era un platonico. E da qui che deriva il ”Dio buono" di Marcione: veniva dagli stoici. E che si dica che l'anima perisce deriva dagli epicurei, come che si neghi la risurrezione della carne viene dall'opinione comune di tutti i filosofi. Laddove si identifica la materia con Dio, siamo in presenza della dottrina di Zenone. E quando si parla del fuoco come Dio, è Eraclito che interviene (...). Disgraziato di un Aristotele! E stato lui a insegnare loro la dialettica, arte di costruire e demolire, mutevole nelle opinioni, forzata nelle congetture, ottusa nelle argomentazioni, provocatrice nelle contese, molesta persino a se stessa, che tutto ritratta per tema di non averlo trattato del tutto (...). Orbene, che c'entra Atene con Gerusalemme e l'Accademia con la Chiesa? E che rapporto ci può essere tra gli eretici e i cristiani? La nostra scuola è quella del ”Portico di Salomone", il quale ci ha insegnato che ”ilSignore va cercato in semplicità di cuore” (Sap 1, 1). Stiano attenti coloro che han messo in circolazione un cristianesimo stoico o platonico o dialettico! Noi non abbiamo più bisogno di curiosare dopo Gesù Cristo, né di ricerche dopo il Vangelo. E dal momento che crediamo, non desideriamo altro che credere. Questo è infatti, il primo articolo del nostro credo: che non c'è nient'altro da credere».39
Eppure questa aspra denuncia della filosofia pagana e questa energiaffermazione della completa autonomia della fede non ci autorizzano a concludere come spesso si fa, che la polemica di Tertulliano tocchi la filosofia in quanto tale e non piuttosto una sua degenerazione (corruptio) e che la sua critica della filosofia pagana equivalga al rifiuto di ogni filosofia. Questa presentazione di un Tertulliano fideista, che si appella al credo quia absurdum come unico argomento a sostegno della sua fede non corrisponde a verità. In effetti, chi fa teologia e ancor più chi fa dell’ apoloca
33) De praescriptivne, c. 32. 39) lbìd., C. 7.
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Parte prima
getica
come
fa Tertulliano deve ricorrere necessariamente alla ragione, all’argomentazione, alla speculazione e tutto questo comporta necessariamente un armamentario filosofico, principi filosofici,Verità e dottrine filosofiche. Chi critica una determinata filosofia se vuol essere ascoltato dal suo interlocutore deve farlo con argomenti filosofici e quindi a par— tire da un'altra filosofia più o meno esplicitamente elaborata. Questo vale anche per Tertulliano. Egli critica la filosofia ”culta” dei pagani a partire dalla filosofia del senso comune (conscientia cammunis), la quale a sua volta affonda le sue radici nella rivelazione originaria della verità per opera del Logos. Pertanto non ci si può aggrappare al famoso "credo quia absurdzun" di Tertulliano per sostenere che egli rifiuta totalmente e irrevocabilmentela filosofia e qualsiasi uso della ragione nell’intelligenza della fede, per rinchiudersi e trincerarsi interamente dentro il sicuro recinto della fede. ”Se si guarderà al senso della polemica tertullianea, si —
-
vedrà sempre che il significato è nella condanna di un determinato modo di analizzare e risolvere le cose. È evidente del resto che i giudizi complessivi su Tertulliano sono stati influenzati dal ‘Tertum est quia impossibile”, mal riferito come un ”cred0 qma absurdxmì", che non fu mai scritto. Ma bisogna vedere il modo in cui Tertulliano ha compiuto le sue analisi, al di fuori di quel celebre passo; in che modo ha risposto alle analisi altrui; in che modo cioè ha superato la posizione immediata e irrazionale del credere o in che modo non abbia potuto tener fede alla assunzione immediata del criterio del credere» (l. VECCHIOTTI). Di fatto Tertulliano attinge spesso e volentieri alla filosofia stoica nel formulare le verità della fede cristiana e fa costantemente appello alla filosofia del senso comune quando attacca la filosofia pagana: le critiche di questa filosofia non sono svolte a partire dalla fede cristiana bensì a partire da quel patrimonio comune e fondamentale che è la filosofia del senso comune. Contro le teorie bizzarre e contraddittorie dei filosofi pagani su Dio, sulla provvidenza, sull’anima, sulla risurrezione, sull’aldilà Tertulliano si richiama a un'altra filosofia, che è la filosofia innata della conscientia communis, e del testinzonium animae, ossia quella filosofia che rende l'anima ”naturalmente cristiana". In un notissimo capitolo dellflpologeticzntz parlando della esistenza di Dio Tertulliano, appellandosi alla testimonianza della coscienza (ex aizimae testimonio), dichiara che l'anima «pur nel carcere del corpo rinchiusa, pur da insegnamenti pravi circondata, pur da passioni e concupiscenze svigorita, pur a false divinità asservita, tuttavia, quando ritorna a sé, come dopo l’ubrìachez— za o un sonno o qualche malattia, e il possesso riprende della sua condizione sana, fa il nome di Dio, con questa sola parola ("mio Dio”), poiché è propria del vero Dio: e ”Dio buono e grande", e ”quello che a Dio piacerà”, sono le parole di tutti. Anche quale giudice lo attesta: ”Dio vede",
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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”a Dio mi affido” e ”Dio me lo renderà". O testimonianza della coscienza naturalmente cristiana (O testimoniunt animate naturaliter Chrie
stianae)!».40
Si delinea a questo punto un modo di impostare i rapporti tra fede e filosofia e cristianesimo, che è molto lontano da quello che sarà formulato nella storia della filosofia cristiana: per Tertulliano, contrariamente a quel che si suol dire, tra queste due forme del sapere e della cultura non c'è mai stata né ci può essere, in linea di principio, una netta antitesi, perché, nella sua forma originaria di filosofia del senso comune, tra fede e ragione, tra filosofia e cristianesimo esiste piuttosto una innata, connaturale convergenza e sintonia.
ragione, tra
ESISTENZA s NATURA DI DIO La polemica con i filosofi e con gli eretici offre spesso l'occasione a Tertulliano di intervenire sulla questione dell'esistenza e della natura di Dio, argomento di capitale importanza sul quale gli errori ormai non si contavano
più.
Già
nell’Ap0l0geticun1 troviamo la dimostrazione dell'u-
nico Dio, Padre e Creatore, fatta sia a partire dal cosmo che dalla testimonianza dell'anima (c. 17). Di questa duplice prova, già classica nella letteratura cristiana, documentata più o meno ampiamente da tutta l'apologetica, Tertulliano predilige indubbiamente la seconda, che sviluppa anche in un'opera a parte, il De testimonio aniînae. L'esistenza di Dio risulta pertanto indubbia e incontrovertibile.Altrettanto si deve dire anche di alcuni aspetti (attributi) della sua natura,
quali l'unità, l'infinita, Yonnipotenza, la bontà, l'eternità, Yimmaterialità, Yinvisibilitàecc. Contro Ermogene, Tertulliano insiste molto sull'attributo della immaterialità, criticando la tesi, difesa da Ermogene, della coeternità della materia rispetto a Dio. Tertulliano lo accusa di aver abbandonato la Chiesa per la filosofia, e ben a ragione, perché la concezione della materia increata, sostrato informe e caotico destinato a essere plasmato e ordinato da Dio, è corrente nella filosofia greca di ogni scuola, mentre è del tutto estranea al pensiero cristiano e in generale anche alle varie eresie che di qui pullulavano. Tertulliano confuta Ermogene dimostrando che l'idea stessa di Dio onnipotente esclude l'esistenza di un principio a lui coeterno e irriducibile, tale da limitare il suo potere. E se proprio si vuole cercare qualche ”materia” della creazione, allora la si deve rintracciare nella eterna sapienza di Dio, che da sempre era con Lui: «Se a Dio era necessaria una materia per la costruzione del mondo, 4D) Apologeticum, c. 17.
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Parte prinza
pensa Ermogene, Orbene, Dio ce l'ha una ”materia”, di gran lunga più nobile e più idonea, da Valutare non presso i filosofi, ma da capire presso i profeti, cioè la sua Sapienza (Sophia); ed è anche la sola, che ha conosciuto il Pensiero (Sensus) di Dio (...). Chi, dunque, non concome
molto
sidererebbe piuttosto questa come sorgente e origine di tutte le cose, la vera materia delle materie, non a lui suddita, non diversa di condizione, non ribelle di propensione, non informe nell'aspetto, bensì immanente e propria e adatta e formosa, quale a Dio conveniva di servirsi Lui che si serve di ciò che è suo, senza bisogno di ciò che è di altri?».4'
Tertulliano risulta quindi categorico nell'affermare una conoscenza naturale dell'esistenza di Dio e di una serie di attributi che caratterizzano la sua natura. Tuttavia è altrettanto categorico nei dichiarare che a causa della sua assoluta trascendenza rispetto a tutte le creature, Dio per quanto concerne la sua natura rimane del tutto inaccessibile,inconoscibile e ineffabile. A questo riguardo egli riprende le tesi tradizionali di Filone e di Clemente Alessandrino concernenti la teologia negativa: «Dio è invisibile, sebbene si veda; inafferrabile (incompreherzsibilis),sebbene si lasci dalle facoltà umane Comprendere; per questo è vero ed è così grande. Il resto che comunemente si può vedere, afferrare, comprendere, minore è degli occhi da cui è abbracciato, della mano con cui viene a contatto, dei sensi da cui viene scoperto. Invece ciò che è incommensurabile,solo a se stesso è noto. Questo ‘e ciò che Dio fa comprendere, che egli non risulta comprensibile (Hoc est quod Deum aestimarifacit, dum aestimari non capit); così l’immensità della sua grandezza agli uomini lo presenta noto e ignoto».42
LA TRINITÀ Per quanto attiene il dogma della Trinità i meriti di Tertulliano sono indubbiamente grandissimi, anche se non si può pretendere da lui una definizione esaustiva e impeccabile di questo sublime mistero. Ma è già moltissimo quello che egli è riuscito a fare introducendo espressioni linguistiche come substantia, natura, persona che consentiranno più tardi ad Agostino di raggiungere una formulazionedefinitiva del mistero trinitario. La sua dottrina sulla Trinità segna inoltre una tappa importante nel passaggio da una considerazione preminentemente ”cosmologica” della Trinità, verso una considerazione ”psicologica" (che sarà quella di Agostino), attraverso la teoria delle missioni del Verbo e dello Spirito.
41) Adversus Hermogenem, c. 18. 43) Apologeticum, c. 17.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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Elaborando una triadologia in chiave strettamente “economica" per economia si intende «la manifestazione nella storia delle ”proces— sioni” divine mediante la pluralità gerarchizzata delle attività signorili e salvifiche» (]. MOINGT) dove la chiarificazione del mistero trinitario non si ottiene prendendo in considerazione la Trinità immanente, bensì la Trinità operante nel corso della storia della salvezza, Tertulliano ci dà necessariamente una teoria subordinazionistica del Figlio e dello Spirito, dei quali dice esplicitamente che sono "inferiori” al Padre, in quanto non sono né a lui coeterni né eguali. Contro i monarchiani e i modalisti che negano la Trinità dei soggetti divini Tertulliano fa appello alla storia della salvezza così come si trova documentata nelle Scritture. Ora queste mostrano chiaramente che nella economia Dio non rimane rinchiuso in se stesso nella sua inaccessibileunità ma si espande e assume la duplice soggettività del Figlio, nella creazione, e dello Spirito Santo, nella Pentecoste e nella Chiesa. Ciò da cui Tertulliano non riesce ancora a liberarsi è il difetto comune a tutte le cristologia dei primi tre secoli del cristianesimo (lo si ritrova in Giustino, Taziano, Atenagora, Clemente Alessandrino, Origene ecc.): il subordinazionismo. Il Logos, il Figlio, per quanto dichiarato eguale (par) e consostanziale (essendo della medesima substant-ia) al Padre tuttavia rimane decisamente inferiore al Padre. La posteriorità poi del Figlio è così assoluta da assumere persino una connotazione temporale. Pare infatti che la processione del Figlio non abbia luogo nell’eternità ma abbia inizio con la creazione. Infatti mentre prima si dà soltanto un logos endiathetikòs la ratio, il sensus, la sophia indistinti in seno alla divinità dopo la creazione o più esattamente nel momento stesso della creazione si ha la generazione del logos prophorikòs: in quel momento la ratio, il sensus, la sophia divengono sermo (parola proferita). Solo in rapporto alla creazione la ratio-senno riceve il nome di Figlio e, correlativamente, Dio il nome di Padre. Qualche studioso (p. es. B. de Margerie) pensa di potere assolvere Tertulliano dall'accusa di subordinazionismo riportando la creazione sul piano dell'eternità e ipotizzando come ha fatto lo stesso S. Tommaso una creazione ab aeterno. Così, inserendo la creazione stessa nel piano dell'eternità, è ovvio che la processione del Figlio ha luogo a sua volta nell’eternità. Ma questa ipotesi, dopo quello che Tertulliano ha detto contro l'eternità della materia, pare del tutto infondata. Pertanto il subordinazionismo resta sia riguardo al Figlio e, a fortiori, riguardo allo Spirito Santo. Per superare il subordìnazìonìsmooccorrerà passare da una riflessione economica a una riflessione metafisica sul mistero trinitario. Ma a questo un'intelligenza molto attenta al concreto com'era quella di Tertulliano (che oltre ad avere una preparazione giuridica anziché filosofica e che in filosofia era contrario alle astrattezze di Platone e Aristotele, per sottoscrivere le concretezze degli stoici) non era affatto preparata. —
e
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Parte prima
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E
TEOLOGICA
Il pensiero di Tertulliano ha un denso spessore antropologico che prende in considerazione tutti gli aspetti fondamentali dell'uomo: filosofico, teologico ed etico. In sede filosofica Tertulliano è molto vicino alla posizioni degli stoici. Nel De anima egli si schiera a favore del materialismostoico che considerava l'anima come corpo sottilissimo, contro lo spiritualismc) platonico. Alla luce di questa concezione materialistica il problema dei rapporti spirito-anima viene risolto semplicisticamente identificando l'uno con l'altra. Successivamente Tertulliano prende posizione sul problema dell'origine dell'anima, rifiuta le dottrine platoniche della preesistenza dell'anima e della metempsicosi e considera l'anima creata insieme coi corpo e trasmessa insieme con esso dai genitori ai figli per mezzo di un seme distinto da quello del corpo (traducianesimo). Quanto alla sorte dell'anima dopo la morte Tertulliano sostiene che, dopo la morte, in attesa della risurrezione del corpo, le anime sono inviate ne1l’Ade, a eccezione delle anime dei martiri, che salgono immediatamente in paradiso. In sede teologica, seguendo l'esempio di Ireneo e di Clemente, Tertulliano studia il rapporto dell'uomo con Dio e con Cristo soprattutto sotto il profilo della sua somiglianza con Dio (imago Dei). Fedele alla sua prospettiva stoica Tertulliano situa Ficonicità più nel corpo che nell'anima. Così mentre per Ireneo e per Clemente il prototipo, il paradigma supremo dell'icona di Dio ‘e il Logos, per Tertulliano il modello principale è il corpo di Cristo. Conseguentemente, secondo Tertulliano, ogni forma del corpo umano è modellata sin dall'inizio in vista di colui che un tempo doveva diventare uomo per la salvezza di tutti gli uomini: «Ciò che trovava espressione nella creta, lo era pensando a Cristo che doveva farsi uomo: creta e carne, parola di Dio e a un tempo polvere della terra».43 La restaurazione della inzago Dei che, secondo Tertulliano, col peccato fu solo oscurata e non tolta, si riferisce direttamente al corpo. Col battesimo vengono tolte le pellicciae funicae dell'uomo vecchio e sostituite con quelle dell'uomo nuovo, Gesù Cristo. Tertulliano era particolarmente sensibileai problemi di ordine morale e disciplinare: perciò dedicò a questa materia una nutrita serie di brevi
monografie, tutte improntate a un atteggiamento rigorista e intransigente. In molti scritti, già a partire dallZ/lpologeticum, egli contrappone la
vita edificante di Chi abbraccia il cristianesimo alla vita licenziosa e immorale di chi professa il paganesimo, e condanna ogni manifestazione tipica di vita pagana e di ogni tentativo di apertura in questo senso.
43)
De resurrectinne carrzis, c. 26.
Ireneo, Ippolito, Tertulliano
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passando in rassegna le varie arti e mestieri che sono incompatibilicon la Vita cristiana, perché legate più o meno intimamente con la religione pagana, conclude che il cristiano non può svolgere nessuna delle professioni che lo stato pagano gli propone: «la contrap-
Nel De idolatria,
Stato e la Chiesa, fra il servizio di Dio e il servizio di Cesare è qui fortissima» (M. SIMONETTI). Mentre da cattolico Tertulliano non vietava alle Vedove di risposarsi, pur consigliando loro di non farlo (cf. Ad uxorern), successivamente, passato al montanismo, tratta le seconde nozze alla stregua dell’adulterio (cf. De monogamia). L'ideale della Vita cristiana per Tertulliano è rappresentato dal martirio. Il martire è colui che segue più da vicino il sommo modello, Gesù Cristo, martire per eccellenza. Uno dei primi scritti di Tertulliano è proprio dedicato ai martiri (Ad Martires). Egli Vede nel martirio il perfetto coronamento della vita cristiana, e il pegno sicuro del premio eterno. Forse il rigorismo etico di Tertulliano si spiega, oltre che col suo naturale temperamento, anche per un senso non solo di ammirazione ma anche di onestà Verso i martiri, che sono i cristiani più autentici.
posizione fra lo
Conclusione
Ippolito e Tertulliano la teologia ha affilato le sue armi, per operare un approfondimento della fede cristiana bensì per difenderla dagli assalti dei pagani e degli eretici. Per conseguire questo obiettivo non C'era nessun bisogno della metafisica, mentre bastavano la Con Ireneo,
non
dialettica e una buona conoscenza della Scrittura e della Tradizione. Non c'è quindi da meravigliarsi se con questi valentissimi scrittori cristiani del II e III secolo che vedevano nella metafisica un potentissimo alleato dello gnosticismo, essa, non solo non ha fatto registrare nessun progresso, ma anzi si è trovata praticamente bandita dal cristianesimo. Quanto alla patristica latina, per vedere il sorgere della metafisica cristiana occorrerà attendere ancora un paio di secoli, allorché Vittorino e Agostino riapriranno il dialogo tra cristianesimo e filosofia, e più specificamente con la filosofia platonica e neoplatonica. E con Agostino la metafisica Cristiano-platonica raggiungerà immediatamente altissime Vette.
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Parte prima
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106
I PADRI CAPPADOCI
E IL RILANCIO DELLA FILOSOFIA CRISTIANA
sappiamo, la metafisica cristiana ‘e una creazione della Scuola di Alessandria, ossia di Clemente e di Origcne. Sennonché questa scuola ebbe vita breve e si estinse, praticamente, con la morte dei loro fondatori. La loro scomparsa segnò una battuta d'arresto anche per la metafisica Come
cristiana. Intanto nel IV secolo
nuove
Gerusalemme, Antiochia,
scuole teologiche e catechetiche sorsero
Cesarea, Costantinopoli, dalle
quali
uscì
a
una
folta schiera di teologi che diedero grandissimo splendore alla patristica greca. Il loro impegno principale fu quello di combattere le nuove eresie cristologìche e trinitarie: l'arianesimo, il nestorianesimo, il monofisismo ecc. Nella lotta contro queste eresie si distinsero Atanasio, Eusebio, Didim0 il Cieco, Cirillo d'Alessandria, Epifanio, Giovanni Crisostomo, Cirillo di Gerusalemme e altri ancora. Con i loro scritti e con la loro predicazione essi contribuirono in maniera decisiva al progresso di alcune aree della teologia, in particolare della cristologia, della mariologia e della teologia trinitaria: ma il loro apporto allo sviluppo della metafisica cristiana fu quasi nulloJ Un nuovo impulso allo studio della filosofia e della metafisica venne invece dai Padri della Cappadocia, Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno e Nemesio. Essi ebbero tutti un'ottima formazione umanistica che comprendeva anche lo studio della filosofia. Si familiarizzareno con le opere di Platone, Filone e Plotino e impararono ad apprezzare il loro pensiero. Così intrapresero un nuovo dialogo tra filosofia e cristianesimo, che si rivelò molto proficuo anche per la metafisica cristiana.
L'incontro con il neoP latonismo con la diffusione del cristiafilosofiche scuole greche l'unica che era riuscita a grandi scuola la neoplatonica, fondata da Plotino (T 270) nella sopravvivere era
Qui occorre ricordare che nel IV secolo,
nesimo, delle
1)
Sul
pensiero di questi Padri cf. B. MONDIN, Storia della teologia I, Bologna 1996.
I Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
107
seconda metà del secolo lll d. C.2 Plotino, nelle sue Enneadi, pare disinteressarsi completamente della nuova religione, che certo non poteva ignorare, perché aveva compiuto i suoi studi filosofici ad Alessandria, dove avevano insegnato da poco Clemente e Origene. Tuttavia i grandi
progressi che egli fa compiere alla metafisica platonica avvengono attra-
l'assimilazionedi alcune verità fondamentali del cristianesimo: la eliminazione del dualismo ontologico, l'affermazione dell’unicità della Causa prima (l’Uno), una chiara determinazione della gerarchia degli esseri, che derivano tutta la loro realtà dal Principio primofi Grazie al grande avvicinamento della metafisica ncoplatonica al cristianesimo, per i cristiani che coltivavano la filosofia come i Padri della Cappadocia divenne assai agevole instaurare un contatto positivo con la filosofia "ad extra” (come veniva chiamata allora la filosofia pagana). Nella sua opera magistrale sulla letteratura greca dai presocratici al IV secolo d. C.,4 A. M. Malingrey dedica due capitoli alla ‘Thilosophia darzs Foeuvre de G-reejgoire de Nazianze, de Basile et de Gregoire de Nyssc". Benché condotto in chiave prevalentemente filologica, il suo studio focalizza egregiamente a quale profondità sia pervenuta Yinculturazione "filosofica" del cristianesimo e della teologia nel IV secolo per opera dei verso
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Padri cappadoci. Il linguaggio della filosofia (phìlosophîa) è ripreso dai tre Dottori della Cappadocia in tutte le sue molteplici valenze, sia speculative sia pratiche, sia morali sia ascetiche. Così tutto il cristianesimo in tutte le sue espressioni diviene "filosofia”:è filosofia la dottrina cristiana, è filosofia la morale, è filosofia la vita cristiana, la vita ascetica, la vita contemplativa ed è filosofia per eccellenza la vita monastica. Di volta in volta seguendo l'esempio di Clemente Alessandrino e di Origene i Cappadoci contrappongono la filosofia cristiana, ossia la filosofia di Cristo, la "n0stra filosofia”, alla filosofia pagana, la filosofia "ad extra” (exo), mostrando che vera, autentica filosofia è soltanto quella insegnata da Gesù Cristo, ma evitando quelratteggiamento di totale rifiuto della filosofia pagana che era stato assunto da Ireneo, da Taziano, e da Tertulliano. Il loro criterio è: «assumere ciò che è utile, fuggire con discernimento ciò che è nocivo>>.5 «Da Clemente i tre Cappadoci hanno conservato la capacita di accogliere l'apertura verso tutto ciò che può contribuire allo sviluppo
2)
Sul pensiero di Plotino e dei suoi discepoli si veda B. MONDIN, Storia della Metafisica l, Bologna 1998, pp. 513-611. 3) Cf. W. I. MALLEY, Hellenism and Christianity, Roma 1978, pp. 258 ss. 4) A. M. MALINCREY, ”Phil0s0phia". Etude d'un gruupe de muts dans la Iitterarure grecque des Présocratiqites mi 1V" siècle après j. C., Paris 1961. 5) GREGORlO D1 NAZIANZO, Ad Seleucum, 35ss.
108
Parte prirria
intelligenza. Per questo motivo quando le parole del gruppo philostiphiadesignano la cultura in generale presso di loro assumono una connotazione positiva. Da parte sua Origene li invitava ad essere prudenti, a considerare tutte le scienze umane alla luce della rivelazione, a confrontarle con i dati della fede. Così, nei confronti delle parole del gruppo philosophia essi operavano una sintesi di due tendenze che potevano diventare antagoniste e che invece ora risultano complementari. Benché non apportino nessuna vera novità, mediante l'uso di queste parole in un senso culturale, essi contribuiscono alla elaborazione di un vocabolario che sarà quello dell’umanesimo cristiano>>f= L’umanesimo cristiano dei Cappadoci si rivela soprattutto nella loro concezione sostanzialmente positiva della natura umana: quella icona divina che il Creatore ha voluto dotare dei due grandi poteri della ragione e della libertà. Sviluppando la dottrina della imago Dei, che grazie a Filone era già diventata patrimonio comune della teologia cristiana (specialmente per merito di Clemente, Origene e Atanasio), i Cappadoci insegnano che mediante il logos (la ragione) tutti gli uomini sono orientati verso Dio e possono conoscerlo. Trattando dellîmago Dei ecco quanto scrive Gregorio di Nazianzo: «Ci sono quattro titoli di nobiltà: quello del sangue, e quello che si ottiene mediante il decreto di un principe ai quali non conviene attaccarsi; ma c'è anche quello della nostra natura poiché siamo stati creati ad immagine di Dio, e quello che si manifesta mediante il vizio o la virtù, a cui noi partecipiamo più o meno, a seconda, a mio avviso, che noi proteggiamo o conserviamo l’icmag0».7 I due dei doni della
soli titoli di nobiltà a cui conviene dar valore si fondano entrambi sulla nozione di intrigo: il primo è legato alla natura stessa, il secondo all'esercizio della libertà (di compiere il bene oppure il male) e del logos. [l logos offre un terreno Comune su cui tutti gli uomini possono incontrarsi. Essendo stati creati ad imaginem Dei essi condividono una sapienza comune, alla quale i Cappadoci danno il nome di filosofia: è questa una saggezza comune, una forma di sapere che opera specialmente nel campo della morale. Impregnati d'una cultura che condividono con i loro contemporanei stoici e platonici, i Cappadoci, spinti anche dal loro desiderio di apostolato, affermano che le esigenze morali sono comuni a tutti gli uomini, e che nella misura in cui essi si attengono a tali esigenze, proteggono l'image Dei e possono stabilire tra loro un vero dialogo.
6) 7)
A. M. MALINGREY, 0p. cit, p. 222. GREGORIO Dl NAZIANZO, In scipsum 10; PG 35, 1241 B.
l Padri Cappadoci e il rilancio della filosofia cristiana
109
Sempre in linea con la valenza prevalentemente etica che avevano asfilosofia e il suo lessico nell'epoca ellenistica i Cappadoci si avvalgono di numerosi termini desunti, appunto, dall'ambito filosofico per designare la vita del cristiano, la via e i metodi che conducono alla perfezione, nonché la vita monasticafi Essi «assimilano la santificazione del cristiano al progresso morale del filosofo, designandoli con gli stessi termini... Questo uso delle parole del gruppo philosophia contribuisce a presentare il cristianesimo attraverso le categorie della morale ellenica. E il prezzo pagato per il contatto col proprio tempo. Gli inconvenienti sunto la
che potevano derivarne erano considerevolmente attenuati dalla prenella morale ellenica stessa di valori comuni a tutti gli uomini, e
senza
quindi eterni>>.°
D'altro canto i Cappadoci, pur avvalendosi dello stesso linguaggio "filosofico"non cessano di rimarcare la enorme superiorità della "nostra filosofia” (hè emè philosophia) rispetto alla filosofia pagana, quella cosiddetta ad extra (exo). La "vera filosofia” (ha alethès philosohia) è solo quella di Cristo (he katà Kristòn philosophia). Così l'ellenizzazionedel cristianesimo viene sistematicamente ridimensionata da una profonda cristianizzazione della filosofia, che fa ritorno al suo unico legittimo proprietario: Gesù Cristo.
Basilio VITA
Basilio, detto ”ilGrande”, nacque verso il 330 a Cesarea di Cappado-
cia, in una famiglia cristiana esemplare. Dopo l'eccellente educazione ri-
genitori, frequentò insieme a Gregorio Nazianzeno le scuole Costantinopoli e di Atene. Diventato vescovo di Cesarea (370) attese
cevuta dai
di
con tutte le sue forze alla salvaguardia della ortodossia nei suoi fedeli, difendendola dalle insidie dell’arianesimo. Per i cristiani di Cesarea scrisse le sue memorabiliOmelie. Prima di essere nominato vescovo aveva trascorso molti anni in solitudine come monaco, durante i quali aveva scritto le Grandi regole della vita cenobitica, che ebbero grandissima diffusione e gli procurarono il titolo di "legislatore del monachesimo orientale". Morì nel 379, alla vigilia del trionfo dell'ortodossia (nel Con-
3)
9)
«Così il termine philosophia è utilizzato da Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa per tradurre le varie tappe della conoscenza religiosa. Sono loro che fanno veramente entrare in uso questa parola, in tutta la pienezza di significato che può avere in questo senso» (A. M. MALINGREY, 0p. cit, p. 250). lbid, pp. 234-235.
110
Parte prima
cilio di
Costantinopoli), che fu anche il suo trionfo. Il titolo di ”Crande”
gli fu assegnato, sintetizza la riconoscimento dei suoi meriti in gliato per la Chiesa. che
OPERE TEOLOGICHE E
posizione e il prestigio eccezionali e il quel momento storico difficile e trava-
PENSIERO FILOSOFICO
Le principali opere di argomento dottrinale di Basilio sono: Contro Eunomio (in tre libri) e Sullo Spirito Santo: il primo ebbe un ruolo determinante sugli sviluppi della cristologia, il secondo sugli sviluppi della
pueumatologia.
dettagliata confutazione dellfifllpologia di Eunomio, riportata integralmente e discussa passo per passo. Basilio ne impugna il concetto fondamentale che considerava Yaghennesia (l'essere ingenerato) qualità distintiva e caratterizzante della divinità, a scapito della divinità piena e perfetta del Figlio. Egli dimostra come lflzghennesia sia solo uno degli aspetti della divinità e per nulla più qualificante e caratterizzante rispetto ad altri. In tal modo Basilio può ribadire la realtà della generazione del Logos, la sua consostanzialità rispetto al Padre e la sua piena divinità, e insieme la dignità divina dello Spirito Santo. Il libro Sullo Spirito Santo riprende la polemica contro coloro che neIl Contro EHHOHZÎU è
una
gavano la divinità della terza Persona della Trinità e ne dimostra la divinità fondandosi soprattutto sulla Isotimia, cioè sul fatto che lo Spirito Santo era oggetto di eguale onore e venerazione rispetto alle altre due persone, e proprio per questo motivo doveva essere partecipe della stessa
dignità divina.
Oltre a queste due opere squisitamente teologiche ci sono altri due scritti di Basilio che hanno particolare rilevanza per la filosofia e per la metafisica cristiana: l’Esortazi0ne ai giovani sul nzodo di trarre profitto dalla letteratura pagana e le nove Omelie szdFEsanterone. Nell'Es0rtazi0ne Basilio dà prova della sua sensibilità untanistica formulando un giudizio positivo sulla letteratura pagana. È il giudizio di una persona colta, che non sa rinunciare all'inestimabilepatrimonio che il popolo greco aveva accumulato in tanti secoli di splendore: pur inferiori in ogni senso alla Sacra Scrittura, le opere letterarie pagane, se lette con discernimento e con opportuna scelta, offrono al giovane esempi e modelli di virtù e perciò si raccomanda il loro studio, in modo particolare dì Omero, Esiodo, Euripide, ma soprattutto di Platone, che più d'ogni altro si è accostato alla ”vera filosofia". Questo breve scritto ebbe grandissima diffusione e influenza e giovò indubbiamente alla ripresa della filosofia cristiana.
I Padri Cappadacz" e il rilanciodella filosofia cristiana
111
Le nove Omelie sullfsanzerone illustrano il racconto della Genesi sulla creazione del mondo. Basilio afferma esplicitamente di conoscere le interpretazioni fortemente allegorizzanti che si davano del testo sacro, ma dichiara di preferire una interpretazione di tipo letterale secondo la quale le varie realtà naturali, come l'erba, le piante e gli animali sono considerate appunto come tali, cioè come erba, piante e animali e non, invece, come simboli di altre realtà. Inoltre egli sfrutta il testo sacro per
fornire,
fatto Filone, spiegazioni scientifiche e filosofiche la comprovare ragionevolezza del racconto biblico. Afferma con vigore il teorema della creatio ex nilzilo: tutto è stato creato da Dio, materia inclusa, e la creazione ha avuto luogo nel tempo. Dio però non ha Creato una materia comune a tutti gli esseri, bensì ogni classe di cose ha ricevuta una materia corrispondente alla propria natura. E secondo Basilio non esiste nelle cose neppure una sostanza distinta dalle sue proprietà, poiché se si toglie a un essere materiale l'odore, il peso, la forma, la figura e il colore non rimane più nulla, neppure la materia. Uesaltazione della bellezza del mondo ‘e chiaramente in funzione antimanichea. L'esposizione si chiude, poi, con la creazione dell'uomo, la cui interpretazione è, però, appena abbozzata. Ma più che alle sue dottrine filosofiche e teologiche il nome di Basilio è legato ai suoi insegnamenti ascetici e spirituali: essi fanno di Basilio uno dei grandi maestri della spiritualità e dell’ascesi cristiana, in quanto egli ne ha esaminato accuratamente la natura, i mezzi e il fine. Rifacendosi al Vangelo e a S. Paolo, Basilio insegna che il fine principale, anzi unico della vita umana e, a fortiorz’, della vita cristiana è Dio. Dio è il bene unico e sommo perché perennemente beato, «verso il quale tutto è orientato e tutto gravita». L'uomo si accosta a Dio attraverso la duplice ascesa: negativa e positiva. La prima consiste essenzialmente nel distacco dal peccato, dalle passioni, dalleftimero, dalla carne, dall’attacca— mento alle cose terrene. La seconda si incentra nell'esercizio della virtù e nell'imitazione di Cristo. La conformazione a Cristo rende partecipi della vita trinitaria e quindi dei doni del Padre, delle virtù del Figlio, nella carità vivificante dello Spirito. atte
come aveva
a
Gregorio di Nissa VITA
Gregorio nacque a Cesarea di Cappadocia nel 335. Fratello minore di Basilio ricevette come lui la prima educazione in famiglia, una educazione
tro
essenzialmente cristiana basata sulla Scrittura. A questa tennero diestudi regolari, secondo il curriculum consueto delle scuole pagane.
112
Parte prirrza
Studiò retorica, ma la sua materia preferita era la filosofia. Conobbe bene Platone, Aristotele, gli Stoici e i Neoplatonici, il che gli consentirà di sviluppare un pensiero teologico di grande profondità e rigore. Per qualche anno si dedica all’insegnamento e prende moglie. Sennonché i nobiliesempi della madre Emmelia e della sorella Macrina che vivevano un'esistenza ascetica non potevano lasciarlo indifferente nei confronti di quello che sembrava un ideale comune della sua famiglia. La decisione del fratello Basilio di abbandonare il mondo, le visite dei parenti, il fervore mistico di quella cerchia lo indussero ad abbandonare il secolo e a ritirarsi a vita monastica. Ma dopo qualche anno di vita eremitica, su richiesta di Basilio, che era diventato metropolita di Cesarea, accettò la nomina a vescovo di Nissa (da cui il nome di Nisseno). Gregorio non era preparato per l'amministrazione e questo gli procuro non poche difficoltà. Gli ariani, ancora ben organizzati in quella regione della Cappadocia non tardarono a causargli i fastidi più gravi; giunsero persino a convincere Demostene, il vicario del Ponto, che Gregorio dilapidava i beni della sua Chiesa; per questo un sinodo riunito nel 376 lo depose e lo condannò all'esilio. Egli non poté riavere la sua sede che due anni più tardi (378), dopo la morte di Valente. Agli inizi del 380 poté assistere al momento del trapasso della sorella Macrina, ad Annesi, nel monastero che ella aveva fondato, e in quella occasione compose il dialogo L'anima e la risurrezione, che è una trasposizione cristiana del Pedone di Platone. Partecipò attivamente al Concilio di Costantinopoli del 381, contribuendo alla elaborazione del Simbolo niceno-costantinopolitano. La sua vasta e profonda conoscenza della filosofia e la sua capacità di penetrare nel nocciolo delle questioni teologiche lo fecero soprannominare dai Padri conciliarila ”col0nna dell'ortodossia". Pare che sia stato incaricato dal Concilio di una missione in Arabia e Palestina, per riportare la pace tra quelle Chiese. Partecipò nel 382 a un nuovo Concilio convocato da Teodosio a Costantinopoli. Ritornò ancora altre due volte alla corte imperiale, e in particolare nel 385, alla morte dell'imperatrice Pulcheria e di sua figlia Flacilladi cui successivamente pronunciò Forazione funebre. Gli ultimi anni di Gregorio non furono molto tranquilli, perché egli fu oggetto di accuse e di attacchi da parte degli ariani e degli apollinaristi. L'ultima volta che Gregorio prese parte a un sinodo di Costantinopoli fu nel 394: dopo di allora non si hanno più notizie di lui. Si ritiene che l'anno della sua morte sia il 395.
I Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
113
OPERE La
produzione letteraria di Gregorio è ragguardevole e
interessa
so-
prattutto tre campi: teologia, esegesi e ascetica. I suoi scritti si possono dividere in quattro gruppi: a) teologici, tra cui primeggiano le due gran-
di opere polemiche Contra Eunomium e Adversus Apollinarem, e, in più, diversi opuscoli su questioni particolari; b) esegetici: la Vita di Mosè, 15 omelie Sul Cantico dei Cantici, 8 omelie SulFEcclesiaste, Titoli dei Salmi (In Psalmorum irzscriptione); c) ascetici: il De virginitate, e la Vita di S. Macrina; d) oratori: un discreto numero di omelie sulle feste e i misteri dell'anno liturgico, orazioni funebri, panegirici di santi, e i discorsi catechistici (che è una vera summa teologica). Alla fine vanno ricordate anche 26 lettere, che tuttavia costituiscono la parte meno interessante della produzione del Nisseno. Il. PENSIERO IN GENERALE
Gregorio Nisseno fu indubbiamente la mente speculativa più alta e più profonda del suo secolo, che pure è ricco di grandi figure. Egli ha saputo mettere a servizio della teologia un'assoluta padronanza del linguaggio e delle dottrine della filosofia, in particolare della filosofia platonica, contribuendo in tal modo alla elaborazione più avanzata dei misteri del Cristianesimo che sia riuscita a perfezionare la patristica orientale. «Sia nel pensiero che ne1l’espressione Gregorio si muove nella scia di Filone di Alessandria e del neoplatonico Plotino. Il fascino dell'ideale neoplatonico di una Visione immediata di Dio lo ha ammaliato. Fu un precursore di Dionigi l'Areopagita, il quale peraltro con il suo influsso sulla mistica posteriore ne ha oscurato il nome e ha contribuito a farlo cadere nell'oblio» (O. BARDENHEWER). «Gregorio fu soprattutto pensatore, filosofo, in cui profondità di dottrina e acutezza di pensiero non di rado si accompagnano a reale capacità di sintesi. Conobbe a fondo
Filone e Plotino e ne fu influenzato, soprattutto da Plotino; in Campo Cristiano fu soprattutto Origene che esercitò su di lui decisivo influsso, mentre i progressi che nel frattempo la teologia aveva compiuto, soprattutto in campo trinitario, gli permisero di evitare le dottrine del maestro che oramai si presentavano come errori. Da lui più che questo o quel singolo spunto ercditò soprattutto l'ansia di spingere il pensiero molto al di là del limite che Basilio aveva avvertito nell’attenersi ai libri sacri, lo slancio mistico ad abbracciare tutta la storia del cosmo in un'ampia sintesi che vede nell’apocatastasi il ritorno all'unità primitiva nel trionfo del bene» (M. SIMONETPI).
1 14
Parte prinra
TRASCFNDENZA E INEFFABILITÀDI Dio La posizione dottrinale di Gregorio sulla realtà di Dio e sulla sua assoluta trascendenza rispetto all'intelligenza umana fu occasionata dalle teorie dell'eretico Eunomio. Questi aveva insegnato che l'uomo può conoscere perfettamente l'essenza stessa di Dio attraverso l'attributo della aghennesia (innascibilità),che è proprietà esclusiva di Dio. Da ciò Eunomio aveva tratto la conclusione che il Figlio, essendo generato, non può essere egli stesso Dio, ma è la sua prima creatura. Come si vede, i presupposti filosofici da cui muoveva Eunomio comportavano conseguenze gravissime in ordine alla formulazione del mistero trinitario ed esigevano un'accurata e adeguata verifica. È quanto fece Gregorio nei Dodici libri’ contro Eunomio. Alla tesi eunomiana della perfetta conoscibilità di Dio mediante l'attributo dell’innascibilità,Gregorio contrappone la tesi della assoluta inconoscibilitàe ineffabilitàdi Dio. Questa tesi aveva già avuto dei convinti assertori nei Padri alessandrini Clemente e Origene e prima di loro in Filone e nei neoplatonici. Merito di Gregorio è di averla riproposta con nuovi e più solidi argomenti. A fondamento della inconoscibilitàe ineffabilitàdi Dio Filone, Clemente e Origene avevano posto la trascendenza; Plotino la semplicità dell’Uno. Gregorio non trascura queste ragioni, ma le convalida chiamando in Causa l'infinita‘: di Dio e la infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle sue creature. Dio, secondo Gregorio, risulta ìnconoscibilee ineffabilenon tanto perché noi apparteniamo al mondo sensibile e Lui a quello intelligibile, come avevano di solito argomentato i Padri alessandrini e i neoplatonici, quanto perché noi a pparteniamo al mondo creato e finito e Dio invece al mondo increato e infinito. Essendo creata, la ragione umana non può escogitare nessuna misura che sia confacente alla natura del1'increato. Infatti «la sostanza creata e limitata; la sostanza increata al contrario è senza limitazioni. Quella è determinata da una misura, dalla misura che è piaciuta alla sapienza del Creatore; invece la misura di questa è l'infinita (apriria)».l" D'altronde, osserva Gregorio, «com'è possibile misurare ciò che non ha né grandezza né estensione? Che misura si può trovare per chi è senza grandezza e quale estensione per chi è privo di dimensioneh.“ Stabilito che Dio è infinito, Gregorio non ha difficoltà a mostrare che ciò comporta l'esclusione del fatto che l'uomo possa conoscere Dio con i propri concetti ed esprimerlo con le proprie parole: Dio supera, trascende infinitamente ogni potere del pensiero e del linguaggio umano. Contro
l“) Contra Eunomiuni, Il, 70. l‘) Ibrida HL 1.
I Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
Eunomio
egli scrive:
«A chi vuole dare
un
senso,
una
115
descrizione con-
cettuale, una esposizione della natura divina, non possiamo non replica-
che di tale scienza non possiamo nulla comprendere. L'unica cosa che sappiamo è che è impossibile che ciò che è infinito per natura possa essere espresso mediante pensieri traducibiliin parole (...). Mentre infatti tramite Yesposizione dei nomi e delle parole si può affermare la sostanza, l'infinito non può essere circoscritto. In effetti con quale idea si potrebbe afferrare l’inafferrabi1e?>>.12 «Non è possibile afferrare la sua re
incomparabilegrandezza con procedimenti sillogistici>>.13Dopo tutte queste considerazioni Gregorio trae la seguente conclusione che può valere come motto della teologia apofcztica: «Quando si tratta della natura di Dio l'atteggiamento da tenersi è quello di tacere».'4 Sulla scia di Filone e di Clemente, i quali pur proclamando Vincono-
scibilità e Yineffabilitàdella natura divina tuttavia ammettevano una certa conoscenza dei suoi attributi, Gregorio afferma che Dio è conoscibilee pertanto ineffabilesotto l'aspetto dinamico, ossia quello operativo:
«Colui che supera
qualsiasi nome
-
scrive il Nisseno
—
acquista molti
nomi, in quanto è denominato secondo la molteplicità delle operem” Ogni opera giustifica un’appellazione; così «Dio Viene Chiamato luce,
perché
rischiara la nostra
ignoranza». Mediante
il nostro
linguaggio
possiamo esprimere potenza, ossia che non è soggetto al male, che non dipende da nessuna causa, che è impossibile abbracciarlo con un'idea, che è al di là di ogni potenzawò Dai testi citati risulta che anche per l'aspetto dinamico di Dio e i suoi Vari attributi operativi Gregorio resta ancora nel solco della teologia «la
sua
apofatica. LA
DOTTRINASULLA
TRINITÀ
Insieme con Basilio e Gregorio Nazianzeno, il Nisseno diede un apporto decisivo alla elaborazione conclusiva della teologia della Trinità, affermando esplicitamente la consostanzialità dello Spirito Santo rispetto alle altre Persone divine e proclamandone la divinità. A sostegno della divinità dello Spirito Santo egli adduce l'argomento seguente: il perfezionamento dell'anima cristiana che culmina con la sua divinizza— zione è opera dello Spirito Santo, il quale non potrebbe produrre tale
12) Ibid. 13) Ibid. 14) Orario VII in Eccles. 15) Contra Eunorrziunz, III, 8. 16) Ibid.
116
Parte prima
effetto se
non
fosse
egli stesso Dio. L0 Spirito è quindi consostanziale al
Padre e al Figlio: è della stessa natura (contro Macedonio e Eunomio). Quello che la Scrittura gli attribuisce come azione esige che egli sia Dio, e in quanto tale, riceva 10 stesso onore del Padre e del Figlio.” La dignità
divina dello Spirito e la sua consostanzialità col Padre sono per?) concepite in modo tale da salvaguardare pienamente la ”m0narchia" del Padre. Gregorio illustra questo concetto proponendo dei paragoni significativi: quello di una lampada che comunica la propria luce a un'altra e tramite questa a una terza: così il Padre risplende eternamente nello Spirito Santo attraverso il Figlìoflfi oppure si serve come paragone della relazione che sussiste fra la fonte di una potenza, la potenza stessa e lo spirito di questa potenza.” Il Verbo appare così come intermediario tra il Padre e lo Spirito Santo: lo Spirito procede (esce) dal Padre e riceve dal Figlio, per cui è Spirito di Dio e Spirito di Cristo?" Ciò implica una dipendenza nell'essere dello Spirito dal Figlio. Ma di che dipendenza si tratta? Alla fine del libro I del Contra Eunomium Gregorio afferma che il Figlio è sempre con il Padre e la stessa cosa si deve dire dello Spirito Santo, con solo una differenza nell'ordine (taxis), «perché come il Figlio è unito al Padre e riceve da lui (ex autori) l'essere, senza essere però (temporalmente) posteriore quanto alla sua ipostasi, così lo Spirito Santo riguardo aIYUnigenito: perché quanto all’ipostasi, il Figlio è concepito prima dello Spirito unicamente rispetto alla causa (che è il Padre)».21 Questo testo già lascia intendere che la dipendenza dello Spirito dal Figlio non appartiene all'ordine della causalità efficiente, essendo questa riservata al Padre. Un'ulteriore precisazione ci viene dal testo seguente: «Se Veniamo accusati di mescolare e confondere le ipostasi, per il fatto che non poniamo differenza quanto alla natura (physis), noi rispondiamo: confessando una natura divina senza differenza né variazione, noi non neghiamo una differenza che riguarda la situazione di causa e di causato (katà ton aition kai aitiaton). È solo così che noi veniamo a capire come uno si differenzia dall'altro: una cosa è essere causa, altra cosa è essere causato. E in ciò che è causato noi vediamo una nuova distinzione tra ciò che viene immediatamente (prosechos) dal primo e ciò che viene per la mediazione di ciò che viene immediatamente dal primo.
17) 15)
19) 2D) 21)
Cf. Advcrsus Maccdonianos. Cf. ibitL, 13. Cf. ibiri, 2. Cf. ibid., 1D. Contra Eimomium, l, 3D.
l Padri Cappadoci e il rilancio della filosofia cristiana
117
proprietà di essere Unigenito rimane senza ambiguità proprietà Figlio, e non c'è dubbio che 10 Spirito è dal Padre, in quanto la posizione mediana del Figlio conserva allo stesso la proprietà di essere Unigenito e lo Spirito non e privato della sua relazione naturale al Padre».22 Come lascia intendere chiaramente questo testo, secondo Gregorio esiste certamente una dipendenza dello Spirito dal Figlio, oltre che dal Padre, ma si tratta di una dipendenza che non appartiene all'ordine della causalità efficiente principale (che è riservata al Padre) bensì all'orSicché la
del
dine della causalità efficiente "mediata", ossia strumentale e secondaria. Questo spiega perfettamente perché Gregorio Nisseno e gli altri Padri greci non avrebbero potuto sottoscrivere la formula del Filioque in quanto essa suppone che Padre e Figlio si trovino sullo stesso piano rispetto alla causalità efficiente. Secondo Gregorio lo Spirito non procede dal
Padre e dal (ek) Figlio, bensì dal Padre per mezzo (dià) del Figlio.
L'UOMO, ICONA DI D10
Capolavoro di Dio, l'uomo Viene realizzato come opera conclusiva della creazione. Assai belle sono le pagine del De Opificio hDTTIÌHÌS (La creazione dell'uomo) in cui Gregorio elenca le motivazioni che giustificano l’ordine seguito da Dio nella creazione, facendo comparire per ultimo l'uomo come coronamento della sua azione creativa. Infatti «non era giusto che il capo facesse la sua apparizioneprima dei suoi sudditi; soltanto dopo 1a preparazione del suo regno, allorché il creatore dell'universo aveva, per così dire, allestito il trono di colui che doveva regnare, doveva logicamente essere rivelato il re. Ecco qui la terra, le isole, il mare e, al di sopra di questi, a guisa di un tetto la volta del cielo. Ricchezze di ogni genere erano state riposte in questi palazzi: per "ricchezze" intendo riferirmi a tutta la creazione, a tutto ciò che la terra produce e fa germogliare, a tutto il mondo sensibile, vivente e animato, così come anche a tutti quei beni che Dio pone in abbondanza nel seno della terra come in cantine reali. Unicamente allora Dio fa apparire l'uomo in questo mondo, affinché egli sia delle meraviglie dell'universo il contemplatore e la guida. Il Signore infatti vuole che il loro godimento doni all'uomo l'intelligenza di colui che gliele ha fornite, in maniera che 1a grandiosa bellezza di ciò che egli vede lo ponga sulle tracce della potenza ineffabile e inesprimibile del Creatore. Ecco perché l'uomo è condotto per ultimo nella Creazìonemzîl Seguendo l'esempio di Filone, Gregorio consi22) Quod non sint tres dii, PC 45, 133. 23) De Opificio horninis, l.
118
Parte prima
dera i due racconti della Creazione dell'uomo che si trovano nella Genesi (1, 26-27; 2, 7 ss.) come narrazioni di due interventi creativi distinti da parte di Dio: il primo si riferisce alla creazione dell'uomo ideale, il secondo alla creazione dell'uomo storico. In tutti e due i casi, Dio imprime sull'uomo il sigillo della propria immagine (icona) dotandolo di libero arbitrio e di sovranità rispetto a tutte le altre creature. Gregorio non fa della libertà un principio cosmologico universale come Origene, perché non condivide la tesi di una creazione simultanea di tutti gli spiriti e di tutte le anime che all'inizio sarebbero stati tutti alla pari e che poi si sarebbero diversificati a causa dell'uso (buono o cattivo) del libero arbitrio. La diversificazione, secondo Gregorio, sia nel mondo degli spiriti come in quello dei corpi è opera di Dio stesso. Tuttavia, per quanto concerne l'uomo anche il Nisseno vede nel libero arbitrio il titolo massimo di perfezione e di nobiltà, e pertanto quello che lo rende maggiormente simile a Dio. Grazie al libero arbitrio l'uomo è padrone di se stesso e di tutto l'universo che lo circonda. E questa duplice signoria compete sia all'uomo ideale sia all'uomo storico. Nell'uomo storico Yiconicità segue due direzioni: quella di Dio (imagr) Dei) e quella della natura (intrigo naturae); in direzione di Dio, mediante l'anima e le sue facoltà; in direzione della natura mediante il corpo e la sessualità. «L'uomo si trova in mezzo a due realtà estremamente lontane tra loro: tra la natura divina che non possiede la corporeità e la natura animale priva di ragione (...). Dalla natura divina che è esente dalla distinzione dei sessi, l'uomo deriva il potere della ragione e dell'intelligenza; invece dalla natura animale priva di ragione, egli trae la struttura del Corpo e la distinzione dei sessi>>.24 La vita umana si svolge in una lotta continua fra queste due opposte tendenze. Ed è nel potere dell'uomo, del suo libero arbitrio, far risplendere Vinzagr) Dei oppure offuscarla e corromperla.
CADUTA E RESTAURAZIONE Nonostante i
grandi privilegi con cui
Dio
aveva
gratificato i progeni-
tori, affinché potessero realizzare al massimo l'icona divina, essi abusa-
della loro libertà e così alterarono profondamente i tratti della intrigo Dei che il Creatore aveva impresso sui loro volti. rono
«Mentre la natura increata (Dio) non è suscettibile di nessun movimento che dia luogo a conversione e a mutamento o alterazione, tutto quanto esiste per essere stato creato, invece subisce un intrinseco mutamento; il principio stesso della creazione, d'altronde, cominciò
24) Ibid,, 9-10.
I Padri Cappadoci e il rilancio della filosofia cristiana
119
cambiamento: ciò che non era infatti fu tradotto dalla virtù divina in ciò che ‘e. Era poi stata Creata nell'uomo la suddetta facoltà di scegliere, secondo la libera inclinazione del suo arbitrio, ciò che le sembrava opportuno. Pertanto, come colui il quale, chiusi gli occhi davanti al sole, non vede che le tenebre; così anche l’uomo, avendo rifiutato di contemplare il bene concepì ciò che gli era contrario: l'invidia (...). Anche l’uomo perciò, distoltosi dalla naturale disposizione al bene e inclinando verso il male, spontaneamente, come trascinato da un peso, venne sospinto verso il limite estremo della corruzione. Persino quel raziocinio che l’uomo aveva ricevuto dal Creatore per aiutarlo a ricercare il bene, perseguendo adesso quelle cose che sono ispirate dal peccato, circuisce l'uomo con Yastuzia e l'inganno, persuadendolo a infliggersi la morte e a essere omicida di se stesso>>fl5
da
un
Ma anche dopo che l’uomo, per sua colpa, si ‘e allontanato da Dio questi non lo ha abbandonato: «Abbiamo imparato tutto il contrario: Dio creò il primo uomo immortale, ma dopo che ebbe luogo la disobbedienza e il peccato, per punizione della sua colpa lo privo dell'immortalità. Ma poi la fonte di ogni bene trabocco per amore degli uomini: si piegò sull'opera delle sue mani, Yadornò di sapienza e conoscenza, avendo deliberato di rinnovarci e restituirci al nostro stato di una volta. Questa è la verità, questo è ben degno della Vera idea di Dio. Ce ne attesta infatti non solo la bontà, ma anche la potenza. Essere insensibilee duro verso chi ci è soggetto, che e affidato alle nostre cure, non è certo degno di uomo buono e benigno. Così il pastore desidera che il proprio gregge sia in ottimo stato...».26 E così prima Dio mandò in aiuto all'umanità Vari messaggeri, in particolare i profeti, e infine il suo unico Figlio, Gesù Cristo. Questi con la sua vita, con i suoi esempi e con i suoi insegnamenti, ha mostrato all'umanità come deve vivere per attuare l ’imag0 Dei e le ha anche fornito con i sacramenti i mezzi per farlo. In tutto questo Gregorio scorge la prova dell'amore sconfinato che Dio ha per l'uomo. «Noi infatti riconosciamo la sua opera proprio per il tramite di quei benefici di cui veniamo gratificati: è osservando ciò che accade, appunto, che noi individuiamo la natura di chi compie l'opera. Se, adunque, Findizio e la manifestazione tipica della natura divina sono manifestati dalla benevolenzadi Dio nei confronti degli uomini, ecco che tu hai la risposta che chiedevi, il motivo cioè in base al quale Dio è venuto tra gli uomini. La nostra natura infatti afflitta com'era da una malattia, aveva bisogno di un medico. Chi aveva perduto la vita aveva bisogno di chi la vita gli restituisse. Occorreva a chi aveva
25) 25)
Grande catechesi, 6. Omelie perla risurrezione di Cristo, 3.
120
Parte prinza
di compiere il bene, qualcuno il quale sulla via del bene lo riconducesse. Invocava la luce chi era prigioniero delle tenebre. Il detenuto aveva bisogno di chi lo liberasse, Tincatenato di chi lo sciogliesse, lo schiavo di chi lo affrancasse. Ora, sono forse questi dei motivi futili e inadeguati perché Dio se ne sentisse stimolato a discendere in mezzo all'umanità, afflitta in questo modo dall’infelicità e smesso
dalla miseria?».î7
Cristiano è colui che si sforza di conseguire la massima realizzazione della icona divina mediante l'imitazione di Gesù Cristo. In effetti il cristianesimo altro non è che l'imitazione della natura divina.” L'anima, creata secondo Yimago Dei, mediante la grazia di Cristo e i doni dello Spirito, tende a ricongiungersi a Dio e a trasformarsi in Lui, in un progresso e in un'ascesa senza fine e questo non in forma individualistica, bensì comunionale, perché la grazia santificante che l'anima riceve, non la riceve solo per sé ma anche per collaborare alla santificazione delle altre anime. Il ruolo del contemplativo è soprattutto un ruolo di mediazione fra il Logos (il Figlio di Dio) e l'uomo; e questo ruolo non è inteso, come da Clemente e Origene, in modo indipendente dalla gerarchia, ma come funzione di essa.
CONCLUSIONE
Gregorio Nisseno fu indubbiamente un grande speculativo, e in metafisica egli fu uno dei più validi rappresentanti del platonismo cristiano. Se da un lato si deve considerare il Nisseno anzitutto come un teologo, d'altra parte si deve però ricordare che egli era convinto di fare della filosofia, anzi di offrire ai credenti e ai non credenti l'unica vera filosofia, perché la ”vera" filosofia non è quella di Socrate, Platone, Aristotele, Zenone o Plotino, bensì quella di Cristo. Gregorio è un Valente ed eloquente assertore della bellezza e della bontà della filosofia cristiana. Ma come la Verità cristiana viene da lui riletta in chiave platonica e neoplatonica, così a sua volta la metafisica platonica e quella neoplatonjca vengono arricchite dal potenziale filosofico e metafisico del cristianesimo. C'è dunque una reciproca fecondazione tra platonismo e cristianesimo per cui la metafisica di Gregorio Nisseno viene ad acquistare un timbro marcatamente personalistico e agapico. Mentre nella metafisica di Plotino l'asse portante è la contemplazione, la epopteia, nella metafisica del Nisseno l'asse portante è l'amore, l'agape: l'amore presiede sia all'exitas delle creature da Dio sia al loro redi27) 23)
Grande catechesi, 15. Cf. De professione Christiana.
l Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
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a Dio. Ma affiancata all'amore cammina la libertà, la quale può entrain conflitto con l'amore. E, in effetti, nella storia dell'umanità tutte lo trame sono tessute dall'amore c dalla libertà. Però alla fine, quando si concluderà l'opera salvifica del Mediatore e Salvatore, Gesù Cristo, l'amore sconfinato di Dio avrà il sopravvento sulla debolezza della libertà
tus
re
umana.
Gregorio di Nazianzo VITA E
OPERE
Gregorio nacque ad Arianzo, presso N azianzo (Cappadocia) verso il 328. Condiscepolo di Basilio nella scuola di Cesarea e poi di Atene coltivò con ardore lo studio delle lettere e della filosofia. Dopo un periodo di vita monastica fu indotto dall'amico Basilio ad accettare il governo della diocesi di Sasima, a cui però rinunciò quasi subito per ritirarsi nuovamente a far vita eremitica. Successivamente cedendo alle pressioni dei cattolici di Costantinopoli accettò il governo di quella diocesi, completamente devastata dagli ariani, favoriti dall'imperatore Valente. Durante il concilio ecumenico del 381, celebrato in quella stessa città, rinunciò alla sede patriarcale a causa dei dissensi interni e si ritirò nel suo borgo natale di Arianzo dove trascorse gli ultimi anni in completo ritiro, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Qui morì e fu sepolto nel 389 o 390. I suoi scritti si dividono in tre gruppi: omelie, lettere e poesie. Le Omelie (Orationes) rimaste sono 27, ma la produzione oratoria del Nazianzeno doveva essere molto più vasta. l suoi discorsi si caratterizzano per l'ampiezza (molti sono dei veri e propri trattati), eleganza e profondità. Le Orationes del Nazianzeno sono tra i gioielli più belli della patristica, e tra il VI e X secolo molte generazioni di studenti di retorica ebbero tra i loro testi lc pagine di Gregorio. Notissimi i suoi Discorsi teologici tenuti a Costantinopoli nel 380. Vasto è anche il suo epistolario, che comprende 249 lettere, ma un certo numero di esse non sono autentiche. Importantissimi infine sono i suoi scritti poetici, che sono divisi in Carmina dogmatica, nzomlia, historica e in Epigramma. PENSIERO
profondità del suo pensiero Gregorio di Nazianzo è stato soprannominato "il Teologo". Ma come risulta anche dai generi letterari da lui adoperati, egli non è uno studioso sistematico dei misteri della Per la
fede, bensì un cantore dei misteri di Dio.
122
Parte prima
In varie occasioni, specialmente nelle Orationes 27 e 32, il Nazianzeno si occupa delle funzioni della teologia e delle virtù del teologo, sottolineando per un verso l'importanza di questa attività e per un altro la
grave responsabilitàdel teologo. La teologia è opera della ragione che
però si pone totalmente a servizio della fede: è il logos umano a servizio del Logos divino; oggetto della teologia è Dio stesso e tutte le divine realtà: la Trinità, il Verbo incarnato, gli angeli. È un oggetto oltremodo elevato e difficile, di fronte al quale
qualsiasi discorso umano resta sempre incompleto. Perciò quello del teologo non è un lavoro comune che possono fare tutti, ma e proprio soltanto di alcuni specialisti: «Non crediate che il parlare di Dio come vuole la nostra religione sia una cosa che compete a chiunque (...). Non lo possono fare tutti perché è un compito che spetta a quelli che si sono esercitati e hanno trascorso tutta la loro vita nella contemplazione e soprattutto hanno purificato l'anima e il corpo o almeno lo stanno purificando».2—° Dopo avere ricordato che «il grande mistero della fede cri-
stiana non deve diventare oggetto di abili artifici», ma dev'essere oggetto di seria e continua meditazione in un clima di preghiera, Gregorio così prosegue: «Io non dico che non ci si debba ricordare sempre di Dio (...). Ricordarsi di Dio è più importante di respirare. Anzi dev'essere l'unica occupazione. Anch'io approvo il passo della Bibbia in cui si raccomanda di pensare a Dio giorno e notte, e di parlare di lui la sera e la mattina e a mezzogiorno, e di lodare il Signore in ogni circostanza. Anzi citando un passo di Mosè direi che si deve ricordare quando ci si corica e quando ci si alza dal letto, o si è in viaggio o si è impegnati in qualche altra occupazione, e tramite il ricordo di Dio ci si deve modellare in modo da ricevere la purificazione. Per cui io non proibisco di pensare a Dio, ma di discutere su Dio. E anche il discutere non lo proibisco come L1n’empietà, ma proibisco di farlo quando non è opportuno>>fi° Ciò che Gregorio sconsiglia al teologo non è la libera ricerca bensì la
diffusione incontrollata delle proprie idee, diffusione che può creare scandalo e confusione tra i fedeli. Perciò «alcuni dovrebbero essere collocati là dove non possono danneggiare né se stessi né gli altri; mentre si potrebbe concedere piena libertà di discutere a quanti sanno tenere la
giusta misura nel parlare e
sono Veramente prudenti e saggi. La gente dovrebbe essere tenuta lontana da questa via, voglio dire dall'amore per le chiacchiere, la malattia che adesso imperversa. La gente comune deve volgersi a qualche altra specie di virtù che sia meno peri-
comune
29) Disc, 27, 3. 30) lbid, 27, 4.
I Padri Cappadoci e il rilantîio dellafllosofia cristiana
colosa, dove la pochezza di ingegno reca minor dannom" Queste
123
racco-
mandazioni sono sempre d'attualità, e in modo speciale nella grande babele teologica che stiamo vivendo in questi ultimi decenni del secolo XX. La riflessione teologica di Gregorio di Nazianzo si è particolarmente concentrata sul mistero trinitario e quello cristologia), per difenderli dalle eresie degli ariani e degli eunomiani. Utilizzandoalcune espressioni tipiche della metafisica neoplatonica, quali hypostasis e ekporeusis, Gregorio ha introdotto formule più adeguate per parlare della Trinità. Egli riconosce in Dio tre ipostasi o persone; consostanziali tra di loro, tutte eguali, dotate della stessa volontà, della stessa conoscenza e della stessa azione. Il Padre si distingue dalle altre Persone perché è senza origine, il Figlio perché ha origine per generazione (ghennesia) e lo Spirito Santo perché ha origine per processione (ekporeusis). Ecco un testo in cui la ragione della distinzione tra le tre divine persone è espressa in modo esemplare. «Il Padre e Padre senza origine, perché in lui non esiste generazione (aghennesia). ll Figlio è Figlio e non senza origine, perché Viene dal Padre (ghczznesia). Ma se tu intendi origine in senso temporale, anch'egli è senza principio, perché è l'autore del tempo e non il suddito del tempo. Lo Spirito Santo è Veramente lo Spirito (cioè senz'altro il soffio) che esce dal Padre, tuttavia non per generazione o filiazione, bensì per processione (ekporeusis), se è il caso di inventare parole per chiarire il pensiero. La proprietà del Padre di essere non-generato non scompare per il fatto che genera, né quella del Figlio di essere generato per il fatto che viene dal non—generato, e neppure lo Spirito viene trasferito nel Padre e nel Figlio per il fatto che procede, o perché è Dio, anche se così non sembra agli occhi degli atei».32
Nellaffermazione della consostanzialità del Figlio e dello Spirito Sansulla superiorità del Padre, il quale è ”senza principio" (anarchos): «Il nome di colui che è senza principio è Padre; il nome del Principio è Figlio; il nome di colui che ‘e col Principio è Spirito Santo».33 «La natura, che è una nei tre, è Dio; ma ciò che fa la loro unità è il Padre, dal quale dipendono gli altri, non perché siano confusi o mescolati, bensì perché essi sono uniti».34 to con il Padre, il Nazianzeno insiste tuttavia
Per illustrare i rapporti tra le persone divine il Nazianzeno ricorre a varie immagini: la sorgente, il ruscello, il sole, il raggio, la luce ecc., ma avverte che qualsiasi immagine è inadeguata a chiarire il mistero. Egli
31) Ibiaî, 27, 32. 32) Ibid.,39, 12. 33) Ibid.,42, 15. 34) Ibid.
124
Parte prima
fondo
la sottolinea la nostra incapacità di penetrare e precisare fino in natura della generazione, della processione e le loro differenze. E sufficiente affermare, come misteriosamente diverse, la generazione e la processione a partire da colui che solo è aghennetos, il Padre. In cristologia Gregorio Nazianzeno afferma nettamente l'unità della persona in Cristo nella dualità delle nature; insiste inoltre sulla integrità della natura umana del Cristo, sostenendo, contro gli apollinaristi, l'esistenza di un'anima razionale, il nous. Uoperare del Cristo è teandrìco, ossia umano e divino, ma alcune azioni procedono dalla divinità e altre dalla umanità. Ecco il criterio che egli propone per distinguere le une dalle altre: «Per riassumere in breve, applica alla natura divina tutti gli aspetti più elevati, applica alla natura umana che è superiore alle passioni e al
gli aspetti nobili; gli aspetti più meschini invece applicali al composto, a quell'essere che per causa tua si è umiliato e incarnato e, per non dire niente di peggio, si è fatto uomo, e poi è stato sublimato, affinché tu eliminassi ogni aspetto carnale e umile dalle tue convinzioni e imparassi a nutrire pensieri più nobili,a levarti in cielo insieme con la divinità, a non fermarti a quello che vedi, ma a farti portare in alto dalle realtà intellettualmente viste e ad apprendere qual è l'essenza della natura umana, qual è l'essenza deli'economia».35 Occasionalmente il Nazianzeno parla anche delle creature spirituali e le divide in angeli, arcangeli, potestà, principati, dominazioni, ascensioni, splendori. Sono «potenze intellettuali o intelletti, sostanze pure e incorrotte, immobili o difficilmente inclini a peggiorare, che sempre menano dei cori intorno alla prima Causa».% A queste potenze intellettuali il Nazianzeno assegna le seguenti attività: corpo
sono confermate e modellate dalla Bellezza al punto che sono anch'esse luci e possono illuminareanche altre luci, grazie al fluire e al distribuirsi della luce che proviene da quella originaria; eseguono la volontà divina, potenti per forza naturale o acquisita; percorrono tutto l'universo, sono presenti a tutti in ogni luogo con la massima prontezza, grazie al loro zelo servizievole e alla loro natura leggera. Si sono attribuite chi l'una chi l'altra parte della terra o sono state assegnate a reggere chi l'una chi l'altra parte dell'universo, nel modo che conosce colui che ha stabilito e disposto tutto ciò. Esse conducono tutte le cose all'unità, e ciò al solo cenno di Colui che ha creato l'universo; cantano la magnificenza divina, contemplatrici eterne della
«Esse
35) lbid, 29, 18. 36) Ibid, 28, 30.
I [Jadri Cappadoci e il rilancio della filosofia cristiana
125
gloria, non perché debba ricevere gloria Dio (non vi è niente infatti che possa essere aggiunto alla sua pienezza, perché è lui che dona agli altri le cose buone), ma perché non cessino di ricevere benefici le sostanze che sono le prime dopo Dio>>.?‘7 eterna
Come si vede, in questa descrizione del mondo angelico il linguaggio prevalentemente quello platonico e neoplatonico. E questa una ulteriore conferma che, nelle linee fondamentali, anche quella di Gregorio di Nazianzo è una metafisica platonico-cristiana. è
Nemesio Nemesio è uno scrittore cristiano della Cappadocia del V sec. e quindi di poco posteriore a Basilio e ai due Gregori; ma la sua fama fu talmente oscurata da quella dei suoi tre illustri conterranei che persino il suo nome venne confuso con quello di Gregorio Nisseno (Nemesius Nyssenus). Ma la storiografia più recente ha messo in luce l'importanza dei suoi scritti in campo filosofico e il suo notevole apporto allo sviluppo del platonismo cristiano in Oriente. Come si è detto, per molto tempo il suo nome venne confuso con quello di Gregorio Nisseno e la sua stessa opera principale, il De natura hominis, fu attribuita al vescovo di Nissa. È, invece certo, che il Nemesio è posteriore al Nisseno e fu vescovo di Emesa, in Fenicia, nei primi decenni del V secolo. Anche a causa dell'errata attribuzione, il suo De natura hominìs fu una delle prime opere tradotte dal greco in latino durante il medio evo. La prima traduzione fu compiuta infatti da Burgundio di Pisa nel 1165 e questa, appunto, venne letta ed utilizzata da tutti i grandi scolastici, Pietro Lombardo, Alberto Magno, Ruggero Bacone, Tommaso d'Aquino, come pure dagli umanisti del XV e XVI secolo. L'obiettivo che Nemesio si propone nel De natura hvminis è quello di fare chiarezza su alcuni punti fondamentali dell'antropologia, nei quali c'era disaccordo non soltanto tra i filosofi pagani ma tra gli stessi scrittori cristiani; anzitutto sulla natura dell'anima: è materiale, come affermava Tertulliano o immateriale, come inscgnavano Clemente e Origene? Poi la questione dell'origine dell'anima: è creata o increata; è creata prima di entrare nel corpo, o viene creata dopo la formazione sul corpo? Anche qui gli autori cristiani non erano d'accordo. Origene diceva che =
era
creata
prima; Tertulliano dopo. Le
37) Ibid, 28, 31.
anime
sono
state create tutte in-
126
Parte prima
come sosteneva il Nisseno, oppure separatamente, al momento della formazione del corpo? Inoltre, l'anima è una sostanza totalmente distinta dal corpo come insegnava Platone, oppure è forma del corpo come insegnava Aristotele? E poi, e mortale oppure immortale; sopravvive dopo la morte oppure muore col corpo? Cera poi la questione della libertà: la volontà umana agisce liberamente, oppure necessariamente, e se agisce liberamente come si concilia la libertà umana con la provvidenza divina? A tutti questi ardui quesiti Nemesio, da pensatore cristiano, intende dare delle risposte che siano a un tempo pienamente convincenti sul piano razionale e conformi agli insegnamenti della S. Scrittura. Pertanto in sede filosofica egli si preoccupa di confutare quelle tesi che sono contrarie alla fede e mostrare che invece quelle che sono conformi alla fede sono razionalmentele più Valide. Nemesio assume come falsariga la visione cristiana dell'uomo, che comprende le dottrine della creazione da parte di Dio, del primato dell'anima sul corpo, della capacità di conoscere il bene e il male e di scegliere liberamente, della immortalità dell'anima. Servendosi di questa falsariga egli prende in esame ciò che i filosofi greci e talvolta anche qualche scrittore cristiano (Origene, Apollinare, Eunomio) hanno inse-
sieme,
gnato sull'uomo. È
largo raggio, che include Eraclito, Pitagora, gli Stoici, gli Epicurei, i Platonici, i Peripatetici, i Neoplatonici, soffermandosi in modo particolare sulle dottrine di Platone e di Aristotele. Su ogni questione viene proposta una soluzione che di solito ccillima con quella di Platone. Scrivendo da cristiano spesso egli si m0stra critico nei confronti della filosofia e della scienza greche, però il suo riferimento ad esse è costante e ne mutua nozioni e argomentazioni per integrarle nella propria riflessione Nemesio possiede una ricca informazione concernente la filosofia antica. Nell’esposizione che ci offre non procede come un semplice dossografo, ma adotta un atteggiamento critico di fronte alle opinioni recensite. Numerosi studi sono stati consacrati al problema delle fonti di Nemesio. Secondo H. Dorrie il secondo capitolo del De natura hominìs si basa su un documento del medioplatonismo, uno scritto in cui si respinge qualsiasi possibilità di conciliare Platone con Aristotele.” Invece, secondo lo stesso studioso, il capitolo terzo riprende i Synmzikta Zetcmata un esame a
di Porfirio. La trattazione si apre definendo la
posizione delfuomo nel cosmo: l'uomo occupa una posizione mediana, poiché partecipa al mondo immateriale con l'anima e al mondo materiale col corpo. Facendo sua la posi33)
Cf. H. DOERRIE, Porphyrios’ Syrrzmikm Zctcnzata, Mùnchen 1959, p. 127.
I Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
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zione di Origene e dei Neoplatonici, Nemesio afferma che in origine l'uomo non è né mortale né immortale; ciò dipende dal suo libero arbitrio. Se l'uomo si lascia trascinare dalle passioni corporali, egli Viene travolto dal processo delle generazioni e delle corruzioni e diverrà mortale; se invece coltiva i beni dell'anima, allora diverrà degno dell'immortalità. Così, grazie al suo comportamento morale, l'anima è in grado di fissare il suo statuto ontologico nell'insieme del reale (c. 1). Nemesio osserva che l'uomo non può essere stato creato mortale, altrimenti Dio non avrebbe potuto punirlo con la morte. Per contro se l'avesse creato immortale non lo avrebbe reso così indigente da costringerlo a nutrirsi per conservarsi in vita. La soluzione migliore della questione è quella di ammettere che l'uomo è stato creato mortale di fatto, ma immortale in potenza: in questo caso il peccato l'avrebbe fissato nella sua situazione primitiva, impedendo all'uomo l'ascesa al livello superiore. Ampia è la trattazione sulla natura dellhninza e sulla sua origine. Sulla base di una rassegna piuttosto parsimoniosa di ciò che insegna la Scrittura Nemesio sostiene che l'anima è di natura immateriale. Ma questa tesi a suo avviso è valida anche in sede filosofica. Egli prende in esame una lunga serie di dottrine concernenti l'anima presentate dai filosofi greci: anzitutto le posizioni dei materialisti e di tutti coloro che pretendono che l'anima sia di natura corporea: è l'insegnamento degli Stoici, ai quali l'autore aggiunge Democrito, Epicuro, Crizia, Eraclito. Ricorda poi i pensatori che negano il carattere sostanziale dell'anima, tra i quali include Simmia, Dicearco e Gallieno. Viene poi l'insegnamento di Aristotele, che Nemesio interpreta in senso materialistico e che critica aspramente. La dottrina di Pitagora è trattata insieme a quella di Senocrate, poiché entrambi definivano l'anima come un numero capace di movimento intrinseco. Prende poi in esame l'insegnamento di due autori cristiani, Apollinare e Eunomio, e conclude con la teoria dei manichei. Verso la fine del capitolo (il secondo) Nemesio menziona gli argomenti di Platone sullîmmortalità dell'anima ma li giudica troppo complessi e di difficilecomprensione, e afferma che possono essere capiti soltanto da coloro che hanno una solida formazione filosofica. Ma non V'è dubbio che la soluzione platonica è quella corretta ed è in piena sintonia con gli insegnamenti della Sacra Scrittura. Con Platone e contro Aristotele, Nemesio sostiene che l'anima è una sostanza immateriale, che non ha nessun vincolo necessario col corpo. «Pertanto non può essere forma e perfezione del corpo, ma è una sostanza incorporea che è perfezione di se stessa». «Platone insegna che l'uomo non è anima e corpo, bensì un'anima che fa uso del corpo»,- in questo senso può affermare che Platone ha compreso la natura umana assai meglio di Aristotele. Se noi pensiamo che "siamo” la nostra anima
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Parte prima
ci preoccuperemo dei beni dell'anima, che sono la virtù e la beatitudine, anziché dei beni del corpo. Nemesio scarta tuttavia l'idea di una sempli-
giustapposizione (parathesis) o di un semplice contatto spaziale tra anima e corpo, per parlare invece di un'unione senza confusione e senza che un elemento si trasformi nell'altro, senza alterazione dei componenti, che formano un solo essere grazie a un'inclinazionee una specie d'amore reciproco; ma l'anima è superiore al corpo e se lo associa nel proprio agire. A sostegno di questa tesi l'autore invoca l'autorità di Ammonio Sacca e di Porfirio. Infine assume come argomento a sostegno della sua tesi anche ciò che accade nella Incarnazione del Verbo, dove l'unione con la natura umana avviene senza confusione e senza alterazione delle due nature (c. 3). Le opinioni relative all'origine dell'anima sono pure oggetto di attento esame da parte di Nemesio. Egli respinge la tesi di Eunomio che fa cominciare l'esistenza dell'anima con quella del corpo; e respinge pure il traducianesimo di Apollinare. L'anima non può che preesistere al corpo, poiché la creazione delle creature spirituali è stata portata a compimento sin dall'inizio. Tuttavia Nemesio scarta il mito platonico di una vita anteriore degli spiriti, come pure la concezione origenista della discesa delle anime nei corpi: l'unione dell'anima col corpo non è la conseguen-
ce
za
della caduta; questa
riguarda soltanto la immortalità dell'uomo. Infi-
ne Nemesìo critica la teoria della metempsicosi (cc. 2-3). L'anima è dotata di tre facoltà: la fantasia (phantasia), la memoria e l'intelletto. Nemesio conosce la dottrina aristotelica sull'intelletto e le varie interpretazioni che ne erano state date, in particolare quelle di Alessandro di Afrodisia, Plotino e Plutarco. Nemesio propone una sua soluzione che non coincide con nessuna di quelle precedenti: a suo avviso l'intelletto possibile appartiene a tutti gli uomini, poiché fa parte dell'equipaggiamento naturale dell'essere umano, mentre l'intelletto agente è un privilegio di una piccola élite: soltanto coloro che si consacrano alla filosofia lo posseggono. Affermando che l'intelletto agente è un privilegio di coloro che si consacrano alla contemplazione (come i filosofi) probabilmente Nemesio voleva esortare gli uomini a distaccarsi dal mondo e a dedicarsi ai valori assoluti. L'anima è dotata, oltre che della facoltà conoscitiva razionale, anche di una parte o potere (partem et virtutem) irrazionale, che a sua volta si suddivide in due parti. Una che obbedisce alla ragione e un'altra che non è controllata dalla ragione. La parte controllabile della ragione viene distinta in appetito concupiscibilee irascibile.Sotto questi due aspetti l'anima è la sede delle passioni, che sono modificazioni causate nell’appeti— to dalla presenza di qualche bene o di qualche male (cc. 17-18).
I Padri Cappadoci e il rilanciodella filosofia cristiana
129
Assai ampia (cc. 28-42) è anche la trattazione che Nemesio riserva al libero arbitrio. Qui le sue fonti principali sono Aristotele (Etica niconza-
chea) e Origene (I Principi). Contro tutti i negatori del libero arbitrio (i deterministi, i manichei, i fatalisti ecc.) Nemesio dimostra che l'uomo è dotato di libero arbitrio, adducendo sia l'argomento della esperienza personale (c. 38), sia quello del possesso da parte de1l’uomo di una facoltà raziocinativa che gli consente di prendere in esame e di valutare le varie opportunità, una facoltà che sarebbe del tutto inutile se, appunto, l'uomo non fosse in grado di
scegliere. Ecco il momento centrale delrargomentazionedi Nemesio:
«Che all'essere razionale si accompagni il libero arbitrio già dovrebbe evidente a quanti non distrattamente hanno seguito ciò che sopra è stato detto, cioè, che c'è qualcosa che dipende da noi. Ma ora poiché lo richiede la logica del discorso, non sarà fuori luogo farne di essere
nuovo
menzione.
All’essere razionale appartengono sia la facoltà teoretica (to theoretikòrz) che quella pratica (i0 praktikòn). La facoltà teoretica è quella che riflette su come sono gli esseri; quella pratica è la facoltà deliberativa (i0 bouleutikòn), quella che definisce la retta norma delle cose da farsie chiamano la facoltà teoretica intelletto e quella pratica ragione, e attribuiscono alla facoltà teoretica la sapienza (sophian), a quella pratica la prudenza (phronesin). Orbene, chiunque delibera lo fa a partire dalla consapevolezza che dipende da lui la scelta delle cose da farsi, proprio in ordine a scegliere effettivamente ciò che risulta dal giudizio della deliberazione ad agire, in base a questa scelta. E, quindi, assolutamente necessario che colui a cui compete la deliberazione sia anche padrone delle azioni; se non fosse padrone delle azioni, infatti, inutilmente procederebbe alla deliberazione.Ma se è così, di necessità consegue l'appartenenza del libero arbitrio all'essere razionale, giacché o non è vero che sia razionale o, se è razionale, è padrone delle azioni; ma, se è padrone delle azioni, senza dubbio è dotato di libero arbitrio» (c. 40).
L'affermazione del libero arbitrio non può non chiamare in causa la Provvidenza. Infatti, come conciliare una Provvidenza che non solo prevede tutto ma anche provvede a tutto, e allo stesso tempo affermare che delle proprie azioni è responsabile l'uomo? Questo problema era già stato dibattuto dai Neoplatonici, ma loro soluzione, che riduceva la Provvidenza alla previdenza, era chiaramente insoddisfacente. Nemesio distingue tra scelte e risultati della scelta, e afferma che mentrexla scelta è nostra, non sempre dipendono da noi i risultati della scelta. E sui risultati della scelta che interviene la Provvidenza, la quale è superiore alla necessità e alla fatalità: «Non enim sub necessitate est Deus
130
Parte prirrza
neque IIOÌMHÌHÌCÌÌI eius servire neccssitati fas est dicere; etenim necessitatis Conditor est» (c. 37). La Provvidenza non si occupa soltanto dell'universo nel suo insieme ma anche degli individui (c. 42); ma non è responsabile del male, perché è perfetta. L'autore ritiene che l'unico vero male risiede nell'azione Cattiva e che la virtù è la condizioneessenziale della felicità. Il De natura hominis di Nemesio è il primo trattato di antropologia filosoficadi un autore cristiano. È un trattato completo in cui si affrontatutte le all'uomo.
no
questioni metafisiche, psicologiche e gnoseologiche relative
Il trattato nemesiano è costruito secondo l'esigenza di una filosofia e di una metafisica cristiane, che è quella di coniugare il potenziale filosofico del cristianesimo con le grandi conquiste della metafisica e della filosofia dei greci. «Da questo punto di vista il trattato di Nemesio è un incontro interessante della filosofia e del cristianesimo, uno sforzo tendente ad incorporare un pensiero non cristiano nella sintesi cristiana, o più precisamente un tentativo mirato a ripensare, riesprimere ed eventualmente completare la dottrina cristiana con l'aiuto di categorie mutuate dalla cultura greca. In questo modo l'autore voleva rendere ”intelligibile” il cristianesimo ai credenti colti ed accettabile ai non credenti. La Cultura greca rappresentava una sfida per i cristiani: come meglio rispondere che conciliandole vedute più penetranti della filosofia greca con Pinsegnamento cristiano? Il cristianesimo si presenta così come il pleroma e il compimento del pensiero greco: non c'è (ipposizitine tra la filosofia precristiana e il messaggio evangelico, poiché questo è il compimento di una verità incoativa>>.3‘* Il De natura hominis, nell'età patristica, è l’esempio più cospicuo di come si possa operare una sintesi organica tra il potenziale filosofico del cristianesimo e la metafisica ellenica, optando per la versione platonica (neoplatonica, perla precisione) anziché per quella aristotelica. Per quale motivo l'opzione di Nemesio è andata al neoplatonismo? Le ragioni sono due: anzitutto il neoplatonismo era la filosofiadominante nel V secolo; in secondo luogo, era la filosofia che presentava più punti di contatto e importanti convergenze con il cristianesimo. Questo era stato percepito anche da Clemente e Origene, i fondatori della metafisica cristiana, che avevano scelto infatti Platone come loro principale interlocutore.
39)
G. VERBEKE, ”Foi et culture chez Nemesius d'Emèse", in AA. Vv., Pnradoxos Politcia, "Studi patristici in onore di G. Lazzati", Milano 1979, p. 512.
I Padri Cappadoci e il rilancio della filosofia cristiana
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Suggerimenti bibliografici BASILIO IL GRANDE
Edizioni: PG 29-32; SCh 7, 26. Traduzioni italiane: M. B. ARTIOLI, G. A. BERNARDELLI, Lo
Opere ascetiche, Torino 1980; Spirito Santo, Roma 1993; M. NALDINI, Salta Genesi
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Gregorii Nysseni opera,
a cura
di
Traduzioni italiane: C. BRIGATTI, La vita di‘ Mosè, Alba 1967; R. CRISCUOLO, Epistole, Napoli 1981; E. G1ANNARELLI, La vita di S. Macrina, Roma 1988; L. LEONE, Vita di S. Gregorio Taamatargo, Roma 1988; S. LILLA, Sulla verginità, Roma 1976; ID., Pine, professione e perfezione del cristiano, Roma 1979; C. MORESCHINI, Opere di Gregorio di Nissa (antologia delle opere più significative), Torino 1992; M. NALDINI, La grande catechesi, Roma 1982; B. SALMONA, L'uomo, Roma 1982; A. TRAVERSO, Sui titoli dei Salmi, Roma 1994.
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giease de
V.
132
Parte prima
Nyssa, Pamplona 1978; E. MUEHLENBERG, Die Unendlichkeit Gottes bei Gregor v. Nyssa, Gòttingen 1966; B. SALMONA, Il filosofare nei luminari di Cappadocia, Milano 1974; J. M. SHEA, The Church according to S. Gregory ofNyssa, Baltimore 1969. de
GREGORIO DI NAZIANZO
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IL PLATONISMO CRISTIANO DI MARIO VITTORINO, S. AGOSTINO E BOEZIO
Il contesto storico La metafisica cristiana nel mondo latino
muove
i
primi passi nel
IV secolo e, quindi, con due secoli di ritardo rispetto al mondo greco. Tale ritardo viene però ben presto colmato dai guadagni speculativi dei filosofi cristiani che mettono la metafisica latina in grado di raggiungere e sorpassare rapidamente i traguardi raggiunti dalla metafisica cristiana nel mondo greco. Artefici di questa straordinaria impresa furono Mario Vittorino, S. Agostino e Boezio. Il ritardo dello sviluppo della metafisica cristiana tra gli scrittori di lingua latina è dovuto a ragioni storiche e culturali ben precise: 1) L'assenza in Occidente di "scuole teologiche", ossia di importanti centri culturali, presenti invece in Oriente, Alessandria 0 Antiochia, che curassero la formazione di pensatori cristiani e di teologi; 2) L'assenza dello stimolo delle eresie cristologiche e trinitarie che, come è noto, si diffusero all'inizio esclusivamente in Oriente: Ario, Apollinare, Eutiche, Nestorio sono tutti ecclesiastici della Chiesa greca; 3) La minore diffusione del cristianesimo in Occidente rispetto aIYOriente, «per cui i latini non sono ancora in grado di impostare in molti campi una problematica originale e continuano ad essere tributari delle correnti di pensiero che Vengono dall'Oriente (...). Si aggiunga che il cristianesimo africano, il più vitale sotto l'aspetto letterario, fin dagli inizi del IV secolo è dilace— rato dallo scisma donatista, che ne divide le energie e nei primi tempi si limita soprattutto a contrasti di persone: solo in un secondo tempo la controversia avrà ripercussioni apprezzabili in campo teoretico, alimentando così una certa riflessione teologicam e metafisica. Duplice è il concetto che gli autori cristiani hanno della metafisica, e questo vale sia per i greci sia per i latini. Anzitutto la metafisica è vista come una scienza autonoma, che va alla ricerca della causa prima e dei principi primi; in secondo luogo è vista come strumento utile alla teologia, per migliorare la formulazione dei dogmi cristiani.
l)
M.
SIMONETTI, La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze 1969, p. 253.
134
Parte prima
I teologi cristiani, per quanto attiene il loro rapporto con la metafisica, si possono dividere in tre gruppi: 1) ci sono quelli come Ireneo, Taziano, Tertulliano, Girolamo, Ilario di Poitiers che guardano ad essa con sospetto e talvolta con aperta avversione ed energico rifiuto; 2) ci sono quelli che non la coltivano per se stessa ma le concedono ampio spazio nel loro lavoro teologico: è il caso di Origene, Basilio, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, Mario Vittorino, Dionigi l'Areopagita, S. Anselmo, S. Bonaventura e moltissimi altri; 3) infine ci sono quelli i quali oltre a utilizzarla nel loro lavoro teologico, la coltivano anche direttamente e con essa costruiscono i sistemi della metafisica cristiana. È quanto hanno fatto Agostino, Tommaso, Scoto, Cusano, tanto per ricordare i più famosi. Per la storia della metafisica cristiana e necessario ricordare soprattutto coloro che l'hanno coltivata direttamente, ma meritano di essere presi in considerazione anche coloro che hanno fatto della metafisica soltanto all'interno delle loro riflessioni di ordine spirituale e dei loro scritti teologici. Questo è il caso di Mario Vittorino, il primo grande metafisico della teologia latina.
Mario Vittorino VITA E OPERE Mario Vittorino nacque all'inizio del IV secolo. Le notizie certe che possediamo di lui sono quelle che ci ha tramandato S. Girolamo: «Vittorino, africano d'origine, insegnò retorica a Roma sotto l'imperatore Costanzo (337-381). In età assai avanzata abbracciòla fede cristiana e scrisse contro Ario, alla maniera dei dialettici, libri molto oscuri, che sono capiti
soltanto dai dotti. Scrisse anche alcuni commentari dell'Apostolo
(Paolo)».2 La sua conversione al cristianesimo ebbe luogo intorno al 355. Nel 362 dovette abbandonare l'insegnamento a causa dell’editto di Giuliano l’Ap0stata, che vietava l'insegnamento della eloquenza e della letteratura ai maestri cristiani. La sua conversione svolse un ruolo decisivo anche in quella di S. Agostino; leggiamo nelle Confessioni: «Quando Simpliciano, uomo tutto tuo, mi fece la narrazione della conversione di Vittorino, arsi dal desiderio di imitarlo: era questo lo scopo del suo racconto».3
3) GIROLAMO, Vir. iH. 101. 3) AGOSTINO, Confessioni 8, 5, l.
Il platonismo Cristiano: Mario Vittorino
135
Come professore di
eloquenza Vittorino scrisse numerose opere, prescolastico, in gran parte perdute. Tra le opere scritte d’argomento religioso dopo la conversione ricordiamo i trattati relativi alla controversia trinitaria: De generatione divini Verbi; Adversus Arium (quattro libri); De homonosio recipiendo; tre inni sulla Trinità in prosa; i commenti ai Calati, Efesini e Pilippesi. valentemente di
carattere
SPECULAZIONE METAFISÎCASUI MISTERI DI DIo E DELLA TRINITÀ Profondo conoscitore del pensiero di Plotino e di Porfirio, Mario Vittorino è il primo scrittore cristiano latino che se ne serve ampiamente nella elaborazione della sua dottrina su Dio e sulla Trinità. Come ha mostrato P. I-ladot4 la metafisica di Mario Vittorino coincide sostanzialmente con quella del neoplatonico Porfirio ancor più che con quella di Plotino. Ciò risulta soprattutto nella sua trattazione della trascendenza di Dio e nella sua formulazione delle tre ipostasi della Trinità. La trascendenza di Dio Il Vittorino riprende da Porfirio la dottrina dell'assoluta trascendenza di Dio: essa riguarda anzitutto il piano dell'essere: Dio si trova al di là dell'esistenza (hyparxis) e di tutti gli enti (m onta), e al di sopra della stessa dicotomia tra essere e non-essere, e pertanto oltre l'essere e oltre il nulla. Ovviamente Dio trascende la sfera del pensiero: anche qui egli si trova al di sopra della dicotomia del pensabile e del non pensabile. Perciò non ci possono essere né immagini né concetti di Dio. Dio si trova al di fuori e al di sopra di tutte le categorie ontologiche, logiche e semantiche. Egli è assolutamente inconoscibilee ineffabile.Ecco un brano esemplare della lettera del Vittorino Ad Candidum, di sapore palesemente porfiriano, in cui esprime queste sue idee sulla trascendenza di Dio. «Cos'è allora Dio, se non è nessuno di questi: né i veramente enti, né i semplici enti, ne’ i non-veramente non-enti, né i semplicemente nonenti? Dio infatti li produce, in quanto è causa di tutti questi. D'altra parte è sacrilegopensare che Dio faccia parte dei veramente non-enti. Allora è necessario pensare che per superiorità ed eminenza su tutti gli enti, Dio è al di sopra di ogni esistenza (per praelationem et eminentiam ton onton Deum dicemus supra onmem existentiam) di ogni vita, di ogni conoscenza, al di sopra di ogni ente e dei veramente-enti, dato che è inintelligibile,infinito, invisibile, inconcepibile,non-sostanziale, inconoscibile, e poiché è al di sopra di ogni cosa, non è nessuno degli enti,
4)
P. HADOT, Porfirio e Vittorino, tr. it., Milano 1993.
136
Parte prima
poiché è al di sopra degli enti non riceve nulla dagli enti. Dio è quindi non-ente (Mé òn ergo Deus est). Che cos'è dunque questo non-ente al di sopra dellrnte? Esso è tale che non è conosciuto ne’ come ente né come non-ente, ma come conoscibilenella non-conoscenza, giacché è allo stesso tempo ente e non-ente, poiché per sua stessa potenza ha portato l'ente a manifestarsi e l'ha generato. Del resto è secondo ragione (logos) che
e
sia c0sì»,5
Sospinto oltre tutte le modalità dell'essere, del conoscere e del linguaggio Dio diviene logicamente inconoscibile,indefinibile,ineffabile. Dio si cela dentro la luminosissima luce da cui procede ogni essere, ogni conoscere e ogni parlare. Raramente la teologia negativa è riuscita a trovare formule più forti e più eloquenti per esaltare l'infinita difierenza qualitativa di Dio. Vittorino afferma la trascendenza di Dio rispetto a tutti gli enti ma non rispetto all'essere. Seguendo Porfirio, egli pone una netta distinzione tra l'essere e gli enti, ed identifica l'essere con Dio. Ecco un testo delY/ldversus Arium in cui la distinzione viene proposta in termini molto
chiari. e prima del logos c'è la forza e potenza dell’esistere che si designa col termine essere (esse), che corriexistendi), (potentia einai. io al Questo stesso essere si deve prendere in due sponde greco modi: l'uno in senso universale e originariamente originario, da cui che veniproviene l'essere degli altri; e l'altro come l'essere degli altri, In verita di realtà le tutte le e tipo. i questo gono dopo: generi, specie l'essere primo è impartecipato (Uerum esse primum imparticipafunz est), tanto che non lo si può denominate né uno né solo, ma per eminenza prima dell'uno e prima del solo, al di là della semplicità (Hlfm sinzplicitatem), preesistenza piuttosto che esistenza (praeexistentium potius quam existentiam), universale di tutti gli universali, infinito, indetermi-
«Prima dell'ente
nato, ma per tutti gli altri, non per sé, e quindi senza forma; è inteso in un certo concetto, cioè è percepito, conosciuto e creduto con un intelligentia accipipensiero anteriore al pensiero (praeintelligentia quam che abbiamo chiatur), piuttosto che col pensiero stesso. Questo è ciò di al sopra di tutti gli mato vivere o vive, quellînfinito, quel Vivere non l'essere di lo stesso vivere, universali, lo stesso essere (ipsum esse), è cntemò non di il qualcosa o vivere qualcosa. Quindi
5) MARIO VITIORINO, Ad Candidum 13, 1. 5) ID., Adversus Arium IV, 19, 4.
Il platonismo cristiano: Mario Wttorino
137
Come spiega bene il Vittorino, 1a distinzione tra essere ed ente opera a due livelli: ontologico e logico. Nel primo caso l'essere è la forza (potentia) da cui provengono tutti i singoli enti. Nel secondo caso e il genere più universale di tutti i generi, e la cui genericità è maggiore della stessa genericità dell'ente. «Infatti l'ente ‘e il genere di tutti gli enti e il genere supremo consiste nell'essere»? L'essere si identifica con Dio non in quanto genere bensì come principio impartecipato dell'esistenza degli enti. L'essere che è primo ontologicamente corrisponde all'asse ipswn Subsistens di S. Tommaso; mentre l'essere primo logicamente è l'asse commune. Con la distinzione tra essere ed ente Mario Vittorino riesce a tradurre in termini metafisici l'assoluta trascendenza di Dio, che è una delle grandi conquiste dell'ebraismo e del cristianesimo. Si tratta di una distinzione di capitale importanza, che sarà ulteriormente perfezionata da Boezio, Avicenna e Guglielmo d’Auvergne, e diventerà l'asse portante della metafisica di S. Tommaso d'Aquino.
La prima trascrizione metafisica del mistero trinitario
prima elaborazione del mistero trinitario in termini metafisici era già compiuta dai Padri Cappadoci“ con la distinzione tra natura e ipostasi (persona): nella Trinità la natura è unica, mentre le ipostasi (persone) sono tre. Ma alle tre ipostasi si davano ancora i nomi biblici di Padre, Figlio e Spirito Santo, e si spiegava che la loro distinzione era dovuta alla innascibilltà(aghennesia) del Padre, alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito. Per la distinzione personale non si erano ancora trovate espressioni metafisiche adeguate. Questa difficile e importante operazione di trascrivere in termini metafisici ciò che distingue le tre Persone divine Viene tentata per la prima volta da Mario Vittorino, ricorrendo alla distinzione porfiriana delle tre ipostasi primarie, cioè le ipostasi eterne dell'Essere, della Vita e Una
stata
del Conoscere? Ecco un testo in cui il Vittorino riassume in modo eccellente YESSere-Vivere-Pensaredell'unico Dio:
«Essendo cosi, dato che Dio possiede il pensare e il pensiero, il pensiero è identico alla vita e all'essere (idem intelligentia quod vita et quod est esse). Ma poiché c'è più forza attiva nel pensare piuttosto che nell'essere e nel vivere, e poiché questo essere è pensare che ‘e, e questo Vivere è pensare che Vive, è necessario, se Dio è pensare o pensiero,
7) 11nd,, I, 48, 4. 5) Questa distinzione fu recepita e consacrata solennemente dal Concilio Costantinopolitano I (381). 9) Si tratta di una revisione della dottrina di Plotino che poneva come ipostasi primarie l’Uno, il Nous e la Psyché.
138
Parte prima,
che,
se Dio pensa, pensa se stesso. E del resto, se pensa se stesso, non si pensa come qualcosa d'altro, ma avviene che il pensiero pensa se stesso. Se è così, si fa essere, giunge all'esistenza, costituisce il suo proprio essere, e allo stesso modo, con l'atto di pensiero, costituisce il suo vivere. Dato che tutti e tre sono nati da se medesimi o meglio sono esistenti di per sé, Dio ingenerato esiste a partire da ingenerati ("in geni tus Deus est exisfens ex ingenifis). E poiché questi sono uno, Dio è uno, e uno e semplice. E questo è un pensiero interiore, che pensa se medesimo senza alcun movimento, giacché esiste pensando e pensa esistendo (cum intelligit existit, et cum existit intelligit), e questo è Dio, da tutta l'eternità e per tutta l’eternità».10
L'unico Dio è, allo stesso tempo, Essere, Vita, Pensiero. In Lui l'unicità e la triadicità costituiscono una cosa sola. Infatti, Dio «è l'unità delle tre potenze di Essere, Vita e Pensiero» (Est Deus tres potentias habere, esse, vivere, intelligerelll Ciascuna di queste potenze è in ciascuna delle altre due, conformemente al fatto che l'unità è insita nella triadicità in quanto ne costituisce il fondamento e la triadicità è insita nell'unità in quanto ne costituisce Vesplicitazione e il compimento che fa ritornare in se stesso il principio imprincipiato. «Triplex igihzr in singulis singularitas et unalitas in Trinitate».12 Essere, Vita e Pensiero sono anche l'uno nell'altro riguardo alla loro essenza 0 al loro agire. Così l’Essere è fondamento e origine tanto di sé che della Vita e del Conoscere pensante; la Vita invece è soltanto se stessa, poiché essa si radica nelYEssere e pensa a partire da esso e verso di esso; il Pensare, infine, vive in quanto pensare e conoscore dall'Essere primigenìo. Se si afferma che l'essere di Dio è pensante e vivente, la sua vita è pensante ed esistente e il suo pensiero è esistente o vivente, allora la triade ”Essere-Vita-Pensiero" va pensata come un compiersi vivente. La forma assunta dal compimento di questa triplice unità, o triadicità in sé è quella del circolo o della sfera. Il movimento della Vita e del Conoscere esce dall'Essere in quanto loro punto d'origine e ad esso fa ritorno, senza smarrirsi e senza che entrambi si dividano l'uno dall'altro o dall'origine (cyclica causa inseparabiliter c0nversa).13 ljuscire dal Principio infatti è a un tempo quiete e movimento: «esce e insieme non esce (exiens et non exiens, et scmper et in mansione et in motu simul)».14 Questo _
l”) MARIO VITTORINO, Adversus Ariurrz IV, 27, 1. 11) lbid, 2], 26. 12) Ibid, IV, 21, 30. 13) Cf. ibid., I, 60, 5. H) 119111., 24.
Il platonismo cristiano: Mario Wttorfno
moto
perpetuo può ben concepirsi
139
circolo 0 una sfera, poiché ciò che nel circolo sono il cen-
come un
in esso inizio, mezzo e fine sono identici a tro, il raggio che congiunge e il perimetro. ln Essere, Vita e Pensiero ciascun elemento «è tre: essi si avvolgono su se stessi e partecipano l'uno all'altro, ancor più: essi esistono tutti insieme contemporaneamente, senza alcun intervallo».15 Vittorino chiama il Padre Essere, il Figlio Vita e lo Spirito Santo Pensiero. ll Padre, ingenerato, si esprime nella Vita generando il Figlio, e ritorna poi su se stesso, pensando se stesso nello Spirito. C'è perfetta circolarità e coincidenza nelle tre Persone divine, in quanto l'essere di Dio non può essere privo di vita, né la vita può essere priva di pensiero: «Egli si sa essere, giunge all'esistenza, costituisce il suo essere proprio, e allo stesso modo, con l'atto di pensiero costituisce il suo vivere».16 S. Girolamo osservava, non a torto, che il linguaggio e i ragionamenti di Vittorino risultavano molto oscuri e incomprensibilialla gente comune. Ma questo è quasi sempre il destino della metafisica. Erano oscuri
Eraclito, Parmenide, Zenone, Platone, Aristotele, Plotino. C'è sempre
qualcosa di non immediatamente comprensibilenella metafisica: e ciò accade a fortiori in una metafisica che cerca di esprimere i massimi misteri del cristianesimo. Nella sua trascrizione metafisica del mistero trinitario Vittorino af-
fronta con la maggior chiarezza l’identità della sostanza, ma molto meno a mantenere la distinzione delle persone, giungendo a posizioni prossime al modalismo. D'altro canto, la sua speculazione filosofica non
riesce
è stata in grado di dare uno spazio adeguato né al mistero dell’“economia" né all'organismo sacramentale. Ma questo è il prezzo che deve pagare qualsiasi traduzione dei misteri cristiani in chiave metafisica. Il grande merito di Mario Vittorino è di essere stato il primo cristiano latino a essersi impegnato in una ricerca metafisica così profonda. Egli
coraggiosamente termini e dottrine da Plotino e da Porfirio e, a loro imitazione, crea nuovi termini latini, che entreranno a far parte del lessico della tradizione filosofica e teologica latina. Uinflusso di Porfirio è già evidente nel De Trinitate di Agostino, che fa sua la distinzione fra esse, vivere, intelligere, ma modificandone l'ordine che in Agostino diventa: esse, intelligerc, vivere; in questo modo sono più chiaramente delineate le attribuzioni alle tre Persone divine: l'asse al Padre, lfintelligere al Figlio e il vivere allo Spirito Santo. mutua
15) 11nd, 18-20. 16) una, 1V, 27, 1.
140
AGOSTINO DI IPPONA
Vita Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, cittadina africana del ver— mediterraneo della Numidia (oggi Souk-Ahras) da Patrizio e Moniil padre aveva un'anima molto rozza e per godersi maggiorMentre ca. mente la vita rimanderà il battesimo fino al punto di morte, la madre era una cristiana molto pia e timorata di Dio, assai sollecita dell'educazione morale e spirituale dei propri figli. Dalla madre Agostino ricevette un'educazione cristiana. In forza di quesFcducazione Agostino restò sempre non solo un credente in Dio, nella provvidenza e nella vita futura, ma anche in Gesù Cristo, il cui nome aveva bevuto, com’egli dice, «con il latte materno».1 Tornato alla fede della Chiesa cattolica dopo aver abbandonato il manichcismo, egli dirà di essere tornato «alla religione che mi era stata ìstillata da bambino e fatta entrare nelle midollas} Nonostante le modeste condizioni familiari,Agostino poté effettuare, anche grazie al generoso e sostanzioso aiuto di Romaniano, suo «Concittadino e grande amico sin dall’infanzia»,3 il tirocinio completo degli studi, fino al conseguimento del titolo di maestro di retorica. Completati i primi studi a Tagaste, proseguì gli studi di grammatica a Madaura e finalmente concluse gli studi di retorica a Cartagine, massimo centro politico e culturale dell'Africa occidentale, che offriva alla gioventù grandi possibilità di successo ma anche molte tentazioni. A Cartagine, lontano dalla vigilante premura della madre, oltre che di sbandamenti morali Agostino fu vittima di ben più gravi aberrazioni attinenti l'ordine spirituale e religioso: abbandonò la Chiesa cattolica e diede la propria adesione alla setta dei manichei. Più che da motivi propriamente religiosi la sua affiliazione al manicheismo fu dettata da ragioni filosofiche: avvenne infatti poco dopo la lettura dell'Ortensi0 di Cicerone che l'aveva introdotto alla filosofia. Gli pareva di trovare nel manicheisrno una cosmologia più soddisfacente di quella cristiana, capace di dare una sante
spiegazione razionale al problema del male: un problema che aveva CO-
1) Confessioni 3, 4, 8. 2) Contra Academicos 2, 2, 5. 3) Con)‘. 6, 14, 1.
Agostino di Ippomz
141
angustiare il suo spirito sin dall'infanzia e che era diventato più angoscioso dopo l'improvvisa scomparsa di un carissimo amico al quale si era stretto con tenerissimo affettori La lettura delle
minciato ad ancora
Sacre Scritture 1’aveVa deluso: «I1 mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acumc non penctrava nel suo intimo. Essa era tale da crescere insieme ai piccoli ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando essere ancora bambino».5 Dopo qualche anno di insegnamento a Cartagine, con l'appoggio dei manichei riuscì ad aprire una cattedra a Roma e successivamente, sempre con l'aiuto degli amici manichei, riuscì a vincere il concorso per la cattedra di retorica di Milano, città sede dell'imperatore. «Quando il prefetto di Roma racconta Agostino ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del Viaggio sulle Vetture dello Stato, io stesso brigai per tramite dei medesimi manichei perché dopo avermi sottoposto alla prova di declamazione, il prefetto del tempo, Simmaco, mi invitasse a Milanomé S. Agostino superò brillantemente la prova e ottenne il posto tanto ambito. All'inizio dell'autunnodel 384 lascio Roma per Milano. Si era agli inizi dell'anno scolastico e Agostino si mise subito al lavoro, tenendo le sue lezioni di retorica davanti a un folto gruppo di studenti, imponendosi alla loro attenzione assai più con lo stile brillante del suo insegnamento e l'originalità dcllc materie che impartiva che con il rigore della disciplina. Gli anni del soggiorno milanese (384-387) sono quelli che registrano la grande metamorfosi intellettuale e spirituale di Agostino. Da Roma era partito con l'aiuto degli amici manichei, ma nel suo cuore Agostino era già uscito dal manicheismo, che l'aveva profondamente deluso. Infatti i manichei credevano di conoscere la verità, ma, in realtà, avevano riversato nella sua mente assetata di Verità una quantità di menzogne, di sciocchezze, di assurdità. Quando ne ebbe chiara percezione e lasciò il manichcismo, Agostino piombo improvvisamente in una fitta nebbia intellettuale che gli impediva di scoprire qualsiasi verità. In quel momento gli parve fondata la posizione degli accademici,assertorì di uno scetticismo universale. «Divenuto perciò, come gli accademici,dubbioso e incerto di tutto, decisi di abbandonare i manichci, pensando di non poter restare più in quella setta durante quel primo periodo di dubbio, tanto più che ormai ad essa preferivo già alcuni filosofi,ma a costoro non volevo assolutamente affidare la cura della mia anima languente, poiché erano senza il nome salutare di Cristo»? -
4) Cf. ibid, 4, 4, 1 ss. 5) Ibid., 3, 5,1. b) 1bid., 5, 13, 1. 7) lbid, 7, 14, 3.
-
142
Parte prima
Dallo scetticismo uscì con l’aiuto del platonismo, a cui l'aveva introdotto la lettura delle Enneadi di Plotino. Il platonismo spiano ad Agostino la via alla ricerca della verità (non nelle cose esterne ma in se stesso) e la soluzione di quel problema del male che lo andava angustiando da tanto tempo. Nel frattempo l'incontro del vescovo Ambrogio lo avvicinò al cristianesimo. Nel 386 compì il grande passo della conversione: il battesimo ebbe luogo nella notte del sabato santo dell'anno successivo. Assieme a lui ricevettero il sacramento della salvezza il figlio quindicenne Adeodato e l'amico Alipio. Alla cerimonia era presente la madre Monica, ricolma di gioia per avere generato il figlio una seconda volta, e questa volta non più semplicemente alla vita terrena, ma a quella eterna. Convertendosi Agostino prese la drastica decisione di abbandonare interamente il mondo con tutte le sue Seduzioni per Condurre una vita interamente dedicata al Signore nella solitudine e nella preghiera. Per realizzare questo proposito lasciò Milano per rientrare in patria. Durante il viaggio la madre si ammalò e spirò tra le sue braccia ad Ostia, pochi giorni prima di salpare per l'Africa (387). Il rientro in patria ebbe luogo l'anno successivo. In questo tempo Agostino porta a termine la sua magnifica serie di dialoghi filosofici: De ordine, De vita beata, De quantitate animac, De libero arbitrio, Contra academicos, De immortalitate animae. A Tagaste, dove si era stabilito definitivamente con un gruppo di amici, Agostino mise in atto un programma di vita cenobitica, che comprendeva meditazione della Parola di Dio, digiuni, preghiere e opere buone. Era l’inizio di quell'ordine religioso che prenderà il suo nome. Nel 391 Agostino scende a Ippona per fondarvi un monastero: una domenica, mentre assisteva alla messa celebrata dal vescovo Valerio, la gente lo riconobbe e chiese con insistenza al suo Vescovo di ordinarlo prete. Le rimostranze di Agostino e le sue lacrime non valsero a nulla e così «infine si compì, com’essi volevano, il loro desiderio». Ormai la vita di Agostino ‘e segnata: sarà spesa interamente a servizio della Chiesa, prima come sacerdote e dal 396 come vescovo di Ippona. Entrato a far parte della gerarchia ecclesiastica della Chiesa africana, si batte con tutte le sue forze e con grandissimo zelo, con gli scritti e la predicazione, per la difesa dell'ortodossia, ottenendo prima la condanna del donatismo (Concilio di Cartagine, 4ll) e più tardi del pelagìanesimo (Concilio di Milevi, 416). Contemporaneamente componeva, oltre a varie decine di opere polemiche contro i donatisti e i pelagiani, le sue tre opere immortali: Le confessioni (397-401); La Trinità (399-419), La città di Dio (413-426). Nel 426 scelse egli stesso il suo successore alla cattedra di lppona, Eraclio, affidandogli l'amministrazione della diocesi. Nel 427 partecipò per l'ultima volta a un Concilio plenario dei vescovi africani, i quali, per riguardo alla sua precaria salute e per rispetto alla sua persona, avevano
Agostino di Ippona
143
Ippona come sede dell'importante riunione. Nel 428 scrisse le Ritrattazioni, una rassegna completa della sua produzione letteraria, recen-
scelto
sita criticamente. Nel 430 i Vandali che da un anno avevano invaso l'Africa cinsero d'assedio anche Ippona. Nonostante le vivaci insistenze
di una parte del clero che aveva pregato il suo vescovo di mettersi in salvo fuori città, Agostino, pastore esemplare che non voleva abbandonare il suo gregge nel momento più duro della prova, volle rimanere al suo posto sino alla fine. Il 28 agosto dell'anno 430 rese la sua anima a quel Dio che aveva tanto amato, per il quale aveva tanto combattuto e sofferto, spendendo per lui tutte le sue migliori energie. Aveva 76 anni.
Opere Dalla rassegna dei suoi scritti, che Agostino ha curato personalmente nelle Retractationes, risulta che essi assommano a circa un centinaio. Sono scritti che riguardano prevalentemente la teologia, ma vi sono anche alcune significative opere filosofiche. Gli scritti teologici si suddividono in tre gruppi principali, secondo la loro natura: polemica, catechetica e dogmatica. Il corpus della produzione letteraria di Agostino comprende inoltre due opere autobiografiche:Confessiones e Retractationes, l’epistolario e 1 sermoni.
Una classificazione approssimativa dei
suo
scritti
può
essere
la
se-
guente: 1) Opere filosofiche: sono quelle già ricordate (ossia Contra Academicos, De vita beata, De ordine, Soliloquia, De immortalitate animae), più il De musi-
Agostino cerca di dimostrare come anche in quest'arte l'anima si eleva a Dio; De libero arbitrio, in cui esamina il problema dei rapporti tra libertà e male; De magistro, in cui prova il ruolo secondario del maestro nell'atto dell'insegnamento, dato che la verità non viene dall'ester-
ca, in cui
no ma
dall'interno.
2) Opere polemiche: queste sono dirette contro i Manichei, i Donatisti e
i
Pelagiani:
contro i Manichei: De moribas Manicheorum; De Genesi contra Manicheos, in cui tratta dell'origine del mondo e del male; Contra Faustum; b) contro i Donatisti: De baptismo contra Donatistas; De unico baptisma contra Petilianam; Liber ad Donatistas post collationem, scritto in occasione
a)
della celebre disputa tenuta a Cartagine nel 411; c) contro i Pelagiani: De natura et grafia, in cui confuta l'opera De natura di Pelagio, il quale vi negava il peccato originale e 1a necessità della grazia santificante; De grafia Christi et de peccato originali; De anima et eias origine, in cui per togliere ogni forza all'argomento dei Pelagìani, che
144
Parte prima
cioè l'anima essendo creata direttamente da Dio non può nascere col peccato originale, S. Agostino appoggia la teoria del traducianesimo; De gratta et de libero arbitrio, in cui affronta il gravissimo problema della coesistenza del libero arbitrio con la grazia divina. 3) Opere esegetiche: Quaestionunz evangeliorunz libri duo; De Genesi ad litteram; Tractatus CXXIV in evangelium Iolzarzrzis; Erzarrationes in l’salmos. 4) Opere pastorali: De mendacio; De catechizandis rudibus; De sanata vir-
ginitate. 5) Trattati teologici: De dottrina christiana; De Trinitate (quest'opera comprende quindici libri: nei primi sette si cerca di porre in luce la dottrina secondo le Sacre Scritture e difenderne gli argomenti dalle obiezioni degli eretici; negli altri otto si cerca di illustrare il mistero trinitario con tutta una serie di argomenti analogici tratti in parte dalla natura, in parte dall'uomo); De civitate Dei: è la celebre opera in cui Agostino sviluppa la sua visione cristiana della storia. 6) Sermoni e lettere: l’epistolario comprende oltre duecento lettere, di contenuto assai vario, per lo più espressamente didattico. Quanto ai Sernzones se ne contano circa cinquecento, però Agostino ne compose certamente di più. Il loro argomento è prevalentemente polemico, dogmatico e pastorale. 7) Scritti autobiografici:sono le Confessiones e le Retractationcs. Quest'ultima opera comprende due libri, scritti al termine della sua vita, in cui presenta, come già detto, una rassegna di tutti i suoi scritti (per la precisione 94 opere), al fine di rimuovere le difficoltà che Vi si potevano incontrare, sia con spiegazioni, sia con correzioni. Il genio di Agostino
Agostino è il massimo esponente della teologia e della filosofia cristiana della Chiesa latina del primo millennio. Non c'è area della filosofia e della teologia in cui il suo pensiero non abbia lasciato un segno profondo, non soltanto attraverso tutta l'età medievale ma anche quella moderna. Però il suo influsso spazia ben oltre i confini della teologia e della filosofia: esso si estende a tutto il mondo della cultura: la cultura cristiana del medioevo e alcuni tratti della società moderna sono stati forgiati da Agostino. Sulla eccezionale grandezza dei meriti di Agostino sono tutti d'accordo. Storici, filosofi, uomini politici e uomini di Chiesa, pensatori cristiani e laici sono unanimi nel riconoscere in Agostino uno dei più grandi geni speculativi di tutti i tempi, il massimo teologo del periodo patristico, il teorico della respublica christiana medievale, una delle fonti più stimolanti e più feconde della cultura moderna. Tra i filosofi è interessante
Agostino di Ippona
145
sentire due voci così diverse tra loro come quelle del cattolico e tomista e del protestante ed esistenzialista Jaspers. Scrive M. D. Chenu: «Per tutti Agostino non è un maestro qualsiasi ma il maestro della cultura cristiana. Egli ne ha fornito i quadri e i metodi, il materiale e le ambi-
Chenu
zioni e ne segnala in anticipo le lacune. La civiltà latina medievale e gran parte della cristianità è nata da Agostino, dal retore convertito Che ignorava le scienze, dal grammatico che fa delfesegesi allegorica, dal dialettico che, non senza sottigliezza, trova nei suoi esercizi una risorsa ammirevole per la formazione dello spirito. Infine e soprattutto egli fissa al Vertice di questa cultura la posizione della teologia, ”sapienza” che si serve delle sette arti e della stessa filosofia come ancelle, ma che a sua volta Costituisce all'interno della fede e sotto la sua luce, una scienza, un intellectus fìdei, munito di tutte le risorse della ragione e aperto a tutte le curiosità dell'intelligenza»? Contro coloro che pretendono di ridimensionare i meriti filosofici di Agostino a causa del carattere prevalentemente teologico della sua opera, Jaspers osserva che Agostino ha saputo trarre dall'albero della sua fede cristiana frutti di squisitissima razionalità, creando in tal modo il massimo modello per i filosofi cristiani di tutti i tempi, un modello che può reggere benissimo il confronto con qualsiasi altro sistema filosofico. <
(Tertulliano, Lattanzio) non aveva ancora raggiunto l'estensione e
profondità di un mondo filosofico tutto proprio. Ciò che venne dopo Agostino si nutri del suo pensiero. Agostino creò la filosofia cristiana nella sua forma latina insuperabile»? Nel terreno più ristretto della metafisica, che costituisce l'oggetto della nostra ricerca, Agostino è il creatore della sintesi più geniale che sia mai stata realizzata tra platonismo e cristianesimo, una sintesi destinata ad esercitare un influsso enorme e costante non solo durante l'epoca medioevale ma anche in quella moderna. In effetti Pagostinismo è stato Yindirizzo metafisico più forte e più seguito nel mondo occidentale fino a Hegel. la
3) 9)
M D. CHsNu, Intmduction à Vétude de St. Thomas d’Aquin, Paris 1950, p. 50. K. IASPEKS, I grandifilosnfi,Milano 1973, pp. 477-478.
146
Parte prima
Uinquietudine metafisica e religiosa Tutta la vita di Agostino è segnata da una profonda inquietudine metafìsica che è allo stesso tempo un’acuta inquietudine religiosa: «inquietum est cor nostrum donec requiescat in temi" Da tale inquietudine nasce il suo disgusto per l'apparente e l’effimero, la sua insofferenza per il finto e
insieme la
sua
capacità di inserire l'apparente e l'effimero entro l'alone
dell'infinito e dell’Eterno e di intuirvi suggestioni analogiche. Nei Soliloqui (I, 2, 7) al quesito della Ragione: «Che cosa vuoi conoscere?», Agostino risponde: «Voglio conoscere l'anima e Dio». «Nient'altro?», insiste la Ragione, e Agostino con decisione: «No, nient'altro». Dio e l'anima sono le due realtà intorno a cui la metafisica ellenica si era continuamente cimentata, raggiungendo esiti importanti ma insicuri e non conclusivi. Su queste stesse realtà si concentra l'intelligenza vivace e inquieta di Agostino. La sua inquietudine metafisica è sempre accompagnata da una forte sollecitazione religiosa. La sua ansia è schiettamente cristiana: è l’ansia della salvezza; e la salvezza consiste nel possedere e nell'amare l’Uno ineffabile,come verità e come bene. «Il suo itinerario spirituale si e conchiuso sotto il segno del cristianesimo; la conquista della verità ha coinciso con l'accettazione del messaggio cristiano. Perciò la filosofia è stata per lui il ripensamento razionale della sua esperienza religiosa: nel riflettere sul processo interiore della sua anima, egli ne rintracciava la spirituale unità nell'incessante aspirazione a Dio, al Bene assoluto e incondizionatoe nei desideri, nei sentimenti, nei pensieri riconosceva, l'unità autentica della persona in quanto li vedeva polarizzatitutti verso Dio».11
Fede e
ragione: lo spazio della metafisica
Agostino ha sempre avvertito l’ansia della verità, ma per scoha prirla percorso tre strade molto differenti, che all'incirca corrispondono anche a tre periodi distinti della sua vita: il periodo romano, quello Così
milanese e quello africano. In un primo tempo egli si affida esclusivamente alle risorse della ragione, escludendo totalmente la fede, le Scritture Sacre e l'autorità della Chiesa. È il periodo della sua affiliazione al manicheismo e della sua adesione al razionalismo dei manichei, nemici dichiarati di qualsiasi
1°) Cvnf. 1, 1. 11) G. FAGGIN, Agostino, in AA. Vv., Momenti di storia della filosofia, vol. I, Milano 1962, p. 173.
'
Agostino di Ippona
147
autorità, e dell'autorità delle Scritture e della Chiesa in modo particola-
Ciò accade durante il suo insegnamento a Roma. a Milano, dopo l'incontro con il vescovo Ambrogio, egli scopre l'utilità della fede (de utilitate credendi): vede che con i soli parametri della ragione non si può vivere: «Presi a considerare quante cose io credevo senza vederle e senza essere presente allorché accadevano: come gli innumerevoli avvenimenti storici, tanti luoghi e città che io non avevo visto, le affermazioni di amici, di medici, di molte altre persone Che, a non crederle, più nulla sarebbe possibilenella vita».'1 Così si converte al cristianesimo: «Preferivo ormai la fede cattolica, perché notavo come essa con minor pretesa e senza inganni invitava a credere delle Verità che non venivano dimostrate, fossero esse dimostrabilio lo fossero solo per alcuni o non lo fossero; mentre tra i manichei con temeraria presunzione di scienza si desiderava l'altrui credulità e si ordinava di credere poi una quantità di favole assurde che non potevano assolutare.
Poi,
dimostrate».13 primi anni dopo la conversione Agostino cerca di coniugare le verità rivelate con le esigenze della ragione. È il momento della filosofia e della metafisica cristiana, che egli coltiva ex professa scrivendo i trattati di gnoseologia (Contra Academicos), di etica (De vita beata), di metafisica (De ordine, De vera religione), di antropologia (Soliloquiu, De libero arbitrio, De immoartalitate animale) e di pedagogia (De magistro). Queste sono tutte opere di filosofia e di metafisica, non di teologia. Ciò che vi viene argomentato è indubbiamente conforme alla fede e tuttavia non ‘e dettato dalla fede, bensì è frutto della dialettica razionale. Sennonché, come sappiamo, poco dopo il suo rientro in Africa Agostino viene chiamato a servire la Chiesa prima in qualità di semplice sacerdote e poi di vescovo. In questa terza fase della sua vita, il suo impegno maggiore è debellare le eresie (manicheismo, donatismo, pelagianesimo) e istruire il popolo cristiano. Così le sue opere assumono un carattere eminentemente e squisitamente teologico. E la sua è una teologia che si fonda da un lato su un'intensa e profonda meditazione interiore e dall'altro su di una rigorosa struttura razionale. Come credente colto e come vescovo egli si sente chiamato non semplicemente a credere, ma anche a capire, a spiegare e a difendere la propria fede: «Noi desideriamo avere conoscenza e scienza di quanto accettiamo per fede (n05 id mente essere
Nei
quod credimus, mosse et intelligere cupimics)».14 I2) Conf. 6, 5. 13) Ibid. 14) De libero arbitrio 2, 2, 6.
148
Parte prima
Indubbiamenteoccorre anzitutto credere, e per le gente semplice la fede è sufficiente, ma non per le persone colte e per i ministri della Chiesa:
«Anche nostro Signore con le parole e le azioni ha esortato coloro che ha chiamato alla salvezza ad avere prima la fede. Ma in seguito, parlando del dono che doveva dare ai credenti, non disse: ”Questa è la vita eterna, che credano”, ma: ”Qucsta è la vita eterna, che conoscano te solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo". Poi a coloro che già credono dice: Cercate e scoprirete, E non si può considerare scoperto ciò che, non essendo oggetto di scienza, si accetta per fede, e nessuno diviene idoneo a scoprire Dio se prima non accetta per fede ciò di cui in seguito avrà scienza. Quindi ossequenti al precetto del Signore cerchiamo con insistenza (quaeranzus instanter). Ciò che cerchiamo perché ce ne esorta, lo scopriremo perché ce lo mostra nei limiti in cui è possibilein questa vita l'oggetto trascendente da individui come noi».15
L'opera legittima della ragione si inizia dunque con un atto di umile
accettazione della luce rivelata, cioè con un atto di fede. Da allora soltanto comincia a comprendere la verità e se stessa. Dopo «la svolta teologicamé Agostino non coltiva più la metafisica per se stessa ma solo
prezioso e insostituibilestrumento nel lavoro di approfondimento di inculturazione dei grandi misteri del cristianesimo, specialmente del mistero trinitario. Anche i preziosi elementi metafisici che egli attinge da Plotino diventano un mero "avviamento" all'intelligenza della Rivelazione: sono Veri solo se Concretamente attuati nel Verbo di Cristo, fuori del quale rimangono incompleti e infecondi. L'unica fonte di salvezza è Cristo che è a un tempo anche verità e vita. Tutto questo per Agostino non significa soppressione della filosofia ma la sua assunzione dentro un orizzonte più vasto, all'interno del quale essa acquista una forza veritativa e un valore salvifico che altrimenti non può possedere affatto. Mondata e santificata dall'acqua del battesimo la ragione speculativa è messa in condizione di svolgere ancora meglio il suo compito, che è quello di riconoscere e di abbracciarela verità. come
e
La filosofia
Quando si trova a dover definire la filosofia, Agostino propone rego-
larmente la classica definizione di Pitagora e Platone: «studium nel amor sapientiarbx" Questa non vuol essere semplicemente una definizione no-
15) 16) 17)
lbid. Cf. G. B. MONDIN, Il pensiero di Agostino, Roma 1988, pp. 84 ss. Contra Acad. 1, 3, 7.
Agostino di Ippona
149
minale, ma reale: è infatti una ricerca, uno studio della verità in vista del
possesso della sapienza. La filosofia non è quindi semplicemente uno studio speculativo delle cause ultime e delle realtà fondamentali, ma una ricerca esistenziale che ha di mira Yautorealizzazionee, con questa, la vita beata. Talvolta Agostino menziona anche le definizioni della filosofia in uso presso gli Stoici, sia quella che la intende come una guida sicura verso la pratica della virtù,” sia quella che la concepisce come uno studio delle cose divine e umane e delle loro cause.19 Anche quando si serve di queste definizioni,l’obiettivoche Agostino le assegna rimane sempre quello eudaimonistico, la vita beata. Per questo motivo il suo studio è ristretto a quelle cose umane e divine che riguardano la felicità (quae ad vitam beatam
pertinent)?"
Alla filosofia si possono assegnare svariate finalità, ma se il suo obiettivo principale è la conoscenza della verità secondo tutto l'orizzonte del vero, allora le sue funzioni principali sono due: una funzione critica, per distruggere e rimuovere tutti gli ostacoli che sbarrano la via alla verità, e una funzione costruttiva di scoperta e delucidazione sistematica della verità. In effetti, anche quando non sono teorizzate esplicitamente, queste due funzioni sono svolte da tutti i grandi filosofi,da Parmenide come da Platone, da Aristotele come da Plotino, da Cartesio come da Kant, da Fichte come da Hegel, da Bergson come da l-leidegger. Neppure Agostino teorizza questa distinzione ma l'ha ben presente e la mette in atto sin dalle prime opere, attenendosi alla logica delle cose: dando cioè la precedenza alla funzione critica rispetto a quella costruttiva. Così la sua produzione letteraria inizia con il Contra Acadenticos, che è una critica serrata dello scetticismo e di tutti gli argomenti degli scettici contro la possibilità di apprendere la verità. La duplice funzione, critica e costruttiva, della filosofia viene implicitamente riconosciuta da Agostino nel prologo al Contra Amdemicos, nella esortazione alla filosofia indirizzata all'amico Romaniano, là dove scrive: «La filosofia mi ha del tutto liberato da quella superstizione (del manicheismo) alla quale sconsideratamente m'ero dato assieme a te. Essa mi insegna, e secondo verità mînsegna, che non si deve avere considerazione, ma soltanto disprezzare ciò che si percepisce con gli occhi mortali, ciò che è oggetto del senso. Ed essa promette di mostrare con evidenza Dio, sommamente vero e meffabile,e già si degna di farlo apparire quasi attraverso nubi che lasciano trasparire la luce».21
15) «Recta via vitae sapicntia nominaiur» (Contra Acad. 1, 8, I3). '19) «Sapientia est rerum humanarunz divinarumqzle scierztia» (lirici, 1, 6, 16). 2°) De vita beata 1, 1; cf. Contra Acad. 1, 2, 5. 31) Contra Acad. 1, 1, 3.
150
Parte prima
L'opzioneplatonica Ai
tempi di Agostino, delle grandi scuole filosofiche greche
l’unica
considerevole vitalità era la scuola neoplatogodeva ancora nica. Essa si era guadagnata un grande prestigio con le opere di Plotino, Porfirio e Giamblico. La scuola neoplatonica era anche l'unica che con la nobiltà dei suoi insegnamenti metafisici ed etici rappresentava un'autentica sfida per il cristianesimo, e in effetti, specialmente tra le Classi
che
di
una
colte, essa raccoglievaun grande successo.
Così non c'è da meravigliarsi se Agostino, quando decise di dedicarsi seriamente alla filosofia diede le sue preferenze al neoplatonismo e si trattò di una scelta definitiva, cui manterrà fede per tutto il resto della sua vita, anche dopo la conversione al cristianesimo. Negli ultimi scritti continuerà ancora ad affermare di appartenere alla ”setta del platonici". Nelle Confessioni Agostino ci informa che per il suo orientamento filosofico fu decisiva la lettura delle Enneadi di Plotino. Ecco per intero questo testo fondamentale, dove egli ci dà anche le motivazioni della sua opzione per il platonismo: «Volendomi dapprima mostrare come tu resisti ai superbi e concedi grazia agli umili (...) mi facesti capitare tra mano, per mezzo di un uomo tutto gonfio di una mostruosa superbia, alcune opere di filosofi platonici tradotte dal greco in latino, dove lessi, non con queste stesse parole, ma sostanzialmente la stessa cosa provata con varie e molteplici ragioni, che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio e tutte le cose furono fatte da lui e senza di lui nulla fu fatto. Ciò che è stato fatto è vita in lui e la vita era la luce degli uomini. La luce splendeva nelle tenebre e le tenebre non l’accolsero. Vi era pure detto che l'anima dell'uomo sebbene renda testimonianza della luce, non e essa tuttavia la luce, ma il Verbo di Dio, Dio stesso è la luce che illuminaogni uomo che viene in questo mondo e il mondo fu per lui fatto ed il mondo non lo conobbe. Non vi lessi però che egli venne nella sua propria casa ed i suoi non lo ricevettero; ed a tutti quelli che lo ricevettero diede il potere di divenire figli di Dio, credendo nel nome suo. Vi lessi tuttavia che il Verbo di Dio non dalla carne e dal sangue, non per volontà d'uomo, né per volontà di carne, ma da Dio nacque. Non vi trovai però scritto che il Verbo si fece carne e abitò tra noi. Rilevai che in quei libri Veniva variamente affermato ed espresso in molti modi che il Figlio sussistendo nella forma del Padre non ritenne fosse una rapina l'essere uguale a Dio, poiché lo è per natura egli stesso. Ma non contengono quei libri che egli annichilì se stesso prendendo forma di servo, facendosi simile agli uomini e per condizione riconosciuto quale uomo, umiliò se stesso rendendosi ubbidiente fino invece la
Agostino di Ippona
151
alla morte e alla morte di croce; per questo Dio lo esaltò, risuscitando10 dai morti e gli donò un nome che è sopra ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e nell'inferno ed ogni lingua confessi che il Signore Gesù è nella gloria di Dio
Padre».22
platonismo c'erano molti insegnamenti che coincidevano con del cristianesimo. Sorprendeva Agostino soprattutto la grande quelli convergenza tra la dottrina platonica e la dottrina cristiana del Verbo. Sia i platonici sia i cristiani affermavano che c'era un Verbo (il Nous o Lugos) divino, uguale a Dio, creatore e reggitore del mondo. Ma i platonici ricusavano categoricamente la dottrina cristiana della incarnazione del Verbo, e questa fu la ragione che impedì ad Agostino di dare la sua piena adesione al platonismo. Nel De vera religione esamina accuratamente le profonde consonanze che ci sono tra platonismo e cristianesimo: esse sono talmente grandi e numerose che lo portano a concludere che se Platone esistesse oggi non esiterebbe un solo istante a farsi cristiano. Mettendo continuamente a confronto i neoplatonici e il Nuovo Testamento, ma più specificamente S. Paolo, Agostino può a buon diritto sostenere che i platonici sono intrinsecamente cristiani e che i cristiani sono i veri eredi e seguaci di PlaNel
tone.23
Nell’ottica di Agostino ciò che divide il cristianesimo dal platonismo è tanto la metafisica quanto la soteriologia. L'impianto metafisico
non
del cristianesimo coincide sostanzialmente con quello platonico (neoplatonico); ma mentre i platonici pretendevano di salvarsi con la filosofia (con il distacco dalle cose di questo mondo, con la speculazione e con la contemplazione) e rifiutavano, quindi, qualsiasi aiuto superiore, qualsiasi intermediario e salvatore, il cristianesimo considera la ragione del tutto impotente a procurare la salvezza: il salvatore è Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo. Nessuna filosofia, nessuna metafisica può salvare l'uomo. Pertanto la metafisica platonica può essere un ottimo strumento per la comprensione delle cose e anche una buona ancella della teologia, ma rimane sempre una fragile navicella che non potrà mai condurre al porto sicuro della verità e della pace. Che Agostino abbia fatto costante professione di platonismo e che abbia anche elaborato una metafisica platonico-cristiana è fuori di discussione. C'è invece disaccordo tra gli studiosi riguardo alla fonte da cui l'Ipponate ha ricavato il suo platonismo. E assodato che non è stato \
22) Conf. 7, 9. 23) Cf. De vera religione 3-6.
152
Parte prima
Platone, di cui Agostino ha letto pochissimo, ma qualcuno dei neoplato— nici. Ma precisamente di chi si tratta? Secondo P. l-Ienry24 la fonte platonica di Agostino è esclusivamente Plotìno; W. TheiIerZS sostiene la tesi opposta e afferma che Agostino attinge le sue informazioni da Porfirio. In effetti Agostino cita sia Plotino sia Porfirio, e pare perciò corretta la tesi di P. Courcellefié il quale sostiene che Agostino ha ricavato i concetti e la struttura neoplatonica della sua metafisica da entrambi.
Il metodo dell'interiorità
Agostino è debitore ai neoplatonici, oltre che dell'impianto generale della sua metafisica, anche del metodo, che è quello della interiorità. Nelle loro indagini i due grandi padri della metafisica, Platone e Aristotele, si erano avvalsi di due metodi molto differenti: Platone aveva usato la dialettica, Aristotele la logica. Entrambi aveva fatto uso di questi metodi per passare dal mondo sensibile, materiale, al mondo intelligibile, immateriale. Così avevano costruito due metafisiche della esteriorità. Plotino, da buon platonico, si avvale più della dialettica che della logica, ma modifica il punto di partenza della indagine metafisica, che non è più il mondo esteriore bensì quello interiore. La sua ricerca parte dall'anima: si interroga sulle sue attività, sulla sua natura e sulla sua origine e scopre che principio dell’anima è Dio: «Noi possediamo Dio come un principio che sta al di sopra della natura intelligibile e dell'essere reale, e noi, dopo di Lui, siamo terzi».27 Agostino fa suo il metodo plotiniano e nel De vera religione si impone la seguente norma: «Non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell'anima (Noli foras ire, in te ipsum radi, in interiore homine habitat veritas)>>.28 Adottando il metodo della interiorità Agostino non si interessa più del mondo materiale né si rivolge ad altri ma a se stesso: indaga su se stesso, interroga se stesso e trova la risposta dentro di sé. Così come Plotino, anche Agostino costruisce una metafisica della interiorità.
24) P. HENRY, Plotin en Occident, Lowen 1934. Z5) W. THEILER, Porphyrios und Augustinus, Halle 1933. 3“) P. COURCELLE, Les lettres grccqtics en Occident, Paris 1948. 27) PLOTINO, Ermeadi 1, 1, 8. 28) De vera rel. 39, 72. Nelle Confessioni (7, 7) leggiamo: «La luce era dentro ma io fuori. Non stava in un luogo, io invece guardavo alle cose che sono circoscritte localmente e non trovavo un posto per riposare».
Agostino di Ippona
153
Uinteriorità non porta Agostino lontano da Dio, come hanno invece fatto molte analisi esistenziali dei filosofidel nostro secolo, ma gli offre la possibilità di coglierlo meglio e più direttamente di quanto possa permettere un'indagine rivolta ai fatti esterni. In realtà l’introspezione agostiniana non è una semplice analisi esistenziale, non ha finalità esclusivamente descrittive o fenomenologiche, anche se sotto questo aspetto il genio di Tagaste consegue esiti assolutamente inusitati e mai più superati; il suo intento è decisamente trascendentale, metafisico: il suo noverim me è ordinato al noverim te. Cosicché «la fondazione agostiniana dell'anima è fondazione di Dio, la sua fondazione di Dio è fondazione dell'anima. Egli vede Dio nel fondo dell'anima e l'anima in rapporto a Dio»? Il superamento, il trascendimento dell'Io avviene proprio a partire dall’Io stesso. Questi se riflette, se guarda attentamente dentro se stesso, scopre di avere in sé molto di più di quanto in effetti gli possa appartenere in forza della sua natura finita, fragile, mutevole: ha in sé verità, bontà, bellezza, libertà. Queste perfezioni sono certamente in lui e tuttavia non sono
sue,
non
gli appartengono pienamente e definitivamente; esse sono
di colui che è Verità, bontà, bellezza, libertà per essenza: Dio. Per questo motivo, conoscere effettivamente se stessi e conoscere Dio per Agostino
la stessa cosa: «L'individuo il quale conosce solo le cose materiali solo non è con Dio, ma neanche con la propria interiorità (...). Per contro il filosofo è con Dio perché ha coscienza di se stesso».3U Pertanto in Agostino interiorità e metafisica non sono due procedimenti, due metodi distinti, bensì due momenti di un unico procedimento, di un unico metodo: la vera interiorità si dà soltanto quando si estende e si integra nella metafisica. Uinteriorità senza metafisica è una interiorità monca, incompleta, superficiale. L'anima che esplora attentamente se stessa, col suo sguardo acuto, che penetra nelle condizionidel suo essere, del suo conoscere, del suo amare, del suo desiderare, e scopre la loro indigenza e la loro istanza di realtà, di verità e di bene, non può non intravedere la sorgente del suo essere, della sua verità, del suo bene, Dio. Questo, insiste Agostino, non è un artificio sofistico o un divertimento letterario, bensì un'analisi attenta e obiettiva dei fatti. «Si tratta della nostra vita, del nostro essere morale, del nostro spirito che tende a superare tutti gli ostacoli del mondo delle apparenze, a trionfare del piacere ritornando, per così dire, nel luogo della sua origine mediante il possesso della verità e a regnare, nella raggiunta sicurezza, in cielo».31 sono non
29) K. JASPERS, 0p. air, p. 415. 30) «Quisquis ea sola novit quae corporis sensus attingit, non solum cum Dea esse non mihi videtur, nec securrt quidem (...). Sapiens PTOTSHS rum Dea est, 1mm et seipsunz intelligit sapiens» (De ordine 2, 2, 5).
31)
Contra Acad. 2, 9, 22.
154
Parte prinza
più celebri attuazioni del processo interioristico-metafisico è quella a partire da se stesso come soggetto della verità. Agostino muove dalla constatazione che la verità in qualche misura si trova in noi e poi si interroga sullo statuto ontologico che coinpete alla verità, ed esclude che ontologicamente la verità occupi un livelUna delle
che Agostino opera
lo inferiore a stra mente,
Neppure
poiché
quello della nostra mente; infatti «se fosse inferiore alla no-
non
esprimeremmo giudizi mediante essa, ma su di essa»? pari a quello della nostra mente,
il suo livello ontologico è
«se l'ideale verità fosse eguale alla nostra mente, anche essa sarebbe nel divenire. La nostra mente ora la intuisce di più ora di meno. Palesa così di essere nel divenire. Al contrario l'ideale verità, permanendo in sé, non aumenta quando ci si manifesta di più, non diminuisce quando ci si manifesta di meno, ma integra e immateriale, allieta di luce quelli che ad essa si volgono; punisce con cecità quelli che si volgono in opposta direzione. E che dire, dal momento che mediante essa giudichiamo della nostra mente, mentre non possiamo affatto giudicare di essa? Si dice infatti: ”intende di meno di quanto deve”, oppure ”intende tanto quanto deve”. La mente deve appunto tanto più intendere quanto più si avvicina all’immutabiìe verità. Pertanto se essa non è inferiore né eguale alla mente, rimane che sia eminentemente superiore. Avevo promesso, se ricordi, o Evodio, che v'è un essere più alto dell'atto puro del nostro pensiero. Eccoti accontentato: è la stessa Verità. Abbracciala, se ne sei capace, e godine e prendine dilettonel Signore e ti accorderà le richieste del tuo cuore»?
Al metodo interioristico-trascendentale, già praticato regolarmente negli scritti giovanili, Agostino non ha più rinunciato, neppure dopo la grande ”svolta teologica”. Nelle opere della maturità se ne serve, dentro l'orizzonte teologico, per ottenere una comprensione più approfondita dei grandi misteri della fede cristiana: del mistero di Cristo come del mistero del peccato, del mistero della Trinità come di quello della grazia. Nel Commento al vangelo di Giovanni, il Dottore di lppona scrive: «RiconOSCÌ in te stesso qualcosa che sta dentro di te. Togliti non solo la veste
te stesso; penetra nel tuo vestibolo da te stesso, come puoi avvicinarti lontano stai la Se segreto, tua mente. a Dio? Giacché non nel corpo ma nella mente l'uomo è stato fatto a immagine di Dio. Nella sua immagine cerchiamo di scoprire Dio».34 Similma
anche la carne; entra dentro
32) De lib. arb. 2, 12, 34. 33) Ibiaî, 2, 12, 34 2, 12, 35. Cf. anche De vera rel. 39, 72. 34) In Ioan. Evang. 23, 10. —
Agostino di lppona
155
mente nel commento ai Salmi: «Fratelli considerate attentamente ciò che si trova nell'anima dell'uomo. Da se stessa non possiede né luce né potenza; per proprio Conto non è né saggia né forte, né è luce a se stessa, né è virtuosa per se stessa. C'è una sorgente e un'origine della virtù, c'è una radice della sapienza, c'è, se è lecito chiamarla così, una ragione della verità immutabile, allontanandosi dalla quale l'anima piomba nelle tenebre, mentre accostandosi ad essa si riempie di luce»,35 La stessa
metodologia viene ribadita nelle Ritrattazìoni: «Per quel che riguarda la dell'uomo, nessuna cosa è migliore della mente o della sua ragio-
natura
Ma chi vuole vivere felicemente non deve vivere secondo questa, perché in questo modo vive secondo l'uomo, mentre per poter raggiungere la felicità si deve vivere secondo Dio. Quindi la mente per raggiungere la sua felicità non deve tendere a se stessa ma sottomettersi a Dìo».36 Il metodo interioristico-trascendentale, saldando insieme lo studio
ne.
dell'uomo con lo studio di Dio, conferisce una solida unità a tutta la speculazione filosofica agostìniana, che è a un tempo gnoseologica e metafisica, antropologica e teologica, speculativa e pratica. Ciò non impedisce al Dottore di Ippona di avvalersi di alcune divisioni della filosofia allora molto note, che vantavano la paternità di Platone e di Aristotele. Agostino stesso attribuisce a Platone la divisione della filosofia in tre parti: «una, morale, che riguarda il modo di agire; un'altra naturale, che si riferisce alla speculazione; la terza logica, che dà le regole per distinguere il vero dal falso. E quantunque la logica sia necessaria alle altre due, cioè all'azione e alla speculazione, tuttavia la speculazione rivendica a sé lo studio della verità».37 Altre volte Agostino ricorda l'importante divisione aristotelica tra filosofia speculativa e filosofia pratica. Infatti «lo studio della sapienza riguarda sia l'azione sia la contemplazione; quindi si può dire che una parte di essa è attiva e l'altra speculativa: la prima riguarda il modo di vita, cioè la regola dei costumi, la seconda, la ricerca della causa della natura e la purissima verità».33 Ma più ancora che le note divisioni di Platone e Aristotele, per Agostino ha importanza una nuova divisione che egli stesso introduce per primo e che eserciterà un grande influsso su tutti i pensatori medievali, la divisione in scienze dell'utile e scienze del dilettevole. Secondo Agostino dilettevole è ciò che è essenzialmente oggetto di godimento (frui), ciò che procura piena felicità, e merita pertanto di essere ricercato
35) 36) 37)
33)
In Ps. 58; Sermo 1, 18. Retractationcs 1, 1, 2. De civitate Dei 8, 4; cf. ibid, 11, 25 dove la nale". lbfd, 8, 4.
logica viene chiamata "filosofia razio—
156
Parte prima
per se stesso, mentre utile è ciò che serve per raggiungere la felicità, e va quindi cercato, coltivato, usato (uti) non per se stesso ma in vista della felicità: «Diciamo che godiamo una cosa quando ci diletta per se stessa senza riferirla ad altro; diciamo invece che ne usiamo quando la cerchiamo in Vista di un altro fine. Si deve quindi piuttosto usare che godere delle cose temporali, onde meritare di godere quelle eterne>>fi9 Agostino introduce questa distinzione per la prima volta nel De doctrina christiana (1, 4, 4), vale a dire quando aveva già attuato la "svolta teologica”, quella svolta che lo aveva indotto a rivedere profondamente il suo giudizio sul Valore e sul ruolo della filosofia. Ormai è convinto che la filosofia è assolutamente incapace di condurre alla vita beata; questa si acquista soltanto con la fede che è un dono di Dio. Questo spiega perché Agostino pone la filosofia, tutta in blocco, dentro l'ordine dell'utile. «Seguendo questo linguaggio, io ho chiamato "uso" quelle cose che si debbono considerare nell'uomo, cioè la natura, la dottrina, l'uso. Da queste tre cose venne ricavata dai filosofi, come già ho detto, la triplice scienza destinata a procurare una vita felice, e cioè: la filosofia naturale per conoscere la natura, la razionale per avere la dottrina e la morale per
regolare l’uso».40 La sfera del frui (del dilettevole) appartiene alla teologia, più esattamente a quella sezione della teologia che tratta di Dio e della Trinità, perché sono le sole realtà che meritano di essere cercate per se stesse e che sono la fonte autentica e piena di vita beata per chi le contempla e ama: «Res igitur quibus fiuendum est, Pater et Filius et Spiritus sarzctzzs, eademque Trinitas, una quaedam summa res, communis omnibus fluentibus ea»;41 «delle altre, invece, bisogna usare, affinché possiamo giungere al perfetto godimento di quelle (caeteris autem zitendum est, ut ad illarum perfructionem pervenire p0ssimus)>>.42 Abbiamo osservato più sopra che la "svolta teologica" non ha più consentito ad Agostino di elaborare un vero sistema filosofico autonomo e completo, sullo stampo dei grandi sistemi costruiti da Platone, Aristotele, Plotino nell'antichità, oppure come saranno quello di Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant o Hegel nell'epoca moderna. Per questo motivo, propriamente parlando, Agostino non ha un sistema filosofico né prima né dopo la "svolta teologica". Non lo ha prima, perché gli era mancato il tempo per costruirselo. Nel Contra academicos egli stesso confessa: «qual39) Ibfd, Il, 25. 40) Ibid. 41) De doctrina christiana 1, 5, 5. 42) Ibid, l, 22, 2G.
Agostino di Ippona
157
sivoglia sia il contenuto dell'umana filosofia, sono consapevole di non averla ancora raggiunta».43 Non lo ha dopo la "svolta teologica” perché da quel momento un sistema filosofico autonomo diventa impossibile: infatti, dal punto di vista del credente, qualsiasi sistema filosofico che abbia pretese totalizzanti diventa inammissibile;si tratta di un autentico atto di superbia e di arroganza che Agostino non vuole né può più com-
mettere.
Tutto questo però per Agostino non significa affatto, come abbiamo già detto e ripetuto, una esclusione della filosofia e neppure una riduzione del suo compito. Anche se non lavora più per realizzare una conquista autonoma della verità, la filosofia deve continuare a fare tutto il suo lavoro per avvicinarsi, nei limiti consentiti all’umana ragione, alla conoscenza della verità; e in più essa è chiamata a prestare un prezioso servizio alla teologia, per aiutarla ad acquistare una intelligenza (comprensione) più approfondita della verità in cui Crede. Per quanto concerne i meriti filosofici di Agostino, essi diventano an-
cora più grandi dopo la ”svolta teologica", allorché negli anni della piena maturità si dedica con grande passione ad approfondire il senso dei massimi misteri del cristianesimo: Dio-Trinità, Cristo, la Chiesa, la grazia. Sovente il genio acutissirno del Dottore di Ippona riesce a conferire alle stesse verità rivelate una valenza razionale così grande da autorizzare il loro trasferimento dal Campo della fede al campo della ragione. Ciò ha reso possibilenel Corso dei secoli una estrapolazione dal lavoro teologico di Agostino di quella visuale globale della realtà che ha preso il nome di agostinismo,“ Si tratta di una interpretazione generale delle cose in cui
primeggia il valore assoluto di Dio, della
sua verità, della sua bontà, della sua bellezza, del suo essere, della sua libertà, del suo amore. Dio rende partecipi del proprio valore l'uomo e le altre creature intelligenti, i quali realizzano se stessi nella misura in cui si mantengono uniti e subordinati al valore supremo. L’agostinismo è il sistema della trascendenza di Dio che si salda meravigliosamentecon Yinteriorità dell'uomo.
Metafisica della partecipazione Mentre dal punto di vista metodologico, ossia rispetto al1’0rdo cognoscendi, la metafisica di Agostino è una metafisica della interiorità, dal punto di vista ontologico, ossia per quanto concerne Tordo essendi, è una metafisica della partecipazione. Anche in questo è evidente la sua opzione
platonica.
43) 44)
Contra Acad. 3, 20, 43. Cf. K. IASPERS, op. cit., pp. 473
ss.
158
Parte prima
Sant'Agostino, richiamandosi ai platonici, trova la giustificazione della realtà finita e contingente nel principio della partecipazione (integrato dalle dottrine deÌYanalOgÌa intesa come somiglianza ontologica e della gradazione degli esseri). Il principio di partecipazione si trova enunciato più volte nelle opere di Agostino e può essere enunciato così: tutto ciò che esiste per partecipazione ha la sua ragion d'esser in ciò che esiste o è essere per essenza. Avvalendosi di questo principio riesce assai agevole ad Agostino per una parte con-
statare che noi
-
stessi, insieme a tutto quanto ci circonda, siamo una realtà
partecipata, e per un altro verso presentare Dio, che è l'unico essere per essenza, come unica giustificazione di tale realtà. Sant'Agostino non si stanca di mostrare che da qualsiasi punto di vista si considerino le cose (dal
punto di Vista della vita della bontà, della verità, della bellezza, dell'essere ecc.) si tratta sempre di realtà partecipate. Le bellezze che noi incon-
triamo non sono mai la bellezza ma soltanto partecipazioni della bellezza; la verità, la vita, la bontà, l'essere ecc. non sono la verità in sé, la vita in sé, l'essere in sé, la bontà in sé ecc. ma partecipazioni della verità, della vita ecc. E così bisogna uscire da esse e risalire fino alla Bellezza assoluta, alla Verità assoluta ecc.: occorre risalire fino a Dio che è tutte queste perfezioni per essenza. «Il principio dell'unità di ogni essere non è se non quel solo Uno da cui deriva tutto quello che è uno, sia che 1o realizzi completamente sia che non lo realizzi».45 Altrettanto vale per le altre perfezioni partecipate dalle creature, bontà, essere, verità, somiglianza ecc. «La verità è quella che poté realizzare pienamente l'unità ed essere tutto quello che I’Uno è. Essa è quella che lo rivela nella sua essenza, per cui viene chiamata a buon diritto suo Verbo e sua Luce. Tutte le altre cose si possono dire simili all'unico Uno in quanto sono, e in tanto sono anche vere; ma il Verbo ne è la somiglianza perfetta, e perciò la Verità. Come per la Verità sono vere tutte le cose che sono vere, cosi per la somiglianza sono simili tutte le cose che sono simili. Perciò le cose vere sono vere in quanto sono, e in tanto sono in quanto sono simili a|l'Uno che è principio di tutto: forma di tutte le cose che sono è la suprema somiglianza al Principio; ed è anche la verità, perché è senza alcuna dissomiglianza>>x4é In un altro capitolo del De vera religione Agostino ci presenta una rapidissima ma ottima sintesi della sua ontologia partecipativa: «Ma mi domandi: perché le cose vengono meno? Perché sono mutevoli. E perché sono mutevoli? Perché non hanno la pienezza dell'essere. E perché non hanno la pienezza dell'essere? Perché sono inferiori a colui che le ha create. Chi le ha create? L'essere supremo. Chi è co-
45)
De vera rel. 33, 64.
46) lbid, 36, 66.
Agostino di Ippona stui?
Dio, l'immutabileTrinità, che le ha
create
per
mezzo
159
della Sa-
pienza eterna, e le tiene in vita con somma bontà. Perché le ha fatte? Perché fossero. L'essere, infatti, per quanto piccolo è bene, giacché il sommo
bene è il
sommo essere
(surmnwzi
bunum est
sunmze
esse).
Donde le ha fatte? Val nulla. Tutto ciò che è, bisogna che abbia una sua pur minima essenza; perciò anche se è un bene piccolissimo, tuttavia è un bene, ed è da Dio. Infatti, dal momento che la somma essenza è il sommo bene, la minima essenza è il minimo bene. Ma ogni bene o è Dio o è da Dio: perciò da Dio deriva anche la minima essenza. Tutto quello che si dice dell'essenza (specie), si può dire anche della forma: non a caso infatti, si loda l'essere che ha l'essenza in sommo grado, quanto l'essere che ha la forma in sommo grado. Ciò da cui Dio ha creato tutto, non ha alcuna essenza, ne’ forma, perché non è niente altro che il nulla. Infatti ciò che viene detto informe, in confronto alle cose perfette, se ha una qualche forma, per quanto sia piccolo e appena abbozzato, non è ancora il nulla, e perciò anche questo in quanto è, non è se non da Dio» (c. 18, 35).
Anche nell'uso del
principio di partecipazione Agostino fa valere il della cristiano sua metafisica. Nell'uso del metodo dell'intepotenziale riorità quell'insieme di possibilità era emerso nel carattere fortemente personalistico e teocentrico della interiorità agostiniana Ora, nell'uso del principio di partecipazione Fimplicita valenza cristiana si manifesta nell'immissione del teorema della creazione. Mentre in Platone la partecipazione è fondata sulla somiglianza tra le copie e il modello, e in Plotino e fondata sulla emanazione: i canali partecipano dell'acqua della sorgente, la partecipazione, in Agostino, si adegua alle esigenze della metafisica cristiana e diviene una partecipazione per creazione. Con il concetto di creazione (creatio ex nihilo) Agostino respinge sia il panteismo manicheo sia Femanatismo neoplatonico, e afferma che Dio ha prodotto le cose «non dalla sua sostanza, né da qualche cosa precedente bensì dal nulla». Se Dio avesse creato dalla sua sostanza si avrebbe la generazione, se da qualche cosa già esistente, non sarebbe più che un artigiano. Dio ha creato tutto insieme e dal nulla, sia la materia sia la forma delle cose. Concludendo queste considerazioni preliminari sul platonismo di Agostino si può dire che il Dottore di Ippona ha un concetto molto eleVato della metafisica platonica ma che allo stesso tempo la sottopone a revisioni e integrazioni importanti, mettendo a buon frutto la metafisica Virtuale del cristianesimo. Così quella di Agostino non è semplicemente una riedizione della metafisica platonica, con una riduzione delle sue pretese soteriologiche —, ma e una metafisica profondamente rinnovata in tutte le sue parti, teologia, cosmologia, antropologia, mediante l'assunzione e l'assimilazione dei tratti specifici del cristianesimo: creazionismo, personalismo, agapicità, libertà. -
160
Parte prima
Il problema di Dio
e
il mistero della Trinità
Il problema di Dio, capitale nella metafisica, è sempre stato al centro delle riflessioni di S. Agostino. «Dio affannava quel grande spirito sin dai suoi diciannove anni, quando leggeva l'Ortensi0. Di lì era cominciata la preoccupazione della sapienza; di lì era cominciato il suo addentrarsi nel pensiero di Dio>>.47 Nei Soliloqui (I, 2, 7) Agostino dichiara che i problemi che maggiormente angustiano il suo spirito sono due: l'anima e Dio. E riguardo alla loro importanza nel De ordine (II, 18, 47) scrive: «Duplice è il problema della filosofia, l'uno riguarda l'anima, l'altro Dio. Il primo ci induce a conoscere noi stessi, l'altro i1 principio del nostro essere. L'uno è per noi più dilettevole, l'altro più prezioso. Quello dell'anima ci rende degni della felicità, quello di Dio ci fa felici. Il primo spetta a coloro che ancora apprendono, il secondo a coloro che hanno appreso. Questo è il procedimento razionale del filosofare. Con esso l'uomo si rende idoneo a comprendere il principio razionale dell'universo, cioè a distinguere due mondi e lo stesso creatore dell'universo». Questo testo stupendo merita un breve commento, perché Agostino vi spiega in modo egregio ciò che fa la metafisica, la quale consiste in un «procedimento razionale dei filosofare» (ordo studiorum sapientiae). La metafisica fa tre cose: 1) cerca di comprendere il principio razionale dell'universo (ad intelligendum ordinem rerum); 2) a tal fine distingue due mondi: il mondo sensibile (materiale) e il mondo intelligibile (immateriale); 3) giunge in tal modo a scoprire lo stesso creatore dell'universo (ipsum parentem universitatis). Quelle indicate da Agostino sono esattamente le tre grandi tappe della metafisica. Di Dio Agostino si occupa sia in veste di filosofo sia in veste di teologo, sia, quindi, alla luce della evidenza razionale sia alla luce della fede soprannaturale. E per lo studioso non è cosa agevole distinguere i due aspetti, quanto meno per chi non cade nell'errore di presentare come dottrina filosofica su Dio quella del giovane Agostino e come dottrina teologica quella dell'Agostino maturo. Noi sappiamo che nel1’ìtinerari0 intellettuale dell’Ipponate c'è stata una ”svo1ta teologica” che ha ridimensionato notevolmente le pretese della ragione e della filosofia, soprattutto le sue pretese di sondare a fondo il mistero di Dio. Per l’Agostino maturo l'unica via sicura per giungere alla verità è Cristo, che è la Verità che si è fatta carne per noi. Perciò anche l’unico vero volto di Dio
47)
A. MAsNovo, S. p. 118.
Agostino e
S. Tommaso. Concordanze
e
Sviluppi, Milano 1942,
Agostino di lppona
161
quello che ci rivela Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Ma ciò non esclude la legittimità della ricerca filosofica su Dio. Si tratta per contro di una ricer-
è
ca
urgente, di un discorso necessario per mettere a nudo le assurdità di
teologie mitologiche, filosofiche e politiche,48 di certe concezioni materialistiche, politeistiche, superstiziose, magiche della divinità, e an-
certe
che per costringere la ragione a riconoscere la realtà di Dio, la sua esistenza, i suoi attributi essenziali, ancor prima che tali verità possano essere conosciute con l'aiuto della divina rivelazione.
Trattandodel problema di Dio Agostino manifesta la sua grande simpatia per i platonici che, a suo giudizio, sono i filosofi che sono riusciti a proporne la chiarifizionepiù soddisfacente al di fuori del cristianesimo. Scrive Agostino nel De civitate Dei:
«Questo quindi è il motivo per cui riteniamo i platonici superiori agli perché, mentre gli altri filosofi hanno sprecato ingegno e
altri, e cioè
fatica nella ricerca dei principi delle cose e della norma del conoscere e del vivere, costoro con la conoscenza di Dio trovarono l'essere in cui è la causa dell'origine dell'universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui dissetarsi con la felicità. Siano dunque i platonici oppure altri filosofi che affermino questa dottrina, l'affermano insieme a noi. Ma abbiamo preferito trattare l'argomento con i platonici perché i loro scritti
sono
più conosciuti. Infatti i greci, la cui lin-
gua e la più diffusa tra i vari popoli, hanno esaltato i loro scritti con grandi lodi e i latini, spinti dal loro pregio e fama, li hanno letti con entusiasmo e traducendoli nella nostra lingua li hanno resi più noti e lllUSÌTÌm”
CONDIZIONI PSICOLOGICHE PER CONOSCERE DIO
segni della esistenza di Dio, sia in noi sia fuori di noi, sono talmente grandi e imponenti che sembra del tutto inutile e superfluo costruire delle argomentazioni per dimostrarla. Infatti ciò che è evidente non si I
dimostra, ma si mostra. Nei suoi Stromati Clemente Alessandrino scrive: «Del Padre e Creatore dell'universo tutti gli esseri attingono una nozione da tutto, nozione innata e senza insegnamento (...). E nessuna stirpe non solo di agricoltori o di pastori, ma nemmeno di società civili può vivere senza la fede per prenozione dell'Essere superiore. Perciò ogni popolo, che si estende nelle regioni dell'Oriente e dell'occidente, o settentrionale o meridionale, tutti hanno una medesima prenozione di Colui che ha stabilitoil suo impero su tutte le cose».50 Basta che l'uomo 45) Cf. De Civ. Dei 6, 5, 1. 49) Ibid, 8, 10, 2. 50) CLEMENTE ALESSANDRINU, Stromati 5, 14, 133.
162
Parte prima
contempli il mondo per acquistare cognizione dell'esistenza di Dio. «In generale prosegue Clemente Pitagora, Socrate, Platone dicono d'aver ascoltato la voce di Dio, contemplanclo la fabbrica dell'universo prodot—
to
e
-
preservato incessantemente da Dio>>.5'
Agostino condivide in pieno il pensiero dellflàlessandrino. Leggiamo insieme il memorabiletesto delle Confessioni in cui l'Ipponate raccoglie dalle creature l'invito a considerare la realtà del loro meraviglioso artefice, Dio:
«E cielo e terra e ogni cosa che in essi si trova mi dicono da ogni dove di amarti e non cessano di dirlo a tutti, affinché siano senza scuse (...). Ma che amo, amando Te? Non una bellezza corporea; non una cosa splendida che pur passa; non una luce candida amica a questi occhi; non dolci melodie di qualsiasi canto; non profumo soave di fiori, di unguenti, di aromi; non manna e miele; non membra piacevoli per gli amplessi della carne. Non amo queste cose quando amo il mio Dio e tuttavia amo una luce, un profumo, un cibo, un amplesso amando il mio Dio; luce, voce, profumo, Cibo, amplesso dell'uomo interiore che è in me, dove risplende intimamente una luce che nessun luogo comprende, dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove si spande un profumo che il vento non disperde, dove gusto un sapore che la voracità non diminuisce e dove mi stringe un amplesso che la sazietà non scioglie; questo io amo, amando il mio Dio. Cosa è ciò? Ho interrogato la terra ed essa mi ha risposto: "N on sono io". Ho interrogato tutte le cose che in essa sono e mi diedero la stessa risposta. Ho interrogato il mare, gli abissi e gli animali e mi risposero: ”Non siamo noi il tuo Dio; Cerca più sopra". Ho interrogato i venti e tutta con i suoi abitanti e mi hanno risposto: ”Anassimene si siamo noi il tuo Dio”. Ho interrogato il cielo, il sole, la non sbaglia; luna, le stelle e mi risposero: ‘Neanche noi siamo il Dio che tu cerchi". Dissi allora a tutte le Cose che stanno attorno alle porte della mia carne: ”Mì avete detto che voi non siete Dio; ditemi almeno qualche
l'atmosfera
di Lui!". A gran voce gridarono: "Egli ci ha creato". mia la domanda e l'attenzione; da parte delle cose la risposta e la bellezza (Interrogatio men, ‘intentio men; et responsio eorzmz, species e0rum).52 cosa
Da
parte
Ma se di per sé la realtà di Dio, attestata in mille modi dalle cose, è così ovvia, perché mai tanta gente rifiuta di riconoscerla?
51) Ibid.,5, 14, 19. 52) Conf. 10, 6, 1-3.
Agostino di Ippomz
163
i
La risposta di Agostino a questo interrogativo è la stessa di Filone e Clemente: anche la realtà del sole è ovvia, ma se si pone davanti ad esso una fitta coltre di nubi oppure l'occhio soffre di qualche grave malattia,
allora l’astro più lucente del nostro universo diviene invisibile.Altrettanto accade per la conoscenza di Dio. Per riconoscerlo occorre rimuovere dal cielo della coscienza tutto ciò che può impedirle di raccogliere la voce di Dio che ci interpella attraverso le cose create. «Esse non mutano il loro linguaggio, cioè la loro bellezza, se qualcuno semplicemente le guarda e altri invece le interroga, così da apparire a questi in un modo e a quelli in un altro; ma, pur apparendo sempre uguali all'uno e all'altro, per il primo sono mute, mentre parlano al secondo».53 I difetti maggiori da cui occorre liberare lo spirito a giudizio di Agostino sono le passioni (superbia, avarizia, invidia, lussuria ecc.) e i pregiudizi filosofici (materialismo, scetticismo, antropomorfismo ecc}. Le passioni si curano con i buoni costumi, i pregiudizi con lo studio. «Si deve purificare lo spirito (purgandus est animus) per metterlo in condizione di captare quella luce e di aclerirvi una volta intravìsta. Tale purificazione ò una specie di marcia o di traversata (navigationem) alla volta della patria. Ma non è percorrendo dei luoghi che raggiungiamo Colui che è presente ovunque, bensì con i buoni costumi e con l’assidua ricerca»? (È con lo sguardo dell'anima che si vede Dio. «Lo sguardo dell'anima è il pensiero (ratio). Ma non segue che ciascuno che guarda veda. Ciò accade
soltanto allo sguardo puro e perfetto (aspectus rectus atque perfectus), al quale cioè segue visione. Tale pensiero puro e perfetto dicesi virtù»_55 L'acquisizionedelle condizionipsicologiche e morali atte ad assicuraalla mente le condizioni necessarie per riconoscere la presenza di Dio re è cosa assai ardua, che ben pochi riescono a realizzare. Per la sua attuazione si esige, normalmente, il soccorso e l'aiuto delle tre virtù teologalì (fede, speranza, carità). Solo grazie al loro intervento la mente si apre alla luce di Dio e l’accoglie: «perché anche lo sguardo non può drizzare gli occhi, sebbene già sani, alla luce, se non vi sono le tre virtù, cioè la fede con cui crede che l'oggetto, al quale si deve rivolgere lo sguardo, è tale che visto beatifica; la speranza con cui ha fiducia di vedere se guarderà bene; la carità con cui desidera di vedere e godere. Allora allo sguardo segue la stessa visione di Dio, che è fine della visione non perché questa cessi, ma perché non ha altro fine a cui dirigersi>>fi6
53) Ibid. 54) De rioctr. christ. 1, 10, 10. 55) Soliloquia 1, 6, 13. 5“) IbicL; cf. De Trinitate 8, 4, 6.
164
Parte prima
ESISTENZA E
NATURA
Le vie che possono condurre la ragione a Dio sono molteplici. Quelle che Agostino percorre più frequentemente sono tre: la via dell'ordine, la
partecipazione, la via della verità.“ già proposta da Platone, Aristotele e Filone, Agostino presenta diverse formulazioni, prendendo lo spunto ora dal meraviglioso spettacolo che offre la terra con i suoi mari, monti, campagne, foreste ecc., ora dall'armonia delle forme e delle strutture dei corpi viventi e non viventi, ora dalla successione regolare degli eventi naturali, ora delle leggi della logica, della matematica, della musica. Qui ci piace riferire anzitutto la formulazione del De libero arbitrio che ci sembra la più completa e rigorosa. «Osserva il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi splendono nella sfera superiore o nella inferiore si muovono camminando, volano oppure nuotano. Hanno una forma perché partecipano ai numeri (formas habent, quia numerosi habent). Toglili loro, non saranno più. Da chi hanno l'essere dunque se non da chi ha il numero, poiché in tanto hanno l'essere in quanto sono partecipanti del numero? Anche gli uomini artefici di opere corporee nella loro arte adoperano il numero per rapportarvi le proprie opere e nel costruire muovono mani e strumenti fino a quando l'opera, che riceve la forma dal di fuori, rapportata alla interiore luce dei numeri, riceve, per quanto è possibile, la compiutezza e piace, mediante il senso, al critico che intuisce i numeri reali (...). Trascendi dunque anche la coscienza dell'artista per Vedere il numero supertemporale. Allora la sapienza splenderà per te dalla sede interiore e dallo stesso santuario della verità. E se abbaglia il tuo sguardo ancora debole, torna a volgere l'occhio su quella via, via della
Della via dell'ordine,
dove si mostrava affabilmente. Ricordati però che hai rimandato la visione. Quando sarai più forte e sano, devi ritentare. Guai a coloro che abbandonano te come guida e si arrestano nelle tue orme, che amano i tuoi cenni invece di te e dimenticano l'oggetto, cui accenni, 0 sapienza, soavissima luce di una intelligenza purificata. Non desisti infatti di accennarci che cosa sei e quanto sei grande, e i tuoi cenni sono in genere la bellezza (decus) delle creature. Anche l'artista accenna in qualche modo a chi osserva la sua opera alla stessa bellezza dell'opera affinché non si arresti ad. essa, ma in tale maniera osservi l'immagine da riportarsi col sentimento a chi l'ha costruita.
57)
Sulle prove agostiniane dell'esistenza di Dio si veda C. BOYÈR, Lîdée de vérite’ dans la philosaphiede seint Augustin, Paris 1940, p. 61; ID., L'esistenza di Dio secondo sant'Agostino, in "Rivista di filosofia neoscolastica" (1954), 321-331; E. GILSON, Introductìon à Fétude de saint Augustin, Paris 1949, pp. 11 55.; M. F. SCIACCA, "L'esistenza di Dio", in Filosofia e metafisica, Brescia 1950, pp. 124-138.
Agostino di Ippona
165
Coloro invece che di te amano le cose che fai, sono simili alle persone nell’udire un oratore colto, sono troppo presi dalla dolcezza del timbro della Voce e dall'ordine delle parole, e così trascurano la rilevanza del pensiero, di cui le parole preferite sono segni. Guai a coloro che si distolgono dalla tua luce e si abbandonano dolcemente alle proprie tenebre. È come se voltandoti il dorso si volgano alla terrenità del— l'ombra, che proiettano ma hanno pur sempre dall’irrompere intorno della tua luce quella soddisfazione che li diletta anche in quello stato. Ma l'ombra, finché si ama, rende l'occhio dell'intelligenza (oculum animi) più debole e più disadatto a sostenere lo sguardo. E per questo l'uomo si adatta gradualmente alle tenebre fintanto che sceglie quella condizione che gli rende più tollerabilel'essere più debole. Ne consegue che non è più capace di Vedere il mondo ideale».58
che,
Molto più stringata ma non meno efficace ‘e la formulazione che Agostino esibisce nel suo Commento al Vangelo di Giovanni. Eccola: «Interroga il mondo, l'ornamento del cielo, lo splendore e la disposizione degli astri, il sole che ha la luce necessaria per il giorno, la luna che procura sollievo di notte; interroga la terra ferace di erbe e di piante, piena di
animali e cosparsa di uomini; interroga il mare ripieno di ogni qualità e quantità di pesci; interroga l'aria attraversata da ogni specie di uccelli; interroga ogni cosa e vedi se ciascuna a suo modo non ti risponda: ci ha
fatto Dio. Questo lo hanno studiato anche illustri filosofi e dell'arte hanno riconosciuto l’artefice».59 La via della partecipazione risale storicamente a Platone, il quale se ne era servito per ascendere dal mondo visibiledelle cose materiali al mondo invisibiledelle Idee archetipiche. Ad Agostino spetta il merito di avere dato a questa via una chiara formulazione "teologica". La stessa via dell'ordine come viene formulata nel De libero arbitrio fa anche esplicito riferimento alla via della partecipazione (le cose «in tanto hanno l'essere in quanto partecipano al numero»). Ma le formulazioni più interessanti si trovano nel De Trinitate dove Agostino traccia Vari itinerari di ascesa a Dio basandosi sulla legge della partecipazione. Questa esige che tutto ciò che ha diritto di assolutezza (in quanto incarna un valore assoluto) ma si trova di fatto attuato in modo limitato, partecipato (ha cioè soltanto una parte) deriva necessariamente la sua esistenza da ciò che possiede tale valore pienamente e, quindi, esiste nella identità con esso. E il caso della verità, della bontà, della bellezza ecc. \
58) De 11.19. arb. 2, 16, 42-43. 59) Sermo 141 de verbis Evang. 1011., 2.
166
Parte prima
Ecco come Agostino propone l'ascesa dell'anima a Dio in quanto Bene assoluto seguendo la via della partecipazione al bene di tutto il vasto universo che ci circonda: «...
Buona è la terra
con
campagne; buono il
le alte montagne, le moderate colline, le piane ameno e fertile, buona la casa ampia e
podere
luminosa, dalle stanze disposte con proporzioni armoniose; buoni i corpi animali dotati di vita; buona l'aria temperata e salubre; buono il cibo saporito e sano; buona la salute senza sofferenze e senza fatiche;
buono il viso dell'uomo, armonioso, illuminato da un soave sorriso e vivi colori; buona l'anima dell'amico per la dolcezza di condividere gli stessi sentimenti e la fedeltà dell’amìcizia; buono l'uomo giusto e buone le ricchezze che ci aiutano a trarci di impaccio; buono il cielo con il sole, la luna e le stelle; buoni gli Angeli per la loro santa obbedienza; buona la parola che istruisce in modo piacevole e impressiona in modo conveniente chi ascolta; buono il poema armonioso per il suo ritmo e maestoso per le sue sentenze. Che altro aggiungere? Perché proseguire ancora nella enumerazione? Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il bene stesso (vide ipsum bonum) se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da altro bene, ma è il bene di ogni bene (non alia bono bonum, sed Bonum omnis bonis) (...). Non ci sarebbero dunque beni mutevoli, se non ci fosse un bene immutabile.Ecco perché quando senti parlare di questo o quel bene, che visti da un altro punto di Vista possono anche non essere chiamati beni, se potrai fare astrazione dai beni che sono tali perché partecipano al Bene (quae participatione bom" bona sunt), per vedere il Bene stesso di cui partecipano di questo bene difatti si ha intelligenza nel momento stesso in cui si sente dire questo o quel bene se dunque giungerai, facendo astrazione da questi beni, a vedere il bene in se stesso, vedrai Dio».6° -
-
La via più cara ad Agostino, ed ‘e anche quella che si adatta meglio alla sua impostazione interioristica della ricerca filosofica, è la terza, la via della verità. È la via più cara perché per Agostino non si dà altro tesoro più prezioso, altro valore più grande, altro bene più dilettevole della verità: la felicità, la vita beata, consiste nel godimento del possesso della verità. E in quanto via della interiorità, essa assicura più direttamente delle altre l'incontro con la verità, il quale diviene anche incontro e possesso di Dio, essendo Dio e la Verità la stessa cosa. Agostino espone ampiamente questo argomento nel De libero arbitrio (2, 3, 7-15) e lo riprende molte volte nei suoi scritti, sviluppandone or l'uno or l'altro elemento, o riproponendone con diversità di sfumature
5°)
De Trin. 8, 3, 4-5.
Agostino di lppona
167
Questa, che nel suo fondo è sempre la stessa, comprende quattro passaggi: 1) la considerazione delle cose sensibili(interroga mundum) che hanno nella loro stessa natura i segni evidenti della contingenza; 2) il ritorno all'uomo interiore (in teipsum redi), dove abita la verità; 3) il riconoscimento della impossibilità che la verità tragga origine dalla mente umana in quanto anche questa alla pari delle cose esterne è contingente e mutevole; 4) il superamento del proprio Io e l’avvista1nento della sorgente stessa di quella verità che è in noi e dalla quale si «accende il lume della nostra ragione» (unde ipsutn lumen rationis accenditurlfiî la trama.“
Il momento cruciale clell'argomentazione è dato dalla osservazione che la verità immutabile appartiene a un livello ontologico superiore a quello della nostra mente. Ecco come Agostino stesso mette a fuoco questa considerazione:
«Se questa verità fosse eguale alla nostra mente, anch'essa sarebbe nel divenire. Infatti la nostra mente ora la intuisce di più ora di meno. Palesa così di essere nel divenire. A] contrario la verità, permanendo in sé, non aumenta quando ci si manifesta di più, non diminuisce quando ci si manifesta di meno, ma integra e immateriale (integra et incorrupta), allieta di luce quelli che ad essa si volgono, punisce con la cecità quelli che si volgono in opposta direzione. E che dire, dal momento che mediante essa giudichiamo della nostra stessa mente mentre non possiamo affatto giudicare di essa? Si dice infatti: "Comprende di meno di quanto deve”, ovvero: "Comprende tanto quanto deve”. La mente deve appunto tanto più pensare quanto più si avvicina alla immutabileverità (inconzmutabiliveritati). Pertanto se essa non è inferiore né eguale, rimane che sia eminentemente superiore>>fi3
Ma ciò è possibilesoltanto se si riconosce l'esistenza di Dio, sia che si consideri la verità inferiore a Lui 0 identica a Lui, «perché se c'è qualcosa di più elevato della verità, allora è quella cosa che è Dio, ma se invece non c'è nulla di più nobile, allora è la verità stessa a essere Dio. In ogni caso non puoi negare che Dio esiste e questa è la questione che avevamo inteso di discutere>>fi4 Come risulta dalle varie formulazioni proposte da Agostino la prova dell'esistenza di Dio basata sulla verità può essere ancorata a qualsiasi verità indubitabileconosciuta dalla nostra mente, anche a quella semplicissima della nostra esistenza. Questa certezza assoluta fa dire ad Ago-
61)
62) m) 64)
Cf. De vera rel. 29, 52 39, 73; Conf. 7, 10, 10; 10, 6, 8-16; Enarratio in p5. 41, 7-8; De civ. Dei 8, 6; De Trin. 8, 2, 3; De dia. qq. 83. 54. De vara rel. 39, 72. De lib. ma. 2, 12, 34. Ibici,2, 13, 39. -
168
Parte prima
stino: «Avrei più facilmentedubitato della mia vita che della esistenza della Verità, che si vede comprendendola attraverso le cose che sono state
fatte>>fi5
La singolarità e anche la forza di tutte le vie di Agostino per salire fino a Dio è che sono più suggestive che dimostrative, più ostensive che argomentative. Sono più cammini dentro lo spirito che concatenazioni logiche tra proposizioni. Le Vie agostiniane si collocano più a livello di esercitazione interiore, di ascesi spirituale che di procedimenti logici e intellettuali. E nel viaggio (anzbulatio, navigano) ciò che conta maggiormente è la attenzione (intentio), Pacutezza dello sguardo (acies aspectus), la direzione giusta, la costanza, il desiderio del traguardo, l'amore dell'oggetto. Chi avanza deciso senza soste e senza tentennamenti e percorre per inte-
(il tunnel, la scala ecc.) dellinteriorità, a un certo punto, quasi all'improvviso si trova di fronte alla stupenda sorgente purissima
ro
il cammino
della Verità, dell'ordine, della Bontà, dell'Essere, dell'Amore, della Bellezza, della Giustizia. È il traguardo finale dell'ascesa spirituale tracciata da Agostino nel De quantitate animare, traguardo che viene così descritto: «Il settimo e ultimo grado consiste nella contemplazione o visione della verità. Non è un grado, ma uno stato definitivo che si raggiunge attraverso i vari gradi. E quale sia la gioia, quale il godimento nel possesso del sommo e vero bene e di quale imperitura serenità sia il giudicarono di palpito, io non saprei dire. L’han detto, nei limiti in cui riteniamo che poterlo dire, anime grandi e incomparabili. E noi dirti E hanno veduto e vedono tuttora quell'oggetto. ora oso quanto segue. Se noi siamo perseveranti nel tenere il cammino (cursum) che Dio ci ordina e che noi abbiamo intrapreso, giungeremo con l'aiuto della divina provvidenza alla ragione suprema o sommo fattore o sommo principio dell'universo o, se si vuole, un altro nome con cui un essere tanto grande si possa più convenientemente designare. Quando ne abbiamo puro pensiero, vedremo veramente come sotto il sole tutte le cose siano illusioni degli illusi».66
Nonostante che il cammino sia lungo e difficile, Agostino è sicuro che alla fine esso porta a un incontro con Dio che non è errato chiamare immediato, diretto. Chi percorre per intero il tunnel dell’interìorità in cerca della Verità, all’uscita si trova davanti all’incantevole spettacolo della realtà di Dio: «Nessuna creatura si trova in mezzo tra la mente con cui noi conosciamo Lui, il Padre, e la Verità, ossia la luce interiore con cui noi Lo percepiamo>>fi7
55) Conf. 7, 10, 16. G6) De quantitate animae 33, 76. 57) De vera rel. 53, 113.
Agostino di Ippona
169
dichiarare assolutamente tranquillo e sicuro per quanto concerne l'esistenza di Dio non può certamente dire altrettanMa
to
se
Agostino si può
riguardo alla sua natura. In effetti le vie conducono sino a Dio ma non
dischiudono il mistero del suo essere. Il problema della natura, dell'essere proprio di Dio ha tormentato Agostino durante tutta la sua lunga e travagliata esistenza. Prima di convertirsi al cristianesimo aveva dovuto combattere duramente per uscire dalla concezione materialistica che i manichei avevano di Dio. Raggiunse un concetto spirituale grazie all'incontro con la filosofia neoplatonica, la quale lo aiutò a comprendere che
Dio «è sommo, unico, incorruttibile,inviolabilee immutabile»,es«ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, lontanissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile e allo stesso tempo causa d'ogni mutazionembé‘ In seguito il suo concetto di Dio divenne più chiaro e definito: <
taminabile, inalterabilee totalmente immutabile; ero anche fermamente convinto che Tu sei il nostro Signore, vero Dio, creatore non solo dell'ani-
ma anche del corpo e non solo delle anime e dei corpi, ma di tutto e di tutti».70 Nuove dimensioni guadagnò più tardi la sua cognizione di Dio, dopo la conversione al cristianesimo, quando Venne a sapere dalla rivelazione che Dio è uno nella natura ma trino nelle persone. Di questo altissimo mistero escogitò la formulazione razionale più precisa, ricorrendo, come si vedrà più avanti alle più svariate similitudini. Nella sua opera speculativa più matura, il De Trinitate, il Dottore di Ippona presenta una lista riassuntiva degli attributi. chela ragion pura (ratio naturalia) è in grado di scoprire nella sostanza divina. La lista comprende dodici attributi, che Agostino suddivide in tre gruppi; il primo gruppo ‘e composto da eternità, immortalità, incorruttibilità e immutabilità; il secondo da vita, sapienza, potenza e bellezza; il terzo da giustizia, bontà, felicità e spirito. In ogni gruppo c'è un capofila: l'eternità nel primo, la sapienza nel secondo, la felicità (beatitudine) nel terzo. Si tratta peraltro di una divisione più concettuale che reale, che non compromette in nessun modo l'assoluta unità e semplicità di Dio, perché ogni attributo si identifica con la sua sostanza e, allo stesso tempo, ogni attributo coincide realmente con ogni altro attributo. «Sia lungi da noi il pensare che quando si dice che Dio è spirito, questa affermazione riguardi la sostanza. Lo stesso si dica di tutte le altre affermazioni che abbiamo ricordato»?!
ma,
68) Conf. 7,1. 69) Ibid., 1,4. 70) Ibid., 7,3. 71) De Trin. 15, 5, s.
170
Parte prima
Ecco, nelle parole di senziali di Dio: «...
Agostino, la ”deduzione" dei dodici attributi es-
Riduciamo queste numerosissime perfezioni (di Dio) ad alcune sol-
tanto. La vita che si afferma esistere in Dio è la sua stessa essenza e la è per se sua natura. Cosicché Dio non vive di. altra vita che ciò che stesso. Questa vita non è dello stesso livello di quella dell'albero, che è
Egli
privo di intelligenza e di sensibilità, né di quella degli animali; infatti la vita animale è dotata di sensibilità che si diversifica in cinque sensi, ma è del tutto priva di intelligenza. Invece quella vita che è Dio, sente e comprende tutto, ma Dio sente spiritualmente e non corporalmente, perché Dio è spirito (sentit mente, non corpore, quia spiritus est Deus) (...). sua creatura è tale che possa a un dato momento cessare di esistere 0 cominciare a esistere: è infatti immortale. Non invano infatti è è veramente l'immortalità, stato detto che è il solo a immortalità Vimmortalità di Colui la cui natura è priva di
Né la
perché
possedere
qualsiasi
mutazione. Vera è pure l'eternità per la quale Dio è immutabile, senza inizio e senza fine e perciò stesso incorruttibile. Si esprime dunque una sola e medesima cosa, sia che si dica che Dio è eterno, sia che si dica che è immortale, che è incorruttibile,che è immutabile;similmente quando si dice che è vivente, e intelligente o, che è lo stesso, sapiente, si dice la medesima cosa. Dio infatti non ha ricevuto una sapienza che lo abbia reso sapiente, ma egli stesso è la sapienza. E questa vita è la stessa cosa che la forza o la potenza, la stessa cosa che la bellezza, per cui è detto potente e bello. Che c'è infatti di più potente e di più bello della sapienza che ”si estende con potenza da un'estremità all'altra del mondo e tutto amministra con dolcezza" (Sap 8, 1)? La bontà e la giustizia differiscono forse tra loro nella natura di Dio, allo stesso modo che nelle sue opere, come se vi fossero due qualità distinte in Dio: una la bontà, l'altra la giustizia? Certamente no: la sua giustizia è la sua stessa bontà, e la sua bontà è la sua beatitudine stessa. E Dio è
detto
incorporeo, immateriale perché si
è spirito, non c0rpo».7î
Nell'elenco stilato da
creda
e
si
comprenda che egli
Agostino i primi quattro attributi (eternità, im-
mortalità, incorruttibilità, immutabilità) sottolineano la sua trascendenza, la sua sacralità, la sua distinzione o separazione, la sua assoluta dif-
ferenza qualitativa rispetto alle creature," mentre gli altri attributi lo identificano come principio primo, fonte originaria, espressione massima e completa di tutto quanto di buono, di positivo, di valido, di perfetto posseggono le creature: «Egli è il principio dell'essere, la Verità del sapere, la felicità del vivere».74
72) lbid, 15, 5, 7. 73) «Quod cuncta praccellit» (De civ. Dei 8, 4). 74) De civ. Dei 8, 9.
Agostino di Ippona
171
Secondo Agostino l'attributo che maggiormente caratterizza Dio o meglio 10 distingue da ogni altra realtà è la immutabilità(incommutabili-
tas) o eternità. Tutte le cose che vengono dopo Dio sono corrose dal tarlo
della caducità e
sono
circondate dall'abisso del nulla:
sono
tutte
fragilis-
sime, provvisorie, instabili,mutevoli, transitorie (del nunc transiens: momenti che passano), futili, in se stesse insignificanti; più morte che
vive e moribonde già dal momento in cui cominciano a esistere. Per contro Dio e soltanto Lui si trova al di sopra di questo immenso oceano di
cose fugaci, sovranamente immobile, stabile (stans), eterno, simile a una possente piramide attorno a cui si ammucchìano e scompaiono le dune
di sabbia del deserto. Nessun altro filosofo ha un senso così vivo, così acuto della immutabilitàdi Dio come Agostino, il quale la celebra e la proclama incessantemente in tutti i suoi scritti. Qui ci limiteremo a un paio di citazioni tratte dal De Trinitate. «Nulla di mutevole vedo in Dio, né per movimento spaziale e temporale come ne subiscono i corpi, ne’ per movimenti puramente temporali e che hanno un qualcosa di spaziale, come nel caso del pensiero dei nostri spiriti, né per movimenti puramente temporali senza neppure qualche immagine spaziale, come nel caso di alcuni ragionamenti dei nostri spiriti. Infatti l'essenza di Dio, ragione del suo essere, non ha assolutamente nulla di mutevole sia nella eternità sia nella verità o nella volontà: perché in Dio eterna e la verità, eterna la carità, vera la carità, vera l'eternità; amata l'eternità, amata la verità».75 «... Ciò che non troviamo in ciò che vi è di migliore in noi, non dobbiamo cercarlo in Colui che è molto migliore di ciò che vi è di migliore di noi. Concepiamo dunque Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità, al primo posto senza collocazione (sine situ praesidenteml,
contenente tutte le cose ma senza esteriorità, tutto presente, dappertutto e senza luogo, sempiterno senza tempo, autore delle cose mutevoli pur restando assolutamente immutabileed estraneo ad ogni pas-
sività.
ancora
Chiunque concepisce Dio a questo modo, sebbene non possa scoprire perfettamente ciò che è, evita almeno con pia diligen-
za, per quanto può, di attribuirgli ciò che non è. Dio è, tuttavia senza dubbio, sostanza, o se il termine è più proprio, essenza, che i greci
chiamano ousia (...). Ma tutte le altre essenze o sostanze che conosciacomportano degli accidenti, da cui derivano ad esse trasforma-
mo,
zioni grandi o piccole. Dio però è estraneo a tutto questo e perciò vi è sola sostanza immutabileo essenza, che è Dio, alla quale convie-
una
75)
De Trin. 4, 1, 1.
172
Parte prima
nel
ne
senso
più
forte e più esatto (maximc et verissime conapetit), quequale l'essenza deriva il suo nome. Perché ciò che l'essere, e ciò che può mutare, anche se di fatto
sto essere dalla muta non conserva
muta, può non essere ciò che era. Perciò solo ciò che non soltanto muta, ma soprattutto non può assolutamente mutare, merita senza riserva e alla lettera il nome di essere (zverissime dicatur esse)».7"* non
non
In questi testi due sono le cose più importanti da rilevare: a) il criterio seguire nel determinare gli attributi di Dio: non assegnargli nulla di quanto è imperfetto in noi o fuori di noi, ma soltanto ciò che è perfetto, cioè migliore in senso assoluto; b) la equiparazione dei concetti di immutabilità (immutabilitas) ed essere (esse), partendo dall’immutabilità
da
piuttosto che dall'essere, come se Yimmutabilità godesse di qualche priorità rispetto all'essere. Il che attesta che Agostino non ha ancora raggiunto quella concezione di essere inteso come actus, perfezione fondamentale, primaria e assoluta, attualità di ogni atto, che svilupperà più tardi Tommaso d'Aquino. Quanto agli altri attributi su cui Agostino si sofferma volentieri quando vuole descrivere la natura di Dio: semplicità, bontà, sapienza, carità, potenza, infinità, felicità ecc., merita speciale segnalazione l'attributo della bellezza. Anche di questa (come della immutabilità) Agostino è cantore straordinario, superbo: la celebra in tutti i
finissima sensibilità estetica
e
da
una
intensa
toni, sostenuto da una
genialità letteraria. Sono
autentiche pagine liriche quelle che Agostino dedica alla bellezza di Dio.
Ecco
un
esempio tratto dal Corrzmento al Vangelo di Giovanni:
Mediante l'amore noi diventiamo belli. Che fa un uomo storpio volto sfigurato se ama una bella donna? Che fa una donna brutta, storpia, nera se ama un uomo bello? Può diventare forse bella in virtù dell'amore? E quello può diventare attraente in virtù dell'amore? Aspettcrà di diventare bello? Ma aspettando diventa ancora più vecchio e brutto di prima. Non c'è via d'uscita, non puoi dargli nessun buon consiglio. Ma la nostra anima, fratello, è deforme per via della sua trasgressione: amando Dio diventa bella. Che amore è questo che abbellisce l'amante. Ma Dio è sempre bello, mai deforme, mai mutevole. Egli, il bello, ci ha amati per primo, e in che condizioni ci ha amato? Nella condizionedi esseri brutti e deformi. Ma non per lasciarci brutti, bensì per mutarci e renderci, da brutti, belli (qui et foedos dilexit, ut pulchros faceret). Ma come diventiamo belli? Riamando colui che è eternamente bello. Quanto più cresce in te l'amore, tanto più cresce la bellezza perché l'amore stesso è la bellezza dell’anima».77 «...
con un
75) HIÎIL, 5, l, 2-3. 77) In 10h. tr. 9, 9.
Agostino di Ippona
173
La ragione che muovendo da questo mondo oppure da se stessa raggiunge Dio, scopre, oltre agli attributi essenziali, quelli cioè che si fondano direttamente sulla sua sostanza, anche i suoi attributi relativi: quelli che gli competono in forza delle operazioni ad extra con cui chiama
all'essere e
nell'essere le sue creature. Tali sono i titoli di creapadre, provvidente, giudice, rimuneratore ecc. Sul significato e sul valore di questi titoli la filosofia cristiana aveva fatto piena luce sin dai tempi di Clemente Alessandrino e Origene. Il merito di Agostino in questa materia è di avere consolidato le posizioni tradizionali difendendole dagli attacchi dei manichei e dei neoplatonici. Secondo Plpponate non può esservi dubbio che il titolo di Creatore compete soltanto a Dio: Lui è il principio supremo e unico di qualsiasi realtà. Quindi fa vedere, contro i manìchei, che al di fuori di Dio non esiste alcun altro principio primo, e, contro i platonici, che non si può dare nessun'altra fonte intermedia dell'essere. Per provare il suo assunto Agostino distingue tra generare, fabbricare, creare: solo chi crea produce una cosa dal nulla (ex rzihilo), invece chi genera o chi fabbrica sfrutta un materiale precedente. conserva
tore,
«Ciò che uno fa, lo fa o dalla sua sostanza o da un qualcosa fuori di sé dal nulla. L'uomo che non è onnipotente, dalla sua sostanza genera il figlio, e, come artefice, dal legno fa l'arca, ma non il legno; ha potuto fare il Vaso, ma non l'argento. Nessun uomo può fare qualcosa dal nulla, cioè fare che sia, ciò che non e assolutamente. Dio invece, perché onnipotente, dalla sua sostanza ha generato il Figlio, dal nulla ha creato il mondo, e dalla terra ha plasmato l'uomo. C'è una grande differenza tra ciò che Dio ha generato dalla sua sostanza, e ciò che ha fatto non dalla sua sostanza, ma dal nulla; cioè ha fatto che ricevesse l'essere e fosse posto tra le cose che sono ciò che assolutamente non era».78 o
«Creatore è solamente colui che produce le cose come causa prima. E nessuno lo può all'infuori di colui presso il quale sono originariamente le misure, i numeri, i pesi di tutte le cose che esistono: e questi è soltanto Dio creatore, dalla cui ineffabile sovranità dipende che quanto gli angeli cattivi potrebbero fare, se fosse loro permesso, non lo possono invece fare perché egli non lo permette loro».79
Per Agostino, avendo stabilito che Dio è il principio primo e universale di ogni cosa e che l'essere spetta di diritto a Lui soltanto, avendo fatto la diretta e personale esperienza della paterna sollecitudine di Dio, diventa cosa agevole arguire che a Dio compete anche il titolo (che già gli Stoici avevano assegnato al Logos) di reggitore provvidente, il quale assiste con premura le sue creature, concedendo a ciascuna quanto le
75) 79)
Contra Pelicem Man. De Trin. 3, 9, 18.
2, 18.
174
Parte prima
necessita per il pieno sviluppo delle proprie potenzialità (i germi senzinali inscritti nella sua essenza). Ecco come l'elegante scrittore di Ippona, col suo linguaggio fiorito, illustra questo attributo di Dio: e moderatore delle cose mutevoli, molto ciò che è opportuno per ciascuna età, ciò che a un dato momento deve fare, aggiungere, portar Via, detrarre, accrescere
«Dio, immutabile creatore
più
dell'uomo
sa
diminuire fino a che la bellezza dell'universo, particelle del quale le cose adatte a ciascun tempo, non si svolga e non si compia come il concerto di un ineffabile artista, e coloro che adorano Dio come si deve anche nel tempo in cui occorre credere, non passino all’eterna contemplazione della Bellezza ass0luta>>f‘°
o
sono
«La volontà di Dio che ”ha i venti per i suoi messaggeri, i lampi di fuoco per i suoi ministri" (Hcbr. 1, 7) presiede sul suo trono alto, santo, segreto, nella sua casa, nel suo tempio, tra gli spiriti che unisce tra loro una suprema pace e amicizia, e fonde in un solo cuore l'ardore della carità. Di là si diffonde dappertutto, movendo con ordine perfettissimo prima le creature spirituali, poi quelle materiali. Dì tutte le cose si
secondo le sue irrevocabili decisioni; delle immateriali e delle materiali, degli spiriti ragionevoli e irragionevoli,di coloro che per sua
serve
grazia sono buoni e di coloro che per la loro propria volontà sono cattivi. Ma come i corpi più pesanti e più deboli sono governati secondo un ordine determinato da corpi più sottili e più potenti, così tutti i corpi sono governati secondo un essere vivente e il vivente privo di ragione da un vivente ragionevole, il vivente ragionevole che si è fatto disertore e peccatore da un vivente ragionevole, pio e giusto, e questo da Dio stesso; così tutta la creazione è governata dal suo creatore, dal quale, per mezzo del quale e nel quale è stata creata e ordinata. Di conseguenza la volontà di Dio è la causa prima e suprema di tutte le
forme e i movimenti sensibili.Niente infatti di visibilee sensibileaccade senza che dal profondo del suo palazzo invisibile e intelligibìle il supremo Sovrano (de interiore invisibili atquc intelligibili aula summi Imperatoris) l'abbia comandato o l'abbia permesso in conformità alla ineffabile ripartizione dei premi e delle pene, delle grazie e delle ricompense in questo vastissimo e immenso Stato che è la creazione>>.81
Trascendenza e ineffabilitàdi Dio Da quanto abbiamo esposto sin qui risulta che Agostino ha un concetto altissimo di Dio, un concetto chiaro, luminoso, maestoso, carico di quel fascino abbagliante che possiede la realtà di Dio per chi la incontra, ma che lo sguardo di nessuna mente umana è in grado disostenere a
8°) Epist. 138, l, 5. 31) De Trin. 3, 4, 9.
Agostino di Ippona
175
lungo. Qui però nasce un problema, perché il discorso su Dio è possibile, anche nel migliore dei casi (cioè quando è stato concesso di incontrarlo e di vederlo), soltanto dopo che si è lasciata la vetta (il settimo grado del De quantitate animata) e si è tornati tra i mortali. Ma se questa è la situazione comune di chi parla di Dio, che cosa rimane effettivamente di quella sublime realtà nei nostri concetti e nelle nostre parole? Questo problema era già stato affrontato da Filone, Plotino, Clemente e Origene, i quali l'avevano risolto affermando l'assoluta trascendenza di Dio a tutti i livelli, ontologico, gnoseologico e semanticofiî Nella sostanza questa tesi viene condivisa anche da Agostino, il quale, peraltro, si preoccupa più dei suoi predecessori, di salvaguardare quel minimo di contenuto positivo senza il quale la creatura precipita nel nulla, mentre la nostra mente cade nell'ignoranza e le nostre parole nellassurdo. Agostino afferma perentoriamente la trascendenza di Dio a livello ontologico con gli attributi della immutabilità,infinità, incorruttibilità. È quanto abbiamo già visto podanzi. Altrettanto categorica è la sua affermazione della trascendenza a livello gnoseologico e linguistico (semantico). Ecco qualche testo emblematico: «Se si comprende ciò che si vuol dire di Dio, non è Dio; non è lui che si vuol comprendere ma qualche altra cosa al posto di lui; e se si crede di aver afferrato lui stesso, si è zimbello della fantasia. Egli non è ciò che si può comprendere: è ciò che non si comprende. E come parlare di ciò che non si potrebbe comprendere?».83 «Quando parliamo di Dio non c'è da meravigliarsi se non si comprende. Tale ignoranza è più pia che una scienza temeraria. Attingere un pochino Dio procura una grandissima soddisfazione; ma comprenderlo e assolutamente impossibile>>fi4«Ciò ch’Egli è in se stesso è impossibile pensare, anzi lo ignoriamo; perciò qualsiasi concetto ci formiamo di Lui dobbiamo respingerlo e allontanarlo (...). C'è pertanto in noi una specie, per così dire, di dotta ignoranza, acquisita con l'aiuto dello Spirito Santo, il quale viene incontro alla nostra debolezza>>fi5 L'intera parabola della conoscenza che l'uomo può avere di Dio, la quale inizia con Vappassionata ricerca della sua realtà, tocca il vertice del subitaneo, folgorante incontro con Lui e poi declina nuovamente verso le oscure lande della ignoranza, è tracciata con esattezza nell'ottavo Libro del De Trinitate.
S?)
33) 34) 35)
Per le posizioni di Filone, Platino, Clemente e Origene rinvio il lettore al mio volu me ll problema del linguaggio teologica dalla origini a oggi, Queriniana, Brescia 1975, 2’ ed. Sermo 52, 16. Sermo 117, 3. Epist. 130, ad Probam, PL 33, 505.
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Parte prima
«Comprendi dunque se puoi, 0 anima tanto appesantita da un corpo soggetto a corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio ‘e Verità. È scritto infatti che Dio è luce, non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos'è la Verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo quando ti ho detto: Verità. Resta se puoi nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque il peso che ti fa ricadere, se non quello delle impurità che ti hanno fatto contrarre il glutine della cupidigia e gli errori del tuo peregrinare?».86
Com'è agevole constatare, nel suo insieme l'insegnamento di Agostisulla conoscenza di Dio è estremamente dialettico. Per quanto concerne Pesistenza egli ne afferma con assoluta sicurezza la conoscibilità; invece per quanto si riferisce alla natura di Dio egli riconosce alla mente umana la capacità di percepirne alcuni attributi, ma mai di pensare e di comprendere la sua intima essenza. Alla trascendenza gnoseologica di Dio si accompagna necessariamente la trascendenza semantica: poiché Dio supera ogni ente e ogni concetto egli oltrepassa anche ogni parola e ogni linguaggio positivo no
(catafatico).
già dottrina della Bibbia. Poi era stata fortemente accenneoplatonici, che avevano dato grande rilievo alla teologia apoviene ripresa da S. Agostino e diviene uno dei tratti caratteriEssa fatica. Questa
era
tuata dai
teologia filosofica. Dio, osserva Agostino, resta ineffabileanche dopo che l'uomo ha sco-
stici della sua
conosciuto Dio ritenevi di essere in grado di esprimerle; ma ora che hai incominciato a conoscerlo ti accorgi che non sei capace di esprimerlo. Ma avendo scoperto che non puoi esprimere ciò che conosci, dovrai restare in silenzio, senza lodare Dio? Eppure a Lui si deve onore e gloria (...). In che modo, domanderai, dovrà lodarlo? Mi è impossibiledire quel poco che conosco enigmaticamente e indirettamente (...). Tutte le altre cose possono essere espresse in qualche modo; solo Dio è ineffabile,Lui il quale pronunciò una parola e tutte le cose furono fatte. Lui disse una parola e noi siamo stati creati; ma noi siamo incapaci di parlare di Lui.».87
perto la
85) 87)
sua
esistenza: <
De Trin. 8, 2, 3. Enarr. in Ps. 99, 6.
avere
Agostino di Ipporza
177
Ma un
questa antinomia tra effabilìtà e ineffabilità di Dio non conduce a vicolo cieco che rende inutile qualsiasi sforzo di discorrere su di Lui?
Agostino è consapevole di questa difficoltà, apparentemente insolubile,
dottrina della ineffabilità. Però ritiene di poterla superare. Nella Dottrina cristiana egli l’affronta esplicitamente e la risolve nel modo seguente. Dopo avere riferito l'insegnamento tradizionale su Dio, Agostino confessa che quanto ha detto è molto al di sotto di quanto avrebbe voluto dire, «perché Dio ‘e inesprimibile(ineffabile)>>.88 Ma, si domanda allora l’Ipponate: «come mai ho potuto dire quanto ho detto, se Dio è effettivamente inesprimibileh.Ed ecco la risposta: «per il fatto stesso che dicendo che Dio è inesprimibilesi dice qualcosa di Lui, si dovrebbe arguire che neppure lui è ineffabile.In effetti qui ci troviamo in un conflitto di parole (pugna verboruzn), perché se dobbiamo chiamare ineffabileciò che non può essere detto, non è più ineffabileciò di cui si può almeno dire che è ineffabile.Da un simile conflitto però è più facileuscire col silenzio che con le parole. E tuttavia Dio, malgrado la nostra incapacità di dire qualche cosa che sia degno di lui, ha accolto l'omaggio della Voce umana e ha voluto che lodandolo ci potessimo valere delle nostre parole».89 Come si evince da questo passo, secondo Agostino il linguaggio religioso, per quanto estremamente povero, quasi impotente in sede semantica, risulta efficacissimo in sede dossologica: è uno strumento essenziale per dare lode a Dio (dossologia). E in realtà ben pochi autori possono rivaleggiare con lui nell'uso dossologico del linguaggio: in questo le nascosta sotto la
Confessioni sono un testo impareggiabile. Tuttavia non si può rinunciare Completamente al riconoscimento di un certo valore semantico e cognitivo del linguaggio religioso, altrimenti diventerebbe necessario rinchiudersi in quel ”mutjsmo” invocato da una certa teologia ”del silenzio” di Dio, che conduce inevitabilmenteal-
Yateismo.
Trascrizionemetafisica del mistero trinitario Che
cosa si possa realizzare in teologia con la metafisica lo ha moin modo egregio Sant'Agostino trattando della Trinità, il più elestrato vato e ineffabiledi tutti i misteri cristiani. La definizione corretta del mistero trinitario fu il risultato di alcuni secoli di accesi dibattiti, infuocate dispute, animate discussioni, approfondite riflessioni a cui parteciparono molti Padri della Chiesa greca
55) 59)
Doct. christ. 1, 6. Ibid.
178
Parte prima
(in particolare Origene, Atanasio, Basilio, Gregorio Taumaturgo) e della Chiesa latina (Tertulliano, Ilario, Agostino).
Tertulliano fu il primo ad introdurre alcuni termini chiave per la definizione del mistero trinitario, gettando così le basi della terminologia latina. Per definire i rapporti esistenti tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo egli adotta la formula «una sostanza e tre persone». Per quanto ne sappiamo egli è anche il primo ad operare il termine trinitas. Tertulliano dichiara inoltre che i Tre della Trinità possono essere contati: «numerum sine divisione patiuntur>>fl° in modo però che la distinzione e la disposizione non costituiscono una separazione: essi sono una cosa sola
(imam), ma non un solo individuo (unus).
Un notevole passo avanti Verso una trascrizione completa del mistero della Trinità nel linguaggio metafisico fu compiuto da Mario Vittorino. Questi, come abbiamo visto, applica alle tre Persone divine i concetti con cui Porfirio aveva definito le ipostasi primarie dell’Uno: Essere, Vita, Pensiero, chiamando il Padre Essere, il Figlio Vita e lo Spirito Santo Pensiero. Ma, come abbiamo osservato, questa formulazione del mistero trinitario sembrava incorrere nell’eresia del modalismo. Agostino riprende la questione ex novo e ci si butta dentro con tutte le forze del suo possente ingegno. Egli compone il suo magistrale De Trinitate, che non è soltanto il più importante di tutti i trattati sulla Trinità, ma forse anche, a nostro avviso, la più geniale opera teologica di tutti i tempi. ll trattato è stato scritto a più riprese assumendo amplificazioni che nel piano iniziale non erano previste. Ciò spiega le ripetizioni che si incontrano negli ultimi libri. La ripartizione dell'opera e la storia della composizione ce le fa conoscere lo stesso Agostino, nel secondo libro delle Ritrattazioni: anni. Ma quindici libri intitolati La Trinità li scrissi durante molti terminato il dodicesimo, quando per averli trattenuti più di quello che potevano sopportare coloro che li desideravano mi furono sottratti non ancora corretti quanto avrei desiderato che lo fossero per pubblicarli. E perciò quando scoprii che altri esemplari erano restati presso di noi, proposi di non pubblicarli com'erano, ma di unirli a un altro lavoro in cui poter raccontare quello che di essi era accaduto. Pregato però dai fratelli ai quali non seppi resistere, li corressi quanto credetti necessario, li completai e li pubblicai, aggiunvescovo di Cartagine, gendo all'inizio la lettera indirizzata ad Aurelio che era accaduto, quello in nella quale, come prologo, esposi quello che invece avevo fatto spinto di e farne, che avevo pensato quello «I
non avevo ancora
-
dalla carità dei fratelli».91
90) TERTULUANU,Adversus Praxeam 2, 4. 91) RetmCLZ, 15.
—
Agostino di Ippona
179
Da buon teologo, nei primi quattro libri, Agostino espone il mistero della Trinità dal punto di vista biblico, esaminando e spiegando tutto ciò che della Trinità viene detto nella Sacra Scrittura. Poi, nei tre libri successivi, affronta il mistero della Trinità dal punto di vista teologico, cercando di trovare una formula capace di dire a un tempo sia l'identità sostanziale delle Persone sia la loro distinzione personale. Non V'è alcun dubbio che l'unità di Dio riguarda anzitutto la sostanza o natura, la quale ‘e identica intutte e tre le Persone. Ma l'unità riguarda anche le qualità e le attività: non ci sono attività e qualità che competono esclusivamente al Padre ed altre che competono soltanto al Figlio e altre ancora allo Spirito Santo. Così non si può assegnare esclusivamente al Figlio la sapienza e allo Spirito Santo la vita, come suggeriva (in modo invertito) Mario Vittorino. Ecco un paio di testi in cui Agostino si esprime
meglio a questo riguardo: «Dio è
senza
dubbio sostanza o,
se
il termine è
più proprio, essenza,
che i greci chiamano ousia. Come infatti dal verbo sapere si è fatto derivare sapientia, da scire, scientia, dal verbo esse si è fatto derivare essentia. E chi è dunque più di Colui che ha dichiarato al suo servo Mosè: I0 sono colui che sono (Ex. 1, 14). Dì ai figli di Israele: Cohu’ che è, mi ha nmndato a voi? Ma tutte le altre essenze o sostanze che conosciamo, comportano degli accidenti, cla cui derivano ad esse trasforma-
zioni grandi o
piccole. Dio però è estraneo a tutto questo e perciò vi è
sola sostanza immutabile o essenza, che è Dio, alla quale convienel senso più forte e più esatto, questo essere dal quale l'essenza
una
ne
deriva il suo nome>>.92
«In quello che si riferisce a se stesso e non ad altri, Dio è ciò che ha. Così si dice vivo, perché Egli ha la vita, anzi è la vita stessa. Una natura infatti si dice ”semplice” quando non ha nulla che possa perdere o acquistare, nulla che sia altra cosa da ciò che essa è, come avviene per il vaso che contiene liquore; il corpo che ha un colore; l'aria, la luce o il calore; l'anima che ha la sapienza. Nessuno di questi essere ‘e ciò che ha (...). Si dicono dunque semplici secondo questo principio, le cose che sono principalmente e veramente divine, nelle quali non Vi è
distinzione tra sostanza
e qualità e che sono divine, sapienti o beate, altrui. Dio ‘e detto nella Sacra Scrittura Spirito partecipazione per nzolteyilice di Sapienza, perché ha in sé molti doni, ma Egli è ciò che ha e quantunque molteplice nei cloni, è uno nell’essenza. Non vi sono infatti molte sapienze, ma una sola nella quale ci sono immensi e infiniti tesori di cose intelligibili,che racchiudono tutte le ragioni invisibilie immutabilidelle cose anche visibilie mutabili,create per mezzo della Sapienzaw” non
92) De Trin. 5, 2, 3. 93) De civ. Dei 11, 10.
Parte prima
180
In
questi brani abbiamo sottolineato la bellissima formula: «Dio è ciò
che ha». Dio è in effetti l'unico essere che si identifica con tutto ciò che possiede: Dio ha la vita ed è la vita; Dio ha la verità ed è la verità, Dio ha la bontà ed è la bontà; Dio ha l'essere ed è l'essere; Dio ha lo spirito ed è lo spirito ecc. Ciò non è vero di nessuna creatura. L'uomo ha la vita ma non è la vita; ha l'essere ma non ‘e l'essere; ha la Verità ma non ‘e la verità... In questa formula ‘e già implicito tutto quello che per capitoli e capitoli, con grande acutezza Agostino mette in chiara evidenza: l'identità delle perfezioni assolute (bontà, sapienza, verità, potenza ecc.) con l'essenza divina. Per es., la sapienza, per quanto apparentemente legata alla seconda Persona della Trinità, non può essere una proprietà assoluta di tale persona, altrimenti il Padre non sarebbe primigeniamente sapiente, ma lo diverrebbe soltanto grazie al Figlio. Né d'altronde la sapienza può essere proprietà assoluta del Padre perché in tal caso il Figlio sarebbe una qualità del Padre. Ne consegue che la sapienza non è una qualità personale e relativa di questa o quella Persona divina, ma una qualità essenziale, assoluta, che si identifica con l'essenza stessa. in essa, dunque, ed essere là Ma essere identificano. se si sapiente che ha la è la non stessa ch'egli generato sono sapienza cosa, sapiente fa il Padre sapiente, altrimenti non lui avrebbe generato essa, ma essa lui. Che altro infatti diciamo, quando diciamo: per lui essere è essere la causa sapiente, se non: è sapiente per ciò per cui è? Di conseguenza che fa sì che la è stessa causa sia che che fa si egli sia. egli sapiente Pertanto se è la sapienza che il Padre ha generato, essa ‘e anche la causa che fa sì che egli sia. E questo non è possibile se non in quanto lo genera e lo crea. Ma nessuno chiamerà mai la sapienza né generatrice né creatrice del Padre. Che vi è infatti di più insensato? Dunque il Padre stesso è la sapienza e si chiama il Figlio sapienza del Padre come lo si chiama luce del Padre. Cioè allo stesso modo che si chiama il Figlio "luce da luce", e l'uno e l'altro sono una sola luce, così si ha da intendere "sapienza da sapienza” e l'uno e l'altro sono una sola è la sapienza. Perciò sono pure una sola essenza, perché qui essere è in che essere sapiente rapstessa cosa che essere sapiente. Infatti ciò porto alla sapienza, e il potere alla potenza, l'essere grande alla gran— dezza, l'essere stesso lo è alla essenza. E poiché in quella semplicità essere sapiente non è cosa diversa dall'essere, ivi la sapienza e la stessa cosa che l'essenza».94 «Nella Trinità l'essenza è
essere
94)
ed
essere
De Trin. 7, l, 2.
supremamente semplice e
Agostino di Ippona
di
181
Dimostrando la perfetta identità delle Persone a livello di essenza e perfezioni assolute, Agostino aveva praticamente concluso che la
ragione della distinzione tra le Persone si doveva cercare altrove. Dove?
qualche qualità
accidentale e neppure nella moltiplicazione frequenti della distinzione tra gli indiVidui di una stessa specie, perché nella Trinità non ci sono qualità accidentali (tutto è essenziale) né estensione (che è il fondamento della moltiplicazione numerica). L’unico principio di distinzione tra le persone, che ne salvaguardava allo stesso tempo Yassoluta identità a livello di essenza e di perfezioni assolute, si poteva rinvenire nella categoria della relazione. Era una soluzione già intravista da alcuni scrittori orientali (Basilio e Anfiloco di Iconio). Agostino la fece sua e la perfezione ulteriormente, facendo compiere alla teologia della Trinità un passo decisivo. L'identità del. Padre è data dalla relazione della Paternità, quella del Figlio dalla relazione della Filiazione, quella dello Spirito Santo dalla donazione passiva. Agostino osserva che queste relazioni, essendo nell’ordine della opposizione e non in quello delle perfezioni assolute (ad se), dicono solo distinzione e non diversità di perfezione tra una Persona e l'altra. Queste relazioni sono reali, e quindi comportano una distinzione reale tra i termini correlativi il Padre non è il Figlio, il Figlio non è il Padre ecc. sono immutabili,sono sussistenti, ed essendo le relazioni simultanee, le Persone divine sono egualmente eterne. Il Figlio mai ha cominciato ad essere Figlio, ma lo è sempre stato, come il Padre non ha mai cominciato ad essere Padre, ma lo è sempre stato, e lo stesso vale anche per lo Spirito Santo. Non in
numerica, che
sono le ragioni più
-
-
«Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in lui non vi è tuttavia non tutto ciò che di Lui si predica, si predica secondo la sostanza (...). Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione (dicitur enim ad aliquid); così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l'uno e sempre Padre, l'altro sempre Figlio (...). E poiché il Padre non è chiamato Padre se non perché ha un Figlio, e il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza. Né l'uno né l'altro si riferisce a se stesso e queste sono denominazioni che riguardano la relazione e non sono di ordine accidentale, perché ciò che si chiama Padre e ciò che si chiama Figlio è eterno e immutabile. Ecco perché sebbene non sia la stessa cosa essere Padre ed Essere Figlio, tuttavia la sostanza non è diversa, perché questi appellativi non appartengono all'ordine della sostanza, accidente, e
della relazione (non secundum substantìam dicuntur sed secundum relativum); relazione che non è un accidente perché non è mutevole».95
ma
95) lbicL, 5, 5, 6.
182
Parte prima
Situando la ragione della distinzione tra le tre Persone divine nelle relazioni sussistenti (sussistenza della Paternità, della Filiazione e della donazione passiva) Agostino «intendeva sfuggire a un bruciante dilemma (callidissimznn machinanzentum) posto dai critici ariani. Basandosi sullo schema aristotelico delle categorie, essi sostenevano che le distinzioni all’interno della divinità, qualora vi siano devono essere classificate o nella categoria della sostanza o in quella dell’accidente. Quest'ultimo era fuori questione, perché Dio non ha accidenti; la prima portava alla conclusione che i Tre sono sostanze indipendenti. Agostino respinge entrambe queste alternative, affermando che il concetto di relazione (ad aliquid relatio) sussiste. I Tre, egli continua ad affermare, sono relazioni, altrettanto reali ed eterne, del generare, dell'essere generato e del ‘procedere (o dell'essere donato) all'interno della Divinità che le fa sorgere. Padre, Figlio e Spirito Santo sono relazioni nel senso che ciascuno di loro ‘e in relazione con uno o ambedue gli altri».°6 Risolto il problema del fondamento della distinzione personale nelle relazioni sussistenti qualcuno avrebbe potuto pensare che la discussione del mistero trinitario fosse ormai conclusa. Non però Agostino. Egli era riuscito a trovare una soluzione pienamente soddisfacente della questione più importante e più difficile: che le persone sono perfettamente eguali nell'essenza e nelle perfezioni assolute, mentre sono distinte nelle relazioni sussistenti. Ma come si distingue la processione dello Spirito Santo da quella del Figlio? E che cosa significa precisamente essere persona per il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, se si dice allo stesso tempo (come fa Agostino) che anche Dio è persona? Su questi punti ai tempi di Agostino esistevano ancora molte incertezze. Nel De fide et syirzbolo, uno dei suoi primi scritti teologici, Agostino aveva fatto la seguente annotazione: «Uomini dotti e spirituali hanno discusso in molti libri intorno al Padre e al Figlio... Ma intorno allo Spirito Santo i dotti e grandi commentatori della Scrittura divina non hanno ancora disputato con tanta abbondanza e diligenza da farci capire facilmente ciò che gli è proprio nella Trinità».97 Come sappiamo, approfondire e risolvere la questione della specificità della Terza Persona della Trinità divenne uno degli obiettivi principali del De Trinitate. Restando fedele alla sua impostazione che assume come punto di partenza della elaborazione del mistero trinitario l'essenza divina, anziché il Padre (come aveva fatto la patristica orientale), Agostino arriva a una formulazione della processione dello Spirito Santo che si discosta al-
95) J. N. D. KFLLY, Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1972, pp. 335-336. 97) Defidc et symbolo 9, 18.
Agostino di Ippona
183
quanto da quella della teologia orientale. Mentre quest’ultima aveva concepito la processione dello Spirito Santo come originata dal Padre e mediata dal Figlio (ex Prztre per Filium) il Dottore ”della grazia” ritiene che il rapporto del Padre e quello del Figlio con lo Spirito Santo nella processione della Terza Persona siano il medesimo e lo esprime con la formula ex Patre filioque. Il Padre e il Figlio sono insieme l'unico principio dello Spirito Santo. «Infatti, se ciò che è dato ha come principio colui che lo dà, perché questi non ha ricevuto da altri ciò che procede da lui, bisogna ammettere che il Padre e il Figlio sono un solo principio dello Spirito Santo, non due principi; come il Padre e il Figlio sono un solo Dio e nei riguardi della creazione un solo Creatore e un solo Signore, così riguardo allo Spirito Santo sono un solo principio, e in rapporto alle creature il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo principio, come sono un solo Creatore e un solo Signore>>f18 '
Non esiste pertanto nessuna confusione tra la processione del Figlio e la processione dello Spirito Santo. Nel primo caso si tratta infatti di generazione (dal Padre), nel secondo di donazione (del Padre e del Figlio).
«Qui si trova un po’ di luce sulla questione che suole preoccupare molti: perché anche lo Spirito Santo non è Figlio, dato che anch'esso esce dal Padre come si legge nel Vangelo? Certo egli esce dal Padre ma come dono, non come nato e perciò non si chiama figlio perché né è nato come l’Unigenito, né è stato fatto, come noi, per nascere in virtù della grazia come figli adottivi. Ciò che è nato dal Padre dice relazione esclusiva al Padre allorché si dice Figlio, e in effetti è Figlio del Padre e non anche nostro. Ma ciò che è stato dato, dice relazione a colui che ha dato e a coloro ai quali l’ha dato. Per questo lo Spirito Santo è detto non soltanto Spirito del Padre e del Figlio, che lo hanno dato, ma anche perché lo abbiamo ricevuto»? Non altrettanto felice risulta la soluzione che Agostino propone per il problema del significato del termine "persona" quando lo si usa per parlare del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Che cosa si vuol dire esattamente? Forse che sono tre individui sussistenti ciascuno nella relazione che gli è propria? Questo è il significato che hanno dato al termine persona gli scolastici a partire da Boezio parlando della Trinità. Ma questo non risulta ancora chiaro in Agostino. Egli usa ”persona” come equiValente del greco hypostasis: «I greci hanno detto: una essenza, tre so-
98) 99)
De Trin.5, 14,15.
Ibid.
184
Parte prima
stanze; i latini: una essenza o sostanza, tre Personewvu «Ma quelli, come dicono tre sostanze tre ipostasi così potrebbero dire tre persone, tria pTOS0pa>>J°1 Sennonché a parere di Agostino questi termini persona, ipostasi, prosopon non vanno intesi in senso proprio bensì di comodo, sono nati cioè dalla necessità di dire in qualche modo ciò che il pensiero intuisce, ma la lingua non sa esprimere. -
-
-
-
dunque? Ci resta forse da riconoscere che queste espressioni sono state originate dalfindigenza del linguaggio, quando erano necessarie delle lunghe dispute contro le insidie e gli errori degli eretici? Infatti, quando la povertà umana tentava di esprimere con parole adattate ai sensi degli uomini, ciò che nel segreto dello Spirito sa, sia per la fede religiosa sia per qualsiasi altra conoscenza, essa ha temuto di parlare di tre essenze, perché non si sospettasse una qualche diversità in quella suprema eguaglianza. D'altra parte non poteva negare l'esistenza di tre realtà perché, per «Che ci resta
averla negata, Sabellio cadde nell’eresia. E dalla Scrittura risulta con assoluta certezza ciò che si deve credere con fedeltà, e l'occhio dello spirito percepisce con piena chiarezza: che esiste il Padre, esiste il Figlio, esiste lo Spirito Santo, ma che il Figlio non è lo stesso che il Padre o il Figlio. La povertà umana si è chiesta come designare queste tre realtà e le ha chiamate sostanze o Persone, con i quali termini volle escludere tanto la diversità di essenza quanto l'unicità delle Persone, in modo da suggerire non solo l'idea di unità con l'espressione "una essenza”, ma anche l'idea di Trinità con l'espressione "tre sostanze o Persone"».192
Illustrazionepsicologica del mistero trinitario.
conseguire nel De Trinitate, dopo l'approfondimento teologico, è quello di illustrare con immagini appropriate il mistero trinitario. Già nei Soliluquiegli aveva ritenuto che la Via migliore per raggiungela conoscenza di Dio fosse quella di studiare l'anima, che è l'immagire che a Lui maggiormente si avvicina. La stessa strada per la conoscenne Il terzo obiettivo che
za
Agostino si
propone di
della Trinità veniva raccomandatanelle Confessioni:
«Vorrei invitare gli uomini a riflettere su tre cose presenti in se stessi, ben diverse dalla Trinità, ma che indico loro come esercizio, come prova e constatazione che possono fare, di quanto ne siano lontani. Alludo alla esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. lo esisto, so
100)Ibid., 7, 4, 7. wlflbid,6,11. 102)Ibz'd., 4, 9.
Agostino di Ippona e
185
voglio: esisto sapendo e Volendo, so di esistere e di volere, voglio esi-
e sapere. Come sia inscindibilela vita in queste tre facoltà e siano un'unica vita, un'unica intelligenza e un'unica assenza, come infine non sia possibile separarle, pur essendo distinte, lo veda chi può. Ciascuno è davanti a se stesso; guardi in se stesso, veda e mi risponda. Ma quand'anche avrà scoperto su ciò qualcosa e saprà esprimerle, non si illuda di aver scoperto finalmente l’Essere che sovrasta immutabileil mondo, immutabilmenteesiste, immutabilrnentesa e immutabilmentevuole. L'esistenza anche in Dio di queste tre facoltà costituisce la sua trinità, o questa triplice facoltà si trova in ognuna delle tre persone, sì da essere tre in ognuna? O entrambi i casi si verificano in modi mirabili entro una semplicità molteplice, essendo la Trinità in sé per se fine infinito sì da essere una cosa sola e come tale conoscersi e bastarsi immutabilmente nella grande abbondanza della sua unità? Chi potrebbe avere facilmente questo concetto? Chi esprimerle in qualche modo e pronunciarsi in qualsiasi modo temerariamente?».103
stere
Il procedimento di andare alla scoperta delle realtà trascendenti mediante lo studio di qualche copia sensibileera stato introdotto da Platone per la conoscenza delle Idee. Più tardi era stato ripreso da Filone per lo studio del Logos e da Plotìno per la conoscenza dell'Uno. Agostino lo applica in grande stile alla Trinità per cercare di conseguire oltre che un approfondimento concettuale anche una specie di rappresentazione sensibiledi questo mistero stupendo e incomparabile.Negli ultimi libri del De Trinitate egli compie uno sforzo immane per rinvenire nell'uomo una immagine atta ad esprimere chiaramente a un tempo sia l'unità della divina sostanza sia la Trinità delle Persone. È una ricerca che Agostino giustifica così: «(Nei precedenti libri), per quanto lo abbiamo potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi d’innalzare l'attenzione dello spirito fino all'intelligenza di quella suprema immutabilenatura (...). Ma poiché quella luce ineffabileabbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l'uomo è stato fatto ad immagine di Dio, trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata e così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l'intelligenza le perfezioni invisibilidi Di0».104 Così per ben quattro libri il Dottore di Ippona effettua una esplorazione meticolosa di tutto ciò che gli offre la complessa realtà umana sia nella dimensione somatica dell'uomo esteriore sia nella dimensione psi-
mÎÙCOnf 13, Il, 12.
1°4)Dc Trin. 15, 6, 10.
186
Parte prinza
chica dell'uomo interiore, annotando e vagliando accuratamente tutte le immagini della Trinità che vi incontra. Nell'uomo esteriore, essendo intriso di corporeità, non può esservi alcuna immagine della Trinità ma soltanto delle tracce. A suo modo ogni senso porta impresso un vestigio trinitario. Agostino si sofferma in particolare sull'immagine presente nel fenomeno della visione, e la descrive cosi:
un corpo, dobbiamo considerare e distinguere, del resto assai facile, tre elementi. Anzitutto la cosa stessa che vediamo, sia una pietra, sia una fiamma o qualsiasi altro oggetto che vi si può vedere con gli occhi, realtà che certamente potevano già esistere anche prima che noi le vedessimo. In secondo luogo la visione, che non esisteva prima che la presenza dell'oggetto provocasse la sensazione. ln terzo luogo ciò che tiene lo sguardo centrato sull'oggetto percepito, per il tempo in cui lo percepiamo, cioè l'attenzione dell'anima. Tra questi tre elementi dunque non solo esiste una manifesta distinzione, ma essi sono di natura differente (...). Dunque questi tre elementi: il corpo che è veduto, la Visione stessa, l'attenzione che unisce l'una all'altra, sono manifestamente distinti, non soltanto per le loro proprietà rispettive, ma anche per la differenza di natura>>J°5
«Quando vediamo
cosa
Per trovare qualche cosa che meriti propriamente il nome di "immagidella Trinità” occorre studiare l'uomo interiore, le sue facoltà: memoria, intelletto e volontà che già di per se stesse costituiscono un chiaro rispecchiamento della Trinità. Concentrando la sua attenzione sull'uomo interiore Agostino vi coglie una triplice immagine: 1) la mente, la sua la conoscenza e il suo amore di sé;106 2) la memoria, la comprensione e volontàfl“? 3) la mente come quella che ricorda, conosce ed ama Dio. Delle tre la più eccellente è la terza, in quanto mette l'uomo interiore a contatto diretto con 1a Trinità: «Infatti questa trinità dello spirito non è immagine di Dio perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare, comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato. Quando fa questo diviene sapiente. Se non lo fa, anche quando si ricorda di sé, si comprende e si ama, ‘e insensato».108 Dopo avere «fatto vedere come in uno specchio, per quanto è possibile, il Dio Trinità, nella nostra memoria intelligenza e volontà>>fl09 Agostino torna sui suoi passi per verificare che cosa ‘e riuscito a conseguire effettivamente: se cioè qualcuna delle immagini rinvenute corrisponda e
ne
mana, 11,2, 2. 106) Cf. ibid, 9, 2, 2 ss. 1“7)Cf. anzi, 10, 11,17. W8)Ibid., 14, 12, 15. 109)lbid., 15, 20, 39.
Agostino di Ippona
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pertanto illustri adeguatamente il mistero
trinitario. E deve constatare inferiori esiti all'attesa,' perché tra immagisono, probabilmente, gli facoltà divario: le nell'uomo non susrealtà sussiste ne e un grandissimo i membri della Trinità. invece tre sistono, non sono persone, come sono
che
di questo tre potenze, sono io che ricordo, io che comche io amo, io che non sono né memoria né intelligenza né prendo, amore, ma che li possiedo. Tutto ciò può dunque essere detto da una sola persona, che possiede queste tre potenze, ma che non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre Persone: il Padre, il Figlio 10 Spirito Santo. Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, altra cosa l'immagine della Trinità in una realtà diversa. In questa suprema Trinità, incomparabilmentesuperiore a tutte le cose, è tanto accentuata l'inseparabilità che, mentre una trinità di persone umane non si può chiamare un solo uomo, essa è detta ed è un solo Dio e quella Trinità non è in un solo Dio, ma è un solo Dio. Ed ancora per quanto riguarda quella Trinità le cose non stanno come nella sua immagine, l'uomo, che sebbene possegga quelle tre potenze, è una sola persona, ma vi sono tre Persone: il Padre del Figlio, il Figlio del Padre, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio. Sebbene infatti la memoria dell'uomo (...) presenti a suo modo, in questa immagine della Trinità, una somiglianza, incomparabilmenteindegna certo, ma tuttavia non del tutto dissimile, del Padre; e così pure, sebbene l'intelligenza dell'uomo che è informata dalla memoria per mezzo dell'attenzione del pensiero, quando si dice ciò che si sa e si produce quel verbo del cuore che non appartiene ad alcuna lingua, presenti, malgrado la sua accentuata differenza, una certa somiglianza del Figlio; e sebbene l'amore dell'uomo che procede dalla conoscenza e unisce la memoria e l'intelligenza essendo comune alla potenza che in qualche modo svolge la funzione di padre e a quella che svolge la funzione di figlio, motivo per cui se ne deduce che non è né padre né figlio presenti in questa immagine una certa somiglianza, benché molto imperfetta, dello Spirito Santo, tuttavia, mentre in questa immagine della Trinità queste tre potenze non sono un solo uomo, ma appartengono a un solo uomo, in questa suprema Trinità, di cui l'uomo è immagine, queste tre realtà non appartengono a un solo Dio ed esse sono tre Persone, non una sola. Ecco una cosa di certo meravigliosamente ineffabileed ineffabilrnentemeravigliosa: sebbene in questa immagine della Trinità vi sia una sola persona, invece nella suprema Trinità vi sono tre Persone, né più inseparabilequella Trinità di tre Persone, che questa di una sola>>fl10 «Per
mezzo
-
—
“ÙHbirL,23, 43.
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Parte prima
l'immagine antropica e
il modello divino della Trinità si danno pertanto tre differenze sostanziali: 1) la natura razionale esibisce delle strutture trinitarie, queste però non sono affatto identiche al suo essere, in quello stesso modo in cui la Trinità divina costituisce l'essenza della Divinità; 2) mentre la memoria, l'intelligenza e la volontà operano separatamente, le tre persone sono coinerenti l'una all'altra e la loro azione è unica e indivisibile;3) mentre nella Divinità i tre membri della Trinità sono persone, le potenze dell'anima sono funzioni di un'unica persona, l'uomo e tuttavia le tre Persone sono più inseparabilmenteunite tra loro di quanto non sia la trinità della mente. Fatte queste precisazioni, che sottolineano la distanza infinita che separa le immagini trinitarie dal modello, è lecito chiedersi quale sia il loro valore effettivo. Possono davvero servire come illustrazioni del massimo mistero del cristianesimo come si proponeva e sperava Agostino componendo il De Trinitate? Sul valore delle immagini psicologiche lo stesso Agostino fa delle considerazioni alquanto contrastanti. Già nelle Confessioni dove raccomandava al lettore il metodo dell’introspezione per scoprire in se stesso qualche traccia della Trinità, l'aveva tuttavia ammonito a non farsi eccessive illusioni: «Ciascuno è davanti a se stesso,‘ guardi in se stesso, veda e mi risponda. Ma quand'anche avrà scoperto su ciò qualcosa e saprà esprimerlo, non si illuda di avere scoperto finalmente l'Essere che sovrasta immutabileil mondo, che immutabilmente esiste, immutabilmente sa e immutabilmenteVuolewîî Nel De Trinitate Agostino precisa ripetutamente che le strutture trinitarie dell'anima da sole non fanno conoscere la Trinità: «Coloro che in questa Vita intravedono la Trinità attraverso questo specchio e in questo enigma, non sono coloro che percepiscono nel loro spirito queste tre potenze (memoria, intelligenza, volontà) che abbiamo indicato nella nostra analisi, ma coloro che vedono il loro spirito come immagine, in modo da poter riferire ciò che vedono, in qualunque maniera sia, a colui di cui il loro spirito è immagine e in modo da poter vedere, per congetture per nzczzo dellînintagine che ‘vedono contemplandola, Dio, perché non possono ancora vederlo faccia afacciamllî Agostino riconosce, quindi, che sul piano teologico le immagini psicologiche della Trinità non provano né spiegano nulla. Infatti né partendo da Dio né partendo dalle creature si può conoscere la Trinità. Questa verità è oggetto di fede, e la ragione non riuscirà mai a scoprirla e ancor meno a comprenderla con le sue forze. Tra
1“)C0nfi 13, 11, 12.
1l3)De Trin. 15, 23, 34.
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Di fatto le sue acutissime analisi più che a una migliore conoscenza di Dio approdano a una più profonda conoscenza dell'uomo. La ricerca, e poi la successiva scoperta, di un'immagine della Trinità nell'uomo offrì ad Agostino l'occasione di realizzare una eccezionale e fortunata osservazione delle zone più profonde e oscure della psiche umana che gli permise di intravedere in essa e di portare alla luce intrecci complessi, collegamenti reconditi, tensioni profonde, implicazioni teologiche e ontologiche che nessun pensatore pagano o cristiano aveva visto prima di lui.
Angeli e demoni Il tema degli angeli e dei demoni, a prima vista, dovrebbe essere riservato alla teologia, perché prove "tangibili"della loro esistenza sembra proprio che non ce ne siano, e, probabilmenteper questo motivo, in nessuno dei tradizionali trattati di metafisica si parla degli angeli e dei
demoni. Ma se anziché alla metafisica moderna ci rivolgiamo alla metafisica classica vediamo che le cose stanno diversamente. Infatti non soltanto tutte le religioni hanno sempre riservato una buona parte delle loro riflessioni all'analisi e allo studio degli spiriti buoni e degli spiriti maligni, ma altrettanto hanno fatto Platone e soprattutto i neoplatonici, i quali tra Dio (l’Uno) e l'uomo hanno inserito una lunga serie di esseri immateriali intermedi, dotati di capacità diverse e superiori a quelle dell'uomo e perciò in grado di intervenire positivamente e negativamente sulle vicende umane e sulle altre creature inferiori di questo mondo. Origene, che scrive nel clima culturale del neoplatonismo, nel suo universo metafisico assegna un ruolo fondamentale agli angeli e ai demoni. Su posizioni analoghe a quelle di Origene, ma con forti critiche al demonismo dei neoplatonici,si attesta anche Agostino. Il Dottore di Ippona, com'è noto, organizza tutto l'universo creato intorno a due città: la civitas Dei o civitas coeîestis e la civitas diaboli o civitas terrigena. Fanno parte della città di Dio coloro che scelgono come Valore principale Dio, mentre fanno parte della città dell'uomo coloro che scelgono come valore principale le creature. L'amore di Dio e l'amore di sé stanno all'origine delle due città: «I due amori generano le due città: l'amore di sé portato sino al disprezzo di Dio generò la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo di sé generò la città celeste».113 ln entrambe le città il primo posto spetta sempre agli esseri spirituali: agli angeli nella città celeste, ai demoni nella città terrena.
”3)De citi. Dei 14, 28.
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Parte prima
La città celeste oltre agli angeli comprende anche tutti gli uomini che hanno vissuto in grazia di Dio, ossia i santi; la città terrena oltre ai demoni include tutti i peccatori. Alla città di Dio appartiene sia la Chiesa trionfante sia la Chiesa militante. Gli angeli esultano con la prima e combattono insieme con la seconda. «La città di Dio scrive Agostino Va considerata nella sua completezza non solo in quella parte che durante il pellegrinaggio terreno loda dall'alba al tramonto il nome del Signore e, uscita dal suo vecchio stato di schiavitù, canta il suo canto nuoin vo; Va considerata anche in quella parte che resta unita per sempre, cielo col suo Dio creatore (...). Essa vive tra gli angeli santi in eterna beatitudine e, com'è giusto, Viene in aiuto all'altra parte pellegrina sulla terra. Queste due parti (Chiesa trionfante e Chiesa militante) diverranno un giorno una cosa sola nel godimento dell'eternità e ora sono una cosa sola nel vincolo della carità>>J14 Gli angeli sono creati dal nulla, poiché tutto è opera esclusiva di Dio.115 La loro creazione ha luogo prima di quella di tutte le altre creatuanire, ossia prima del sole e delle stelle, della terra e delle acque, degli l'uomo essi mali e dell'uomo. Grazie alla loro natura spirituale superano in conoscenza e libertà. La conoscenza angelica, secondo Agostino, è di tre specie, conformemente alla luce che risplende nelle tre parti del giorno: la luce meridiana, la luce della sera e la luce del mattino. Nella luce meridiana essi conoscono le cose nel Verbo di Dio prima della creazione; nella luce vespertina raggiungono la conoscenza delle cose nel Verbo dopo la loro creazione; attraversola luce mattutina conoscono le cose in di se stesse e nel loro rapporto col Verbofllò Essendo posti al di sopra tutte le creature corporee, gli angeli conoscono le cose create mediante la luce divina e le riferiscono totalmente alla lode del Verbo, trasformando la creazione materiale in momento o mezzo per la glorificazione del Verbo.117 In tal modo gli angeli buoni, permanendo nella luce di Dio, ne assaporano tutta la felicità e la beatitudine senza fine!” Oltre che di conoscenza intuitiva, l'angelo è dotato anche di libero arbitrio, «di modo che, se vuole, può allontanarsi da Dio, cioè dalla sua beatitudine, per seguire la più grande miseria».119 Secondo Agostino, Dio, pur sapendo che alcuni angeli, per propria scelta, avrebbero abban-
“ÙlbiLìÎ,4. "5)Cf. Ibid, 12, 25. “QCf. De Genesi ad litteram: 4, 23-32,- De tÎlîì. Dei 11, 7. 117)Cf. una, 4, 23 ss. 115)Cf. De civ. Dei 12, 6. "9)Ibid., 22, 1.
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donato il vero bene, non li privo di questo potere, giudicando più degno alla sua onnipotenza e bontà trarre il bene dal male, piuttosto che non permettere in alcun modo il maleflzv In ragione della libertà deriva perciò agli angeli la possibilità della caduta. Essi infatti sono stati creati buoni, ma sono diventati cattivi in forza della cattiva volontà, perché non hanno accolto in pienezza la grazia dell'amore divino, come invece hanno fatto gli angeli che hanno perseverato nell'amore di Dioflîî Agostino assegna agli angeli due funzioni fondamentali: una si riferisce a Dio ed è la funzione dossologica; l'altra si riferisce agli uomini e alla Chiesa ed è la funzione soteriologica. Gli angeli intervengono lungo tutto il corso della storia della salvezza: in particolare nella consegna dellalegge mosaica, ne1l’incarnazione di Cristo e nella vita della Chiesa. «E per mezzo degli angeli che è stata promulgata la Legge a quel popolo (Israele), ma è del Signore nostro Gesù Cristo che essa preparava e preannunciava la venuta, e lui come Verbo di Dio era in maniera incomparabile ed inesprimibilenegli angeli che promulgavano la Legge (...). Per mezzo degli angeli era dunque il Signore che parlava allora; per mezzo degli angeli, dunque, il Figlio di Dio, il Mediatore di Dio e degli uomini, che sarebbe nato dalla stirpe di Abramo, preparava la sua venuta per trovare accoglienza presso uomini che si riconoscessero colpevoli perché la Legge, da essi non attuata, ne aveva fatto dei trasgressori».122 Gli angeli amano misericorditer gli uomini affinché questi possano partecipare alla loro immortalità e beatitudineflî?»In questa ottica si possono comprendere le apparizioni degli angeli in forma corporea, come risulta dalla storia sacra.124 «Agostino afferma uno stretto legame tra gli angeli e le creature umane, descrivendo il loro servizio e la loro collaborazione salvifica in mezzo agli uomini, in conformità alla volontà e al disegno redentore di Dio. Essi pertanto hanno un significato all'interno della prospettiva storica e soteriologica. Il pensiero di Agostino in tal modo si ricollega alla concezione biblica e insieme offre alcune intuiziov ni teologiche che saranno riprese dalla speculazione medievale».125 Così, per es., è di Agostino l'idea che gli uomini redenti sono destinati ad occupare il posto degli angeli ribelli,tesi questa che incontrerà il favore di molti scolasticilîòI demoni, che formano la civitas diaboli, in origine e consono
ÎZÎÙCÎ. Ibid. uÙCf. Ibii,12, 9. 122)De Trin. 3, 11, 26. '23)Cf. De Citi. Dei 10, 7. 124)Cf. IbicL, 10, 8. 125)R. LAVATOKl,Gli angeli, Torino 1991, p. 102. ‘1î5)Cf. Enchiridion ad Laurentimir 29, 9.
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anch'essi puri spiriti come gli angeli, ma dopo la caduta assumono un corpo: «habent corpusmm certamente non nato da donna, un corpo cioè non uguale all’umano, ma pur sempre corpo. Possiedono un corpo di aria, sono perciò "animali aerei", con una natura propriamente aerea e per questo non si corrompono con la morte. Ne segue che i demoni, avendo un corpo, soffrono quando sono tormentatiJîR Il fatto che i demoni vivano nell'aria e abbiano un corpo aereo non significa che siano superiori all’uomo in dignità; come infatti gli animali volatili,che stanno erano
quella umana, così i demoni non devono essere considerati migliori degli uomini, poiché la loro disperazione non può essere neanche paragonata alla speranza che alberga nell'uomo di Di0.129 Essi si trovano nel grado infimo, dove sono stati precipitati col loro capo: «Quae tibi videtur gloriatio, damnatio 2515x130 Contro l'opinione di Origene, Agostino non ammette per i demoni la possibilità di pentirsi e di essere ristabilitinel loro stato primitivo. Egli
in
alto,
non sono
di natura
più
nobile di
dice che il fuoco eterno non avrà fine, come la vita eterna; il diavolo non sarà riconciliatoe non c'è per lui remissione dei peccatifil I demoni possiedono la scienza senza carità; ma la scienza priva della carità non giova a nulla, anzi diventa un atteggiamento di superbia, simile a un otre ricolmo d’aria.132 Per questa ragione i demoni sono pieni di una tale superbia che hanno preteso per se stessi gli onori da attribuirsi solo al vero Dio.133 Essi non vedono Dio, il quale parla a loro per mezzo di un intermediario angelico. Non hanno conosciuto neanche la divinità di Cristo; hanno visto soltanto il suo corpo umano quando lo hanno tentatoJ34 l demoni non hanno neppure il potere di leggere i pensieri umani ma, attraverso segni esteriori e sensibili,essi possono intravedere le intenzioni interiori.135 Agiscono soprattutto durante le pratiche magiche, in eventi straordinari e nei riti sacrileghifiòSi servono anche delle ragioni seminali «che essi segretamente spargono con il favore di adatte combinazioni di elementi, provocando così le condizioni favorevoli e allo sbocciare e allo svilupparsi rapido degli esseri».'37
Ilflsenn. 12, 9, 9. 123)Cf. De Civ. Dei 21, 3. 129)Cf. ibid., 8, 15. 13Ù)Enarr. in P5. 103, 7, 9. 131)Cf. In Gal. exp. 24. î32)Ct. De civ. Dei 9, 20. 133)Ct. ibiri,9, 21. 134)Ct. ibid. l35)Cf. Retmct. 2, 20. 136)Cf. De Trin. 4, 10. 137)Ibid., 3, 8.
Agostino di Ippona
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si devono considerare creatori, perché il vero «noi non chiamiamo i nostri genitori creatori di uomini né gli agricoltori creatori di messi, sebbene sia con il concorso esterno della loro attività che la potenza di Dio interiormente opera la creazione di queste cose>>J38 Essi agiscono sempre al di sotto della volontà divina, che concede loro tale potere secondo il suo superiore giudizio. Il potere di Satana, oltre che dalla superiore volontà di Dio, è limitato dalla personale responsabilità dell'uomo, il quale può liberamente accettare o respingere le insidie diaboliche. Il peccato, in ultima analisi, dipende dalla libera adesione dell'uomo e non può essere imputato a Satana. Questo pensiero Viene ripetutamente espresso e sottolineato nei Sermones, ove Agostino si rivolge alla gente semplice del popolo. Per esempio nel Sermo 20, 2 egli esorta gli ascoltatori a riconoscere la responsabilità personale delle proprie azioni, poiché la colpa risale ad ogni individuo che confessa: ”Eg0 feci”, ”sono stato io”. Nessuno può addossare la colpa alla forza misteriosa del caso o della fortuna oppure al diavolo: questi può suggerire, anche spaventare o addirittura causare gravi fastidi, solo se ne ha il permesso da Dio e se l'uomo si oppone con la sua volontà alla grazia di Dio. Perciò il cristiano non deve avere alcun timore nei confronti del diavolo, soprattutto in considerazione dell'opera redentrice di Cristo, da cui Satana è stato sconfittofi‘?
Tuttavia i demoni
creatore è
Dio,
non
come
Il problema del mondo: origine, durata, dinamismo, finalismo
prospettiva filosofica di Agostino il problema cosmologico, inteso come problema del mondo, è un problema secondario, di scarsa rilevanza; tutto il suo interesse speculativo si trova infatti bloccato sin dall'iniziointorno a due poli, Dio e l'anima: tutto il resto non conta. Così il mondo, con i suoi molteplici aspetti problematici,trova posto soltanto dentro l'orbita di uno dei due grandi poli: il polo trascendente, divino, onnipotente, eterno di Dio e il polo immanente, potente ma fallibile, temporale e limitato dell'uomo. In ultima analisi, Dio e l'uomo sono anche i soli attori sui quali Agostino scarica la responsabilità di tutto quanto riguarda il mondo: la sua origine, durata (il tempo), dinamismo (le rationes seminales) e il finalismo (ordine e disordine, male e perfezione). E grazie al concetto elevatissimo che egli ha sia dell'uomo sia di Dio, può prospettare soluzioni nuove e originali per ognuno di questi aspetti del problema cosmologico. La soluzione del problema dell'origiNella
ne, della conservazione, del dinamismo e dell'ordine la chiede a Dio mentre la soluzione del problema del tempo e del male la chiede all'uomo.
138) lbid. 139)Cf. Scrm. 15/A.
194 LA
Parte prima
CREAZIONE DEI. MONDO
Come abbiamo avuto modo di vedere nel p recedente ca p itolo, il Dio dl A.3 ostmo non è un P.rmci.1’. 10 fondante della realtà insieme con tanti altri principi, ma e 11 principio primo assoluto e unico ed è inoltre un principio trascendente, che ha il potere di produrre dal nulla e di chiamare quindi all’essere ciò che prima non esisteva affatto, neppure nella condizione di potenza passiva. Grazie alla sua potenza creatrice Dio dà origine al mondo e a tutto ciò che in esso si trova: cielo e terra, monti, mari, fiumi, laghi, foreste, animali ecc. «Tutto è opera delle sue mani». Alla dottrina della creatio ex nihilo del mondo Agostino approdò poco prima della conversione, dopo che aveva compreso Yinsostenibilitàdella derivazione del mondo materiale da un principio primo cattivo, come sostenevano i manichei, oppure della emanazione dell'universo dall’Uno, come insegnavano i neoplatonici. Ma per conferire solidità filosofica, Cioè razionale, alla tesi della creazione doveva metterla al riparo dalle obiezioni che le muovevano sia i manichei sia i neoplatonici. Una delle obiezioni più frequenti riguardava il tempo della creazione. «Alcuni obiettano: se Dio ha fatto il cielo e la terra nel momento iniziale del tempo (in principio aliquo temporîs), che cosa faceva prima di produrre il cielo e la terra? E perché all'improvviso si è deciso di fare ciò che prima non aveva mai compiuto per tantissimo tempo (per tempora aeterna)». La replica di Agostino è pronta e precisa: «A costoro rispondiamo che prima del principio del tempo non esisteva nessun tempo. Dio infatti ha creato anche i tempi; e pertanto prima che facesse i tempi, non esistevano tempi. Pertanto non si può affermare che ci sia stato un tempo in cui Dio non si era ancora messo a creare. E come ci sarebbe stato un tempo che Dio non avrebbe prodotto, allorché lui è il fabbricatore di tutti i tempi? E poiché il tempo cominciò a esistere insieme al cielo e alla terra, non si può rinvenire alcun tempo in cui Dio non avesse ancora prodotto il cielo e la terramHO Sostanzialmente quella relativa al momento della creazione è, come rileva acutamente Agostino, una questione fasulla, basata sulla pretesa che possa esserci il tempo prima della creazione stessa. Cosa del tutto assurda e inammissibile, essendo il tempo una componente e una proprietà della creazione. Ma, nonostante la sua intrinseca fragilità, l'argomento doveva suscitare una notevole impressione sulle intelligenze culturalmente meno preparate. Per questo motivo Agostino lo affronta e lo critica in molti altri scritti oltre che nel De genesi contra Manicheos da cui abbiamo ripreso la precedente citazione. o
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14°)De genesi contra Manicheos l, 3.
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Agostino di Ippona
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Alla discussione di questo argomento Agostino dedica vari capitoli del Libro XI delle Confessioni. Riproduce anzitutto i termini della difficoltà: «Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se era in ozio e nulla produceva, perché non resto sempre così anche in seguito, come prima si era astenuto dal fare alcunché? Se poi sorse in Dio un nuovo moto, una volontà nuova di far esistere una creatura che prima non aveva creata, come può concepirsi una Vera eternità là dove sorge una volontà che prima non c'era?».141 Nella sua lunga e meditata replica Agostino fa le seguenti considerazioni: 1) La difficoltà merita una risposta seria e non semplicemente una battuta ironica: «Non rispondo come quel tale che, a quanto si racconta, eludendo scherzosamente la difficoltà della questione, disse: "Dio preparava l'inferno a coloro che vogliono indagare le cose troppo profonde". Infatti, altro è capire, altro scherzare>>fl42 2) Nella discussione di un argomento così difficile come questo occorre guardarsi dalle rappresentazioni fallaci della fantasia. Infatti «se qualcuno con fantasia volubile, gironzolando sulle immagini dei tempi passati, si meraviglia che tu, Dio onnipotente e creatore di tutto e possessore di ogni cosa, artefice del cielo e della terra, sia stato inattivo per innumerevoli secoli prima di creare un'opera così grande, stia ben attento, poiché la sua meraviglia si fonda su cose false» ;143 3) Tempo ed eternità sono realtà incomparabilìe incommensurabili.L'eternità non è semplicemente un tempo più lungo, senza inizio e senza fine, bensì un permanere immobileextra-tempus, al di sopra e al di fuori del tempo. L'eternità trascende assolutamente il tempo in ogni sua fase, non solo il passato ma anche il presente e il futuro. Noi abbiamo un concetto del tempo e non dell'eternità. «Chi potrà fermare e fissare l'attimo nell'immobilità,perché quell’istante rapisca lo splendore dell'eternità sempre ferma e immobile e paragonarla col tempo che mai si arresta e comprenderne Yincomparabilità? E possano vedere che il tempo non diventa un lungo tempo se non per una serie di istanti che passano e che non possono avere una durata simultanea; che, nell'eternità, invece, nulla passa, ma tutto è presente, mentre il tempo non può essere tutto presente, che ogni passato ‘e incalzato da un futuro e ogni futuro consegue a un passato, l'uno e l'altro si producono e scorrono da un presente che sempre è»;"4 4) Stando così le cose, l'obiezione è priva di qualsiasi fondamento, perché Dio è sempre attuale, sempre presente; ma senza essere vincolato a nessun presente e a nessun'altra
l41)C0nf. 11,10. 142)Hn'd., 12. 143)Ibid., 13.
î44)lbizi.,10.
196
Parte prinza
fase del tempo. Dal punto di vista di Dio, che è fuori del tempo ed è eterno, si potrebbe anche dire che l'universo è eterno 0 coeterno. Ma considerato in se stesso il mondo non può essere eterno, perché è necessariamente avvolto nel tempo, vincolato al tempo e soggetto a una durata limitata. Il tempo a sé stante, prima del mondo non può esserci. «E
se
che
il
anteriore al cielo e alla terra, perché si domanda tu allora facevi? Non esisteva l'allora, se non esisteva il Né tu precedi i tempi col tempo, diversamente non
tempo non è
cosa
precederetempi. Tu però precedi ogni passato con la grandezza della onnipotente eternità e trascendi ogni futuro perché il futuro, una tempo.
sti tutti i
volta arrivato, diventerà passato; tu invece sei sempre il medesimo e i tuoi anni non verranno mai meno. I tuoi anni non vanno né vengono; questi nostri, invece, vanno e vengono perché possano venire tutti. I tuoi anni stanno tutti fermi in un punto, perché stabili; né quelli che vanno sono incalzati da quelli che vengono, poiché non passano. Questi nostri invece saranno tutti, quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un sol giorno, e il tuo giorno non è Vogni giorno bensì l'oggi, poiché il tuo oggi non cede al domani e non succede a ieri. Il tuo oggi è l'eternità (...). Tu hai fatto tutti i tempi e tu sei prima di tutti i tempi, né ci fu alcun tempo senza tempo>>.l45 Per avvalorare il loro argomento contro la creazione nel tempo i manichei si appellavano al versetto biblico: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Ma Agostino non contesta l'interpretazione. Egli osserva che l'espressione ”in principio” non va intesa in senso "cronologico" bensì ”archeologico": essa si riferisce alla base "archetipica" di cui Dio si è servito per produrre il mondo, base (principio) che egli identifica con Verbo, il Logos, colui che già Filone aveva considerato come modello supremo d'ogni realtà e ricettacolo delle idee (essenze ideali) di tutte le cose. «In questo P rinciP i0”, o Dio, tu creasti il cielo e la terra, nel tuo Verbo, nel tuo Figlio, nella Virtu, Sapienza e Verita tua, mirabilmente ”
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parlando e mirabilmenteoperando».‘46
«In Lui non si termina ciò che è stato detto prima, per dire altre cose e per poter dire tutto; ma tutte simultaneamente sono dette eternamente. Altrimenti si avrebbe il tempo e il mutamento; non la vera eternità né la vera immortalità (...). Nulla perciò nel tuo Verbo passa, nulla sopravviene, poiché è veramente immortale ed eterno. Perciò col tuo Verbo, a te coetemo, tu dici in un punto, simultaneamente ed eternamente tutte le cose che dici; ed è fatto tutto quello che dici che sia fatto; ne’ lo fai altrimenti che dicendolo>>l47
145)Ibid., 13. 140mila, 9. 140117111, 7.
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conclusione, Dio nel creare il mondo non ha bisogno di nessuna materiale (di nessuna materia), mentre si avvale di una causa esemplare (un modello). Questa però non è una realtà esternaba Lui coln
causa
rispetto al Demiurgo di Platone 0 il Logos rispetto al Dio di Filone, ma è la stessa sostanza divina in quanto ipostatizzata nella se-
me
le Idee
conda Persona della Trinità, il Verbo. «Nulla avevi tra mano con cui fare il cielo e la terra; dove, infatti, avresti potuto prendere cosa da te non fatta per fare alcunché? Che cosa esiste se non perché tu esisti? Tu parlasti e furono fatte le cose ed è nel tuo Verbo che le hai fatte».148 LA
NATURA DEL TEMPO
Risolta la questione della creazione del mondo nel tempo e quella dei rapporti tra tempo ed eternità Agostino affronta la non meno spinosa questione della natura del tempo. Che cosa è il tempo in se stesso? Ecco come Agostino introduce la sua finissima discussione di questo problema: «Che cos'è il tempo? Chi potrà spiegare ciò con brevità e facilmente? Chi potrà afferrare col pensiero la nozione tanto da dirne una parola esatta? Eppure nei nostri discorsi quale idea ricorre più nota e familiare di quella del tempo? E quando ne parliamo, la comprendiamo bene, così quando ne sentiamo parlare da altri. Cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so. Tuttavia con sicurezza affermo di sapere che, se nulla passasse, non ci sarebbe il passato, se nulla avvenisse, non ci sarebbe il futuro; se nulla fosse, non ci sarebbe il presente>>fi49 Il tempo è qualche cosa che accompagna l'universo creato, ma in che modo? Il tempo, che consideriamo suddiviso in presente, passato e futuro che consistenza ontologica possiede? Esiste in se stesso, sia pure come immagine dell'eternità, come voleva Platone, o invece è piuttosto un'invenzione della mente per misurare il divenire delle cose come pensava
Aristotele?
Constatato che in se stessi non esistono né il passato né il futuro e che presente è talmente precaria da non avere alcuna durata, Agostino tende a fare della temporalità un dato strettamente legato all'uomo, alla sua capacità di ricordare il passato, di prevedere il futuro e di cogliere il presente. «È nel nostro spirito che si trovano in qualche modo questi tre tempi, mentre altrove non li vedo: il presente del passato, vale a dire la memoria, il presente del presente, cioè l'intuito, e il prela realtà del
Ì48)lbid.,5. 149)Ihid., 14.
198
Parte prima
sente del
futuro, cioè l’attesa>>.15U Il tempo ‘e pertanto nell'anima che è il
luogo della sua misurazione: «Gli è in te, o anima mia, che io misuro il tempo (m). L'impressione che le cose fanno in te nel passare e in te rimane quando sono passate è questa che io misuro presente, non le cose che sono passate, in modo da riprodurvela. È questa che io misuro, quando
misuro il tempomm Nella soluzione agostiniana del problema del tempo, riemerge quel primato della memoria che abbiamo già incontrato nella trattazione del problema della conoscenza. Là si è visto che alle due facoltà spirituali che si è soliti assegnare all'uomo, l'intelletto e la volontà, Agostino ne affianca una terza, la memoria, alla quale riconosce una priorità di valore non solo nell'ordine noetico, ma anche in quello affettivo rispetto alle altre due. Tale priorità è motivata dal fatto che la lux quaedanz ÌHCOTPOYEQ che proietta sul fondo dello spirito le idee primarie (innatae) e le verità
eterne, le
anche
deposita nella memoria, dove operano oltre che come certezze stimoli o pulsioni primordiali che presiedono all'attività
come
della volontà e del liberum arbitrium. Oltre che sul fronte delle verità eterne la memoria opera anche (e, secondo il modo comune di vedere, prevalentemente) sul fronte delle Verità temporali: essa fa tesoro non solo di ciò che cade su di essa attraverso la illuminazione, ma anche di quanto l'uomo esperisce, subisce, apprende, sviluppa, capta e acquisisce col trascorrere del tempo. Il tempo e i frutti del tempo, prodotti dall’intelletto e dalla volontà non vanno dispersi e questo proprio grazie alla memoria. La dimensione storica dell'uomo si consolida, si dilata, si sviluppa, proprio grazie a questa facoltà. Ma la memoria, secondo la concezione di Agostino, fa qualche cosa di più ancora: riscatta l'uomo dal tempo, così come il libero arbitrio lo riscatta dalla necessità. La memoria rappresenta la capacità che l'uomo ha di elevarsi al di sopra del flusso temporale pur restando all'interno dello sviluppo temporale stesso: essa prova con altrettanta sicurezza non solo che l'uomo è nel tempo, ma anche che il tempo è nell'uomo. Grazie alla memoria, «l'uomo può scegliere, se vuole, di rovesciare una corrente della storia presente in favore di qualche corrente precedente; può, se lo desidera, cercare asilo dai tumulti del presente in un periodo passato della storia, o usare il ricordo di una passata innocenza per proiettarlo in un futuro caratterizzato così da una maggiore Virtù. In breve, la memoria è per l'uomo il fulcro della libertà nella storia».152
15°)Ibid,, 20. 151)1bid., 27. 152) R. NIEBUHR, Fede e storia, tr. ìt., Bologna 1966, p. 29.
Agostino di Ippona
199
Dalla memoria l'uomo deriva, oltre che la sua sovranità sul tempo, proprio destino. Infatti ciò che il tempo deposita della memoria non si riduce a un semplice ricordo, ma diventa una sedimentazione di esperienze che decidono dello sviluppo della propria personalità. Infatti il passato è presente non solo nella nostra memoria che ricorda i suoi eventi passati, ma anche nella consequenzialità degli eventi che il passato conclude e depone sulla soglia del presente. «Così il complesso degli eventi che costituiscono la storia rappresenta una stupefacente confusione di destino e di libertà che non si conforma né agli schemi di una coerenza logica, né a quelli di una coerenza naturale: questi eventi sono compresi come una unità della memoria, ma non della logica».153 Pertanto rispetto allo sviluppo della persona la memoria è a un tempo principio di libertà e di destino: la rende sovrana del passato grazie al ricordo, ma anche suddita delle abitudini (buone o cattive) acquisite attraverso il tempo mediante la ripetizione degli stessi atti. Resa grande nella misura in cui col tempo la persona realizza se stessa, ma resa anche piccola man mano che prende coscienza della fuggevolezza, della transitorietà del proprio tempo e si rende conto di essere un viven-
anche parte del
te mortale.154
La memoria, misura del tempo, dà ad Agostino anche il senso della pochezza di tempo di cui l'uomo dispone e di conseguenza della pro-
pria mortalità. «La morte non è per l'uomo solo morire, un evento estra-
alla vita nel suo durare; ma è insieme e soprattutto ntortalità: un incessante, interno finire del proprio essere, un continuo morire e nonessere più ciò che si era. Incessante ”corsa alla morte”, l'essere temporale dell'uomo è intrinsecamente corroso esso stesso dalla morte come ”mortalità”: non solo è un ”cursus ad ntortcnz” (De civ. Dei 13, 10), ma è anche un "cursus nzortalitatis" (In psalmuvn 109, 20). Se la morte come evento sta alla fine, la morte come mortalità sta dentro la vìta».î55 Al carattere temporale, storico, mortale dell'essere umano la geniale penna di Agostino ha dedicato pagine davvero "immortali"; ad esempio quelle del capitolo decimo del XIII Libro del De civitate Dei, che hanno per titolo "La vita dei mortali deve chiamarsi piuttosto morte che vita”. Esse meritano d'essere riferite integralmente: neo
«Dal momento in cui ciascuno ha cominciato a esistere in questo corpo mortale, non avviene nulla in lui che non prepari la venuta della morte. Infatti, l'instabilità del nostro essere, in tutto il tempo della vita (se vita si può dire), non fa altro che spingere alla morte.
153)lbid.,pp. 30-31. î54)Cf. De ordine 2, 11, 31; De Trin. 7, 4, 7. l55)A. DI GIOVANNI, Mortalità ed essere in S. Agostino, Palermo 1975, pp. 50-51.
200
Parte prinza
Non vi è nessuno che, dopo un anno non sia più vicino alla morte dell'anno precedente, domani più di oggi, oggi più di ieri, Yistante dopo più dell'istante prima, il momento presente più di quello che è passato. Ogni tempo che si vive, viene sottratto da quello che si deve vivere, e ogni giorno diminuisce quello che resta; onde il tempo di questa vita non è altro che una corsa verso la morte, corsa nella quale non e possibile arrestarsi né rallentare, ma tutti sono trasportati da uno stesso movimento ed è eguale l'intensità del moto. E chi visse una vita più breve non ebbe i giorni più veloci di colui che la visse più lunga; ma la medesima sottrazione di momenti uguali, tolti all'uno e all'altro, dimostra che il termine era più vicino per l'uno e più distante per l'altro, poiché entrambi correvano con eguale velocità. Altro, infatti, è percor-
lunga e altro camminare più lentamente. Chi dunque maggior spazio di tempo prima della morte non cammina più lentamente, ma percorre una via più lunga. Ora, se ciascuno comincia a morire, cioè a essere nella morte (esse in morte), fin da quando comincia a operare in lui la rnorte, ossia la sottrazione della vita (poiché quando questa sarà completamente sottratta non si sarà ”nella morte” ma ”dopo la morte"), ognuno è ”nella morte" fin da quando comincia ad essere in questo corpo. Che si fa nei giorni, nelle ore, nei singoli momenti, finché essi non finiscano e si compia la morte che si stava formando, e incominci il tempo del ”dopo morte", il quale, mentre veniva sottratta la vita, era già nella morte? L'uomo perciò se non può rere una
ha
via più
un
nello stesso tempo vivente e morente, non è mai nella vita, finché si trova in questo corpo più morente che vivente. O piuttosto, è forse contemporaneamente nella vita e nella morte: nella vita, in cui vive, finché non gli sia tutta tolta, e nella morte per la quale muore quando gli vien tolta la vita? Se infatti non è in vita, che cos'è ciò che gli vien tolto finché in lui non sia completa la distruzione? E se non è neppure nella morte, che cos'è la distruzione stessa della vita? Infatti quando vien tolta tutta la vita al corpo, si dice che è ”dopo morte” (post nzortcm), perché è sopraggiunta la morte mentre la vita si sottraeva. Poiché se, finita la vita, l'uomo non è ”ne1la morte”, ma ”dopo morte”, quando sarà nella morte, se non quando viene tolta la vita?».156
essere
umano e il senso della analizzati ancora più a fondo da Agostino nel Commento ai Salmi. Là egli mette a diretto confronto la
La dimensione temporale e storica dell'essere
morte cui è inesorabilmentesoggetto sono
transitorietà del tempo cui siamo soggetti e a cui vorremmo sottrarci, con la permanenza, la stabilità, Yimmobilità,la perennità del vero Essere a cui tendiamo e che vorremmo raggiungere. «(Nella nostra vita) tutto è rapito in istanti fuggenti, scorre il torrente delle cose (...). Questi giorni dunque non sono. Se ne vanno quasi prima di venire. Venuti, non possono stare: si congiungono, si susseguono e non si arrestano. Nulla del
155) De civ, Dei 13, 10.
Agostino di Ippona
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passato ritorna. il futuro si aspetta che passi: finché non venga non lo si ha, venuto non lo si tiene. "Il numero dei miei giorni qual è" dunque? Non questo che non è e, ciò che mi turba con più difficoltà e pericolo, è e
non è: infatti non possiamo dire che è ciò che non sta, né che non e ciò che viene e passa. L'È semplice io cerco, l'È vero, l’È autentico, l’È (...)
dove non ci sarà morte, né venir meno, né giorno che passa, ma quello che resta, che né lo ieri preceda né il domani sospinga»,î57 Queste finissime considerazioni del sommo dottore africano sulla
intrinseca caducità dell'essere umano, preda della morte lungo il suo intero percorso, non vanno prese come alternative a quelle altre considerazioni altrettanto acute e profonde che egli svolge intorno alla immortalità dell'uomo interiore, bensì come complementari e integrative di queste. Mentre in effetti, nella filosofia agostiniana, la vita dell'uomo esteriore è inesorabilmente segnata dalla mortalità, la Vita dell'uomo interiore è consacrata alla immortalità, sin dal suo inizio, anche se viene conseguita effettivamente soltanto dopo la morte dell'uomo esteriore.
Il. DIVENRE DEL COSMO Il divenire del cosmo è un problema che si presta (come in effetti è stato nella storia del pensiero) a molte soluzioni. Tutto dipende dalla visione generale delle cose da cui si parte. In una visuale materialistica, in cui il mondo stesso è l’assoluto, il suo divenire non può essere regolato che da leggi immanenti, meccanicistiche, necessarie. Invece in una visuale la quale, oltre alla realtà del mondo spazi0—temporale, contempla pure la presenza di un mondo spirituale e divino e riconosce la subordinazione del primo al secondo, il divenire del cosmo trova la sua principale ragion ‘d'essere in Dio. Sennonché anche l'intervento di Dio nel divenire del cosmo può essere inteso in svariati modi. Dalla storia della filosofia sappiamo che Platone, Filone e i Neoplatonici l'avevano concepito non come un intervento diretto e incessante dell'Essere suprem0 (il Demiurgo, Dio, l'Uno) bensì come un intervento mediato, attraverso le Potenze, il Logos, i demoni ecc. Agostino seguendo l'esempio dei filosofi cristiani che l'avevano preceduto, mette da parte tutta questa schiera di mediatori, concedendo peraltro ampio spazio di intervento ai demonil-‘îfi e affida il divenire del
157)Enarr. in Ps. 38, 7. 155) La demonologia e un argomento che nella cosmologia agostiniana occupa un posto di grande rilievo. Si vedano a questo proposito i libri VIII-XI del De cioitate Dei. Agostino crede nei demoni e nel loro potere sugli uomini, anche se trova esagerato il ruolo che viene loro assegnato da Varrone, Porfirio e Apuleio. Cf. K. IASPERS, _
0p. cit, pp. 430 ss.
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Parte prima
mondo
a una
specie
di ”codice
genetico", a
cui dà il
nome
di rationes
seminales, impresse nelle cose direttamente da Dio. Sono questi princìpi fondamentali, voluti e creati da Dio, che provvedono ai movimenti degli astri, al succedersi delle stagioni, allo sviluppo delle piante e degli animali, alla generazione dei figli, ecc. Ecco come Ylpponate formula questa
celebre tesi del De Trinitate.
cose che noi vediamo sono già state create oriin una specie di trama degli elefondamentalmente ginariamente menti, ma soltanto quando ci sono le occasioni favorevoli vengono fuori. Infatti, come le madri sono gravide della loro prole, cosi il mondo stesso è gravido dei principi delle cose che nascono, princìpi che non vengono creati nel mondo se non da quella suprema Essenza, nella quale nulla nasce, nulla muore. Invece applicare esternamente le cause contingenti, che sebbene non naturali, tuttavia si applicano in armonia con la natura, per trarne fuori in qualche modo dal profondo seno della natura gli esseri che esso tiene nascosti e in qualche modo crearli esteriormente con il dispiegamento delle loro misure, numeri e pesi che essi hanno ricevuto segretamente da colui che ha "ordinato ogni cosa con misura ordine e peso" (Sap ll, 21), è possibilenon solo agli angeli cattivi ma anche agli uomini cattivi»)?
«Senza dubbio tutte le e
L'ambito di azione delle cause seconde, ossia l'intervento delle creature nel divenire delle cose, pur così ricco e vario: l'acqua, l'aria e la luce che fanno crescere le piante e mantengono in vita gli animali e gli uomini; le piante che producono rami, foglie e frutti, gli animali che corrono per i prati e per i boschi, brucano l'erba o divorano altri animali più piccoli, si moltiplicano ecc., secondo Agostino si riduce a ben poca cosa. Il loro apporto è talmente condizionato e sostanziati) dalle rationes seminales da contribuire minimamente alla produzione dei loro effetti. La causa agente principale e primaria rimane sempre Dio: creationem rerum visibilium Deus interius operaturflbv Le rationes semitmles assicurano al mondo quellbrdine complesso e meraviglioso che in esso si manifesta come sua immediata caratteristica. Il termine ordo per Agostino significa la disposizione razionale o intelligente che si ritrova nelle cose di questo mondo sia fisico (il mormorio delle acque) sia animale (la cura materna della chioccia). Nel dia-
159)De Trin. 3, 9, 16. 16°)La dottrina delle rationes seminales è stata oggetto di numerosi studi e discussioni, anche in tempi recenti. Vedi in particolare CH. Borea, Essais anciens et nouveaux sur la doctrine de saint Augustin, Milano 1970, pp. 35-69; A. MITTFRER, Die Entuvickluvrgslehre Augustins in: Vergleich mit dem Weltbild des hl. Thomas und dem der Gegenzuart, Wien-Freiburg 1956.
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Ippona si propone di rinvenire la ragione giustificazione ideale dell'ordine che regna in questo mondo. Esaminata e scartata l'ipotesi che l'ordine sia frutto del caso, Agostino dimostra che l'unica giustificazioneadeguata la può fornire un ordinatore supremo, Dio. E quanto abbiamo Visto più sopra esaminando il problema di Dio. De ordine il Dottore di
sufficiente
e
la
Sennonché nel mondo da noi conosciuto oltre che un ordine naturale, regolato dalle rationes senrinales, esiste anche un universo culturale e storico, dove spesso fa la sua comparsa il disordine, l'insuccesso, il vizio, il male. In che cosa consiste effettivamente il disordine, il male e quale è la sua radice, causa, ragione ultima? Questo è uno di quei problemi scottanti e ineludibiliche stuzzicano e tutto
pungolano la ragione umana, e con cui si sono cimentati praticamente tutti i grandi letterati, drammaturghi, poeti, romanzieri, filosofi e teologi dell'antichità fino ai giorni nostri. L'intervento di Agostino nella discussione di questo problema come di molti altri è stato decisivo ed ebbe un peso determinante sugli sviluppi della civiltà cristiana medievale. L'ORDINE METAFISICO E
IL PROBLEMA DEL MALE
Agostino aveva fatto esperienza del male sia fisico sia morale fin da piccolo. Una malattia l'aveva portato sull'orlo della tomba quando aveva ancora pochi mesi; malattie d'ogni genere lo accompagnarono quasi ininterrottamente anche da adulto. La morte colpì impietosa nel fiore della gioventù l'amico che gli era più caro e gli strappò Famatissi-
figlio Adeodato ancora in tenera età. Del male morale aveva fatto una prima esperienza col giovanile furto delle pere, reso famoso dal racconto nelle Confessioni, compiuto per pura malizia; in seguito ne aveva mo
assaporato la terribile potenza cedendo alle irresistibili insidie della
alla insaziabilebrama degli onori. Tentando di giungere a una spiegazione del problema del male Agostino accolse in un primo tempo la soluzione più semplice, che era quella dei manichei, i quali ponevano all'origine di tutto ciò che è buono un principio supremamente buono, il Bene, e all'origine di tutto ciò che è cattivo un principio supremamente maligno, il Male. Successivamente, uscito dalla setta dei manichei, per qualche tempo fece sua la posizione dei neoplatonici che collegavano il male essenzialmente con la materia. Poi, con la conversione, il quadro gli si chiari del tutto e definitivamente, disponendo in modo diverso gli elementi con cui i manichei e i neoplatonici avevano tentato di spiegare l'ordine metafisico dell'universo. Dai manichei riprese la concezione del doppio principio dell'ordine universale, uno per il bene e uno per il male, e diversamente dai manichei non carne e
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Parte prima
ne fece due principi supremi ma subalternati. Principio supremo ‘e uno solo ed è il principio del Bene, ossia Dio, il principio subalternato da cui procede anche il male è la creatura intelligente e libera (gli angeli e l’u0— mo). Dai neoplatonici riprese la nozione della natura propria del male: il quale non ha una consistenza propria, autonoma, non è una sostanza, ma è una privatio beni, la mancanza di qualche cosa che deve esserci, un vizio. Ecco due testi tra i più celebri in cui Agostino formula chiaramente il suo Concetto di male. I1 primo è tratto dalle Confessioni, il secondo dal De civitate Dei.
«Mi fu chiaro allora che le cose buone possono corrompersi; non lo potrebbero se fossero buone in sommo grado o altro non fossero che buone, perché se fossero buone in sommo grado sarebbero incorrutti-
bili e se non esistessero, nulla ci sarebbe da corrompere. Infatti la corruzione è difetto, e non sarebbe difetto se il bene non diminuisse. Dunque: o la corruzione non è difetto, il che è impossibile, oppure, ed è molto certo, ogni cosa che si corrompe viene privata di bene (omnia quae corrumpurxtur p-rivantur bono). Se si sono private di tutto il bene più non potranno esistere. Se invece esistono ma senza possibilità di
corruzione, saranno migliori poiché rimarranno incorruttibili.Quale asserzione più mostruosa che Paffermare che quelle cose che sono state totalmente private di bene non potranno più esistere ma finché
esistono sono buone. Quindi ogni cosa che esiste è buona (quaecumque sunl, bona szmt). Il male dunque di cui cercavo l'origine non è una
(nzalunz non est substantia), perché qualora fosse una sostanza sarebbe un bene e sarebbe o una sostanza incorruttibile e quindi un gran bene, o una sostanza corruttibile e perciò un bene, altrimenti non potrebbe corrompersi. Vidi perciò chiaramente che tu hai fatto buone tutte le cose e non c'e nessuna sostanza che tu non abbia fatta. E poiché non hai fatto tu le cose eguali, esistono tutte in quanto sono singolarmente buone e nel complesso sono buonissime, poiché tu, o Dio, hai fatto più che buona ogni cosa».161 sostanza
«Il male, dunque, non nuoce a Dio, ma alle nature mutevoli e corruttibili,le quali, come testimoniano i vizi stessi, sono buone. Se non fossero buone, i vizi non potrebbero far loro del male. E che altro fanno nuocendo, se non togliere l'integrità, la bellezza, la salute, la virtù e quanto di bene può essere tolto o diminuito alla natura? Se non vi fosse il bene non vi sarebbe neppure il difetto, perché, non togliendo nulla alla creatura, non le nuocerebbe. Il vizio infatti non può esistere senza nuocere. Ne segue perciò che il vizio non può nuocere al bene immutabile, ma può nuocere a un bene mutabile, non potendo esistere senza nuocere. La qual cosa si può esprimere anche così: il vizio
léÙConf. 7, 12.
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non può trovarsi nel sommo Bene, ma non si trova che nel bene. I soli beni dunque possono esistere in qualche luogo; il male in nessuno, perché le nature Viziate dalla cattiva volontà sono cattive in quanto sono viziate, ma in quanto sono nature sono buone».'62
Disponendo di questi tre saldi postulati teoretici: unicità e bontà del principio supremo, Dio; fallibilitàe libertà del principio subalternato (angeli, uomo); e la nozione di male inteso come privazione, come vizio, come difetto Agostino può prospettare una soluzione dell'origine, ossia della causa del male, che risulta tra le più appaganti per la nostra intelligenza, anche se non riesce a dissipare tutte le ombre che si addensano su questo complesso e drammatico problema. Ridotta ai minimi termini la soluzione di Agostino è la seguente. L'ordine universale, avendo come principio primo il Bene, non può non essere buono. Quanto vi si infiltra di non buono e prodotto dall'uomo (o da qualche altra creatura intelligente: i demoni), il quale, come realtà subalterna, non può mai intaccare seriamente l'ordine generale, anzi, tutto sommato, lo rende ancor più sorprendente e meraviglioso, perché il male che vi introduce, con le sue ombre e i suoi contrasti, contribuisce a fare risaltare meglio le linee del bene e dell'ordine. Infatti,
Dio, pur
non causando il male lui stesso, nella sua onniscienza e potenlo fa rientrare nell'ordine generale delle cose. «Nulla può avvenire za, fuori dell'ordinamento divino. Il male, quanto all'origine, l'ha avuta fuori dell'ordinamento divino, ma la giustizia divina non ha lasciato che rimanesse fuori dell'ordinamento e l'ha ricondotto e costretto a rientrare nella legge che gli è competente>>.163 Alla fine del De quantitate animpae, Agostino abbozza a grandi e chiare linee la sua concezione del cosmo, in cui l'ordine trionfa anche sul male.
«Dio ha giudicato che è sovrana espressione di armonia che ogni esistente sia com'è e sia disposto in differenti ordini naturali. Non si ha pertanto da nessuna parte la dissonanza che turba chi riflette sull'universo. Inoltre ogni pena e ogni premio dell'anima conferiscono sempre qualche cosa in egual misura alla giusta armonia e all'ordine di tutta la realtà. All’anima è stato dato il libero arbitrio. Vi sono alcuni che con futili argomentazioni tentano di demolirlo. Sono ciechi al punto da non capire che non potrebbero neanche sostenere tale tesi inconsistente e sacrilega senza una volontà autonoma. Tuttavia il libero arbitrio non è stato dato all'anima perché, sconvolgendo con esso qualche aspetto della realtà, turbi una parte della divina legge e dell'ordine. E stato dato appunto dal dominatore sommamenessere
162)De civ. Dei 12, 3. 153)De ordine 2, 7, 23.
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Parte prima
sapiente e invitto di tutto il creato. Ma è di pochi intuire tale verità, intuita, e non si diviene capaci di tanto se non con la vera religione. E vera religione quella con cui l'anima, mediante la riconciliazione si lega di nuovo a Dio, dal quale s'era disciolta, per così dire, col peccato>>.164
te
come va
Sennonché, a questo punto, nasce una nuova difficoltà, quella dell'opportunità da parte di Dio, creatore dell'universo, di includere tra le
capace di ribellarsi a Lui e di produrre tanti guasti e calamità. E il problema che Agostino affronta e discute attentamente nel De libero arbitrio. Innanzitutto ammette come un fatto certo che la libertà, pur avendo il potere di fare il male, in se stessa è un bene. Anzi, è un bene grandissimo, di gran lunga superiore a qualsiasi altro bene appartenente alla nostra corporeità, poiché è la condizione della moralità. Se l'agire uma-
sue
creature
no non
ancheìun
essere
fosse libero, non
potrebbe essere né approvato né disapprovato;
sarebbe quello che è e basta. Solo se c'è libertà si può parlare di Virtù e di vizio, di merito e di demerito, di premio e di castigo. Diremo allora che il male è necessario e rientra nell'ordine divino? «Rispondo: non il peccato o i peccatori sono necessari alla perfezione, ma le anime in quanto sono anime, e, in quanto sono tali, se vogliono peccano, e se peccano diventano infelici».165 E a Chi volesse ancora insistere e domandasse con impertinenza: ma non sarebbe stato meglio un universo in cui non ci fosse il male e perché Dio non l'ha creato? Agostino replica che queste domande presuppongono che noi conosciamo l'universo meglio di Dio e pretendiamo di fargli da maestri. E questo è certamente un po’ troppo!
Il problema antropologico Non solo in sede scientifica ma anche, e a fortiori, in sede filosofica l'uomo è sempre stato il luogo in cui si sono originati e intrecciati nume-
problemi: quello gnoseologico, psicologico, politico, morale, religioso, culturale, sociale, assiologìco, metafisico. Su tutti questi Agostino ha avanzato soluzioni personali che hanno esercitato un profondo influsso non solo sul medioevo, ma anche sull’epoca moderna. Di tutti questi problemi, nel presente studio, ci interessa soltanto quello metafisico, vale a dire il problema della natura dell'essere umano, la sua costituzione ontologica, la sua origine e il suo ultimo destinofléé Essenzialmente è il problema dell’anima e dei suoi rapporti col corpo. Anche su questo punto rosi
T54) De quanl‘. animrîe 36, 80. “'5)De1ib.arb. 3, 13. 166)Cf. De Trin. 15, l, l.
Agostino di Ippona
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Agostino segue sostanzialmente il modello platonico, ma apportandovi importanti modifiche, che gli vengono suggerite dal cristianesimoflò? Molti e ardui sono i problemi che investono l'anima e che la metafisica classica aveva già affrontato e in molti casi anche risolto prima di Agostino. Questi nel De quantitate animae segnala come prioritari i seguenti: «l'origine dell'anima, le sue proprietà, la sua grandezza, la ragione
della
sua
unione C01 corpo, la
sua
condizione nell'unione col corpo
e
dopo la separazionemlfifi Si tratta di sei questioni di capitale importanza su cui Agostino ha riflettuto a lungo, scrivendo numerose opere, modificando talvolta le proprie posizioni, cercando soluzioni che fossero a un tempo razionalmente più robuste e pienamente Conformi agli insegnamenti del cristianesimo. Così, schematicamente si può dire che prima della "svolta teologica" la sua antropologia è molto più platonica che cristiana, mentre dopo la conversione alla teologia la situazione si rovescia: essa diviene rigorosamente cristiana assumendo dal platonismo soltanto una certa impostazione dei problemi e un certo tipo di linguaggio. LA NATURA DELL'ANIMA Sebbene nell'elenco del De quantitate animare figuri al primo posto il problema dell'origine dell'anima (Linde sit), tuttavia più a monte si deve porre la questione della sua definizione. Che cos'è l'anima? Una sostanza oppure un accidente? Una parte di un tutto oppure un tutto? Un tutto composto di parti oppure una realtà semplice? Agostino sa bene che questo è l'interrogativo numero uno e per questo, in ossequio alla iogica, apro il De quantitate animae chiarendo che cos'è l'anima. L'anima, afferma perentoriamente Agostino, è dotata di una natura sua propria, cioè di un'essenza che non è scomponibile in parti, di cui ciascuna sia in grado di sussistere per conto proprio. «Essa è concepita come qualche cosa di semplice dotata di una propria sussistenza>>fl69 E così a chi gli Chiede una definizione dell'anima (animus), Agostino offre la seguente: «Se vuoi la definizione dell'anima e mi chiedi che cosa essa sia, risponderò senza difficoltà. È mia teoria che l'anima e una sostanza dotata di pensiero e ordinata a governare il corpo».170
167)Su1 pensiero antropologico di Agostino si veda P. MARCOS DEL Rio, El compuesto humano scgun S. Agustin, Escorial 1931; G. MANCINI, La psicologia di S. Agostino e i suoi elenzenti neoplatonici, Napoli 1938; R. SCHNEIDER, Seele und Sein, Ontologie bei Aztgustin und Aristoteles, Stuttgart 1957. 1"8)«Quaer0 igitur zmde sit anima, qualis sit, quanta sit, cur corporifuerit data, et cum ad corpus venerit qualis efiiciatur, qualis cum abscesserit» (De aguunt. animae 1, 1). 169)De quant. animae 1, 2. 17°)lbid.,13, 22.
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Parte prinza
distinta da Dio. Agostino critica la secondo l'anima della medesima cui è sostanza di Dio, non solo dottrina in quanto è blasferna significa infatti concepire Dio come mutevole, imperfetto, peccatore -, ma anche perché essa Viene a negare la personalità dell'anima: tutte le anime sarebbero un'identica animaJ" In quanto dotata di pensiero essa coglie immediatamente la propria essenza e si riconosce «distinta da qualsivoglia altra cosa conosciutamm Ciascuno di noi sa, per esperienza interiore, che, astraendodal tutto, resta alcunché di conosciuto per se, ed è questo l'essenza dell'anima. È quanto Agostino evidenzia egregiamente attraverso la sua finissima analisi dell'autocoscienza. Quando si dice all'anima: «conosci tc stessa», se lo si intende bene, si comprende che essa già si conosce qual è, per la sola ragione che è presente a se stessa: «niente aggiunge la mente a ciò che conosce di se stessa quando si dispone a con0scersi».173 Non sarebbe presente a se stessa se non sapesse di esserlo, ma questo sapere e già sapersi come una essenza che è, vive e sa di essere e di vivere, e ama il proprio essere, vivere e conoscere. È dunque rivclativo dell'essenza dell'anima l'atto stesso con cui la mente si conosce, atto assolutamente suo, indipendente da qualsiasi apporto esterno. Essa è effettivamente «sostanza dotata di pensiero», anche se ordinata a possedere e governare un corpo. In
quanto sussistente, l'anima è -
ORIGINE DELL'ANIMA Nella definizione della natura dell'anima è già implicita la risposta alla questione relativa alla sua origine: essendo una sostanza distinta da Dio, in definitiva, essa non può avere origine che per creazione: «Dio stesso ha prodotto questa sua natura propria in sé, come pure quelle del fuoco, dell'aria, dell'acqua e della terra».174 Che l'anima abbia origine da Dio per Agostino è un punto fermo: «Credo che Dio stesso è come la casa paterna, la patria dell'anima perché da lui è stata creata».175 «Iddio creò l'uomo a sua immagine e gli diede un'anima tale che, per ragione e intelligenza, fosse superiore a quella di tutti gli animali terrestri, acquatici e volatili,i quali non hanno la ragione».176 L'intervento diretto c immediato di Dio è necessario sicuramente per la creazione dell'anima come natura, come specie e per
171)Cf. De un. et eius orig. 1, 9, 32. 172)De Trin. 10, 9, I2. 173)H9id., 10, 13. 174)De quanf. animae 1, 2. l75)lbid. 176)De civ. Dei 12, 23.
Agostino di Ippona
quella
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dell'anima del primo uomo, ma vale anche per gli altri uomini, per tutti i singoli discendenti di Adamo? Le loro anime sono pure create immediatamente, direttamente da Dio? Ai tempi di Agostino su tale questione circolavano quattro soluzioni: preesistenza, origine per discendenza (traducianesimo), origine per caduta, creazione individuale. Agostino non riuscì mai a pronunciarsi risolutamente a favore di una di queste tesi: «Di queste quattro teorie sull’anima, e cioè se le anime hanno origine per discendenza, se sono create nei singoli individui che nascono, se già preesistenti altrove sono da Dio mandate nei corpi degli individui che nascono, ovvero se vi cadono, per proprio impulso, non si deve affermare nessuna pregiudizialmentew” D'altronde gli pareva una questione tutto sommato secondaria, su cui e consentito errare senza incorrere in conseguenze rovinose; cosa che accade invece quando si erra intorno a Dio. Infatti «non ci si espone a nessun pericolo se penseremo della creatura qualche cosa di diverso da quello che è, purché non lo riteniamo come conoscenza certa. Tanto è vero che per essere felici non ci si comanda di tendere alla creatura ma allo stesso Creatore. E se su di Lui ci facciamo un'idea differente da quel che conviene e diversa da quel che in effetti è, ci lasciamo ingannare da un errore rovinoso. Non si può giungere alla felicità (beatam vitam) se ci muoviamo verso qualche cosa che o non esiste o se esiste, non rende felicil>>J7fi Nella maturità, tornando a riflettere su questo problema Agostino scoprì che la tesi della preesistenza delle anime e, implicitamente, anche quella della loro caduta e l'unione con il corpo non possedevano nessuna solidità e le abbandonofl? Non riuscì invece mai a vincere la sua perplessità nei confronti delle altre due soluzioni: creazione diretta individuale e traducianesìmo. Ancora nelle Ritrattazioni, uno degli ultimi Scritti, confessa: «Per quello che riguarda l'origine dell'anima sapevo che era stata fatta per essere unita al corpo, ma non sapevo allora (al tempo della composizione del Contra Academicos), come non so adesso, se essa discenda dal primo uomo oppure se continuamente venga creata singolarmente per ciascun individuowflo ln linea di principio trovava più plausibilel'ultima soluzione (creazione individuale),ma neppure questa lo Convinceva pienamente, in quanto gli risultava difficilmenteconciliabile con la dottrina della trasmissione del peccato originale: come può uscire qualche cosa di contaminato dalle mani di Dio? Tale difficoltà verrebbe eliminata ricorrendo all'ipotesi che le anime passino dai padri
177)De lib. arb. 3, 21, 59. mmbid, 179)Cf. De CÎU. Dei 10, 31. lgfÙRetract. 1, 1; cf. anche 2, 56.
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Parte prima
nei figli mediante generazione spirituale per il tramite di un seme incorporeo (traducìanesimo spirituale). Ma nemmeno questa soluzione persuade Agostino, giacché, per quanto si sforzi, non riesce a comprendere «in che modo l'anima possa essere formata da quella paterna, così come una fiamma si accende da un'altra fiamma, senza che colui che comunica la luce perda niente della sua. Al momento dell'atto generativo, Vi è una via segreta e invisibile per la quale il germe incorporeo di un'anima passi dal padre nella madre? E, ciò che è più incredibile, questo germe incorporeo dell'anima sarebbe nascosto nel germe del corpo?>>.““1 Agostino pensa che per tale questione, come per altre assai complesse e difficili, l'uomo non deve vergognarsi di confessare la propria ignoranza.
PROPRIETÀ DELL'ANIMA
Defìnita l'anima come «natura dotata di pensiero», non si possono non assegnare ad essa alcune proprietà che sono fondate direttamente sulla sua essenza, quali la semplicità, la spiritualità, la incorruttibilità (immortalità), la libertà, la familiarità col mondo dello spirito e, di conseguenza, la sua somiglianza con Dio (imago Dei). Della libertà dello spirito umano si è già detto; della immortalità e dellîmagu Dei si parlerà più avanti. Qui ci soffermeremo a illustrare il pensiero di Agostino sulla semplicità e sulla spiritualità dell'anima che egli stesso pone al primo posto nell'elenco delle sue caratteristiche essenziali. Trattando della semplicità e della spiritualità, Agostino non si limita
estrapolarle (con un procedimento deduttivo) dalla natura dell'anima, ma cerca di provarle rigorosamente attraverso procedimenti talora persino eccessivamente sottili (come nel De quantitate animare, per dimostrare la semplicità) prendendo in esame varie attività dell'anima, soprattut-
a
to Yautocoscienza.
semplice, in quanto è inestesa, ed è inestesa perché «non è solida o soggetta ad altre proprietà che di solito si esaminalunga, larga, dei corpiw“? Ma fino a questo punto l'anima deldimensioni no nelle l'uomo non si distingue affatto dall'anima dei bruti perché anch'essa è inestesa e quindi semplice. Ciò che ha di singolare l'anima umana è di essere, oltre che inestesa anche spirituale, e questa qualità le appartiene in quanto è dotata di pensiero, ciò che i bruti non hanno. L'anima è
mÙEpist. 190, 4,
14. Vedi inoltre: De anima et eius
Opus imp, c. [all'anima 2, 168.
132)De quant. unimae 3, 4.
orig. 4, 2;
De Ceri. ad litt.
10, 21;
Agostino di Ipporza
211
Espressioni del pensiero che attestano la natura spirituale dell'anima sono: la percezione delle Verità-eterne (le idee di verità, giustizia, bellezza, bontà, perfezione ecc.), l'apprensione dei princìpi primi, l'autocescienza che l'anima realizza mediante la ratio superior. Sono tutte conoche l'anima realizza senza il concorso dei sensi, senza alcun rapporto col corpo, col mondo della materia. È un agire assolutamente spiscenze
rituale in direzione di
un
mondo essenzialmente immateriale, immuta-
bile, eterno.
L'argomento su cui Agostino fa maggiormente leva per dimostrare la spiritualità dell'anima è quello dell’autoc0scienza. Già nel giovanile De quantitate animata aveva intravisto nell'autocoscienza un documento importante a favore della spiritualità, ma non l'aveva sfruttato perché lo riteneva di difficile comprensione. Allora scriveva:
«A pochi è concesso vedere lo spirito con lo spirito (paucis Iicet ipsa anima arzimum cernere), cioè che lo spirito veda se stesso. Si vede mediante l'intelligenza. Ad essa soltanto è lecito Vedere che nella realtà non vi ò essere più attivo e più perfetto di quegli esseri che si concepiscono, per così dire, senza rigonfiamenti.Rigonfiamento si può appunto non illogicamente considerare la grandezza corporea. Se questa fosse da tenersi in considerazione, gli elefanti avrebbero certamente maggiore intelligenza di noi (...). Ognuno sa che l'occhio dell'aquila ‘e molto più piccolo del nostro. Si è osservato tuttavia che essa, pur volando così alto che da noi può difficilmenteesser vista, sebbene in piena luce, scopre con l'occhio un leprotto nascosto sotto un cespuglio o un pesce nell'acqua. Quindi anche nei sensi, cui è dato percepire soltanto oggetti sensibili,la grandezza del corpo non vale nulla agli effetti, cioè al potere del sentire stesso. Non si deve temere dunque che lo spirito umano, il cui sguardo più eccellente e quasi unico è la ragione (pene solus aspectzcs est ipsa ratio), con cui prova di scoprire persino se stessa, è un nulla, se la ragione può dimostrare che lo spirito, cioè se stessa, è immune da quantità, con cui si occupa lo spazio. Nel concepire lo spirito si deve certamente pensare qualche Cosa di grande, ma senza massa (sine alla mole). È più facile a Coloro che con una buona cultura iniziano ad applicarsi a questi problemi, non per vanagloria, ma infiammati d'amore divino per la verità, ovvero anche a coloro che già vi si applicano, sebbene abbiano iniziato l'indagine con cultura meno solida. In tal caso devono con costanza offrirsi docili ai buoni e distaccarsi dalla sensibilità,quanto è possibilein questa vita».183
m-Ùlbidv 14, 24.
212
Parte prima
Più tardi, nella maturità, la sua analisi dell'anima divenne sempre lucida e più profonda; l’argomentazione della sua spiritualità centrata sull'autocoscienza divenne uno dei punti più suggestivi di tutta la sua imponente e possente speculazione filosofica. Nel De Trinitate il tema viene eseguito secondo numerose variazioni, come nelle fughe di Bach. Qui noi lo riprendiamo nella sua struttura essenziale, che è la seguente: l'anima conosce se stessa; ora osserva Agostino conoscendo se stessa essa conosce di non essere corpo, perché non può conoscersi senza conoscersi conoscente, come non può amare, volere, ricordare senza sapere di amare, volere, ricordare; ma la virtù di conoscere, amare, volere, ricordare, non è niente di corporeo, e se lo fosse, l'anima, conoscendo se stessa, non potrebbe non saperlo. «Ora una cosa non si può con ragione dire conosciuta, quando non se ne conosce la sostanza. L'anima, dunque, quando si conosce, conosce la sua sostanza, e quando è certa di sé, è certa della sua sostanza. Ora è certa di sé, come lo provano le cose dette sopra. E non è per niente certa di essere aria, o fuoco, o qualsiasi altro corpo, 0 qualche cosa di un corpo. Dunque non è niente di questi».154 La coscienza che l'anima ha di se stessa insiste Agostino non è un epifenomeno, un accidente della materia, bensì una proprietà essenziale di una sostanza spirituale. I filosofi (stoici ed cpicurci) che «ritengono che la mente o è un corpo o la coesione e l'equilibrio di un corpo vogliono che tutti questi atti della mente siano degli accidenti la cui sostanza sarebbe l'aria, o qualche altro corpo che essi identificano con lo spirito; l'intelligenza si troverebbe dunque nel corpo come un attributo (sicut qualitas eius); il corpo sarebbe il soggetto, questa un accidente del soggetto».135 Agostino replica ad essi che questo non è affatto vero: «tutti costoro non avvertono che lo spirito si conosce anche quando si cerca, come abbiamo già mostrato. Ora è del tutto illogico affermare che si conosce una cosa di cui si ignora la sostanza. Perciò mentre lo spirito si conosce, conosce la sua sostanza e, se si conosce con certezza, conosce con certezza la sua sostanza (...). Esso conosce queste cose in sé, non se le rappresenta per mezzo dell'immaginazionecome se esso le attingesse al di fuori di sé, con i sensi, alla maniera in cui attinge tutti gli oggetti corporei. Se esso non si assimila falsamente a nessuno di questi corpi che si rappresenta, al punto di credersi qualcuna di queste cose, ciò che di sé gli resta, questo solo esso è, cioè spirito».186
più
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WÙDE Trim. 10, 10, 16. 185)Ihid., 15. IBÉÒHJÎCL, I6.
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Agostino di Ippona
213
NOBILTÀDELL'ANIMA Al tema della
”grandezza"
dell'anima Agostino ha dedicato l'opera sin dalle prime battute che la di cui intende trattare non è quella materiale, la grandezza figrandezza sica nell'ordine dell'estensione, bensì quella interiore, cioè la grandezza nell'ordine del valore, vale a dire la sua nobiltà, la sua dignità, il suo potere: «quantum oaleat nosse U€iÌS>>À37 «Esamineremo la grandezza dell'anima nel senso in cui abitualmente si chiede quanto grande fu Ercole per grandezza di imprese e non per sviluppo di membra (...). Dunque quando si ode o si dice che 10 spirito (animum) è grande o immenso, non si deve intendere grandezza dell'estensione occupata, ma grandezza di potere>>jì33 L0 studio della grandezza dell'anima, che e poi studio della grandezza dell’uomo, da Agostino non è inteso nel senso umanistico rinascimentale e ancor meno nel senso laico moderno, cioè volto a esaltare (in un antropocentrismo più o meno esagerato) la dignità dell'uomo come microcosmo, chiuso in se stesso. Ma è chiaramente realizzato nella prospettiva del noverim me, Iioverirr: te, dove la conoscenza dell'Io è strettamente legata alla conoscenza di Dio e ad essa subordinata. Agostino lo attesta apertamente nei Soliloqiti dove presenta la conoscenza dell'anima come prolegomeno alla conoscenza di Dio. Ecco le testuali parole di
omonima, De quantitate animae. Là precisa
Agostino: «Il pensiero che è in colloquio con te (ratio quae tecum loquitur) garan-
tisce che manifesterà Dio alla tua mente come il sole si manifesta alla vista. Difatti le facoltà interiori sono, per così dire, gli occhi propri della mente e i princìpi assolutamente certi delle discipline sono in analogia con oggetti come la terra e tutte le cose terrestri che, per apparire alla vista, devono essere illuminate dal sole. E Dio è quegli che illumina. Ed io, pensiero (ego autem ratio), sono nelle menti come è lo sguardo negli occhi. Non è lo stesso avere gli occhi e guardare, ed egualmente non è lo stesso guardare e vedere. Pertanto l'anima ha bisogno di tre disposizioni: che abbia gli occhi di cui possa bene
guardi, che Vegga (oculos habeat, aspiciat, videat). Occhio dell'anima è la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dal pensieri delle cose caduche (...). Lo sguardo dell'anima è il pensiero (aspectus animate, ratio est). Ma non segue che ognuno che guarda, vegga. Dunque lo sguardo puro e consumante, al quale cioè segue visione, si dice virtù che è appunto puro e consumante pensiero (îairtus nel recta nel pei/festa ratio). Ma anche lo sguardo non può drizzare gli occhi, sebbene già sani, alla luce, se non vi sono usare, che
137) De quant. anìmac 3, 4. 188)Ibid1' 17, 30.
214
Parte prinza
le tre virtù, cioè la fede con cui crede l'oggetto, al quale si deve rivolgere lo sguardo, e tale che visto beatifica; la speranza con cui ha fiducia di vedere se guarderà bene; la carità con cui desidera di vedere e godere. E ormai allo sguardo segue la stessa visione di Dio, che è fine della visione non perché questa cessi, ma perché non ha altro fine a cui dirigersi. Il pensiero che raggiunge il suo fine: questa è veramente consumata virtù, alla quale segue felicità (Iiaec est vere perfetîtiî virtus, ratio pervenians ad finenz sumn, quam beata vita COHSBqHÌÌHT). E visione in sé è puro pensiero che è nell'anima e che si compone di soggetto conoscente e oggetto conosciuto allo stesso modo che il vedere degli occhi risulta dallo stesso senso e dal sensibile, dei quali se uno e sottratto, nulla può apparire».189
Il De quantitate animae può essere letto come un commento, una specie di enarratio dello stupendo brano dei Soliloqui appena citato. Compiendo multi et Iongi circuitusflfl! Agostino evidenzia la grandezza, la dignità, la nobiltà, il valore, il potere dell'anima passando in rassegna le sue attività, e disponendole secondo un preciso ordine gerarchico, il quale abbraccia sette gradi o livelli. Egli stesso precisa che l'anima può svolgere tutte le sette attività simultaneamente (fieri potest ut haec onmia simul agaflfl“ ma può anche darsi il caso che quando ha raggiunto il grado supremo, cioè l'ultimo scalino, non abbia più bisogno di percorrere gli altri. Le sette attività che, secondo Agostino, attestano chiaramente il potere, il valore, l'eccellenza e pertanto la grandezza dell'anima sono: animazione del corpo, sensazione (conoscenza sensitiva), cultura materiale, cultura morale, autocoscienza piena (denique in seipsa laetissimc tener), brama di conoscere l’Essere sommamente intelligibile, Dio (appetitio intelligendi ca quae vere summeque sunt), visione di Dio. Per denominare questi sette gradi Agostino stesso propone la seguente terminologia: «NelPascesa dal basso verso l'alto, il primo atto, a scopo pedagogico (docendi causa), sia chiamato animazione; il secondo, sensazione; il terzo, arte; il quarto, virtù; il quinto, serenità; il sesto, entrata (ingrassato); il setti-
contemplazionemwl Riguardo al settimo grado Agostino fa tre importanti osservazioni: a) che non si tratta tanto di un grado quanto del traguardo finale, dove ci si arresta definitivamente: «Non è un grado ma uno stato definitivo che si raggiunge attraverso i vari gradi»;193 b) che ò raggiungibiledall'uomo anche se per conseguirlo egli non deve contare soltanto sulle sue forze:
mo,
139)S0l. 1, 6, 12-13. 19”) Cf. De quam‘. flìîiìîîlîf.’7, 12.
19ÙCf. Ibiafi, 35, 79. 193)Ibid. 193151151‘, 33, 76.
Agostino di lppona
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«Ed ora oso dirti quanto segue. Se noi siamo perseveranti nel tenere il cammino che Dio ci ordina e che noi abbiamo intrapreso giungeremo, con l'aiuto della divina provvidenza, alla Ragione suprema 0 sommo Fattore 0 sommo Principio dell'universo o, se si vuole, altro nome con cui un essere tanto grande si possa più convenientemente designare»;194 c) che procura una gioia immensa e indieibilea colui che lo raggiunge: «Vi è tanto godimento nella contemplazione della Verità, nei limiti in cui è possibile Con-
templarla, tanta purità, tanta perfezione, tanta certezza dell'oggetto, da far pensare che non si aveva mai avuta scienza di qualche cosa, quando sembrava di averne. E affinché l'anima sia meno ostacolata nell'aderire tutta al tutto della verità, la morte, che prima si temeva, è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazionedel corp0».195 Agostino non è stato certamente il primo a presentare le varie attività dell'anima come attività gerarchicamente ordinate all’ascesi e all'unione con Dio. Lo avevano fatto in termini e con impostazioni assai simili ai suoi l'ebreo Filone e il pagano Plotino.196 Ma la dottrina ascetica e mistica di Agostino presenta aspetti di assoluta originalità rispetto alle dottrine di questi suoi illustri precursori. In effetti il traguardo finale dell'anima per un filosofo cristiano qual è già Agostino al momento della stesura del De quantitate animae non è un essere supremo assolutamente imperscrutabile e inaccessibile,come il Dio di Filone e l'Uno di Plotino, bensì «il Creatore di tutte le cose che sono, da cui tutto, per cui tutto, in cui tutto, cioè YìmmutabilePrincipio, FimmutabileSapienza, l'immuta— bile Carità, un solo Dio perfettissimo, che e sempre stato e sempre sarà».197 Diversamente da Filone e da Plotino, per i quali l'ascesa e l'unione con la Realtà ultima comportava 1a eliminazione e la soppressione delle altre attività, per Agostino l'anima, anche dopo l'unione, conserva inalterate anzi rafforzate e perfezionate tutte le altre attività, inclusa quella dell'animazione del corpo. Infine, i gradi superiori dell'ascesa a Dio non sono opera della filosofia, bensì della religione, la quale per Agostino si identifica col cristianesimo: «E vera religione quella con cui l'anima, mediante la riconciliazionesi ‘lega di nuovo a Dio, dal quale si era disciolta, per così dire col peccato. E essa dunque che nel terzo grado imbriglia l'anima e comincia a guidarla, la purifica nel quarto, la rimioVa nel quinto, la introduce nel sesto, la nutrisce nel settimo>>.198 194)Ibid. 195)Ibid. 19fi)Fil0ne parla di ascesi, purificazione, ritorno al divino mediante il Logos, contemplazione, rapimento, estasi, ebbrezza del divino; Plotino parla di purificazione, ritorno, conversione, visione, intuizione, contemplazione, contatto, unione, estasi.
197) De quant. animale 34, 77.
198) Ibid., 34, 78.
216
Parte prinza
RAPPORTI DELL'ANIMA COL CORPO
preoccupazione primaria di Agostino nello studio dell'uomo è decisamente indirizzataall'anima e così, quando dichiara di voler conoscere soltanto due cose, l'anima e Dio, dà l'impressione di voler identificare l'uomo con l'anima come avevano fatto i platonici. Ma è un'impressione errata. La sua preoccupazione legittima di studiare, conoscere, coltivare l'anima, perché la superiorità dell'uomo stigli animali sta nell'aniLa
porche’ il destino ultimo dell'uomo è anzitutto e soprattutto legato all'anima, non gli impedisce peraltro di affermare che il corpo appartiene all'uomo essenzialmente, naturalmente, e che, perma e non
tanto,
nel corpo,
non
ci
può
e
essere
felicità per l'uomo
se non
si dà
compimento
anche alle esigenze del corpo oltre che alle aspirazioni dell'anima”?
Il testo in cui Agostino esprime meglio il suo pensiero sulla questione dei rapporti tra anima e corpo si trova nel De moribus ecclesiale catholicae (1, 4), dove scrive quanto segue: «Come definiremo l'uomo? Diremo che esso è anima e corpo, come diciamo un carro a due cavalli o un centauro? Lo chiameremo soltanto un corpo che è al servizio di un'anima padrona di se stessa, come quando parliamo di una lanterna, non indichiamo insieme il fuoco e il vaso che lo contiene, sebbene sia a causa del fuoco che chiamiamo quel vaso una lanterna? Lo chiameremo soltanto un'anima, ma sottintendendo il corpo che essa regge, come quando parliamo d'un cavaliere, non parliamo insieme del cavallo e dell'uomo, ma dell'uomo solo, che in tanto chiamiamo così in quanto dirige un cavallo? Sarebbe forse difficile e in ogni caso lungo il discutere tale questione e, d'altra parte, sarebbe superfluo. Sia infatti che si definisca l'uomo un'anima e un corpo, sia che si riservi all'anima sola il nome di uomo, il bene principale dell'uomo non è il bene principale del corpo; ma ciò che è il bene principale dell'anima e del corpo insieme, o il bene principale dell'anima sola, è anche il bene principale dell'uomo. Di conseguenza l'uomo, per quello che un uomo può giudicare, è un'anima ragionevole che si serve di un corpo mortale e terrestre>>20O
Un altro brano assai eloquente, di cui occorre tener conto per valutala re posizione di Agostino su questo difficileproblema, lo troviamo nel De Trinitate (11, 1, 1), dove si esprime così: «A motivo della nostra condizione di esseri mortali e carnali noi trattiamo le cose visibili in maniera più facilee, in qualche modo, più familiare che non le realtà intelligibili, '
l”)N0nsono pure anime ma risotti, quelli che vengono chiamati a riempire il vuoto lasciato dagli angeli caduti «a contemplare l'eterno artefice, che ha formato ogni cosa
in misura,
numero e
peso» (Erzchir.
2"“) De nioribzis ecclesiae catholicae1, 4.
c.
29).
Agostino di Ippona
217
quelle siano esterne, queste interne, quelle sensibili al corpo, queste intelligibiliallo spirito, e benché noi stessi non siamo anime sensibili,cioè corporee, ma intelligibili,perché siamo vita; tuttavia, come ho detto, la nostra familiarità con i corpi, si proietta talmente all'esterno sebbene
che,
volta che sia tolta dall'incertezza del mondo corporeo, per fisconoscenza molto più certa e stabile nello spirito, fugge di nuovo verso i corpi e cerca la sua quiete là donde ha tratto origine la sua debolezza». Già da questi testi si evince che il pensiero di Agostino sui rapporti tra anima e corpo non coincide né col pensiero di Aristotele né con quello di Platone. Il suo uomo non è sinolo di materia e forma come per Aristotele; l'anima da Agostino non è mai descritta come forma sostanziale del corpo. L'uomo non è neppure una semplice giustapposìzione di due sostanze complete, ciascuna in grado di agire in perfetta autonomia, per conto proprio, come per Platone. Tra anima e corpo Agostino pone un'unione profonda, naturale, Vitale, tutto sommato "sostanziale", come suggerisce talvolta lo stesso Agostino. I testi più espliciti a questo proposito sono i seguenti: «L'uomo è una sostanza razionale composta di anima e di corpo».2"1 «Il corpo è di natura diversa dallo spirito; però non è estraneo alla natura dell'uomo; giacché lo spirito non ha nulla di corporeo, ma 1’uomo è composto di uno spirito e di un corpomîflî «L'unione attuale degli spiriti ai corpi che costituisce la natura animale è una grande meraviglia, incomprensibileall'uomo; e tuttavia è l'uomo stesso>>.2U3 L'unità sostanziale dell'anima e del corpo è quindi per Agostino verità indiscutibile,tanto che egli la suppone come termine di riferimento da tutti ammesso nelle sue disquisizioni teologiche, come quando dice per es.: «Se il corpo e l'anima fanno un solo uomo, benché il corpo e l'anima non siano una stessa cosa, come a più forte ragione il Padre e il Figlio non farebbero un solo Dio, allorché il Padre e il Figlio sono una stessa cosa?>>.2"4 Pertanto se c'è un dualismo antropologico in Agostino e c'è indubbiamente non è di ordine ontologico bensì morale. Per Agostino la linea di demarcazione che separa l'uomo in due, non è tanto quella che divide l'uomo interiore dall'uomo esteriore, l'anima dal corpo, come per Platone, quanto quella che taglia trasversalmente l'uomo interiore stesso. Agostino afferma certamente la distinzione tra il sensibile e l'intelligibile, tra il corpo e l'anima, e tuttavia nell'uomo la frattura più profonuna
sarsi, con una
-
-
3D1)«H0mo est substantia rationalis constans anima et corpore» (De- cura pro mort. ‘ger. 3, 5). 292)De continentiu 12, 26. 203m: civ. Dei 21, 10.
204)Epist. 238, 2, 12.
Parte prima
218
da non è quella che passa ai confini tra la materia e lo spirito, bensì quella che attraversa Io spirito stesso: è la linea di demarcazione che divide lo spirito in ratio inferior e ratio superior, in liberum arbitrium et libertas, in cupiditas e caritas. Questa divisione interiore è molto più grave e gravida di conseguenze della divisione esteriore. Da tale divisione, infatti, derivano la loro origine le due Civitates, celeste e terrestre. Il corpo, benché fatto di terra, non è relegato alla città terrestrefllìî? Poiché appartiene all'uomo essenzialmente, fa p arte esso stesso di q uella città cui a artiene l'anima. Quindi, se l'anima, lo spirito, avra la grazia di essere consegnata definitivamente alla Civitas Dei anche il corpo riceverà lo stesso privilegio. In effetti, è col corpo risorto che i beati entrano in Cielofinfi u
u
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u
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n
UIMMORTALITÀ DELL'ANIMA
L'uomo, benché finito e mutevole, è essenzialmente spirituale e pertanto incorruttibìle per quanto concerne la sua parte più nobile, l'anima, mentre rimane intrinsecamente corruttibile per la
sua
componente meno questo mondo più
nobile, il corpo. In secondo luogo, l'uomo viene in progetto che come una realtà pienamente attuata, investito della
come un
singolare responsabilità di definire il proprio progetto di umanizzazione di realizzarlo. A tal fine è munito da Dio del potere di conoscersi e di scegliersi. Con la ratio superior e con la libertas egli trova la strada giusta per diventare pienamente se stesso e per conseguire la vita beata. Ma l'itinerario da percorrere (che Agostino ha tracciato chiaramente nel De quantitatc animae) per conseguire il traguardo finale è arduo, lungo, impegnativo ed è tutto in ascesa: si tratta di scalare una montagna a sette balze sempre più scoscese e rischiose man mano che si avvicinano alla vetta. Col suo libero arbitrio l'uomo corre continuamente il pericolo di lasciarsi sedurre dalle lusinghe della ratio inferior e di precipitare verso il basso. Comunque, indipendentemente dall'esito finale della scalata, Agostino è certo che l'esistenza della persona non resta chiusa dentro i confini della vita terrena, ma si prolunga verso l'eternità, perché l'anima umana è immortale.
e
2U5)«L'uomo tutto intero, l'uomo composto di anima e di corpo, sarà immortale e dunque veramente beato» (De Trin. 13, 9, 12). 2998. Agostino, superando il dualismo dei greci «da un lato sollevò il senso, con Yattribuirlo all'anima, da un altro fece del corpo, in quanto corrompibilee cadu-
co solo per opera del peccato minimizzante e nientificante, un qualche cosa di coscienziale, potenziale e redimibile» (T. MORETTl-COSTANZI, S. Agostino filosofo,
in
Appendice a La fcrrcstrità edenica del cristianesimo e la contmniizazione spiritualiBologna 1955, p. 52; vedi anche H. U. v. BALTHASAR, Gloria, Il. Stili
stica, Patron,
ecclesiastici,Iaca Book, Milano 1978, pp.
109 ss).
Agostino di Ippona
219
Di per sé l'affermazione dell'immortalità dell'anima consegue necessariamente e in modo ineccepibiledalla posizione della sua spiritualità, perché 10 spirito è indistruttibile.Però, trattandosi di una verità di Capitale importanza, che decide di tutta la condotta dell'uomo in questo mondo, Agostino si adopera in tutti i modi per corroborarla e sostenerla con argomenti irrefutabili,perché non sia consentito a nessuno di metterla in dubbio 0 di negarla. Oltre che nel De immorfalitate animare, il quale, come suggerisce il titolo, ha come argomento precipuo la sopravvivenza dell'anima dopo la morte del corpo, Agostino affronta questo problema in molte altre opere, in particolare nei Soliloqui 2, 13, 23 e 2, 19, 33; nel De libero arbitrio 2, 9, 27 e 2, 12, 33-34; nel De Trinitate 13, 9, 12 e 14, 4, 6; nel De civitate Dei 10, 31 Nel De Trinitale (13, 9, 12) Agostino osserva che «tra coloro che si sono sforzati di trovare una soluzione (alla questione della vita futura) con l'aiuto di argomentazioni umane, solo assai pochi, dotati di potente ingegno, in possesso di molto tempo da dare alle cose dello spirito, scaltriti nei ragionamenti più sottili, poterono giungere a scoprire l'immortalità dell'anima».207 Nella stessa opera esibisce la seguente definizione dell'immortalità; «L'anima si dice immortale perché, qualunque sia la sua vita, fosse pure la più miserabile, non cessa mai di vivere; così, benché la ragione o l'intelligenza sia talvolta in essa assopita, talvolta appaia grande, talvolta piccola, tuttavia giammai l’anima umana cessa di essere razionale o intelligente>>208 Tre sono gli argomenti che Agostino avanza a sostegno della tesi dell'immortalità: 1) l'autonomia dell'anima dal corpo sia nell’agire sia nell'essere; 2) il desiderio naturale che tutti abbiamo della immortalità; 3) il vincolo indissolubileche unisce l’anima con qualche cosa di assolutamente incorruttibile:la verità. Il primo argomento viene proposto nel De immortalitate animae ma con procedimenti talmente astrusi, che lo stesso Agostino, quando provò a rileggerli incontrò grosse difficoltà a intenderli: «E così oscuro che io stesso quando lo leggo mi affatico e difficilmente lo comprendo».209 Le linee essenziali dell’argomentazione sono comunque molto chiare. Agostino dimostra l'indipendenza dell'anima dal corpo nell'ordine dell'agire, richiamando l'attenzione su uno dei suoi atti più elevati, quello con cui conosce i princìpi e le leggi universali. «Se sussiste nell'anima qualcosa di immutabile, che implica la vita, una vita permanente sussiste in essa (...). Chi oserebbe sostenere infatti (per limitarmi a questi .
3Ù7)De Trin. 13, 9, 12. Zosflbid, 14, 4, 6. 2U9)Retract. 1, 5.
220
Parte prima
esempi), che il rapporto dei numeri non è immutabile? 0 che ogni arte non si basa sul loro rapporto? o che l'arte non esiste nell'artista, anche quando questi non la esercita; 0 che non esiste nel suo pensiero; o che può esistere là dove non vi è vita; 0 che ciò che è immutabilepossa cessare un giorno di esistere; 0 che l'arte e la ragione siano cose distinteÎ’...».2‘° L'argomento eudemonologico (cioè desunto dalla tendenza universale alla felicità) nel De Trinitate assume la forma seguente: «Tutti gli uomtl ni vogliono esserefelici (m). Ma solo Vivendo possono essere felici: dunque non vogliono che perisca la loro Vita. Dunque vogliono essere immortali tutti coloro che sono o vogliono essere veramente beati. Ma non vive beatamente colui che non ha ciò che vuole; non vi sarà dunque in alcun
modo vita veramente beata che non sia eternamì" L'argomento principe di Agostino per provare l'immortalità dell'anima è quello che si fonda sul rapporto dell'anima con la verità. «Non vi è alcun dubbio osserva Agostino che la verità è presente all'anima e che tale presenza determina un'unione tra la mente che la contempla e la verità che è contemplata. Ma tale unione non può avvenire che in tre modi: o la verità è nell'anima; o l'anima è nella verità; o l'anima e la verità sono tutt'e due sostanze. Nel primo caso, la verità aderisce all'anima, e l'anima avrà allora la stessa immortalità della verità a cui aderisce; nel secondo, l'anima aderisce alla verità, ed essendo la verità immutabile, non lo sarà meno l'anima, collocata in tal caso nella verità come in un soggetto. Nel terzo caso, l'unica ipotesi contraria all’immortalità potrebbe essere di pensare che, essendo l'anima e la Verità tutt'e due sostanze, possa cessare la loro unione. Ma una tale ipotesi si dimostra assolutamente insussistente dal momento che nulla separerà l'anima dalla verità: non un corpo, che non può nulla contro lo spirito, essendo ad esso inferiore; non l'anima stessa, a cui è connaturale il desiderio di essere sempre, e che quindi non potrebbe separarsi da ciò che solo è capace di mantenerla nell'esistenza; non Dio, che ha dato all'anima la sua natura e l'ha unita a sé e conserva ogni cosa secondo la natura di ciascunamîlî -
-
Ma più che da questi argomenti, il convincimento di Agostino nella immortalità dell'anima deriva dalla sua visuale antropologica e dal suo metodo di ricerca della verità: il metodo della interiorità. Per chi vede l'uomo come lo vede Agostino, il quale non esita a proclamare che tra tutte le creature l'uomo occupa il primo posto: «Inferiore a lui e l'anima del bruto, eguale la sostanza angelica, più perfetto nessuno. E se even-
210) De immartalitate animare 4, 5. 31‘)De Trin.13,8,11. 31Z)De immort. anirrzae 6, 10-11.
Agostino di Ippona
221
tualmente qualcuno è più perfetto, il fatto è dovuto al peccato, non alla natura»,213 e che, applicando il metodo delrinteriorita, fa esperienza della propria memoria ontologica, che è memoria dell'eterno, dell'assoluto, dellîmmutabile, l'immortalità dell’anima è una certezza che trascende la forza di qualsiasi argomento e rende persino superflua qualsiasi prova. Mendicare il soccorso della speculazione astratta per chi considera l'anima con la luce incandescente della ratio superior è come ricorrere ai fanali in pieno giorno, quando splende il sole, per vedere
meglio la strada!
Sotto la luce radiosa della ratio
superior l'uomo di Agostino coglie la proprio Io e vede rispecchiarsi in esso l'immagine di colui che è lo Spirito assoluto, sussistente ed eterno, Dio. In questo ritrova anche il documento più sicuro della propria perennità. «Essendo stata fatta a immagine di Dio, nel senso che può far uso della ragione e della intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che dal momento in cui ha cominciato a esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che sia chiara e bella, non cessa mai di essere».214 Su di essa ‘e impresso il sigillo della eternità. «Dio, che è immortale, ha prodotto un essere immortale a sua somiglianza (ipse immortalis immortale quiddam fecit ad similitudinem natura squisitamente spirituale del
suam)».2î5
L'esame del problema della immortalità rivela ancora una volta che i due poli della ricerca agostiniana (Io e Dio), disgiunti e lontani all'inizio, man mano che l'indagine avanza tendono ad avvicinarsi e alla fine tendono a confluire in un'unica realtà, come reclamava l'inquietudine iniziale: «Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te».216 LE ATTIVITÀ SPIRITUAL] DELL'ANIMA E
Nel
corso
del presente
IL suo RITORNO A
DIO
capitolo già qualche cosa si è detto delle attiAgostino argomenta la natura spiri-
vità dell'anima. Abbiamo visto che
tuale, immateriale dell'anima e la sua appartenenza al mondo dello spirito attraverso l'esame delle sue attività. Ci sono attività del pensiero con cui l'uomo può mantenere un rapporto costante con il mondo superiore, il mondo della ratio superivr e che lo rendono desideroso di fare ad esso ritorno dopo la difficilee pericolosa escursione nel mondo sensibile.
213) De quant. animae 34, 78. 314) De Trin. 14, 4, 6. 215) De quant. animae2, 3.
2‘5)C0nf.1,1,1.
222
Parte prima
Secondo Agostino le facoltà spirituali di cui l'uomo è dotato non s0— no due, l'intelletto e la volontà, come insegnavano Platone ed Aristotele, nella sua ma tre. All’intelletto e alla volontà egli affianca la memoria. E nel sottoè Infatti ruolo memoria la un importantissimo. gioca psicologia la scava che la propria mens (intelletto) suolo della memoria per scoprire identità, per raggiungere l'origine del proprio essere, per attingere la verità. La memoria è anche il cordone ombelicaleche lega l'anima a Dio. Nelle Confessioni, che sono la commovente "memoria” della sua vita le dedica e già di per sé un magnifico elogio di questa facoltà, Agostino alcuni capitoli per definirne le funzioni e per esaltarne il potere trascendentale. A proposito del potere della memoria egli scrive: «Grande è la forza della memoria, ‘e un non so che di inesplicabile, o Dio mio, una cosa molteplice, profonda e infinita! (...). Nei campi, negli atri, nelle tante caverne della mia memoria giacciono innumerevoli cose d'ogni gei corpi, o nere o per mezzo delle loro immagini, come nel caso di tutti per mezzo della loro presenza, se si tratta delle scienze, o per non so quali nozioni e impressioni, come nel caso delle affezioni dell'anima, che la memoria conserva anche quando la coscienza non le avverte, trovandosi nella memoria tutto ciò che è nell'anima. Attraverso questa immensità io trascorro, volo, penetro qua e là, quanto posso, senza fine; tanto grande è la forza della memoria; tanta potenza è nella vita dell'uomo che vive una vita mortale>>.217 Con altrettanta eloquenza Agostino spiega le funzioni della memoria, mostrando in che modo noi tutti possediamo l'idea di felicità. Come avviene, si chiede Agostino, che tutti gli uomini hanno questa idea? Da dove Yattingono? Ecco la sua risposta:
«È necessario perciò che io dica in qual modo la debbono cercare. Forse con il ricordo, come se fosse una cosa dimenticata, ma ricordando, tuttavia, di essersene scordato; oppure col desiderio di conoscerla, l'ho come se fosse una cosa ignorata o perché mai apparsa o perché di averla ricordarmi da totalmente non così dimenticata neppure dimenticata? Non è forse quella la felicità che tutti vogliono e non vi è alcuno che non la brami? Dove l'hanno conosciuta per desiderarla così? Dove l'hanno vista per amarla in tal maniera? (...). Cerco ora se la felicità si trova nella memoria. Noi non l’ameremmo se non la conoscessimo. Sentiamo questa parola e subito ammettiamo di desiderare tutti la felicità. Non è infatti il solo suono che ci fa piacere, poiché quando un Greco sente nominare la felicità in latino non ne ha la ne proviamo gioia, poiché non ne capisce il significato. Noi invece in sentita l'avesse che colui ne greco, poiché come proverebbe piacere,
317) Conf. 10, 17.
Agostino di Ippona
223
la cosa a cui aspirano Greci, Latini e gli uomini di tutti gli altri linguaggi, non è in realtà né greca né latina. Essa, quindi, è a tutti nota, e se tutti si potessero interrogare se Vogliono essere felici, senza alcuna esitazione e a una sola voce risponderebbero di sì. Ciò non accadreb-
be se non fosse conservata nella loro memoriamm
Per Agostino lo studio della memoria rappresenta uno dei momenti chiave del noverim me, e condizione fondamentale del novcrim te. Per scoprire che cosa sono la felicità, la verità, la bontà, la sapienza ecc. la coscienza non deve uscire da se stessa, ma deve entrare in se stessa e inabissarsi dentro l'oceano della memoria. In questa infatti sono impressi i valori fondamentali, i principi primi, i criteri supremi di giudizio, che presiedono a ogni pensiero e a ogni azione. Per spiegare l'origine di queste verità Agostino ricorre alla dottrina della illuminazione (che prende il posto della dottrina platonica della reminiscenza). Ma su quale facoltà cade l'illuminazione?Agostino chiarisce che la zona della mente su cui cade la luce della illuminazionenon è la ratio o la cogitatio o l'intelligentia, perché queste sono già munite di luce propria, ma e la memoria, la quale opera grazie a una luce superiore, la luce divina.” Attraverso un'analisi accurata ed attentissima della memoria, Agostino esalta la profonda unità dell'Io e la sua perspicua spiritualità. Unificando ogni attività dello spirito nel sottofondo della memoria, Agostino scongiura ogni sorta di dualismo: tra il conscio e l'inconscio, tra l'intelletto e la volontà, tra l'io ideale e l'io reale ecc. Sul fondo ultimo della coscienza si intrecciano e si unificano in un rapporto di essenziale reciprocità la memoria, l'intelligenza, la Volontà, le tre grandi potenze dell'anima che costituiscono l'immagine più perfetta della Trinità nell'uomo.
«Dunque, come è immanente l'intelligenza, anche la dilezione è immanente a quella memoria che ne è il principio (inest dilectio illae memoriae principali) in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l'atto del pensiero; perché prendiamo coscienza che anche queste due potenze sono nella memoria quando con l'atto del pensiero prendiamo coscienza che com rendiamo qualche cosa ed amiamo qualcosa: esse esistevano già quando non vi pensavamo. E com'è immanente la memoria, così è immanente la dilezione a questa intelligenza che prende forma nell'atto del pensiero; questo verbo vero lo diciamo interiormente, senza ricorrere ad alcuna lingua, quando diciamo ciò che sappiamo; perché senza il ricordo lo sguardo del nostro pensiero non ritornerebbe su una conoscenza, e senza l'amore non si prenderebbe cura di ritornarvi. Così 1a dilezioneche uni-
anche
218)Ibid., 20. 219)Cf. De Trin. 15, 21, 40.
224
Parte prima
filiazione, la visione specie di relazione di paternità e di che del la visione prende forma da memoria nella e pensiero presente conodeve desiderare, che di ciò essa, se non possiede la conoscenza non la memoria e l'intelligenza, senza esistere scenza che non può amaremîîf‘ e che ciò giusto saprebbe sce
in
una
Quanto alle altre due facoltà, la ratio e la UOÌLLTIÌHS, Agostino prima della conversione giudicava più importante la prima. Ma dopo la conversione cambia decisamente parere: scopre che il destino ultimo dell'uomo non si gioca sul piano della conoscenza bensì su quello della volontà. A questo riguardo scrive vari saggi sulla libertà (De libero arbitrio, De gratin et libero arbitrio). Dopo essersi angustiato per tanti anni intorno alla causa del male, giunge alla conclusione che l'unica causa è il libero arbitrio: «Malum facimzis ex libero voluntatis arbitrìomm E una volta che il male è penetrato nel cuore dell'uomo questi non è più in grado di liberarsene. Infatti se all'anima non viene concessa la forza della grazia «il libero arbitrio non serve se non per peccaremîîl Su questo punto il dissenso di Agostino con i neoplatonici è totale. Abbiamo già rilevato parlando dell'opzione platonica di S. Agostino che egli accoglie in linea di massima la impostazione metafisica dei neola via ploplatonici ma rifiuta la loro soteriologia. A parere di Agostino velleitaria. via L'uomo, è tiniana dell’ascesa e della contemplazione una forze non può più dopo il peccato, è un povero naufrago che con le sue da Geesclusivamente viene salvezza La ferma. sua la terra raggiungere sù Cristo. Sulla via di salvezza tracciata da Cristo Agostino ha scritto aldel De Civitacune pagine stupende negli ultimi capitoli del decimo libro te Dei. Ecco la conclusione: «Questa via purifica tutto l'uomo e sebbene mortale lo dispone all'immortalità secondo la prospettiva di tutte le sue componenti. Infatti perché non si cercasse una purificazione a quella componente che Porfirio chiama intellettuale, un'altra a quella che chiama spirituale e un'altra al corpo stesso, il Purificatore e Salvatore, che è sommamente veritiero e potente, ha assunto tutto l'uomo. Fuori di questa via che mai è mancata al genere umano, né prima quando questi fatti si attendevano come futuri, né poi quando si rivelarono come passati, nessuno fu liberato, nessuno è liberato, nessuno sarà liberat0».223
220)Ibid., 21, 41. mlDe lib. arb. 2, 16, 35. 222)De spiriti: et littera 3, 5. 2B)De cìv. Dei 1D, 32, 2.
Agostino di Ippona
225
Conclusione
neoplatonici era costruita secondo il paradigma dellflaxitus e del reditus. Agostino fa suo questo paradigma, ma vi apporta delle importantissime Correzioni in ambedue i movimenti. Uexitus non avviene mediante la fuga, il proodos, delle creature da11’Uno, come insegnavano i neoplatonici,ma avviene mediante l'azione creatrice di Dio: le Creature sono programmate da Dio, sono volute da Dio, dipendono totalmente da Lui sia ne] loro agire sia nel loro perseLa metafisica dei
Verare nell'essere.
Quanto al reditzis, per realizzarlo non basta l'impegno dell'uomo, il distacco dal mondo, 1’ascesi e la contemplazione, come pretendevai no neoplatonici. Come non esce da Dio per propria volontà, così 1’uosuo
per sua colpa, non è più in grado di fare ritorno a Dio con le sue sole forze. Dio è la causa principale sia dell’exitus sia del reditus. Tutto il movimento dell'universo avviene sotto la spinta dell'infinito amore di Dio per le sue Creature. Le revisioni apportate da Agostino alla metafisica platonica la trasformano profondamente. Così, con il Dottore di Ippona prende definitivamente forma un nuovo genere dì metafisica: la metafisica platonicom0, caduto nella miseria
cristiana.
226
BOEZIO
L'importanza di Boezio Nei manuali di storia della filosofia Boezio viene presentato come figura minore, quando non viene addirittura omesso. Ma siffatta trascuratezza non è ammissibile né in una storia della filosofia medioevale né in una storia della metafisica, perché in entrambe egli occupa un posto di primaria importanza. Nella storia della filosofia medioevale non si può ignorare Boezio perché è stato uno dei suoi padri fondatori; né si può ometterlo nella storia della metafisica, perché è uno dei principali esponenti del platonismo cristiano nel mondo latino. L'obiettivo di Boezio era di dare a Roma, che già deteneva una storica superiorità politica, anche il primato della cultura, rendendo latina la filosofia; avvicinandosi ai neoplatonici e specialmente a Porfirio, egli vuole armonizzare, dopo averli tradotti in latino, Platone c Aristotele, mostrandone il sostanziale accordo. E tale obiettivo fu in larga misura raggiunto come risulta da un lettera che Cassiodoro indirizzoall'amico Boezio: «Nelle tue versioni gli italiani possono ora leggere la musica di Pitagora, l'astronomia di Tolomeo, Yaritmetica di Nicomaco, la geometria di Euclide; possono discutere in latino la teologia di Platone e la logica di Aristotele; con lo tue traduzioni hai restituito Archimede ai Siciliani». Per quanto attiene la metafisica, l'apporto di Boezio al suo sviluppo nel mondo latino è stato duplice. C'è anzitutto un apporto indiretto. Egli ha messo a disposizione dei latini tutte le principali fonti della metafisica classica: Platone, Aristotele, Porfirio; li ha inoltre introdotti a quello strumento insostituibileper fare metafisica, che è la logica; ha rivendicato alla filosofia piena autonomia nei confronti della teologia e in alcune sue opere (nel De hebdomadibus e nel De consolatione philosophiae)ha fornito un esempio luminoso di come la ragione possa operare in piena autonomia dalla fede. Ma ancora più significativo è stato il suo apporto diretto allo sviluppo della metafisica, mediante la elaborazione di una propria metafisica di stampo ontologico, ossia incentrata sull'essere, che mentre per un verso si richiama ad Aristotele, per un altro prepara il terreno a S. Tommaso d'Aquino. una
Boezio
227
Vita e opere Nato a Roma da cio Severino Boezio
famiglia senatoriale intorno al
470 d. C. Marco Ani-
seguì il corso normale di studi di un giovane aristo-
cratico del suoi tempi, destinato ad alte funzioni politiche e amministrama, in particolare, studiò filosofia nelle scuole di Roma e di Alessandria. Verso l'anno 495 sposò Rusticiana, una delle figlie di Simmaco, potente patrizio romano, che aveva avuto cura della sua educazione dopo la morte del padre. In occasione di una breve Visita di Teodorico re dei visigoti a Roma nell'anno 500, ebbe modo di attrarre le attenzioni del sovrano sulla propria persona e di farsi apprezzare come studioso di scienze e di filosofia. Nel 51D venne proclamato console unico della città, carica che coprì per un anno, come voleva la consuetudine; ma in seguito svolse altri importanti incarichi, come quello di presidente del senato. Intanto lavorava già intensamente alla traduzione di alcune opere di Platone, Aristotele, Porfirio, Tolomeo e ai commenti delle medesime; inoltre scendeva in campo per combattere le eresie di Ario e di Eutiche, che stavano facendo molti proseliti anche in Italia. Nel 513 Teodorico lo nominò magister palatii. In tale qualità Boezio dovette vivere alla corte del re barbaro per oltre un decennio, svolgendo mansioni delicate come quelle di sorvegliare le guardie della corte e la polizia amministrativa. Fu consigliere molto apprezzato e ascoltato del re, fino a quando fu travolto dal sospetto di aver partecipato a una congiura tramata dal senatore Altino, amico di Boezio. Così nel 524, accusato di tradimento, Boezio fu rinchiuso nel carcere di Pavia, dove in poco tempo scrisse il suo capolavoro, De consolatione philosophiae.Condannato a morte, la sentenza fu eseguita, probabilmente, nel 526. Come è stato osservato da vari storici, le ragioni della pena capitale inflitta a Boezio non furono soltanto di ordine politico ma anche religioso. Teodorico infatti era di fede ariana e aveva adottato varie misure per fare dellarianesimo la religione del suo stato. Invece Boezio era cattolico e un cattolico esemplare, dotto e zelante. indubbiamente questo non poteva far piacere al suo sovrano, che approfitto dell'accusa di lesa maestà per liberarsi di un primo ministro molto scomodo. «Proprio in quanto cattolico, Boezio fu colpito dall’ira del sovrano, desideroso di castigare in maniera esemplare e di atterrire i cattolici latini, e per riflesso l'Impero loro principale protettore. Da questi dati di fatto, generali ed individuali, scaturì la tenace convinzione, diffusa fin dai primi tempi dopo la sua morte, del martirio di Boezio: non dunque leggenda, come a qualche storico moderno è parso, ma credenza saldamente fondata nella realtà storica. La testimonianza che Boezio diede con la sua morte è coe-
tive,
-
-
228
Parte prima
nell'impegno civile come in quello culturale, egli cercò di fondere la tradizione romana con la fede cristiana in una sintesi insieme teorica e pratica, e di tener ferma una duplice lealtà, religiosa e civile, con immutata dedizione. Che gli uomini e le circostanze storiche abbiano troncato prematura-
rente con tutta la sua vita; Roma come alla corte di Teodorico,
a
mente la piena realizzazione dei suoi propositi non ne sancisce l’irri1evanza, ma anzi ne esalta il messaggio non peritur0».1 La letteraria di Boezio è imponente se si tiene conto in
produzione particolare della brevità della
delle condizioni spesso assai opere si possono dividere in quattro gruppi: traduzioni, commenti, trattati di teologia e il De consolatiorze philosophiaeche è la sua opera maggiore. Tra le traduzioni, importantissima è la traduzione completa dell'Organon aristotelico, vale a dire il De interprelatione, gli Analitici primi e secondi, i Topici, gli Elenchi sofistici e le Categorie. I commentari di maggiore importanza sono tre: alle Categorie e al De interpretatione di Aristotele e alllsagoge di Porfirio. Nei commentari di Aristotele Boezio cerca di dimostrare che questi è sostanzialmente d'accordo con Platone. Cinque sono i brevi saggi teologici di Boezio: De Trinitate; Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur; De hebdomadibus; De fide Catholica; Contra Eutichen et Nestorium. Di questi cinque i più importanti sono il De Trinitale e il De hebdomadibzis, per i quali Tommaso d'Aquino ha scritto due memorabilicommenti. sua
difficili in cui dovette lavorare. Le
Boezio era
una
vita
e
sue
mente enciclopedica che poteva spaziare agevolmente
campi del sapere, ma la sua materia prediletta era la risulta oltre che dalle sue traduzioni di Aristotele e di logica, Porfirio e dai suoi commenti alle loro opere, anche da alcuni suoi scritti personali su argomenti logici. Ricordiamo in particolare: De divisione, De syllogismocategorico, Introductio ad syllogismos categoricos, De syllogismo hypotethico. Grazie a tutti questi suoi contributi Boezio può essere a buon diritto considerato il trasmettitore della logica all'Occidente e il padre del "metodo scolastico". attraverso tutti i come
Il progetto di un platonismo aristotelico e cristiano Abbiamovisto che seguendo l'esempio di Porfirio e di Proclo Boezio intendeva conciliarePlatone con Aristotele. Di fatto però nei neoplatonici Passimilazione di Aristotele
l)
era
molto limitata;
praticamente era
L. ORBETELLO, Introduzione a BOEZIO, La consolazione della filosofia. Gli opuscoli leo-
Iogici, Rusconi, Milano 1979, p. 88.
Boezio
229
ridotta alla sola logica; per il resto, in gnoseologia, in metafisica e in etica i neoplatonici restavano fedeli a Platone. In Boezio c'è invece un considerevole spostamento di interesse verso Aristotele, che nel suo pensiero acquista pertanto proporzioni molto più cospicue e vistose. Boezio introduce l'impostazione filosofica e i contenuti teoretici del pensiero di Aristotele non soltanto nella logica, ma anche in gnoseologia (con la dottrina dell'estrazione) e soprattutto in metafisica, con il passaggio dalla henologia dei neoplatonici alla ontologia di Aristotele. Nonostante ciò, però, si deve notare che in metafisica Boezio resta neoplatonico sia per quanto riguarda l'impianto generale che è quello dellflexitus e del reditus, sia per l'impiego del procedimento dimostrativo, che è quello assiomatico proprio dei neoplatonici,anziché di quello risolutivo (induttivo) richiesto da Aristotele. Secondo H. Chadwick Boezio deriva il suo neoplatonismo soprattutto da Proclo.
«Quello che Boezio predilige in Proclo
scrive il Chadwick sembra l'adattamento della logica aristotelica in un’intelaiatura concettuale platonica. I commenti al Timeo e al Parmenide contenevano molte osservazioni che Boezio riteneva vere, e perciò essenziali al suo schema di pensiero. La logica neoplatonica, specialmente nella discussione sulle categorie, sullhguaglianza, sull'identità, sulla differenza, viene rivolta a servire la causa cristiana sull'essere di Dio. Inoltre la parabola cristiana di creazione, caduta, redenzione e restaurazione finale è, in via di principio, suscettibile di essere conciliata con un tema caro a Proclo, quello dewemergere dall'Uno di ciò che, essendo diventato altro dalla sua fonte, ritorna poi là donde è venuto. Questo ciclo dell'essere originario emergenza dall'alterità e poi ritorno all'identità soggiace in forma latente alla struttura della Consolazione stessa. Perciò non è affatto un caso che nella Consolazione Boezio possa affermare una dottrina della redenzione esclusivamente neoplatonica, che tuttavia può yenire letta in senso cristiano, con una forzatura minima del testo. E improbabile che Boezio sia giunto per caso, o senza un'attenta riflessione, a questo risultato»! -
-
essere
-
—
Certamente in Boezio non c'e soltanto platonismo e aristotelismo, ma potenziale razionale del cristianesimo specialmente in metafisica, inserendo nella sua cosmovisione le dottrine cristiane della creazione, della provvidenza e della libertà. Boezio riconosce meglio di Agostino la valenza razionale delle verità annunciate dalla rivelazione cristiana; così le può trattare ed argomentare come verità razionali a pieno titolo, senza tuttavia ignorare la loro provenienza soprannaturale. «La giustapposizione di logica neopla-
anche molto cristianesimo. Egli fa buon uso del
2)
H.
CHADwicK, Boezio, Bologna 1986, p. 281.
230
Parte prinra
tonica c teologia cristiana operata da Boezio si fonda su una visione della verità derivante da due fonti. La rivelazione e la ragione sono considerate modi paralleli per discernere la realtà, e sotto questo aspetto Boezio si distacca in una certa misura da Agostino, per il quale Cristo è la ragione suprema di tutte le cose, e tutta la conoscenza è illuminazione proveniente da Dio».3 In Boezio le tre matrici fondamentali, il platonismo, Faristotelismo c il cristianesimo, non si trovano combinate in modo puramente eclettico, ma sono ripensate in modo personale, così da costituire una nuova sintesi metafisica che però si trova ancora in corso di elaborazione e non
raggiunge la sua completa sistematizzazione.
piano speculativo, Boezio non è né un ripetitore inintelligente né un epigono intristito di gloriosi antenati. Non vi è dubbio che egli riprende i temi canonici della tradizione greco-latina quale era nata con i Presocratici ed era stata poi sviluppata dalle varie scuole filosofiche deIYantiChità; ed è altrettanto vero che essa, se pure aveva avuto momenti di stasi, non si era mai ripiegata su di sé in una ripetizione «Sul
puramente meccanica di motivi abusati. La virtualità e fecondità interiore dei suoi principi lo impediva (...). Boezio è erede consapevole di una tradizione in continua autointerpretazione e assimilazionevitale, cui contribuisce attivamente per sua parte. Egli non è certo privo cli sensibilità storica, e non enuclea frammenti teoretici di questo o quel-
l’autore dal loro vivente contesto speculativo, mescolando poi insiepunti di vista eterogenei, che insieme non possono stare; ma Crea un nuovo organico contesto, in cui li innesta e li inserisce. I nuclei fondamentali del pensiero classico greco-latino assumono così in lui significati nuovi e originali».4 me
Il De hebdomadibus: l’abb0zzodi una nuova metafisica Il terzo dei cinque trattati ”teologici” di Boezio ci è stato tramandato sotto diversi titoli. Oltre al più frequente che è De hebdomadibus (Ebdomadi), abbiamo i seguenti titoli: Quomodo substantiae in eo quod sunt, bonae simt, cum non sint substaiztialia bona (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali); Liber un onme quod est bonum est (Libro che riguarda la questione se tutto ciò che è sia buono); Liberde bonorum lzebdomade (Libro sulla ebdomade dei beni). Se il termine latino Wîebdumas" ha come significato usuale nel latino classico quello di ‘(settimo giorno”, "il numero sette” o "settimana”, sul significato di ebdomade come è inteso e utilizzato da Boezio esistono
3) Ibid, p. 280. 4) L. ORBETELLO, 0p. ciL, pp. 13-14.
Boezio
231
stravaganti. Il commento risalente al di Auxerre faceva derivare ”Ebd0n1as" nono secolo e attribuito a Remigio da una parola greca fittizia, ebdo, che avrebbe avuto il significato di "farsi un'opinione". Thierry di Chartres adopera il termine come se avesse il senso di ”concetti mentali”. Tommaso d'Aquino fa derivare ebdomade da ”edere” che significa pubblicare. Gli studiosi moderni hanno sostituito queste ipotesi medioevali con proposte altrettanto improbabili, per esempio quella per cui Boezio avrebbe stilato, una volta alla setti”settimana”),un diario di riflesmana (da cui l'impiego di "HEÙCÎOIÌZHS" sioni filosofiche; oppure avrebbe tenuto degli incontri settimanali di letture platoniche con un Circolo di amici di cui faceva parte il diacono Giovanni, per il quale il De hebdomadibrts fu compilato. Più accettabilela proposta di Chadwick che collega il titolo al numero degli assiomi esposti nel trattato, che nelle edizioni a stampa assommano a nove, mentre in realtà sarebbero sette (ebdorrtàs).5 Il brevissimo trattato (di una decina di pagine appena) esordisce con un avvertimento preliminare sulla natura dello scritto: esso non è fatto per il largo pubblico ma per pochi specialisti che hanno familiarità con le questioni ardue e sottili della metafisica: «Perciò non essere contrariato dalla brevità e dall'oscurita che, come custodi fidate del mistero, han questo di vantaggioso, che dialogano soltanto con coloro che ne sono degni». Infatti ci sono cognizioni «in tal modo comuni da essere proprie di tutti gli uomini», mentre altre cognizioni «sono proprie soltanto dei dotti, per quanto derivino da tali comuni concezioni de1l’ani1no». Posta questa clausola ermeneutica, sulla scorta degli Elementi di teologia di Proclo, ma in forma molto più concisa, Boezio espone gli elementi essenziali della sua metafisica. Qui li trascriviamo letteralmente nella versione italiana, mentre in notaò il lettore li può trovare nell'originale latino:
molte
interpretazioni più
o meno
=
5) 6)
Cf. H. CHADWICK, 0p. sit., pp. 261-262. Cf. anche S. TOMMASO D’Aoumo, Commento ai libri di Boezio De Trinitate e De Ebdonladibtts, ESD, Bologna 1997, pp. 237-289. «2. Divcrsum est esse et id quod est; Ipsum enim nondum est; at vero id quod est, accepta essendi forma, est atque consistit. 3. Quod est partecipare aliquo potest, sed ipsum esse nullo modo participat. Fit cnim participatio cum aliquid iam est. Est autem aliquid cum esse susceperit. 4. Id quod est habere aliquid, praetcrquam quod ipsum esse, potest; ipsum vero esse nihil aliud praeter se habet admixtum. 5. Diversum est tamen esse aliquid in eo quod est et esse aliquid. Illic enim accidens, hic substantia significatur. 6. Omne quod est participat, eo quod est, esse, ut sii; alio Vero participat ut aliquid sit. Ac per hoc id quod est participat eo quod est esse, ut sit; est vero ut participare alio quolibet possit. 7. Omne simplex esse suum et id quod est unum habet. 8. Omni composito, aliud est esse, aliud ipsum est. 9. Omnis diversitas discors; similitudo vero
appetenda est» (PL, 64, 1311).
232
Parte prima
2. L'essere
(esse) e
ciò che è (id quod est) sono diversi: l'essere stesso ciò che ‘e, ricevuta la forma dell'essere (forma
infatti, non ‘e ancora; ma essendi), è e sussiste.
3. Ciò che è può partecipare a qualche cosa; ma l'essere in sé non partecipa in alcun modo a nulla. La partecipazione si ha infatti quando qualche cosa già è; ma qualche cosa è quando abbia accolto in sé l'essere. 4. Ciò che è può possedere qualche cosa al di fuori di quel che esso è;
l'essere in sé non ha altro a sé unito tranne se stesso. 5. È diverso l'essere soltanto qualche cosa‘ ed essere qualche cosa in ciò che è; là si intende l’accidente, qui la sostanza 6. Tutto ciò che partecipa di ciò che è essere, per essere, partecipa ad altro per essere qualche cosa. E perciò quel che è partecipa di ciò che è essere, per essere; ed è per partecipare ad altro, qualche cosa. 7. Ogni realtà semplice possiede come unità il proprio essere e ciò che ‘e. 8. In ogni realtà composita altro è l'essere, altro l"’è" in se stesso. 9. Ogni diversità è discorde, mentre la somiglianza dev'essere ricercata; e quel che desidera qualche cosa, si dimostra essere tale, quale è quello che desidera. ma
Al
quesito del diacono Giovanni sulla ragione della bontà delle particolari che non sono la Bontà stessa, Boezio non risponde
sostanze
immediatamente e direttamente come avrebbero fatto i Neoplatonici che consideravano il Bene, identico all'Uno, come supremo principio di tutte le cose, ma prende una via più lunga, risalendo più a monte, perché per Boezio il principìo supremo non è il Bene ma l'essere. Perciò, egli esamina anzitutto la ragione dell'essere degli enti (sostanze particolari concrete) in rapporto all'essere in se stesso. E Così il suo De hebdomadibus si presenta come un condensato della metafisica dell'essere. Il breve trattato boeziano ha giustamente attratto l'attenzione degli
storici. La sua grande originalità e importanza riguarda l'oggetto della metafisica. Infatti, mentre tutte le metafisiche neoplatoniche erano centrate sull'Uno ed erano pertanto metafisiche henologiche, la metafisica di Boezio invece ‘e centrata sull'essere, ed è pertanto una metafisica ontologica. Ovviamente Boezio non è il creatore di questo paradigma metafisico. Prima di lui esistevano già le metafisiche dell'essere di Parmenide e di Aristotele, e dopo Boezio ci sarà la metafisica dell'essere di S. Tommaso. Così, naturalmente gli studiosi, per definire la metafisica boeziana, l'hanno messa a confronto sia con l'ontologia aristotelica sia con quella tomistica. La tendenza generale è di ridurre Boezio ad Aristotele intendendo la distinzione tra esse e id quod est come distinzione tra sostanza universale e sostanza concreta individuale, oppure tra l'essere puro da ogni deter-
Boezio
233
forma particolare. Ma non pare parla, oltre che di distinzione tra esse e id quod est, anche di una composizione tra queuna sti due principi supremi della realtà e le realtà concrete sono il risultato di tale composizione e considera l'asse come forma, forma essendi, quindi come qualcosa di supremamente attuale, anche se nell’ente non gode di una propria sussistenza. Inoltre lesse boeziano non si esaurisce come l'esse aristotelìco nelle dieci categorie, ma le sovrasta tutte. Allora, se Boezio non può essere ridotto ad Aristotele, è più giusto avvicinarlo a S. Tommaso e vedere in lui un precursore di quello. In effetti il Dottore Angelico nel suo fine commento al De hebdomadibus assegna all’esse boeziano il senso forte di actus essendi e considera la distinzione tra esse e id quod est come equivalente alla distinzione tra atto d'essere ed essenza. Questa pare l'interpretazione più corretta. Tuttavia si deve precisare ulteriormente che la posizione di Boezio non coincide né con quella di Aristotele né con quella di S. Tommaso, e che è invece, più propriamente, sulla Via che conduce da Aristotele a S. Tommaso. Egli ha già isolato l'essere dalla sostanza e lo ha elevato al di sopra di questa, ponendolo al vertice supremo della realtà, e in questo oltrepassa nettamente Aristotele; in tutto ciò, però, Boezio non ha ancora colto nell'esse quella pregnanza e quella radicalità ontologica che ne fa l'actualitas omnium actuum e la pei-fectio omnium perfectionum e pertanto, sotto questo aspetto, non è ancora arrivato alla posizione della metafisica tomista dell'essere. Oltre che sulla capitale distinzione tra esse e id quod est, con l'assoluto primato dellflesse, l'edificio metafisico di Boezio si regge anche sulla nozione di partecipazione. Secondo l'autore del De hebdomadibus nessuno degli enti composti di esse e id qiiod est, che pure sono realissimi, si identifica con Pesse. Gli enti composti non sono l'esse ipsam, ma partecipazioni" dell'essere, e soltanto grazie alla partecipazione all'essere esistono: «id quod est participat eo quod est esse, ut sit». Il discorso di Boezio si svolge su di un duplice livello: logico e ontologico. Così la partecipazione di cui parla Boezio può essere intesa sia in senso logico-predicamentale sia in senso ontologico-trascendente]e. Nel primo caso si tratta della partecipazione dei generi e delle specie al concetto di essere; nel secondo caso si tratta della partecipazione degli enti finiti all'Essere assoluto. Terminato il preambolo ontologico, Boezio può dare finalmente l'attesa risposta al quesito del diacono Giovanni sui rapporti tra «le cose che sono buone in quel che sono pur non essendo il bene sostanziale». Si tratta di un rapporto di partecipazione e non di identità sostanziale. minazione e l'essere determinato da
che questa interpretazione sia
una
corretta. Infatti Boezio -
-
234
Parte prima
Buono sostanzialmente è soltanto il principio primo, Dio. Le altre cose sono buone perché traggono origine dal sommo bene e, perciò, partecipano della sua bontà. Ecco quanto scrive Boezio a questo riguardo: e non pesanti né colorate «... Se le cose non fossero altro che buone né estese nello spazio -, e non vi fosse in esse alcuna qualità se non soltanto l'essere buone, non parrebbero essere cose, ma. il principio delle cose; e dunque non parrebbero, ma parrebbe. Vi è infatti una sola realtà di tal genere, che sia soltanto bene e null'altro. Ma poiché queste cose non sono semplici, non avrebbero potuto neppure essere, se l'unico bene non avesse voluto che fossero. Per questo sono dette buone, perché il loro essere è scaturito dalla volontà del bene. Infatti il prinzo bene, poiché è, è buono in ciò che è; ma il bene secondo anch'esso è buono, poiché è scaturito da quello, il cui stesso essere è buono. Ma lo stesso essere cli ogni realtà è scaturito dal primo bene e da quel bene che è tale che giustamente si dice essere bene in Ciò che è. Dunque il loro stesso essere è buono; ed in effetti non sarebbero buone in ciò che sono, se non fossero scaturite dal primo bene»? —
Per Boezio la metafisica dell'essere
non
è
semplicemente un'ottima
buone e Bontà assoluta, ma è la trama metafisica fondamentale che sorregge tutte le realtà e tutti i loro aspetti. Così il rapporto tra cose buone e Bontà è identico al rapporto tra enti ed Essere, perché il bene è una proprietà trascendentale dell'essere: lo stesso «primo bene, poiché è, è buono in ciò che è». Senza l'essere anche le più nobili delle proprietà trascendentali come la bontà e la verità precipitano nel nulla. La metafisica di Boezio è davvero una chiave di lettura per
capire rapporti i
tra
cose
ontologia non una henologia o un”’agatologìa" o unmalethelogia”! Coniugando assieme la metafisica dell'essere con la metafisica della partecipazione Boezio crea un modello inedito di metafisica, in cui si realizza una straordinaria sintesi e non una semplice concordanza tra
Aristotele e Platone. La metafisica di Boezio, come risulterà meglio dal De consolatione philosopiziae, non è soltanto aristotelica e platonica ma anche cristiana. Questo però appare già chiaro nel De hebdomadibus dove la partecipazione non è descritta come una partecipazione per pura somiglianza, come avviene in Platone, o per derivazione, come succede nei neoplatonici, bensì per creazione: «le cose sono buone perché sono scaturite dalla volontà del Bene». Il Bene, Dio, comunica alle cose la propria perfezione, non togliendola da sé ma traendola dal nulla, chiamando all'essere realtà che imitano il suo stesso Essere.
7) BOEZIO, La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici, a cura di L. ORBETELLO, Milano 1979, p. 388.
Boezio
235
Il De consolatione philosophiae:una metafisica del bene e del male, della provvidenza e della libertà Con l'opuscolo De consolatione philosopltiaeBoezio passa dalla metafisica generale alla teodicea, cioà la parte della teologia che si occupa dei rapporti tra il male e la giustizia divina, e si cimenta con due problemi che da sempre hanno angustiato la mente umana: i problemi del male e
della provvidenza divina. Nella classicità greca di questi problemi si era interessata più la tragedia che la filosofia. Soltanto nel tardo ellenismo erano stati presi in considerazione anche dai filosofi, specialmente dai neoplatonici. Plotino li aveva discussi ampiamente e vivacemente in Vari trattati delle sue Enneadi. Egli aveva difeso la provvidenza divina concependola però più come preveggenza che come volontaria assistenza alle creature, mentre il male era stato da lui imputato principalmente alla materia. La metafisica cristiana introduce nel dibattito un nuovo concetto (personale) di Dio e un nuovo concetto del male, che viene definito come privazione del bene (privatio troni). Ma il fattore determinante per la soluzione del problema del male diviene la libertà. Così la discussione non è più centrata sul binomio male-provvidenza, bensì sul trinomio
male-provvidenza-libertà. È precisamente su questo trinomio che imposta la discussione Sant'Agostino nel De libero arbitrio e nel De civitate Dei. Altrettanto fa Boezio nel De consolatione philosophiae.Però, diversamente da Agostino che aveva fornito una chiarificazionerazionale di verità già accolte per fede, Boezio affronta questi delicati problemi sul terreno della pura ragione, così come avevano fatto i neoplatonici. Questo procedimento, come si vedrà, darà luogo a grandi perplessità e ad interpretazioni assai contrastanti del suo pensiero. Ad ogni modo, l'approccio del De Consolatione è rigorosamente filosofico (non teologico, biblico o pastorale). È alla filosofia infatti che Boezio si rivolge per avere la risposta ai suoi angosciosi interrogativi. La filosofia viene rappresentata nella figura di una maestosa signora «dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità umana, dal vivo colore e dall’inesausto vigore». Per prima cosa, per portare
aiuto alla mente ammalata di Boezio la filosofia scaccia le muse le «donnacce del teatro» perché «esse non solo non lenirebbero i suoi dolori con qualche rimedio, ma anzi li fomenterebbero con dolci veleni»; poi risveglia Boezio dal sonno e dallobnubilamentodella ragione. «Allora, scossa via la notte, mi lasciarono le tenebre, e gli occhi riacquistarono il pristino vigore e... dissoltesi le nebbiedella tristezza, rividi il cielo, e ritornai in me per riconoscere il volto di colei che intendeva -
—
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Parte prima
curarmi. Non appena ebbi rivolto a lei gli occhi e 1’ebbi fissata, ecco vedo la mia nutrice, nella cui dimora m'ero aggirato fin dall'adolescenza, la fil0sofia».8 Ora col valido sostegno della Filosofia che è sapienza e amore disinteressato della verità, e che «non vuol lasciar privo di compagnia il cammino dell’innocente» Boezio può affrontare serenamente l'angoscia-so problema: Dov'è Dio quando lfinnocente soffre, perseguitato dalla disavventura e dalla cattiveria umana, mentre allo stesso tempo ai perversi, ai malvagi, ai cattivi sembra che tutto vada per il verso giusto? In altre parole: «Se vi è Dio, da dove Vengono le cose malvagie? E da dove le cose buone, se Egli non è?».9 E dando al problema un taglio squisitamente personale Boezio soggiunge, rivolgendosi alla Filosofia: «Ricordi, come credo poiché tu mi eri sempre vicina e mi dirigevi in quel che dicevo e in quel che facevo -, ricordi, dico, quando a Verona il re, bramoso della rovina universale, cercava di trasferire a tutto quanto l'ordine senatorio l'accusa di lesa maestà portata contro Albino, con quanta noncuranza del mio pericolo personale abbia difeso l'innocenza dell'intero Senato. Sai che queste mie affermazioni sono vere, e che non ho mai menato vanto in alcuna mia lode; il riserbo della coscienza in pace con se stessa diminuisce infatti in qualche modo ogni volta che ostentando quel che s'è fatto, se ne riceve in compenso la fama. Ma tu vedi come sia andata a finire la nostra innocenza; invece dei premi della vera virtù riceviamo il castigo di un falso de1itto».10 Per risolvere il complesso e difficile problema bisogna procedere con ordine. Per chiamare in causa Dio occorre anzitutto mettere al sicuro la verità che Dio esiste e che la sua natura è dotata di certi attributi incluso quello della provvidenza. Così dopo avere chiarito in che cosa consiste effettivamente la felicità per l'uomo, il suo sommo bene e avere mostrato che questo non si trova né alle ricchezze né negli onori né nei piaceri,ma soltanto nel raggiungimento di colui che è davvero il bene sommo, Dio, Boezio si accinge a dimostrare l'esistenza di Dio e a chiarire qual è il suo rapporto col mondo. -
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L'esistenza di Dio Come prova dell'esistenza di Dio Boezio adduce l'argomento dei gradi di perfezione, argomento già utilizzatoda S. Agostino e che coincide con la quarta ”via” di S. Tommaso: «Tutto ciò che vien detto imperfetto,
5) lbid., p. 135. 9) Ibiaî, p. 146. 10) BOEZIO, De consolatione philosaphiae1, 4, 95-100.
Boezio
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è evidentemente tale per diminuzione del perfetto. Ne consegue che, se in qualsiasi genere di cose sembri esservi alcunché di imperfetto, debba ivi trovarsi necessariamente anche qualche cosa di perfetto».11 Come si vede, l'argomento boeziano consta di un fatto: il fenomeno dei "gradi di perfezione", e di un principio: i gradi non solo sono pensabili,ma esistono grazie a un grado massimo. I due asserti giustificano la conclusione: esiste un Essere primo e massimo, che possiede in se stesso per essenza quel che nei vari gradi si trova misurato e distribuito secondo un certo ordine. Un altro argomento a favore dell'esistenza di Dio Boezio lo trae dal fenomeno dell'unità del mondo, di un mondo che risulta tuttavia molteplice, composto e diviso in innumerevoli parti: «Questo mondo non avrebbe potuto trarre in alcun modo una forma unitaria da parti così diverse e contrarie, se Colui che ha unito insieme realtà così diverse non fosse stato uno. La stessa diversità delle varie nature tra di esse discordi, non appena unificatasi si sarebbe dissociata e scompaginata, se non Vi fosse Uno che mantenesse unito ciò che aveva congiunto. L'ordine della natura non sarebbe così stabile, né si esplicherebbe in così armoniosi movimenti secondo i luoghi, i tempi, gli effetti, gli spazi, le qualità se non fosse Uno colui che regola questa molteplice varietà di mutazioni, rimanendo Egli stesso immutabile. Questo essere, qualunque esso sia, per opera del quale lo realtà create durano e divengono, con nome da tutti usato, lo chiamo Dio>>.‘2 I gradi di perfezione e l'ordine delle cose esigono dunque l'esistenza di Dio: la esigono perché sono fenomeni che denotano una contingenza radicale, quella contingenza che tiene in sospeso il mondo e tutto quanto si trova in esso tra le fauci del nulla e le braccia di Dio, e attesta che il mondo non cade nell'abisso del non-essere perché è tenuto stretto dalle mani paterne di Dio. Pertanto dire che Dio esiste e dire che Dio è padre è praticamente la stessa cosa: la verità della provvidenza è quindi strettamente congiunta alla verità della esistenza di Dio e, indirettamente, alla verità della creazione. Infatti Dio esiste perché il mondo ha bisogno di un creatore e di un padre provvidente.
La provvidenza, il male e la libertà Sennonché la certezza che Dio esiste, che è creatore e padre dell'universo, che è sommamente provvidente rende ancora più spinoso il problema del male, soprattutto quando questo colpisce i giusti, gli innocenti.
1") ÎbicL, 3, 10, 8-12. l?) Îbid., 12, 10-20.
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Parte prinza
Infatti in un mondo retto dal Fato 0 in preda al caos, è perfettamente comprensibileche ci sia oltre che disordine anche ogni genere di mali e di ingiustizie. Ma che questo accada in un mondo che ha «al comando e
al timone» Dio, per cui «la sua struttura si conserva stabilmenteordinata»,13 è un grosso scandalo per la nostra ragione. Com'è possibile che il male si insinui e insozzi un mondo che è costantemente sotto la guida premurosa e paterna di Dio? Da che cosa dipende? In che cosa consiste effettivamente il male e qual è la sua causa? A questo punto Boezio riprende la problematica che tanto aveva angustiato Agostino e la risolve sostanzialmente allo stesso modo. Le verità a cui si appella Boezio, al pari di Agostino, per risolvere la scabrosa questione sono cinque, e vanno prese tutte insieme, congiuntamente, anche se a prima vista sembrano verità conflittuali: la verità che il male non è una sostanza bensì una privazione; la verità che il male trae origine non da Dio ma dalle stesse creature, o a causa della loro finitezza (male fisico) o a causa del loro cattivo uso della libertà (male morale); la verità che l'uomo è libero; la verità che Dio è sempre la causa prima di tutto ciò che è e accade, cioè di tutto ciò che viene alla luce dell'essere e che nella luce dell'essere persevera; la verità che l'azione della provvidenza di Dio non viene sospesa quando l'uomo agisce liberamente. Di queste cinque verità quelle che sembrano maggiormente in contraddizione tra loro sono la terza (libertà) e la quinta (provvidenza). Come è possibile affermare che la provvidenza conosce tutto e tutto dispone e pretendere allo stesso tempo che essa lasci intatto lo spazio della libertà umana? A questo punto Boezio introduce due distinzioni di essenziale importanza: la distinzione tra prevedere e predeterminate e quella tra la condizione temporale e la condizione eterna. E con queste distinzioni il problema è praticamente risolto. Infatti Dio prevede ma non predetermina il male e le azioni libere dell'uomo, e può prevedere senza predeterminare perché egli conosce e opera sul piano dell'eternità e non su quello della successione temporale. Ecco come lo stesso Boezio giustifica e spiega l'affermazione che Dio possa prevedere senza predeterminate: -
-
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«Di ciò potrai facilmenteconvincerti in base a queste considerazioni. Vediamo infatti molte cose mentre avvengono perché ci cadono sotto gli occhi, come i gesti che si vedono fare dagli aurighi nel guidare e nel far voltare le quadrighe, e altre cose del genere. Orbene, vi è forse
13) Ibiti, 35.
Boezio
239
qualche necessità che costringa alcuna di quelle cose a verificarsi quel dato modo? Nessuna; anzi, se tutte le cose si muovessero
una
in
—
costrizione, il valore dell'attività umana sarebbe ridotto a. nulla. Dunque ciò che, mentre accade, è esente dalla necessità di esistere, anche prima che accada è in condizione di accadere senza necessità. sotto
Vi
sono
pertanto
cose
che accadranno, la cui attuazione è libera da
ogni necessità. Nessuno, credo, vorrà infatti dire che, prima di avvenire, quello che avviene non sarebbe stato nella condizione di ciò che sarebbe avvenuto; dunque, anche se conosciuto in precedenza, è libero nella sua attuazione. In realtà come la scienza delle cose presenti comporta nessuna necessità a quanto sta avvenendo, così la prescienza delle cose future non ne comporta alcuna a quelle che si verificheranno in futuro».14
non
Così, il dilemma logico tra provvidenza divina e libertà umana è risolto. Dio non prevede il futuro come noi facciamo, perché dinanzi a Lui non sussistono ne’ il passato né il presente né il futuro, ma tutta la successione sia pure infinita del tempo è presente alla sua eternità, e viene da Lui conosciuta con un atto dîntuizione omogeneo alla sua sem-
plice natura.
D'altronde sul piano ontologico, precisa Boezio, nulla può sfuggire all'intervento di Dio, pena la sommersione nel nulla. Tutto quanto una cosa è e tutto quanto essa possiede è posto dalla volontà creatrice di Dio. Egli è la «causa che ha donato l'essere», dice un verso del De consolatione, e perciò conosce la realtà negli abissi più profondi, come il compositore conosce in maniera singolare e unica la propria composizione, poiché l'ha prodotta la sua mente. Così Dio, padre di tutte le cose, tutte le fa essere e tutte le conosce, ben diversamente da come le conosce l'intelligenza umana che ne resta sempre all'esterno, senza riuscire mai a penetrare la loro intima ragion d'essere. Nulla di quanto vi è di più segreto e profondo nell'uomo è sconosciuto a Dio, che scruta i cuori. Boezio lo
14)
Ibid. 5, 4, 39-56. Più avanti Vargomentazione viene completata nel modo seguente: «Poiché Dio si trova sempre in uno stato di eterna presenza, anche la sua scienza, travalicando ogni mutamento temporale, rimane nella semplicità della propria presenza, e abbracciando tutti gli spazi infiniti del presente e del futuro
li contempla nel proprio semplice atto di conoscenza come avvenissero proprio in quel momento. Sicché se vuoi valutar bene la previdenza, con cui egli distingue tutte le cose, riterrei più giustamente che sia non prescienza per così dire del futuro, ma scienza di una presenza che non viene mai meno; ragion per cui Viene meglio detta provvidenza che previdenza, perché posta ben lungi dagli esseri più bassi, vede dinanzi a sé tutte le cose come dalla vetta più eccelsa delle cose»
(Ibid., 6, 53-64).
240
Parte prima
conferma: «La nostra vita si svolge alla presenza di un Giudice che tutto vede». Di qui la grandissima dignità dell'uomo e allo stesso tempo la sua enorme responsabilità. La dignità viene dalla sua origine, la responsabilità dalla meta che gli è promessa, Dio stesso, la Causa prima che gli ha dato l'essere. Di fronte a Dio, principio primo e termine ultimo della esistenza umana, la parola del filosofo si trasforma istintivamente in preghiera e proprio con un insistente richiamo alla preghiera Boezio conclude il suo capolavoro: «Allontanatevi dunque dai vizi, praticate la virtù, innalzate l'animo a giuste speranze, indirizzate al cielo umili preghiere. Vi incombe, se non volete fingere di non saperlo, una grande necessità di essere retti, poiché le vostre azioni si compiono dinanzi agli occhi di un giudice che vede ogni cosa>>fl5 Uno dei punti più dibattuti tra gli studiosi di Boezio riguarda la qualifica da dare al suo pensiero. C'è chi ha voluto vedere nella sua esclusione della fede nella discussione del problema del male, una forma di pensiero laico, perfettamente in linea con i procedimenti della filosofia greca. Ora non c'è dubbio che Boezio il quale conosceva assai meglio dei Padri della Chiesa la diversità sostanziale che sussiste tra la filosofia e la teologia, nella Consolazione ha inteso darci un'opera squisitamente filosofica, che attinge cioè soltanto alle forze della ragione per risolvere il problema del male. Ma di quale filosofia si tratta? Ci troviamo davanti a una filosofia greca oppure ad una filosofia cristiana? A mio avviso si tratta di un'opera esemplare di filosofia cristiana: cioè di un'opera che non avrebbero mai potuto scrivere né Platone né Aristotele, né Porfirio né Proclo. Vediamo perché. Per filosofia cristiana si intende come ha precisato Gilson un procedimento filosofico che desume il metodo (che può essere la logica o la dialettica) e il criterio di verità (che è l'evidenza) dalla filosofia, e che tra i suoi contenuti comprende anche verità (quali la creazione, la provvidenza, la persona, la libertà, la storia) che in origine appartengono al patrimonio biblico, cioè rivelato, ma che sono suscettibilidi una perfetta razionalizzazione. Questo è esattamente il caso della Consolazione. Infatti, pur adottando la metodologia e il criterio di verità della filosofia, Boezio nell'esame del suo problema non ignora affatto quelle verità, imprescindibiliper la comprensione e la giustificazione del mondo, che sono giunte a noi attraverso il cristianesimo: la trascendenza e immanenza di Dio, la creazione, la provvidenza, i Concetti di persona, di libertà e di storia. Anzi, -
15) Ibid, 6, 155.
—
Boezio
241
queste verità sono talmente vive nella coscienza di Boezio, da costituire i temi dominanti della sua opera, la quale risulta pertanto formalmente filosofica, nella sua interezza, e nello stesso tempo materialmente cristiana. In effetti, «nessun
pensatore dell'antichità pagana ebbe una concezione così Divinità, come trascendente e creatrice, e in accordo con
netta della
essa sviluppò la propria riflessione sull'uomo e la condizione umana: sulla natura della felicità, il bene, il male, i premi e i castighi che sono loro relativi, la provvidenza divina, la libertà umana, la responsabilità che ne segue, i rapporti che devono intercorrere tra l'uomo e Dio. La sua coerenza è coerenza cristiana; il suo fondamento di convinzioni e di certezze deriva da un'autorità più alta di quella della ragione, per sua natura vincolata allbscillazione perpetua tra la verità e l'errore. E indubitabile,nelle pagine di Boezio, la presenza della tradizione di pensiero cristiana. Essa non è conclamata né professata esplicitamente nel De consolatione, è vero; ma ciò è secondario rispetto alle evidenze di fatto che esso contiene. Il silenzio formale nasce da un presupposto metodologico che viene a Boezio dai suoi studi, ligi al rigore scientifico e quindi alla distinzione tra le diverse competenzewfi
Il De Trinitate: ontologia trinitaria Anche questo è
modeste proporzioni, che tuttavia ha nello importanza sviluppo della teologia trinitaria. Come abbiamo visto, già Agostino aveva operato un'eccellente traduzione del mistero trinitario nel linguaggio della metafisica dimostrando che delle dieci categorie aristoteliche l'unica utilizzabileper chiarire la distinzione tra le persone divine ‘e la relazione. Questa tesi viene ripresa da Boezio, apportandovi ulteriori precisazioni. Anche Boezio intende avvalersi del linguaggio della metafisica per trovare un'adeguata formulazione del mistero trinitario. «Per questo rendo conciso il mio stile, e nascondo sotto il velo di nuovi sensi delle parole i concetti tratti dalle più profonde dottrine filosofichem” La questione che Boezio affronta non riguarda la ragione per cui nell'unico Dio ci sono tre Persone, bensì la ragione per cui essendoci in Dio tre Persone non abbiamo tre dei ma un solo Dio: «In qual modo la Trinità sia un solo Dio e non tre Dei» (Quomodo Trinitas unus Deus ac non tres Dii). un
trattato di
avuto la sua
16) L. ORBETELLO, op. cit, pp. 66-67. 17) BOEZIO, La consolazione della filosofia... cit., p. 358.
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Parte prima
Seguendo l'esempio di Agostino, Boezio sottopone ad una rapida verifica l'ambito semantico delle dieci categorie e dimostra che di esse sono applicabili a Dio soltanto la sostanza, la qualità, l'azione e la relazione. Però anche per queste categorie è necessario un arricchimento di significato e così non si deve parlare soltanto di substantia ma di ultra-
soltanto di bonitas ma di tiltra-bonitas, non soltanto di itltra-justitia. Così anche la categoria della "relazione" subijustitia sce, se applicata a Dio, un incremento di significato, mai reperibilealtrove nella imperfezione delle realtà create, e questo consente al teologo di predicare il rapporto tra Padre, Figlio e Spirito Santo come una relazione, appunto, come aveva chiarito Agostino, ma come una relazione tale che, infrangendo una fondamentale norma aristotelica, dovrà potersi realizzare non tra più sostanze, bensì all'interno dell'unica sostanza divina, in un modo che resta misterioso per la logica umana. Perciò anche la perfetta predicazione della relazione trinitaria non implica in Dio alcuna molteplicità o variabilità, ma soltanto un diverso e non meglio determinabile disporsi della sostanza divina in rapporto a se stessa, nella perfetta Ìfldlffflffifltifldelle tre Persone. Ecco la conclusione di Boezio: «La molteplicità numerica della Trinità si ha in quanto è una predicazione relazionale, ma l'unità è preservata in quanto non Vi è differenza di sostanza o di operazione o in generale di predicazione secondo se stessa. Così la sostanza mantiene l'Unità, la relazione costituisce la
substarttìa, ma
non
di
molteplicità della Trinità, e perciò si applicano singolarmente e separata-
mente soltanto i termini che riguardano la relazione. Infatti il Padre non è lo stesso che il Figlio, e lo Spirito Santo non è né l'uno né l'altro. E tuttavia il Padre, il e lo Spirito Santo sono lo stesso Dio, egualmente
Figlio
giusto, egualmente buono, egualmente grande ed ogni può essergli attribuita intrinsecamentew“
altra
cosa
che
Agostino e Boezio Tra
gli scrittori cristiani dell'antichità Agostino è indubbiamente che ha esercitato il maggior influsso su Boezio. Nel De Trinitatc
quello egli dichiara di essersi servito degli «scritti del beato Agostino» nel comporre quest'opera. In effetti, sia l'impostazione generale della trattazione e la scelta dei problemi da analizzare, sia le soluzioni che ne vengono proposte nel De corzsolatione coincidono con quelle elaborate dal maggior padre della Chiesa latina.” I8) Ibici, pp. 376-377. 19) Cf. H. CHADWICK, api cit., pp. 312 ss.
Boezio
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Ma, come abbiamo già osservato, Boezio si discosta da Agostino nel modo di concepire i rapporti tra fede e ragione. Agostino, dopo la conversione, pone la ragione al completo servizio della fede. La verità è un dono della fede e non una conquista della ragione. Unico compito della ragione è quello di ”intelligere" la verità già posseduta per fede. Boezio, invece, riconosce una maggior autonomia alla ragione, anche se questa nella soluzione dei problemi non può ignorare gli asserti della fede. Questa per Boezio è una guida importante a cui rivolgersi nei momenti di difficoltà per non cadere in errore. Invece per Agostino la fede è la sola signora, l'unica legittima e sicura detentrice del tesoro della Verità. Fede e ragione, «per Boezio, sono vie parallele che si incontrano soltanto in certi punti, quando la logica può contribuire a eliminare la confusione dovuta all'uso comune o popolare. La visione che Boezio ha dell'universo è di un grande tutto unico la cui disgregazione è evitata dalla bontà e dal potere della provvidenza; ci si potrebbe aspettare che egli sostenga una posizione ottimistica di concordia tra fede e ragione. In realtà un ottimismo di questa sorta è molto più presente in Agostino che in BOEZÌOmZ“ Anche per quanto concerne il rapporto con la filosofia greca si registrano alcune differenze notevoli tra Boezio e Agostino. Nella elaborazione di una metafisica cristiana e nella formulazione dei misteri della Trinità e dell'IncarnazioneAgostino e Boezio attingono principalmente ai neoplatonici. Ma Boezio, oltre che di Plotino e di Porfirio si serve anche di Proclo, che Agostino non poteva ancora conoscere. Inoltre, diversamente da Agostino che non si stanca mai di dichiarare di appartenere alla "setta dei platonici”, Boezio mostra grandissimo interesse anche per Aristotele. Dello Stagirita non soltanto traduce tutto l’Organ0n e ne commenta e approfondisce alcune parti, ma fa sue anche le tesi fondamentali della ontologia. Così, mentre la metafisica cristiana di Agostino è esclusivamente platonica, quella di Boezio ‘e platonico-aristotelica.
Conclusione _
Si è già detto del ruolo insostituibileche ebbe Boezio nella formaziodella cultura medioevale: per questo motivo egli è stato presentato come l'ultimo dei romani e il primo degli scolastici. Boezio infatti è l'ultimo rappresentante della filosofia classica e cristiana nel mondo latino. ne
20) 11nd, p. 314.
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Parte prima
Dopo di lui, nell’occidente caduto sotto il dominio dei barbari, le stesse radici non solo della filosofia ma della cultura in genere vennero distrutte. Con Carlo Magno ci sarà una brevissima rinascita, ma nei secoli IX e X l'Occidente sarà di nuovo in balìa dei barbari provenienti dall’est, gli Ungari, e dal nord, i Vichinghi. La rinascita della cultura Vedrà i suoi albori solamente nel secolo XI, e sarà una rinascita che avverrà nel nome di Boezio, tanto che a questo secolo viene dato il nome di ”età boeziana”. Infatti, sia nelle scuole delle abbazie sia in quelle delle cattedrali, docenti e allievi negli studi boeziani sulle arti liberali e sulla dialettica una risorsa di cui avevano davvero bisogno. Senza di lui il loro programma di istruzione non avrebbe fatto molti progressi. Dal nono secolo in poi si scrissero commenti per spiegare quanto di Oscuro vi era nei trattati teologici e nella Consolatio. Dai trattati dialettici e matematici i lettori di Boezio appresero la precisione e l'ordine: Boezio insegno ai pensatori medioevali ad esaminare i primi principi, ad essere attenti all'uso delle parole, a tentare di ricondurre un'argomentazione agli assiomi e alle premesse che ne costituiscono il fondamento. I principi di formulazione assiomatìca nel terzo degli opuscola sacra (il De hebdoniadibus) costituirono la base su cui nel dodicesimo secolo Alano di Lilla avrebbe intrapreso la costruzione di tutta la teologia come deduzione da una sola verità autoevidente. Sebbene stroncato nel fiore degli anni, così da non poter realizzare la sua grande aspirazione di tradurre tutta l'opera di Aristotele e di Platone, egli colse tuttavia in notevole misura il suo principale obiettivo, quello di ricuperare le parti più importanti della cultura filosofica greca per trasmetterlealle generazioni futurem” «trovarono
forza ed
Qui
una
sta il merito
principale di Boezio: nell'aver trasmesso un intero
mondo culturale ai suoi successori medioevali.
31) Ibid., p. 315.
Boezio
245
Suggerimenti bibliografici MARIO VITTORINO Edizioni: PL, VOl. 8.
Stadi: L. ABRAMOWSKI, "Marius Victorinus, Porphyrius und die ròmiZeitsclzrzj‘?far NT Wissenschaft 74 (1983), pp. 108128; B. CITTTERIO, Mario Vittorino, Brescia 1948; P. HADOT, Porfirio e Vittorino, Milano 1993; W. STEINEMANN, Die Seelenmetapnysik des Marias Victorinus, (diss) Amburgo 1989; C. M. VALVERI, La filosofia teologica di Mario Wttorino, Palermo 1950.
schen Gnostiker”, in
AGOSTINO Edizioni: L’ editio princeps fu curata da GIOVANNI DZAMERBACH, Basilea nel 1506. Nella stessa Basilea, tra il 1528 e il 1529 ERASMO DA ROTTFRDAM pubblicò l'Opera omnia di Agostino. Fondamentali sono l'edizione dei Benedettini di San Mauro (MAUR), Parigi 1679-1700, voll. 11; ripubblicata a Napoli nel 1854 in 12 volumi e la Patrologia Latina del MIGNE, nei volumi 32-47 (Parigi 1841). È integrale la pubblicazione delle opere di Agostino nelle quattro più prestigiose edizioni critiche: dell'Accademia di Vienna, Corpus Scripta-ram Ecclesiasticorum Latinorum, (CSEL), del Corpus Christianoram (CC) di Turnhout, in Belgio, della Nuova Biblioteca Agostiniana (NBA), Editrice Città Nuova, Roma e della Bibliotheqne Augustinienne, Dcscléc de Brouwer, ed. Cic. Parigi. a
Studi: La bibliografia su Agostino è sterminata. Ci limitiamo a indicale opere fondamentali, e quelle più significative dal punto di vista filosofico e teologico. re
BONNER, St. Augustine of Hippo. Life and controoersies, Philadelphia 1963; C. BOYER, Agostino filosofo, Patron, Bologna 1965; P. BROWN, Augustine of Hippo, Londra 1967 (trad. it. Einaudi, Torino 1971); C. CREMONA, Agostino di Ippona. La ragione e la fede, Milano 1986; K. FLAsCH, Agostino di Ippona. Introduzione all'opera filosofica, tr. it., Bologna 1983; E. GILSON, Introduction a Fétudc de S. Aagustine, Vrin, Parigi 1949, 3a ed.; H. I. MARROU, S. Aagustin et la fin de la Culture antiqae, De Boccard, Parigi 1958, 4"‘ ed. accresciuta di una Retractatio di eccezionale importanza: tr. it., S. Agostino e la ji-ne della cultura antica, Milano 1986; B. MONDIN, Il pensiero di Sant'Agostino: filosofia, teologia, cultura, Roma 1988; V. PARONETTO, Agostino, messaggio di una vita, Studium, Roma 1981; A. PINCHERLE, Vita di Sant'Agostino, Laterza, Bari 1980; G.
246
Parte prima
M. F. SCIACCA, S. Agostino (lo vita, l'opera, Fitinerario della mente), Morcelliana, Brescia 1949; A. TRAPÉ, S. Agostino, Edizioni Esperienze, Fossano 1976; E. TROELTSCH,Agostino e il cristianesimo antico e il medioevo, tr. it. Napoli 1970; F. VAN DER MEER, Sant'Agostino imsiore d'anima, Edizioni Paoline, Roma 1971. BOÈZÌO
Edizioni: PL 63-64. Traduzioni italiane: La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici, L. ORBETELLO, Milano 1979; De Trinitate e De Ebdomadibus, in Commenti ai libri di Boezio, C. PANDOLFI, Bologna 1997. Studi: H. J. BROSCH, Der Seinsbegrijf bei Boethius, Leipzig 1928; H. CHADWICK, Boezio. La consolazione della musica, della logica, della teologia e della filosofia, Bologna 1986; A. HILDEBRAND, Boethius und seine Stellung
Christeniuin, Ratisbona 1985; R. MCINERNY, Boethiiis and Aquinas, Washington D. C. 1990,‘ L. ORBETELLO, Sezierino Boezio, Genova 1974, 2 V01]. con amplissima bibliografia; V. SCHUKR, Dei Trinitfiitslelire des
zum
Boethius, Paderborn 1935.
LA METAFISICA CRISTIANA NEL MONDO BIZANTINO: DIONIGI UAREOPAGITA,MASSIMO IL CONFESSORÈ, GIOVANNI DAMASCENO, MICHELE PSELLO
Mentre nel mondo latino, caduto l'impero romano d'Occidente, si arriva a un rapido declino e a una progressiva scomparsa delle lettere, delle scienze e delle arti, nonché della filosofia e della teologia, il mondo bizantino con i grandi imperatori del VI secolo, Giustino e Giustiniano, continua a progredire e a prosperare e dà alla luce opere insigni in tutti i
campi: nella politica e nel diritto, nella letteratura e nell'arte, nella filosofia e nella teologia.
Giustiniano con un editto del 529 chiuse tutte le scuole filosofiche pagane. Questa drastica decisione non significò tuttavia la fine della filosofia greca; essa continuò a essere coltivata dai cristiani che la ritenevano un strumento indispensabileper il lavoro del teologo. Tra le filosofie predominava largamente il neoplatonismo di Plotino e di Proclo. Dalle Enneadi di Plotino e dalla Teologiaplatonica di Proclo ricaVavano concetti e teorie gli scrittori cristiani dell'epoca bizantina. Poi, a partire dal secolo VII, anche Aristotele incominciò a essere studiato e commentato con maggior attenzione, e anche la sua metafisica venne utilizzatadai teologi. Le figure più significative di questo lungo periodo che si estende fino al secolo XI sono quelle di Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno e Michele Psello.
Dionigi l’Areopagita Dionigi l’Areopagita, oggi più comunemente denominato Pseudo-Dionigi, è una figura singolare nella storia della metafisica e della teologia, importante per la peculiarità del suo pensiero e per il grandissimo influsso esercitato sulla speculazione filosofica e teologica degli scolastici.
248
Parte prima
VITA E
OPERE
Della sua vita non ci è giunta nessuna informazione storica sicura. Dai suoi scritti si può però desumere che era un cristiano di origine siriaca che soggiorno a lungo ad Atene, dove seguì con entusiasmo i corsi di Proclo e di Damasco rimanendone profondamente influenzato. Un indizio del suo legame affettivo ad Atene e rappresentato anche dal fatto che egli, tra tanti personaggi, sceglie come pseudonimo proprio il nome dell’ateniese Dionigi l’Areopagita (discepolo di S. Paolo) e si qualifica, nei titoli dei suoi scritti, come vescovo di Atene. Ma con ogni probabilità non ebbe mai questo onore, che gli avrebbe reso impossibilel'anonimato. Si dà invece per certo che abbia condotto una vita ritirata, fatta di preghiera e di studio, in qualche cenobio della Siria o della Palestina. Per tutto il Medioevo l'autore del Corpus areopagiticimz fu considerato
come Yeffettivo discepolo di S. Paolo, e così si assegnò alle sue opere un credito del tutto singolare e un'autorità maggiore di quella che si dava ai grandi Padri della Chiesa, compreso lo stesso Agostino. La leggenda di Dionigi l’Areopagita fu dimostrata inattendibilein modo decisivo soltanto durante il Rinascimento a opera di Lorenzo Valla. Il Corpus areopagiticam si compone di quattro scritti: 1) I nomi divini: è una spiegazione dei nomi e degli attributi che la Sacra Scrittura assegna a Dio; è un saggio sul valore della nostra conoscenza e sulle possibilità e limiti del linguaggio teologico; 2) La mistica teologia: riprende molto sinteticamente il tema dell'opera precedente, sottolineando ulteriormente la trascendenza di Dio; 3) La gerarchia celeste: è il primo e più classico trattato di angelologia. Si apre con lo studio dell'essenza e delle proprietà degli angeli e poi viene determinata la loro gerarchia, suddividendoli in tre cori, ciascuno composto di tre gradi; 4) La gerarchia ecclesiastica: è un breve trattato di ecclesiologia, in cui si prendono in considerazione: tre sacramenti (battesimo, eucaristia, cresima); tre stati sacerdotali (vescovo, presbitero, diacono); tre stati subordinati (monaci, cristiani comuni, catecumeni). In un'appendice si parla della sepoltura e del battesimo dei bambini.
NEOPLATONISMO CRISTIANO
L'impianto della costruzione teologica di Dionigi è manifestamente neoplatonico, mentre i contenuti sono essenzialmente quelli del cristianesimo. Dionigi è il primo autore cristiano, il primo Padre della Chiesa, che attinge a piene mani al neoplatonìsmo di Proclo e se ne serve per dare una struttura globale alle verità del cristianesimo, producendo quel singolare esemplare di neoplatonismo cristiano che è il suo sistema di
Diomgi, Massirrzo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello
249
pensiero. Da Proclo egli mutua il principio della triade, il quale prescrive che ogni essere sia costituito di tre momenti, che si chiamano permanenza (moné), uscita (proodos) e ritorno (epistrophé). In forza del primo momento un ente partecipa del principio superiore e, in quanto partecipa, permane in esso; in forza del secondo, differisce dal principio superiore e ne esce; grazie al terzo, desidera di acquistare una maggiore perfezione e perciò aspira a tornare al principio da cui è uscito. Per quanto attiene la forma cristiana del pensiero dello Pseudo-Dionigi gli studi di V. Lossky, E. von lvanka e W. Voelker hanno evidenziato la dipendenza dell'autore del Corpus dai Padri alessandrini e cappadoci. D10: PRIMATO DEL BENE sULUEssERE
grandi terni su cui si concentra la speculazione dello Pseudo-Dionigi: Dio e l'universo. E sono due temi non disgiunti ma saldamente legati, come sono congiunti e legati l’Uno e l'universo in Plotino. Dio è visto da Dionigi come il grande e potentissimo sole che irradia Due
sono
i
la sua luce generosa ed efficace sull'universo, mentre questo e inteso come il vastissimo specchio che riflette la luce di Dio e manifesta i suoi attributi. Nella possente cosmovisione dionisiana tutto è saldamente unito, perché tutto è collegato attraverso il triplice anell.o della gerarchia: tutto procede da Dio, tutto ritorna a Dio e tutto rimane in Dio. Nella trattazione del. mistero di Dio lo Pseud0—Dionigi si richiama ampiamente alla metafisica henologica dei neoplatonici: molte formule porfiriane e procliane sono riprese quasi alla lettera. Strettamente neoplatonico è il suo concetto di Dio, il quale viene identificato col Bene e con l’Uno. La Bontà è la stessa esistenza divina e «sta al di sopra di tutti gli esseri>>.1 Mentre essa stessa non ha forma, conferisce tutte le forme, e «in lei solo l'essere privo di sostanza è il superamento di ogni sostanza, la non vita è sovrabbondanza di vita, la non intelligenza è sovrabbondanza di intelligenza e tutte le cose esistenti nel Bene possono dare in maniera eccellente le loro forme agli esseri
che non l’hanno».2
un
Come Plotino l’Areopagita fa coincidere il Bene celebre testo in cui si afferma questa identità:
con
la Bellezza. Ecco
«Questo Bene è celebrato dai sacri autori come Bello e Bellezza, come Amore e Amato, senza dire tutti gli altri nomi divini che ben si addialla Bellezza che rende belli ed è del tutto graziosa. Il Bello e la Bellezza del resto non si possono separare nella causa che comprende
cono
1) 2)
De divinis nominibus 4, 3. Ibid.
250
Parte prima
tutti gli esseri (...). Il Bello sovraessenziale è chiamato Bellezza della bellezza che da parte sua viene elargita a tutti gli esseri secondo la misura di ciascuno, essa che, come causa dell'armonia e dello splendore di tutte le cose, getta a tutti, a guisa di luce, le effusioni che rendono belli del suo raggio sorgivo, chiama a sé tutte le cose donde appunto si dice anche Bellezza e raccoglie in se stessa tutto in in
uno
a causa
—
tuttom"
La designazione di Dio come Bontà e come Bellezza non e casuale e neppure è un semplice omaggio alla tradizione platonica e neoplatonica, ma nello Pseudo-Dionigi risponde a ragioni speculative ben precise: il suo obiettivo, infatti, non è semplicemente quello di definire la natura di Dio e tanto meno di tracciare unicamente una mappa dell'universo creato, ma soprattutto quello di comprendere e spiegare l'intreccio mirabile che unisce Dio al mondo e il mondo a Dio. Per questo assume come attributi fondamentali di Dio la Bontà e la Bellezza, perché sono gli attributi che meglio fanno da ponte tra lui e le sue creature. Dio è per Dionigi la causa prima e universale di tutte le cose. Ma quali sono le ragioni profonde della sua azione? Sono precisamente la Bontà e la Bellezza. Dio crea l'universo e lo ricolma d'ogni meraviglia perché è Bontà e perché ò Bellezza. [n quanto Bontà egli è portato a effondere i tesori del proprio bene, a comunicarli ad altri esseri; in quanto Bellezza vuole suscitare spettatori che lo contemplino, lo Iodino, lo godano e lo amino. Per essere causa piena di una realtà occorre essere di essa il principio efficiente, formale e finale. Grazie alla Bontà e alla Bellezza Dio svolge tutte queste funzioni: «Da questo Bello tutti gli esseri hanno ottenuto di essere belli, ciascuno a modo proprio, e a causa del Bello esistono gli accordi, le amicizie e le comunicazioni di tutte le cose e nel Bello tutte le cose sono unite. ll Bello è principio di tutte le cose in quanto causa efficiente, che muove tutte le cose e le tiene insieme con l'amore verso la propria bellezza; ed il Bello è il fine di tutte le cose ed è degno di essere amato in quanto causa finale (infatti, tutte le cose nascono a causa del Bello) e causa esemplare, perché tutte le cose si definiscono in riferimento a Lui. Infatti avviene per il Bello ciò che avviene per il Buono; tutte le cose in ogni maniera tendono al Bene e al Buono (...). Questo unico Buono e Bello è in maniera unica la causa di tutte le cose belle e buone, che sono molte».4 Seguendo Porfirio e Proclo, dalla suprema realtà, il Bene-Bello, lo Pseudo-Dionigi fa scaturire la triade fondamentale: l'Essere, la Vita e
l'Intelligenza, e a giustificazione di questa precisa gerarchia egli adduce 3) lbid, 4, 7. 4) lbid.
Dionigi, Massirrzo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele PseIlÒ
251
ragioni indicate dai due filosofi neoplatonici: il primato ontolodi cui gico gode l'Essere rispetto alla Vita e alla Intelligenza; infatti senza Essere non c'è né Vita né Intelligenza. Ecco le parole testuali delle stesse
l’Areopagita a questo proposito:
«L’Essere è preposto a tutti gli altri suoi doni: ne viene di conseguenche l'Essere in se stesso viene prima della Vita-in-sé o della Sapienza-in-sé 0 della divina Somiglianza-in-sé, e tutte le altre cose, che partecipano di qualche qualità, prima che di queste qualità partecipano dell'Essere; inoltre, anche tutte le cose in sé e per sé di cui gli esseri partecipano, partecipano dell'Essere in sé e per sé. E non esiste nessuna cosa di cui l’Essere in se stesso non sia sostanza e durata. Dunque, convenientemente Dio ‘e celebrato come preesistente a tutti gli altri in relazione al dono che li precede tutti. E infatti, colui che possiede fin da prima e in misura superiore il preesistere e l'essere superiore, ha fatto preesistere tutto l'Essere, voglio dire l’Essere in sé e per sé, e mediante questo Essere ha formato qualsivoglia modo di essere. Così tutti i principi degli esseri, in quanto partecipano dell'Essere, sono e sono principi, ma prima di tutto sono e poi sono principi. E se tu vuoi dire che la Vita-in-sé è il principio di coloro che Vivono in quanto vivono e la Somiglianza-in-sé è il principio delle cose in quanto simili, e l'Unione—in-sé il principio delle cose unite in quanto unite, e l'Ordine-in-sé il principio delle cose ordinate in quanto ordinate e di altre qualunque siano in quanto partecipano o a questo o a quello o ad ambedue o a molti; tu proverai che le Partecipazioni-in-sé partecipano di per se stesse anzitutto dell'Essere e in primo luogo sussistono per l'Essere, poi sono principi di questa o di quella cosa e con il partecipare all'Essere esistono e partecipanom‘ za
Per quanto riguarda la triade fondamentale: Essere, Vita, Intelligenza (la triade porfiriana e procliana) ci sono due importanti precisazioni da
fare. In
primo luogo essa non viene utilizzata dall’Areopagita per operare trascrizione del mistero cristiano della Trinità nel linguaggio della metafisica neoplatonica, come faceva il suo contemporaneo Mario Vittorino. Lo Pseudo-Dionigi non identifica l’Essere col Padre, la Vita col Figlio e Ylntelligenza (Sapienza) con lo Spirito Santo. Come risulta dai brani citati, egli non considera l’Essere, la Vita, e Hntelligenza come tre ipostasi distinte, come invece pensavano i neoplatonici e lo stesso Mario Vittorino, bensì come tre qualità primarie e come principi supremi di tutto l'universo sia intelligibileche sensibile. una
5) lbiaì, 5, 5.
252
Parte prima
luogo, sono qualità che sebbene in Dio costituiscano la realtà, prendono tuttavia nomi distinti perché danno luogo a partecipazioni differenti della infinita perfezione di Dio nelle cose create. Ecco un testo esemplare dell’Areopagita su questo punto: «Non sono cose diverse il Bene e l’Essere, la Vita e la Sapienza, né Vi sono In secondo
stessa identica
divinità superiori ed inferiori che producono queste o tutti i buoni effetti vengono da un solo Dio, come tutti i nomi di Dio da noi celebrati; e il primo (Bene) è la manifestazione della provvidenza perfetta di un solo Dio e gli altri (Essere, Vita, Sapienza) fanno conoscere le manifestazioni delle cose universali e particolari».6 Nelle opere dionisiane vi sono solo alcune brevi considerazioni sul mistero della Trinità, per illustrare il quale Dionigi ricorre ad immagini ben note alla patristica greca e latina. L'Unità sovraessenziale del primo Principio comprende in sé, in una mani.era che sfugge alla comprensione umana, le tre persone della Trinità, le quali rappresentano la separazione (diakrisis) in seno all'unità (herzosis). Pur rimanendo nettamente distinte e non ammettendo nessuna reciprocità o confusione tra i loro ruoli, le tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito, si trovano tuttavia l'una nell'altra in modo da formare un'unità superiore, così come le luci di più lampade si fondono in un'unica luce.7 Per rendere meno oscuro il mistero della condivisione totale della realtà divina da parte delle tre Persone della Trinità lo Pseudo-Dionigi ricorre alle classiche immagini del centro di un cerchio e del sigillo: «E comune ed unito e uno a tutta la Divinità il comunicarsi nella sua totalità a ciascuno di quelli che vi prendono parte. Come il centro di un circolo è in comune a tutte le linee che vengono tracciate nella circonferenza, e come le molte impronte di un sigillo partecipano del primo sigillo ed esso è tutto e lo stesso in ciascuna delle impronte e in nessuna parzialmente. Ma l’impartecipabilitàdella Divinità, causa di tutto, oltrepassa questi esempi per il fatto che non è tangibilee non ha nessun rapporto che comporti mescolanza con quelli che vi partecipanomfl molti
principi e
quelle cose,
ma
LA RIPARTIZIONE GERARCHICA DEL MONDO DELLE CREATURE Come molti filosofi e teologi cristiani che l'avevano preceduto anche lo Pesudo-Dionigi distingue nella creazione tre grandi ordini: quello spi-
rituale
(angelico), quello umano e quello materiale. Ma seguendo l'e-
sempio di Proclo ottiene una divisione molto più complessa ed articolata delle creature, avvalendosi del principio della gerarchia. 6) lbid, 2. 7) lbid, 2, 4. 5) lbid, 5.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Danzasceno, Michele Psello
253
Per gerarchia lo Pseudo-Dionigi intende la disposizione degli esseri in diversi gradi di perfezione secondo la maggiore 0 minore vicinanza a Dio. Essa comprende sempre tre attività (purificazione, illuminazione, unione) che gli ordini superiori esercitano nei confronti degli ordini in-
feriori.
«L'origine di
simile gerarchia, l'essenza della bontà, è la Trinità quale per sua bontà deriva a tutte le cose l'essere e il benessere. Ora questa felice gerarchia che trascende ogni cosa e che è realmente trina nell'unità, incomprensibilealle nostre forze, ma che sola conosce se stessa, ha concepito il disegno di salvare razionalmente noi e le sostanze superiori a noi. Ma questa salvezza non può avvenire in nessun altro modo se non mediante la deificazione di coloro che sono salvati, e la deificazione è assimilazionee unione con Dio, per quanto è possibile. Questo poi è il fine comune di ogni gerarchia, l'amore continuo di Dio e delle cose divine che si esplica santamente sotto l'ispirazione divina e unitivamente e, prima di questo, l'allontanamento perfetto e irrevocabile dalle cose contrarie, la conoscenza delle cose nel loro giusto valore, la visione e la coscienza della santa verità, la partecipazione divina alla perfezione unificante, il banchetto della contemplazione della stessa unità, come è possibile, banchetto che nutre spiritualmente e deifica chiunque vi si elevi».9 una
unica causa del creato dalla
”gerarchia” così come viene definita da Dionigi rientrano sol(a loro soltanto si addice infatti la purificazione, la illuminazione e l'unione). Dio non fa parte della gerarchia: la sua "collocazione” sta fuori: è al di sopra di qualsiasi gerarchia. La posizione di Dio è quella della Tearchia. Questa è la stessa Trinità divina considerata come Nella
tanto le creature
principio di deificazione, che rimane al di sopra di ogni essere deificato: «si trova al di sopra delle intelligenze e delle sostanzewv Gli esseri che vengono dopo Dio e che da lui sono stati creati sono raggruppati da Dionigi in due grandi gerarchie: celeste ed ecclesiastica. La prima comprende le intelligenze pure, ossia gli angeli; la seconda gli
uomini che sono stati riconciliati con Dio, cioè i membri della Chiesa. La struttura essenziale delle due gerarchie è la stessa ed è sempre formata
da tre elementi: ordine, scienza,
operazione. Anche il fine è lo stesso: la principale, però, della divinizzazione è la Tearchia, più precisamente lo Spirito Santo: «Tutta l'operazione sacra e imitativa di Dio viene riferita a Dio come causa e alle prime intelligenze deiformi in quanto prime operatrici e maestre delle cose divine. Dunque, la prima disposizione dei santi angeli possiede più di tutti la prodivinizzazione. L’artefice
9) De ecclesiastica ltierariîhia 1, 3. l”) De div. 110m. 1. 3.
254
Parte prima
prietà di infiammare e di trasmettere, effondendola, la sapienza tearchica, e la possibilità di capire la scienza altissima delle illuminazionidivine e quella proprietà che è dei Troni, e che significa l'attitudine aperta
alla recezione del Divino>>.11 In ossequio alla dottrina neoplatonica la quale esige che tutte le fasi della realtà si presentino in forma di triade (e anche al concetto cristiano di Dio per cui e costituito di una triade di persone, la Tearchia, e tutte le altre realtà che procedono da Lui partecipano e imitano questa sua qualità) nell'impianto generale delle Gerarchie, lo Pseudo-Dionigi inserisce una terza grande Gerarchia, dopo quella angelica ed ecclesiastica, la gerarchia legale; questo gli consente oltretutto un’appropriata collocazione per quel mondo sacro che viene dopo quello angelico e anticipa quello cristiano, il mondo dell'Antico Testamento che è precisamente il mondo legale: dell'ordine, della scienza e delle attività legali. Questa gerarchia, anche se in sede storica viene prima della gerarchia ecclesiastica, in sede ontologica e assiologica viene dopo. La gerarchia legale, fino all'avvento di Cristo, era l'unica gerarchia umana e svolgeva il ruolo che è proprio della gerarchia in quanto tale di far progredire i suoi membri sulla strada della divinizzazione. Come ogni gerarchia, anche la gerarchia legale comprende tre elementi: un sacramento, degli iniziatori al divino e degli iniziati. «Dopo quella gerarchia celeste e sovramondana, Dio, facendo venire benignamente fino a noi i suoi doni più santi, ha dato a noi fanciulli, come dice la Scrittura, la gerarchia legale, con immagini oscure della verità e rappresentazioni molto lontane dai modelli e con enigmi difficili da penetrare e con figure che contengono in sé una contemplazione occulta difficile a comprendersi, facendo risplendere senza danno una luce smisurata davanti agli occhi deboli. In questa gerarchia legale, l'iniziazioneera la guida al culto spirituale; iniziatori erano quelli santamente istruiti da Mosè che è il primo maestro e la guida dei pontefici della Legge. Descrivendo la sacra gerarchia legale, in riferimento a quel santo tabernacolo, egli chiamava tutte le cose, compiute santamente secondo la Legge, immagine della forma mostrata a lui sul Sinai. Iniziati poi erano coloro che venivano elevati per gradi dai simboli della Legge verso la dottrina più perfettamlî La gerarchia ecclesiastica completa la gerarchia legale e prepara alla gerarchia angelica: «La Sacra Scrittura chiama la nostra gerarchia iniziazione più perfetta, definendola pienezza e sacro complemento della —
prima (legale)».13
11) De codesti hiertîrchia 13, 3. 12) lbid,5, 2. 13) lbid.
-
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Danzascenu, Michele Psello
255
Con la formula della gerarchia lo Pseudo-Dionigi riesce a trovare un ordine rigoroso tanto rigoroso che non può non apparire forzato anche alle varie strutture della Chiesa, che egli riduce a tre: attiva, passiva e strumentale, ciascuna delle quali comprende tre elementi. La gerarchia attiva è costituita dai Vescovi, dai sacerdoti e dai diaconi; quella passiva, dai monaci, dal popolo e dai catecumeni; quella sacramentale o strumentale comprende il battesimo, Teucaristia e l’unzione (cresima). Dentro questa solenne impalcatura Dionigi riesce a trovare un posto preciso per tutte le Verità principali della fede cristiana e per tutti i punti fondamentali dell’ecclesiologia. ljimpalcatura ha carattere essenzialmente ontologico ma ciò non impedisce allo Pseudo-Dionigi di salvaguardare anche il carattere profondamente dinamico della realtà creata e in particolare della realtà ecclesiale; perché anche se è vero che Yimpalcatura è rigida e in un certo senso immobile, come la scala di un edificio, non sono invece affatto immobilile persone che si trovano sui vari gradini dellîmpalcaturagerarchica. Come unico è il loro punto di partenza, unico è anche il punto di arrivo, Dio: la scala gerarchica assolve la funzione di ristabilirela loro unione con Dio. —
-
SIMBOLISMO, ANALOGIA, ANACOGIA Nel
platonismo fìloniano e
nel
neoplatonismo una delle problemati-
che dominanti riguarda il valore della
il Bene) e del
nostra conoscenza
di Dio (l’Uno,
linguaggio che noi adoperiamo per parlare di Lui. Uapofatismo: ossia Yinconoscibilìtàe Yineffabilitàdi Dio è la soluzione proposta da Filone, Plotino, Porfirio e Proclo al problema. Di Dio l'uomo ottiene soltanto concetti negativi, perché la sua natura oltrepassa tutto ciò che è concettualizzabile,essendo infinita; e anche il nostro linguaggio che si riferisce a Dio ha un valore soltanto negativo, perché nessuna parola può dire ciò che Dio è in se stesso. Nella Teologia Platonica Proclo aveva chiarito ulteriormente le possibilità del linguaggio ”teologico” dando rilievo oltre che alla via negativa anche alla via eminenziale, che ricorre al suffisso hyper per parlare del Bene (Uno), dicendo per esempio che l’Uno è super-sapiente, superessere, super-sostanziale ecc. La via eminenziale non elimina Yapofatismo, ma evita di cadere nell’ateismo semantico e gnoseologico. Il problema del valore della nostra conoscenza di Dio e del linguaggio teologico è presente in tutto il corpus areopizgiticum, e costituisce l'argomento principale del De ciivinis numinibus, come si evince dal titolo stesso. Nella sostanza la soluzione dell’Areopagita coincide con quella di Proclo, mentre la discussione non viene svolta in astratto e in termini generali, bensì con precisi riferimenti al linguaggio degli autori della Sa-
256
Parte prima
Scrittura. Ciò su cui si interroga lo Pseudo-Dionigi è il significato dei nomi che la Scrittura dà a Dio e dei simboli che essa usa per illustrare il suo essere infinito e trascendente. [l ricco linguaggio simbolico adoperato dalla Scrittura, secondo l’Areopagita è perfettamente legittimo, sia perché è il linguaggio scelto da Dio stesso sia perché è un linguaggio pienamente rispondente alla cra
nostra natura. È Dio stesso
gure,
che ha voluto parlare agli uomini mediante simboli, fi-
immagini, analogie: «I primi maestri della nostra gerarchia (ossia gli apostoli) riempiti essi stessi del sacro dono della Tearchia soprasostanziale e inviati dalla bontà divina a comunicare questo dono agli altri, desiderando essi stessi ardentemente, in
quelli che
stavano con
quanto resi divini, di innalzare e divinizzare loro, hanno tramandato sotto immagini sensi-
una forma varia e molteplice ciò che è le cose divine, sotto forma materiale le tratti umani chiuso in sé, sotto naturali sotto immateriali cose e cose quelle sovrasostanziali,sia nelle iniziazioni scritte come in quelle non scritte, seguendo perfettamente le leggi sacre; e ciò non soltanto a causa dei profani ai quali non è concesso neanche di toccare i simboli, ma anche perché, come ho detto, la nostra gerarchia è in un certo senso simbolica, come si conviene a noi, e ha bisogno delle cose sensibili per elevarci più divinamente da queste verso le cose intelligibilim”
bili le
cose
sovracelesti e sotto
già detto nelle righe conclusive del testo citato, la via simbolica è quella che meglio, anzi unicamente, si addice alla nostra condizione che non è quella dei puri spiriti che hanno una conoscenza intuitiva e diretta di qualsiasi realtà, ma di spiriti incarnati, che raggiungono la Come è
del mondo sovrasensibilee immateriale soltanto partendo dal mondo sensibile e materiale. «Gli angeli in quanto esseri intellettuali comprendono Dio e la potenza divina, per quanto è loro concesso, mentre noi siamo elevati, per quanto è possibile, alle contemplazioni divine dalle figure sensibili».15 «L'amore di Dio verso l'uomo racchiude l'intelligibile nel sensibile, ciò che sta al di là dell'essere nell'essere, dà forma allfinformabilee tramite una varietà di simboli parziali moltiplica e raffigura la meravigliosa Semplicità di cui non si può dare nessuna rappresentazionemlfi
conoscenza
14) De eccl. hicr. l, 5. 15) llîiti, 1, 2. l“) De dir). nvm. 1, 4.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello
257
Ovviamenteil linguaggio simbolico non può essere presti alla lettera. I simboli devono valere come allusioni, suggestioni e non come descrizioni della realtà divina. L'Areopagita chiarisce efficacemente questo punto mediante la seguente illustrazione:
«Come, se discorrendo sulla natura dell'anima, la si rappresentasse alla maniera di un corpo, e si prestasscro altinvisibilele membra di un corpo, diversamente comprenderemmo le parti riferite a lei, cioè in maniera conforme allîndivisibilitàpropria dell'anima, e diremmo che la testa è l'intelligenza, il collo l'opinione, come situato a metà tra la ragione e Yirrazionale, il petto la collera, il Ventre la concupiscenza, le gambe e i piedi la natura, applicando in tal modo simbolicamente alle potenze psichiche nomi ricavati dalle parti del corpo. A maggior ragione, quando si tratta dell'assoluta trascendenza di Dio occorre purificare la varietà delle forme e delle immagini avvalendosi di esegesi sante e mistiche, confacenti alla natura del loro oggetto divino. E se tu vuoi attribuire a Dio, che non si può né toccare né rappresentare, le trc dimensioni del corpo, bisognerà dire che la grandezza divina è lo stesso procedere grandissimo di Dio verso tutte le cose, la lunghezza è la potenza che si stende sopra tutte le cose, la profondità è il segreto e Yinconoscibileche rimarranno incomprensibilia tutti».17 Il materiale simbolico è sempre molto
fraintendimenti ed errori di
ambiguo e
si presta
a
facili
comprensione. Pertanto tutti i simboli anche
raffinati esigono da parte dell'intelligenza uno sforzo di discernimento che li liberi dalla seduzione naturale delle figure per fare emergere il vero senso spirituale. L'Areopagita osserva che i simboli fortemente dissimili sono meno pericolosi di quelli apparentemente simili poiché non v'è assolutamente nulla di propriamente simile alla divina
i
più nobili e
Tearchia:
«lo penso che nessuno degli uomini veramente intelligenti potrebbe negare che le similitudini più lontane innalzino maggiormente la nostra intelligenza. Infatti, di fronte a sacre raffigurazioni più elevate è possibileche alcuni si facciano una falsa idea credendo che esistano sostanze celesti auriformi e uomini fatti di luce, sfolgoranti, splendidamente rivestiti di uno splendido abito ed emananti innocue fiamme o sotto tutte le altre belle forme dello stesso tipo che la Sacra Scrittura ha immaginato per rappresentare le intelligenze celesti. E affinché non dovessero incorrere in un simile pericolo gli uomini, i quali non concepiscono nulla di più alto dei beni sensibili,la sapienza dei santi sacri autori, che conduce verso l'alto, discende santamente anche verso dissomigiianze oscure, non per permettere alla nostra
17) lbid, 9, 5.
258
Parte prima
parte materiale di soffermarsi e di indugiare nelle immagini turpi, ma per innalzarela parte dell'anima che tende verso l'alto e sollevarla me
diante la bruttezza stessa delle immagini, di modo che non sembri né giusto né vero, persino agli esseri molto materiali, che gli spettacoli sovracelesti e divini possano essere simili a figure così grossolanemîî‘
La funzione dei simboli non ‘e teoretica
ma
armgogica: essi
servono a
elevare (anagoghè) l'anima a Dio, e non a farlo conoscere. E i simboli dissimili dalla realtà trascendente alla quale alludono hanno una virtù anagogica maggiore dei simboli simili.” L'espressione anagoghé e i suoi derivati arzagogòs e anagoghikòs ricorrono spesso nel Corpus areopagitico, in modo particolare nelle due Gerarchie. Tutto l'immaginario sacro delle Scritture ha funzione anagogica. Uscito dalle mani di Dio, dalla sua Bontà e Bellezza, l'uomo è destinato a fare a Lui ritorno. E il cammino del ritorno, Yanagogia, è tracciato sia dai sacramenti sia dal simbolismo letterario e dal linguaggio discorsivo. Per parlare di Dio gli autori sacri si servono anche del linguaggio concettuale e astratto e questo viene usato in due modi: positivo e negativo. Dei due il più veritiero è il secondo. Ecco un bel testo in cui lo PseudoDionigi sintetizza questa tesi fondamentale dellfiipofatismo: «Le tradizioni occulte della rivelazione scritturale celebrano la veneranda beatitudine della Tearchia sovrasostanziale come Ragione, Intelligenza, Sostanza, e ci palesano la razionalità quale si addice a Dio e alla sua sapienza, che è realmente esistenza e causa Vera dell'esistenza degli esseri, e la rappresentano come Luce e la chiamano Vita. Pur essendo queste rappresentazioni sacre così venerabili e pur sembrando essere poste in un certo qual modo al di sopra delle forme materiali, tuttavia anche così sono lontane dal significare un'idea tearchica conforme a verità. Infatti Dio sta sopra tutte le sostanze e tutta la vita, poiché nessuna luce lo può esprimere, dal momento che
qualsiasi ragione e qualsiasi intelligenza è incomparabilmentelonta-
na dalfassimilarsi allîmmagine autentica. Talvolta, poi, Dio è celebrato dalle medesime Scritture in modo sovramondano con rivelazioni che non hanno alcuna somiglianza con Lui, quando viene chiamato Invisibile,Infinito, lncomprcnsibilee con altre espressioni con le quali non si indica ciò che egli è, ma ciò che non è. Secondo me, questo modo è più conveniente a Lui, poiché, come la tradizione segreta e sacra ha spiegato, noi con verità affermiamo che Dio non esiste alla stessa maniera di altri esseri, ma che noi non conosciamo la sua infi-
18) 19)
De coel. hier. 2, 3. Cf. ibid, 1,2.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Darnasceno, Michele Psello nità
259
soprasostanziale, inintelligibileed arcana. Se dunque le negazioni nei riguardi delle cose divine, mentre le affermazioni non si
sono vere
adattano al nzistero delle cose arcane segue che il metodo di descrivere per mezzo
di
cose
dissimili sia
quello più Conveniente alle cose invisibili».20
I due modi (o vie), positivo e negativo, di parlare di Dio non devono dissociati ma abbinati:solo presi insieme essi danno la giusta misura di ciò che si intende dire quando si afferma che il linguaggio teologico (come pure il linguaggio metafisico in generale) possiede un significato analogico, e quindi né univoco né equivoco. Analogiall significa una modesta somiglianza là dove domina una forte dissomiglianza. E questo è esattamente il caso delle creature rispetto a Dio. La via positiva esprime la somiglianza, quella negativa la disessere
somiglianza. Seguendo Pesempio di ProcIo, lo Pseudo-Dionigi integra la via negativa con la via emìnenziale. Questa corregge la via negativa in senso positivo, ma toglie alla via positiva l'illusione di poter ottenere un'idea propria ed adeguata di Dio. Così Vengono ripresi i concetti positivi e trasformati in concetti trascendentali: la bontà diviene super-bontà, la sapienza super-sapienza, la potenza super-potenza, la sostanza super-sostanza, l'essere super-essere ecc.
Con la via ernincnziale l'Are0pagita non intende soltanto effettuare un'ulteriore purificazione del linguaggio teologico, ma vuole realizzare un effettivo accostamento ad un'espressione più adeguata della realtà divina. Mentre in sede conoscitiva la natura divina non è attingibileda nessun concetto, in sede linguistica essa può essere suggerita, caricando il linguaggio di superlativi. Il ”super” (hypèr) ha esattamente questa funzione: è come una freccia posta sulle nostre parole per orientarle verso Dio, e assicurare loro il conseguimento della funzione anagogica oltre che analogica. Con un uso abbondantissimo di hypèr Dionigi è riuscito a
2°) lbiaì, 2, 3. 2‘) Il termine analogia è adoperato da Dionigi in due sensi: ontologico e logico. Nel senso ontologico viene usato non per designare, come fanno spesso altri autori, le immagini e le somiglianze con Dio e la Trinità che si possono rintracciare nelle creature, bensì i modelli ideali, i paradigmi delle cose esistenti nella mente divina: «È cosa propria, infatti, della causa di tutte le cose e della bontà che sta sopra ogni cosa il chiamare gli esseri alla sua comunione secondo che ciascuno di essi ne è capace in relazione alla sua particolare nzisura (analogiasb (De corri. hier. 4, 1). Invece in. senso logico, significa che un termine non viene usato in
modo univoco. Cf. l'ottimo articolo di M. V. LOSSKY, "La notion des
‘analogies’ chez Denys le pseudo-Aréopagite" in Arch. hist. doct. et litt. da Mflî/Efl Age 5 (1930), pp. 279-309. ‘
260
Parte prima
costruire un fantastico e affascinante sistema di segni linguistici tutti convergenti verso un unico punto: la realtà divina, infinita, semplicissima,
perfettissima. Il linguaggio eminenziale, secondo l'Areopagita, aiuta la mente a tenere lo sguardo inchiodato su Dio, fino a quando non l'avrà raggiunto e
non
si sarà riunita
a
Lui. Ecco alcuni famosi testi dionisiani
su
questo
punto: «Noi usiamo gli elementi, le sillabe, i vocaboli, gli scritti, i discorsi a dei sensi; ma quando l'anima nostra si muove secondo le sue energie spirituali verso le cose spirituali, i sensi diventano superflui assieme alle cose sensibili; così pure le facoltà spirituali diventano superflue, quando l’ani1na divenuta simile a Dio mediante un'unione sconosciuta, si introduce nei raggi dell’inaccessibilelume con sguardi causa
privi di vista »_22 «Quanto più noi ci eleviamo verso l'alto, tanto più le parole si contraggono alla vista delle cose intelligibili.Così ora, penetrando nella caligine che sta sopra all'intelligenza, troveremo non la brevità delle parole, bensì la mancanza assoluta di parole e di pensieri. Là il discorso
discendendo dalla sommità verso l'intimo, secondo la misura della sua discesa, si alìargava verso un'estensione proporzionata, ma ora esso, salendo dalle cose inferiori verso ciò che sta al di sopra di tutto, man mano che si innalza si abbrevia e finita tutta l'ascesa si fa completamente muto e si unirà totalmente a colui che è inesprimibilemlîi
«Soltanto questa unione ci svelerà i misteri divini, ma non secondo modalità umane, bensì uscendo completamente da noi stessi e appartenendo interamente a Dio».24
già stato osservato, la principale funzione del linguaggio discorsivo come di quello simbolico, per lo Pseudo-Dionigi non è quella speculativa (data l’inconoscibilitàdi Dio) bensì l’anagogica. In questo Come è
quell’ascesa a Dio secondo la conoscenza e il linguaggio che corrisponde all’ascesa dell'anima a livello morale e spirituale. Tutte le forme di linguaggio hanno senso soltanto per quel sursum che impongono alla nostra intelligenza e in quanto la sosenso esso
è strumento efficace per
spingono verso Dio.25
12) De dir). nom. 4, 11. 23) De mystica theolvgîa c. 3. 24) De div. nom. 7, 1. 25) Cf. R. ROQUES, L/univers dionysien, Paris 1954, pp. 204 ss.
Dionigi, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Michele Psello
261
La grande originalità di Dionigi in tale questione relativa alla natura al valore del linguaggio teologico riguarda soprattutto l'uso "trascendente”, ”eminenziale" che si può fare del linguaggio umano quando si parla di Dio. Nessun altro autore l'ha mai teorizzato né praticato con genialità pari alla sua. Quando, per opera di Scoto Eriugena che li tradusse in latino e li commentò, gli scritti di Dionigi giunsero a conoscenza degli occidentali, riscossero un interesse enorme e costituirono una fonte primaria di studio, meditazione, commento e ispirazione. Lo stesso Tommaso d'Aquino, come ha dimostrato Ceslao Pera, è stato fortemente influenzato da Dionigi non solo per quanto riguarda la determinazione e la risoluzione di alcuni specifici problemi dottrinali, (come nella dottrina sulla conoscenza di Dio), ma anche nella impostazione generale del suo pensiero: in effetti l'impianto della Summa theologiae ricalca alla lettera l'impianto dell’exitus e del reditus del neoplatonico cristiano Dionigi. Dionigi si guadagnò un prestigio altissimo sia in Oriente sia in Occidente non solo grazie al suo pseudonimo. Giovanni Damasceno lo chiamerà: «sanctìssimus, sacratissirrtus et theologicissimusmîfiCome ha dimostrato H. U. v. Balthasar la grandezza dello Pseudo-Dionigi, questo genio così solitario, rimane intatta anche ai giorni nostri. Lo PseudoDionigi e il genio del linguaggio religioso: «un linguaggio che nessuno, prima di Dionigi, e nessuno dopo di lui ha più parlato, un linguaggio derivante non da una manieristica ed eccentrica caparbietà, ma da una intima decisione per la divinità di Dio e per la totalità delle sue manifee
stazioni salvifichemî?
Massimo il Confessore Massimo il Confessore ò una delle figure più originali del platonismo cristiano. «La visione del mondo che ci ha lasciato Massimo il Confessore ‘e, sotto Vari aspetti, il completamento e la piena maturità del pensiero greco mistico, teologico e filosofico. Esso appartiene a questo momento felice e fuggevole che unisce per l'ultima volta, prima della sua dissoluzione ormai prossima, le ricchezze acquisite e sviluppate attraverso gli sforzi di un'intera cultura: una rosa pienamente sbocciata che non-aspetta che il prossimo colpo di Vento per essere dispersa, una serenità senza nuvole d'un giorno d'autunno di cui le leggere brume già annunciano il declino»,28
35) Defidc orthodnxa 17, n. 18. 27) H. U. v. BALrHAsAR, 0p. cit, p. 135. 23) ID., Liturgie cosmique. Maxime le Confesseur, Paris 1957, p. 11.
Parte prinza
262
A
lungo ignorato e spesso sottovalutato, finalmente, durante gli ulti-il
von Balthasar, Massimo suscitare l'interesse e l'attenzione dei teologi e degli studiosi; si è riconosciuto così in lui un insigne teologo e uno dei massimi esponenti del platonismo cristiano.”
decenni, soprattutto per merito di H. U.
mi
Confessare è tornato
a
VITA Massimo il confessore nacque a Costantinopoli attorno al 580; dopo aver ricevuto un'ottima formazione letteraria e filosofica, compie in breve tempo una brillante carriera politica fino a raggiungere Yaltissima carica di segretario dell'Imperatore. Nel 630 abbandona l'alto ufficio statale e si fa monaco entrando in un monastero di Crisopoli (l'attuale Scutari). Più tardi lo troviamo a Cartagine (645), impegnato a combattere le eresie che affliggono la Chiesa in quella regione, in particolare l'eresia cristologica del monotelismo, la quale insegnava che pur ammesso che in Cristo ci siano due nature, tuttavia Egli è dotato di una sola volontà, quella divina. Per ottenere la condanna di questa eresia Massimo si impegna in molti sinodi africani e nel 649 prende parte al Concilio Lateranense, che si conclude con la condanna sia del monotelismo sia dei vescovi e patriarchi che l'avevano sostenuto. Questa condanna scatenò le ire dell'imperatore Costante II, che cercò con tutti i mezzi di far mutare opinione a Massimo. Risultati vani tutti i tentativi, l'imperatore fece mozzare la lingua a lui e ai suoi compagni. Questa amputazione e molte altre atrocità resero assai penosa l'ultima fase della vita di Massim0, il quale morì il 13 agosto 662.
OPERE le opere di Massimo il Confessore; di queste ben undici sono contro il monofisismo e ventitre’ contro il monotelismo; vi sono poi alcuni commenti a Dionigi Areopagita e a Gregorio Nazianze500 cano. Le opere più importanti sono: Liber asceticus (Libro ascetico); Numerose
sono
pita theologica (Cinquecento sentenze teologiche); Capita gnostica (Sentenze gnostiche); Ambigua (Teorie ambigue).
29)
gli iniziatori dello studio di Massimo il Confessore, aveva di un giudizio poco favorevole riguardo all'originalità e grandezza de S.
P. Viller, che fu tra
espresso
autore. Cf. P. VILLER, Aux sources de la spiritualité in "Revue d’ascétique et de mystique" 41 (1930), p. 259.
questo
Maxime,
Dionigi, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Michele Psello
263
Dalla vita e dagli stessi titoli delle opere si ha l'impressione che Massimo il Confessore sia stato soprattutto un polemista e che la sua preoccupazione principale fosse volta alla cristologia; ma gli storici hanno chiarito che egli fu soprattutto uno speculativo e un grandissimo esponente della filosofia cristiana di indirizzo neoplatonico. «L'istanza propria del suo pensiero risiede nell'idea dell'unificazione di tutti i modi di essere e di tutte le essenze create nel Logos fatto carne» (E. V. IVANKA). In effetti è su questo impianto unitario, articolato in poche fondamentali divisioni, che Massimo il Confessare evolve tutto il suo pensiero, seguendo l'impostazioneneoplatonica dell'exitus e del reditus.
LA COSMOVISIONE In un capitolo degli Ambigua Massimo il Confessore presenta la seguente sintesi della sua cosmovisione: «Cinque sono le distinzioni fondamentali, in cui gli antichi hanno diviso il mondo: la prima è quella che distingue la natura increata (Dio) da tutto l'universo creato (ab incondita natura conditam universam naturam)». La seconda separa il mondo creato
in intelligibilee sensibile. La terza suddivide il mondo sensibilein terra cielo. La quarta distingue nella terra il paradiso dalla zona attualmente occupata dall'uomo. La quinta e ultima, infine, distingue l'uomo in maschio e femmina. «L'uomo, ultimo arrivato tra le creature, è posto come vincolo naturale di unione tra di loro, dato che i contrari che si registrano nell'universo sono presenti in lui e sono ricondotti all'unità nel suo essere. Così, grazie all'uomo si realizza quella riunione di tutto a Dio, che è la sorgente di ogni cosa e in cui non si dà nessunissima divisione».30 Per realizzare la riunione di tutte le cose in Dio è necessario anzitutto che l'uomo faccia scomparire la divisione che tocca la sua corporeità, cioè la divisione sessuale in maschio e femmina, perché questa divisione non è originaria, non facendo parte del progetto di umanità che Dio aveva concepito inizialmente, ma è entrata nel piano divino in un secondo tempo, per mettere l'uomo in condizione di ricuperare con la fatica e col dolore queltunione con Dio che era stata infranta dal peccato. Eliminata la divisione sessuale, cessa anche la distinzione tra mondo terrestre e paradiso, in quanto scompare ogni distinzione tra bene e male, e non c'è più nulla nell'uomo che sia esposto alla tentazione del peccato. Successivamente si compie anche la riunione tra la terra e il cielo, nella misura in cui l'uomo con la sua condotta riesce a rassomigliare agli angeli. In tal modo egli fa scomparire le barriere che dividono e
3°) Amhigua, PG 91, 1303 D-1306 A.
264
Parte prima
le cose pesanti da quelle leggere e rimuove tutti gli ostacoli che lo tengolontano da Dio, mettendosi in condizione di compiere l'ultimo passo, quello della completa riunificazionedi tutte le cose in Dio: «Ricongiungendo anche la natura creata con quella increata per mezzo della carità». «Allora Dio trasfonde nuovamente tutto se stesso in tutti», e «ogni cosa diventa Dio, esclusa tuttavia ogni identificazionenell’essenza».31 La struttura cosmologica e lo stesso linguaggio a cui ricorre Massimo il Confessore rivelano quanto sia profondo l'influsso del neoplatonismo sul suo pensiero. Anzi, a prima vista si è tentati di dire che qui ci troviamo di fronte a un platonismo puro e semplice senza acquisizioni significative dal cristianesimo. Ma questo dubbio svanisce se dall'impianto generale (così vistosamente neoplatonico) si passa ai punti fondamentali della fede cristiana, che sono quelli che riguardano Dio, l'uomo e Gesù Cristo. Allora, ogni traccia di panteismo scompare: «la teologia di Massimo resta fermamente ancorata al senso cristiano della distinzione tra Dio e il mondo» (H. U. v. BALTHASAR).
no
LA DOTTRINAsu D10 La dottrina di Massimo il Confessore su Dio presenta una sostanziale consonanza con quella del suo maestro, lo Pseudo-Dionigi. Anche per
lui, come per l'Are0pagita, Dio è talmente immanente nel mondo da diventare quasi
"trasparente" agli occhi della intelligenza umana; tutta-
tempo, Dio si trova così celato nelle tenebre della sua assoluta alterità, da rendere impossibilequalsiasi concettualizzazione della sua essenza. «Chi considera la natura dell'universo nella sua bellezza e filtra le proprie percezioni con l'intelletto anziché lasciarsi sopraffare dai sensi (...), dall'ordine meraviglioso che gli si presenta, riesce a risalire al suo creatore, conservatore e capo, e in tal modo arriva a conoscere Dio certo non la sua essenza e il suo essere come sono in se stessi, perché questo è impossibile ma semplicemente che egli è».32 La sua essenza «è assolutamente inaccessibilesia alla creatura visibilecome a quella invisibile, perché la distanza tra la natura creata e la natura increata è infinita>>.33 Tuttavia «pur restando in se stesso senza cambiamento e alterazione, senza crescita e senza diminuzione, per l'eccesso della sua bontà egli si rende di volta in volta umile con gli umili, grande con i grandi e, invero, Dio per coloro che egli divinizza>>fi4 È come un
via,
allo stesso
-
-
31) Ibid., 1306 c 32) 112111., 1216 A 33) una, 1077 A. 34) Ibìaî, 1256 B.
—
-
1307 B. 1217 B.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Pscllo
265
impercettibile che passa attraverso il cosmo, ma nonostante quepalese della divinità, «chi sarà mai in grado di pensare e di enunciare Veramente in qual modo Dio è immanente alla totalità, tutt'intero nell'insieme come in ogni singola parte, senza divisioni né parti, senza essere diviso secondo la varietà infinita delle diverse cose in cui è immanente, senza essere contratto dalla esistenza particolare delle singole unità, e senza contrarre nella unica totalità unificante del tutto le divergenze degli esseri, ma restando in Verità tutto in tutti, senza uscire dalla propria semplicità indivisibile?».35 soffio
sta manifestazione
LA
DOTTRINAANTROPOLOGICA
Come si è visto, nel
suo
universo stupendamente intrecciato e ordina-
che uscendo da Dio discende fino all'ultima delle creature, Massimo assegna un ruolo centrale all'uomo, che viene presentato per un verso to
copula mundi e per un altro come «grande artefice del cosmo». Nel studio sull'uomo, ancor più che altrove, Massimo si avvale dello schema neoplatonico delle triadi. La triade fondamentale è quella della genesi (ghenesis), del cambiamento (kinesis) e della quiete (stasis). Però per raggiungere la perfetta realizzazionedi se stesso (stasis) l'uomo ha bisogno di un lungo processo di trasformazioni e purificazioni. La se— conda triade che dà una misura ancora più precisa del valore dell'uomo e del senso della sua esistenza è espressa dai termini: essere (einai), benessere (eu einai), eternità (aei einai). L'uomo è una creatura che nel momento della genesi non ha ancora attinto il benessere e gode del singolare privilegio che il conseguimento del benessere e, pertanto, anche dell'eternità, è affidato al suo libero arbitrio, sebbene l'eternità mantenga essenzialmente sempre il carattere di dono da parte di Dio. «Ci sono tre modi universali: l'essere, il benessere, l'eternità. I due modi estremi non dipendono che da Dio che ne è l'unica causa, mentre il modo intermedio dipende dal nostro libero arbitrio e dal nostro dinamismo>x36 Da questa situazione intermedia (meson) e transitoria dipende, dunque, in maniera decisiva il nostro vero essere, che si realizza nella collaborazione spirituale a un movimento naturale già soggiacente e nella presa di coscienza dell'orientamento di tale movimento. Per chiarire Yattuarsi del "benessere" nell'uomo Massimo ricorre ad "altre triadi. Alla triade: facoltà (dynamis), attuazione (energheia) e riposo (arghìa); e a quella: natura (ousîa), esercizio (skcsis) del libero arbitrio, come
suo
r») Ibid., 1257 B. se) IbzcL, 1400 c.
266
Parte printa
grazia (karis). Massimo sottolinea l'apporto del libero arbitrio e fa Vedere in che misura il benessere è opera dell'uomo, e in che misura è invece opera di Dio. La scelta del bene è opera dell'uomo, ma il conseguimento effettivo del benessere è opera della grazia di Dio. «L'essere, che in quanto tale non possiede che la potenza della realizzazionedi se stesso, attingere la piena attuazione di se stesso
è assolutamente incapace di
l'opera della libertà. D'altronde qualsiasi essere che possiede la facoltà naturale come appetito del benessere non può possedere questa facoltà che nell'ampiezza che si addice alla sua natura. Invece l'eternità (aei einai) non ‘e mai immanente né come potenza naturale né come risultato del libero arbitrio. Infatti, in che modo l'eternità, senza inizio e senza fine, potrebbe appartenere alle cose che per loro natura hanno un'origine e che il mutamento conduce verso la fine?».37 L'eternità è sempre un dono, una grazia (charis). Come i neoplatonici e lo PseudoDionigi, Massimo il Confessore situa il traguardo finale della vita umana nella contemplazione di Dio, e si tratta ovviamente di un traguardo che l'uomo può raggiungere soltanto con l'aiuto della grazia. senza
LA
CRISTOLOGIA
Il traguardo dell'eternità e della contemplazione di Dio, di per sé inattingibiledall'uomo con le sue sole forze, gli diviene accessibileper opera di Cristo. Il punto centrale del pensiero di Massimo il Confessore è Cristo, di cui ha profondamente meditato i misteri per difendere l'integrità della natura umana. L'apporto di Massimo in campo cristologico e stato decisivo, soprattutto per quanto concerne la volontà umana di Cristo. Contro quella
forma moderata di eutichianismo (monofisismo) che era il monotelismo, il quale pur riconoscendo al Cristo due nature tuttavia gli concedeva una sola volontà, quella divina, Massimo afferma che questa teoria non salvaguarda in nessun modo l'integrità della natura umana di Cristo, il quale dell'uomo ha assunto tutto, tranne il peccato. Essendo in possesso di due nature il Cristo era necessariamente dotato anche di due volontà, sia di quella divina che di quella umana. Nella volontà umana Massimo
distingue due forme, una naturale (thelenza physikon) e una razionale (thelenza gnomikon) o libera (proairetikon); la prima è sempre orientata, naturalmente, al bene: è un volere spontaneo; la seconda esige deliberazione e ha come punto di partenza l'ignoranza. Di questi due tipi di volontà Massimo attribuisce al Cristo soltanto la prima, perché Cristo 37) Ibiri, 1392 B.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Paella non era
la
sua
soggetto a
vita
nessuna
Egli poté
267
ignoranza. Per questo motivo durante tutta sua Volontà a quella
costantemente uniformare la
del Padre, e operare, così, la riunione degli uomini e di tutto il cosmo con Lui. Cristo è la causa meritoria ed esemplare della nostra salute e l'ideale della nostra deificazione, per cui l'imitazione di Cristo diviene la via maestra della vita cristiana. Cristo ha rivelato Dio, che è semplice e infinito, unità nella Trinità. L'uomo aspira per ”natura" a Dio, ma è la sua
unione "soprannaturale" con Cristo nel battesimo a renderlo capace
di realizzare liberamente questa aspirazione "naturale" combattendo il peccato e attuando le virtù in uno sviluppo non soltanto morale, ma
ontologico della sua persona. «Il pensiero di Massimo si rivela estremamente penetrante nella trattazione dei più acuti problemi; bizantino per la sottile e ardita speculazione e insieme romano per il costante riferimento alla realtà e il profondo senso dell'unità della Chiesa»
(A. CERESA-GASTALDO).
Giovanni Damasceno VITA E OPERE una nobile e ricca famiglia arabo-cristiana (suo padre ministro del tesoro presso la corte del Califfo) ebbe un'eccellente edu-
Discendente da era
cazione letteraria e filosofica; succedette perfino per qualche tempo al padre nella sua carica. Lasciò tuttavia il mondo abbastanza presto, per ritirarsi in Palestina, nella "lauradi San Saba". La sua formazione intellettuale precedente l'aveva altamente preparato allo studio della teologia; egli ne approfondì la conoscenza in modo eccezionale, come si può argue re dalle sue opere, in particolare dalla Fonte della conoscenza (il titolo più corrente De fide ortodoxa La fede ortodossa corrisponde soltanto alla terza parte). È certamente l'opera che permette di conoscere meglio la tradizione teologica greca nel suo complesso. Probabilmentenell'anno 725, venne consacrato prete da Giovanni V, patriarca di Gerusalemme. Dopo la consacrazione si dedicò soprattutto all'insegnamento della Sacra Scrittura e della teologia e si adoperò sia con la parola sia con gli scritti (Discorsi apologetici contro coloro che rigettano le sacre immagini) per la difesa del Culto delle sacre immagini, opponendosi coraggiosamente alla iconoclastia, che proprio in quegli anni era stata scatenata dall'imperatore Leone III. La sua morte avvenne prima del 754, anno in cui si tenne il Concilio di Hieria, riunito dall'imperatore iconoclasta Costantino V Copronimo, successore di Leone III. Nel 1890, Leone XIII proclamò Giovanni Damasceno Dottore della Chiesa e ne estese la festa a tutta la Chiesa latina. =
268
Parte prima
PENSIERO Giovanni Damasceno è stato chiamato il ”S. Tommaso dell'Oriente" per la sua sintesi teologica nella quale vengono adoperati non pochi elementi filosofici da lui appresi in parte dagli arabi e in parte dai Padri greci. C'è in lui un influsso aristotelico nella concezione della logica e della metafisica, e c'è anche un influsso platonico e neoplatonico, evidente soprattutto nella sua dottrina sulla inconoscibilitàdi Dio. Tutto il pensiero teologico e filosofico del Damasceno è praticamente racchiuso nella sua opera maggiore, la Fonte della conoscenza. Essa è divisa in tre parti che trattano rispettivamente della filosofia (Capitolifilosofici), delle eresie (Libro delle eresie) e della dottrina cristiana (La fede ortodossa). La terza parte, il De Pide orthodoxa, copre tutta l'area della teologia e merita giustamente l'appellativo di somma teologica. Questa parte è a sua volta suddivisa in quattro libri, i quali trattano rispettivamente: il prima, l'esistenza di Dio, la sua ineffabilità,l'unità, la Trinità, le processioni del Figlio e dello Spirito Santo, la natura divina; il secondo, la creazione e l'ordine del mondo, la creazione e la natura dell'uomo, la provvidenza, la prescienza e la predestinazione; il terzo e quarto la cristologia, l'incarnazione, il rapporto tra le due nature in Cristo, la sua opera redentrice, gli effetti della redenzione, il culto delle immagini. A noi nel presente lavoro interessano esclusivamente i primi due libri in quanto trattano in parte temi che si riferiscono direttamente alla metafisica.
ESISTENZA E
NATURA Dl
DIO
verità ovvia, anche se Dio in se stesso ò «inejfabilfset incompreherzsibilis» (I, 1): «Omnibus enim cognitio existendi Deum ab ipso naturaliter ÎÌTSETÌII est (da Dio stesso è stata infusa in ogni uomo la conoscenza naturale della sua esistenza)» (Ibid). E tuttavia ci sono quelli che si ostinano a negare la sua esistenza (gli atei). A loro il Damasceno si rivolge adducendo tre prove dell'esistenza di Dio: 1) la prova del divenire: tutto quanto cade sotto i nostri sensi e gli stessi spiriti angelici sono soggetti alla mutazione (divenire). Ora ciò che è soggetto a mutazione è necessariamente creato: «Creabilia
Secondo il Damasceno l'esistenza di Dio è
una
aliquo condita sunt. Oportef autem conditorem increabilem esse (tutti gli enti creabili sono stati necessariamente prodotti da qualcuno, e pertanto è necessario che esista un autore increato)» (I, 3); vero
entia omnino ab
2) la prova della conservazione e dell'unità dell'universo, che sono un chiaro indizio dell'esistenza di Dio, «qui hanc universitatem consistere facit et continet et conservat, et semper ei providei (che tiene in essere questa universalità, la mantiene e la conserva e sempre provvede ad essa)» (lbid);
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello
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3) la prova dell'ordine: «Chi ha fissato nello spazio, ciascuno al proprio posto, nel cielo e sulla terra, gli esseri dell'aria e quelli dell'acqua, e ancor prima questo stesso cielo e questa stessa terra, e l'aria e la natura del
dell'acqua? Chi ha mescolato e diviso le cose?» (lbial). L'unica risposta logica a queste domande è: Dio. Confermata l'esistenza di Dio con questi tre argomenti, già familiari alla tradizione patristica (sono noti a Clemente Alessandrino, Gregorio Nisseno e Agostino ecc.), il Damasceno ribadisce la sua assoluta trascendenza, che lo rende inaccessibileai nostri concetti e inesprimibilealle nostre parole: «Che cosa egli sia secondo la sua sostanza e la sua natura resta assolutamente incomprensibilee ignoto (quid vero est securzdum substantianz et naturam, incomprehensibile est hoc omnino et ignotum)» (I, 4). E così, seguendo l'esempio dello Pseudo-Dionigi e avvalendosi dello stesso suo linguaggio, il Damasceno parla di Dio soprattutto in termini negativi, quali incorporeità, immutabilità(inalterabile),incorruttibilità,infinità ecc. E fissa il seguente principio, che è il principio classico della teologia negativa: «tutto ciò che si dice di Dio affermativamente non riguarda la sua natura, ma ciò che la circonda (il suo agire). Dicendo che fuoco e
Dio è buono, giusto e saggio, non dici ciò che è la natura di Dio ma ciò che la circonda (non naturam dicis Dei, sed ea quae sunt circa naturam)»
(L 4)
LA CREAZlONE, GLI ANGELI E L'UOMO Il concetto di creazione Viene così chiarito in un brevissimo capitolo del libro secondo: «Il Dio buono, e più che buono, non si è accontentato della contemplazione di se stesso, ma nella sovrabbondanza della sua bontà gli è piaciuto che altri partecipassero alla sua azione benefica e alla sua bontà e ha tratto dal non essere all'essere (ex non ente ad esse deducit) e ha creato tutte le cose visibilied invisibili.Ha creato mediante il pensiero (creat excogitans), e l'opera prodotta dal pensiero è completa grazie al Verbo e perfetta grazie allo Spirito» (c. 2). Nella sua sobrietà la formula del Damasceno dice tutto quanto è necessario al concetto di creazione. Precisa il genere singolarissimo di questa azione, che fa balzare fuori le cose dal nulla (ex non ente) conferendo loro l'essere (esse). Indica il motivo della creazione: è la sovrabbondanza della bontà divina. Ed è opera di tutta la Trinità del Padre che prende l'iniziativa, del Figlio che la realizza, e dello Spirito Santo che la perfeziona. Chiarito il concetto di creazione il Damasceno tratta delle creature secondo il seguente ordine: gli angeli, il diavolo e i demoni, il cielo, la luce, il fuoco, il sole, la luna, le stelle, l'aria, l'acqua, la terra, il paradiso, l'uomo.
270
Parte prima
capitolo riservato agli angeli, il Damasceno riconosce loro le seguenti proprietà: Nel
«L'angelo è una sostanza intellettuale sempre in azione (substantia irztcllectualis semper nzobilis),dotata di libero arbitrio, incorporea, ministra di Dio, dotata di immortalità per grazia e non per natura; solo Dio conosce il genere e il limite della sua sostanza. E incorporeo e immateriale se visto in rapporto a noi; mentre se Viene Visto in rapporto a Dio, che resta incomparabilerispetto ad ogni cosa, risulta spesso e materiale (grossum et materiale invenitur), solo Dio infatti è essenzialmente immateriale e incorporeo. Pertanto è una natura razionale, intellettuale e dotata di libero arbitrio (arbitrio libera), suscettibile di cambiamenti (vertibilis) sia mediante la mente sia mediante la volontà, perché qualsiasi essere creato è mutevole; solo l’increato è immutabile.Qualsiasi essere ragionevole è libero. Perciò, in quanto razionale ed intellettuale, è anche libero e grazie a questa facoltà, è spinto a permanere oppure a progredire nel bene e nel male» (11, 3). Creati dal Verbo e santificati dallo Spirito Santo, gli angeli partecipano alla grazia divina secondo il loro grado di dignità (secandam proportionem divinitatis) e secondo lo stesso grado ricevono la divina illuminazione. Il Damasceno precisa che la santità non trae origine dalla natura (substantia) degli angeli ma è un dono dello Spirito Santo e che perciò essi sono immutabilinon per natura ma per grazia (immobiles non natura scd gratia) Vedono Dio secondo le loro possibilità e in cielo fanno una sola cosa: lodano Dio con i loro inni e servono alla divina volontà. .
«Sono dotati di potenza (fortes sunt) e solleciti a compiere la volontà di Dio e si trovano immediatamente sul posto, al minimo cenno di Dio per vegliare sulle cose della terra. Presiedono alle nazioni, al loro territorio, come viene loro ordinato da Dio. Hanno cura di noi e vengono in nostro aiuto. Fanno tutto secondo la divina volontà e secondo il comando di Dio, vigilando su di noi enti (super n05 entes), senza cessare di esistere presso Dio (circa Deum existentes)».
Come si vede, quella del Damasceno è una chiarissima sintesi di angelologia, da cui attingerà poi anche Tommaso d'Aquino. L'uomo è presentato, come vuole tutta la tradizione patristica, soprattutto come icona di Dio: «Dio ha creato l'uomo di natura visibile (il corpo) ed invisibile(Panima) a sua immagine e somiglianza, modellando il corpo dalla terra e donandogli un'anima razionale ed intelligente me diante il proprio soffio; da ciò il nome di icona divina, che noi diamo all'uomo, si riferisce a1l'intelletto e al libero arbitrio per quanto concerne
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l'immagine, mentre si riferisce alla virtù per quanto attiene la rassomiglianza» (II, 12). Dimago Dei è stata contaminata e macchiata dal peccato originale ma non distrutta, perché l'uomo conserva il libero arbitrio anche dopo il peccato (II, 24). Alla rassomiglianza con Dio l'uomo giunge solo mediante la pratica della virtù, e questo, dopo il peccato, è possibile soltanto con il concorso della grazia, che infonde nell'anima le tre virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. Tutti i temi fondamentali della cristologia (incarnazione, rapporto tra le due nature, unicità della persona, proprietà delle due nature, integrità delle facoltà del conoscere e del volere nella natura umana, le operazioni ecc.) sono svolti con profondità, chiarezza e rigore, secondo i dogmi stabiliti dai grandi concili ecumenici e denunciando gli errori di Ario, di Eutiche, di Nestorio ecc., e ricorrendo spesso al linguaggio aristotelico anziché a quello platonico come invece aveva fatto tutta la precedente tradizione patristica. Nei Discorsi apologetici Contro coloro che rigettam) le sacre inzmagirzi il Damasceno difende appassionatamente il culto delle immagini. A questo argomento egli dedica anche un breve capitolo (IV, 16) del De fide orthodoxa, dove combatte Piconoclastia, distinguendo tra l’adorazione dovuta a Dio e la venerazione verso i santi e le reliquie. «Come abbiamo chiarito, la venerazione per la grandezza dei servitori mostra i nostri buoni pensieri verso il comune Maestro, e la venerazione della icona ridonda sul suo modello» (IV, 16). La Fonte della conoscenza servì come manuale di teologia in Oriente,
durante tutto il medioevo bizantino e, tradotta in latino, a causa del frequente impiego in essa di termini mutuati dal lessico aristotelico e del suo tentativo di articolazione sistematica della riflessione teologica facilitò il successivo compito dei grandi Scolastici. Tuttavia, mentre in Occidente il Damasceno veniva letto nella prospettiva di una teologia concettuale, in Oriente la sua opera segnava il passaggio dalla ricerca intellettuale alla esperienza ecclesiale e alla spiritualità esicastica: essa si inserisce fra l'adorazione del Dio sconosciuto della speculazione teologica e la celebrazione del Dio comunicabilemediante la bellezza dell’inno e della icona e una spiritualità di trasfigurazione. Nella sua Omelia sulla Trasfigurazione, che esprime la spiritualità del medioevo bizantino, il Damasceno sottolinea che l'uomo è chiamato alla deificazione integrale mediante la partecipazione a Cristo trasfigurato. Tale trasfigurazione è offerta a tutti nell'esperienza liturgica, di cui l'icona è parte integrante; perciò il Damasceno scrisse tre trattati per difendere le immagini sacre.
Parte prirrza
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del canto liturgico il Damasceno rese accessibileanche al la popolo teologia dei Padri greci. Grazie ai monaci le sue composizioni vennero conosciute a Costantinopoli e si trasformarono così in elemento costitutivo della liturgia bizantina. Il Damasceno era anche dotato di una grande sensibilità mariana. La Vergine Maria, per lui, è davvero Madre di Dio; allo stesso tempo egli espone chiaramente la dottrina delPimmacolata concezione, della perpetua verginità e deltassunzione al cielo di Mariafifi Con Giovanni Damasceno si conclude degnamente la prima fase della teologia bizantina, quella che rientra nell'arco della Patristica. Sistematizzando in modo esemplare tutto quello che la grande Patristica aveva prodotto sia nell'età d'oro che in quella successiva il Damasceno diviene legittimamente il padre dell'epoca successiva che è, sia per l'Oriente sia per l'Occidente, l'epoca della Scolastica. Per
mezzo
Michele Psello Un importante anello per la storia della metafisica, in quanto collega il neoplatonismo classico e Cristiano col platonismo del Rinascimento, è rappresentato da Michele Psello. Questi era un letterato e filosofo del secolo XI che ha contribuito in modo decisivo a mantenere viva la tradizione del platonismo cristiano nel mondo bizantino che si stava avviando al
Suo
definitivo tramonto.
VITA E OPERE
Michele Psello nacque a Nicomedia (o Costantinopoli, secondo alcuni) nel 1018. Fu allievo di Mavropos, vescovo di Eucaita. «Prima di dedi-
carmi allo studio della filosofia confessa lo stesso Psello fui appassionato della retorica». Dopo una parentesi di vita monastica, durante la quale mutò in Michele il nome di battesimo Costantino, visse alla corte imperiale e insegnò neIYACCademia costantinopolitana con grande successo, raggiungendo il titolo dignitario di hypatos. Morì nel 1078. Scrisse numerose opere, per la maggior parte di carattere enciclopedico. Una parte di esse è stata pubblicata nella Patrologia greca del Migne, mentre altre sono state edite da K. N. Sathas nella sua Mesaianikè Bibliotheke. Oltre a commenti ad Aristotele (Categorie, De interpretatione), a Platone (Timeo) e a Porfirio, scrisse una Introduzione alla filosofia, e Opinioni dei filosofi intorno all'anima. Psello coltivò con la stessa passione la retorica e -
33)
Cf. Omelie sulla Natività e la Dorrriizione.
—
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Darrzascerto, Michele Psello
273
la filosofia. «Io combino dichiara egli stesso la filosofia con la retorica e cerco di sintonizzarmi con entrambe». In altre parole egli cerca l'armonia della forma e del contenuto. La cura del bello stile fu costante in lui; così come lo era stata in un altro famoso retore, Agostino di Ippona. -
-
I PROGRAMMI DELL'ACCADEMIADI COSTANTINOPOLI Retore e filosofo Psello organizzò i programmi dell'Accademia di Costantinopoli in modo da soddisfare pienamente le esigenze sia della retorica sia della filosofia. I programmi corrispondevano a quelli tradizionali del trivio (grammatica,retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Alla conclusione di quest'ultimo si passava quindi alla filosofia, che era considerata parte integrante del quadrivio e il suo culmine, in quanto si vedeva in essa il compimento di tutte le scienze. L'obiettivodel corso di filosofia era quello di fornire, mediante la logica e la fisica aristotelica, i fondamenti del pensiero filosoficoe di servire allo stesso tempo da punto di partenza per lo studio dei problemi speculativi. La filosofia non era che lo stadio preparatorio alla metafisica, e quasi tutto il materiale per quest'ultima veniva preso non da Aristotele, bensì da Plotino, Proclo e Platone. Le dottrine filosofiche e metafisiche venivano alla fine integrate nella filosofia prima, vale a dire nella teologia. Secondo Psello, fine ultimo di qualsiasi attività spirituale dell'uomo doveva essere la filosofia prima, ossia la metafisica. L'esercizio della ragione ha senso soltanto nella misura in cui si pone al servizio della filosofia prima. «Per accedervi, per iniziarmi alla scienza pura, mi sono dedicato anzitutto allo studio delle matematiche, alla contemplazione delle realtà incorporee. Le scienze matematiche occupano la posizione mediana tra i corpi della natura, da una parte, e l'intelligenza e le stesse sostanze con le quali l'intelligenza marcia a pari passo, dall'altra. Ho fatto questo per capire ciò che sta sopra alle scienze matematiche e al di là dell'intelligenza e della sostanza».39 Anche se usa il termine aristotelico di filosofia prima il concetto che Psello ha della metafisica, che ha come obiettivo lo studio di ciò che si trova al di là dellîntelligenza e della sostanza, non è affatto aristotelico
bensì platonico e neoplatonico. Psello divide la filosofia in due parti. La prima è impassibile ed è opera della pura intelligenza; la seconda è passibile, e riguarda l'uomo nella sua unione di anima e corpo: «Ho sempre elogiato la prima parte,
3°)
K. N. SATHAS, Messaioniké Bibliotheke IV, 'l2l.
274
Parte prima
l'ho amata; ammiro meno la seconda, però è quella che desidero di più>>.40 La prima parte corrisponde alla filosofia teoretica, la seconda alla filosofia pratica, e abbraccia la morale e la politica. Quest'ultima secondo Psello si addice maggiormente alle condizioni attuali dell'uomo il quale deve vivere in questo mondo insieme ai propri simili. Con Platone e i neoplatonici, Psello ammette la possibilità della vita contemplativa, ma ritiene allo stesso tempo che nella vita in questo mondo è la parte passiva dell'anima che deve avere la nostra preferenza, poiché in unione col corpo essa forma l'uomo socievole e politico. L'essenziale è distinguere saggiamente le forme della vita dell'anima per non indagare razionalmente su cose che non rientrano nella filosofia. ma non
UOPZIONE PLATONICA
Benché ai tempi di Psello la conoscenza delle opere e del pensiero di Aristotele fosse notevolmente aumentata e migliorata, le preferenze di questi in campo filosofico vanno chiaramente e apertamente all'impostazione filosofica di Platone. Secondo Psello Platone è il più grande genio che il mondo abbia mai avuto e la sua filosofia non conosce rivali di sorta. Platone è il maestro della filosofia, l'unico uomo che è riuscito a raggiungere gli estremi Confini del pensiero: e in questo senso si può anche Considerare degno precursore del Cristianesimo. È questa, in ultima analisi, la ragione per cui Psello sente tanta simpatia per Platone: infatti, le teorie di Platone sulla giustizia e sulla immortalità dell'anima hanno fornito la base razionale ai dogmi cristiani su questi argomenti.“ Soltanto Platone ha scoperto che non tutto è frutto del ragionamento e della dimostrazione e soltanto lui, essendosi elevato al piano dell'intelligenza e avendo intravisto ciò che si trova oltre l'intelligenza, finalmente è giunto alla scoperta dell’Uno.42 È chiaro dunque che le ragioni della sua preferenza per Platone manifestano nello Psello l'identità dei suoi interessi filosofici e teologici. In quanto teologo egli vedeva in Platone il vero teologo, colui che ha dato una sistemazione alle nostre conoscenze sul mondo intelligibile,e in quanto interessato alle scienze matematiche Psello vedeva in esse come un mezzo, una scala verso la filosofia prima, proprio come aveva fatto Platone.
40) una, v, 256. 41) Cf. Hard, 444. 42) Cf. lbid, 445.
Dionigi, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello Tutte le scuole filosofiche, in modo
275
particolare quelle dei neoplatoni-
ci, non hanno fatto altro che completare la dottrina di Platone. Seguendo l'esempio dei neoplatonici anche Psello cerca di armonizzare Aristotele con Platone, riservando ad Aristotele la logica e la fisica e a Platone la metafisica. Ma anche il suo studio di Platone e dei neoplatonici risulta strumen-
tale: «I-Io studiato questa filosofia dichiara Psello in quanto mi giova a completare la scienza divina (teologia)». Egli adotta lo schema generale del sistema di Plotino: 1’Uno, l'intelligenza, l'anima, la natura, la materia, lo fa però da cristiano, perché vi trova l'espressione filosofica più chiara e netta della verità cristiana. -
—
LA METAFISICA Psello sceglie [Jlatone precisamente a motivo della sua metafisica. Ora, caratteristica essenziale dell'impianto metafisico platonico è la netta distinzione tra il sensibile e Tintelligibile, ed è proprio questo elemento che Psello fa suo in modo particolare. La sua opzione per Platone non riguarda soltanto i contenuti ma anche il metodo, che non e quello aristotelico della dimostrazione logica rigorosa, bensì quello della intuizione e della postulazione, perciò il mondo intelligibileè allo stesso tempo intuito e postulato. Nelle Nozioni comuni, in cui affronta i principali problemi della metafisica, Psello comincia con l'analisi delle questioni relative a Dio, all'intelligenza e all'anima, vale a dire del mondo intelligibile, e passa poi al mondo sensibile per studiare la fisica, la fisiologia, l'astronomia, la meteorologia, la medicina e l'agricoltura. Psello parte dal principio generale che ogni ente è retto da leggi conformi alla propria natura e che ogni essere e ogni fenomeno hanno una causa. Causa di tutti gli esseri e di tutti i fenomeni e il Demiurgo (Dio); ma considerare Dio come causa suprema e ultima non significa sopprimere, come fanno certi platonici, la causalità degli esseri inferiori a Dio. Anche la natura è dotata di una propria causalità: essa è come una mano della causa prima, la quale per il suo tramite, restando essa stessa immobile, regge le cose di quaggiù. Spetta al filosofo scoprire le cause seconde e il loro modo di operare. «Ma precisa Psello benché ogni cosa abbia la sua causa, ciò non vuol dire che non ci siano cause inaccessibilial ragionamento e alla dimostrazione, come sostengono gli Stoici ed Eunomiowfi Anzi, la maggior parte delle cause sfugge alla no—
43)
lbid.
-
276
Parte prima
stra ragione: «tutto ciò che è ineffabilenella natura, e i fatti che superano la natura, ha cause a noi sconosciute>>.44 L'uomo però, secondo Psello, non è dotato soltanto di ragione ma anche di intelligenza, mediante la quale è in grado di conoscere le cose immediatamente, senza ricorrere ai ragionamenti e alle dimostrazioni: l'intelligenza è la perfezione suprema
dell'anima.
Seguendo una tradizione ormai consolidata nella metafisica cristiana Psello insegna che Dio possiede dall'eternità, prima della creazione, le nozioni di tutte le sue creature. Ciò che Platone chiama "idea", secondo Psello, non è la prima nozione delle cose che Dio crea: le nozioni si trovano in Dio e non godono di una sussistenza propria come insegnava Platone. In Dio intelligenza e idee sono la stessa cosa; altrettanto vale per l'essere e le idee, ancorché sembri che l'essere preceda le idee. L'intelligenza divina è l'essere delle idee: essa le contiene in se stessa. È necessario che l'archetipo si trovi nellîntelligenza e che questa si identifichi col mondo intelligibile,che è il modello esemplare del mondo sensibilexfi Riguardo all'anima Psello afferma che ‘e una sostanza nel senso stretto del termine e non soltanto come forma del corpo, come insegnava Aristotele. Essa gode pertanto di virtù proprie e di proprietà naturali, per cui un'anima è naturalmente allegra mentre un'altra è naturalmente triste. <
44) Ibid., IV, 121. 45) Cf. PsELLo, PG 122, 725. 46) K. N. SATHAS, op. ciifl, IV, 123.
Dionigz’, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello
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Enorme fu la fama di cui godette Psello tra i suoi contemporanei. Tra coloro che seguivano le sue lezioni all'Accademia c'era chi veniva dall'Egitto, dalla Babilonia e dalla Persia, e anche dell'Occidente latino. La vastità enciclopedica delle sue conoscenze era paragonabilea quella di Alberto Magno e di Ruggero Bacone. Enorme fu la sua erudizione, universale la sua curiosità, grandissima la sua fiducia nella scienza e nella ragione, importanti le sue innovazioni nell'arte dello scrivere. Per questi molteplici motivi si può dire che Psello fu una delle personalità più rappresentative della cultura bizantina. Come lo Pseudo-Dionigi, Psello trovò il modo d’introdurre nel pensiero cristiano una parte feconda del pensiero greco: assimilandoil pensiero greco, gli diede un senso nuovo e creò una sintesi nuova tra platonismo e cristianesimo.
278
Parte prima
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279
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una
bella edizione critica del De fide orlhodoxa è
BUYTAERT, Louvaìn-Ncw York 1955. Studi: M. F. HIMMERICH, Deification in john of Damascus (diss.), Marquette University 1985,- H. MENGES, Die Bilderlelire des hl. Iohannes v. Damascus, Munsteer 1938; I. MEYENDORFF, Cristologia ortodossa, Roma 1974; K. RozEMoND, La christologie de S. jean D., Ettal 1959; C. VALIER, La mariologie de S. [ean D., Roma 1936. MICHELE PSELLO Edizioni: PG 122, c011. 477-1186; K. N. v(fl|.IVL\fi
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PARTE SECONDA
LA METAFISICA CRISTIANA NELL’EPOCA DEGLI SCOLASTICI
LA METAFISICA CRISTIANA NELL’ALTO MEDIOEVO: SCOTO ERIUGEN A, ANSELMO D’AOSTA, GILBERTOPORRETANO
Mentre in Oriente, per opera dello Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Michele Psello, il neoplatonismo cristiano conseguiva risultati di grandissimo valore, in Occidente con le invasioni barbariche e la caduta dell'Impero si era verificato il crollo di una civiltà e la fine di qualsiasi attività culturale: filosofica, letteraria e teologica. Infatti la fine dell'Impero segnò ben presto anche la fine delle sue istituzioni civili, pedagogiche e culturali: non c’erano più né scuole pubbliche, né accademie, né biblioteche, e l'istruzione divenne Yappannaggio di pochissimi privilegiati.Uingente patrimonio culturale costruito dai romani con secoli di laboriosa fatica non andò tuttavia disperso; lo salvarono dalla distruzione i monaci di S. Benedetto che fecero della trascrizione degli antichi testi una parte essenziale del loro lavoro. Una prima ripresa culturale ebbe luogo ai tempi di Carlo Magno (si parla appunto di rinascenza carolingia}, come conseguenza della stabilità politica assicurata dal Sacro Romano Impero. Grazie ad essa si registrò una certa prosperità economica e si poterono instaurare nuovi contatti culturali e politici con l'Oriente. In siffatta congiuntura il ricchissimo patrimonio culturale filosofico—teologico-misticodella patristica greca divenne accessibileanche ai monaci latini. Ma con la fine dell'impero carolingio l'Occidente precipitò nuovamente nel caos; l'Europa divenne di nuovo teatro di una lunga serie di invasioni barbariche, che terrorizzavano gli abitanti e saccheggiavano ogni cosa. Per un altro paio di secoli l'Europa si trovò stretta nella morsa degli Ungari (ad Est), dei Vichìnghi (a Nord) e degli Arabi (dal Sud). Ogni ulteriore ripresa culturale fu resa impossibile.Soltanto quando, nel sec. XI, con la dinastia degli Ottoni l'Europa venne finalmente pacificata, si poté assistere alla definitiva rinascita degli studi e a una nuova significativa fioritura della filosofia e della teologia. I secoli IX-XII sono quelli della prato-scolastica. Rarissime sono le figure veramente eminenti di questo periodo oscuro della storia della filosofia in generale e della metafisica in particolare. Ci sono comunque tre
284
Parte seconda
studiosi che hanno lasciato un'impronta profonda non solo nella storia della teologia, ma anche nella storia della metafisica cristiana; si tratta di Scoto Eriugena nell'epoca carolingia, di Anselmo d'Aosta e di Gilberto Porretano nell'epoca feudale.
Giovani Scoto Eriugena Durante l'età carolingia Giovanni Scoto Eriugena fu ìl principale artefice dell’assimilazionedel pensiero patristico greco da parte dei monaci latini, un'operazione che ebbe conseguenze decisive per la rinascita della filosofia cristiana nel mondo latino. Con una straordinaria conoscenza della Sacra Scrittura e una personale rilettura dei Padri, specialmente di quelli greci, Scoto Eriugena cercò un nuovo coordinamento tra fede e ragione, deducendo dal platonismo di Plotino e di Proclo ciò che vi era di implicito a tal riguardo; propose una visione complessa dell'universo in cui si intrecciano teorie filosofiche e verità cristiane. Assertore convinto di una perfetta corrispondenza tra verità di fede e verità di ragione, compì un vigoroso tentativo di armonizzare la filosofia neoplatonica con la teologia ortodossa cristiana. Nel suo insieme, per vastità e ricchezza, la sua opera rimase una vetta isolata fino alla Grande Scolastica; e dopo di essa continuò ad influenzare il versante platonico-agostiniano del pensiero filosofico durante il medioevo e oltre. VITA E OPERE
Giovanni Scoto Eriugena nacque in Irlanda nei primi anni del secolo IX, nella sua patria ricevette la prima formazione intellettuale, la quale comprese tra l'altro lo studio, oltre che del latino, anche del greco, una lingua questa che «agli inizi del secolo IX era conosciuta in Irlanda, ma in forma elementare, almeno nella generalità delle scuole»! Ancora in giovane età si fece monaco, e in breve tempo si rese famoso tra i suoi colleghi francesi e irlandesi. In conseguenza delle invasioni danesi che distrussero gran parte dell'Irlanda, Scoto Eriugena si rifugio in Gallia, dove trovò una calorosa accoglienza presso la corte di Carlo il Calvo. Dai vescovi francesi ricevette l'incarico di confutare le tesi di Gottschalco che, anticipando di qualche secolo le posizioni di Calvino, sosteneva la predestinazione sia alla dannazione, sia alla salvezza eterna. nell’opuscolo De praedestinatione, Scoto Eriugena affrontò le tesi di Gottschalco, e
1)
M. DAL PRA, Scoto Eriugena, Milano 1952, p. 13.
Scoto Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
285
negò recisamente qualsiasi forma di predestinazione, ma sottolineo talmente l'apporto umano alla salvezza da sfiorare molto da Vicino Yeresia di Pelagio, e per questo fu oggetto delle censure dei vescovi di Laon e di Reims, e subito dopo delle condanne dei Concili di Valenza e di Langres. Queste disavventure con l'autorità ecclesiastica indussero ancor più l'Eriugena a concentrarsi sui suoi studi preferiti e ad attendere alle tra-
duzioni delle opere fondamentali del neoplatonismo cristiano: il Corpus areopagiticum, il De hominis Opificio di Gregorio Nisseno e gli Ambigua di Massimo il Confessare. Successivamente portò a termine il suo capolavoro, il De divisione naturae: un lungo dialogo fra maestro e discepolo
(in cinque libri), in cui è presentata tutta la problematica cristiana, affrontata e sviluppata sulla piattaforma del neoplatonismo e ripresa sistematicamente dall’Eriugena con approfondimenti particolari. Non si ha nessun indizio certo di qualche attività da parte del geniale monaco irlandese dopo 1'870, né si conosce con precisione l'anno della sua morte. FEDE E RAGIONE: IL RAZIONALISMO TEOLOGICO DI Scoro ERIUGENA
qualsiasi filosofia il primo problema da risolvere è quello della cosoprattutto il problema del suo valore. Anche la storia della filosofia ne dà ampia conferma. Il problema epistemologico è quello che affrontano per primo Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Spinoza, Hume, Berkeley, Kant, ecc. Nella filosofia cristianaiil problema che va affrontato per primo è pur sempre il problema epistemologico, ma gli si deve dare un taglio del tutto particolare, perché non si tratta semplicemente né del problema del valore della fede, né del valore della ragione, bensì del problema dei rapporti tra queste due dimensioni gnoseologiche, la fede e la ragione. Così si comprende perché tutti i filosofi cristiani, soprattutto i primi, abbiano affrontato con tanto impegno il problema dei rapporti tra filosofia e cristianesimo: poiché si trattava in effetti dei rapporti tra fede e ragione. Dando a questo problema epistemologico una soluzione positiIn
noscenza,
va, essi hanno posto le premesse per la elaborazione di una filosofia cristiana: perché questa non è altro che un felice connubio tra un particolare procedimento razionale, quello della filosofia, e alcune verità che sono state annunciate al mondo dal cristianesimo. Su questo problema ritorna ”con prepotenza” Scoto Eriugena e in linea di massima lo risolve al modo dei suoi maestri: Clemente, Origene, Cregorio Nisseno, cioè affermando un accordo sostanziale tra fede e ragione; ma più di loro, egli accentua il valore della ragione nello studio della Parola di Dio e nella verifica delle verità di fede. Per questo motivo non arbitrariamente si dà alla sua posizione la qualifica di "razionalismoteologico".
286
Parte seconda
Anche per Scoto, come per qualsiasi altro filosofo cristiano, la Rivela-
zione costituisce il principio genuino della verità, e la Sacra Scrittura è il criterio basilare, supremamente stabile della verità. Perciò «si deve seguire in tutto l'autorità della Sacra Scrittura, perché nelle sue sedi segrete è contenuta la verità»! Una qualunque ricerca che non prendesse le mosse dalla Scrittura, o che comunque non potesse essere suffragata dalla rivelazione, risulterebbe arbitraria. «Ciò che non possiamo provare con l'autorità della Scrittura, né con quella dei Padri, non dobbiamo accogliere come una dottrina sicura riguardo alla natura; ciò sarebbe infatti cosa temeraria».3 Sennonché nella Scrittura la verità si trova «velati quibusdanz suis secretis sedibus»: si tratta cioè di una sede "segreta" della verità, e appunto perciò questa non può essere individuata senza ricerca, senza analisi, senza approfondimento o verifica. Per raggiungere la sede segreta della verità occorre andare oltre il senso letterale. Scoto insiste con frequenza sulla necessità di non prendere alla lettera quanto viene detto nel testo sacro, e dichiara che molteplici anzi infiniti sono i sensi che esso può contenere. Per questo nessuna delle interpretazioni
può considerarsi come conclusiva e assoluta: «nullius expositoris sensus sensum alterius aufertw La verità, insomma, è data in modo che debba e possa essere cercata; ed è compito della ratio effettuare questa ricerca, anche se essa non potrà mai pretendere di catturare pienamente la verità che sta celata nelle sue ”sedi segrete”. Più che un possesso, la verità resta costantemente un traguardo da raggiungere. Per ratio che indaga le ”verità segrete” Scoto intende la filosofia il cui addotte
compito ‘e «riflettere sull’unica causa di tutte le cose, Dio»; essa «si occupa della speculazione sulla divina natura», è «divinae essentiae investiga-
tio». La verità della filosofia deve necessariamente coincidere con quella della Rivelazione e della teologia. Infatti, filosofia e teologia hanno in comune la stessa origine divina; sono entrambe espressione della medesima eterna Sapienza, e quindi non può mai esservi tra loro contraddizione o opposizione, perché è impossibileche due doni divini siano contraddittori o contrapposti. Anche la riflessione filosofica è per l’Eriugena una forma di esposizione delle verità affermate dalla fede, cosi come, d'altra parte, la verità rivelata contiene in se stessa tutte le possibiliverità di
ragione.
3) De divisione naturae 1, 64. 3) lbiti,4, 7. 4) lbirîL, 3, 24.
Scoto
Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
287
Sennonché la tesi secondo cui la verità rivelata abita ”in sedi segrete” spalanca alla ratio la porta a infinite possibilità, e, nel caso specifico di Scoto Eriugena, a rivendicazioni sconfinate, tanto da sottrarsi al controllo di qualsiasi autorità "umana”: dei Padri, dei Concili, dei Vescovi, ecc. Ogni Volta vi sia un contrasto tra la "giusta ragione” e l'autorità dei Padri o dei Concili, Ylìriugena ritiene che si debba scegliere la verità della ragione. Ogni autorità è valida e inoppugnabilesolo se si fonda su di un ragionamento evidente e rispondente ai requisiti della verità logica. Né credere alla Rivelazione o all'autorità divina significa accettare ciecamente i suoi interpreti, sia pure accreditati e ortodossi; la loro autorità deve essere sempre confrontata con l'autorità più alta della ragione cui spetta in ultima analisi il giudizio definitivo. Come è facile vedere, per la posizione dell’Eriugena sui rapporti tra fede e ragione, la denominazione di ”razionalismo teologico" è perfettamente appropriata. LA
NATURA E LE SUE DIVISIONI
Divisione della natura (De divisione naturae) è il titolo dell'opera principale deIYErÌugena. Ciò che in quest'opera egli vuole proporre è una specie di summa, una trattazione enciclopedica che abbracci tutte le realtà che compongono l'universo, disponendole secondo un ordine ben preciso. A tal fine egli ha bisogno di concetti generali che si possano applicare a tutte le Cose. Tali sono a suo giudizio, i concetti di natura e di creazione. ll termine latino natura corrisponde al termine greco ousia: «natura è dunque il nome generale di tutte le cose che sono e che n.on sono». ll termine creazione, come spiegherà Scoto più avanti, significa «la produzione di qualche cosa dal nulla». Assumendo i concetti di natura e di creazione come fondamento della divisione Scoto divide la natura in quattro grandi tipi: 1. natura creante e non creata (Dio); 2. natura creata e creante (le Idee); 3. natura
(angeli,
creata e non creante uomini, cose); 4. natura non creata e non creante (che è di nuovo Dio visto come fine ultimo). Ecco come lo stesso riassume questa sua schematizzazione
Eriugena
dell'universo, evidenziando la corrispondenza che esiste da una parte tra la natura della prima e della quarta Categoria, e, dall'altra, tra la della seconda e della terza:
natura
«Raccogliamo dunque in unità, procedendo analiticamente, quelle
delle ‘iuattro forme P redette, che coincidono fra loro. La P rima e la quarta sono una sola realta, poiché si applicano solo a D10: Dio infatti è il P rinciP io di tutte le cose create, ed è il fine a cui tutte tendono l’er riposare in Lui eternamente e immutabilmente. S1 dice infatti che la _
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288
Parte seconda
ogni cosa crea, perché da lei, con mirabile e divina moltiplicalei sono state procede l'insieme delle cose che da lei e dopo di che si considera ciò create, in generi, specie, numeri, differenze, e tutto ritornerà lei da che ciò tutto Ma procede esistente in natura. poiché alla medesima causa, quando perverrà al fine, per questo la causa tale non crea né è creata. prima si dice fine di ogni cosa, e in quanto Infatti, quando tutto sarà tornato in lei, nulla procederà più da lei per sarà quiegenerazione, luogo e tempo, in generi e specie, poiché tutto la prima che Vedi indivisibilmente ed uno (...). dunque to, immutabile
causa di
zione,
la quarta forma della natura si riducono a una realtà sola? (...). E allora? Dobbiamo ridurre a una sola realtà anche la seconda e la terza forma? Non ti sfugge, infatti, credo che come la prima e la quarta si considerano nel Creatore, così la seconda e la terza si considerano nella creatura. La seconda, infatti, come abbiamo detto, è creata e crea, e per essa si intendono le cause primordiali delle cose create; la terza forma è creata e non crea, e si trova negli effetti delle cause primordiali. La seconda e la terza, dunque, sono contenute in un medesimo genere, quello della natura creata, e in esso sono una realtà sola; le forme, infatti, considerate nel loro genere, sono un'unica realtà. Vedi dunque che due delle quattro forme predette, la prima e la quarta, sono ridotte al Creatore, e le altre due, la seconda e la terza, sono ridotte alle creature»?
e
Divisa la natura in un
questi quattro tipi fondamentali, Scoto procede a essi, iniziando logicamente con lo stu-
accurato esame di ognuno di
dio di Dio.
DIO: ESISTENZA, NATURA, CONOSCIBILITÀ
Riguardo a Dio l’Eriugena non si preoccupa di dimostrarne l'esistenza anche se talvolta accenna all'argomento come quando scrive: sguardo di una mente retta hanno concluso che essa (la divina natura) esiste, dall'esistenza delle cose; che è sapiente, dalla distribuzione delle cose in essenze, in generi, in specie, differenze e numeri; che è vivente, dal moto di ogni cosa stabilee dalla stabilitàdi causa uniogni cosa mobile. E per questa via scoprirono pure che ladall'essenza «I teologi
con
lo
versale sussiste in tre persone. Infatti come dicemmo, delle cose si conosce che Dio esiste; dal loro mirabile ordine si conosce che ‘e sapiente; dal loro moto si conosce che è vita. La causa universale e natura creatrice esiste, dunque, ed è sapiente, e vive. E i ricercatori della verità ci hanno insegnato che per essenza si intende il Padre, per sapienza il Figlio, per vita lo Spirito Santomfi
5) Ibid, 2, 2. 6) Ibid, 1, 12.
Scoto Eriugcna, Anselmo d'Aosta, Gilberto l’0rrettan0
In ma
questo
testo
l’Eriugena non argomenta soltanto l'esistenza di
289
Dio
anche l'esistenza della Trinità. Il tenore neoplatonico del testo è paleallorché Scoto, descrivendo la Trinità, identifica il Padre con l'essen-
se, za, il
Figlio con la sapienza e 1o Spirito Santo con la vita. proprietà della natura divina l'Eriugena sottolinea quella di essere imprincipiata, anarkos, «perché è la prima causa di tutte le cose che sono fatte da lui e per lui, e perciò è fine di tutte le cose che derivano da lui»? In Dio non si distinguono l'essere e il volere, né si distinguono l'essere e il bene. Ma, con lo Pseudo-Dionigi e gli altri neoplatonici, Scoto Eriugena assegna una priorità ontologica al bene rispetto all'essere. Bontà ed essere appartengono a Dio integralmente mentre ogni altra cosa fuori di lui le possiede per partecipazione: «infatti, come non vi è nessun bene Tra le
naturale fuori di Dio, ma tutto ciò che vi sì dice buono è buono per partecipazione dell’unico sommo bene, così ciò che si dice esistere non esiste in se stesso, ma per partecipazione della natura che veramente esiste».5 Sulla scorta dello Pseudo Dionigi, nella conoscenza di Dio Scoto di-
stingue tre vie: quella positiva, quella negativa e quella eminenziale, indicando la maggior forza soprattutto della seconda, senza tuttavia misconoscere l'importanza e la necessità della prima. La via positiva, che risale a Dio come causa delle perfezioni create, è certamente una via buona e necessaria per ascendere a Dio; migliore però è la via negativa che, distinguendo Dio da ogni realtà creata, e quindi negando che Egli sia così come sono le cose che cadono sotto la nostra esperienza, ci dà una idea
più profonda della sua trascendenza. Un'idea che è non-idea, una conoscenza che è insieme non-conoscenza. Ma la via negativa per non sprofondare in un apofatismo eccessivo ha bisogno del correttivo della via eminenziale, o della ‘Teologiasuperlativa". Quest'ultima afferma che Dio non è incluso in nessuna categoria particolare perché trascende tutte le categorie. Così per es., verità piena riguardo a Dio non è né che è sostanza né che non lo è, bensì che è “sovrasostanziale”. È pero evidente che neppure con questa via si giunge a scoprire ciò che Dio è in se stesso. Così, dicendo che Dio oltrepassa ogni essere, est qui plus quam esse est, non diciamo quale sia la sua essenza. Ciò che Dio è non lo sappiamo, perché oltrepassa tutte le categorie, ed è superiore ad ogni affermazione e negazione?
7) Ibid.,11. 8) Ibid. 9) Cf.ibid.,11—15.
'
290
Parte seconda
LE IDEE DIVINE La seconda divisione della natura riguarda le Idee, i modelli eterni, prototipi, di cui Dio sì serve per Creare il mondo. Ecco come Scoto Eriugena introduce l'argomento, indicando i vari termini usati dai greci per affrontare tale questione: «Si mostra ora la seconda forma della natura universale, che come abbiamo detto, è creata e crea e per la quale si intendono, mi pare, le cause primordiali delle cose. Le cause primori
poi sono chiamate dai greci prototypa, ossia modelli primordiali, anche proorismata, ossia predestinazionì 0 definizioni: le chiamano anche theia thelenrata, cioè divine volontà, e si sogliono chiamare anche ideali, o sia specie o forme nelle quali furono fondate le immutabili ragio-
diali o
che sarebbero state Createw” che La necessità ci fossero cause ideali per il mondo sensibile era stata la geniale intuizione di Platone. Ma questi aveva dissociato le Idee da Dio, collocandole in un proprio mondo, Ylperuranio. La questione dei rapporti tra Idee e Dio percorre poi tutto il platonismo, e già da Filone Alessandrino viene risolta collegando le Idee alla Mente divina, il Logos, e Caratterizzandole come creature del Logos. Sostanzialmente questa è anche la tesi dell'autore del De divisione naturae. Nel libro secondo di quest'opera leggiamo: ni di tutte le
cose
«Mentre sussistono immutabilmentein Dio, le Idee sono le cause primordiali delle altre realtà che vengono dopo di loro fino agli estremi termini della natura creata e moltiplicata all'infinito. Dico ali ‘infinito non per il Creatore ma per la creatura; il fine infatti della moltiplicazione delle creature è noto solo al creatore, perché è lui e non altro. Le cause primordiali sono dunque quelle che i sapienti divini chiamano principi di tutte le cose: la bontà per se stessa, l'essenza per se stessa, la vita per se stessa, l'intelletto per se stesso, la ragione per se stessa, la giustizia per se stessa, la grandezza per se stessa, Yonnipotenza per se stessa, l'eternità per se stessa, la pace per se stessa e tutte le ragioni che il Padre fece insieme nel Figlio e secondo le quali è intessuto l'ordine di tutte le cose, dalla cima al fondo, cioè dalla creatura intellettuale, che, dopo Dio, è a Dio più Vicina, fino all'estremo ordine di tutte le cose, in cui sono contenuti i corpim" Le Idee che Dio genera in
se stesso come prototipi delle creature non realtà distinte da Lui, non hanno un'esistenza propria. Quelle sono soltanto distinzioni che l'uomo proietta su Dio, a causa della reale distinzione che queste perfezioni ricevono nelle creature. «In se stesse sono
m) Ibirt, 2, 2. H) Ibid., 36.
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
291
infatti, le cause primordiali sono una cosa sola e semplici e non definite da un ordine conosciuto o separate l'una dall'altra: si distinguono infatti solo nei loro effetti (...). Le cause primordiali, quando si concepiscono
principio d'ogni cosa,
unigenito di Dio, sono un'unica ed indivisibilerealtà. Quando invece procedono nei loro effetti moltiplicati all'infinito, assumono una pluralità di numero e di orsussistenti nel
cioè nel Verbo
dinemlî
primordiali Scoto, seguendo anche qui lflàreopagita, gerarchia: la prima è l'idea del bene, poi viene l'idea del(essentia), poi quella di verità e così via. Prima l'idea del bene,
Fra queste
cause
riconosce una
l'essere
perché la bontà di Dio è in certo modo la ragion d'essere della creazione: Dio dà l'essere alle creature perché è bontà e come tale è donatore di realtà e di perfezione. Si tratta però di una gerarchia posta dal nostro intelletto, poiché non c'è una distinzione reale tra le idee eterne e Dio. CREAZIONE E PARTECIPAZIONE Trattando della terza divisione, che
riguarda la natura creata e
non
e abbraccia il complesso delle cose che nascono e periscono, Eriu— gena fa alcune importanti considerazioni intorno ai concetti fondamentali di partecipazione e di creazione. Riguardo alla partecipazione scrive:
creante
«Tutto ciò che è, è o partecipante o partecipato o partecipazione. È soltanto partecipato ciò che non partecipa di nulla che sia superiore a sé; il chasi avvera solo per il sommo ed universale principio, che è Dio
292
ture
Parte seconda
che entrano nella costituzione dell'universo. Ma se non si spiega co-
avviene questa distribuzione, il concetto di partecipazione resta anmolto generico e indeterminato, e può essere inteso sia in senso panteistico sia in senso teistico e creazionistico. Non c'è dubbio tuttavia che Ylîriugena lo intende in senso creazionistico. Infatti nel De divisione naturae subito dopo aver parlato della partecipazione passa a trattare della creazione. Sennonché, come si vedrà, le incertezze sulla corretta interpretazione dei rapporti tra Dio e le creature, permangono anche dopo l'esame della concezione eriugeniana della creazione. La creazione viene definita correttamente come produzione delle cose dal nulla (ex nihilo); per virtù della bontà di Dio, ciò che non era ricevette l'essere: «è stato fatto, poiché non era, prima di venire all'essere». Riguardo al nulla Scoto fa la seguente importante chiarificazione: «Con la parola nulla non si intende una materia o una causa esistente, una processione o causa occasionale, alla quale seguirebbe la creazione; non si intende una realtà coessenziale e coeterna a Dio, né esistente per sé, fuori di Dio, né dipendente da altro, dalla quale Dio avrebbe preso la materia per fabbricare il mondo. Nulla è il nome della privazione d'ogni essenza, o meglio, della assenza di ogni realtàmlé Perciò la creazione non è una trasformazione di una materia preesistente Come insegnava Platone, ma un principiare assoluto. Anche la materia è stata prodotta dal nulla: «Colui che fece il mondo dalla materia informe, fece anche la materia informe dal nulla>>.15 Per chiarire il concetto di creazione, Eriugena, seguendo lo PseudoDionigi ricorre spesso alle immagini della luce, della illuminazione, del sole e della radiazione. Così afferma che tutte le cose create sono lumi tratti dalla luce divina: omnia quae sunt lumina sunî, e la loro essenza consiste nel riflettere ciascuna a suo modo la luce divina e, conseguentemente, l'essenza stessa di Dio. Così Dio diviene l'essenza di tutte le cose: est omnium essentiaflfi Immagini e espressioni come queste si prestano facilmentea un'interpretazione panteistica, ed è così che verranno interpretate dal filosofo parigino Amalrico di Bene all'inizio del secolo XIII, provocando la condanna del De divisione naturae (1215). me
cora
14) raid, 5. 15) Ibid. 16) Cf. Ibid. 3, 9.
Scoto Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
LE
CREATURE ANGELICHE E
293
L'UOMO
Definita l'azione con cui Dio comunica l'essere alle creature, Scoto
passa allo studio di queste, trattando prima degli angeli e poi dell'uomo. Dalle sostanze immateriali, come le gerarchie angeliche, all'uomo che partecipa a un tempo sia all'ordine spirituale sia all'ordine materiale, e
alle cose puramente materiali e sensibili,si svolge un continuo processo di epifania (rivelazione) della Trinità, secondo un ordine gerarchico ben
preciso. Gli angeli, che
occupano il primo rango nell'ordine delle creature, sono intelligenze perfette in cui la Trinità si rispecchia secondo la più alta espressione, ma sono anch'essi distinti dalle Idee divine perché possiedono un corpo spirituale, senza dimensioni e forme sensibili. Agli angeli spetta il privilegio di conoscere direttamente la realtà divina, nei principi primordiali di tutte le cose. Ma anche questa conoscenza viene partecipata agli angeli in linea gerarchica, a seconda della loro maggiore o minore perfezione, fino all'ultimo grado della gerarchia angelica che, a sua volta, la trasmette ai gradi supremi della gerarchia ecclesiastica, destinata a diffonderla tra i gradi inferiori e questi, a loro volta, ai fedeli. Del tutto singolare è il posto che occupa l'uomo nell'universo. Egli, in quanto corpo, si unisce agli esseri sensibili; in quanto anima, a quelli intelligibili. Contiene quindi in sé tutto il creato ed è una specie di ojficina mundi. Tutte le definizioni dell'uomo che sono state proposte dai filosofi (animale razionale, logos spermatikòs ecc.), secondo Scoto sono inadeguate. Solo la mente divina possiede una vera e totale notizia della natura umana, perché questa è da quella formata e ad essa tende: «sola itaque divina mens notitianz humanae mentis, peritiae disciplinalisqite a se formatore et ad se, veram passidea‘ in seipsa (perciò solo la mente divina possiede in se stessa la vera conoscenza della mente umana, dell'abilità e della sua scienza in quanto formata da essa e per essa)».17 La nozione dell'uomo che è nella mente divina è semplice, poiché in Dio tutto è semplice, e non può nemmeno essere definita in questo o quel modo, superando infatti essa ogni definizione ed ogni connessione di parti. In effetti, come di Dio, così di tutto ciò che è in lui possiamo solo dire che è, ma non che cosa è. La ragione, insomma, si comporta con l'uomo come la teologia si comporta con Dio: nega dell'uomo quid esse e afferma solummodo esse.
17) lbiaî, 4, 7.
294
Parte seconda
questioni della corporeità e della sessualità umana, Ylìriugena le soluzioni di Massimo il Confessore. Quanto alla corporeità distingue una corporeità incorruttibile che è quella di cui l'uomo era dotato prima del peccato, e che gli sarà restituita dopo la resurrezione della carne, e una corporeità passibile e corruttibile che è quella a cui ‘e Sulle
fa
sue
la caduta. Quanto alla sessualità, essa non apideale e non fu prevista per l'uomo che come soluziopartiene all'uomo ne al problema della moltiplicazione della specie umana dopo il peccato. Per cui se l'uomo non avesse peccato, non sarebbe nato dall’accopstato condannato
dopo
piamento dei sessi né dal seme, ma si sarebbe moltiplicato a somiglianza dell'essenza angelica che pure essendo una, simul et semel, è moltiplicata
in una miriade infinita.
L'uomo è imago Dei, e l'impronta dellîconicità divina non sta scritta né nella sessualità e neppure nella corporeità attuale, ma solo nell'anima e nella corporeità originaria, incorruttibileed eterna. Icona di Dio, l'anima è portata a Lui per mezzo di tre movimenti, di cui il primo è sensibile e si volge al mondo dei corpi; il secondo è quello secondo ragione e tende a Dio insieme all'anima; il terzo è il movimento secondo l'anima che si volge a Dio nella sua infinita trascendenza. Qui l'uomo supera i limiti della sua natura, in forza di una grazia che gli viene da Dio. Pertanto l'inizio del ritorno dell'uomo a Dio ha luogo nel corpo, e si attua quando il corpo si scioglie nei quattro elementi di cui è composto. Poi, con la risurrezione, ognuno riprende il suo corpo e questo è tramutato in spirito. In seguito tutta la natura dell'uomo ritorna alle cause primordiali. Infine la natura tutta quanta insieme con le sue cause, in meraviglioso corteo, si muove verso Dio, come l'aria si muove verso la luce, e allora Dio «diviene tutto in tutti». Con questo Eriugena, come S. Paolo prima di lui, non intende affermare che le creature scompaiono per essere riassorbite in Dio: il punto terminale del ritorno non è la distruzione di tutto il finito, bensì il suo passaggio a una condizione migliore; come il ferro messo al fuoco, sembra diventare fuoco, mentre resta sempre metallo, così l'uomo riassorbito in Dio, non cessa di esistere, ma è elevato a un destino superiore. Il punctum dolens della cosmovisione de1l’Eriugena, come del resto di tutte le cosmovisioni dei neoplatonici cristiani, è il problema del male. Per lui, come per Massimo il Confessore, per lo Pseudo-Dionìgi, e precedentemente per Origene, il male sembra avere più carattere ontologico che etico, e la sua funzione è quella di spiegare i movimenti di sìstole e di diastole dell'universo. In tale prospettiva il male non può avere carattere assoluto, ma provvisorio, in quanto a ogni momento della diastole corrisponde necessariamente dall'altra parte un momento della sistole, e a ogni gradino dell'allontanamento da Dio fa riscontro un gradino del ritorno.
Scoto
Eriugena, Anselmo d ’Aosta, Gilberto Porrettano
295
«In questo universo in cui la stessa materia fisica si riduce ai propri elementi intelligibili,non c'è naturalmente posto per un male irriducibile o per la dannazione eterna, né, tanto meno, per la concezione tradizionale delle pene oltramondane. Certo, il filosofo irlandese non vuole con questo negare la distinzione teologica tra i reprobi e gli eletti, né impugnare in tal modo uno dei più saldi fondamenti del dogma cristiano. Ma basta leggere alcune pagine significative del De divisione 0 del commento al De coelesti’ hierarchia, per intendere come elezione e condanna, beatitudine e sofferenza eterna siano identificate dalYEriugenacon la vera conoscenza o con l'assoluta ignoranza della verità divina, senza che vi sia più alcuna allusione alle sofferenze e godimenti sensibili. La vera beatitudinedella vita eterna è dunque la visione limpida e perfetta della divinità, l'intima comunione col suo essere. La natura riscattata e salvata dal sacrificio di Cristo e dall'ascesa dell'anima non reca più alcun segno del male, né potrebbe mai ammettere neWeternità dell'inferno le vittorie del male e di Satana, la loro eterna ribellioneall’invincibilerichiamo dcIl’Uno».18
GIUDIZI SUL PENSIERO DI SCOTO ERIUGENA La metafisica di Scoto Eriugena è di stampo strettamente henologico: l’Uno (z Bene) gode di un'assoluta priorità rispetto all'essere. L'essere è la prima manifestazione dell'Un0. Nella sua metafisica la creazione è concepita come una manifestazione dell'unità attraverso la pluralità. Così rispetto a Dio si può dire che la creazione si trova nella stessa relazione che hanno i numeri con l'assoluta Unità. Le accuse più frequenti che si muovono al pensiero di Scoto Eriugena sono quelle di razionalismo e di panteismo. In verità i suoi scritti prestano il fianco ad entrambe le accuse e la storiografia non ha cessato di ascrivergliele fino agli inizi del XX secolo. Probabilmentenel giudicare il pensiero deIYErÌugena molti storici si sono fatti eccessivamente influenzare dalla sentenza di condanna che fu emanata contro il suo pensiero quattro secoli dopo la sua morte. La condanna riguardava il De divisione nvaiurae e fu emessa prima da un Concilio provinciale a Sens (1215) e poi (1225) convalidata da papa Onorio III. Nella lettera in cui si approva la condanna del libro di Scoto il papa, tra l'altro, scriveva: «Da poco,
come
ci ha indicato il nostro venerabilefratello vescovo di
Parigi, si è trovato un libro intitolato De divisione naturae, tutto brulicante di vermi di eretica pravità, per cui fu con giusto giudizio ripro-
vato dal nostro venerabilefratello arcivescovo di Sens
13)
C. VASOLI, Lafilosofiìz nzedioevale, Milano 1961, p. 69.
e
dai suoi suf-
Parte seconda
296
V0i fraganei raccolti nel sinodo provinciale (...). A tutti e a ciascuno di che comandiamo nella virtù dello Spirito Santo con vigoroso precetto cerchiate con sollecitudine questo libro e dovunque accadrà che si trovi esso o parte di esso, 10 mandiate a noi, se ciò potrà essere fatto con sicurezza, senza indugio, perché se nc faccia solenne rogo; altrimenti voì stessi 10 brucerete pubblicamente, ingiungendo espressamente ciascuno di voi ai vostri sudditi che chiunque di essi abbia 0 possa avere nella totalità o in parte esemplari di detto libro, non tardino a consegnarvelim”
Influenzati forse da questa pesantissima condanna i primi storici di Scoto Eriugena, particolarmente Haureau e Tcnneman, credettero di poter fare di lui il primo libero pensatore che si ribellò al dogmatismo della Chiesa cattolica e all'autoritarismo tipici dell'età medioevale. A questa interpretazione rimasero legati alcuni grandi storici della filosofia medioevale come De Wulf, Bréhier e De Ruggero. Giudizi nettamente più favorevoli all'Eriugena hanno espresso, invece in tempi più recenti Dal Pra, Vasoli e Vanni Rovighi. Secondo Dal Pra non si può parlare in Scoto Eriugena di razionalismo in senso laicistico, ma, d'altra parte «non v'è dubbio che tutto il mondo religioso della tradizione, ivi compresa la rivelazione, viene interpretato da Scoto come mediabiledalla ricerca e quindi come suscettibiledi approfondimentoml" Secondo Vasoli, «Eriugena è soprattutto un filosofo di formazione e mentalità neoplatonica, preoccupato profondamente di dare al proprio pensiero un esito teologale ed ortodosso, sempre minacciato però dal carattere schiettamente platonico delle sue dottrine fondamentalimlì Secondo la Vanni Rovighi in Scoto si può parlare di ”razi0nalismo” «solo nel senso di un grande ottimismo di Scoto nelle capacità della ragione: Scoto ritiene che la ragione possa arrivare a spiegare tutto quel che la Rivelazione insegna. Ma in questo senso il "razionalismo" non è, a quest'epoca, una singolarità di Scoto Eriugena: è assai diffuso e lo troveremo anche nel primo S. Anselmo».22 Di fatto un certo razionalismo è inevitabilenel lavoro di Scoto perché la sua sintesi speculativa non è una sintesi teologica bensì filosofica. La sua è una metafisica cristiana non una teologia cristiana.
1°) I.
HEFELE-LECLERCQ, Histoire dcs conciles d’après documents
p. 1443.
originaux, V,
39) M. DAL PRA, 0p. cit, p. 104. 11) C. VASOLI, op. cit., p. 68. 22) S. VANNI ROVIGHI, "Scoto Eriugena", in Grande enciclopediafilosofica IV, c. 647.
Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta, Gilberto Porrettano
297
Anselmo d'Aosta Per chi percorre il cammino della storia della metafisica, e dalle vette altissime toccate da Origene, Gregorio Nisseno e Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo e Basilio, Tertulliano, e Agostino si inoltra negli ultimi secoli dell'età Patristica e dei primi secoli del periodo scolastico costituisce un’enorme e piacevolissima sorpresa trovarsi improvvisamente dinanzi a una nuova altissima vetta, che si innalza al di sopra del vasto deserto che la circonda. Questo gigante che si erge al di sopra di tutti gli altri è Anselmo un gran numero di uomini dotati si occuparono, in d'accordo, in parte in disaccordo fra loro, di determinati problemi attuali, un unico personaggio, lontano dalle dispute contingenti del momento, fece un essenziale passo in avanti portando il problema filosofico-teologicosu un piano speculativo con la
d’Aopst_a.p
disinvolta facilitàdelle nature geniali » 23 Filosofo e teologo di grandissimo valore Anselmo d'Aosta ha saputo creare praticamente dal nulla la scienza teologica, assegnandole uno statuto epistemologico suo proprio e procurandole strumenti adeguati per compiere il suo lavoro: il ragionamento, la dimostrazione razionale, le rationes necessariae. La fides trova finalmente nella ratio speculativa la sua fedele ancella, che le consente di vedere sotto una luce nuova, il lumen
rationis, ciò che da lei è già
stato accolto mediante il lumen
superrzaturale
revelationis. I misteri ora non sono più semplicemente letti e commentati nei testi della sacra pagina, ma sono studiati e compresi in se stessi. Così la teologia, grazie ad Anselmo, trova un posto e un compito distinti da quelli della esegesi biblica e della filosofia. Si può affermare che la dissociazione cosciente tra filosofia e teologia è opera di Anselmo d'Aosta «che ne cerca il principio nella distinzione tra intelligere e credere. Da quel momento in poi ciascuna delle due scienze avrà propri metodi costruttivi e propri principi: la filosofia Scolastica è una spiegazione razionale dell'ordine universale, mentre la teologia tende a essere sempre più un'elaborazione sistematica della rivelazione contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizioneapostolica»?!
VITA
dopo la morte della madre, molto pia e comprensiva, gravi persistenti contrasti col padre, duro e severo, Anselmo, ormai maggiorenne, fugge da casa. Per tre anni percorre la Nato ad Aosta nel 1033, a causa
23) 24 )
di
e
IEDIN (ed.), Storia della Chiesa lV, cit, p. 606. M. DE WULP, Storia della filosofia medievale, Firenze 1944, Vol. l, p. 254. .
298
Parte seconda
Francia settentrionale, la Borgogna e la Normandia. Finalmente a Bec, nella quiete e nel silenzio dell’abbazia dove la fama del teologo Lanfranco, suo connazionale, l'ha attirato, risente la passione dello studio e presta ascolto alla voce di Dio che 10 chiama ad abbracciare la vita religiosa.
Risponde prontamente e, a 27 anni, indossa Yabitogmonastico.La sua Vita è così esemplare che dopo appena tre anni, quando Lanfranco diviene abate di S. Stefano a Caen, è scelto per sostituirlo nella carica di priore dell'abbazia e di direttore della scuola. Tale incarico comporta l'insegnamento e quindi Anselmo compone un testo scolastico, il Monologion (1076), i cui terni vengono poi ripresi nel Proslogion (1078). Nel 1078 viene eletto abate. Dal 1080 al 1085 redige un testo di dialettica pura, il De grammatica seguito da tre «studi sulla sacra Scrittura»: il De veritate,
il De libertate arbitrii e il De Casu diabolz". Nel 1093 viene chiamato alla sede episcopale di Canterbury, dov'era appena deceduto Lanfranco. Inizia così la sua vita tribolata e movimentata di vescovo. Il suo zelo per la Chiesa, la sua libertà e autonomia dalle ingerenze del potere civile, lo porta a contrastare la politica ecclesiastica invadente e usurpatrice dei sovrani d'Inghilterra. Il re, Guglielmo il Rosso, prendendo a pretesto il rifiuto di Anselmo di accettare l’investitura e la insufficienza della somma riscossa da Anselmo per aiutare la spedizione militare in Normandia, Cerca di destituirlo, circuendo gli altri vescovi, la nobiltà inglese e lo stesso pontefice romano, ma non vi riesce. Anselmo si appella a Roma, dove viene accolto con molto riguardo e onore da Urbano II, che approva la sua condotta e tenta di indurre il re a riparare alle ingiustizie commesse. Dopo dieci giorni di soggiorno romano Anselmo si reca in Calabria a godersi la pace del monastero di S. Salvatore, dove è abate un suo scolato. Lì termina il Cur Deus homo (1098). Su invito del papa, nell’ottobre del 1098, partecipa attivamente, nella veste di teologo, al Concilio di Bari, dove appare come il grande esponente della parte cattolica e polemizza con ardore, prudenza ed erudizione contro agli aderenti allo scisma di Michele Cerulario. Da quella esperienza scaturisce l'opuscolo De processione SPÎTÌÌZJS Sancti (circa il Filioque). Finalmente nel 1106 può tornare in Inghilterra, dove muore tre anni dopo (1109).
OPERE Anselmo è il massimo teologo del suo secolo: colui che segna la ripresa degli studi teologici dopo cinque secoli di prolungato silenzio. A paragone di Origene, Agostino e Tommaso, Anselmo non ha scritto molto, ma quasi tutte le sue opere ebbero grande fama ed esercitarono un vasto e profondo influsso sui posteri. Nell'elenco dei suoi scritti, oltre quelli già menzionati, figurano: Epistula de incarnatione Verbi, nota anche sotto
Scoto
E-riugena, Anselmo d ’Aosta, Gilberto [Jorrettano
299
mysterio Trinitatis; De conceptu virginali; Episiula de sacrificio azymi; Epistula de sacramentis ecclesiae; De concordia praescientiaeet praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio; Orationes sive meditationes e il ricco Epistolario. il titolo De
Ma
a
noi, in questa sede, Anselmo non interessa per i suoi meriti teo-
logici, che sono indubbiamente grandissimi, bensì per il suo apporto alla storia della metafisica, fondamentale soprattutto per la sua originalis-
sima dimostrazione della esistenza di Dio. La sua prova basata sulla definizione di Dio quale «essere di cui non si può pensare il maggiore» (id quo maius cogitare nequit) ha lasciato una impronta indelebilenella storia della metafisica.
VERITÀ, FEDE, RAGIONE Per intendere gli scritti di Anselmo occorre contestualizzarli. Sono opere di un monaco: non di un monaco dei primi secoli della Chiesa, che fuggiva da un mondo culturalmente e politicamente avverso alla fede cristiana, bensì di uno del secolo XI, vale a dire di un'epoca in cui il mondo latino era ormai profondamente cristianizzato sia culturalmente sia politicamente. «Tutto il mondo che lo circonda vive di fede (...). La cultura del secolo Xl è tutta cristiana. Ci sono i dialettici, è vero; ma è gente che fa delle pure esercitazioni scolastiche, non è gente che abbia un proprio pensiero, e poi è gente che, sia pure a suo modo, pretende di muoversi nell'ambitodel dogma cattolico».25 Profondamente agostiniano, come tutti i monaci del suo tempo, Anselmo è attratto dal fascino della verità: la veritatis claritas. Nel primo capitolo del Proslogion Anselmo dichiara: «Desidero comprendere in qualche modo la tua (di Dio) verità, che il mio cuore già crede e ama». E alla fine del capitolo XIV: «Quanto è ampia quella Verità nella quale si trova tutto ciò che è vero e fuori della quale non Vi è che il nulla e il falso! Quanto è smisurata, essa che, in un solo sguardo, vede tutto ciò che è stato creato e da chi, per chi e in che modo è stato creato dal nulla! Che purezza, che semplicità, che Certezza e splendore Vi sono qui! Certamente più di quanto possa venire compreso da una creatura». Alla verità il monaco Anselmo cerca di giungere con tutti i mezzi di cui l'uomo dispone: la fede, la ragione, la preghiera. Anzitutto la conoscenza della zierità è assiduamente invocata. Ecco a questo riguardo due bellissime invocazioni del Proslogion: «O luce somma ed inaccessibile,o Verità totale e beata, quanto sei lontana da me,
25)
S. VANNI ROVlGl-îl, S. Anselmo e la filosofia del secolo Xl, Milano 1949, pp. 41-42.
300
Parte seconda
remota dal mio sguardo, mentre io sono così presente al tuo. Tu sei dovunque tutta presente, ma io non ti vedo. In te mi muovo ed in te sono, ma non posso accedere a te. Tu sei dentro di me e intorno a me, ma io non ti sento (infra me et circa me es, et non te sentio)» (c. 16).
che ti
sono
così vicino!
Quanto sei
«Sollevami da me verso di te. Purifica, risana, rendi acuto, illumina l'occhio della mia mente, affinché ti veda. L'anima mia raccolga le sue
intelligenza (toto intellectu), o Signore, di nuovo tenda verso di Te» (c. 18). La verità è accolta gioiosamente con fede come dono della divina bontà. Il credo che già dà la certezza della verità, in Anselmo è il presupposto di ogni ricerca ulteriore operata dalla ragione. La ragione non viene prima della fede ma dopo: prima c'è il credo poi Yintelligo. Le affermazioni anselmiane sul primato della fede sono assai frequenti. Le troviamo già nel Proslogion: «Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché in nessun modo paragone ad essa il mio intelletto, ma desidero comprendere in qualche modo la tua verità che il mio cuore crede ed ama. Infatti non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere (neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ui intelligam). Giacché credo anche questo: che se non credere, non comprenderò» (c. 1). Ma i testi più ampi ed espliciti sono quelli delle introduzioni al
forze
e con
tutta la
sua
De incarnatione Verbi e al Cur Deus homo. L'errore di Roscellino, contro il quale è diretto il De incarnatione Verbi, nasce dice S. Anselmo dal fatto che egli pretende di volere arrivare a tutto con la ragione: «Nessun cristiano deve disputare per vedere come non sia vero ciò che la Chiesa cattolica crede col cuore e confessa con le parole; ma, sempre tenendo ferma quella fede, amandola e vivendo in modo conforme ad essa, deve cercare, più umilmente che può, di spiegare come essa sia vera. Se riesce a capire ringrazì il Signore; se non riesce non immittat Cornua ad ventilandunz ma pieghi il capo a venerare». Bisogna dunque purificare prima il cuore con la fede, bisogna nutrirsi della verità rivelata per poter intelligere. Ma non è da biasimare chi, fermo nella fede, vuole indagare le ragioni della fede; anzi la stessa Scrittura ci invita a cercare di capire il dato di fede quando ci dice: «N{si credideritis, non intelligetimnlò Questa intelligenza del dato di fede è qualche cosa di intermedio tra la pura fede e la visione beatifìca. Nel corso del Cur Deus homo, poi, questo concetto della necessità di porre la fede a fondamento della ricerca torna frequentemente. E poiché la fede procura certezze ma non concede nessuna visione della verità, anziché placare la fame di verità che tormenta la mente, la fede l’acuisce ulteriormente. Di qui Tappassionata preghiera di Anselmo: -
25)
Is 7, 9.
-
Scoto Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
30]
supplico Signore: affamato ho cominciato a cercarti, che io non cessi digiuno di te. Mi sono avvicinato famelico, fa che non mi allontani senza avere mangiato. Sono venuto povero davanti al ricco, misero davanti al misericordioso: che non ritorni a mani vuote e disprezzato»? Così la verità rivelata e creduta diventa l'oggetto dell’appassionata esplorazione della ragione. Comprendere la verità è compito proprio e specifico della ragione. Questa è la facoltà di cui Dio ha dotato l'uomo perché possa accedere alla verità. Che tale sia il suo compito Anselmo lo ripete più volte nei suoi scritti. Così nel Monologiunz dice che, su esplicita «Ti
richiesta dei suoi monaci, si propone «di non dimostrare assolutamente nulla con l'autorità della Scrittura, ma che, qualunque cosa si asserisca al termine di ogni singola ricerca, sia dimostrata essere tale dalla necessità della ragione che costringe all'assenso e dalla chiara manifestazione della verità, e ciò con stile piano, argomenti alla portata di tutti e con semplice cliscussione».28 Più tardi, neIYI-Ìpistula de {ncamatione Verbi, parlando del Monologion e del Proslogion dice che furono scritti «per poter dimostrare con argomenti necessari, senza ricorrere all’autorità delle Scritture, ciò che teniamo per fede sulla natura di Dio e le divine Persone, all'infuori della Incarnazione». Da quanto siamo andati esponendo risulta che Anselmo ha idee molto chiare sia sulla distinzione tra fede e ragione sia sul loro rapporto: sono due beni (lumina) con cui la mente umana può cogliere la verità. Il primo lumen è un dono puramente gratuito di Dio,‘ il secondo è una dote naturale dell'uomo. Anselmo sa che il possesso della verità mediante la fede è sicuro, molto più sicuro di quello della ragione; e tuttavia sa anche che il possesso della verità mediante la ragione è più chiaro, e per questo, come egli stesso dice, è a mezza via tra la fede e la visione beatifica. Da intellettuale cristiano, seguendo Agostino, Anselmo si dedica a rendere intelligibilealla ragione e mediante la ragione, ciò che questa ha già accolto per fede. Come Agostino, il quale non ha scritto soltanto opere teologiche ma anche dialoghi e soliloqui filosofici, anche Anselmo ha una produzione specificamente filosofica:il Monologion, che è un dialogo, e il Proslogion, che ‘e un soliloquio. Con buona pace di K. Barth e di tanti suoi ripetitori, questi due scritti sono di natura filosofica: non solo il Monologion, ma anche il PTDSÎOgÎOH. Il secondo infatti è una ripresa, una continuazione, e una più rigorosa elaborazione del primo. Sia il Monologion sia il Proslogion sono espressioni cospicue della metafisica cristiana.
27) Prosl. 1. 23) Prologus.
302
Per
Parte seconda
quanto
concerne
la rivendicazione del carattere
teologico delle
opere di Anselmo, del Proslogion in particolare, fatta da Barth, ci sono alcuni punti che bisogna tenere presenti: 1. Ai tempi di Anselmo i confini tra filosofia e teologia non erano ancora stati tracciati con quella chiarezza con cui li definirà S. Tommaso, e così, in generale, quando si faceva filosofia la si faceva all'interno della
teologia.
2. Tuttavia anche ai tempi di Anselmo, come già ai tempi dei Padri, si distingueva ciò che la ragione può raggiungere col proprio lume da ciò
che può conoscere col lume della rivelazione.’
3. Tutti davano molta importanza alla ricerca e alle acquisizioni della verità mediante la ragione: i pensatori cristiani avevano costruito imponenti sistemi di metafisica cristiana sia in ambiti puramente naturali ed estranei alla rivelazione, sia all'interno della teologia. 4. Ciò che non solo Barth ma tutti i protestanti e molti storici di fede laica negano è la possibilità di una filosofia cristiana e di una metafisica cristiana. Ciò spiega perché Barth contesti il carattere filosofico del Monologion e del Proslogion. Ma questa è una negazione gratuita che contraddice, come s'è visto, le intenzioni dello stesso Anselmo. Ciò che si può concedere a Barth è che qui ci troviamo di fronte a due brevissimi trattati di teologia fondamentale. Ma la teologia fondamentale coincide appunto sostanzialmente con la teologiu filosofica. La struttura e i temi del Monologion e del Proslogion sono praticamente gli stessi. Entrambi sono divisi in tre parti: la prima riguarda l'esistenza di Dio, la seconda la natura divina e i suoi attributi, e la terza il mistero della Trinità. Ma l'estensione del Monologion supera di molto quella del Proslogion, e questo è dovuto al fatto che mentre nel Proslogion alla Trinità si dedica un solo capitolo (23), nel Monologion a questo mistero si dedica quasi metà dell'opera (cc. 29-65). L'inserimento del mistero della Trinità in un trattato che vuole essere esclusivamente filosoficonon deve sorprendere, visto che della Trinità parlavano anche i Neoplatonici e che già alcuni Padri della Chiesa si erano serviti degli argomenti e del linguaggio di questi filosofi per esporre il mistero trinitario. Nei Contenuti e nella dottrina il Proslogion riprende quindi il Monologion. Ciò che lo distingue è una più accesa ansia del comprendere, del capire più che del dimostrare, e la forte immedesimazione personale nella materia studiata. L'obiettivodi Anselmo nel secondo trattato non è più quello di provare Dio bensì di trovarlo. Il motto che guida Anselmo in quest'opera è lflagostiniano: «fecisti n05 Domine ad te, et inquietum est cor nostrana donec requiescat in te (ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te)». E non è un caso che siano innume-
Santo Eriugena, Anselmo d ‘Aosta, Gilberto Porrettano
303
revoli i brani che riecheggiano direttamente le Confessioni. Mentre nel Monologion il linguaggio deve esporre la necessità razionale dei contenuti nel modo più chiaro e conciso: breviter et patenter, come si dice nel Prologo, nel Proslogion «il linguaggio si propone di esprimere l'inesauribilità dei significati e, quindi, la insuperabileincompiutezza della contemplazione. Perciò qui non tanto l'estensione, quanto la qualità del linguaggio diventa una questione particolarmente rilevante. In particolare questo fatto spiega un apparente paradosso: il contrasto tra l'assoluta Certezza dell'umano argumentum e la continua confessione dei limiti, entro i quali si muove il pensiero. Questa in realtà è la cifra più autentica dell'opera: una fiducia più completa nell'assolutezza degli argomenti, accompagnata dalla convinzione che la Verità è inesauribile»?
UESISTENZA DI DIO Come abbiamo già OSSEIVBÌD, l'esistenza di Dio è oggetto di trattaziosia del Monologiorz sia del Proslogioiî. Nel Monologion Anselmo esibisce alcuni argomenti tradizionali, già presenti in Agostino e in parte anche in Platone e Aristotele, nel Proslogion invece sviluppa un argomento del tutto nuovo, che, a suo giudizio ha una forza probativa molto più persuasiva di tutti i precedenti argomenti. ne
Monologion Nel Monologion Anselmo presenta tre vie, costruite rispettivamente sulla bontà, sulla grandezza (perfezione) e sull'essere. In tutte e tre le vie si parte dalla constatazione di una presenza limitata, parziale e graduale Le prove del
questi tre aspetti della realtà: nelle cose c'è più o meno bontà, più o grandezza (perfezione, valore) e c'è più o meno essere. Ma i gradi di perfezione esigono sempre un massimo. Pertanto i gradi di bontà, di grandezza e di essere comportano l'esistenza di un sommo bene, di un
di
meno
sommo
grande e di un sommo essere.
Anselmo dà per scontata, nelle sue prove, la verità del fatto che esistono realmente gradi di bontà, grandezza, essere, e ritiene innegabileil principio che i gradi esigono un massimo, altrimenti si deve regredire all'infinito: il che conduce all’assurdo. «Poiché dunque non si può negare che alcune nature sono migliori di altre, la ragione ci persuade che una supera le altre, sì da non averne alcuna superiore a sé. Se infatti una tale distinzione di gradi fosse infinita, e non ci fosse nessun grado superiore del quale non si potesse assegnarne uno più alto, la ragione sareb-
29) I. SCIUTO, Introduzione a ANSELMO, Proslogion, Milano 1996, p. 1.
304
Parte seconda
be condotta ad ammettere che la moltitudine di quelle nature non avesse fine. E bisogna essere stolti per non giudicare assurda questa conclusione» (c. 4).
Applicata all'essere Yargomentazione anselmiana assume la forma seguente: «Tutto ciò che è,
0
esiste in virtù di
qualche cosa
o
in virtù di nulla.
Ma nulla esiste in virtù di nulla. Non si può infatti neppure pensare che qualche cosa esista se non in virtù di qualche cosa. Dunque tutto ciò che è, esiste in virtù di qualche cosa (...). Ma tutto ciò che esiste in virtù di altro è inferiore a ciò per cui esistono tutte le altre cose e che, solo, esiste per sé. Perciò quello che esiste per se’ è il più grande di tutti (solum maxime et summe omnium est). Ma ciò che è massimo, e in virtù del quale esiste tutto ciò che è buono e grande e, in genere, tutto ciò che è qualcosa, deve essere sommamente buono e sommamente grande e al di sopra di tutto ciò che esiste. Perciò vi è qualcosa che, si dica essenza o sostanza o natura, è il più buono, il più grande e superiore a tutte le cose che sono» (c. 3).
Le prove anselmiane basate sui gradi di bontà, grandezza ed essere hanno una grande affinità con la ”quarta Via" di S. Tommaso, quella basata sui gradi di perfezione. Ma, come ha osservato Vanni Rovighi, nell'analisi anselmiana non risulta sufficientemente chiarito il rapporto delle bontà, delle grandezze e delle entità limitate con il principio primo, il massimo grado di ogni ordine. Non si capisce intatti se per Anselmo il rapporto appartenga all'ordine della causalità efficiente (come è in S. Tommaso) oppure all'ordine della causalità formale (com'è in Platone). «Anche S. Tommaso osserva che c'è una gerarchia di valori nelle cose e che il più e il meno si dicono di cose diverse in quanto queste si avvicinano a un massimo, ma non dice che tutte le cose hanno una medesima perfezione. Le perfezioni sono
molteplici, come le cose alle quali ineriscono, ma il più e il meno di perfe-
zione, l’esser le cose defettibilidalla loro perfezione, attesta la contingenza della perfezione stessa come il cominciare e il venir meno delle cose -
contingenza del loro essere e quindi rimanda a una Perfezione Essere necessari e trascendenti>>fi° a un
attesta la
e
—
La prova del Proslogion Nella storia della metafisica il nome di Anselmo è legato soprattutto alla prova dell'esistenza di Dio che egli espone nel Proslogion. Come sia giunto alla scoperta di questa dimostrazione lo racconta lo stesso Anselmo nel ”Proemio” di quest'opera.
3°)
S. VANNI ROVIGHI, S. Aviselnzo e lafilosofia... cit., p. 75.
Scoto Eriugena, Anselmo d’A0sta, Gilberto Porrettano
305
constatando che quell’opuscolo era molti costruito con la concatenazione di argomenti, Anselmo si era chiesto «se per caso fosse possibile trovare un argomento unico (unum argumentunz), tale che per essere dimostrato non avesse bisogno di altro, ma solo di se stesso; e che fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per ben-essere, e tutto ciò che crediamo della divina sostanza». Dopo lunga, paziente e laboriosa ricerca all'improvviso gli baleno alla mente un argomento che egli giudicò subito fortissimo, inoppugnabile, davanti al quale anche l’ate0 avrebbe dovuto inchinarsi. È il famosissimo argomento, detto anche argomento anselmiano e, dopo Kant, argoRiesaminando il Monologìon
e
mento ontologico.
integralmente il testo di questa celebre argomentazione: «Noi tutti siamo persuasi che Tu sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande (aliquid quo nihil maius cogitari nequit). O forse non vi è una tale natura perché ”disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste”? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò
Ecco
che dico, cioè ”qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande” comprende ciò che ode, e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche Tinsipiente dunque deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande
può essere solo nell’intelletto. Se infatti esiste solo nell’intelletto, può pensare esistente anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubnon
lo si
bio, sia nellintelletto sia nella realtà.
Tutto ciò ‘e talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si può pensare che non esista; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma questo è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente» (cc. 2-3).
306
Parte seconda
La validità di questo argomento venne immediatamente contestata monaco Gaunilone. Da allora la polemica intorno alla prova anselmiana non ha più conosciuto interruzione. Nella formulazione originaria di Anselmo oppure nelle nuove formulazioni di Cartesio, Spinoza e Leibniz, molti filosofi l'hanno giudicata valida. Mentre contro di essa si sono pronunciati Tommaso d'Aquino e Kant. L'obiezione fondamentale rimane sempre quella sollevata da Gaunilone: o «id quo maius cogitari nequit» è una pura definizione nominale, e allora non si può trarre nessuna conclusione circa l'esistenza del definito, oppure è una definizione reale, e allora l'esistenza di Dio è già inclusa nella definizione stessa. Infatti se l'id quo maius cogitari HCQHÌÌ si pensa subito come un oggetto reale, allora non c'è nessun passaggio, nessuna argomentazione dell'idea dalla realtà perché la realtà dell'id quo maius cogitari nequit è colta subito, ne|l'idea stessa. E allora non ci sarebbe nessuna discussione sull'esistenza di Dio. Gaunilonepensa che l'oggettività di un'idea, anche la pura possibilità, non si può giustificare se non indicando la realtà da cui si è tratta quella idea, e che ci manca quella esperienza della realtà di Dio che, sola, potrebbe giustificare l'oggettività dell'idea di Lui: Neque enim aut rem ipsam (quae Deus est) novi aut ex alia possum conicere simili (Infatti non conosco né la cosa stessa (che è Dio) né posso concepirla da un'altra simile). Posso avere l'idea di un uomo che non ho mai visto, perché lo penso come uomo ed ho visto altri uomini; ma non posso avere l'idea di Dio prima di sapere che Dio esiste. E proprio perché non ho l'idea di Dio, posso anche pensarlo non esistente; se, inizialmente, avessi un vero concetto di Dio, vedrei, come Vuole S. Anselmo, che Dio non può non esistere: ma non ho inizialmente un tale concetto di Dio. Nella sua "Risposta" Anselmo esamina accuratamente le osservazioni di Gaunilone, ma ribadisce la sua tesi secondo cui se la definizione «id quo maius cogitari ncquit» è intesa correttamente essa non si riferisce soltanto a una esistenza concettuale ma anche a una esistenza reale. E conclude riaffermando il valore dellmnum argumentunz:
dal
«Ritengo di aver mostrato che, nel precedente opuscolo, ho provato, udargomentazione non debole, ma sufficientemente necessaria che ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste nella stessa realtà, e che Pargomentazionenon è indebolita da alcuna salda obiezione. Il significato di questo enunciato infatti contiene in sé tanta forza che, per il fatto stesso che ciò che viene detto si comprende o si pensa, e con
necessariamente si prova che
esso
esiste nella realtà
vera e
che
esso
stesso è tutto ciò che della divina sostanza si deve credere. Della divina sostanza infatti noi crediamo tutto ciò che si può pensare in modo
assoluto che l'essere è
meglio del
non essere.
Per
esempio è meglio
Scoto E riugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
307
eterno che non eterno, buono piuttosto che non buono, anzi è meglio essere la bontà stessa che non esserlo. Ma nulla di tutto questo può non essere ciò di cui non si può pensare qualcosa di maggiore. E dunque necessario che tutto ciò che si deve credere della divina essenza sia ”qu0 maius cogifari non p0test"». essere
grande novità dellfizrggonzento anselmiano non sta nell’enunciato di partenza: id quo maius c0gitarz' nequit. Questa espressione in forme molto simili, se non proprio identiche, si trova già in Agostino e in Boezio, e queste sono formule che Anselmo non poteva certo ignorare. Agostino dice che il pensiero, quando Cerca di cogliere la natura divina, pensa «qualcosa di cui non Vi sia nulla di migliore e di più sublime (aliquid, quo nihil sit melius atque sublimius)».3l Altrove lo stesso Agostino dice che se vogliamo pensare o credere a Dio in modo non empio, dobbiamo comprendere o credere che Dio è «il sommo bene, di cui non si può dare né pensare nulla di meglio (summum bonum omnino, et quo esse aut cogitari melius nihil p0ssit)».32 Anche Boezio afferma che Dio è «ciò di cui nulla è migliore» (id quo HZEHHS nihil est) e che «non si può pensare nulla migliore di Dio (nihil deo melius excotgitari queat)».33 La importante novità dellfimutn argumentitm consiste invece nell'assumere l’enunciato id quo maius cogitari nequit come base di una dimostrazione dell'esistenza di Dio e nel far leva esclusivamente sul significaLa
to di tale enunciato: nel mostrare che tale enunciato è vero soltanto se chi è così definito, Dio, è realmente esistente. Questo è esattamente il punto chiave di tutto Pargomentare anselmiano, come si legge anche nella replica conclusiva a Caunilone: «Il significato di questo enunciato contiene in sé tanta forza che, per il fatto stesso che ciò che viene detto si comprende o si pensa, necessariamente si prova che esso esiste nella realtà vera e che esso stesso è tutto ciò che della divina sostanza si deve
credere». Perciò più che nell'argomentare in quanto tale il peso dell'argomentazione risiede nel capire il significato dell’enunciato iniziale. E in effetti ciò che Anselmo fa nella sua dimostrazione è soltanto questo: mostrare che quell’enunciato non si può riferire soltanto a una esistenza mentale ma reale. Chi capisce veramente il senso dell'z'd quo maius cogitari nequit non può più sostenere che Dio non esiste. Chi capisce che il non poter essere
pensato non esistente è ontologicamente superiore (maius est) al
31) AGOSTINO, De ductrina christiana 1, 7. 32) ID., De moribus Manicheorunz 2, 11, 14. 33) BOEZIO, De consulaiìone philosoplziae3, pr. lO.
308
Parte seconda
poter
essere
pensato
non
esistente, deve per forza riconoscere che Dio
esiste. Pertanto l'argomento anselmiano non è una deduzione dell'esistenza di Dio dalla definizione della sua essenza, bensì una riflessione sul significato dell’enunciato: Dio è colui di cui non si può pensare il
maggiore.
NATURA E
ATTRIBUTID]
D10
Dopo avere dimostrato che Dio esiste, nel Monologion e nel Proslogion, Anselmo passa a trattare anche della natura e degli attributi di Dio. In questi scritti il suo procedimento è tipicamente neoplatonico. I neoplatonici, come sappiamo, costruivano tutto il loro edificio metafisico su una prima verità, 1'Uno. L’Un0 è il loro postulato di base da cui tutto il resto viene logicamente e rigorosamente dedotto. Dell’esistenza del-
1'Uno non si danno prove ma soltanto conferme. Così Anselmo pone Dio nella sua assoluta autoevidenza: un’aut0evidenza che può essere confermata anche dalla ragione esaminando l'id quo maius cogitari nequit. Riconosciuto Dio nella sua assoluta autoevidenza come ciò di cui non si può pensare nulla di più grande Anselmo, come i neoplatonici,procede alla deduzione di tutto il resto della sua costruzione metafisica, intorno a Dio, alla Trinità e all'anima umana. Per stabilire quali sono gli attributi che si devono riconoscere alla natura divina, sia nel Monologion sia nel Proslogion, Anselmo ricorre al criterio che dice: quidquid est melius esse quam non esse (qualsiasi cosa è meglio che sia piuttosto che non sia). Dopo avere eliminato gli attributi relativi che non appartengono necessariamente alla natura divina, Anselmo trae la seguente conclusione: -
-
«Siccome è empio pensare che la sostanza della natura suprema sia qualcosa la cui negazione sia in qualche modo migliore, così ò necessario che le si attribuiscano tutti quei predicatì la cui affermazione è del tutto migliore della negazione. Essa è la sola infatti, di cui assolutamente nulla è migliore, ed è migliore di tutte le cose che non sono ciò che essa è. Non è dunque un corpo, o qualcosa che i sensi corporei percepiscono, perché di tutti questi vi è qualcosa di migliore, che essi non sono. Infatti, la mente razionale, della quale con nessun senso corporeo si percepisce l'essenza, la qualità e la grandezza, quanto minore sarebbe, se fosse una cosa che soggiace ai sensi corporei, tanto è maggiore di tutte le cose che vi soggiacciono. Bisogna tacere del tutto infatti che la somma essenza sia una di quelle cose cui è superiore ciò che esse non sono; invece si deve dire assolutamente, come insegna la ragione, che essa è tutte le cose rispetto alle quali è inferio-
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
ciò che
309
Perciò è necessario che sia vivente, sapiente, giusta, beata ed eterna e tutto ciò che, similmente è assolutamente migliore della propria negazione (quidquid absolute melius est quam non ipsurr1)».34 re
potente
e
esse non sono.
onnipotente,
Vera,
Fissato così il criterio generale, in entrambi i trattati Anselmo passa in rassegna alcuni attributi, mostrando di volta in volta che è meglio l'incorporeità della corporeità, la vita della non vita, la bontà della non bontà, Yimmensità della limitatezza, l'unità della divisione ecc. Egli procede sempre per antitesi, in modo che il risultato sia ottenuto come superamento dell'iniziale opposizione. Così, in successione si dice che la natura divina è sensibile, benché non sia corporea; che è onnipotente, benché non possa fare molte cose, come per esempio mentire o contraddirsi; che è misericordiosa, benché non soggetta a passioni; che perdona, ma è giusta; che è 1a sola natura illimitata ed eterna, benché anche altre nature spirituali possano godere di queste proprietà. Passati in rassegna i principali attributi di Dio, Anselmo trae la conclusione che Dio è la pienezza
dell'essere:
«Tu solo dunque, o Signore, sei ciò che sei (es quod es) e tu solo sei colui che sei (tu es qui es). Infatti ciò che ‘e altro nel tutto e altro nelîe parti, e nel quale qualcosa è mutevole, non è completamente ciò che è. E ciò che è iniziato dal non essere e può essere pensato non esistente, e se un altro non lo sostiene ritorna nel non essere, che ha un passato non più esistente e un futuro che non è ancora, questo non esiste in senso proprio e assoluto. Tu invece sei ciò che sci, perché qualsiasi cosa tu sia in qualche momento o in qualche modo, lo sei tutto e sempre. E tu sei colui che sei propriamente e semplicemente, perché non hai un essere passato o futuro, ma un essere soltanto presente, né puoi essere pensato talvolta non esistente. E tu sei vita, luce, sapienza, beatitudine, eternità e molti altri beni di questo genere, e tuttavia non sei che un unico e sommo bene, tu che sei totalmente autosufficiente, di nulla bisognoso, di cui tutte le cose hanno bisogno per esistere e per esistere bene».35
LA TRASCENDENZA DIVINA Dimostrata l'esistenza di Dio e illustrata la sua sublime natura Anselmo ritorna sui propri passi per controllare ciò che è stato fatto e verificare i risultati conseguiti. E subito si avvede dell’abissale distanza che separa la realtà di Dio dai nostri concetti e dalle nostre parole:
34) Monol. c. 15. 35) Prosl. c. 22.
310
Parte seconda
Egli sfugge sia ai concetti della nostra mente sia alla capacità espressiva del nostro linguaggio. Dio rimane assolutamente inconoscibilee ineffabile. La certezza che Dio è sommamente sapiente, intelligente, potente, misericordioso, giusto, santo, che è immateriale, infinito, eterno ecc. non ci deve dare l'illusione che noi sappiamo tutto di Dio. Tutt’altro: noi sappiamo pochissimo, quasi nulla. Sappiamo che Dio è maggiore di quanto si possa pensare: es quiddam maius quam cogitari possit. Sulla inconoscibilità di Dio Anselmo non è meno categorico di Plotino, Agostino e Dionigi l'Areopagita. Leggiamo insieme alcuni brani del Proslogion che sono tra i più belli che siano mai stati scritti sullînconoscibilitàdell'essenza di Dio: «La mia anima si pretende per vedere di più, ma oltre ciò che ha visto Vede nient'altro se non tenebre; anzi non vede tenebre, che in te non esistono, ma vede che non può Vedere di più a causa delle proprie tenebre. Perché questo, Signore, perché questo? L'occhio della mia anima è ottenebrato dalla sua debolezza o è abbagliato dal tuo splendore? Ma certamente è sia ottenebrato in sé, sia abbagliata da te. E certamente oscurato dalla sua limitatezza e sopraffatto dalla tua immensità. Veramente si contrae nella sua angustia e viene Vinto dalla tua grandezza. Quanto grande, infatti, è quella luce per la quale brilla ogni Verità che risplende alla mente razionale! Quanto ampia è quella verità nella quale si trova tutto ciò che ‘e vero e fuori della quale non vi è che il nulla e il falso! Quanto è srnisurata, essa che, in un solo sguardo, Vede tutto ciò che è stato creato e da chi, per chi e in quale modo è stato creato dal nulla! Che purezza, che semplicità, che certezza e splendore vi sono qui! Certamente, più di quanto possa venire compreso da non
una
creatura.
Dunque, Signore, non solo sei ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma sei anche qualcosa di maggiore di quanto si possa pensare. Poiché, infatti, si può pensare che vi sia qualcosa di questo genere, se tu non sei questa realtà stessa ‘e possibile pensare qualcosa maggiore di te. Ma questo non è possibile. Veramente questa, o Signore, è la luce inaccessibilenella quale tu
abiti. Veramente infatti non vi è realtà che possa penetrare questa luce per vederti pienamente in essa. Per questo veramente io non la vedo, perché ‘e troppo forte per me; e tuttavia tutto ciò che Vedo, io lo vedo per quella luce, come il debole occhio vede ciò che vede per quella luce del sole, che non può guardare nel sole stesso (...). O luce somma ed inaccessibile,o verità totale e beata, quanto sei lontana da me che ti sono così vicino! Quanto sei remota dal mio sguardo, mentre io sono così presente al tuo. Tu sei dovunque tutta presente, ma io non ti vedo. ln te mi muovo e in te sono, ma non posso accedere a te. Tu sei dentro di me e intorno a me, ma io non ti sento. Ancora ti nascondi alla mia anima, o Signore, nella tua luce e nella tua beatitudine, mentre essa versa ancora nelle sue tenebre e nella sua miseria. Infatti si guarda intorno e non Vede la tua bellezza. Si mette
Scoto Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
311
in ascolto e non ode la tua armonia. Annusa e non percepisce il tuo profumo. Gusta e non riconosce il tuo sapore. Tocca e non sente la tua soavità. Tu infatti hai tutte queste qualità in te, o Signore, ma in un tuo modo ineffabile (tuo inefizbilimodo), tu che le hai date alle cose create secondo il loro modo sensibile (sensibilimodo); ma i sensi della mia anima si sono irrigiditi, sono diventati insensibili,sono stati ostruiti dall'antica malattia del peccato».3b
Dal testo citato risulta che le ragioni che Anselmo fornisce della inconoscibilità della natura divina sono tre, e sono praticamente le stesse ragioni già indicate dal padre della filosofia religiosa, Filone Alessandrino: 1) l'immensa, infinita grandezza di Dio e 10 splendore abbagliante della sua luce; 2) la limitatezza, Yangustia del nostro essere e la debolezza dello sguardo della nostra intelligenza; 3) l'allontanamento da Dio e dalla sua luce causato dal peccato. Molto importante è la distinzione, che in seguito verrà ripresa e precisata da S. Tommaso, tra le perfezioni che attribuiamo a Dio e il loro modo di essere. Le perfezioni semplici (che è assolutamente meglio possedere che non possedere) appartengono certamente a Dio, ma gli appartengono secondo una modalità inefiabile, dato che l'unica modalità che noi conosciamo è quella finita che ha luogo nelle cose sensibili. Nella spiegazione del significato dei nomi divini Anselmo si ispira direttamente allo Pseudo Dionigi. Con l'Areopagita egli distingue una teologia positiva e una negativa. La teologia positiva autorizzal'applicazione a Dio di nomi che designano perfezioni semplici perché queste esistono primariamente e principalmente in Dio. Ma poiché la natura divina risulta inaccessibilealla nostra intelligenza, alla teologia positiva è necessario affiancare immediatamente quella negativa la quale pone l’accett0 sulla inesprimibilitàdella divina essenza. Ecco quanto Anselmo scrive nel Monologion a questo riguardo: 4
«La
somma essenza
è talmente al di sopra
e
al di fuori di
ogni
altra
(supra et extra omncm aliam naturam) che quando si dice di essa qualcosa con parole che sono comuni ad altre nature, il loro senso
natura
è affatto comune (sensus nullatenus communfs) (...). Infatti, tutti quei nomi che si possono dire di quella natura non me la mostrano tanto per ciò che le è proprio, quanto Yaccennano mediante qualche similitudine. ln realtà quando penso i significati di queste parole con la mente concepisce ciò che vedo nelle cose create più facilmente di quanto so che trascende ogni umano intelletto. Nella mia mente infatti quei nomi costituiscono, con il loro significato, qualcosa di molto meno, anzi di ben altro da CÌÒ Verso la cui Comprensione la mia stessa non
35)
Prosl. cc. 14-17.
Parte seconda
3] 2
sforza, mediante questo tenue significato di progredire. Né il di "sapienza” infatti, mi è sufficiente a mostrare ciò per cui tutte le cose sono state create dal nulla e dal nulla conservate, né il nome di "essenza” mi è valido per esprimere ciò che, per la sua singolare altezza, è molto al di sopra di tutte le cose e, per la sua naturale proprietà, è ben al di fuori di tutte le cose. Così dunque, la somma mente si nome
assolutamente venire designata parole (inefiabilis est, quìa per zmrlm sicutz" est nullaìenus zialet intimari); ma non è falso ciò che di essa, con Yinsegnamento della ragione, può essere apprezzato mediante altro, come in enigma»? natura è
ineffabile, perché
mediante le
non
può
Né la teologia positiva né la negativa colgono il senso autentico dei nomi divini. Ciò invece è conseguito soltanto dalla teologia simbolica che interpreta i nomi divini come cifre, simboli, enigmi e non come nomi che descrivono la divina essenza. I nomi divini infatti non intendono descrivere la natura di Dio, ma semplicemente tentano di alludere a una realtà, quella divina, assolutamente inesprimibile. Che questa sia la giusta interpretazione del senso dei nomi che noi diamo a Dio Anselmo lo conferma passando in rassegna le dieci categorie. Quando si usano le categorie aristoteliche per attribuirle a Dio, il senso di ciò che viene predicato cambia radicalmente, rispetto alla normale predicazione che ha per soggetto l'ente finito. Infatti la sostanza divina, essendo immutabile,non e soggetta al cambiamento accidentale. Inoltre a differenza di tutte le altre sostanze, essa coincide con i suoi attributi: dire, per esempio, che Dio è giusto significa dire che Dio è la giustizia. Sarebbe quindi più corretto dire che la divina essenza ‘e fuori o
sopra ogni sostanzaflî‘ Tuttavia, soggiunge Anselmo, «poiché essa non soltanto esiste certissimamente, ma esiste anche come superiore a tutte le cose, e dato che l’essenza di una cosa qualsiasi ‘e detta solitamente sostanza, certamente non è proibito chiamarla sostanza, se qualcosa di degno può essere detto».3° LA
CREAZIONE
Nel Monologion dopo aver dimostrato l'esistenza di Dio Anselmo dedica alcuni importanti capitoli al problema della creazione. La sua indagine verte soprattutto sul significato del termine nulla che in epoca carolingia era stato oggetto di notevoli discussioni e di numerose analisi, delle quali assai interessante è la testimonianza scritta rappresentata
37)
Monol. c. 65.
39)
Ibid. C. 27.
33) Cf. ibid, c. 26.
Scoto
Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
313
dal noto opuscolo De nihilo et tenebrîs di Fredegiso di Tours, nel quale si pone la tesi per cui il nulla viene sostanzializzato. Anselmo osserva che la sostanzializzazione del nulla è assurda P erché in tal caso il nulla non sarebbe più nulla ma qualche cosa. Creare dal nulla, spiega molto bene Anselmo, significa che «le Cose prima erano nulla, e ora sono qualche cosa (quae prius nihil enmt, nunc sunt aliquid)».4" La divina essenza, non ha fatto assolutamente nulla in virtù di altro, inteso sia come strumento sia come aiuto, ma tutto in virtù di se stessa. Pertanto, «la somma essenza ha prodotto da sola, per se stessa e dal nulla, una massa tanto grande di cose, una tanto numerosa moltitudine Così bellamente formata, così ordinatamente variata, così convenientemente diversa».41 Per essere create le cose dovevano, ovviamente, essere pensate. Pertanto tutte le cose, prima della creazione, si trovano già nella mente divina: «Nella ragione della somma natura (in ratione summae naturale) vi erano l'essenza, la qualità, la modalità delle cose, che poi sarebbero state».42 Parlando dellînconoscibilitàe dell'ineffabilitàdi Dio abbiamo visto che Anselmo fonda tali divini attributi sulla trascendenza di Dio, che è essenzialmente una trascendenza ontologica. Nel discorso sulla creazione per esprimere l'infinita differenza qualitativa che separa Dio dalla creature si avvale delle formule: «essere per sé>> (Dio) e «essere per altro» (creatura). Che Dio non possa essere per aliud Anselmo lo dimostra facendo vedere che delle modalità dell'essere per aliud agente, materia, strumento nessuna è applicabilealla natura divina. Infatti «ciò che è secondo uno di questi tre modi è posteriore e in qualche modo minore di ciò per cui ha l'essere. E la somma natura in nessun modo è per altro, ne’ è posteriore o minore a se stessa o a qualche altra cosa. Quindi la somma natura non ha potuto essere fatta né da sé né da altro; né essa stessa o qualcosa d'altro le hanno fatto da materia, da cui provenire, e neppure essa o altra cosa, in qualche modo, l'hanno aiutata ad essere ciò che non era».43 Ma in che cosa consiste precisamente la perseità della natura divina? Essa riguarda essenzialmente l'essere. Dio è un ente, un essere, una essenza (questo termine in Anselmo non indica la "quiddità" di una cosa ma il suo esistere). Tutte e tre queste espressioni ”0nt01ogiche" possono essere usate per designare la perseità di Dio. Per spiegare come questo sia possibile Anselmo ricorre all'immagine della luce: luce, splendere, —
-
40) Ibid., c. s. 41) IbicL, c. 7. 42) Ibid, c. 9. 43) Ibid., c. 6.
314
Parte seconda
(lux, lucere, lucens) dicono la stessa realtà, luce nella modalità del sostantivo, splendere nella modalità dell'azione indeterminata, lucente
lucente
nella modalità dell'azione in atto. Ecco il bel testo anselmiano: «In qual
modo, allora, è da intendere il suo essere da sé e per sé, se né ha fatto se stessa, né è venuta fuori da sé quale materia, ne’ ha in alcun modo aiuta-
se stessa, ad essere ciò che non era? Forse è da intendere in quel modo in cui si dice che la luce splende o è lucente per se stessa e da se stessa. Allo stesso modo infatti, in cui si rapportano reciprocamente la luce, lo splendere e ciò che splende, così reciprocamente stanno tra loro l'essenza, l'essere e l'ente (essentia et esse et erzs), cioè l'esistente o sussistente. Quindi la somma essenza, il sommamente essere e il sommamente ente (summa essentia et summe esse et summe e715), cioè il sommamente esistente e sommamente sussistente, converranno tra loro non dissimilmente da come convengono tra loro la luce, lo splendore e ciò che splende».44 Facendo consistere la perseità della natura divina nell'essere Anselm0 compie un importante passo avanti verso la metafisica dell'essere. Diversamente dallo Pseudo-Dionigi e dai neoplatonici che facevano consistere la perseità del primo principio nell'Unità oppure nella Bontà e derivano l'essere dall’Uno o dal Bene, Anselmo identifica la perseità con l'essere. Dio è primo anzitutto e soprattutto in ordine all'essere: egli è l'unica realtà che è essere e sostanza per essenza. Ogni altra realtà è distinta da Dio perché riceve l'essere da lui grazie a quell’atto singolarissimo che è la creano ex rzihilo.
to
LA TRINITÀ
Nel Monologion Anselmo riserva un'ampia trattazione al mistero della Trinità (cc. 37-63). E la cosa non può non sorprendere, sapendo, da una parte, che il Monologion vuole esaminare tutti i temi relativi a Dio con un procedimento rigorosamente razionale e, dall'altra, che se c'è un mistero assolutamente inaccessibilea qualsiasi spiegazione razionale, questo è il mistero della Trinità. L'inclusione della Trinità in un trattato di teologia filosofica si spiega mediante la tessitura tipicamente neoplatonica che Anselmo dà alla sua trattazione. Ora, tutti ben ricordiamo che i neoplatonici Plotino, Porfirio e Proclo parlano di tre ipostasi eterne del primo principio: l'Uno, Ylntelligenza e l'Anima, e che già Mario Vittorino aveva trovato questo linguaggio conveniente per parlare della Trinità cristiana.
44)
lbid.
Scoto
Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
315
Nella riflessione sulla Trinità Anselmo fa sua la formula canonizzata dai Concili ecumenicì: Dio è una sola sostanza (essenza, natura) in tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; e segue Agostino nella traduzione delle tre persone divine in termini psicologici, identificando il Padre con la memoria, il Figlio con l'intelligenza e lo Spirito Santo con la
volontà. Anselmo ritiene che il termine spirito (spiritus) oltre che comune a tutte le persone, sia anche proprio della Terza Persona, perché la sua processione ha luogo non per generazione bensì per spirazione. Il Padre e il Figlio non fanno né generano, ma in certo modo Spirano, e oggetto della spirazione è il loro reciproco amore. «L'Amore è stimato Spirito di entrambi, perché procede mirabilmente dall'uno e dall'altro, spiranti secondo un loro ineffabilemodo. Essendo anche la comunione del Padre e del Figlio, non senza ragione sembra poter assumere, come proprio, un nome che è comune al Padre e al Figlio, se lo esige la mancanza di un nome proprio. Se questo avviene, che cioè l'Amore sia designato col termine ”Spirito", che significa ugualmente la sostanza del Padre e del Figlio, come nome proprio, a ciò varrà non poco sottolineare che l'Amore è identico al Padre e al Figlio, benché abbia da loro il suo esserewì In questa lettura del mistero trinitario in chiave agapica Anselmo trova una valido argomento a sostegno del Filioque. Infatti la spirazione è azione comune del Padre e del Figlio, e non solamente del Padre attraverso il Figlio: è dal loro reciproco amore che procede lo Spirito. Nella spiegazione anselmiana del mistero trinitario Panalogia psicologica si intreccia con l’analogia agapica. Nella Trinità tutto procede dall'amore, e l'amore non precede ma accompagna la conoscenza. L’Anz0r, che è una cosa sola con la sostanza divina, appartiene a titolo diverso a tutt'e tre le persone divine: appartiene al Padre che ama il Figlio, appartiene al Figlio che ama il Padre, e appartiene allo Spirito Santo che è il frutto del loro reciproco amore. Nella Trinità c'è una sostanza agapica e una effusione agapica che è perfettamente eguale in ogni singola persona. Questo concetto viene così sintetizzato nel breve capitolo del Proslogion che Anselmo dedica alla Trinità: «Questo stesso bene (la Trinità) è l'amore unico e comune a te e al Figlio tuo, cioè lo Spirito Santo che procede da entrambi. Tale amore, infatti, non è ineguale a te o al tuo Figlio, perché tanto tu ami te stesso e lui, ed egli ama te e se stesso, quanto tu sei ed egli è; né è altro da te e da lui, ciò che non è ineguale a te e a lui; né dalla somma semplicità può procedere altro, se non lo stesso essere da cui procede. D'altra parte, ciò che ciascuno è singolarmente lo
45) 111211., c. 5.
316
Parte seconda
è tutta la Trinità insieme: Padre, Figlio e Spirito Santo, poiché ciascuno singolarmente non è altro che l'unità sommamente semplice e la semplicità sommamente una, la quale non può essere moltiplicata né essere due cose diVerse».46 L'ANIMA
Come tutti i metafisici anche Anselmo presta grande attenzione al problema dell'anima. Egli se ne occupa nei capitoli conclusivi del Monologion e del Proslogion. Anzitutto egli esalta la grandezza dell'anima: essa con le sue facoltà: memoria, intelletto e amore è «una vera immagine di quella essenza che, per la memoria, l'intelligenza e l'amore di sé, consiste in una ineffabile Trinità».47 Inoltre «la mente razionale (mens rationalis) è la sola tra tutte le creature, capace di elevarsi alla ricerca della somma essenza, così è anche la sola per la quale essa stessa possa progredire massimamente verso la sua scopertam“ Passando poi a caratterizzare la natura dell'anima, seguendo il ”secondo” Agostino, Anselmo privilegia la dimensione volontaristica ed agapica rispetto a quella conoscitiva. Come nella Trinità così nell'anima volontà e amore sono più importanti della conoscenza. La conoscenza è necessaria, ma contano di più la volontà e l'amore. «Nulla è più chiaro del fatto che la creatura razionale è stata fatta per amare la somma essenza al di sopra di tutti i beni, in quanto essa è il sommo bene; anzi, per non amare nulla se non la somma essenza o per la somma essenza, perché essa è buona per sé e nient'altro è buono se non per essa. Ma non può amarla senza ricordarsi di lei e se non è impegnata ad intenderla. È chiaro dunque che la creatura razionale deve impegnare tutto il suo potere e volere a rammentare, intendere ed amare il sommo bene, verso il quale sa di avere orientato il suo essere stesso» ,49 Anche il problema metafisico più importante dell'anima, quello della sua immortalità, viene risolto da Anselmo in chiave volontaristica. Mentre Platone aveva costruito le sue prove dell'immortalità dell'anima sui rapporti dell'anima con le Idee (remìniscenza, familiarità) e Agostino aveva elaborato la sua argomentazione studiando i rapporti tra l'anima e la verità, Anselmo fonda i suoi argomenti sulle concezioni di amore e di retribuzione.
46) Prosl. c. 23. 47) Monol. c. 67. 43) Îbid, C. 66. 49) lbid, C. 68.
Scoto Eriugena, Anselmo d Qîlosta, Gilberto Porrettano
Argomento dell'amore:
317
«L'anima è stata fatta per
amare senza fine la lo fare Vive se non può questo sempre. È dunque fatta per Vivere sempre, se vuole fare sempre ciò per cui è stata fatta».50 Argomento della retribuzione: essendo giustissima e potentissima la somma natura deve ricompensare o punire chi persevera o non persevera nell'amore, altrimenti non dìstinguerebbe tra chi ama e chi non ama, il che sarebbe assurdo. Ma deve premiare 0 punire, con la felicità o l'infelicità, per l'eternità; altrimenti se punisse il colpevole facendolo ritornare al nulla, non distinguerebbe tra la dimensione del non essere, in cui non si può dare né colpa né pena, e quella dell'essere, nella quale il colpevole ha compiuto il massimo male, potendo fare il massimo bene. «Nulla dunque può essere più conseguente e nulla si deve credere con maggiore certezza del fatto che l'anima dell'uomo sia fatta in modo che, se disprezza di amare la somma essenza, soffrirà un’eterna infelicità. Allora, come l'anima che ama godrà un premio eterno, così quella che disprezza si addolorerà in una pena eterna. E come quella sentirà una immutabilepienezza, così questa sentirà una inconsolabìle indigenza».51 Il deve di cui parla Anselmo trattando della retribuzione non va inteso come un obbligo, bensì come una necessità conseguente all'essere stesso della somma natura. È soltanto nell'agire morale della creatura razionale che esso diventa invece un'obbligazione. Anche se rimane immutato il senso di fondo: il dovere si esprime, per sé, come conformità all'essere. Per questo, anche qui, ritorna il tema della incomprensibilità: stabilire chi meriti o non meriti l'eterna felicità, infatti, per la ragione è «difficilissimo 0 impossibile>>fi2La ragione capisce solo che deve tendere con tutto il proprio essere verso il Sommo Bene.
somma essenza.
Ma
non
VERITÀ E SISTEMA
Dopo il Monologion e il Prosloglon, Anselmo scrisse altre opere per ampliare la ricerca delle rationes necessariae della verità, sempre in difesa di un sapere che sia fondato sulla ricostruzione dell'ordine imposto al creato dalla suprema ed inconoscibile razionalità divina e che garantisca, ad immagine della perfezione di essa, l'armonia che deve regnare tra l'ordine delle cose, quello dei pensieri e quello delle parole.
Di questa sua concezione della verità, intesa come rectitudo, Anselmo ci ha lasciato una breve ma densa trattazione nel suo opuscolo intitolato De veritate. Qui, in modo diretto ed esplicito, Anselmo afferma l'assoluta
50) Ibia, c. 69. 51) Ibid, c. 21. 52) Ibid, c. 74.
318
Parte seconda
unità del vero: la verità divina in sé,
quella rivelata nella Scrittura e quella
nel Verbo divino una sola e unica realtà. Tutte le verità particolari delle cose, delle parole, dei concetti, possono essere riconosciute come verità in quanto trovano la loro rectitudo nel corrispondere a qualcosa di eternamente prestabilito dalla Mente divina e nella Mente divina. Quando nel pensiero umano emerge con Chiarezza ineludibileuna di tali corrispondenze, si ha quella che Anselmo chiama una ratio necessaria. Come spiega A. M. Iacquin in un suo pregevole studio, ratio necessaria non significa argomento rigorosamente dimostrativo, ma argomento fondato sulla verità e capace di generare certezza; e quando si dice che tale argomento prescinde dalla Scrittura si vuol dire solo che la Scrittura non entra nellargomentazione come prova d'autorità, ma non si esclude che essa offra la materia sulla quale la ragione lavora e che essa guidi 1o spirito nella ricerca.“ La necessità della ratio sta nel suo fondamento che è la mente divina. La ratio necessaria è un apparire nellîntelligenza creata della causa (ossia della ratio) superiore dell'essere di ciascuna cosa, ed è necessaria in quanto divina. Nel riconoscimento di tali rationes necessariae si risolve dunque per Anselmo ogni indagine del vero, senza distinzione possibile tra verità teologica e filosofica. La stessa ricerca della verità sull’esistenza di Dio e sulla determinazione dei suoi attributi, nelle sue prime due opere, ‘e in sostanza una ricerca delle ragioni necessarie del divino stesso, un tentativo di far corrispondere il nostro pensiero su Dio a ciò che Dio è nel suo Pensiero e nella Rivelazione in cui si manifesta. Ma dall'unità del vero risulta che solo a causa dei limiti dell’intelligenza umana ci ‘e necessario procedere per successive diversificazioni dei problemi, e che solamente dopo aver provato l'esistenza di Dio, è possibile interrogarci sulla sua natura e sui suoi attributi, sulla creazione e sull'uomo, sulla caduta e sul perdono del peccato, sulllncarnazionee sulla Redenzione. In Dio, invece, una sola è la verità delle molteplici rationes che l'uomo può indagare soltanto con ricerche successive e distinte.
scoperta dall'indagine
umana sono
«D’altra parte osserva giustamente D'Onofrio questa stessa certezdell'unità del vero è garantita dall’intrinseco collegamento che deve essere stabilito tra tutte le verità raggiunte dall'intelligenza e dichiarate dalla fede. Per questo la sapienza teologica anselmiana assume indubbiamenteil carattere di una conoscenza sistematica del vero: dove ogni problema ed ogni soluzione sono un riflesso dell'unica verità, nella quale tutto ciò che è vero è eternamente e necessariamente vero. Questo carattere di sistematicità risulta evidente quando -
—
za
53)
Cf. A. M. IACQUIN, Les "rationes nccessariae” de S. Anselme, in Mandonnet” Il, Paris 1930, pp. 67-78.
"Mélanges
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
319
le opere di Anselmo Vengono considerate nella loro successione, non solo cronologica ma anche tematica, le une accanto alle altre. La contiguità dei problemi. affrontati e di volta in volta chiariti con soluzioni rigorosamente armoniche e sorprendentemente vicine è rivelatrìce insieme dell’ampiezza analitica e della sistematicità di questo grandioso sforzo l'ultimo da parte del platonismo teologico dell'Alto Medioevo di dare forma a una compiuta visione enciclopedica della verità cristiana, ordinata ed armonica in tutte le sue parti, vero riflesso nellfintelligenza creata dell'unità del Pensiero divino» ,54 —
-
MALE
E
LIBERTÀ
Il problema del male è
problema ineludibileda parte di qualsiasi teologia filosofica e di ogni metafisica creazionistica. Come sappiamo, questo difficilissimo problema aveva angustiato per molti anni la mente di Agostino, prima della conversione. Egli trovò finalmente una soluzione soddisfacente definendo il male come privatio boni e attribuendo ogni responsabilitàdel male al cattivo uso della libertà da parte delle creature intelligenti, angeli e uomini. Anche su questo problema Anselmo fa sue le grandi lezioni del Dottore di Ippona, dedicando all'analisi dello stesso argomento vari trattati, in particolare il De casa diaboli, De libero arbitrio e De concordia praescieiztiae et praedestinationis. Anselmo esclude categoricamente che Dio possa essere la causa del male. Egli non è mai responsabile in senso positivo del male al contrario di quanto si potrerebbe ricavare da talune espressioni bibliche, come quando è scritto che «Dio induce alla tentazione» o che «indurì il cuore
del Faraone». La verità di tali affermazioni va risolta invertendone la portata semantica, alla luce della dottrina agostiniana dell'ordine universale: Dio è causa del bene e dell'armonia vigente nell'universo; ciò che noi chiamiamo male, come la caduta del diavolo o il peccato di Adamo, si produce quando le creature scelgono di non mantenere lo stato di naturale perfezione in cui rispettivamente sono state create. Dio è causa del male soltanto in quanto fa sì che abbiano realtà le conseguenze del
peccato.55
54)
55)
G. D'ONOFRIO, "Anselmo tYAosta", in Storia della p. 523. Cf. De casa diaboli, c. 16.
teologia nel Medioevo, I,
320
Parte seconda
Considerato in se stesso il male consiste nella non-rectitudo di qualche cosa: il suo essere in modo diverso da come Dio vuole che sia. Male è allora qualcosa che non è nel modo in cui avrebbe dovuto essere, e di cui dunque non solo Dio non è responsabile, ma che ”è” proprio nella misura in cui sussiste come qualcosa di contrario alla Volontà divina. Il problema del male viene
quindi a collegarsi direttamente con quello
della libertà e del peccato. Il male per Anselmo, come per Agostino, con— siste essenzialmente nel peccato, il quale a sua volta deriva dalla libertà della creatura di scegliere di non adeguarsi alla positiva volontà ordinatrice di Dio. Per quanto attiene la libertà Anselmo esclude che la si possa definire come capacita di scegliere tra il bene e il male. Questa definizione a suo giudizio è errata perché non definisce la libertà in se stessa ma in una determinata condizione storica, cioè quella dell'uomo dopo il peccato. La definizione corretta è potestas servandi justitiam, ossia la capacità di agire rettamente e di operare il bene. Questa capacità è perfetta in Dio, e imperfetta nelle creature (gli angeli e l'uomo). La tesi di Anselmo è che la volontà è per sua natura orientata al bene: ha come ogni cosa una sua rectitudo, un suo orientamento; ora, tutto ciò che può distogliere, piegare in senso contrario (flectere) quell'orientamento, distorcere quello che e il retto cammino della volontà, è perciò stesso una debolezza, una minore libertà. E il peccato è proprio questa deviazione dalla rettitudine; quindi una volontà che può peccare è meno forte, e perciò meno libera, di una volontà che può non peccare. Pertanto il potere di peccare non è un vero potere, una forza, quindi non è un elemento costitutivo della libertà: « Perciò il potere di peccare, che aggiunto alla Volontà ne diminuisce la libertà e se tolto la aumenta, non è né la libertà, né una parte di essa (potestas ergo peccandi, quae addita voluntati minuit eius libertatem et si denzatur auget, nec libertas est nec pars libertatisbfifi Ne risulta dunque che la libertà è non già il potere di fare il bene o il male, ma il potere di fare il bene, e poiché il bene morale consiste nell’agire con rettitudine, la libertà è definita: «la capacità di conservare la rettitudine della volontà per se stessa (potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem)».57 Nel trattato De concordia praescicntiae et praedestinationis Anselmo affronta il tradizionaleproblema del come la libertà umana si concili con la prescienza, la predestinazione e la grazia divina. L'opera è divisa in tre trattati dedicati, appunto, il primo alla compatibilitàdi libertà e prescienza, il secondo a quella di libertà e Predestinazione, il terzo a quella
56) De lib. arb. c. 1. 57) Ibid, C. 3.
Scoto Eriugena, Artselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
321
grazia. «Sembra che la prescienza di Dio e il libero arbitrio si oppongano, poiché ciò che Dio preconosce necessariamente sarà, e ciò
di libertà e
che è compiuto per libero arbitrio non è compiuto necessariamentexfifi La soluzione della difficoltà è subito enunciata da S. Anselmo, il quale la spiega nel seguito della discussione. La soluzione è questa: se vi è un atto libero, esso è preconosciuto da Dio come libero, e quindi si avvera come libero: «Ma se qualcosa accadrà non necessariamente Dio che preconosce il futuro lo preconosce come tale. Ora, ciò che Dio preconosce accadrà necessariamente così come è preconosciuto. Dunque è necessario che qualcosa accada senza necessità (Sed si atiquid est futurum sine necessitate, hoc ipsum praescit Deus, qui praescit onznia futura. Quod autem praescit Deus, necessitate futurum est sicut praescitur. Necesse est igitur aliquid esse futurum stne necessitate)».59 La difficoltà nasce da due motivi: dall'immaginare la prescienza divina come precedente nel tempo l'atto umano e dal confondere la necessità logica con la necessità ontologica. I due motivi erano già stati individuati nella Consolatio (V, prosa 6) da Boezio, il quale aveva osservato che Dio, che è eterno, Vede ogni cosa da presente a presente, e che quindi non si può parlare di un prima della conoscenza divina, che condizionerebbe un dopo dell'atto umano, e aveva pure distinto due tipi di necessità. Anselmo sviluppa appunto le implicazioni di questa distinzione boeziana. Cosa vuol dire, si chiede Anselmo, che se Dio preconosce qualcosa, necessariamente questo sarà? Vuol dire: se sarà, necessariamente sarà. Ma si tratta di necessità ipotetica, di necessità che segue la realtà della cosa, non di una necessità che fa essere la cosa o che la costringe a essere. Per es., l'affermazione «domani ci sarà una sedizione» esprime una necessità logica se la sedizione ci sarà, necessariamente sarà mentre l'affermazione «domani sorgerà il sole» esprime una duplice necessità, quella logica e quella ontologicafio Così quando diciamo che ciò che Dio preconosce come futuro necessariamente sarà, non vogliamo dire che la cosa futura sarà necessariamente ma Vogliamo dire solo che ciò che è futuro è necessariamente futuro. La natura di ciò che sarà (il suo carattere di necessitato o libero) non è affatto espressa dalla proposizione «ciò che è futuro è necessariamente futuro». Tale natura dipende dalla volontà creatrice di Dio, il quale vuole che la volontà umana sia libera e che da lei dipendano le sue azioni. È dunque necessario (di necessità ipotetica) che la volontà sia libera. Certo, quando la volontà vuole, non può non volere, ossia è necessario che voglia, ma di quella necessità ipotetica di cui si è detto.“ -
-
58) De concordia 1, 1. s9) ma. 60) Cf. ibid., I, 3. 61) Cf. ibid.
322
Parte seconda
ragionamento Anselmo risolve anche il problema della predestinazione: il predestinare di Dio non fa violenza alla libertà umana, ma avviene tenendo conto di questa prerogativa essenziale dell'uomo: sicut praescit, ita quoque praedestinahbl Dio predestina le cose a essere Con lo stesso
necessarie se sono necessarie, libere se libere. Tutti questi ardui problemi del male, della libertà, della predestinazione sono risolti da Anselmo alla luce dellbnnipotenza di Dio, un’onnipo— tenza che si sottrae a qualsiasi criterio umano di giudizio, per subordi— narsì esclusivamente allîmperscrutabilediscernimento della sua infinita bontà. L’onnipotenza divina è sempre supremamente libera ma è sempre in accordo con la divina bontà, perché questa costituisce la sua essenza. Solo impropriamente si parla dunque in Dio di necessità o di impossibilità: «ogni necessità ed ogni impossibilitàsoggiace alla sua volontà, ma la sua volontà non è soggetta a nessuna necessità 0 impossibilità: nulla è dunque necessario o impossibile,se non ciò che Egli vuole che sia tale>>f>3 In queste ultime affermazioni c'è un forte tinta di volontarismo, ma è un volontarismo che non ha nulla a che vedere col volontarismo capriccioso che troveremo in seguito in Occam. Il volontarismo di Anselmo è un
001071 turismo agapico.
CONCLUSIONE L'edificio metafisico che costruisce Anselmo è chiaramente di stampo neoplatonico, anche se non rimane appesantito da quella lunga serie di triadi divine che caratterizzavano le speculazioni di Porfirio e di Proclo o di triadi angelicbe che si trovavano nel sistema filosofico di Dionigi l'Areopagita. Il pensiero di S. Anselmo si articola invece solamente secondo due momenti essenziali: il Dio Uno e Trino e l'anima umana. La metafisica anselmiana è neoplatonica nella sua duplice struttura del descensus e dell’ascensus, dell’exitus e del reditus; è neoplatonica nella sottolineatura dell’id quo ntaius Cogitarz’ nequit, della inconoscibilitàe ineffabilitàdi Dio, della sua assoluta trascendenza ontologica, della sua per-
seità; è neoplatonica e agostiniana nella impostazione interioristica della
ricerca filosofica e teologica. Come Plotino e come Agostino, anche Anselmo si avvale della dialettica della interiorità: scava nel profondo del proprio essere, della propria memoria e del proprio amore e vi trova Dio, anzi vi trova la Trinità che è a un tempo somma essenza, somma verità e sommo amore.
62) Cf. Îbid, 2, 3. 63) C ur Deus homo c. 17.
Scoto Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
323
Nel neoplatonismo di Anselmo ci sono, però, tutti i tratti specifici della metafisica cristiana. La sua infatti è una metafisica teocentrica, personalistica, creazionistica e agapica: e proprio lfizgapicità ne costituisce il tratto più originale. In Anselmo tutto Vegressus procede dall’Amore e così pure tutto il regressus è sostenuto dall'amore e si compie nell'Amore.
Gilberto Porretano
speculazione metafisica GilbertoPorretano è la figupiù importante del secolo XII. Di lui scrive autorevolmente E. Gilson: «Gilberto è con Abelardo, il più possente spirito speculativo del secolo Nel campo della
ra
XII, e
Abelardo lo supera sul terreno della logica, Gilberto supera di gran lunga Abelardo come metafisico. Si deve deplorare l'oscurità del suo stile, che spesso va di pari passo con quella del pensiero, ma ciò che dice merita una riflessione, poiché i problemi che pone sono sempre se
importanti>>fi4
Gilberto occupa un posto importante nella storia della metafisica non per aver costruito un proprio sistema ma per aver messo a punto alcuni strumenti che contribuiranno sostanzialmente allo sviluppo della metafisica dell'essere nel secolo XIII: gli strumenti riguardano principalmente il metodo assiomatico e il linguaggio ontologico. La fonte principale del pensiero di Gilberto è Boezio, del quale è stato uno dei più valenti commentatori. Ed e proprio attraverso i commenti agli opuscoli teologici di Boezio che egli ha sviluppato la riflessione sulla metafisica dell'essere, ancorché si tratti di una meta fisica dell'essere di stampo marcatamente platonico e neoplatonico e non aristotelico. Gilson sottolinea il carattere platonico dei concetti fondamentali della metafisica di Gilberto: i concetti boeziani di esse e quod est, ai quali Gilberto dà un particolare rilievo «corrispondevano di fatto a ciò che di più platonico vi era nella concezione aristotelica dell'essere».65 Così, sempre secondo Gilson, la dottrina di Gilberto «ha favorito la diffusione di quella forma di platonismo che si può chiamare realismo delle essenze e che la filosofia di Avicenna doveva di lì a poco rafforzare così
potentementemfif»
64) E. GILSON, La philosophicau moyen rîge, Paris 1944, p. 262. a5) Ihid. 66) llzici, p. 268.
324
Parte seconda
VITA E
OPERE
Gilberto Porreta 0 della Porreta” nacque a Poitiers (da cui il nome anche di Gilberto di Poitiers) verso il 1075; studiò a Chartres, dove ebbe come maestro Bernardo, poi a Parigi e a Laon. Fu maestro e poi cancelliere della scuola di Chartres dal 1124 al 1137. Insegno teologia e dialettica a Parigi e nel 1142 divenne vescovo di Poitiers. Assieme ad Abelardo e a Pietro Lombardo fu oggetto della accusa mossa da Gualtiero di S. Vittore contro la nuova teologia e Gerhoh di Reichersberg nel suo Liber de novitatibus lo denuncerà assieme ad Abelardo come cattivo esempio per le scuole di Francia e di altri paesi. Nel 1147 fu accusato di eterodossia da due dei suoi arcidiaconi per la sua dottrina trinitaria. Condotto davanti a una commissione del Concilio di Reims (1148), sottoscrìsse senz'altro i quattro capitoli composti da S. Bernardo e da Goffredo di Auxerre e in tal modo evitò la condanna. Morì nel 1154. La produzione letteraria di Gilberto non è di gran mole ma assai sostanziosa. Essa comprende i commenti ai cinque opuscoli teologici di Boezio: De Trinitate, De praedicatione trium personarum, De hebdonzadibus, De duabus naturis et una persona Christi, Contra Eutichen et Nestorium; il trattato Liber de sex principiis; i commenti inediti ai Salmi e alle Lettere di S. Paolo 68 e il commento pure inedito al Simbolo apostolico. LA
RIPARTIZIONE DELLE SCIENZE
Gilberto è un rappresentante della scuola di Chartres e un ammiratore entusiasta del metodo scientifico seguito con successo da Bernardo di Silvestre e da Guglielmo di Conches. Le arti liberali cui venne iniziato furono per lui dapprima una buona preparazione allo studio della teologia e poi uno strumento universale per avvicinarsi a ogni problema, sia profano sia sacro. Ma sin dall'inizio del suo insegnamento pose al servizio della teologia l'intero apparato della scienza profana. Abbandono il tradizionale metodo esegetico dell'allegorìzzazione per introdurre il nuovo
metodo
teologico dell’argomentazione, assumendo come guida
egli commentò con straordinario acume. Con gli strumenti di cui dispose Gilberto ambì a trasformare la teologia in una scienza propriamente detta, a dotarla di uno statuto scientifico il cui rigore non
Boezio che
67) 53)
F. Pelster sembra avere mostrato in maniera decisiva che il vero nome è Gilbertus Porreta e non Gilbertus de la Porrée; cf. Gilbert de la Porrée, Gilbertus Pnrretanus oder Gilbertus Porreta, in «Scholastik» (1949), pp. 401-403. Cf. A. M. LANDGRAF, Introduction à l'histoire de la littératurc théologique de la scholastique naissante, Paris 1973, pp. 107-110.
Scutu
Eriugana, Anselmo d ‘Aosta, Gilberto Porrettano
325
nulla da invidiare a quello delle altre discipline, e nello stesso tempo ne volle assicurare la trascendenza. Grande studioso di problemi di logica e di epistemologia Gilberto ha dato un apporto decisivo alla impostazione e soluzione di alcune questioni di teologia fondamentale e ha fissato il significato di alcuni termini-chiave della metafisica e della teologia scolastica. Nel commento al De Trinitate di Boezio, Gilberto si occupa della divisione delle scienze e la fonda sulla diversità degli oggetti considerati. avesse
«Le scienze scrive Gilberto sono di molti generi. Alcune sono teoriossia speculative, come sono quelle per le quali consideriamo se esistano e cosa siano e quali e perché siano le singole cose create; altre sono pratiche, cioè attive, come sono quelle per le quali, dopo la considerazione, sappiamo operare, come fanno i medici, i maghi e altri ancora. Lasciando da parte le scienze pratiche, le scienze speculative prendono nome dagli oggetti considerati, e si chiamano alcune fisiche ossia naturali, altre etiche ossia morali, altre logiche ossia razionali. Lasciando ancora da parte le scienze morali e razionali, quelle che con un nome solo si chiamano naturali, o anche per lo più speculative, sono di tre tipi: una è detta naturale in senso ristretto, l'altra nzatematica e la terza teologica>>fi9 -
-
che,
La fisica studia «le realtà non-separate e concrete cioè sensibili»; la matematica «considera le forme non-separabili delle cose che si generano, diversamente da come sono, cioè astrattamente»; la teologia (naturale) «trascendendo tutte le cose generabili,fissa lo sguardo nel loro principio, qual esso sia, ossia o neIYArteI-ice in virtù del quale sono, come da loro autore; o nell’idea dalla quale sono state ritratte come da modello>>.7U Come si vede, è la classica divisione aristotelica basata sui tre gradi di astrazione: la fisica prescinde dalla materia individuale ma non dalla materia sensibile;la matematica prescinde dalla materia sensibilema non da quella intelligibile;la teologia naturale astrae da qualsiasi forma di materia, ossia «da tutte le cose generabili». La distinzione tra procedimento teologico (metafisico) e procedimento naturale (scientifico) viene ripresa dal Porretano poco più avanti nello stesso commento al De Trinitatedi Boezio. Chi segue il procedimento teologico spiega Gilberto vede le cose soltanto in rapporto a Dio e non le studia per se stesse. Per il ”teologo" —
59) In Boetii De Trinitttte Commentaria, PL 64, 1265. 70) IÙÎIL, 1265-1268.
-
Parte seconda
326
l'asse, ciò in virtù di cui esiste tutto ciò che esiste, è l'essere divino (divina
essentia), la prima causa dell'essere delle cose; esso «dà a tutte le cose di poter essere chiamate enti, e non riceve l'essere da nessun altro». E perciò
quando si dice che un uomo è o un corpo è, quell'essere si può attria queste realtà solo perché Dio dà loro l'essere. Il che vuol dire che
buire
spetta loro in Virtù di un principio intrinseco alla loro natura, non spetta loro perché siano, rispettivamente, un uomo o un corpo, ma perché viene loro da fuori, quadam extrinseca denominatione. Nella
l'essere
non
considerazione teologica dunque ogni cosa è per l'essere divino: «Che ogni ente sussistente sia determinato (aliquid),dipende dalla sua propria forma, inerente alla materia; ma che un ente sia non dico determinato, secondo una considerazione naturale o anche matematica ma assolutamente, sia -, dipende da una forma che non è nella materia. Poiché la sostanza divina è Veramente forma senza materia»?! Invece chi si accosta alle cose secondo il procedimento naturale (scientifico) le studia in se stesse, ne indaga le proprietà, la natura, la forma, ciò che le costituisce intrinsecamente nel loro essere generico, specifico e individuale. Per i filosofi naturales il principio per cui una cosa è, è immanente alla cosa stessa, è la sua subsistentia, essenza sostanziale, la forma chela fa essere e la fa essere quello che è: uomo, cavallo o qualsiasi ente determinato. «Infatti anche nella considerazione "naturale" ogni essere dei sussistenti viene dalla forma; ossia: quando di qualsiasi sussistente si dice: è, si dice per la partecipazione che ha in sé. Come si può vedere da questi esempi: si dice che una statua è statua non per virtù del bronzo che è sua materia, ma per quella forma per la quale, in virtù dell'arte, è stata impressa in quel bronzo Peffigie di u-n animaìe...».72 Diversamente dalla maggior parte dei suoi contemporanei che adeguavano lo studio delle cose alle esigenze della loro vita monastica e al contemptus mundi e perciò studiavano le cose "teologicarnente" e si accostavano al mondo per scoprirvi i vestigi e le immagini della Trinità, Gilberto, affascinato dal metodo scientifico giudica importante anche lo studio delle cose‘ per se stesse. Lungi dall’accentuare il platonismo di Boezio, Gilberto dà peso alla ricerca naturalistica che si fa sentire intorno a lui, specialmente nella scuola di Chartres: ogni cosa è perché Dio la fa essere, certo, ma, proprio per dare gloria a Dio, ogni cosa Va studiata per quello che è. —
71) lbid, 1269. 72) lbid, 1268-1269.
Sroto
Eriuggemi, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
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IL METODO ASSIOMATICO Di tutti gli opuscoli teologici boeziani il più ricco di insegnamenti per quanto concerne la metafisica è indubbiamente il De hebdomadibus. Questo trattatello oltre alcune tesi capitali di ontologia esibisce l'esempio di un nuovo metodo filosofico, che era destinato ad avere numerosi
discepoli tra i filosofi e i teologi non soltanto dell'epoca medioevale ma anche di quella moderna. Questo metodo che Boezio mutua dagli Elementi di Euclide parte dall'enunciazione di principi primi universalmente noti, colti come tali dal1'intuizione noetica superiore: le commuizes conreptiones animi acquisite in base a una contemplazione immediata dalla facoltà superiore della mente umana (animus). Queste formule dette axiomata (assiomi) grazie alla loro dignità (dignitates) e chiamate in greco anche theoremata (speculationes) per la loro diretta contemplabilità, sono autoevidenti e indimo-
strabili,riconoscibilicome vere da chiunque non appena vengono enunciate. Nel suo De hebdomadibus Boezio, pur rispettando rigorosamente la struttura formale del mos geometricum, ossia fondando di volta in volta la validità dei passaggi argomentativi sulla base di premesse assiomati— che, non indica tuttavia esplicitamente tali continue conferme dei percorsi seguiti, lasciando al lettore il compito di riconoscere tra le righe la presenza costante delle determinazioni di partenza, che generano e sostengono il discorso. Gilberto è il primo dei commentatori medioevali del De hebdomadibus a Cogliere il vero carattere del metodo assiomatico in quanto procedimento mentale del tutto diverso da quello sillogistico. Infatti le communes conceptiones non sono le premesse di una dimostrazione ma Vere e proprie forme mentali assolute, dotate di una grande genericità significativa, ciascuna delle quali ritaglia una determinata area di verità al cui interno vengono ad ordinarsi schematicamente i particolari contenuti di pensiero corrispondenti. Esse coincidono dunque con i topoi elencati da Cicerone, ossia con i loci più generali del pensiero: sono l'espressione di regulae assolutamente formali della conoscenza, che hanno valenza universale e dunque estendibilia tutto ciò che può rientrare sotto le condizioni logiche in esse formulate. Questo vuol dire che non sono idee, immagini concettuali con un preciso contenuto rappresentativo che potrebbe essere trasposto in una serie di proposizioni e quindi di concatenazioni deduttive. Piuttosto, ciascuna di queste conceptiones documenta in modo preciso e inequivocabile almeno una fra quelle condizioni più generali del pensiero e della scienza, che devono essere rispettate da qualsiasi formulazione di verità. Tutto ciò che è pensabile, se è pensabile, deve esserlo secondo le condizioni imposte da tali regole. Così, per
328
Parte seconda
esempio, il secondo dei nove assiomi del De Iiebdomadibus diversum est è accolto da Gilberto come il principio formale sul esse et id quod est quale costruire la propria concezione ontologica fondata sulla distinzione tra esse e id quod est. Essa infatti ha Valore proprio in quanto è generale. Non è relativa solo ad alcuni esseri, ma a qualsiasi manifestazione dell'essere, e la nostra conoscenza di tutto ciò che è (compresa perciò anche quella dell'essere di Dio) è ad essa necessariamente subordinata. -
-
Uassiomatismo di Boezio si risolve insomma per Gilbertonell'individuazione di un patrimonio di necessità formali di pensiero, che assistono il sapiente nella verifica delle verità intuitive più elevate. Perciò, a questo punto, è evidente che la forza assiomatica delle communes conceptiones sarà operante in modo diretto soprattutto nell'elaborazione del discorso metafisico e teologico.”
ESSERE ED ENTI, ESSENTIA
E SUBSISTENTIA
Per parlare di Dio e delle creature, dell'Essere e degli enti Gilberto si avvale di termini che hanno delle connotazioni ben precise e che se non corrispondono propriamente né a quelle che erano state riconosciute da Boezio né a quelle che saranno in seguito individuate da S. Tommaso, tuttavia tendenzialmente si discostano da quelle boeziane per accostarsi a quelle tomasiane. Anzitutto, in Gilberto, il termine essentia è sinonimo di essere (esse) e non della quidditas come sarà generalmente in S. Tommaso. Gilberto riserva il termine essentia a Dio, che è l'unica realtà che possiede l'essere per sé e a pieno titolo. Dio infatti è puro essere, è l'essere stesso: il che Vuol dire che quando si predica di Dio l'essere, e si dice Dio è, non si intende dire che egli partecipi dell'essere, e prenda a prestito questo predicato, ma si intende esprimere col termine essentia la stessa natura di Dio. E poiché è l'essere, egli può comunicarlo a tutte le altre cose per una partecipazione estrinseca. Ecco uno dei testi più chiari su questo punto: «L’Essere (essentia), che è principio, precede tutte le cose create, poiché dà a tutte queste di poter essere chiamate enti, e non riceve l'essere da nessun altro; e perciò è veramente forma e non immagine. E quando parlando di Lui, uno dice: l'Essere è si deve intendere: l’Essere è quella realtà che è l’Essere, cioè che non mutua da altri questo predicato è, e dalla quale deriva l'essere; ossia è quella che comunica a tutti gli altri, per una partecipazione estrinseca, il predicato è. -
73)
Cf. G. D'ONoFR1o, 0p. cit, pp. 352-353.
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
329
Infatti questo predicato è non si dice di una qualunque proprietà della sua essenza, ma si trasferisce da Colui che è propriamente, non per l'essere altrui ma per il suo, a ciò che è determinato da una forma creata da lui, e alla stessa forma creata (ossia la subsisterltia) e finalmente a tutti i caratteri (accidentali), che con verità si predicano di questi (poiché da lui derivano come da principio)».74
Altrove, commentando il famoso assioma boeziano «diversum est esse, est», Gilberto ribadisce che Fesse è il Principio dell'essere, mentre il quod est è tutto ciò che deriva dal Principio, e che l'esse è Dio, mentre viene detto delle creature «per una denominazione estrinseca, cioè et id quod
dall'essere del loro Principio».75
È questo carattere simplex et solitarium dell'essere divino, quello che spiega l'assoluta trascendenza divina, il fatto che Dio sia oltre ogni con-
categorie, inclusa la categoria della sostanza. Quando dunque diciamo che Dio è sostanza o gli attribuiamo una qualità come la giustizia, 0 una quantità come la grandezza, questi nomi mutano significato e Vanno presi analogicamente, aliqua rationis proportioneifi Così quando si dice che Dio è sostanza non significa affermare che egli sia subsistens o subsisteiztia, poiché non sottostà agli accidenti, né cetto, fuori di tutte le
inerisce a un subsistens per determinarlo, per farlo essere tale o tal altro: Dio è sostanza perché sussiste per forza propria. Meglio quindi chiamarlo essentia che sostanza. A maggior ragione non si applicano propriamente a Dio le altre categorie. Quando diciamo per es. che Dio è giusto, sembra che gli attribuiamo una qualità e quando diciamo che è grande gli attribuiamo una quantità, ma in Dio la giustizia e la grandezza si
sua essenza. Infatti nelle creature nessuna categoria dice tutta la realtà di cui si parla: anche quando si esprime la sostanza di una creatura, e si dice per esempio che è uomo, non si esprime tutta la realtà di quell'uomo, perché in lui oltre alla sostanza ci sono gli accidenti; e perciò quando si è detto che è uomo non si è detto ancora se è giusto o no, se è grande o piccolo, ecc. Ma quando si dice che Dio è Dio, si è già detto tutto di lui; e perciò quelle che noi esprimiamo come se fossero sue qualità sono già comprese quando abbiamo indicato la sua essenza, dicendo che è Dio.77 L'essere divino (essentia) differisce da ogni altro essere perché è semplice, perché non è forma in una materia: Dio è Purissima forma dell'essere. Scrive Gilberto: «Molte sono le realtà che si chia-
identificano con la
74) 75) 75) 77)
In De Trinitate, PL 64, 1268. In De hebdonzadibus, PL 64, 1317-1318. Cf. In De Trinitate, PL 64, 1283.
Cf. ibid, 1284.
330
Parte seconda
forme: per esempio le figure dei corpi e altre determinazioni che hanno l'essere nei sussistenti per creazione o concreazione, e per le quali ciò a cui sono presenti o è un individuo o si dimostra essere una determinata natura; ma tutte queste forme hanno i loro principi dai quali sono state tratte in un determinato modo, o si riferiscono a quei principi, e perciò, essendo mutuate da altro, si chiamano forme piuttosto per una comune accezione che per verità delle cose. L’Essere invece che e principio, precede tutte le cose create, poiché dà a tutte queste di poter essere chiamate enti, e non riceve l'essere da nessun altro; e perciò è veramente mano
forma e non immaginews
Mentre per Gilberto esse e (355871 tia sono nomi propri, distintivi di Dio, subsistens e subsistentia sono nomi propri, distintivi delle creature, cioè di ogni realtà finita. Il termine subsistentia ricorreva già in Boezio, ma Gilberto ne fa un'applicazione speciale. La subsistentia è l'essere del subsistens; è principio di determinazione (esse aliquid), è ciò per cui il subsistens è quello che e79 Subsistens è questo corpo, subsistentia è la corporeità, che è ciò per cui il corpo è qualcosa di determinato (quo aliquid est) e precisamente corpo. S ubsistens è quest'uomo, subsistentia è la sua umanità. L'uno e l'altra (subsistens e subsistentìa) possono dirsi sostanze. Substantia è quindi il termine generico applicabile sia all’esistente concreto sia a ciò per cui il concreto è quello che è. Subsistentìa designa semplicemente la proprietà di ciò che per essere ciò che è non ha bisogno di accidenti. Così per es. i generi e le specie (animalità, umanità) sono delle sussistenze perché presi in se stessi non hanno bisogno di accidenti, ma poiché non fungono da soggetto di nessuna cosa non sono dei sussistenti. Ora, nell'essere di ogni creatura si deve distinguere ciò che la colloca in una determinata specie o genere (per es. uomo o cavallo), e questa è la subsistentia, e certe proprietà accidentali che la fanno essere in un determinato modo (esse aliquid) e che si uniscono alla subsistentia facendo di essa una sostanza. Tuttavia, osserva il Porretano, mentre la subsistcntia implica necessariamente l'esclusione di altre qualità o accidenti, la substantia a sua volta non esige nessun accidente; per cui si possono dare anche sostanze pure: questo è il caso di Dio e degli angeli. Gli universali (generi e specie) non sono sostanze, bensì sussistenze. Mentre l'essere di Dio è semplicissimo, è pura forma, tutto ciò che non è Dio è composto, sia i sussistenti sia le sussistenze. Infatti non solo il sussistente è costituito tale da una natura che non si identifica con
73) IbicL, 1268. 79) In De Trinitatc, PL 64, 1269.
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto [Jorrettano
331
esso, ma la stessa natura che 10 costituisce non è semplice: «non est simplex et solitarium illud unde quodlibet eorum esse aliquìd dicitur», non è semplice l'essenza sostanziale del sussistente.“ E questa composizione inerente alla forma del sussistente, alla sua subsistentia, spiega anche perché certi enti che si dicono semplici, e in un certo senso sono tali, come per esempio l'anima umana, abbiano pure la loro composizione e differiscano quindi da Dio che è pura forma. Ci sono infatti due tipi di composizione: quella per cui un sussistente risulta dall'unione di diversi sussistenti, come per es. l'uomo che è composto di anima e di corpo, e quella
per cui una sussistenza consta di varie sussistenze. L'umanità, per es., per cui l'uomo è uomo, è composta di diverse sussistenze: è composta dei generi corporeità e animalità e dalla differenza razionalità, nonché dagli accidenti, come la risibilità,che conseguono le sussistenze suddette. Dove c'è composizione di sussistenti c'è anche composizione di sussistenze, poiché ognuno dei sussistenti componenti ha la sua sussistenza per cui è quello che è; ma non è detto che dove c'è il secondo tipo di composizione ci sia anche il primo. L'anima umana, ad esempio, non consta di parti sussistenti, ma la sua natura consta di diverse sussistenza?“ Nell’assegnare alla subsistentia dei generi e delle specie, nonché ad ogni qualità delle cose presa nella sua forma astratta, una propria consistenza onttìlogica traspare chiaramente la tendenza platonica, ultrarealistica ed essenzialistica del pensiero del Porretano. Inoltre, nel suo tentativo di risolvere i sussistenti nelle sussistenze e, quindi, di ridurre gli enti reali nelle essenze intelligibili,c'è una tendenza a quel "formalism0” a cui Duns Scoto darà espressione piena e sistematica.
CREAZIONE E PARTECIPAZIONE Commentando Boezio, Gilberto non si limita a fissare i connotati ontologici fondamentali che caratterizzano l'Essere, da una parte, e gli enti, dall'altra, ma talvolta parla anche dei rapporti che intercorrono tra l'Essere e gli enti. Il rapporto dell'Essere con gli enti ‘e espresso col termine creazione. Creatio è l'atto con cui Dio imprime una sussistenza nella materia e dà
luogo a un sussistente.
60) Ibid., 1270. 81) Cf. S. VANNl RovicHi, Studi di filosofia medioevale, l. Milano 1978, pp. 216-217.
Da S.
Agostino al XII secolo,
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Parte seconda
Della nzateria Gilbertoelenca varie definizioni, di cui la principale è la prima, che egli collega direttamente con Platone: «L'origine o l'inizio delle cose, che Platone chiama necessità e frode e ricettacolo e matrice e grembo e madre e seno e luogo di ogni generazione, e i suoi discepoli hylen, cioè silva, Platone la chiama nmteria prima, poiché in essa si forma tutto ciò che in essa è ricevuto, mentre essa non contrae nessuna forma».82 Gilberto non solo condivide la definizione platonica della materia, ma seguendo pedissequamente il Timeo sembra che condivida la teoria della eternità della materia. Questa è anche l'opinione della Vanni Rovighi che nel suo pregevole studio su "La filosofia di Gilberto Porretano" scrive: «Gilberto non affronta il problema, anzi il modo con cui egli parla della materia indurrebbe a pensare che egli la ritenesse eterna ed originaria: la mette sempre infatti accanto a Dio, per dir così: è semplice, come Dio; è oggetto di sapere teologico, come Dio; è principio come Dio. Certo le sue espressioni su questo punto lasciano perplessi, e può stupire il fatto che i suoi avversari non gliele rimproverasseromsîi Per parlare dei rapporti tra gli enti e l’Essere Gilberto si avvale della classica categoria platonica della partecipazione. E come tutti i platonici e i neoplatonici anche Gilberto concepisce la partecipazione in senso formale e non secondo il modulo della causalità efficiente. E così la partecipazione degli enti all'Essere diviene, come dichiara lo stesso Gilberto, una partecipazione estrinseca: una partecipazione non secondo la forma, bensì secondo l'imitazione e l'immagine. LA CONDANNA Dl GILBERTO E ÙINFLUSSO DEL SUO PENSIERO
L'applicazione del nuovo linguaggio della metafisica, in particolare delle espressioni substantia e subsistentia al mistero della Trinità suscitò viva perplessità tra i teologi contemporanei di Gilberto. Infatti distinguendo divinitas (= subsistentia) e Deus (= stibstantia), Aeternitas (= Subsistentia) e Pater (= substantìa) come si distingue l'umanità da Socrate, egli sembrava compromettere l'unità di Dio e cadere nel triteismo. Questo era l'errore che gli veniva imputato nel Concilio di Reims (1148). Su richiesta dell’episcopato e di S. Bernardo, il papa Eugenio III impose a Gilberto di sottoscrivere quattro proposizioni relative ai seguenti punti: distinzione tra Dio e la divinità; non convertibilità delle proposizioni Deus est diziinitas e divinitas est Deus; le tre persone sono un unico Dio; distinzione tra le persone divine e le proprietà personali.
83) 83)
In DL’ Trinitate, PL 64, 1265. S. VANNI ROVIGHI, Studi difilosofia medievale, I, cit., p. 210.
Scoto Eriugena, Anselmo d'Aosta, Gilberto Porrettano
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Gilberto dichiarò che nelle formule che gli venivano proposte «non c'era nulla di contrario alla sua fede e alla sua dottrina» e le accettò senza reticenza. Così venne assolto dallîmputazione di eresia, ma i suoi scritti furono proibiti dall'autorità ecclesiastica sub conditione e ad tenzpus, finché fossero adeguatamente corretti ed emendati. L'offerta da parte di Gilberto di curare egli stesso la correzione del proprio lavoro, Sotto il controllo del Papa, venne accolta. Di fatto poi egli si limitò ad aggiungealla redazione un nuovo prologo e un'esposizione esplicativa. Secondo autorevoli studiosi, come M. E. Williams e N. M Haering, in Gilberto non c’è difetto di ortodossia, ma soltanto imperfezione di dottrina e oscurità di linguaggio. Nonostante la condanna Gilberto ebbe un notevole seguito e la sua scuola fu una delle più importanti e influentidel secolo XII. re
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Parte seconda
Suggerimenti bibliografici GIOVANNI SCOTO ERIUGENA Edizioni: PL 122. Studi: V. ALBANESE, Il pensiero di Giovanni Scoto Eriugezia, Messina 1929; C. ALLEGRO, Scoto Eriagena: I. Fede e ragione; II. Antropologia, Roma 1976; G. BONAFEDE, Saggi sul pensiero di S. Eringena, Palermo 1950; M. BRENNAN, Guide des études éarigéniemzes. Bibliographie Conzmentée des publications 1930-1987, Paris 1989; M. CAPPUYNS, 1. Sento Eriagena: sa vie, son oeuvre, sa pensée, Louvain 1933; M. DAL FRA, Scoto Eriugeiza, Milano 1952; I. I. O. MEARA, Eringena, Oxford 1988; A. WOHLMAN, l/honzrne, le monde sensible et le poche dans la philosophiede I. S. Eriugena, Paris 1987.
ANSELMO D'AOSTA Fonti: PL 159-159; cdiz. critica di F. S. SCHMITT, S. Anselmi cantuariensis archiepiscopi opera omnia, in 6 v0l1., Edimbourg 1946-1961, tr. it. dell'opera integrale in corso sotto la direzione di I. BIFFI e C. MARABELLI, Milano.
Studi: AA. Vv., Analecla anselnziana, V011. I-VI, Frankfurt a. M. 1969 55.; K. BARTH, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existeziz Gottes, Mùnchen 1931; G. R. EVANS, Anselm and Talking about God, Oxford 1978; D. P. HENRY, The Logic of St Anselm, Oxford 1967; A. KOLPINC, Anselnzs
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GILBERTOPORRETANO Edizioni: GILBERTI PORRETAE, Commentaria in Opuscala sacra Boetii, PL, 64, 1255-1412; R. SILVAN, Le texte des Conzmenlaires sur Boèce de Gilbert de la Porrée, «Archìves d’hist. cloctr. littér. du Moyen-Age» 15 (1946), 175189; N. M. I-IARING, The Commentary of Gilbert of Poiiiers on Boellzias «De Hebdomadibus», «Traditio» 9 (1953), 177-211; Mss. Parigi, Bibl. Nat. Iat. 16341 e 18093.
Scafo Eriugena, Anselmo d ’A0sta, Gilberto Porrettano
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Studi: A. BERTHAUD, Gilbert de la Porrée et sa philosophie, Poitiers 1892; E. BERTOLA, Saggi e studi di filosofia nzedioevale, Padova 1951, pp. 19-34; M. FONTANA, Il commento ai Salmi di Gilberto de la Porrée, «Logos» 13 (1930), 283-301; A. FoREsT, Gilbert de la Porrée ei Ies écoles da X116 siècle, «Revue des Cours et Conférences» 35 (1934), 410-420, 640-651; ID., Le réalisme de Gilbert de la Porrée dans le commerztaire da De hebdomadibus, «Revue néoscolastique de philosophie», 36 (1934) (Hommage De Wulf), 101-110; N. M. PIARING, The Case of Gilberf de la Porrée, Bishop of Poitiers, «Mediaeval Studies», 13 (1951), 1-40; ID., A Hitherto Llnkrzown Commentary on Boethius de Hebdomadibus Written by Clarenbaldus ofArras, «McdiaevalStudies», 15 (1953), 212-221; ID., A Latin Dialogue on the Doctrine of Gilbert of Poitiers, «MediacvalStudies», 15 (1953), 243-289; A. HAYEN, Le Concile de Reims et l erreur théologique de Gilbert de la Porrée, «Archives d’hist. doctr. littér. du Moycn-Age», 10 (1935-36), 29-102; A. M. LANDGRAF, Urzierszichunggven zii den Eigenlehren Gilberts de la Porrée, «Zeitschrift fur kath. Theologic», 1930, 180-213; ID., Cormnentarius porretanus in primam Epistolam ad Corinthios (Bibl. Ap. Vaticana Studi e Testi, 117), Città del Vaticano 1945; ]. LECLERCQ, Textes sur St. Bernard et Gilbert de la Porrée, «Mediaeval Studics», 14 (1952), 107-128; I. LECLERCQ, Leloge funebre de Gilbert de la Porrée, «AIChÌVES d’hist. doctr. littér. du MoyenAge», 19 (1952), 183-185; F. PELSTER, Die anonynîe Verfeidigungsschrzft der Lehre Gilberts von Poitiers im Cod. Vat. 561 una? ihr Verfasser Canonicus Adlzemar van Saint Ruf, «Studia Mediaevalia» (Miscellanea Martin), Bruges 1948, pp. 113-146; S. VANNI ROVIGHI, Studi di filosofia nzedioezzale, I. Da Sant'Agostino al XII secolo, Miìano 1978, pp. 247-276; M. H. VICAIRE, Les Porretains et Pavicennisme azzant 1215, «Revue des scìences philos. et théol», 26 (1937), 449-482; M. E. WILLÌAMS, The Teachingof Gilbert Porreta 071 the Trinityasfound in his Commentaries on Boethius, ”Analecta Gregoriana", LVI, Roma 1951.
336
LA METAFISICA ISLAMICA DEL MEDIOEVO
Sebbene il presente volume sia riservato alla storia della metafisica cristiana, a questo punto dobbiamo fare una breve digressione, per inse-
capitolo sul pensiero filosoficoislamico ed ebraico del medioevo, perché tale pensiero costituisce un momento essenziale nello svolgersi storico del pensiero metafisico. Infatti nel medioevo i primi studiosi che riconobbero l'importanza del pensiero di Aristotele e iniziarono a tra-
rire
un
durre le
sue
opere in arabo e in ebraico furono musulmani ed ebrei. Più
tardi, nei secoli XII e XIII, con la mediazione di questi filosofi ebbe luogo Pintroduzione della teoria e delle opere di Aristotele nel mondo latino, che determinò un rinnovamento benefico e fecondo per molti ambiti del
sapere: scienza naturale, filosofia, teologia, morale, politica. Ma fu soprattutto la metafisica che trasse i più consistenti vantaggi da quella innovazione culturale. La conoscenza delle opere di Aristotele diede nuovo impulso alla speculazione metafisica degli scolastici, i quali senza abbandonare Platone costruirono nuovi sistemi metafisici attingendo soprattutto ad Aristotele.
Origini della filosofiaislamica Dopo la morte di Maometto, il Profeta (632 d. C.), autore del Corano fondatore dell’lslam, i suoi seguaci, gli arabi, con estrema rapidità, in meno di un secolo conquistarono con la forza delle armi a Nord dell’Arabia tutto il Medio Oriente fino alla Turchia, ad Est si spinsero fino all'India, e ad Ovest si impadronirono di tutta l'Africa Settentrionale e della Spagna. Fondarono così un impero di dimensioni ancora maggiori di quello di Alessandro Magno e di Cesare Augusto. Le loro conquiste militari ebbero logicamente con l'andar del tempo ripercussioni profonde sui vinti e sui vincitori anche sul piano culturale I vittoriosi seguaci del Profeta entrarono in possesso della grande maggioranza delle opere della cultura pagana e cristiana, attingendo direttamente alle fonti del pensiero greco, sparso in tutte le biblioteche dell'immenso impero conquistato. A due secoli dalllîgira (cioè nel secolo VIII d. C.) alcuni studiosi del Corano cominciarono ad applicare all'esposizione del testo sacro il metodo filosofico, cioè del puro ragionae
-
—
La
metafisica islarrzica del Medioevo
337
quella forma di sapere che i musulmani chiamano cioè conoscenza della Parola (in origine in arabo kalam significava Kalam,
mento. Sorse allora
appunto ”parola”),e che corrisponde praticamente a ”teologia”.
primi grandi filosofi musulmani, specialista nella divisione e classificazionedelle scienze dà della Kalmn la seguente defiAl-Farabi
—
uno
dei
-
nizione: «Qualsiasi religione abbraccia dei dogmi e delle azioni pratiche: dogmi che riguardano Dio, i suoi attributi, il mondo; azioni come quelle che servono a glorificarlo e quelle che regolano i rapporti tra gli uomini (...). La kalam è la scienza che consente di far trionfare i dogmi e le azioni
Legislatore della religione e di respingere tutte le opinioni che le contraddicono. Questa scienza comprende quindi due parti: una riguarda i dogmi e l'altra le azioni prescritte dal Legislatore. Il giurista (faqib) accoglie senza discussione gli uni e le altre e li pone alla base per trarre le sue conseguenze. Invece il teologo (nzutakallin) fa trionfare (col suo ragionamento) i principi che il giurista assume come base, determinate dal
nuove conseguenze. Se accade che la stessa persona è in assolvere contemporaneamente entrambe le funzioni, allora essa è sia giurista sia teologo: farà trionfare i principi in quanto teologo, mentre tirerà delle conseguenze pratiche in quanto giuristaml Al primo gruppo di teologi musulmani si dà il nome di mutaziliti’. Essi vissero a Bagdad e a Bassora durante la prima metà del secolo VIII. Delle loro opere non è rimasto praticamente nulla. La ragione di questa perdita pare abbastanza ovvia: esse furono tutte distrutte dopo che Al-Ashari ne smascherò la profonda eterodossia. L'errore di fondo dei Mutaziliti era quello di fare un uso eccessivo della ragione e della filosofia nell'interpretazione del Corano. Ciò li aveva indotti a negare gli attributi di Allah, la predestinazione e la preesistenza (non creazione) del Corano. Sorte migliore della teologia ebbe per qualche tempo la filosofia grazie all'autonomia che questa disciplina poteva godere, in quanto si basava su un pensiero puramente razionale e si richiamava a fonti totalmente estranee al Corano. Le origini della filosofia islamica risultano alquanto oscure. Essa inizia con la traduzione di testi filosofici classici di Platone, Aristotele e dei neoplatonici prima dal greco in siriaco, poi dal siriaco in arabo o dal greco in arabo. Già nel secolo IX sorgono confraternite che si dedicano allo studio della filosofia. Tra le associazioni filosofiche si rese Celebre quella dei "Fratelli della purità" (purità si riferisce esclusivamente alla
senza
trarre
grado di
-
-
l)
Citazione da L. CARDET-M. M. ANAWAT, lntraduction à la théuhrgìe mzisulvnane, Vrin, Paris 1948, p. 104. Cf. AL-FARABI, Opera omnia, rist. Minerva, Francoforte 1969.
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Parte seconda
purificazione dell'intelletto dalle opinioni del volgo), ai quali è dovuta la monumentale Enciclopedia che risale al secolo X, il cui testo arabo e la traduzione tedesca sono state messe a disposizione degli studiosi nella seconda metà del secolo scorso da F. Dieterici, in undici volumi; l’Enciclopedia è divisa in due parti, di cui una tratta del ”macrocos1no” e l'altra del ”microcosmo". Tale opera monumentale è di fatto una elaborazione delle opere pseud o-aristoteliche che contengono elementi teoretici e dottrinali neoplatonici (più specificamente procliani): il De Causis e la Theologia Platonica. Il fondamento metafisico del reale è qui un processo di emanazione nel quale si riscontrano nove stadi: 1) il Principio; 2) l'intelletto; 3) l'anima; 4) la Materia ideale; 5) la materia corporea; 6) la sfera dei pianeti; 7) la forza della natura sublunare; 8) gli elementi; 9) i prodotti. L'uomo consegue la beatitudine e quindi anche la vera libertà soltanla conoscenza della verità. I regimi della vita umana nel mediante to loro aspetto politico-sociale sono i seguenti: 1) Regime profetico; 2) Regime regio,‘ 3) Regime della comunità o degli emiri; 4) Regime di
specie o famiglia; 5) Regime di se stesso o del Solitario. I filosofi che personalmente si affermano come cultori ed espositori della filosofia aristotelica sono detti "falasifah", traslitterazione araba del termine greco. Di fatto questi filosofi, pur concedendo nei loro scritti ampio spazio al linguaggio aristotelico, hanno della realtà una visione chiaramente neoplatonica.
Al-Kindi «Il contributo di Al-Kindi al movimento filosofico e teologico che si andava sviluppando nell'Islam nel secolo IX e i suoi sforzi per controbattere l’avversione naturale dei suoi correligionari alla recezione o alPassimìlazione di metodi e di concetti stranieri, gli riservano un posto totalmente a parte nella storia del pensiero filosoficoislamico»?
VITA E OPERE
Pochissime sono le notizie di cui disponiamo intorno alla vita di Abu Yusuf Ya’qub b. Ishaq al-Kindi. Figlio del governatore di Kufa egli nacque probabilmente in quella città verso la fine dell'VIII secolo. Studiò grammatica, filosofia e teologia a Bassora, e poi si stabilì a Bagdad, capitale dell'impero e centro della vita culturale islamica nel secolo IX.
2)
M. FAKHRY, Histoire de la philosnplzieislamiquc, Paris 1989, p. 89.
La
metafisica islamica del Medioevo
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Godette dei favori di vari califfi, che mostravano interesse per gli studi filosofici. Ma durante il regno di Al-Mutawakki (847-861), violentemente contrario alla filosofia e alla teologia, le fortune di Al-Kindi subirono un radicale rovescio. La sua morte ebbe luogo nell’873. La produzione letteraria di Al—Kindi è vastissima: gli vengono attribuite 242 opere che spaziano attraverso tutti i campi del sapere: logica, metafisica, aritmetica, musica, astronomia, geometria, medicina, astrologia, teologia, psicologia, politica, metereologia, alchimia. Ma la maggior parte dei suoi scritti è andata perduta. Un gruppo di opere sopravvive nella versione latina: De quinqlte essentiis, De intellectu et intcllecto, De somno et visione, De theorica artiunz magicarum, Liber introductionis in
artem
logicae demonstrationis.
IL PLATONISMO ARISTOTELIZZANTEDI AL-KINDI
Carattere comune della metafisica islamica è il platonismo di fondo, buona dose di aristotelismo in superficie, nel senso che è una metafisica che segue il paradigma henologico dei neoplatonicì,incorporandovi tuttavia molte strutture ontologiche aristoteliche. Questo indirizzo platonico-arìstotelizzantee già chiaro nella metafisica di Al-Kindi. Al-Kindi corresse la prima traduzione araba dell'opera conosciuta con il titolo di Teologia di Aristotele. In realtà il libro non è come asserisce il titolo un'esposizione del pensiero di Aristotele, bensì un’epitome delle Enneadi IV, V e VI di Plotino. Ciò è di grande importanza per comprendere la posizione di Al-Kindi e dei suoi successori ”peripatetici” nella filosofia islamica. Egli infatti attribuisce a Aristotele concezioni chiaramente neoplatoniche, o almeno non trova alcuna incongruità nell'ammetteme la compatibilitàcon la teoria del medesimo. Il De theorica artium magicarum rivela, forse, meglio d'ogni altro scritto l'influenza del pensiero neoplatonico su Al-Kindi. In questo trattato egli sostiene che, se a qualcuno fosse dato di comprendere nella sua interezza la condizione presente dell'armonia celeste, questi conoscerebbe il mondo degli elementi con tutti i suoi contenuti in ogni luogo e in ogni tempo, nella misura in cui ciò che è causato si trova nella sua causa. Se, invero, egli conoscesse una qualsiasi cosa di questo mondo in maniera completa nella sua condizione presente, allora la condizione presente dell'armonia celeste non potrebbe restargli nascosta, poiché egli comprenderebbe la causa per mezzo del suo effetto: infatti tutte le cose che agiscono nel mondo degli elementi, per quanto piccole, sono effetti dell'armonia che governa i cieli; e le cose, tutte quelle che sono e tutte quelle che saranno, sono previste all'interno di quell’armonia. Di conseguenza uno che avesse perfetta conoscenza dell'armonia celeste conoscerebbe in maniera completa il passato e il futuro. con una
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Parte seconda
Questa teoria può risultare più chiara se si tiene presente la dottrina secondo cui tutto ciò che esiste nel mondo fisico emette raggi in ogni direzione, in modo tale che ogni cosa contiene i raggi provenienti da ogni altra cosa. Pertanto la conoscenza completa di una qualsiasi cosa di questo mondo comprende in sé come in uno specchio la condizione complessiva dell'armonia celeste. Ogni cosa inoltre è soggetta a necessità. Al-Kindi giudicava, poi, che l'armonia dei cieli fosse la Causa vera di ciascuna cosa, benché nell'opinione popolare si supponesse che una cosa agisse sull'altra per mezzo dei suoi raggi. Una tale dottrina rivela senz'altro una certa fiducia nei poteri della magia naturale. LA METAFISICA E
I SUOI COMPITI
Al-Kindi conosceva certamente la metafisica di Aristotele e da lui mutua tutte le tesi che questa disciplina. Nell’imp0rtante definisce la filosofia come Al-Kindi Prinra trattato intitolato Filosofia
riguardano
«conoscenza
delle
nella loro realtà, secondo la capacità dell'uomo», metafisica come «conoscenza della Realtà Prima,
Cose
e la filosofia prima o Causa d'ogni realtà».
Seguendo Pesempio di Aristotele, Al-Kjndi sottolinea il carattere cumulativo della filosofia, il debito del filosofo verso i suoi predecessori e il suo dovere di ricevere con riconoscenza la verità, da qualsiasi fonte essa provenga: «Noi dobbiamo ringraziare moltissimo tutti coloro che ci hanno comunicato anche una piccola particella di verità, e a più forte ragione coloro che ce ne hanno insegnato di più, perché ci hanno resi partecipi dei frutti delle loro riflessioni e hanno semplificato le questioni complesse che riguardano la natura della realtà. Se non ci avessero fornito queste premesse che spalancano la porta della verità, noi saremmo stati incapaci, nonostante prolungate ed assiduo ricerche, di trovare i principi primi da cui sono derivate le conclusioni delle nostre ricerche su questioni oscure, e che sono stati trasmessi di generazione in generazione fino ai giorni nostri»! Lo studio della metafisica, spiega Al-Kindi sulla scia di Aristotele, riguarda le quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Più la nostra conoscenza delle cause di un oggetto è completa, più ci accostiamo alla verità. Noi dobbiamo accogliere la verità da qualsiasi fonte essa provenga, perché nulla dev'essere più caro al ricercatore della verità, che la stessa verità. E votati allo studio della verità, dobbiamo iniziare con un accurato esame delle opinioni dei nostri predecessori, integran— 3)
Citazione in M. FAKHRY, 0p. cit, p. 93.
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dole là dove è necessario «secondo i criteri della nostra lingua e della nostra epoca». Chi respinge la ricerca della verità deve biasimarese stesso, perché la conoscenza della verità comporta la conoscenza del divino, dell’unicità di Dio, di ciò che è virtuoso e utile, come pure dei mezzi per accostarvisi e per fuggire il contrario. Al—Kindi ripartisce la filosofia in due rami principali: la fisica che studia le realtà materiali, e la metafisica che studia le realtà immateriali. Questa divisione aristotelica viene pero allargata al fine di farla corrispondere alla distinzione tra le cose ”divine” e le cose "create”. Così le due principali divisioni della filosofia sono chiamate «scienza degli oggetti divini e scienza degli oggetti creati».
ESISTENZA Dl DIO E CREAZIONE DEL MONDO
Dopo queste Osservazioni introduttive sulla natura della metafisica o filosofia prima Al-Kindi passa ad esaminare alcuni temi fondamentali di questa "scienza divina", iniziando dal Principio primo di tutte le cose, che egli chiama talvolta l'Eterno e talvolta l’Uno. E quesfUno lo definisce come colui che non può essere concepito come non esistente o come avente una causa diversa da se stesso. È quindi l’Essere necessario e incausato e come tale non ha né genere né specie, poiché ogni specie si compone di genere e differenza specifica, e inoltre implica la composizione di un soggetto (il genere) e di un predicato (la forma specifica). Al—Kindi usa vari argomenti per provare l'esistenza di Dio, argomenti già impiegati dalla metafisica religiosa sin dai tempi di Filone Alessandrino, in particolare l'argomento dell'ordine del cosmo e l'argomento dell’analogia tra il microcosmo (l'uomo) e il macrocosmo (l'universo). Partendo dall'ordine e dall’armonia che si può riscontrare nel mondo sensibileAl-Kindi stabilisce l'esistenza di un artefice divino di tale ordinamento: data una qualsiasi organizzazione esiste il corrispondente organizzatore. Il secondo argomento è basato sull'analogia tra la struttura dell'essere umano e la struttura dell'universo. Poiché l'uomo è un microcosmo, cioè un duplicato in scala minore dell'universo, egli può cogliere in se stesso delle tracce che rimandano alla natura considerata nella sua totalità, e poiché l'uomo oltreché di corpo è dotato anche di spirito, occorre concludere che l'universo non sia da meno e che quindi esista uno Spirito che presieda al governo di tutto il cosmo. L'attributo principale di Dio è l'unicità. Questo dogma fondamentale della fede islamica viene argomentato da Al-Kindi anche filosoficamente. Le cose infatti derivano la loro unità da Dio, principio d'ogni unità, e di conseguenza la loro unità è secondaria e, per così dire, si tratta di un'unità derivata e di un'unità in senso figurato.
342
Parte seconda
Un altro attributo essenziale di Dio è la perseità: il suo essere è incausato. Essendo incausato non può essere che eterno. ln quanto causa di tutte le cose l’Essere Primo dev'essere superiore a tutto il resto e non presentare alcuna analogia con le creature. Egli è semplice, non avendo né materia né forma, e non è soggetto a mutamenti, essendo esente da tutte le quattro forme di mutamento elencate da Aristotele: quantitativo,
qualitativo, spaziale e sostanziale.
Da Dio Al-Kindi fa scaturire tutte le cose. La loro origine ha luogo mediante la creatio ex nihilo. Probabilmenteegli ha ricavato questa dottrina dal neoplatonico cristiano Giovanni Filopono che aveva sostituito la tesi tradizionale, ellenìca ed ellenistica, di un universo eterno, tesi avanzata da Aristotele e Proclo, con la tesi della creatio ex izihilo. La creazione è un processo che consiste nel far venire all'essere le cose a partire dal nulla, e questa è una prerogativa di Dio. Non solo l'origine delle cose ma anche tutto quanto accade in questo mondo ha come causa principale Dio. Dio è, quindi, l'unico Agente Reale ossia la sola causa nel mondo. «Al-Kindi, che condivideva questo detto con i teologi musulmani, restava tuttavia sufficientemente impregnato dello spirito greco per riconoscere la necessità di enunziare ciò che si può chiamare la grande catena causale degli esseri, e più nello spirito aristotelica che in quello del neoplatonismo, che più tardi doveva diventare molto di moda».4 Nonostante la sua preoccupazione di difendere la sovranità di Dio quale causa finale della creazione, Al-Kìndi non i gnorava il ruolo degli agenti secondi nei processi della natura. In un trattato intitolato La causa prossima efficiente della generazione e della corruzione egli esamina la funzione di un agente intermedio o subalterno, affinché «la disposizione universale delle cose per mano di Dio, attraverso i decreti della sua saggezza, possa essere messa chiaramente in evidenza». Le prime creature di Dio sono i Corpi celesti: si tratta di entità superiori dotate di vita e di intelligenza. In quanto cause prossime della generazione e della corruzione i Corpi celesti godono di un'assoluta preminenza rispetto a tutte le realtà terrestri: la loro vita non cessa mai, e la loro conoscenza è superiore alla conoscenza razionale di cui è dotato l'uomo. Nel mondo sensibilela creatura più nobileè l'uomo, che Al—Kindi presenta frequentemente come un "microcosmo”, dottrina questa che egli ritiene compatibile con gli insegnamenti di Maometto. Nella misura in cui l'anima e una sostanza incorporea appartiene alle Sfere incorruttibili.
4)
M. FAKHRY, op. cit, pp. 101-102.
La
metafisica islamica del Medioevo
343
Il suo argomento a favore dellîncorporeità dell'anima si basa sulla concezione pitagorico-platonica dell'unione accidentale e temporanea dell'anima e del corpo. L'anima è principio della vita; essa anima il corpo organico per un periodo determinato, poi lo abbandona senza alcun pregiudizio per il proprio essere. Al—Kindi ritiene che esista una molteplicità di anime individuali che, come egli dice, sopravvivono alla morte del Corpo. Di grande importanza per i successivi sviluppi che ebbe la questione sull’intelletto tra gli interpreti arabi e cristiani di Aristotele è il trattato De intellectu di Al-Kindi. Egli divide l'intelletto in quattro specie: l'intelletto che è sempre in atto (che fornisce intuitivamente la conoscenza dei principi primi), l'intelletto che è in potenza nell'anima, l’intelletto che passa dalla potenza all'atto, ed infine l'intelletto dimostrativo. Questa dottrina è esplicitamente attribuita ad Aristotele e allo stesso Platone, ma è quasi superfluo dire che non si trova nei loro scritti: infatti, Aristotele si limita a distinguere l'intelletto attivo da quello passivo. La più elaborata classificazione di Al-Kindi, tuttavia, sembra essere il prototipo di simili distinzioni che saranno operate da Al-Farabi e da Avicenna. La tendenza a conciliare Platone e Aristotele e caratteristica della prima filosofia islamica. Al-Kindi scrisse un breve trattato volto a ”conciliare" la definizione aristotelica dell'anima e quella platonica e A1Farabi, di cui tratteremo in seguito più diffusamente, compose una più estesa Armonia tra Platone e Aristotele: opere di questo genere sembrano in effetti essere dei tentativi volti a mettere d'accordo Aristotele e il neoplatonismo. Come abbiamo già osservato il risultato che si ottiene con questi procedimenti è la costruzione di una metafisica platonico-aristotelizzante: platonica nella sostanza, aristotelica nel linguaggio e in molte
strutture
ontologi che.
Al-Farabi VITA E OPERE La
gloria di
Al-Kindi venne ben presto oscurata da quella di Abu Nasr Mohamed ben Mohamed ben Uzlag al Farabi, presso i latini AlFarabi, detto così dal distretto di Farba nel Turkestan ove nacque verso l'anno 870 d. C. Di lui non si hanno notizie molto più ampie che su Al-Kindi, sebbene ci sia pervenuto un numero maggiore di sue opere e la sua influenza sia stata molto più vasta. Si sa che dai suoi contemporanei era chiamato ”ilsecondo maestro”, poiché Aristotele era ovviamente il primo.
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Parte seconda
Al-Farabi ricevette la prima formazione a Damasco, dove di giorno faceva il giardiniere, mentre di notte si dedicava alla lettura di opere
Bagdad,
godette
del padel intellettuali trocinio della famiglia del califfo e incontrò i maggiori suo tempo. Dopo un viaggio in Egitto si sistemo ad Aleppo, al Nord della Siria, dove si spense nell'anno 95D, all'età di ottant'anni. Di notevole proporzioni la produzione letteraria di Al-Farabi: essa va dalla logica alla metafisica, dalla politica alla morale, dalla fisica alla medicina. Di lui è stato scritto che fu «il più grande dei Falasifa nell'esposizione della logica e delle sue branche». Commento accuratamente tutto l'Organon aristotelico, e un discreto numero dei suoi commenti è giunto sino a noi. Secondo l'uso del tempo i suoi commenti assumono tre forme: quella dell’Epitome (o commento breve), del Commento medio e del Commento grande o lungo. Oltre all’Organon, di Aristotele commentò molte altre opere, tra le quali la Retorica, la Metafisica e il De anima. Scrisse anche un'opera intitolata La filosofia di Aristotele. Per quanto attiene la metafisica le opere più importanti che ci sono pervenute sono: Opuscolo sulle scienze, Trattato sullintelletto e Idee degli abitanti della città virtuosa. Le tendenze neoplatoniche implicite nella filosofia di Al-Kindi, acquistano tutta la loro importanza nell'opera di Al-Farabi,il primo filosofo musulmano che costruisce un sistema metafisico di vaste proporzioni, elaborato secondo il paradigma henologico e secondo il metodo dall'alto. «Il pensiero di Al-Farabi non manca di originalità. La sua fu
filosofiche. Successivamente si trasferì a
una
riesposizione estremamente suggestiva
del
dove
pensiero speculativo
della sua epoca, con tutte le diverse influenze che andavano foggiandolo (...). Poiché il suo linguaggio comprende termini collegati con l'opera dei teologi, dei mistici e con Yeresia ismailita, possiamo presumere che egli avesse familiaritàcon la loro letteratura».5 LA DIVISIONE DELLE SCIENZE
Una delle opere di Al-Farabi più lette dai filosofi cristiani del medioevo è 1’OpuscuIun1 de scientiisfi L'opera è importante per capire la concezione che aveva Al-Farabi della filosofia in rapporto con le altre scienze e con la teologia. In questo breve trattato Al-Farabi passa in rassegna tutta la gamma delle scienze note al suo tempo e le classifica sotto otto
rubriche: linguistica, logica, matematiche, fisica, metafisica, politica, giu-
risprudenza e teologia.
5) D. M. AFNAN, Azriceima, Bologna 1969, p. 30. 6) Questo opuscolo è stato ristampato recentemente da Minerva, Frankfurt 1969. Le nostre citazioni sono tratte da
questa edizione.
La
metafisica islamica del Medioevo
Le scienze linguistiche sono divise in due categorie: quelle che trattadell’uso della lingua per tutte le nazioni e quelle che trattano delle regole proprie di una lingua particolare. La logica differisce dalla linguistica, particolarmente dalla grammatica, in quanto tratta dei concetti e delle regole che li governano nonché dei mezzi per prevenire l'errore. Le scienze matematiche comprendono Paritmetica, la geometria, la prospettiva, l'astronomia, la musica, la dinamica e la meccanica. In ognuna di queste scienze c’è una parte teorica e una parte pratica. La fisica e la metafisica occupano un posto di prim'ordine nell’esame che Al-Farabifa delle scienze. La fisica è definita come ricerca dei corpi naturali e degli accidenti inerenti ai corpi. Essa tratta delle cause materiale, formale, efficiente e finale delle cose, e si divide in otto parti fondamentali che corrispondono: alla fisica in generale, all’astronomia, alla meteorologia, alla biologia, alla mineralogia, alla botanica, alla psicologia e alla storia degli animali. La metafisica, detta scienza divina, viene divisa in tre parti principali. La prima tratta degli enti (essenze) e di ciò che li riguarda in quanto enti: «prirrza inquirit de essentiis et de rebus quae accidunt cis secundo quod sunt cssentìa»? Essa corrisponde alla “usiologia" della metafisica aristotelica. La seconda parte si occupa dei principi primi delle scienze della dimostrazione, e confuta gli errori in cui sono incorsi gli antichi per quanto concerne i suddetti principi: «destruit errores qui accidunt antiquìs in prirzcipiis harurn scientiarunbmfl Essa corrisponde alla parte aporetica della metafisica di Aristotele. La terza parte si occupa delle sostanze immateriali, della loro natura, del loro numero, dei gradi della loro eccellenza e culmina nello studio di <
.
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7) AL-FARABI,Opusculum de scientiis, p. 35, 5) IbicL, p. 35. 9) Ibiaî, p. 36.
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Parte seconda
la felicità, mentre la seconda si occupa dei regimi politici più congepratica delle virtù. Due scienze supplementari, la giurisprula denza e teologia scolastica, concludono la classificazione delle scienze. Entrambe vengono descritte assai concisamente. La giurisprudenza è necessaria per determinare le pratiche religiose su cui la legislazione con
niali alla
coranica come
non
si è
pronunciata chiaramente. La teologia viene descritta
l'arte di difendere i
contestano la verità.
dogmi della fede e di confutare coloro che ne
IL SISTEMA METAl-‘lSlCO Al-Farabi ci ha dato un'esposizione completa e dettagliata del suo sistema metafisico nel libro Idee degli abitanti della città virtuosa.” L'opera è divisa in una parte speculativa, quella che riguarda la metafisica, e in una parte pratica, quella sulla la politica e la morale. A noi qui interessa soltanto la prima. L'edificio metafisico che ci presenta Al-Farabi è di stampo nettamente neoplatonico, molto affine al paradigma henologico e triadico di Proclo. Ai vertice della enorme costruzione piramidale si trova l'Uno o Primo. Di Lui Al-Farabi ci offre la seguente descrizione: «Il Primo Esistente è il fondamento dell'esistenza di tutto ciò che esiogni privazione mentre in tutto ciò che è fuori di Lui ogni privazione può aver luogo, una o più. Perciò il Primo ne e libero sotto ogni rapporto. Così la sua esistenza è Plîccellente e il Primo, né qualsiasi altra esistenza può essere più eccellente o anteriore alla sua esistenza. Nell’eccellenza dell'esistenza Egli sta in altissirno luogo, e nella perfezione dell'esistenza occupa il grado più elevato. Perciò ‘e impossibile che alla sua esistenza e alla sua sostanza si
ste. Esso è esente da
rnescoli alcun Non-essere.
E anche impossibile che Egli (il Primo) abbia una esistenza soltanto potenziale e non è neppure possibile in alcuna maniera che Egli non
nell'essenza l’Esistente che dura ab qualche altro che la sua già la sufficienza sostenga esistenza. E assolutamente la la durata della sussistenza sua e per impossibileche vi sia un’esistenza come la sua o che un'altra esistenza abbia un grado come la sua esistenza. Egli è l'esistente che non può in alcun modo avere una causa mediante la uale o dalla quale o per la quale la sua esistenza sia. Poiché egli non a materia (...). Egli non ha neppure forma (...). E neppure la sua esistenza ha un fine o uno scopo. Egli è separato nella sua sostanza da tutto ciò che è fuori di lui».11
esista. Perciò è nella sostanza aeterno
senza
e
eterno abbia bisogno di sussistenza: nella sua sostanza vi è
che per
essere
1°) La traduzione in lingua tedesca è stata curata da Dieterici, Leiden 1900. 11) Ed. Dietetici, pp. 6 s5.
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metafisica islamica del Medioevo
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Dal Primo procede ogni altra realtà. Si tratta di una processione che ha luogo, come nei neoplatonici, per emanazione e non per creazi.one. Uemanazione avviene secondo la dialettica della "manenza”, dell’autocoscienza e della separazione. Così «dal Primo discese l'esistenza del Secondo. Questo Secondo è ugualmente una sostanza assolutamente incorporea che non si trova in una materia. Questa ha intellezione della propria essenza e ha intellezione del Primo. E pertanto ciò che esso intende della propria essenza non è altro che la sua essenza. Con ciò che egli ha intelligenza del Primo, procede da lui necessariamente anche una terza Esistenza e in quanto (il Secondo) si sostanzializza in lui stesso per la persona che gli è propria, ha da lui di necessità esistenza il Primo Cielowî Seguendo la tradizione neoplatonica, nella serie delle emanazioni AlFarabi distingue due piani: il piano immateriale delle Intelligenze, e il piano materiale che abbraccia i quattro elementi, le piante, gli animali e l'uomo. Le intelligenze sono sostanze assolutamente incorporee e non risiedono affatto nella materia. Da ciascuna di esse, quando è «costituita sostanzialmente nella propria essenza» per irradiazione risulta una sfera. Le sfere sono nove: la sfera più esterna o prima sfera, la sfera delle stelle fisse, le sfere di Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, della Luna. Il processo di emanazione termina con Flntelletto Agente, che è la causa dell'esistenza delle anime terrestri da un lato e delle forme delle Cose materiali dall'altro. Nellbntologia Al-Farabi introduce due distinzioni che a partire da Avicenna giocheranno un ruolo importante nella storia della metafisica: la distinzione tra essere necessario ed essere possibile, e la distinzione reale tra l'essenza e l'esistenza. Mentre l'essere necessario esiste necessariamente e non potrà mai non esistere, l'essere possibile può esistere e non esistere. Negli enti creati l'essenza è realmente distinta dalla esistenza, mentre in Dio sono la stessa cosa. Di nessuna di queste due tesi, comunque, dovrebbe essere eccessivamente accentuata l'importanza nel sistema di Al-Farabi,come invece si è fatto talvolta, poiché non costituiscono un elemento fondamentale nelle sue speculazioni, e soltanto quando giungiamo ad Avicenna diventano strutture essenziali della metafisica e svolgono la funzione di distinzione ontologica di capitale valore.”
12) fbicL, p.29. 13) Cf. S. N. AFNAN, op. cit, p. 34.
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Parte seconda
UINTELLETTO UMANO E UIMMORTALITÀ DELL'ANIMA
molteplici accezioni ed attuazioni Al—Farabi ha dedicato un trattatello, Opusculum de intellectu et intelletto,“ che godette di grande fama anche presso gli scolastici latini. L'opuscolo esordisce con un elenco dei principali significati con cui è All'intelletto, in
tutte le
sue
usato il termine "intelletto": «Nomen intellectzts dicitur multis m0dis».15 Al-
Farabi elenca sei significati principali: 1) vi è l'intelletto cui si riferisce l'uomo della strada quando dice che qualcuno è intelligente; 2) vi è l'intelletto di cui parlano i teologi; 3) vi è l'intelletto di cui discute Aristotele negli Analytica Priora; 4) vi è l'intelletto (dei primi principi) di cui Aristotele tratta nel VI libro dell'Etica; 5) Viene poi l'intelletto che Aristotele analizza nel De anima; 6) e c'è l'intelletto (divino) che egli menziona nella sua Metafisica. Non si deve ritenere che questa lista sia intesa da AlFarabi come una classificazionerigorosa, ma è piuttosto una illustrazione dei diversi significati che si possono assegnare alla parola intelletto, ed egli spiega ciascuno di questi in modo abbastanza particolareggiato. Riguardo al quinto significato del termine, che è quello che si incontra nel De anima, seguendo Al-Kindi, egli afferma che Aristotele intende questo termine in quattro sensi diversi: «Aristoteles in libro de Anima, proponit eum quatuor modis. Unus enim est intellectus in potentia. Alias intelletttus in effectu. Alius intellectus adeptus. Alias est intelligentia agens (Aristotele nel libro Sull'Anima propone, infatti, quel termine in quattro significati. Uno, dunque, è l'intelletto in potenza. Un altro l'intelletto in atto. Un altro è l'intelletto acquisito. Un altro è l'intelligenza agente)».16 Secondo Al-Farabi l'intelletto, nell'uomo, non si identifica con l'anima, che è un'entità interamente separata dal corpo, e che nondimeno, in contrasto con la tesi platonica, non può esistere prima di esso, né può trasmigrare mediante la metempsicosi, concezione da cui rifugge la mentalità islamica. In accordo con le tesi aristoteliche, egli insegna che l'anima ha parti e facoltà attraverso le quali agisce e che queste parti e facoltà formano un'anima singola. È l'anima umana che è dotata della facoltà raziocinante, e ad essa vanno attribuiti gli atti che si compiono mediante il nostro cervello. Pertanto l'intelletto è una delle facoltà dell'anima razionale.
14)
Anche questo opuscolo è stato ristampato da Minerva, Frankfurt 1969. Le nostre citazioni sono tratte da
questa edizione.
15) AL-FARABI,De intellectu et intellecto, p. 45. 16) Ibid, pp. 47-48.
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nzetafisicu islarrzica del Medioevo
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L'uomo ha all'inizio un intelletto meramente potenziale che è gradualmente perfezionato fino a che non giunge a contatto con l’Intelligenza Agente che, come si ‘e visto, è l'ultimo essere puramente spirituale nella gerarchia delle Intelligenze che emanano da Dio. Ulntelligenza Agente astrae per noi le forme dalle cose sensibilie, quando essa diventa per noi oggetto del pensiero, il nostro intelletto raggiunge lo stadio dell'intelletto acquisito. Che cosa tutto ciò implichi a proposito dell'immortalità dell'anima umana non è facile a vedersi. Secondo Averroè, Al-Farabi negava completamente l'immortalità personale; Ibn Tofaìl lamenta il fatto che AlFarabi in un'opera sulla morale asserisse che le anime dei malvagi fossero sottoposte ad eterni tormenti, e che in altri scritti sostenesse invece, che tali anime avrebbero cessato di esistere e che solo le anime perfette sarebbero state immortali. Anche tra gli studiosi del nostro tempo non esiste accordo su questo punto. R. Walzer sostiene che Al-Farabi era capace di proporre una dottrina ortodossa a uso e consumo del popolo e di nascondere alle masse le sue autentiche convinzioni.” A parere di F. Rahman, Al-Farabi insegna che solo le anime degli individui intellettualmente colti sopravvivono alla morte del corpo, e questa sopravvivenza è individuale, ossia non c'è assorbimento degli individui
nellîntelligenza Agente.“
Ciò che rimane comunque certo è che, per Al-Farabi, lo scopo principale dell'uomo è quello di diventare simile a Dio, e la via migliore per conseguire questo obiettivo è la speculazione e la contemplazione.
Avicenna VITA E OPERE
Avicenna (Ibn Sina) nacque a Bukhara, nell’Asia centrale, nel 980. Suo padre era un alto funzionario del governo musulmano della dinastia dei Sumanidi. Fu un ragazzo straordinariamente precoce e acquistò
cultura enciclopedica, che spaziava dalla grammatica alla geometria, dalla fisica alla medicina, dalla logica alla metafisica, dalla giuri-
una
sprudenza alla teologia. A 17 anni la sua fama di medico era già così grande che il principe Ibn Mansur, essendo caduto ammalato, volle essere curato da lui e Avicenna riuscì a guarirlo. È da notare che, durante il Medioevo, in Europa Avicenna godeva più fama come medico che Cf. R. WALZER, ”lslamic Culture”, 14 (1940), pp. 347 ss. Cf. F. RAHMANN, Prophecy in Islam, London 1958, p. 23.
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Parte seconda
filosofo: Dante 10 colloca nel Limbo insieme ai grandi medici dell'antichità.” Grazie a questa sua abilità, egli fu ricercato da tutte le corti, come
ebbe onori e titoli di ogni sorta, fra cui quello di viceré. Nonostante tutti questi svariati interessi, Avicenna continuò sempre a occuparsi di filosofia. Lesse con assiduità la Metafisica di Aristotele, senza comprenderne il significato (come racconta egli stesso) fino alla quarantesima volta, allorché finalmente «gli caddero le squame dagli occhi» e poté coglierne il
profondo. Negli ultimi anni della
senso
filosofia ”orientale” o "filosofia della illuminazione”, di tendenza misticizzante di cui abbiamo la prima parte: La logica degli Orientali’. Morì nel 1037 durante la campagna militare al seguito del suo principe. Fece una morte molto edificante, da pio musulmano, nonostante che in vita avesse SPESSO dato cattivo esempio bevendo alcolici e mangiando carni proibite e avesse suscitato le critiche e l'opposizione dei teologi musulmani a causa delle sue teorie filosofiche. Della sua vastissima produzione letteraria, oltre al già citato La logica degli Orientali, ricordiamo le due opere maggiori: il Canone (una enciclopedia medica in cinque libri) e il Kitab al-Sazfa (conosciuto dai medievali sotto il titolo Liber Sujficientiue), un'opera che comprende trattati sulla logica, la fisica, la matematica, la psicologia e la metafisica. LA
sua
vita Avicenna attendeva
a una
METAFISICA: OGGETTO, PROPRIETÀ, DIVISIONE
Alla metafisica oltre all’imponente trattato contenuto nel Kitab al-Saifa (Libro della salute),20 Avicenna ha dedicato altri scritti: Kitab al-Najat (Libro della salvezza)21 che è un ampio compendio dell'opera precedente e Kitab al-Isarat (Libro delle direttive). La prima opera fu tradotta in latino verso la fine del secolo XII da Domenico Gundisalvi (Gundissalinus), che le diede il titolo Liber Sufiicientiae, e che ebbe una Vastissima circolazione tra gli scolastici cristiani. Lo stesso S. Tommaso ne fece largo uso e Duns Scoto ricavo da essa alcuni principi fondamentali della sua metafisica. La nostra breve esposizione del pensiero metafisico di Avicenna si basa sul Szfa e sul Najat.
19) 2°)
31)
Cf. DANTE, Inferno, IV, 143. Di quest'opera M. Horten nel secolo scorso ha curato un'eccellente traduzione in tedesco, ora disponibilein ristampa: M. HORTEN, Die Metaphysik Aziicennas Minerva, Francoforte 1960. Quest'opera è stata tradotta in latino da N. Carame e pubblicata Col titolo Metaphysices Compendiwn, Roma 1926.
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metafisica islamica del Medioevo
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Il Szfa è diviso in dieci trattati, di cui i primi nove sono dedicati alla metafisica mentre il decimo è riservato alla filosofia pratica (etica e so-
ciologia). Il Najat è diviso in due libri, di cui il secondo è assai breve e si occupa del futuro delle anime, del culto e della profezia. Invece il primo, molto più ampio, espone tutti i temi della metafisica, ed è diviso in quattro
parti, per un totale di ben 17 trattati. In entrambe le opere nella parte relativa alla ontologia l'ordine della trattazione ricalca molto dal Vicino la Metafisica di Aristotele: definizio-
dell'oggetto della metafisica, enucleazione del concetto di essere, cause e delle dieci categorie, studio della sostanza e degli accidenti, esame dei concetti di materia e forma, atto e potenza, necessario e possibile. invece quando passa a trattare del principio primo delle cose e della loro origine, Avicenna abbandona la prospettiva ontologica di Aristotele e, seguendo l'esempio di Al-Farabi, fa suo il paradigma henologico dei neoplatonici. Il primo argomento che affronta sia nel Sifii sia nel Najat è l'importanne
definizione delle quattro
la necessità della metafisica. Avicennaricorda che le scienze si dividono in due grandi parti: speculative e pratiche. Compito di quelle pratiche è dare esecuzione a quanto Viene scoperto dalle speculative che sono tre: fisica, matematica e metafisica. La metafisica ‘e necessaria perché tutte le altre scienze si occupano soltanto di alcuni aspetti della realtà o di alcuni determinati esseri; nessuna si occupa dell'essere in quanto tale: «istarum quiderrz nullius proprium est scrutari Entis absoluti dispositiones, quae ipsunz comitantur eiusque principiamî? Avicenna ricorda poi che alcuni filosofi, definendo la metafisica come studio delle cause ultime, le assegnano come oggetto la ricerca di Dio. Ma Avicenna dimostra che l'oggetto formale della metafisica non può essere Dio, perché di Lui è necessario provare l'esistenza, mentre nessuna scienza è tenuta a dimostrare l'esistenza del proprio oggetto. «E infatti impossibileche la dimostrazione dell'esistenza dell'oggetto e la clefinizione della sua natura tocchi a quella scienza, alla quale tale oggetto appartiene quale oggetto formale»? Pertanto, insiste Avicenna, oggetto formale della metafisica è «l'essere in quanto tale e i problemi che riguardano le cose alle quali l'esistenza appartiene necessariamente senza alcuna restrizione>>fl4 za e
22) Melaph. comp. l, p. 2, t. 1 (CARAME, p. l). 23) Szfa 1, 1 (HORTEN, pp. 7-9). 24) una, 2 ([11, p. 20).
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Parte seconda
Ma che cosa si intende per essere? ll concetto di essere, secondo Avicenna, è talmente primigenìo che di esso è impossibilefornire definizioni o descrizioni. L'essere (come l'uno) non può venire definito perché non esiste nessun concetto più generale di quello di essere nei termini del quale quest'ultimo possa venire definito; esso inoltre non può venire descritto perché nulla è conosciuto meglio dell'essere. Le descrizioni, secondo Avicenna, affermano su di una cosa delle proprietà affinché noi possiamo avere qualche conoscenza di essa, quando non conosciamo la sua essenza; ma poiché non c'è nulla di più primigenio dell'essere sul piano della conoscenza, una descrizione che conduca a una conoscenza dell'essere non può essere trovata. «Il concetto di essere sorge nella mente immediatamente... è subito impresso nell'anima, e non si acquista mediante nozioni più note...
perciò non può essere dilucidato mediante qualche cosa di supe-
riore ad
esso senza
cadere in un circolo vizioso».25
Che l'essere sia la nozione primaria è dimostrato da Avicenna in varie maniere. Una di queste, benché non del tutto originale, è elaborata da Avicenna in una personale versione ed è di notevole importanza per la sua psicologia oltre che per la sua metafisica. Si tratta dell'argomento dell"'uomo volante": si supponga che un uomo inizi daccapo la propria esistenza con la pienezza dei suoi poteri intellettivi, però sospeso nello spazio in modo tale che egli non possa percepire nessuna parte del proprio corpo né possa ricevere stimoli da alcuno dei suoi sensi: posto tutto ciò quest'uomo sarebbe ancora a conoscenza del fatto che egli esisteflfv Ciò mostra non soltanto come la conoscenza che l'uomo ha di se stesso non dipende da una precedente conoscenza delle proprie azioni o dalle esperienze sensibili,ma fa vedere anche come il concetto di essere sia effettivamente il concetto primario. Ora, in quanto concetto primario e
"cosa" ecc.) dev'essere definizione. conosciuto senza Possiamo, ovviamente, dire qualche cosa riguardo all'essere e ai concetti di uno, cosa, essenza, possibilità, necessità (i concetti trascendentali) che sono associati all'essere, ma di questi concetti non possiamo dare né una definizione né alcuna descrizione. L’accurata analisi del concetto di essere, della sua assoluta priorità gnoseologica rispetto a qualsiasi altra idea costituisce uno dei principali contributi di Avicenna alla metafisica. Già Aristotele aveva affermato che l'essere in quanto essere è l'oggetto della metafisica, ma non aveva approfondito la questione dell'acquisizionecognitiva del concetto di essere. Su questo punto Avicenna ha dato un apporto fondamentale.
trans-generico, l'essere (come l'uno, come la
25) Ibizi,5 (ID., pp. 44-45). 2°) Cf. Isarat, ed. A. M. GOICHON, Le livre des directives, Paris 1951, pp. 303 ss.
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metafisica islamica del Medioevo
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Ma ciò che egli lascia ancora irrisolta è la questione della natura dell'essere stesso; è la perfezione più comune, come dirà Scoto, 0 la perfezione
dirà S. Tommaso? Avicenna sembra più incline alla versione scotista che a quella tomista. Definito l'oggetto proprio della metafisica Avicenna passa ad illustrale re proprietà di questa nobile disciplina. Essa è la ‘regina delle scienza, in quanto fonda i principi su cui si basano tutte le altre; è la filosofia prima, in quanto «tratta della realtà prima, della causa prima»; è la sapienza per eccellenza, in quanto studia il più perfetto di tutti gli oggetti, Dio e le cause che Vengono dopo di lui, e proprio per questo motivo è anche scienza divina? La metafisica è sommamente utile, anzi necessaria. Infatti è utile tutto ciò che giova al conseguimento della felicità e a ciò contribuisce indubbiamente la conoscenza della Causa Prima, che ‘e la fonte della felicità. Ma la metafisica è utile anche in quanto giustifica i principi delle altre scienze, e questo non è un ruolo ancillare bensì l'aiuto di una guida sicuraflîi Assumendo come fondamento della divisione Pimmaterialità degli oggetti studiati, Avicenna divide la metafisica in quattro parti: la prima studia gli oggetti assolutamente immateriali (Dio e gli angeli); la seconda, gli oggetti che sono di per sé immateriali ma che si trovano in rapporto con gli oggetti materiali in quanto loro cause (le sfere celesti); la terza, gli oggetti che si possono realizzare sia nella sfera immaterialeche in quella materiale (sostanza e accidenti); la quarta, gli oggetti che esistono soltanto nella materia, ma che possono essere considerati anche in astratto dalla materia (moto e quiete)” suprema
come
LE CATEGORIE E LE
STRUTTUREDELIJEssERE
Avicenna dedica alcuni trattati del Sifa (II-V) allo studio delle categorie e delle strutture dell'essere. La prima divisione che egli prende in esame è quella tra sostanza e accidente. Come Aristotele, Avicenna sostiene che ogni essenza che non inerisce in un soggetto è sostanza e ogni essenza che è inerente a un soggetto è accidente. La sostanza può essere materiale o immateriale. La sostanza immateriale è ovviamente preminente rispetto ad ogni altra sostanza. La sostanza materiale è composta di materia e forma. Nella scala dell'essere la forma è superiore alla materia in quanto è più reale.
27) 23) 29)
Cf. Sifa I, 2 (HORTEN, pp. 23—25). Cf. ibid, (ID, pp. 28-35). Cf. ibid., (ID., pp. 25-28).
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Parte seconda
può spogliarsi della "forma materiale” e rimasua stessa esistenza è quella di ciò che è suscettibiledi ricevere, proprio come quella dell’accidente è l'esistenza di ciò che è suscettibiledi essere ricevuto. La forma è quanto conferisce unità a una porzione di materia e dipende dalla disposizione. La materia corporea
nere
non
pertanto separata, dal momento che la
Data la distanza ontologica che separa la forma dalla materia Avicensostiene che nessuna delle due può essere causa dell'altra. La materia non può essere causa della forma, poiché è soltanto in potenza a ricevere la forma e ciò che è in potenza non può divenire la causa di quanto è in atto. Inoltre se la materia fosse causa della forma dovrebbe essere anteriore ad essa essenzialmente, e noi sappiamo che nella gerarchia dell'essere la materia non gode di tale priorità: onde non vi è possibilità alcuna che essa ne sia la causa. A questo punto Avicenna distingue tra na
forma separata e forma materiale particolare. L'assunzione di una forma particolare da parte della materia, avviene per opera di una forma separata, l’Intelletto agente: la decima intelligenza che svolge tra l'altro anche la funzione di ”Datore delle Forme”, noto agli Scolastici sotto il nome di Datorformarum. Viene poi l'importante distinzione aristotelica tra atto e potenza. Sono questi i due concetti che Aristotele introdusse per spiegare il fenomeno del divenire, il quale sarebbe impossibile se tutto fosse sempre in atto oppure sempre in potenza. Infatti il divenire è un passaggio dalla potenza a1l’atto: e si dà divenire finché la potenzialità di una cosa non è interamente attualizzata. L'atto, insegna Avicenna con Aristotele, ha priorità sulla potenza. Dio è in atto e così pure la forma; la materia invece è in potenza.
ESSENZA-ESISTENZA, NECESSARIO-POSSIBILE sua indagine metafisica Avicenna introduce svolgono un ruolo fondamentale nel suo sistema, e che rappresentano anche un apporto molto importante per i futuri sviluppi della storia della metafisica, specialmente in S. Tommaso e Duns Scoto. Si tratta rispettivamente delle distinzioni tra essenza ed esistenza, e tra necessario e possibile.
A
questo punto della
due distinzioni che
Essenza ed esistenza I concetti di
ed esistenza erano già noti a Platone, Aristotele e di loro li aveva utilizzati come strutture Neoplatonici, della metafisica. Al-Farabi, come si è visto, è il primo filosofo portanti che dà risalto a questa distinzione, ma senza trarre tutte le importanti implicazioni metafisiche che essa contiene. Il merito di avere fatto della ai
essenza
ma nessuno
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distinzione tra essenza ed esistenza uno dei fondamenti della metafisica dell'essere spetta ad Avicenna. Egli ne tratta a lungo in tutte le sue opere filosofiche, ma in modo particolare nel Sifiz. Ecco alcuni passi importanti. «Essere e cosa (res, essentia) sono concettualmente presenti nell'anima e formano due concetti distinti (...). Ogni cosa possiede un'essenza reale, grazie alla quale essa è ciò che è. Così il triangolo ha una reale essenza: l'asse triangulunz; parimenti, il colore bianco: l'asse album.
Spesso noi designiamo questo come un essere particolare, senza tuttavia includervi l'idea di esistenza; poiché l'espressione "esistenza" abbraccia molte altre idee, per esempio, l'essenza concreta, che costituisce il contenuto della cosa».30
«C'è differenza tra l'idea di ras e di esistenza, poiché una cosa può semplicemente essere, mentre l'esistenza è. La loro relazione è analoga a quella che c'è tra una cosa e i suoi accidenti. Questa differenza l'abbiamo già incontrata nella logica; ma diamoci ancora uno sguardo, prendendo come esempio l'uomo. Ora, l'uomo rappresenta un'essenza reale, che costituisce la sua definizione e 1a sua quiddità, senza tuttavia indicare la condizione della sua esistenza, individuale oppure universale, nell'individuo concreto oppure nell'anima pensante, ossia
se esista nella forma di realtà».31
semplice possibilista oppure
«Tutte le cose, all'infuori dell'essere
vero e
di effettiva
necessario hanno
essenze
che si trovano nella condizione di meri entia possibilia. Un'esistenza reale giunge loro soltanto dall'esterno. Nell'essere primo non c'è nulla che possa essergli aggiunto. Le altre cose sono essenze che ricevono
l'esistenza da Lui mediante l'emanazione>>.32
questi testi risulta chiara l'intenzione di Avicenna di porre una distinzione tra essenza ed esistenza: si tratta di due dimensioni distinte dell'essere. L'essenza riguarda ciò che una cosa è, l'esistenza riDa
netta
guarda il suo modo di essere. Ma per esistenza Avicenna non intende l'atto d'essere, come lo concepirà invece S. Tommaso, bensì appunto il modo d ’essere, che può essere duplice, cioè necessario o possibile. Avicenna osserva che alcune caratteristiche appartengono alla natura di una cosa in quanto costitutive della sua natura, mentre altre vi appar» tengono come proprietà che sono connesse logicamente a tale natura.
30) lbid., l, C. 5 (ID., p. 48). 31) lbid., Vl, 3 (ID., p. 392). 32) lbid., VIII, 4 (ID., p. 503).
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Ma dalla definizionedella natura di una cosa non si può scoprire se essa esista oppure no, ossia se sia concretamente realizzata. Una natura 0 essenza è semplicemente ciò che essa è, e noi non possiamo sapere qualora conosciamo solamente questo "che cosa" se essa sia concretamente realizzata oppure no. Quindi, poiché il fatto che esista qualcosa di un certo tipo è differente dal conoscere che cosa sia la sua natura, Avicenna sostiene che l'esistenza è estrinseca nei confronti dell'essenza. Ciò a sua volta per Avicenna, implica che le cose la cui essenza e la cui esistenza sono in tal modo distinte richiedono una causa che dia l'esistenza a una tale essenza, chela porti cioè all'essere concreta. Dire che l'esistenza è esterna nei confronti dell'essenza sembra equivalente a trattare l'esistenza a guisa di accidente. Ma non è del tutto certo che questa sia l'intenzione di Avicenna. Inoltre che cosa egli intenda per esistenza resta in qualche modo oscuro. È vero nondimeno che Avicenna ripetutamente afferma nelle sue opere filosoficheche l'esistenza è un attributo accidentaledella essenza.
Necessario e possibile La seconda importante distinzione che Avicenna introduce nell’ontologia è quella tra essere necessario ed essere possibile. I concetti di necessario e possibileerano ben noti ad Aristotele, che li aveva definiti con precisione nella Metafisica, ma in Aristotele non erano diventati strutture polari come invece materia e forma, atto e potenza. Necessità e possibilità sono concepite da Avicenna come due supreme modalità dell'essere: l'essere si suddivide in essere necessario ed essere possibile;non esistono altre modalità, tranne quella del non essere. Ecco le chiare definizioni di questi due concetti che Avicenna propone nel Najat: «L'essere necessario è quell'ente che se viene considerato come non esistente implica contraddizione. Mentre l'essere possibile è quello che sia che si supponga che esista sia che non esista non per questo sorge contraddizione.L'essere necessario è quello che esiste necessariamente. L'essere possibile, invece, è quello che non comporta assolutamente alcuna necessità, cioè né quanto alla sua esistenza, né quanto alla sua non esistenza>>.33 L'essere necessario, vale a dire "ciò che necessita l'esistenza", è quell'essere la supposizione della cui non-esistenza implica contraddizione, laddove nel caso di un essere possibile nessuna contraddizione risulta sia che supponiamo che esso esista, sia che supponiamo che non esista.
33) Metaph. comp. l, p. 2, t. L, c. 1 (CARAME, pp. 60-61).
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più ampia è la trattazione che Avicenna riserva a queste due modalità dell'essere nel Szfa, dove egli esamina accuratamente le loro specifiche caratteristiche. Le caratteristiche dell'essere necessario sono così riassunte: «L'essere necessario per sé: 1) non ha nessuna causa; 2) ‘e necessario sotto tutti i punti di vista; 3) non c'è altro essere che sia pari ad esso nella sua esistenza, di modo che ciascuno di essi sarebbe eguale all'altro rispetto alla necessità dell'esistenza, e in tal modo verrebbero a condizionarsi reciprocamente; 4) l'esistenza dell'essere necessario non può essere il risultato della somma di una moltitudine di esseri; 5) l'essenza dell'essere necessario non può affatto essere di natura universale. Da tutte queste tesi risulta che l'essere necessario non può avere carattere relativo, né mutevole, né molteplice, né universale».34 Per contro le caratteristiche dell'essere possibile sono le seguenti: «L'essere possibile richiede un'altra realtà per essere immesso nell'esistenza. Ogni ”essere possibile" rispetto alla sua esistenza resta sempre soltanto un possibile.E tuttavia talora può accadere che grazie a un altro la sua esistenza divenga necessaria. Questa, la necessità dell'esistenza ab all'0, è una qualità accidentale che gli può essere data in modo permanente oppure per un tempo determinato. Nel secondo caso si tratta di un essere materiale>>fi5 Come risulta anche dai testi citati, nell'ambito dell'essere necessario Avicenna distingue l'essere necessario per sé e l'essere necessario per causam. Il necessario per causam è il possibile. Questo diviene necessario dal momento in cui è portato all'esistenza a causa di un ente che è assolutamente necessario. Da tutto ciò sembra seguire che tutto quanto esiste ed è causato è possibilein se stesso, ma necessario in virtù della sua causa e così, almeno sembrerebbe, nell'universo di Avicenna non è presente nessuna reale contingenza. Molto
LE QUATTROCAUSE
Avicenna dedica il VI Trattato del
Sifa allo studio delle quattro capitolo sulle cause è un altro passo preliminare ma indispensabile alla costruzione dell'edificio metafisico. Questo oltre che degli strumenti concettuali specifici della ontologia, come il concetto dell'es-
causefiò Il
sere, la divisione dell'essere in sostanza e accidenti, essenza ed esistenza, necessario e possibile ecc., necessita anche di una metodologia (me-
34) Szfa I, 6 (HORTEN, pp. 61-62). 35) Ibid, 7 (ID., pp. 76-77). 35) La sintetica esposizione si trova nel Metaphysices Conzpendium (IV Trattato della Prima Parte del Libro Primo).
358
Parte seconda
taforicamente immaginabilecome una scala oppure una nave) che renda possibile superare i limiti, i confini della pura sensibilità empirica di questo mondo, per raggiungere il mondo che sta al di là (intelligibile, immateriale, eterno). ll mezzo adeguato è individuato nella teoria delle cause, in special modo della Causa efficiente e della causa finale. Avicennafa sua la dottrina aristotelica delle quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. «La causa si predica dell'agente... e la causa si predica della materia... e la causa si predica della forma... e la causa si predica del fine... e ciascuna di esse può essere 0 prossima o remota... essa è 0 in potenza o in atto. È universale 0 individuale... è per essenza o per accidente»_37 Avicenna tende a suddividere ancora in due ciascuna delle cause che formano la coppia causa materiale-causaformale. Divide la causa materiale in materia del composto e materia del sostrato; la causa formale è poi da lui divisa in forma del composto e forma della materia prima. Questo ha indotto taluni a ritenere che per lui si dessero sei cause; in realtà egli afferma nel Srfa che le cause sono quattro. Come per Aristotele, per produrre un effetto si richiedono tutte le quattro cause, e l'effetto segue necessariamente dalle cause. Questo atteggiamento deterministico è, come abbiamo osservato, uno dei tratti essenziali del sistema di Avicenna. La causa finale, insiste Avicenna, anche se cronologicamente viene per ultima, assiologicamente è la più importante e Viene per prima, poiché «l'agente principale e il motore principale in ogni cosa ‘e il fine: il medico agisce per il risanamento della salutami!‘ Tesi fondamentale di Avicenna e di capitale importanza per ogni metafisica di stampo trascendentistico, ‘e che in nessun genere di cause è possibile un regresso all'infinito, perché in tal modo non si darebbe conto della origine di una cosa. Per quanto riguarda la causa efficiente egli non esclude che a livello orizzontale ci possa essere una successione infinita di agenti (per esempio nella catena di padri e figli), ma afferma che ciò è impossibilelivello verticale. Qui dev'esserci una causa prima, perché dalla sua efficienza dipendono tutte le altre cause. Quindi sul piano del divenire la sequenza delle cause può essere infinita, ma non sul piano dell'essere: l'essere da cui procedono tutte le cose è l'essere
necessario, causa prima e causa suprema.”
37) Metaph. comp. I, p. 1, t. 4 (CARAME, pp. 34-35). 33) Sifa VI, 5 (HORTEN, p. 430). 39) Cf. ibid., v1, 1 (ID., p. 368).
La
metafisica islamica del Medioevo
359
cause efficienti Avicenna distingue, come farà S. Tommaso, tra univoche e cause equivoche. Le cause univoche sono quelle che
Nelle cause
producono effetti che possiedono la stessa natura della causa (p. es. il fi-
glio rispetto al padre). Le cause equivoche sono quelle i cui
effetti sono "essenzialmente" diversi dalla causa (per es. la statua di marmo rispetto allo scultore). Dio appartiene all'ordine delle cause equivoche: da qui l'infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle creature.”
UESISTENZA DI DIO, UESSERE NECESSARIO PER SÉ
questo punto Avicenna dispone ormai dell'impianto concettuale e speculativo necessario, per tentare la grande scalata metafisica e per dare il Via alla seconda navigazione. L'attrezzatura che Avicenna ha predisposta per questa difficile operazione proviene quasi interamente da Aristotele. Sennonché per compiere la grande impresa Avicenna cambia completamente registro: dal registro ontologico di Aristotele, egli passa al registro henologico dei neoplatonici. E in effetti, tutto il suo discorso su Dio, sulla creazione, sull'ordine delle creature calca pedissequamente le orme di Plotino e di Proclo. In questo modo Avicenna realizza la sintesi più geniale fino a quel tempo realizzata del platonismo e dell'arist0telismo. L'argomento principe con cui Avicenna Cerca di provare l'esistenza di un Essere necessario è tratto dall'esistenza degli esseri possibili. Ecco come egli formula l'argomento nel Najat: «Tutto ciò che è (onzne esse) è un essere necessario oppure possibile. Se è assolutamente necessario, allora abbiamo già provato ciò che si voleva, ossia che esiste un essere assolutamente necessario. Se invece supponiamo che si tratti di un essere possibile, allora possiamo dimostrare che l'esistenza di qualsiasi cosa che in se stessa è possibile alla fine deriva la A
essere una
sua esistenza da un essere necessario. Infatti, non ci può sequenza infinita di cause possibili responsabile di tutto
l'ordine dei possibili(...). Perciò, poiché ogni essere possibilerichiede causa, dobbiamo alla fine assumere un essere necessario, il quale causi tutti gli esseri che in se stessi sono meramente possibili. Questa causa dans esse è estrinseca alla totalità dei possibili ed è un essere necessario per sé (necesse esse per se). Così tutti i possibili sono ridotti ultimamente alla causa che è l'essere necessario. Pertanto per quanto una
attiene i possibilinon può esserci
una causa
40) Cf. ibid, 6 (Io., p. 392). 41) Metaph. comp. I, p. 2, t. 2, c. 1 (CARAME, pp. 91-93).
possibilein infinitumwt‘
360
Parte seconda
Oltre
a
questa celebre prova specificamente avicenniana, basata sulla
contingenza ontologica del possibile, di una realtà cioè che in se stessa può essere e non essere, e pertanto non ha nessun diritto all'esistenza, nel Najat il nostro filosofo adduce altri due argomenti meno originali ma pur sempre importanti nell'incedere metafisico: uno si basa sulla causalità efficiente e l'altro sulla causalità finale.
L'argomento della causalità efiiciente fa vedere che ogni effetto esige una
che tutte le cause che incontriamo in questo mondo sono cause finite. Pertanto per queste cause è necessario ammettere altre cause. Ora, nell'ordine delle cause il regresso ad infinitum è impossibile. Dunque, è necessario concludere che la causa di tutte le cause è una causa assolutacausa e
mente primaflî
L'argomento della causalitàfinale muove dalla constatazione che in questo mondo esistono dei fini; ora, si può osservare che la catena dei fini non può essere infinita. Pertanto esiste un fine ultimo. Tale fine a cui tutte le cose aspirano e che è la causa della loro perfezione (causa perfetttionis) è Dio.43 GLI ATTRIBUTIDI DIO E IL SIGNIFICATO DEI NOMI DIVINI Nel Sifa, dimostrata l'esistenza dell'Essere necessario, Avicerma procede a un accurato esame degli attributi che caratterizzanola sua natura e del significato dei nomi divini. C'è anzitutto una lunga serie di attributi negativi: unicità (il Primo è assolutamente unico), individualità (non rientra in nessun genere e in
specie), identità (senza distinzioni), semplicità (senza composieternità (senza sequenze temporali), infinità (senza limiti), autozioni), nomia (senza condizioni e privazioni). Riassumendo i risultati di questa analisi degli attributi negativi Avicenna scrive: «È stato quindi dimostrato che l’Essere primo non ha genere né essenza (specie), né qualità, né quantità, né ubi (luogo), né quando (tempo), né qualcosa di simile a lui o identico o contrario. Egli è molto al di sopra (rispetto a queste qualità). Perciò di lui non si può dare nessuna definizione: la sua essenza è indimostrabile. Mentre egli costituisce la dimostrazione di ogni altra realtà. Della sua esistenza possediamo chiari indizi (demonstratio per effectum) ma non può essere dedotta da principi superiori. Se hai scrutato a fondo la sua essenza ti sei reso conto che accanto all'idea dell’individualità ci nessuna
42) Cf. Sifa VIII, 1 (HORTEN, p. 475): per alcune citazioni si è ritenuto opportuno rifarsi anche al Sifa che è un ampio compendio del Najat (N.d.R.). 43) Cf. ibid, 3 (ID., pp. 493-494).
La
sono
soltanto
nzctafisica islamica del Medioevo
negazioni di attributi che impediscono di
361
stabilire una
somiglianza tra Dio e le creatura.“ Vengono poi gli attributi positivi, che Avicenna cerca di determinare ricorrendo al criterio delle perfezioni assolute, già usato da Al—Farabi. Infatti, l’Essere necessario possiede un'esistenza perfettissima. Alla sfera delle perfezioni assolute appartiene anzitutto la conoscenza. Questa è una proprietà degli esseri immateriali poiché immaterialità e conoseibilità sono la stessa cosa. Ecco un bel passo del Najat in cui Avicenna formula questa tesi: «Tutto ciò che per sé è privo di materia e degli accidenti della materia è di per sé intelligibile.Ora, il primo, che è
per sé necessario, è per se’ libero dalla materia e dalle sue appene dagli accidenti. Perciò l’essere necessario, in quanto è un'entità priva di materia, è intelligenza; e nella misura in cui in esso si considera che la sua entità è trasparente a se stessa, è intelligibilealla sua essenza; e secondo che si considera che la sua essenza è una certa entità immateriale, conosce se stessa. Infatti, conosciuto è ciò la cui quiddità è trasparente per una cosa».45 Dio, suprema intelligenza ed intelletto purissimo, contempla se stesso e contemplando se stesso conosce anche tutte le cose che procedono da Lui, però non conosce i singoli perché la loro esistenza non è necessaria, ma soltanto gli universaliflò Altra perfezione assoluta che compete a Dio è la bontà. Questa è definita con Aristotele come «ciò cui ogni cosa aspira». Ora, ciò verso cui ogni cosa tende è la pienezza dell'essere. Ma tale pienezza, come è stato dimostrato, appartiene all’Essere necessario: quindi Egli è somma bontà.” Viene poi la (rarità: «]’Essere necessario è sempre la Verità per essenza e l'ente possibile è Vero in Virtù di qualcosa di altro da sé». Ciò che è necessario per essenza «è pura verità, perché la realtà di ogni altra cosa è la particolarità della sua esistenza».48 Un attributo di Dio, molto caro a tutti i platonici ed anche ad Avicenna è quello della bellezza, a cui egli associa immediatamente, come fa Platone, quello dell'amore. Ecco il. bel testo del Najat in cui egli illustra questi attributi: «Non è possibileche vi sia una bellezza o una chiarezza superiore o più eccellente di. quanto la quiddità sia puramente intellettuale, puramente bontà e assolutamente priva di ogni imperfezione e una sotto ogni aspetto. Ora, l'essere necessario ha una bellezza pura e essere
dici
44) 11nd,, 5 (ID., p. 514). 45) Metaph. comp. I, p. 2, t. 3, c. 1 (CAKAME, p. 112). 46) Cf. Szfa VIII, 6 (HORTEN, p. 532). 47) Cf. ibicL, (ID., pp. 515-516). 48) Ibid., (ID., pp. 516-517).
362
Parte seconda
chiarezza pura ed è principio di qualsivoglia proporzione giusta. Infatti ogni giusta proporzione che consiste nel coordinamento del molteplice o nella complessità di un organismo, costituisce l'unità nella molteP licità, e la bellezza di ‘lualunq ue cosa e la chiarezza sono ciò che la cosa deve essere. Quanto è grande, allora, la bellezza di colui che è così come necessariamente è. Dunque, ogni bellezza e tutto ciò che conviene ed è riconosciuto come bene è oltremodo piacevole».49 Dio è amore e il suo amore non abbraccia soltanto se stesso ma anche tutte le cose che procedono da lui. Però, osserva Aviccnna, l'ordine dell'universo è oggetto dell'amore di Dio per accidens. Egli non è attratto dalle cose, amandole, perché questo comporterebbe passività rispetto all'oggetto amato. Ma dal suo amore e dalla sua volontà le cose derivano ìl loro essere.“ Perfezione assoluta è anche la vita: essa appartiene primariamente e principalmente all'Essere necessario.“ In Dio tutti questi attributi non designano facoltà o proprietà distinte come in noi: in lui sono la stessa, identica cosa. Così in Dio il conoscere non è diverso dal Volere, né il volere è diverso dal potere, né la verità è diversa dalla vita. Tra tutti questi attributi c'è soltanto una distinzione concettuale, legata al modo prospettico del nostro conoscere che non può afferrare con un unico sguardo alcuna realtà, tanto meno la realtà di Diofil Come in tutti i neoplatonici anche in Avicennac'è una teologia apofatica (negativa) ed una teologia catafatica (positiva), con una chiara supremazia della prima. Così quando Avicenna passa a chiarire il significato dei nomi divini, egli dice che è lecito attribuire nomi come vita, bontà, conoscenza, verità ecc. a Dio perché si tratta di perfezioni assolute di cui sono dotate anche le creature e che, perciò, non possono mancare a|l'Essere necessario. Però allo stesso tempo dobbiamo correggerle in senso negativo, in quanto il loro modo di realizzarsi in Dio ci è assolutamente ignoto. Ecco quanto scrive Avicenna a questo proposito: «Diciamo per esempio che Dio è dotato di volontà, con questo indichiamo soltanto che l'Essere necessario... è il principio primo dell'ordine dell'intero universo del bene. Così questa idea è composta di una relazione e di una negazione. Si afferma di lui che è elargitore disinteressato dell'essere: anche qui abbiamo una determinata relazione con una negazione, la quale consiste nell'escludere che egli persegua qualche oggetto come una
4°) Metaph. comp. I, p. 2, t. 3, c. 2 (CARAME, pp. 115-116). 5°) Cf. Szfa VIII, 7 (HoRTEN, p. 530). 5‘) Cf. ibid, (ID, p. 535). s2) Cf. ibid, (ID., p. 53s).
La
metafisica islamica del Medioevo
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fine. Si afferma che è (vero) Bene: con questo si Vuole indicare soltanto la circostanza che questo Essere è libero da qualsiasi mescolanza che comporti potenzialità o carenza d'essere. Ma questa è una negazione. Oppure si vuole indicare la circostanza che l'Essere necessario è la causa prima di ogni perfezione ed ordine, e anche qui si tratta di una relazione».53
Questo modo di intendere i nomi divini 0
come
relazioni
o come
negazioni, privandoli di un significato proprio e diretto, è conforme alla
dottrina avicenniana della trascendenza divina e della inconoscibilitàdi Dio: dottrine anche queste tipicamente neoplatoniche.
ORIGINE E ORDINE DELUUNIVERSO Nel IX trattato del Sifa Avicenna affronta l’arduo problema dell'origine e dell'ordine del cosmo. Qui egli cerca di comporre la spiegazione biblica e coranica della creatio ex nihilo con la spiegazione neoplatonica della emanazione. Egli giustifica l'uso del termine creazione affermando che le cose hanno origine dal nulla e non da qualche cosa di preesistente: unica causa di tutti gli enti è l’Essere necessario. Ma poi afferma con Aristotele e i neoplatonici l'eternità del mondo e concepisce la sua origine come una necessaria fuoriuscita dall’Uno. Le cose promanano dall’Uno non per un suo disegno e per una libera scelta della sua Volontà, ma perché «nella sua natura non esiste nessun impedimento né opposizione della sua volontà alla fuoriuscita delle creature dal suo essere. La sua stessa essenza sa che la perfezione e la grandezza del suo essere ‘e tale che il bene straripa fuori di lui. Questo è un necessario destino della sua maestà, la quale costituisce l'oggetto per se del suo amore»?! Dio è certamente cosciente di se stesso, della sua bontà e quindi di tutto il flusso degli enti che derivano da Lui; ma il costituirsi degli enti nella loro individualità e nell'ordine gerarchico secondo il grado di perfezione da essi posseduto, non dipende tanto da Dio quanto dall'autoco— scienza degli enti stessi. Della dottrina della creazione in Avicenna non è rimasto più nulla: essa viene completamente sostituita dalla dottrina dell'emanazione, e Yemanatismoavicenniano è di stampo strettamente plotiniano. Inoltre è plotiniana anche la concezione della struttura del cosmo.
53) rara. (ID., p. 53s). 54) una, 1x, e (ID, pp. 595-596).
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Parte seconda
Come Plotino, Avicenna suddivide l'universo in due grandi ordini: uno superiore costituito da realtà immateriali e intelligibilie l'altro inferiore fatto di realtà materiali e sensibili.Sul confine tra questi due mondi si trova l'uomo, che con l'anima appartiene all'ordine superiore e col corpo a quello inferiore. Secondo Yimpostazione plotiniana, anche per Avicenna la prima creatura è il Nous, la prima Intelligenza. Seguendo il principio ex uno non-
nisi ctmum per cui una singola causa semplice non può avere che un unico effetto, Avicenna sostiene che dall’Essere primo non può procedere che un unico essere. La pluralità è dunque il risultato di una differenziazione che si manifesta nel primo degli esseri emanati. Poiché è interamente libero dalla corporeità, esso sarà un Intelletto (ossia una Intelligenza). Anche Dio è intelligenza, ma in Lui il conoscente, il conosciuto e il conoscere sono una cosa sola. Per contro, nella prima intelligenza emanata è presente una molteplicità intrinseca. Infatti, per il fatto stesso che questa Intelligenza pensa alla sua Sorgente, si autopone come Intelligenza distinta da essa. Pensando se stessa come necessaria (in virtù del fatto che essa è necessariamente emanata dall’Essere assolutamente Necessario), emana l'anima (forma) della sfera celeste più esterna, e pensando se stessa come possibile (poiché tutto eccetto Dio è, in se stesso, soltanto possibile)emana il corpo della sfera celeste più esterna.55 Dalla prima Intelligenza Avicenna fa derivare altre nove Intelligenze tutte strutturate allo stesso modo, in forma triadica, e quindi dotate, oltre che di intelligenza, anche di anima e di corpo (materia). Cosi la seconda Intelligenza ‘e allo stesso tempo anima e corpo della seconda sfera (la sfera delle stelle fisse). Analogamente vengono prodotte le Intelligenze, le anime e le sfere dei cinque pianeti, del Sole e della Luna. Dall’Intel1igenza che ha generato la sfera della Luna deriva un'ultima Intelligenza che è troppo lontana dalla Sorgente dell'esistenza per generare un’altra Intelligenza. Ciascuno stadio di questa gerarchia ‘e, per così dire, causalmente più debole di quello precedente, cosicché all'ultima Intelligenza manca il potere di produrre un'altra Intelligenza. Tuttavia alla decima Intelligenza, l'Inte1letto agente, Avicenna assegna un duplice importantissimo compito: imprimere le forme nella materia e le idee nell'anima razionalefifi Ma perché il processo non si sviluppa indefinitamente, creando sempre nuove e ulteriori intelligenze e sfere? Ciò avviene perché il mondo è finito, e la serie delle emanazioni si ferma là dove il mondo non richiede più delle intelligenze, e dove l'ultima presiede alla generazione e alla
55) 56)
Cf. ibid. (ID., pp. Cf. ibid. (ID, pp.
597-598). 602-604).
La
metafisica islamica del Medioevo
365
corruzione degli elementi. Sebbene, «secondo il pensiero del primo mae(cioè Aristotele)» le sfere fossero cinquanta e più e l'ultima di esse fosse l'intelletto agente, per Avicenna, che in astronomia preferisce Pitagora ad Aristotele, sussistono solo dieci Intelligenze oltre alla Causa prima. Nella prospettiva metafisica di Avicennala ragione degli intermediari tra Dio e il mondo (le dieci Intelligenze) è alquanto diversa da quella di Platone e dei neoplatonici. Per costoro gli intermediari svolgono principalmente una funzione ontologica: essi rendono possibile la partecipazione al mondo ideale. Invece per Avicennala loro funzione è soprattutto dinamica: essi causano e regolano il movimento (divenire) dell'universo. Secondo Avicenna Dio è causa dell'essere ma non del divenire. In quanto Essere necessario, che permane sempre eguale a se stesso, Egli non può direttamente dar vita al movimento. Il primo motore è il Nous, la prima Intelligenza: «Il principio psichico è la causa prossima del movimento. Questo principio psichico cambia continuamente nelle sue rappresentazioni e nelle sue decisioni volontarie. Questo principio psichico è l'attuazione (entelecheia) e la forma essenziale della sfera celeste»? stro
LA PROVVIDENZA E
IL MALE
capitale problema della provvidenza e del male, già preso in seria neoplatonici e dai filosofi cristiani, Avicennariserva due trattazionì nel Szfa rispettivamente nel capitolo quinto del VI trattato e nel capitolo ottavo del IX. Con Plotino e con Agostino Avicenna sostiene che causa del male non può essere l’Essere necessario, che è il sommo bene. Il male non è neppure prodotto dal caso. La sua tesi afferma che la radice ultima del male è la materia. Ma andiamo con ordine, seguendo le considerazioni del nostro autore, il quale inizia la sua trattazione definendo il concetto Al
considerazione dai
di Provvidenza, che è il seguente:
«Ora che siamo arrivati a questo
punto dell'esposizione, è naturale
che noi parliamo della Provvidenza di Dio. Da quanto fu fin
qui
dimostrato, risulta indubbiamente chiaro che le cose del mondo cele-
ste non certo per cagione di noi possono espletare le loro operazioni o, detto in breve, che gli spiriti di quel mondo abbiano cura di ogni
(di questo mondo) o siano spinti da un motivo imponente loro scelta determinata. Le operazioni meravigliose che avvengono nell'universo, le parti del cielo, le piante, gli animali, tu non le puoi cosa
una
57) lbial, 4 (ID., p. 566).
366
Parte seconda
negare in alcuna maniera. Tutto ciò non può accadere a caso, ma richiede una Guida del mondo. Devi perciò sapere che la Provvidenza di Dio consiste in ciò che il Primo Essere con la sua propria essenza conosce l ’esisten te secondo l'intero ordine del bene su cui esso è fondato, e che Dio è per se stesso la causa del bene e della perfezione in quanto ciò è possibile. Egli inoltre ha compiacimento nel bene conosciuto, nella maniera dimostrata, e pensa perciò l'ordine del bene nella maniera più perfetta e completa che è possibile. Perciò sgorga da lui ciò che pensa, in un ordine determinato e secondo la forma del bene nella maniera più perfetta che egli pensa ed in una emanazione che nella più perfetta maniera induce l'ordine, in quanto ciò è possibile.Questo è ciò che si intende quando si parla della Provvidenza divinrhx“ La Provvidenza di Dio che si esercita attraverso le creature superiori non è pertanto una cura particolare ma solo un modello di ordine che si riversa nell'universo (che non è altro che lo stesso mondo pensato da Dio), il quale confermandosi a questo modello è appunto ordinato. Il concetto che Avicenna ha della provvidenza è legato alla sua concezione
deterministica dell'agire divino: Dio non opera scelte; ‘e sintomatico che
parlando della Provvidenza Avicenna faccia riferimento esclusivamente al pensiero divino, ignorando totalmente la volontà di Dio. Così la provvidenza di Avicenna e un puro conoscere ma non un prendersi cura: Egli conosce l'ordine delle cose, che non può essere che buono, poiché è
frutto della sua bontà. Ma allora come si spiega il male? Avicenna ricorda che si danno varie accezioni del male: male come mancanza, come dolore, come ostacolo ecc. Essenzialmente il male è sempre una privazione, mai una sostanza: «oggetti che sono cattivi secondo l'intera loro natura o nei quali è cattiva la parte maggiore della loro natura o anche quelli in cui il male ed il bene si bilanciano, non si danno».59 La causa del male può stare sia dalla parte dell'agente (per es. un cattivo chirurgo); sia dalla parte della materia, e la cattiva disposizione della materia costituisce la causa principale del male.“ Il male, secondo Avicenna, può riguardare soltanto i singoli individui, mentre gli elementi primi, i generi, le specie non sono soggetti a corruzione. Per es. muoiono i singoli cavalli, ma la specie del cavallo non muore mai.“
55) Ibid, 8 (ID., pp. 617-618); il corsivo è nostro. 59) una, (lo, pp. 620-621). w) Cf. ibid. (m, pp. 627-628). m) Cf. ibid. (ID., pp. 622-623).
La
nzetafisica islamica del Medioevo
367
All’obiezioneche all’Ordinatore del cosmo sarebbe stato possibile produrre il puro bene senza alcun male, Avicenna replica che ciò non può accadere nel mondo sublunare, dove il bene non può escludere il male, e la presenza del male non può costituire una ragione per impedire all’ordinatore del mondo di produrre quel grandissimo bene che è questo mondo. Ecco le testuali parole di Avicenna: «Perché la cattiva natura non viene assolutamente impedita nelle cose in modo che tutta la natura risulti buona? A ciò si può rispondere: in questo caso la natura della cosa non potrebbe essere questa determinata realtà (come ad es. il fuoco) poiché, come abbiamo stabilito in precedenza, l'esistenza della cosa nella natura è costituita in tal modo che essa ha come conseguenza un male determinato. Se perciò questa natura viene cambiata in modo
che non ci sia come effetto questo determinato male, allora l'esistenza di questa natura non è più costituita come dovrebbe essere. Essa in tal caso si trasformerebbe nella forma di esistenza di altre cose che esistono realmente come distinte dall'Essere assoluto, le quali (i corpi celesti) esistono in atto e sono cosiffatti che ad esse il male non è necessario e originariamente connesso. Un esempio di ciò è il fuoco: il bruciare fa parte della perfezione della sua natura ed è quindi un bene, mentre è un male per i corpi che vengono bruciati (...). Egualmente è impossibile che tutte queste nature siano fatte in tal maniera che ad esse, quando sono in atto, non segua un qualche cattivo effetto. Né si deve sopprimere il bene a causa del male che vi ‘e mescolato. Se si dovesse escludere questo bene dall'universo, affinché non abbia luogo questo male particolare, si otterrebbe un male maggiore di quello che di fatto esiste. Così l'esistenza di questo male particolare ò il minore dei due maliméî
giustificazione avicenniana del male coincide sostanzialmente con quella di Agostino e Leibniz. E una giustificazione che può valere per il La
male metafisico ma che
non
L'ANIMA UMANA, UINTELLETTO AGENTE E
soddisfa affatto per il male morale.
IL DESTINO
DELL'UOMO DOPO LA MORTE
Come per Platone, Aristotele e i neoplatonici anche per Avicenna l'uomo è un essere "metafisico": grazie all'anima egli appartiene al mondo della trascendenza, al mondo dello spirito; mentre col corpo appartiene al mondo sensibile,materiale.
52) Ibid. (ID., X, pp. 624-627).
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Parte seconda
Avicenna prova che l'anima è una sostanza ricorrendo all'argomento dellautocoscienza, la quale fornisce all'uomo non solo una conoscenza diretta della sua propria esistenza ma lo rende pure certo che la sua anima è una sostanza capace di esistere indipendentemente dal corpo. Da questo carattere sostanziale dell'anima Avicenna deduce anche la anime: sua immortalità. Come Aristotele egli distingue nell'uomo tre vegetativa, sensitiva e razionale. L'anima razionale presenta, per così dire, due facce: la facoltà pratica e la facoltà teoretica. La prima guarda in basso, in direzione del corpo e del mondo esterno fisico e ha come
funzione quella di governare e di dirigere il corpo. L'altra, la facoltà teoretica, ha la funzione di guardare in alto, verso il mondo celeste da cui proviene la conoscenza e, da ultimo, la beatitudine. La facoltà teoretica inoltre è la funzione principale dell'intelletto. Passando in rassegna i numerosi significati (otto) che i filosofi hanno dato al termine ”intelletto", Avicenna distingue nell'uomo quattro intelletti: 1) l'intelletto materiale, facoltà dell'anima preparata a ricevere le quiddita delle cose astratte dalla materia; 2) l'intelletto in abito, che è l'intelletto materiale perfezionato in modo da divenire una potenza vicina all'atto; 3) l'intelletto in atto, che è il perfezionamento dell'anima in una forma qualsiasi, ossia una forma intelligibile al punto di intendere l'anima stessa e racchiudere mediante l'atto la stessa allorché lo vuole; 4) l'intelletto acquisito, che è una quiddità astratta dalla materia, la quale è fortemente impressa nell'anima come un’attuazione proveniente dal di fuoriffi L'ìntel1etto umano, più precisamente l'intelletto materiale, si trova in stretto rapporto con la decima Intelligenza, l’Inte1letto Agente. Di questo Avicenna dà la seguente definizione: «Esso è, in quanto intelletto, una forma sostanziale la cui essenza è di essere una quiddità pura da ogni mescolanza con la materia e ciò per se stesso e non per astrazione che altri ne faccia fuori della materia e delle connessioni della materia, al modo che viene ottenuta la quiddità di ogni ente. In quanto Intelletto Agente esso è una sostanza avente l'attributo di cui abbiamo parlato ed a cui appartiene il compito di far passare, illuminandolo,l'intelletto materiale dalla potenza all’atto».64 Come si vede Avicenna assegna all'Intellett0 Agente una funzione analoga a quella che Agostino attribuiva al Verbo divino: la funzione di illuminare l'intelletto umano consentendogli in questo modo di conoscere la Verità.
53)
64)
Cf. Epistola delle definizioni, tr. francese di A. M. Goichon, in lntrodzzctitm à Avicenna Paris 1933. lbid.
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metafisica ‘islamica del Medioevo
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Avicenna riprende la divisione dell'intelletto in materiale 0 passivo e in agente 0 attivo da Aristotele, ma poi travisa totalmente la dottrina aristotelica interpretandola in senso platonico. Molto importante è il ruolo che Avicenna assegna alla immaginazione: essa fa da ponte tra l'intelletto materiale e l’Intelletto agente. Questa facoltà fornisce alla coscienza immagini degli oggetti che conservano tutte le loro determinazioni sensibili particolari. Queste immagini ‘preparano” l'anima a ricevere le forme che vengono irradiate nellîntelletto materiale dall'Intel1etto Agente. In tal modo l'Intelletto Agente non soltanto comunica le forme alle cose del mondo materiale (dator formarum), ma è anche la sorgente delle forme così come noi le conosciamo. Perciò quando cessiamo di pensare attualmente a una data forma (per es. la forma di un cavallo) l'intelletto umano cessa di avere in se stesso tale forma. Per pensare nuovamente a tale forma la coscienza dev'essere nuovamente preparata dalle immagini delle cose, affinché possa essere irradiata nel modo appropriato da parte dell'intelletto Agente. La forma che viene così ricevuta, è considerata in se stessa come un'essenza. Dal punto di vista del concetto che si trova nella mente questa essenza è una, in quanto realizzata nel mondo fisico (in molti soggetti) essa è molteplice. Ma considerata come un'essenza essa non è né una né molti, bensì è semplicemente l'essenza o natura comune. La famosa espressione di Avicenna: equinitas est equinitas tantum (la cavallinità è semplicemente la cavallinità) significa che un'essenza, considerata in se stessa (cioè nel suo contenuto) non è né una né molte, ma è soltanto ciò che il suo contenuto logico rivela. Questa teoria secondo cui una natura comune considerata in se stessa non è né una né molte è parte costitutiva della soluzione data al problema degli universali da molti scolastici cristiani del XIII secolo. Nell'ultimo capitolo del Nono trattato dei Sifa Avicenna affronta il problema dellflildilà. Egli è dell'opinione che delle condizioni del corpo dopo la morte ci può informare soltanto la religione; invece riguardo alle condizioni dell'anima può fornire solidi argomenti anche la filosofia. Tutte le anime sono immortali ma dopo la morte non godono della stessa sorte: le anime dei malvagi saranno punite con lacerazioni psichiche profonde, delusioni, passioni e brame insoddisfatte ecc. Invece le anime dei giusti saranno premiate con il dono della perfetta felicità. Questa beatitudine è riposta da Avicenna nell'appagamento pieno della facoltà più nobiledi cui è dotato l'uomo, Vale a dire l'intelletto. Ora, ciò che appaga pienamente l'intelletto è la contemplazione del mondo intelligibile. «La perfezione propria dell'anima scrive Avicenna consiste nel divenire identica al mondo intelligibile,in tal modo che la forma del—
—
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Parte seconda
l'universo, il suo ordine razionale e il ben che ne deriva si trovino iscritti in essa»)??? Questo mondo è presieduto dal Principio Primo di tutte le cose, dopo di Lui vengono le sostanze immateriali, le sostanze spirituali che si trovano in rapporto con i corpi, e infine i Corpi celesti. Quando l'anima raggiunge questa perfezione, essa diviene in effetti una riproduzione del mondo intelligibile, si unisce al bene supremo e alla bellezza assoluta, nella quale risiede la beatitudine perfetta. Tale beatitudine si può conseguire soltanto quando l'anima si è liberata completamente dalla cattività del corpo ed è quanto il giusto già realizza in questa vita mediante la pratica della virtù e la ricerca della verità. Il punto in cui l'anima supera la linea di demarcazione tra la condizio-
malvagi e
la condizione celeste dei beati, secondo Aviindicato con esattezza. Sembra, tuttavia, che tale punto coincida con la perfetta conoscenza del mondo intelligibile, del suo ordine, della sua bellezza, della sua sottomissione al Signore supremo. Tanto più grande è il grado di conoscenza del mondo intelligibile che un'anima raggiunge in questa Vita, tanto più essa è pronta per la beatitudine dell’aldilà. Ma, persino nel momento della morte, questo distacco dal corpo e dalle sue cure risulta assai difficileper l'anima, se non proprio impossibile. Gravata dal desiderio ardente del corpo e dei suoi piaceri, Yanima continuerà anche dopo la morte a partecipare a una condizione di corporeità analoga a quella a cui è sottomessa durante la vita, ma essa verrà punita con ulteriori pene a causa di queste futili brame. E tuttavia né la prova né le sofferenze che Yaccompagnanosaranno eterne, perché sono collegate al rapporto accidentale che l'anima ha col corpo. Quando questo rapporto verrà meno, l'anima sarà completamente purificata da qualsiasi associazione con la materia e conseguirà quello stato di felicità che è conforme alla sua essenza spiritualefifv terrestre dei cenna, non può ne
essere
IMPORTANZA ED EREDITÀ DI AVICENNA Nella storia della metafisica Avicenna è una delle figure di maggior rilievo: la più grande che abbia prodotto la cultura islamica nel momento in cui essa toccava il suo apogeo. il Sifa di Avicennaè il più sistematico, organico e completo trattato di metafisica scritto nel Medioevo, ed il più importante e più influente dopo quello di Aristotele. È un trattato esemplare che fissa ed esplora tutto il quadro tematico che appartiene alla metafisica, con tutti i suoi
55) Sifa IX, 10 (HORTEN, p. 637). 66) Cf. ibid, (11)., pp. 544 ss).
La metafisica islamica del Medioevo
371
principi, Dio (esistenza, natura, attributi), creazione e ordine dell'universo, mondo intelligibilee mondo sensibile, male e provvidenza, spiritualità e immortalità dell'anima. È un'opera che abbraccia l'intera parabola, ascendente ediscendente, della metafisica. La metafisica di Avicenna è la sintesi più ardita tra aristotelismo e platonismo: se è largamente aristotelica nel linguaggio e anche in numerose tematiche, è invece sostanzialmente platonica nella visione generale della realtà. Però, in molti casi, più che urfautentica fusione tra le due metafisiche classiche Avicenna opera semplicemente una giustapposizione, analoga a quella già operata dai neoplatonici, tra iogica aristotelica e metafisica platonica. Tuttavia Avicenna sposta più avanti e più in alto la
problemi: essere,
cause,
linea di accostamento delle due filosofie, in quanto mette insieme le ontologiche (strutture dell'essere: materia e forma, sostanza e accidenti, atto e potenza ecc.) con la costruzione metafisica. Le strutture dell'essere sono quelle di Aristotele mentre l’impianto metafisico è quello Platonico (più precisamente neoplatonico). La metafisica di Avicenna è un’abilesaldatura, benché artificiosa, tra ontologia e henologia. Avicenna riprende il paradigma essenzialistico di Platone modificandolo sensibilmentegrazie alla dottrina dei possibili,poiché per Avicenna le essenze sono reali a metà e non completamente come in Platone: sono reali soltanto come possibili. I possibili sono comunque dotati di una loro consistenza ontologica: non sono semplicemente delle idee astratte, ma sono invece delle effettive possibilità. Senza la potenzialità dei possibilinon ci sarebbe nessun'altra realtà al di fuori deIVEssere necessario. Grande e originale in se stessa la metafisica di Avicenna occupa un posto importante nella storia della metafisica, avendo contribuito al rilancio di questa gloriosa disciplina nel mondo cristiano latino durante l'epoca d'oro della Scolastica cristiana. Le Sufiicientiae, titolo dato al Szflz dal traduttore latino di quest'opera“ furono lette attentamente da tutti i grandi rrzagistri del secolo XIII. Dopo Aristotele, Avicenna fu il filosofo con cui Tommaso d'Aquino e Duns Scoto stabilirono il dialogo più nutrito e più fecondo. L’Angelic0 10 cita molto spesso specialmente nelle opere più giovanili e pur criticando numerose sue dottrine (eternità della materia, unicità dell'intelletto agente, negazione della conoscenza dei particolari da parte di Dio, riduzione dell'esistenza a un accidente ecc.) egli certamente beneficiodel suo influsso. Coloro che si sono impegnati a scoprire tracce di Avicenna in S. Tommaso hanno trovato una quantità. crescente di materiale ricco di interesse, che converge tutto a strutture
67)
La sezione sulla metafisica del Szflî fu tradotta nella sua interezza da Gundissalvi sotto il titolo di Metaphysica Azzicermae...de prima philoscphia.
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Parte seconda
mostrare come «l'impulso derivatone alla mente speculativa dell'Angelico Dottore si possa considerare l'incontro più importante e prolungato tra il mondo cristiano e la filosofiaislamica in Europa. Difficilmenteci si sarebbe dovuto attendere che san Tommaso accogliesseproprio tutti gli insegnamenti di Avicenna, ma non vi è dubbio che il dialogo tra i due pensatori riuscì stimolante in misura somma per il filosofo italiano e assai vantaggioso nella Costruzione della sua sintesi cristiana>>fi3 Ancora più marcato fu l'influssodi Avicenna su Duns Scoto, il massimo esponente della Scolastica francescana. Egli condivide alcuni punti
chiave della metafisica del filosofo arabo (concetto di essere, la distinzio-
possibile) e come lui opera una poderosa sintesi tra ontologia henologia. Sebbene non si sia sviluppato nulla che si possa qualificare come
ne
tra necessario
e
e
scuola avicenniana, Avicenna fu per vari secoli
un
fattore stimolante
e
permanente per il progresso della speculazione metafisica. Il suo influs-
sugli scolastici cristiani precedette quello di Averroè e continuò molto tempo dopo, e risultò una forza di gran lunga più vitale.
so
Al-Ghazali Al-Ghazali è il massimo teologo musulmano; nell'Islam egli occupa
quello di S. Tommaso nel cattolicesimo. Ma mentre S. Tommaso fu un grande amico dei filosofi, di Aristotele in particolare, e divenne egli stesso autore di un imponente sistema metafisico, AlGhazali avverso i filosofi con tutte le sue forze e combatté energicamente la metafisica. Perciò egli occupa sì un posto nella storia della metafisiun
posto pari
a
fra coloro che la criticarono. Tuttavia il suo nome va menzionato, perché Al-Ghazali con la sua critica dei fondamenti della metafisica e con la sua opposizione contro i falasifa ha condizionatoin modo decisivo i successivi sviluppi della metafisica e della stessa filosofia nel mondo islamico. Il suo Tahrîfut al-falasfa (Incoerenze dei filosofi) segnò praticamente la fine della filosofia nella parte orientale del mondo islamico. ca,
ma
VITA E
OPERE
Abu Hamid Muhammed Al-Ghazali nacque a Tus, nella parte nordorientale dell'Iran verso il 1059, quindi quasi un secolo prima di Averroè, il quale nella sua difesa della filosofia terrà conto Soprattutto delle critiche di Al-Ghazali. Il suo contrasto con colui che era già universal-
Ò3)
S. M. AFNAN, 0p. cit, p. 365.
La
ntetafisica islamica del Medioevo
373
come il più autorevole esponente della ortodossia avrà un peso determinante sulla condanna del suo pensiero, e mentre Averroè non avrà nessun influsso sugli ulteriori sviluppi del pensiero musulmano, Al-Ghazali vi ha invece lasciato un'impronta duratura. Al-Ghazali, dopo avere studiato per qualche tempo nella città natale, si trasferì a Gurgiàn (nei pressi del Mar Caspio) e ivi approfondì la sua formazione sotto la guida di vari professori. Più tardi continuò gli studi a Nishapur, uno dei massimi centriculturali di quel periodo. Nel 1085 lasciò Nishapur per recarsi alla corte di Nizan al-Mulk, ministro del califfo e grande mecenate delle lettere e delle arti, che lo accolse con grande simpatia e che qualche anno più tardi lo inviò a insegnare a Baghdad, in una delle scuole più rinomate del tempo. Questi sono gli anni in cui Al-Ghazali iniziò la sua attività letteraria, componendo opere di
mente riconosciuto
filosofia e di diritto. Nel 1099, cioè all'età di quarant'anni, dopo una penosissima crisi spirituale, durata vari mesi, che lo portò a distaccarsi completamente dalla filosofia e anche dalla teologia di tipo razionalistico, AÌ-Chazali decise di abbandonare la sua invidiabileposizione di docente universitario e di ritirarsi a vita privata, lontano da Baghdad, per dedicarsi a meditazioni e a pratiche religiose di carattere sufico. Attorno a lui si formò un piccolo gruppo di discepoli con i quali egli conduceva una vita di preghiera, di meditazione e di studio. ll lungo ”ritiro", durato dieci anni, gli consentì di progettare e di comporre la sua opera maggiore, la Ilhya. Dietro le insistenze degli amici, pochi anni prima della morte riprese teologia a Baghdad. Morì 1’8 dicembre 1111.
mento della
l'insegna-
Innumerevoli sono le opere che vengono attribuite ad Al-Ghazali, ma molte sono certamente spurie. Le più importanti sono quattro, di cui due furono scritte prima della ”conversione” e due dopo. Al periodo precedente la conversione appartengono: Maqasid alfalaszlfa (Gli obiettivi
dei filosofi), una esposizione metodica delle principali dottrine dei filosofi musulmani, in particolare di Avicenna (tanto che dà proprio l'impressione di essere una sintesi molto ordinata del pensiero di quest'ultimo); Tahrîfut al falasifa (Incoerenze dei filosofi), una critica oculata ma anche molto severa degli errori dei filosofi e della stessa filosofia. Al periodo che segue la conversione, oltre la già citata Ilhya ulum addin (Rinnovamento delle scienze religiose), opera monumentale, un'autentica ”summa” di tutte le questioni teologiche, appartiene la sua au-
tobiografia, Al-Murzqidh min addadal (Liberazionedallerrore).
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Parte seconda
CRITICA
DELLA FILOSOFIA
Ottimo conoscitore sia della filosofia greca che di quella musulmana, per un certo periodo filosofo lui stesso, quando decise di iniziare una nuova forma di teologia meno razionalistica di quella in corso ai suoi tempi e sulla linea di Al-Ashari più rispondente alle esigenze della pietà, che contribuisce quindi ad avvicinare il credente oltre che con la mente anche col cuore ad Allah, Al-Ghazali prese le distanze dalla filosofia e soprattutto smascherò gli errori dei filosofi, sia di quelli antichi sia dei suoi contemporanei, e in particolare gli errori di Avicenna. Con la chiarezza che gli è consueta egli tratta separatamente dei vari gruppi dei filosofi e delle varie parti della filosofia. Distingue i filosofi in tre gruppi principali: materialisti, naturalisti e teisti. Ai primi e ai secondi muove l'accusa di ateismo; anzi, i primi, i materialisti, li considera «gli atei per eccellenza». Tra i teisti il più importante è Aristotele, al quale riconosce il merito di avere «confutato Platone e Socrate e i teisti che lo avevano preceduto, attaccandoli senza mercé, fino a che si separi) da loro tutti; Sennonché lasciò anche sopravvivere della loro abietta miscredenza ed eretica innovazione, resti dai quali non era riuscito a liberarsi»39 Non meno severo è il giudizio che Al-Chazali pronuncia nei confronti dei filosofi musulmani. «E necessario giudicare infedeli quei filosofi (greci) e così pure quanti li seguono dei sedicenti filosofi ”musulmani” come Ibn Sina (Avicenna), Al-Farabi e altri. Pero nessuno dei cultori musulmani di filosofia si è tanto curato di trasmettere la scienza di Aristotele come i suddetti. Quello che gli altri hanno trasmesso è tanto poco scevro di incertezza e confusione che chi legge ne ha la mente turbata al punto da non capire. E una cosa che non si capisce, come la si può confutare o accettare? Tutto quanto nella trasmissione di Ibn Sina e Al-Farabi è, secondo noi, autentica filosofia di Aristotele si può sommariamente dividere in tre parti: una è da giudicare miscredenza, la seconda è da giudicare eresia, la terza non deve essere rigettata del tutto».70 Nel suo Tahàfut al-falasifa Al-Chazali denuncia in Avicennaventi errori, «per tre dei quali si deve giudicarlo infedele, per diciassette eretico». I tre errori sono: la negazione della risurrezione del corpo; la negazione che Dio ha conoscenza diretta dei particolari; l’affermazione che «l'universo è preesistente ab aeterno. Nessuno dei musulmani è mai arrivato ad impostare questioni siffatte».71 e
-
—
59) AL-GHAZALI, Scritti scelti, tr. it., UTET, Torino 1970, p. 92. m) Ibid. 71) Ibid.
La
metafisica islanzica del Medioevo
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Le altre diciassette tesi, benché erronee, non possono essere classificache come innovazioni blasfeme. Esse rendono coloro che le sostengono simili ai partigiani delle sètte musulmane eterodosse. Le tesi di questa seconda serie possono essere raggruppate nel modo seguente: 1. La perennità del mondo (seconda questione). 2. L'incapacità dei filosofi di dimostrare l'esistenza dell'Autore del mondo (questione quarta) e la loro ambiguità nell'affermare che Dio è l'autore del mondo (questione terza). 3. La loro incapacità di provare l'unicità di Dio e la loro negazione degli attributi divini. 4. L'affermazionedella causalità naturale (questione diciassettesima) 5. La loro incapacità di provare che l'anima e una sostanza spirituale. te
Riguardo all'origine del mondo AI-Ghazali afferma che Dio ha deciso sin clalfeternità che il mondo abbia origine nel tempo. Anche il tempo è stato creato insieme col mondo. Perciò prima del mondo non c'è alcun tempo; soltanto la fantasia può immaginare un tempo fittizio. Al-Ghazali critica poi la teoria dell'emanazione, secondo cui da Dio deriva necessariamente la prima intelligenza, così come la luce proviene necessariamente dal sole. Ma questa non è vera produzione: deve procedere da un agente libero, che conosce e Vuole il proprio prodotto. D'altronde come sipuò dire che questo prodotto dell'emanazione è una "innovazione" (innovatio)? Infatti la Vera "innovazione" è il passaggio dal non-essere all'essere. Quanto al principio neoplatonico, secondo cui «dall'Un0 non può procedere che l'uno» (ex uno nonnisi unum), esso si ritorce contro i suoi difensori, perché non c'è nulla nell'unità che giustifichi il prodursi di una molteplicità, e così non si spiega la molteplicità che C'è nell'universo. Inoltre l'emanazione triadica, intelligenza della sfera, della sua anima e del suo corpo, è semplicemente affermata ma affatto dimostrata. Infine chiamare Dio "Agente" rispetto a un mondo che Egli stesso non ha prodotto, come fanno i filosofi,non ha alcun senso. E proprio i filosofi non sono in grado di provare l'esistenza di Dio. Essi costruiscono la loro argomentazione sulla impossibilità di un regressus ad infinitunz nella serie delle cause e che quindi deve fermarsi dinanzi a una causa prima e incausata. Ma, secondo Al-Ghazali, questo argomento è doppiamente falso. Infatti i corpi, dal punto di vista dei filosofi,sono eterni e pertanto non hanno bisogno di cause. Inoltre secondo i loro principi, il regressus ad infinitum non è un'assurdità, poiché ammettono la possibilitàdi una serie infinita di effetti e di un numero infinito di anime. Al-Ghazali contesta poi la teoria avicenniana sugli attributi divini. Secondo tale teoria gli attributi non sono l'essenza ma hanno con essa un rapporto accidentale. Questo, Osserva Al-Ghazali, può accadere nelle creature, ma non in Dio, dove ogni attributo si identifica con la sua es-
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Parte seconda
Altrettanto insostenibileè la spiegazione avicenniana della conoche Dio ha delle sue creature, una conoscenza legata al fatto che Dio è la loro causa. Ma questo, per Al-Ghazali è un puro gioco di parole. Infatti ci sono due tipi di azione: l'azione naturale, necessaria, che non comporta nessuna conoscenza, e l'azione volontaria che invece esige una previa conoscenza. Ora i filosofi affermano che Dio crea necessariamente il mondo. Nella Questione dodicesima Al-Ghazali fa vedere che i filosofi non riescono neppure a provare che Dio conosce se stesso. Un altro punto decisivo su cui Al-Chazali attacca i filosofi riguarda il principio di causalità, cardine principale di tutta la metafisica. Riguardo a questo principio, anticipando Hume di qualche secolo, Al-Ghazali gli nega qualsiasi valore oggettivo, affermando che esso è il semplice prodotto psicologico di associazioni di fenomeni che si susseguono regolarmente. A forza di constatare una successione regolare si conclude indebitamente che tra loro c'è un nesso necessario.
senza.
scenza
GLI ATTRIBUTlDI DIO Demoliti gli errori dei filosofi, che suscitavano grandi dubbi nei dotti grave scandalo nei semplici credenti, e «una volta confermato nella fede, Ghazali con tutte le sue forze si propose di fare acquisire anche agli altri la certezza, sempre nei limiti del sunnismo e precisamente secondo l'interpretazione asharita (cioè di al-Ashari) (rnu)v Dove si distinse dai teologi che si contentavano di una fredda esposizione dei dogmi e dei precetti religiosi, fu nell'uso del taîuil o interpretazione, per svelare negli uni e negli altri un significato più profondo e dare impulso al sentimento religioso. Non c'è opposizione, egli sostenne, fra senso apparente e senso nascosto, perché questo è il complemento di quello, ne è la perfezione. Gli fu rimproverato di far eccessivo uso del tcflwil, ma si difese affermando che lo manteneva dentro la cornice del dogma. Certo, diceva, prima di servirsene occorre fare uno studio meticoloso del senso apparente, e non solo delle espressioni coraniche, ma di tutto ciò che riguarda il credo sunnita; da quel senso occorre muovere per giungere a quello intimo. Col senso nascosto si alimenta la vita interiore dell'anima, la quale finisce col divenire "l'anima tranquilla", al riparo dal dubbio e dal turbamento intellettuale».72 Seguendo l'esempio di Al-Ashari e degli altri teologi sunniti, AlGhazali raggruppa la Vastissima materia della teologia intorno ai due dogmi fondamentali della fede islamica: l'unità di Dio ("Allah è Allah") e il messaggero di Allah ("Maometto è il suo profeta”). e
72) L. VFCCIA VAGLIERI, Introduzione ad AL-GHAZALI, Scritti scelti, cit., p. 19.
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metafisica islzmzica del Medioevo
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L'attenzione e la devozione di Al-Ghazali, ovviamente, sono concensu Dio del quale non cessa di illustrare gli innumerevoli e singolaris-
trate
simi attributi, a
incausato, cioè
quello della unicità. Dio è unico perché Dio è principio: «anzi, Egli è il principio di ogni cosa; è
partire
senza
da
prima di ogni cosa morta o viva. E la prova è che se Egli fosse stato cosa nuova e non eterna, avrebbe avuto bisogno anch’Egli di un produttore, e questi a sua volta avrebbe avuto bisogno di un produttore, e ciò avrebbe formato una catena ad infinitunz. Ciò che forma una tale catena non perviene a un risultato definitivo oppure giunge a un produttore eterno che è il Primo. E questi, da noi chiamato Artefice del mondo, suo iniziatore, suo creatore, suo produttore e suo inventore, è l'oggetto della nostra ricerca».73 Principio primo e fine ultimo di ogni cosa, Dio è uno nella sua stessa essenza «senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivale, Ché Egli è Uno, Eterno senza primo, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente
senza
creazione, Continuo senza interruzione».74
Dall’attribut0 fondamentale dell’unicità Al-Ghazali deriva in sequenza logica tutti gli altri attributi: semplicità (non è composto di materia e forma, di sostanza e accidenti, di atto e potenza, eco), incorporeità («Egli non è corpo avente forma, né sostanza avente limiti...»), immutabilità («È troppo puro per poter subire cambiamento o trasferimento; non hanno posto in lui cose nuove e non L0 affliggono ostacoli,..»). Dio è creatore unico di tutto ciò c-he esiste: «è isolato nel creare e n-ell’inventare, è il solo a portare in esistenza e a produrre; ha creato le creature e le loro azioni e ha predeterminato la provvidenza a loro favore e il termine delle loro vite; e nulla di quel che è oggetto di potenza esce dal suo pugno, né sfuggono alla sua potenza le vicende delle cose; sono inealcolabilile cose oggetto della sua potenza e sono infinite le cose da Lui conosciute».75 Dio è onnisciente e onnipotente: la sua scienza e la sua Volontà non hanno limiti: «Egli, |’Eccelso, è Colui che parla, comanda, vieta, promette, minaccia con Parola perpetua, eterna, sussistente di per sé, che non somiglia alla parola delle creature, che non è suono nascente da emissione di aria o batter di corpi, né lettera che si formi per chiusura di labbra o movimento di lingua. Il Corano, il Pentateuco, il Vangelo, i Salmi sono i suoi libri rivelati ai suoi apostoli sia pace su di loro!».76 -
73) AL-GÌIAZAIJ, 0p. cit., pp. 164465. 74) lbiti,pp. 150-151. 75) una, p. 154. 75) lbid.
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Parte seconda
Come già risulta dal brano precedente, Dio, Parola eterna e sussistenmanifestato agli uomini attraverso i suoi messaggeri, e in maniera completa e definitiva per mezzo del Profeta, Maometto, il quale ha raccolto la Parola di Dio nel Corano. Al-Ghazali ebbe una fede indiscussa nel Profeta. Per questo insegnò te si è
a tutte le cose che egli ha detto circa questo mondo e l’Aldilà, quali Yesistenza dei due angeli Munkar e Nakir (i primi giudici
che si deve credere
defunto), la bilancia(con cui si pesano le azioni degli uomini dopo la risurrezione), il ponte (su cui passeranno i defunti per accedere al Paradiso 0 cadere nell’Inferno). Tutte queste cose relative all'Aldilà devono essere oggetto di fede assoluta: Al-Ghazali ad esse non applica il taîuil del
che con molta parsimonia. Nel mondo della fede, alla pari dei filosofi musulmani, e anche di Clemente Alessandrino e altri autori cristiani, Al-Ghazali distingue due livelli, il livello dei semplici e quello degli ”illuminati".Ma alla fede ”illuminata"secondo Al-Ghazali non si arriva né con la filosofia (Avicenna) né con la gnosi (Clemente) né con la kalam (mutaziliti),bensì con le pratiche sufiche, in particolare la meditazione, la preghiera, la lotta spirituale, la resistenza alle passioni, la piena dedizione alla volontà di Dio. Sciolto con tali mezzi il "nodo” che è nel suo cuore, il fedele acquista ”la dilatazione del petto” ed entra nella luce di Allah. Allora la sua fede diviene ”illuminata”,perfetta. Dellîmportanza del pensiero di Al-Ghazali e sul ruolo decisivo che ha svolto negli sviluppi successivi dell'islamismo si è detto all'inizio. l suoi effetti furono certamente benefici per Yortodossia: «la fede consolidata e arricchita conobbe una nuova fioritura; se non si può dire che sia stato proprio Ghazali a stimolare lo sviluppo delle confraternite o Corporazioni sufiche si deve tuttavia riconoscere che della situazione da lui creata esse profittarono: forti della maggiore popolarità del sufismo per la vinta riluttanza dei teologi, esse si moltiplicarono, si diffusero in tutto il mondo musulmano e portarono la voce dell'Islam nelle regioni più remote. Lo stato di equilibrio promosso da Ghazali persistette fin quasi all'epoca nostra, quando il riavvicinamentotra Occidente e Orien-
produsse nuovi orientamenti».77 Ma gli effetti dell'opera di Ghazali furono certamente negativi per la filosofia islamica: i suoi violenti attacchi contro tutti i filosofi, greci e musulmani, con le accuse o di empietà o di eresia, fu per la filosofia stessa un colpo mortale, e segnò praticamente la fine di quella filosofia
te
77)
L. VECCIA VAGLIERI, 0p.
cit, pp. 27-28.
La
metafisica islamica del Medioevo
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islamica che aveva avuto rappresentanti validi e gloriosi come Avicenna e Averroè. La fine della filosofia fu una grave perdita per la cultura musulmana in generale e per Pumanesimo islamico, che si avviarono a un lento ma inevitabiletramonto.
Ibn-Bajja (Avempace) Mentre le dure critiche portate da Al-Ghazali ai filosofi e alla metafisica segnavano l'inizio di un inarrestabiledeclino della speculazione filosofica nell'Oriente islamico, nella Spagna, che già dal VII secolo era stata soggiogata dagli arabi, si assiste a una straordinaria ripresa degli studi filosofici e all'affermazionedella filosofia peripatetica, di tipo neoplatonizzante, prima sotto il regime degli Almoravidi, poi sotto quello degli Almoadi, con pensatori protetti da quegli illuminati sovrani ai quali era gradito il libero pensiero dei dotti. Notiamo per inciso che il libero pensiero non era assolutamente considerato un diritto di tutto il popolo; la comunità dei dotti era infatti ben distinta in ciò dal volgo, al quale, del resto secondo lo stesso Averroè, non sembra appartenere in alcun modo il diritto alla libertà del pensiero. Il primo di questi pensatori è il celebre Abu Bekr Mohamed, detto più comunemente lbn-Bajja, e dai latini Avempace. Nato a Saragozza, più tardi si trasferì a Granada. Morì avvelenato a Fes nel 1138. La sua prematura scomparsa gli impedì di portare a termine le tante opere che aveva già iniziato a comporre. I trattati che ci sono pervenuti, raccolti sotto il significativo titolo di Opera melaphyslcn, sono tutti di modeste proporzioni. «Uevidente ampiezza del suo sapere giustifica la stima di cui godette presso i posteri, malgrado i suoi numerosi critici e detrattori. La sua introduzione di una discussione filosofica seria segna un punto decisivo nella storia della cultura islamica nella penisola iberica. Egli prepara il terreno all'interpretazione islamica più sistematica della dottrina aristotelica e alla difesa più vigorosa di questa dottrina per opera del più grande aristotelica dell'Islam, lbn-Rushd di Cordova».78 Come risulta dalle sue opere principali: Il regime del solitario e il Trattato sull'unione dell'intelletto con l'uomo, interesse precipuo della speculazione di Ibn-Bajja è il raggiungimento del fine ultimo da parte dell'uomo, che egli fa consistere nella conoscenza e nell'amore di Dio. Mentre tutti gli altri filosofi islamici avevano mostrato che il filosofo condivide responsabilità politiche con gli altri membri della comunità in cui si trova, Ibn-Bajja è l'unico, o quasi, a sostenere che la ricerca della felicità
78)
M.
FAKHRY, 0p. cit, p. 286.
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Parte seconda
dev'essere il risultato degli sforzi individuali compiuti dal filosofo. L'imperfezione delle comunità esistenti costringe il filosofo a perseguire la felicità da se stesso oppure insieme a pochi altri che condividono le sue idee e le sue finalità. Il regime solitario è una specie di itinerarium mentis in Deum che illustra le tappe che il saggio deve percorrere per raggiungere il traguardo della felicità che consiste, come s'è detto, nella contemplazione e nell'amore di Dio. La caratteristica principale dell'uomo è la ragione. Questa gli consente di far parte delle "forme" intellettuali e Spirituali che costituiscono il piano più elevato della grande gerarchia degli esseri. Sulla scia di Avicenna, nel piano intellettuale Ibn-Bajja distingue quattro gradi: 1) le Intelligenze che muovono i corpi celesti; 2) l'intelletto agente e acquisito; 3) le forme intelligibili astratte dalla materia; 4) le idee e nozioni del senso comune (sensus communis), la fantasia e la memoria. La vocazione vera dell'uomo è essenzialmente spirituale e intellettuale; tutte le altre attività hanno valore nella misura in cui contribuiscono alla realizzazione di questa nobile vocazione. Per mezzo della sensazione, della memoria e delle altre facoltàl'uomo è condotto alle forme superiori. Però, mentre le forme astratte dalla materia esistono nella mente umana in una condizione che è differente da quella in cui esistono quando sono combinate con la materia, le forme che non sono mai esistite nella materia e che esistono indipendentemente da essa sono forme che la mente conosce soltanto grazie all'azione dell'lntelletto agente, che è in se stesso una forma essenzialmente immateriale e spirituale. Mediante il contatto con l’Intelletto agente il “Solitario" raggiunge quello stato di immaterialità, caratteristico di tutte le forme spirituali. Solo questmuomo spirituale" è veramente beato; l"’uomo corporeo" è troppo assorbito dai piaceri del corpo per desiderare altre cose più alte. Nel momento in cui l'uomo spirituale raggiunge l'ideale filosoficodella saggezza ed è reso partecipe dei valori supremi, speculativi ed etici, egli diviene veramente divino e raggiunge il rango delle sostanze intelligibili. Tale è, come avevano già insegnato Al-Farabi e Avicenna e prima di loro i neoplatonici,il fine ultimo dell'uomo e il segno del congiungimento con l'Intelletto agente. Ma il Solitario ammette Ibn-Bajja da solo e con i propri mezzi, non è in grado di conseguire questa altissima meta. Ciò è possibilemediante l'infusione di una luce che Dio fa scendere sui suoi eletti e che Al-Ghazali, in un contesto sufi, aveva descritto come «la chiave di tutte le forme della conoscenza». Così, «abbandonando il corpo», scrive Ibn-Bajja, «colui che gode di questo divino favore diventerà una luce (celeste) che dà gloria a Dio e cantando la sua lode raggiungerà il rango dei profeti, -
—
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dei santi, dei martiri e dei beati». Però, nonostante questa apertura verso il soprannaturale, Ibn-Bajja rimane fermo nella convinzione che questo favore divino è riservato ai filosofi e, in questo modo, egli limita arbitrariamente la portata di questa illuminazione fissando, per così dire, le condizioni che obbligano Dio a fare questo dono soltanto a un piccolo numero di privilegiati.
Ibn Tofail (Abubacer) La seconda personalità di spicco nella storia della metafisica islamica Spagna è Abu Bakr Ibn Tofail (0 Tufail),conosciuto nel mondo latino come Abubacer. Della sua vita si conosce ben poco: si suppone che sia nato nel primo decennio del secolo XII. Ha certamente studiato medicina e filosofia a Siviglia e a Cordoba. Godette dei favori del califfo Abu Yakub Yusuf, grande mecenate dei filosofi e degli scienziati, che lo volle come medico di corte. Anche dopo la morte del suo protettore (1184) Ibn Tofail continuò a conservare la sua posizione di privilegio a corte fino alla sua morte, nell’anno 1185. Ibn Tofail scrisse numerose opere ma l'unica che è giunta a noi si intitola Havy ibn Yakzan (Il vivente figlio del vigilante). Si tratta di un "romanzo” filosofico che presenta considerevoli affinità con il Robinson Crusoe di De Foe e con l'Emilia di Rousseau. Raccontando la vita di questo personaggio l'autore sviluppa una "metafisica” di stampo neoplatonico, affine a quella di Al-Farabi e di Avicenna. Una tesi a cui Ibn Tofail dà rilievo è che tra filosofia e religione non esiste nessun contrasto, bensì un sostanziale accordo. La scena del romanzo si situa su un'isola desertica dell'Oceano Indiano e il protagonista è Havy, un bambino che è venuto alla luce spon— taneamente in quell’isola. Una cerva lo allatta per qualche anno. A sette anni impara a rivestirsi con foglie d’alberi o con pelli d'animali. Finalmente la cerva muore e questo triste evento porta Havy a meditare sul mistero della morte: egli capisce che la morte è semplicemente la dissoluzione dell'unione dell'anima con il corpo. La seconda grande scoperta che il ragazzino fa da solo è quella del fuoco. Più tardi inventa alcuni attrezzi che gli servono per la caccia e la pesca e impara a classificare piante ed animali. Sulla base di queste osservazioni empiriche giunge finalmente alla scoperta di un mondo superiore, spirituale; pren— de coscienza del mondo incorruttibiledegli astri e della necessità di un Creatore. La contemplazione della bellezza e dell'ordine dell'universo, che sono tratti evidenti della creazione, lo persuadono che la Causa in
suprema dev'essere perfetta, libera, onnisciente, benefica e bella; in breve essa deve possedere tutte le perfezioni che noi osserviamo nel
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ogni imperfezione. A quel punto Havy ha raggiunto l'età di trentacìnque anni. Quando comincia a esaminare in che modo aveva raggiunto la conoche scenza dell’Essere supremo, assolutamente immateriale, Havy nota non l'ha conseguita mediante un organo corporeo ma con l'anima, una del mondo ed
essere
esente da
e che costituisce la vera essenza fa comprendere la nobiltà dell'anima, nostro essere. Questa scoperta gli materiale, e la sua esenziodell'universo confronti la sua superiorità nei corruzione alle quali deve della ne dalle condizioni della generazione e dell'anima dipende felicità sottostare il corpo. Così comprende che la dal riconoscimento della sua parentela con l'Essere Necessario e dalla si rende sua dedizione a conoscerlo e amarlo. Ma allo stesso tempo materiale e mondo al è del conto che a causa proprio corpo egli legato di confronti anche nei delle ha responsabilità che per questa ragione del corpo e di tutti i suoi bisogni cura avere mondo: cioè, deve, questo essenziali, anche se soltanto nella misura in cui tutto ciò consente all'anima di raggiungere il suo fine ultimo, la contemplazione di Dio e l'unione con Lui. Per conseguire questo obiettivo il cercatore della verità deve studiare la natura divina, nei suoi aspetti positivi e negativi. Gli attributi positivi si riducono alla sua unicità assoluta ed esclusiva, mentre gli attributi negativi sono riducibili alla sua trascendenza e alla sua
realtà totalmente distinta dal corpo
incorporeità.
La presenza del corporeo nell'essere stesso dell'uomo costituisce un ostacolo alla conoscenza pura e vera dell'Essere trascendente. Soltanto stato comdopo che l'io finito e tutto il mondo degli esseri materiali èrimasta che è della verità non pletamente superato e che per il cercatore che ciò nessun «vedere la realtà di Dio, gli viene concesso il dono di occhio ha visto, nessun orecchio ha udito e che non può arrivare a nesche ha suna persona». Questa fase finale è una specie di ubriacatura della contemplaidentificarsi con l'oggetto propria portato qualcuno ad zione: Dio. Havy, ci assicura Ibn Tofail, è stato però salvato da questa tentazione dalla grazia di Dio. Nel momento in cui Havy si immerge nella contemplazione di Dio, egli coglie anche le realtà che procedono da Lui: il Cielo supremo, diil Firmamento, gli astri, le anime dei vari pianeti. Havy diviene capace riflescaptare un archetipo immateriale della propria anima, in cui vedeAlcune ai unite si sono corpi. se anche le miriadi di anime che in passato di queste anime, come la sua, brillano di particolare splendore, mentre altre assomigliano a dei riflessi deformi in uno specchio pulito. Come si vede, ciò che Havy ha contemplato non è altro che il mondo metafisico del neoplatonìsmo.
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Averroè Averroè è, dopo Avicenna, il filosofo musulmano le cui opere ebbero maggiore influenza sul cristianesimo medioevale. Egli è il ”Commenta— tore” per antonomasia, colui che «il gran commento feo» (DANTE). Nella storia della metafisica il suo nome è strettamente legato ai suoi commenti ad Aristotele, specialmente ai commenti alla Metafisica e al De anima. Grazie a queste opere egli divenne il capostipite di una delle correnti esegetiche più influentidi tutti i tempi. VITA E OPERE
Averroè (Mohammcd Hafid ibn Rushd) nacque a Cordoba in Spagna una famiglia di ”qadì” (giudici). Suo padre era un celebre che giurista, ricoprì anche la carica di giudice supremo. Il giovane Averroè ricevette una formazione completa: grammatica, matematica, astronomia, diritto, medicina, filosofia e teologia. In medicina acquistò una certa notorietà, tanto da essere nominato medico di corte. Nel 1182 nel 1126 da
fu
nominato qadì di Cordoba. Ma. sin da quando aveva vent'anni, dedila maggior parte del suo tempo a studiare e a commentare Aristotele, del quale divenne il commentatore per eccellenza. Pur restan-
cava
do sempre fedele all'osservanza del Corano, con le sue teorie filosofiche Averroè si attirò i sospetti e le critiche dei teologi musulmani, i quali riuscirono a fargli perdere il favore del sovrano e a farlo imprigionare. Poco prima della morte (Marrakesh 1198) Averroè venne riabilitato. Averroè è noto soprattutto per tre commenti (grande, medio e piccolo) alla Metafisica di Aristotele, scritti in lingua araba ma prontamente tradotti in latino e utilizzati moltissimo dagli Scolastici. Altra opera assai nota è la Destructio destructionzzm (Tahafut al Taheîfut), una replica vigorosa alle critiche che il grande teologo musulmano Al-Ghazali aveva mosso alla filosofia (falsafa) e ai filosofi in generale. Importanti anche, per la retta comprensione del pensiero di Averroè, i suoi tre trat-
tati sui rapporti tra filosofia e religione. Dal XIX secolo in avanti in Occidente prese piede una tradizione che vedeva in Averroè il grande empio, che aveva bestemmiato contro
qual-
siasi religione (islamismo, giudaismo e cristianesimo) e demolito le ultime basi della fede. Fu Renan a iniziare per primo la revisione di questo giudizio. Lo studioso francese presentò un Averroè egualmente lontano dal settarismo antireligioso così come dal settarismo teologico. Però, secondo Renan, le espressioni non rare di deferenza verso la religione manifestate da Averroè andrebbero interpretate come gesti politici, per
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dagli stusfuggire alle ire dei teologi. La tesi di Renan viene contestata diosi più recenti, i quali arrivano a sostenere che «la dottrina teologica di Averroè, per conciliare la ragione e la fede, coincide perfettamente con quella del Dottore Angelico» (AsìN Y PALAcios). RAGIONE E
FEDE
Il pensiero di Averroè è piuttosto complessi), perché lungi dal cercare di armonizzare la religione islamica con la filosofia, come invece tentamantievano di fare i pensatori cristiani rispetto alla loro religione, egli Da una filosofica. dottrina e ne una separazione netta tra fede religiosa la di Aristotele, molto rigorosa parte egli elabora una interpretazione la del mondo, quale esclude che lo Stagirita abbia insegnato la creazione
Provvidenza di Dio e l'immortalità dell'anima individuale: dottrine queste che per Averroè, in sede filosofica, hanno valore assoluto; dall'altra, abbiamo i suoi insegnamenti espliciti sui rapporti tra fede e ragione, che sembrano coincidere con quelli di Tommaso d'Aquino, come dichiara Asìn y Palacios. A proposito di questi rapporti Averroè scrive quanto arrivasegue: «Le speculazioni dimostrative della filosofia non possono la verità mm può mettersi re a contraddire il contenuto della Legge, perché accordo in con essa e le rende è contrario al in conflitto con la verità, ma dal fatto che, risulta effettiva testimonianza. Che questa sia la situazione di qualcoquando una speculazione dimostrativa porta alla conoscenza la Legge non sa di reale, le sole alternative possibili sono le seguenti: o dice nulla al riguardo oppure dice qualcosa. Se non dice nulla, non ci può essere nessuna contraddizione. Se dice qualcosa, allora l'espressiodimostratine esterna o concorda con ciò che è detto dalla speculazione da nulla c'è aggiungere. Se la va oppure la contraddice. Se concorda non contraddice allora diviene necessaria una interpretazione. Questa ha per della Legge scopo di ricavare il significato profondo di ciò che la parola esprime in modo figurato».79 Questo testo illustra chiaramente la volontà di Averroè di conciliare 1a sua fede di devoto musulmano con la filosofia aristotelica. Egli pensa di riuscirci ricorrendo al metodo allegorico. Non crediamo però che querisolvere sto metodo abbia il magico potere, che Averroè gli ascrive, di tutte le contraddizioni e di superare tutti i contrasti. Da quanto siamo andati dicendo, una cosa però è certa: Averroè non è affatto il fondatore della teoria della ”doppia verità" (una verità per la filosofia e una verità per la teologia) che spesso gli si attribuisce. Egli verità contraddittorie, ma due non insegna che possono esistere due
79) AVERROÈ, Piziiosophie und Theologie, Miinchen 1875, p. 7 (il corsivo ‘e nostro).
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modi diversi di esprimere la stessa verità. La teoria della doppia verità è stata inventata dai discepoli di Averroè che, su questo punto, hanno tradito palesemente il pensiero del maestro.”
IMPORTANZA E NECESSITÀ DELLA FILOSOFIA Accertato che tra fede e ragione, tra il Corano e la filosofia non si può contraddizione, perché sono due espressioni di una unica verità, non è ancora stata provata l'utilità e tanto meno la necessità della filosofia. Per chi conosce già la Verità mediante la fede in Maometto a che serve ancora la filosofia? Il problema era stato avvertito acutamente anche dai cristiani dei primi secoli; infatti sappiamo che in un primo tempo la filosofia era stata considerata con molta diffidenza, anzi alcuni (Tertulliano, Taziano ecc.) avevano anche condannato la filosofia o come superflua o come pericolosa. I primi a schierarsi a suo favore furono Giustino, Clemente e Origene, i quali mostrarono che se essa non è necessaria per la salvezza, tuttavia ha un ruolo importante da svolgere a favore della fede: che è quello di difenderla dagli attacchi degli eretici, di approfondire e vagliare gli insegnamenti della Sacra Scrittura e di trovare le espressioni più appropriate per renderla intelligìbilein determinati ambienti o per certe dare
popolazioni. Averroè riprende questa tesi dei filosofi Cristiani e la ripropone più 0 meno con gli stessi argomenti nell'ambiente musulmano e lo fa non da filosofo ma da credente, quindi praticamente nell'ambitodella fides quaerens intellectum. In effetti ecco la sua precisa formulazione del problema: «verificare dal punto di Vista della Legge se lo studio della filosofia e della logica è proibito o condannato, oppure se viene invece raccomandato o imp0sto».81 Il primo argomento che Averroè adduce a favore dello studio della
filosofia lo ricava dal Corano. A suo parere il libro del Profeta contiene una raccomandazioneimplicita dello studio di questa disciplina quando elogia la conoscenza delle opere di Allah, in particolare la conoscenza del cielo e della terra: «Dato che la Legge prescrive lo studio degli esseri (del cielo e della terra) con l'intelligenza e di riflettere su di essi ed essendo la riflessione nient'altro che ricavare l'ignoto dal noto, e in ciò consiste il ragionamento, ne consegue che ci viene imposto dalla Legge di effettuare lo studio degli esseri mediante il ragionamento. È inoltre
3")
Cf. G. F. HOURANT, Introduzione a: AVERROES, On the Harmony of Religion ami
Philosnphy,Londra 1967, pp. 22-23. 81) AVERROFS, On the harmony... citi, c. 1.
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questo genere di studio a cui la Legge ci invita, è lo studio più perfetto perché viene compiuto con la miglior specie di ragionamen-
evidente che
to, che consiste nella ‘dimostrazione’>>fi3 Stabilito che il Corano prescrive uno studio accurato delle opere di Allah, Averroè non ha difficoltà a mostrare che per tale studio è necessario ricorrere alla filosofia. Bisogna infatti essere già in grado di distinguere tra le varie forme di argomentazione e le condizioni della Validità di un'argomentazione, e sapere pertanto distinguere tra ragionamento dimostrativo, dialettico e retorico. «Ma ciò non è possibilese prima non si è studiato che cosa è il ragionamento in se stesso, le sue suddivisioni e quali di esse sono valide e quali no (...). Perciò chi crede nella Legge e obbedisce al suo ordine di studiare le cose, prima di accingersi a tale studio deve impadronirsi di questi strumenti logici che per lui hanno la stessa importanza degli strumenti materiali per chi deve compiere lavori manuali>>fi3 Né vale l'obiezione dei tradizionalisti che respingono lo studio della filosofia appellandosi al fatto che esso non veniva praticato dalle prime generazioni dei credenti e per questo lo tacciano di eresia; perché allora, argomenta acutamente Averroè, bisognerebbecondannare anche il diritto, perché neppure esso esisteva ai tempi di Maometto e dei suoi primi discepoli. Eppure non c'è nessuno tra i teologi che accusa di eresia il diritto, e perciò nessuno può condannare la filosofia. E neppure regge l'argomento di coloro che vogliono bandire la filosofia perché è stata scoperta dai greci, cioè da gente che non ha la vera religione, perché allora si dovrebbe colpire con la stessa censura anche la matematica, la geometria, l'astronomia ecc. «Pertanto è un grave errore proibire 1o studio della filosofia antica. Il danno che ne può derivare è puramente accidentale, come il danno che si può subire prendendo una medicina oppure una bevanda».84 DIFESA
(AL-GHAZALI) fede e ragione e dimo-
DELLA FILOSOFIA DAGLI ATTACCHIDEI TEOLOGI
Stabilita l'esistenza di una certa armonia tra strata la legittimità della ricerca filosofica in base alla stessa rivelazione coranica, Averroè può affrontare con successo i durissimi attacchi che aveva mosso ai filosofi e alla filosofia il grande teologo musulmano AlGhazali nel suo famoso Tahrîfut al-falasfia (Incoerenze dei filosofi). La replica di Averroè si trova in Tahcîfut al-Tahàfut (Destructio destructionum
s2) lbid. m) Ibid. 84) Ibid.
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philosophiaeAlgazelis).s5 Quest'opera, poco conosciuta dai medioevali, venne tradotta in latino piuttosto tardivamente (nel secolo XV). Tuttavia essa è giudicata dagli studiosi come un eccellente compendio del pensiero filosofico islamico, in quanto vi vengono discussi tutti i problemi più importanti che sono stati dibattuti negli ambienti filosofici e teologici dell'Islam.
È un'opera di difficilelettura a motivo del suo carattere polemico ed esegetico nel medesimo tempo. Infatti Averroè procede citando e riassumendo ampiamente i testi del suo avversario per passare poi a una critica minuziosa e puntigliosa degli stessi.
Prologosé alla Destrucfio Averroè chiarisce egregiamente i motivi che lo hanno indotto a comporre questo saggio. Ecco le sue testuali paNel
role:
«... È giunto nelle nostre mani un libro attribuito ad Algazeli, intitolato Destructio philosophorzrm, e che quest'opera sia stata scritta da Algazeli non c'è alcun dubbio. Infatti all'inizio e alla fine di un'altra sua opera aveva espresso l'intenzione di compilare questo libro volto ad illustrare il pensiero dei filosofi. E vogliamo subito osservare che il libro del quale intendiamo occuparci è infarcìto di innumerevoli errori ed ha contribuito a suscitare nelle menti di tantissimi dotti infiniti dubbi, poiché il suddetto Algazeli è considerato filosofo sommo (summus philosophus), tra i maggiori di tutti i tempi. Ed è cosa nota che la fama di molti predecessori è spesso causa di errore in molti successori. Diciamo inoltre che il suddetto libro ha suscitato l'ammirazione di molti nobili e sottili pensatori moderni, e proprio per il motivo che Algazeli è summus philosophus noms e ha scritto molti esimi volumi di filosofia, in cui ha esposto con chiarezza e ampiezza le opinioni dei dotti. In seguito è stato sollecitato a comporre il presente saggio, in cui si ripromette di scardinare le basi della sapienza (la metafisica), e di abbattere le torri e gli accampamenti della verità. E così a causa di questo libro la filosofia è divenuta in seguito oggetto di abominazione. Ma per tranquillizzarei nobiliingegni dichiariamo subito: o quest'uomo soffriva di qualche grave morbo mentale (ex aliquo morbo perturbatllsfilff intellectus) oppure temeva d'essere sospettato d’eresia da parte dei canonisti del suo tempo. E come si sa, i canonisti (legales) sono sempre nemici dei filosofi, e lui non voleva esporsi alla loro inimicizia. Affermiamo, inoltre che il suddetto libro contiene più veleno che cibo. Noi per contro, disposti per amore della filosofia, madre nostra carissima, a sopportare la rabbia dei suoi persecutori, abbiamoesaminato con la massima diligenza le parole di questo libro e ci abbiamo
85) 85)
La versione latina di Calo Calonymos è stata riedita dalla Marquette University Press (Milwaukee)nel 1961, a cura di B. H. Zedler. Cf. AVERROES, Destructio destructìonzzrvi philosophìaeAlgazelis, a cura di B. H. Zedler, pp. 16-17.
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sudato sopra per mettere in evidenza i vizi e i sofismi di cui è ripieno abbiamo cercato di controbatterli in modo efficace, anche se talvolta risulta cosa ardua per la difficoltà degli argomenti e l'oscurità dei sofismi». e
Nella Destructio Averroè segue lo stesso ordine del Tahcîfut al-falasfia di Al-Ghazali e smonta una per una le venti tesi con cui Peminente teologo musulmano aveva cercato di demolire la metafisica (16 tesi) e la fisica (4 tesi) aristotelica. Gli argomenti più importanti sono i seguenti: l'eternità del mondo, la creazione, l'emanazione, gli attributi divini, la conoscenza che Dio ha di se stesso e dei particolari, la causalità, l'anima, la risurrezione del corpo, le relazioni tra filosofia e religione. Al-Ghazali aveva cercato di minare i fondamenti della metafisica negando ogni valore al principio di causalità. Già Aristotele tra i compiti della metafisica aveva incluso quello di difendere i principi gnoseologici e ontologici su cui essa si regge e con grande abilità aveva difeso il principio di non contraddizione, il più noto e il più necessario di tutti i principi. Averroè fa altrettanto con il
principio di causalità, respingendo gli attacchi di Al-Ghazali contro questo principio. Ecco alcuni passaggi della sua difesa:
«Il negare l'esistenza delle cause efficienti che ci appariscono nei sensibiliè un discorso sofistico; e il teologo su questo punto o nega con la lingua ciò che ha nel cuore o segue una involuzione sofistica in cui incorre senza la quale non sarebbe possibile non confessare che non vi è un'azione senza un'agente (...). Dio stesso ha scienza degli enti perché questi hanno una causa, e questo è necessario anche perché si abbia scienza di lui; ed è perciò necessario che l'ente si trovi adeguato alla scienza di lui. E quanto alla scienza ispirata, è come quando capita al profeta per un segnale di Dio: la causa non è se non che la natura dell'ente subisce la impressione della scienza eterna, ma la scienza che esso possiede non dipende da ciò che non può naturalmente conseguire, ma la scienza del Creatore è la causa da cui proviene tale natura nell’ente che ne dipende. E la nostra ignoranza sui possibiliha luogo solo perché noi ignoriamo tale natura che attribuisce ad essi l'esistenza o la privazione. Poiché se negli enti gli opposti fossero uguali per se stessi e per le cause agenti, seguirebbe di necessità che in essi dovrebbe trovarsi la nonesistenza e la non privazione oppure l'esistenza e la privazione insieme; ed ecco che si rende necessario che uno ‘dei due opposti sia preponderante verso l'esistenza di tale natura. E questa che rende necessario che uno dei due opposti consegua l'esistenza. E la scienza che vi è collegata o è scienza che lo precede, o è scienza che lo segue. La scienza che lo precede è la scienza (divina) che lo ha causato».87 -
57)
Destructio destructionum,
disp. XVII.
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Un punto su cui Al-Ghazali aveva attaccato duramente i filosofi era il loro insegnamento sulla natura e gli attributi di Dio. Egli criticava la distinzione posta da Avicenna tra natura e attributi divini e la riduzione degli attributi ad accidenti. Nella sua confutazione Averroè accusa AlGhazali di non capire la natura dell'attribuzione di una qualità allorché viene applicata a Dio e alle creature. I filosofi non negano gli attributi divini: la scienza, la volontà, la vita, la potenza, la parola, la Visione. Ciò che essi escludono è che questa applicazione sia fatta in modo univoco, e che esista una proporzione diretta tra Dio e le creature. Così la scienza appartiene eternamente a Dio ma noi ignoriamo in che modo essa si relazioni alle creature. Tra i modi di conoscere divini e umani non v'è proporzione, perché mentre la conoscenza di Dio è la causa dell'oggetto conosciuto, la conoscenza umana ne è l'effetto.” Ma nella Destructio, pur prendendo generalmente le difese dei filosofi, Averroè non risparmia severe critiche ad Al-Farabi e ad Avicenna. In particolare egli denuncia il loro tentativo di conciliare Aristotele con Platone, ignorando le distanze prese da Aristotele nei confronti del suo maestro, specialmente riguardo alla teoria delle Idee. Inoltre, tutta la dottrina emanazionistica che costituisce la pietra angolare della loro cosmologia e della loro metafisica è completamente anti—aristotelica. Attribuendola ad Aristotele i due filosofi musulmani hanno totalmente snaturato il suo pensiero. Questa dottrina che cerca di spiegare la pluralità a partire dalla unità con l'inserimento di una lunga sequenza di intermediari non solo non è aristotelica ma è anche piena di errori logici e di sofismi. Del tutto gratuita è poi l'idea che dalla Causa suprema non possa uscire che un unico effetto.
UESEGESI AVERROISTICA DI ARISTOTELE
L'apporto di Averroè alla metafisica più che nei suoi scritti "teologi-
ricercato nei suoi commenti ad Aristotele. Averroè aveva una stima immensa per lo Stagirita. Dire Aristotele e dire filosofia per Averroè era la stessa cosa. Aristotele «è il modello che la natura ci ha fornito per svelare la massima perfezione che l'uomo può raggiungere in questo mondo»; egli è «il filosofo celebrato dai greci», che per la logica, la fisica e la metafisica ha fatto di più di qualsiasi altro pensatore che l'ha preceduto o che è venuto dopo di lui.” Sia in sede scienci"
33) 59)
va
Cf. ibid., Disp. VIII. Cf. Commcntarium magnum in Aristotelis ”De anima”, III, c. 14.
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tifica sia in sede metafisica Aristotele ha già detto tutto quanto la ragiopoteva dire. Perciò chi vuole scoprire razionalmente la verità delle cose non deve far altro che leggere e interpretare Aristotele. Averroè iniziò a commentare Aristotele dietro richiesta del califfo Abu Yakub Yusuf, suo grande mecenate e protettore, e attese a questa ne umana
colossale fatica per un trentennio. Di Aristotele commentò l'intero corpus, tranne la Politica. Delle opere principali: Fisica, Metafisica, De coelo et munda e De Anima compose tre generi di commenti, a cui sono stati dati i nomi di grande, medio e piccolo (o compendio). Nel commento grande tutte le singole frasi del testo di Aristotele sono spiegate e sono
inoltre accompagnate da note e aggiunte di Averroè, contraddistinte col titolo Commentarium. Queste aggiunte hanno talvolta l'estensione di un vero e proprio trattato (per es. il Comm. 5 nel III De anima). Il commento medio è una trasposizione delle antiche versioni arabe cli Aristotele in un linguaggio più moderno e nello stesso tempo un riassunto esatto del testo aristotelico con sviluppi personali. Il commento piccolo 0 compendio 0 parafrasi è un'esposizione logica e coerente del contenuto dei libri aristotelici in linguaggio piano e facile, ma senza seguire fedelmente l'ordine degli argomenti nell'originale. Questi due tipi di rifacimento del testo riguardano tutte le opere fondamentali di Aristotele, però in alcuni casi abbiamo soltanto i commenti medi e in altri solo i compendi. È noto che su alcuni punti importanti il testo aristotelico è suscettibile di svariate e contrastanti interpretazioni. Il cristiano Filopono, grande commentatore di Aristotele del VI secolo, aveva cercato di armonizzare i suoi insegnamenti con le dottrine della religione cristiana. Averroè percorre una via diversa. Egli non si preoccupa minimamente di far coincidere le tesi aristoteliche con la fede islamica, ma vuole semplicemente capire e spiegare quello che Aristotele ha veramente detto. In questo egli segue l'esempio dei grandi commentatori arabi che l'avevano preceduto, Al-Farabi e Avicenna, e, in linea di massima, fa sue le loro tesi sulla inconoscibilitàdi Dio, l'origine del mondo per emanazione, l'eternità del mondo, l'unicità dell'intelletto Agente. Riguardo a Dio Averroè sostiene che la ragione è indubbiamente in grado di dimostrare la sua esistenza. Il suo argomento preferito e quello dell'ordine: «È necessario che nelle parti dell'universo esista una forza spirituale unica, che unisca tutte le forze spirituali e materiali e penetri unitamente ovunque in tutto l'universo. Se così non fosse non vi sarebbe ne’ ordine ne’ coerenza nell'universo e solo in questo modo si può concepire che Dio è il creatore che sostiene e mantiene l'universo». Riconoscere Dio, quale principio primo, è necessario per scongiurare un regressus ad infinitum nella serie dei fenomeni.
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Però, è illegittimo andare oltre all'affermazione della pura esistenza del Principio primo e degli intelletti separati nel mondo sovrasensìbilee descrivere la loro attività e la loro natura: «l'intelletto umano è incapace di comprendere il modo d'attività delle sfere celesti benché sappia che tale attività esiste, e coloro che si azzardano a fare comparazione fra la realtà divina e quella sublunare e credono che l'agente divino agisca nel modo come agiscono gli agenti sublunari, commettono un'enorme imprudenza, un grave sbaglio e un serio errore». Quanto sia diversa la realtà divina rispetto a qualsiasi altra realtà Averroè lo mostra parlando della conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio non dipende, come la nostra, dalle cose che sono fuori della mente, ma, al contrario, essa è la causa e la ragione della loro esistenza. Essa non è ne’ universale né particolare ma abbraccia ogni cosa. Essa è conoscenza concreta, rassomigliando più alla percezione dell'individuo che non a quella delfuniversale, anche se in realtà non è né l'una né l'altra. In essa l'unità e l'identità del soggetto e dell'oggetto della conoscenza sono perfette, perché essa non si trova in una relazione con la materia (come nel caso della conoscenza umana). La molteplicità che pur si trova in essa non è la molteplicità tipica della conoscenza raziocinativa che è dovuta alla classificazione degli esseri in specie e generi, ma è la molteplicità propria dell'unità organica delle essenze degli esseri, in ciascuno dei quali la sapienza divina è manifestata. Le essenze degli esseri sono connesse fra di loro secondo un ordine e una certa coerenza, dei quali l'intelletto umano ha soltanto una conoscenza inadeguata. Dio, conoscendo se stesso produce le essenze delle cose nel loro ordine e nella loro coerenza; esse, a loro volta, sono la cagione dell'esistenza delle cose. Come per Avicenna anche per Averroè la creazione è sostanzialmente un processo conoscitivo e non una libera scelta della divina volontà. L'universo nella sua realtà noumenica è perciò "creazione continua” della forza divina immanente in esso. Averroè è così giunto a una concezione panteistica del mondo (simile a quella che sarà di Spinoza) e ne è pienamente consapevole: «Dato che la vera conoscenza consiste nelladeguatezza alla realtà, se la conoscenza di Dio è superiore alla nostra e la sua conoscenza è connessa con le cose in una maniera superiore alla connessione della nostra conoscenza con le cose, ne consegue che vi sono due modi d'esistenza, uno superiore e l'altro inferiore, e che il superiore è causa dell’inferiore. Questo è il significato del detto degli antichi che Dio è la totalità degli esseri esistenti». Con Aristotele, Averroè afferma che il mondo è eterno. Il prodotto della realtà divina, infatti, è congruente con essa ed è come essa senza inizio e senza fine. L’infinita attività divina richiede che la realtà che ne deriva sia anch'essa infinita, Solo quando la realtà è appresa dalla mente
392
Parte seconda
per il tramite della categoria soggettiva del tempo essa è concepita come avente inizio e fine «perché l'anima non può concepire l'infinito». Su questo punto anche Tommaso d'Aquino sarà in pieno accordo umana
con
Averroè.
Riguardo all'uomo, giustamente celebre è la dottrina di Averroè intorno
alla
conoscenza
intellettiva dell'anima umana, una dottrina vivamen-
da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Come è noto Aristotele nella conoscenza degli universali aveva distinto due intelletti, uno passivo e uno attivo o agente. Il primo è senz'altro individuale, mentre il pensiero di Aristotele intorno al secondo è di dubbia interpretazione. Quasi tutti i commentatori di Aristotele (Alessandro di Afrodisia, Temistio, Avicenna) avevano insegnato che l'intelletto non ha carattere individuale: esso ‘e unico per tutti gli uomini, è un'intelligenza separata. Questa è anche la tesi di Averroè. Con Avicenna egli distingue tre intelletti: un intelletto materiale (o passivo), che è la facoltà dell'anima preparata a ricevere le quiddità delle cose astratte dalla materia; un intelletto agente completamente puro dalla materia e un intelletto acquisito o adepto, che si forma nell'anima sotto l'azione dell'intelletto agente. Nel suo commento al De anima di Aristotele sulla questione dell'eternità dell'intelletto Averroè si esprime cosi: «Si deve ritenere che nell'anima vi sono tre parti di intelletto, di cui la prima è l'intelletto ricevente (materiale), la seconda l'intelletto agente e la terza l'intelletto adepto. E di queste tre, due sono eterne, cioè l'agente e il ricevente, la terza è in parte generabilee corruttibile, in parte eterna (...). Quando l'intelletto materiale ha conseguito la perfezione congiungendosi con l'intelletto agente ecco che noi siamo così congiunti con l'intelletto agente. E questa attitudine si dice abito o acquisizione o intelletto adepto». La formazionedell'intelletto acquisito avviene col concorso dell'immaginazionee questa è facoltà personale e individuale, ma è facoltà corruttibile e quindi si deve concludere, secondo Averroè, che l'anima individuale è corruttibile. Averroè, specialmente come commentatore di Aristotele godette di enorme prestigio, ed esercitò un grandissimo influsso durante il periodo aureo della Scolastica e durante il Rinascimento. Da lui prese il nome il movimento filosofico dell’averroismo latino, che avrà come massimo esponente Sigieri di Brabante. Grazie ad Averroè e ad Avicenna, Aristotele fece ritorno in Occidente. E la scoperta del suo pensiero metafisico segnò un passo decisivo per lo sviluppo della teologia scolastica durante il secolo Xlll.
te criticata
La
metafisica islamica del Medioevo
393
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cura
di L. V.
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394
Parte seconda
AVICENNA Testi latini: Opera omnia, Venezia 1508 (ristanast. Minerva, Frankfurt 1961); Metaphysices Compendium, a cura di N. Carame, Roma 1926. Studi: S. M. AFNAN, Avicenna, Bologna 1969; L. CARDET, La pensée religicusc dbfivicenne, Paris 1951; W. E. GOHLMAN, The Life oflbn Sina, Albany 1974; A. M. GOICHON, La distinction de Fessence et de Fexistence dbprès Hm Sina, Paris 1937; lD., Lcxique de la langue philosophique dTbn Sina, Paris 1938; 1D,, La philosophie dflvicenne et son influence en EHTUPC nzédiévale, Paris 1944.
AVERROÈ Testi latini: Commentaria alle opere di Aristotele, Venezia 1560 (11 VOlumi); Destructio destractionum, a cura di B. Zedler, Marquette University, Mìlwaukee 1961. Stadi: M. ALFONSO, Teologia de Averroes, Madrid 1947; L. GAUTIER, Ibn Rochd, Paris 1948; G. HOURANT, Averroes on the Harmony of Religion and Philosophyyitrad.)London 1961; E. RENAN, Averroès et FAverrOiSIne, Paris 1882; D. URVOY, Ibn Rashd (Averroes), London 1992.
LA METAFISICA EBRAICA NEL MEDIOEVO
Origini e caratteristiche della Scolastica ebraica La Scolastica ebraica come del resto la Scolastica musulmana e cristiana deve le sue origini al «desiderio e bisogno, sentiti dai leader del pensiero ebraico, di riconciliaredue fonti della verità apparentemente indipendenti. Nel medioevo, tra gli ebrei come tra i cristiani e i musulmani, le due fonti di conoscenza o verità che erano chiaramente presenti nelle intelligenze delle persone colte, ciascuna pretendendo un proprio riconoscimento, erano le dottrine religiose incorporate nei libri sacri, da una parte, e le asserzioni e le argomentazioni filosofiche o scientifiche, risultato di una ricerca razionale indipendente, dall'altra. Rivelazione e ragione, religione e filosofia, fede e conoscenza, autorità e ricerca indipendente sono le varie espressioni di quel dualismo, che i filosofi e i teologi del medioevo cercarono di condurre al monismo o all’unità».î La ragione, la filosofia per i pensatori ebrei del medioevo come per quelli musulmani e cristiani era rappresentata da Platone, da Aristotele e dai neoplatonici. Mentre la fede era rappresentata dall'Antico Testamento e dal Talmud (la tradizione che inizialmente era soltanto orale e più tardi fu raccolta per iscritto). Ma c’erano anche altre due motivazioni oltre quella di stabilire un rapporto armonico tra filosofia e rivelazione che suggerivano il ricorso alla filosofia. Per prima, la necessità di integrare il discorso della Bibbia là dove esso risultava poco chiaro oppure incompleto. Per seconda, l'esigenza di elaborare un quadro sistematico di tutte le verità contenute nella Bibbia e nel Talmud. Per la soluzione del problema dei rapporti tra rivelazione (Parola di Dio) e ragione (filosofia) gli ebrei nel Medioevo potevano contare non solo sull'insegnamento dei filosofi cristiani del periodo patristico e dei musulmani, ma anche su quelli del loro correligionario, Filone d’Alessandria, il quale già agli inizi della nostra era, al problema dei rapporti tra Scrittura e filosofia aveva dato una soluzione positiva e aveva fatto largo uso della filosofia nella sua interpretazione allegorica -
—
-
-
-
-
l)
I.
HUSIK, A History ofMediaeval Iewish Philvsophy, Philadelphia 1946, p. XIII.
396
Parte seconda
della Scrittura. Generalmente è sulla strada già tracciata da Filone cioè della conciliazionetra filosofia e rivelazione che si incamminano i filosofi ebrei del Medioevo. Ma la loro filosofia religiosa si distacca nettamente da quella del loro illustre predecessore, perché mentre Filone, per la sua sintesi tra ellenismo e giudaismo, si era servito soprattutto di Platone e degli stoici, gli ebrei medievali sfruttano soprattutto i neoplato— nici e Aristotele, dei quali mostrano di possedere una Vasta conoscenza, anche se si tratta di una conoscenza che generalmente non hanno attinto direttamente dalle fonti greche, ma dalla mediazione dei filosofiarabi? Gli scolastici ebrei costituiscono un gruppo abbastanza nutrito e qualificato di pensatori. Noi qui però ci limiteremo a esporre soltanto le dottrine di Ibn Gabirol e di Maimonide, i quali oltre che essere obiettivamente i più insigni e originali, sono anche quelli che hanno esercitato un più notevole influsso sulla Scolastica cristiana, sia in campo filosofico -
—
(metafisico) che teologico. Ibn Gabirol VITA E OPERE
Salomon Ibn Gabirol nacque a Malaga verso il 1022 e morì a Valenza nel 1058. Della sua vita si conosce pochissimo. Rimasto orfano di padre e di madre quand'era ancora molto piccolo, condusse una esistenza disagiata, e in più minata nella salute. In compenso possedeva doni intellettuali straordinari ed eccelleva sia come poeta sia come filosofo. Sennonché fu proprio la pubblicazione di alcuni scritti, in particolare il Fans vitae, che gli procurò molti problemi da parte della gente della sua stessa fede ebraica, che lo accusò di superstizione, magia e ateismo. Fu cacciato da Saragozza, ma trovo rifugio presso il visir di Granada, grande mecenate degli artisti e dei letterati, e così poté tranquillamente continuare a occuparsi di filosofia e a scrivere poemi fino alla morte. Due sono le sue opere principali: il poema Keter Malkut (La corona del re) e il trattato filosoficoForzs vitae. Si tratta di due opere dal contenuto e dallo stile totalmente diversi, tanto che per molto tempo si pensò che appartenessert) a due autori distinti: il poema all’ebreo Ibn Gabirol e il trattato filosofico a un musulmano chiamato ora Avencebrol ora Avicebron. La sua opera filosofica fu totalmente ignorata dai suoi correligionari e fu tenuto in grande onore solo come poeta. Viceversa tra i cristiani e i musulmani egli fu conosciuto praticamente solo come filosofo
2)
Cf. ibid, p. XXXIX.
La
metafisica ebraica nel medioevo
397
neoplatoniche di scrittori cristiache Ibn Gabirol avesse abbandonato ritennero medievali molti autori ni, cristianesimo. il giudaismo e abbracciatoil e, data l'affinità del Fans vitae con opere
LA TEORIA DELUILEMORFISMOUNIVERSALE
L'impianto filosofico che Ibn Gabirol ci ha lasciato nel dialogo Fans palesemente di stampo neoplatonico ma con l'inserimento di qualche importante componente aristotelica, in particolare la dottrina dell'ilemorfismo(materia e forma), che Ibn Gabirol estende a tutto l'universo (eccetto Dio), in quanto a suo parere, sono dotati di materia (incorporea) non soltanto gli esseri del mondo fisico ma anche quelli del mondo spirituale, il mondo della Intelligenza. La materia, secondo Ibn Gabirol, è la sostanza prima, che sostiene i nove accidenti fondamentali, ed è la prima creatura di Dio. Fondamentalmente la stessa in tutte le creature, essa presenta tuttavia gradi di perfezione molto vari e secondo una gerarchia ben precisa, che va da un massimo di imperfezione nei corpi più pesanti a un massimo di perfezione nelle intelligenze più leggere. Alla materia universale Ibn Gabirol affianca un'anima universale (o forma universale) che è l'anima di tutto il cosmo creato. Ecco come egli giustifica questa tesi: «Fa attenzione all'anima vegetativa e scoprirai che essa agisce sulla natura e la domina e troverai che la natura è inglobata in essa e subisce la sua azione. Osserva, inoltre l'intelligenza e l'anima razionale e
vitae è
troverai che ognuna di esse racchiude le sostanze che stanno sotto di conosce, le compenetra e le domina: soprattutto la sostanza dell'intelligenza a motivo della sua sottigliezza e della sua perfezione. Attraverso queste sostanze particolari puoi giudicare delle sostanze universali che si contengono a vicenda le une le altre e che tutte contengono la sostanza composta (...). L'anima universale sostiene tutto il mondo corporeo, si rappresenta e conosce tutto ciò che c'è in esso, come le nostre anime singole sostengono i nostri corpi, sostengono e vedono tutto ciò che Vi è in essi; ma in grado ancor più elevato fa ciò l'intelligenza universale, a causa della sua perfezione, della sua espansione e della nobiltà della sua sostanza. Così ti diviene chiaro come il primo Autore, sommo e santissimo, conosce tutte le cose e come tutte le cose esistono nella sua conoscenza. Devi inoltre sapere che come l'essenza della sostanza corporea e la sua forma corrispondono all'essenza dell'anima spirituale e alla sua forma, analogamente la comprensione della sostanza spirituale, significa che la sostanza corporea esiste ed è contenuta in essa, allo stesso modo che tutti i corpi terrestri esistono nel corpo celeste e sono contenuti in esso»?
loro, le
3)
IBN GABIROL, Fans vitae III, 57.
398
Parte seconda
Nella concezione di Ibn Gabirol la materia svolge un ruolo assai diverso da quello che ha nella filosofia di Plotino e dei neoplatonici: il suo posto non è più quello di polo estremo dell'emanazioneda1l’Uno, il polo
degradazione e imperfezione, ma piuttosto quello già gli assegnava Aristotele: di pura potenza, principio della finitezza e della limitazione dell'atto, si tratti di forme, di anime o di intelligenze. Perciò la materia non va confusa con la corporeità, la quale è piuttosto la forma più imperfetta che assume la materia. A favore della teoria di una struttura gerarchica dell'universo punto qualificante del ncoplatonismo con tutta una serie di intermediari tra Dio e la materia prima, gerarchia che nella parte più alta della scala prevede l'esistenza di vari piani di Intelligenza, Ibn Gabirol adduce molte argomentazioni,di cui le più suggestive sono le seguenti: 1) «Il primo Autore è Veramente uno, che non ha in sé nessuna molteplicità; mentre la sostanza che sostiene le nove categorie degli accidenti cioè della massima
che
—
-
più grande molteplicità, tanto che dopo di essa non c'è spazio per una ulteriore molteplicità. Ora la molteplicità si risolve sempre nell'unità. Occorre perciò che ci siano degli intermediari tra il vero uno e la pluralità composta».4 2) «Il primo Autore è l'inizio di ogni cosa. Ora l'inizio di tutte le cose è separato dalla loro fine. La sostanza che sostiene le nove categorie (cioè la materia) è la fine. Perciò il primo Autore è separato dalla sostanza che sostiene le nove categorie. Posta questa conclusione come premessa dico: l'Autore primo è separato dalla sostanza che sostiene le nove categorie. Ora tutte le cose separate hanno degli intermediari. Perciò ci sono degli intermediari tra l'Autore primo e la sostanza che sostiene le nove categoriew 3) «Più la sostanza discende e più diviene molteplice; viceversa più si innalza e più diventa unita. Ora tutto ciò che riceve la molteplicità discendendo e l'unità elevandosi deve necessariamente raggiungere la vera unione. Occorre pertanto che la sostanza molteplice raggiunga la si trova nella
sostanza veramente unita»
Dio E 1 SUOI
passando attraverso sostanze intermediefi
ATTRIBUTI: LA
VOLONTÀ
Il principio dellîlemorfismouniversale per Ibn Gabirol non è un pensiero peregrino, un bellbrnamentodel suo singolare edificio metafisico, ma il pilastro centrale e portante che regge l'intero sistema. Lo sostiene
4) lbid., III, 2. 5) Ibid. 6) lbid.
La metafisica ebraica nel medioevo
399
sia sotto il profilo strutturale, in quanto tutti gli elementi (tranne l'Uno) vi appaiono costituiti di materia e di forma, sia sotto il profilo metodologico (dell'ordine concettuale) perché sul principio dellîlemorfismo Ibn
Gabirol edifica la via che lo porta oltre 1’i1emorfismo stesso, all’Essere necessario, Dio. In effetti osserva l'autore del Fans vitae sia la materia sia la forma (comprese la materia e la forma universali) sono segnate dalla finitezza oggi noi diremmo dalla contingenza e perciò devono la loro origine a un Essere che non è né materia né forma: l’Uno, Dio. Che poi, in effetti, materia e forma siano finite e non possano essere infinite Ibn Gabiro] lo arguisce dal fatto che «ciascuna di esse Viene meno, ed è distrutta, quando non sono unite; mentre la forma si divide e moltiplica a causa della materia, e non potrebbe dividersi se la materia non fosse a sua volta finita in se stessa»? A Dio Ibn Gabirol assegna tutta una serie di attributi, che per quanto concerne la storia delle idee si possono distinguere in quattro gruppi: biblico, neoplatonico, avicenniano e personale. A1 primo gruppo (biblico) appartengono soprattutto gli attributi della trascendenza e della creazione. Qualcuno potrebbe obiettare che il primo sarebbe più logico collegarlo col filone neoplatonico, essendo Plotino il massimo assertore della trascendenza de1l’Uno. In effetti però con la sua teoria della emanazione a livello ontologico egli compromette irreparabilmentequella trascendenza gnoseologica e semantica su cui pone fortemente l'accento. lbn Gabirol afferma invece l'infinita differenza qualitativa, ontologica, che distacca nettamente sul piano appunto dell'essere Dio e le sue creature. E può far questo perché, anche se qualche volta ricorre a tipiche immagini neoplatoniche per illustrare il concetto di creazione (come l'immagine del fiume, della sorgente, dello specchio ecc.), nella sostanza egli si mantiene fedele al concetto biblico di creazione, che è produzione dal nulla di tutta la realtà di una cosa, sia della materia sia della sua forma. E su questo punto Îbn Gabirol è molto chiaro: sia la materia sia la forma universali sono entrambe prodotte da Dio e non sono prodotte separatamente perché non si può dare materia sussistente, senza forma alcuna, ma sono concreatefi Entrambe sono frutto esclusivo della Volontà di Dio. E a questo proposito Ibn Gabirol non trova immagine migliore per illustrare l'atto creativo di Dio che quella biblica della parola: Dio creò pronunciando il suo fiat. «La creazione si può paragonare alla parola che pronuncia l'uomo, perché quando l'uomo pronuncia una parola, la sua -
-
-
—
7) ibid, V, 28; cf. IV, 20. 5) Cf. finii, V, 42.
400
Parte seconda
imprimono nell’udito e ne1l'intel1etto dell'uditore. È in questo senso che si dice per approssimazione che il Creatore sublime e santo ha pronunciato una parola; il suo senso si è impresso nelforma
e
il suo
senso
si
l’essenza della materia e la materia l'ha raccolto, vale a dire che la forma creata è impressa nella materia ed è siglata da essa»? Dal filone neoplatonico Ibn Gabirol riprende invece di certo l'attributo dell’Uno (che pur potrebbe essere un attributo biblico). E questo lo si può arguire da due cose: dalla contrapposizione, così tipicamente neoplatonìca e su cui Ibn Gabirol insiste spessissimo, tra l'unità e la pluralità o molteplicità; e dal posto che gli viene accordato: è il primo tra tutti gli attributi di Dio. Da Avicenna molto probabilmenteIbn Gabirol mutua due espressioni per designare altrettanti attributi di Dio: ”necessario", "vero essere".
Avicenna, come sappiamo, distingueva tre modi di
essere:
necessario,
possibilee impossibilee identificava il necessario in se stesso con l’Uno, il possibile con gli effetti prodotti dal necessario, e l'impossibilecon ciò che implica contraddizione nel suo stesso concetto. Ibn Gabirol fa altrettanto e dice: «il necessario è l’Uno, l'Autore eccelso e grande; il possibile è tutto quanto subisce la sua azione; l'impossibileè la privazione dell'es-
la sua assenzaml“ «Il necessario è ciò che è sempre e non muta mentre il possibile è il suo contrario, e per il fatto che è passivo, è anche molteplice e cangiante, perché tale è la natura del possibile. È per questo motivo che si chiama giustamente la materia prima possibilitàmll
sere e
mai;
Avicenna aveva anche identificato l’Uno con l'essere stesso, e aveva fatto di lui l'unico essere per essenza, da cui traggono origine tutti gli altri enti. Analogamente Ibn Gabirol scrive: «Dio è l'essere vero, è necessario che ogni ente tragga origine da lui. Per questo motivo quanto più un ente è prossimo alla sorgente dell'essere, più la sua luce è forte e più esso è stabilenell’essere».12 Nel qualificare Dio e i suoi rapporti Ibn Gabirol introduce un attributo nuovo e lo fa certamente a ragion veduta perché vi torna sopra con grande insistenza, soprattutto nell’ultimo libro del Fans Vitae: è l'attributo della volontà, un attributo praticamente assente in tutta la letteratura filosofica neoplatonica (che spiegava la origine delle cose come un flusso necessario dalla. bontà dell'Uno) che, seppur presente, tuttavia non era dominante nella letteratura biblica e rabbinica che metteva al primo
9) Ibid.,43. w) lbid, 24. 11) lbid. 12) 11nd,, 42.
La
metafisica ebraica nel medioevo
401
posto l'attributo della Sapienza 0 del Logos e vedeva nella Creazione la sua opera propria e principale. Proprio perché Ibn Gabirol reputa la
volontà come massimo attributo di Dio ne parla con grande cautela e rispetto: «poiché il discorso sulla volontà è lungo, e la conoscenza della volontà ‘e l'apice della saggezzamfl La volontà, massimo attributo di Dio, si identifica con la sua natura, e nell'ordine degli attributi occupa il primo posto, in quanto precede la
‘e che la volonta è la forza dell'unità».14 Per in se stessa la volontà di Dio, Ibn Gabirol la paragona a una forza: «la forza divina che Crea la materia e la forma e le unisce tra loro, e pervade da capo a fondo ogni realtà come l'anima è diffusa ovunque nel Corpo; muove tutte le cose e le ordina».15 La conoscenza di Dio, del suo Volere, e la conformità ad esso, per lbn Gabirol rappresentano ì massimi obiettivi della vita umana. Per conseguirli «bisogna anzitutto allontanarsi dalle cose sensibili,penetrare mediante lo spirito le realtà intelligibilie attaccarsi interamente a Colui che dona ogni bene. Quando farai questo, egli rivolgerà il suo sguardo su di te e sarà generoso verso di te, come si conviene. Amenmlé Assegnando alla volontà il primo posto tra gli attributi divini e affidando ad essa l'origine e il governo delle cose, Ibn Gabirol si distacca dalla linea intellettualistiea del neoplatonismo pagano e musulmano e dà il via a un indirizzo quello Volontaristico che troverà numerosi stessa unità: «La
prova
ne
quanto sia impossibiledire che cos'è
—
—
seguaci soprattutto nella Scolastica francescana. Maimonide VITA E OPERE
Mosè ben Maimon, comunemente conosciuto sotto il nome di Maimonide, nacque a Cordoba nell'anno 1135. Discendeva da una famiglia di celebri talmudisti, profondi conoscitori delle tradizioni ebraiche. Dal padre fu iniziato agli studi della Bibbia, del Talmud, della grammatica, della matematica, e più tardi dell'astronomia e della filosofia. Lesso con avidità le opere di Aristotele, Alessandro d’Afrodisia, Temistio, A1-
Farabi,Avicenna, Al-Ghazali. Quando Cordoba fu occupata dagli Almonadi, musulmani di stretta osservanza e intolleranti nei confronti delle I3) Ibid., 40. 14) Ibid., 37. 15) 122111., 38.
m)
Ibid.
402
Parte seconda
religioni, il padre di Maimonide decise di emigrare con tutta la famiglia in Marocco e si stabilì a Fez. Morto il padre, Maimonide si trasferì in Palestina e successivamente in Egitto, dove cominciò a praticare la medicina e in questo campo fece tali progressi da guadagnarsi una straordinaria reputazione. Tanto che a un certo punto il potente Saladino, signore di Gerusalemme, lo volle alla sua Corte quale medico personale (1171). Allo stesso tempo fu nominato rabbino del Cairo, presidente del collegio dei rabbini e capo (Reis) di tutte le comunità ebree dell'Egitaltre
Oltre a tutte queste attività pubbliche, Maimonide si dedicava appassionatamente ai suoi studi preferiti: filosofia, esegesi, teologia. Scrisse vari libri di esegesi, tra cui un monumentale Commento al Talmud. Nel 1190 portò a termine la sua opera principale, il Moreh Nebukin (Guida dei perplessi), che l'autore scrisse in arabo ma poi fece sollecitamente tradurre in ebraico. Morì il 30 novembre 1204. La Guida dei perplessi si articola in tre parti. Nella prima l'autore tratta di Dio, dei suoi nomi, dei suoi attributi, della sua essenza: secondo le Scritture, la Kalam (la teologia musulmana) e i filosofi (Aristotele e Avicenna, in particolare). Nella seconda, dopo un lungo prologo sull'esistenza di Dio e le prove addotte dai filosofi a suo favore, Maimonide affronta il problema della creazione del mondo ex nihilo secondo l'opinione dei filosofi (Aristotele) e secondo l'insegnamento della Scrittura, e poi il problema della rivelazione e della profezia. La terza parte è dedicata allo studio dell'uomo, della sua natura (anima e corpo), facoltà, virtù, doveri; e in rapporto all'uomo si prendono in esame le questioni della provvidenza, della Legge, dei miracoli, dei premi e dei castighi. Nella Prefazione a quest'opera lo stesso Maimonide spiega gli obiettivi che si è proposto nel comporla. Fondamentalmente è lo stesso obiettivo che ha ispirato da sempre i filosofi cristiani e musulmani: trovare un accordo tra fede e ragione, tra rivelazione e filosofia, per liberare da ogni dubbio e perplessità quei credenti che proprio a Causa della filosofia stentano ad accogliere certi insegnamenti della Bibbia: «Nella presente opera mi rivolgo a coloro che hanno studiato filosofia e vi hanno guadagnato una certa competenza e mentre aderiscono fermamente alle proposizioni della fede, sono però perplessi e confusi a causa delle espressioni ambigue e figurate usate dalla sacra scrittura». Maimonide è sicuro che sui problemi di fondo non può esistere contrasto tra filosofia e rivelazione, perché unica è la loro prima sorgente, Dio. Neppure su quei punti in cui la posizione dei filosofi è chiaramente contraria a quella della Scrittura (per es. sulla creazione del mondo), si tratta di un contrasto insanabile, come se si trattasse di due contrapposte verità; perché la verità ‘e una sola, e in questo caso è chiaramente quella annunciata dalla Scrittura, mentre quella di Aristotele e dei filoto.
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metafisica ebraica nel medioevo
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sofi è solo una posizione opinabile, non corroborata da argomenti apodittici e risolutivi. In molti altri casi, la verità sta dalla parte dei filosofi e allora al testo biblico, ricco di antropomorfismi, si deve dare una interpretazione allegorica. Come si vede, in questa materia Maimonide riprende gli insegnamenti di Filone e, in parte, quelli di Averroè." DIO:
ESISTENZA
Alla questione dell'esistenza di Dio Maimonide dedica l'introduzioil Capitolo Primo della Seconda Parte della Guida. Nella Introduzione elenca ventisei proposizioni che sono state utilizzatedai filosofi nella prova dell'esistenza di Dio o negli argomenti con cui dimostrano che Dio è immateriale e unico. Secondo Maimonide «Aristotele e i peripatetici hanno fornito prove certe di tutte queste proposizioni, eccetto l'ultima, che è quella che afferma l'eternità del mondo».18 Molte delle proposizioni elencate, come pure le prove dell'esistenza di Dio formulate da Maimonide troveranno ampia circolazione nella Scolastica cristiana, soprattutto in S. Tommaso. Per es. la proposizione quinta: «il movimento (ntotus) implica cambiamento e passaggio dalla potenza all'atto»; la proposizione diciannove: «una cosa che deve la sua esistenza a certe cause contiene in se stessa solamente la possibilità dell'esistenza; perché soltanto se esistono queste cause, anche la cosa in questione esiste. Non esiste se non esistono affatto le sue Cause o hanno cessato di esistere»; la proposizione venti: «una cosa che ha in se stessa la necessità del proprio esistere non può avere nessuna causa della sua esistenza»; la proposizione ventitré: «ciò che esiste potenzialmente e la cui essenza implica una certa condizione di possibilità, prima o dopo viene a trovarsi senza l'esistenza attuale»; la proposizione terza: «l'esistenza di un numero infinito di cause ed effetti è impossibile... la serie delle cause non può regredire ad infinitummî‘? Richiamandosi a una o più di queste proposizioni che, come si è visto, Maimonide dà per certe, egli sviluppa quattro prove della esistenza di Dio. La prima è l'argomento che abbiamo già incontrato in Ibn Gabirol: tutte le cose dell'universo (cose materiali e intelligenze spirituali) sono composte di materia e forma, e perciò non possono essersi data l'esistenza, ma l'hanno ricevuta da una causa prima, Dio, realtà sempline e
17)
perplessi, Introduzione Generale. Per i vari tipi di incongruenze (Maimonide ne enumera sette) si vecla la sezione conclusiva della Cf. MAIMONIDE, Guida dei Introduzione.
13) Ibid., II, Introduzione. 19) Ibid.
Parte seconda
404
materia e senza forma. La seconda è la celebre prova di sul movimento, della quale Maimonide dà un resoconbasata Aristotele to molto esteso. La terza è la prova tratta dalla contingenza degli esistenti. Essa verrà ripresa quasi alla lettera da S. Tommaso nella “Terza Via". La quarta, infine, ‘e desunta dal fenomeno del passaggio dalla potenza all'atto: «Noi costatiamo che le cose passano dalla potenza all'atto. Ma laddove c'è passaggio dalla potenza all'atto deve intervenire un agente esterno... Ma nella serie degli agenti non si può retrocedere all'infinito. Dobbiamo così risalire a una causa del passaggio dallo stato di potenzialità a quello di attualità, che è stabile e non comporta nessuna potenzialità. Nell’essere di tale causa nulla esiste potenzialmente, ma tutto e pura attualità. Questo essere che esiste attualmente in forza della sua stessa essenza è Dio>>.20
cissima,
senza
DIO: ATTRIBUTI E
SIGNIFICATO DEI NOMI DIVINI
prima parte della Guida dei perplessi è riservata quasi tutta alla questione del significato dei nomi (attributi), spesse volte grossolanamente antropomorfici, che la Scrittura dà a Dio. Maimonide ancor prima di entrare nell'analisi dei singoli nomi, fissa i princìpi fondamentali della semantica teologica, che sono i seguenti. Tutti i nomi che la Scrittura dà a Dio (tranne il nome proprio di Jahvé) sono omonimi. La ragione di questo è che non essendoci tra Dio e l'uomo (e tutte le altre creature) alcuna somiglianza, i nomi che si applicano a La
alle creature non possono avere lo stesso significato, cioè sono omonimi. «È chiaro per chi capisce che cosa significa sonzigliarzza che se si applica allo stesso tempo a Dio e alla creatura la parola esistente, ciò accade per pura omonimia; altrettanto vale per le parole scienza, potenza, ziolontà, vita: se sono attribuite a Dio e a tutto ciò che possiede scienza, potenza, Volontà, vita, ciò accade per pura omonimia, perché non si dà nessuna somiglianza di senso tra i due attributi (...). In tal modo risulta dimostrato in modo definitivo che tra gli attributi che assegnjamo a Dio e a noi stessi, non esiste assolutamente nessuna comunanza di significato: la comunanza si dà soltanto a livello di nome e non altrimentimî‘ Come si vede, diversamente dallo Pseudo-Dìonigi e da quanto farà in seguito Tommaso d'Aquino, i quali non ignorano affatto l'infinita differenza qualitativa che separa l'uomo da Dio nella loro analisi del significato dei nomi divini, ma la mettono in gioco soltanto in un secondo momento (quello della via negativa), dopo che all'inizio affermano la somiDio
e
2°) Ibiti,c. 1. 21) Ibid, I, c. 56.
La
metafisica ebraica nel medioevo
405
glianza tra Dio e le creature (via positiva), Maimonide tralascia senz'altro la via positiva, escludendo qualsiasi somiglianza tra Dio e le creature e imbocca immediatamente la via dell’infinita differenza qualitativa, e quindi la via negativa. Così, con molta coerenza, egli deriva il secondo principio della sua semantica teologica, il quale afferma che non soltanto i nomi negativi (come infinito, immateriale, incorporeo, immobile ecc.) vanno intesi in maniera negativa, ma anche tutti i nomi positivi, come bontà, vita, scienza, potenza ecc.: essi significano che Dio non è carente di bontà, di vita, di scienza, di potenza ecc. «Vivente significa che Dio non è privo di vita (...), eterno vuol dire che Dio non ha una causa
esistere. Noi comprendiamo infatti che l'esistenza di questo che si identifica con la sua essenza, non solo gli basta per il suo essere, esistere, ma è anche la fonte di molte altre esistenze, e questo non come il calore emana dal fuoco, o come la luce dal sole, ma grazie a un'azione divina che conferisce loro durata e armonia mediante il suo governo. Ed è per questa ragione che noi attribuiamo a Dio la potenza, la scienza, la volontà, intendendo dire con questi attributi che Egli non ‘e né impotente, né ignorante, né stolto, né negligente. E se diciamo che egli non è impotente, ciò significa che la sua esistenza basta a far esistere le cose diverse da lui; non-ignorante significa che egli percepisce, ossia che vive, perché tutto ciò che è in grado di percepire possiede la vita; per nonstolto o non-negligente vogliamo dire che grazie alla sua attenzione tutte le cose seguono un ordine e regime, che non sono trascurate né lasciate in balia del caso, ma si comportano come tutto ciò che è guidato con intenzionalità e volontà. infine, ci rendiamo conto che Dio non ha simili; per questo diciamo che è unicwnîî L’unico nome proprio ed esclusivo di Dio di cui peraltro all'uomo sfugge completamente il significato è quello che ha rivelato egli stesso a del
suo
-
-
Mosè: il nome di non
Iahvé.
Si tratta di
un nome
assolutamente originale e
derivato, come tutti gli altri nomi che diamo a Dio, da usi preceden-
ti. «Il nome di "]ahvé” scrive Maimonide non possiede un’etimologia conosciuta e non si applica a nessun altro essere. Non vi è dubbio che questo nome glorioso indica una certa qualità rispetto alla quale non vi è nulla di comune tra Dio e gli esseri che sono fuori di Lui; forse indica nella lingua ebraica e secondo il modo di pronunciarlo l'idea di esistenza necessaria. In conclusione, ciò che fa sì che questo nome sia tanto importante che ci si deve persino guardare dal pronunciarlo, è che esso designa l'essenza stessa di Dio e nessuna creatura può partecipare a ciò che esso -
-
—
-
significa>>23
22) Ibid, c. 58. 23) 15m, c. 93.
406
Parte seconda
Singolare è la dottrina di Maimonide sui rapporti di Dio col mondo: è
tentativo di mettere insieme la dottrina biblica della creazione e della provvidenza con la dottrina neoplatonica degli intermediari. Maimonide assegna a Dio la creazione e la provvidenza per le realtà spirituali, le dieci intelligenze e l'anima umana, e attribuisce l'origine e la conservazione delle altre realtà (materiali) agli intermediari (le lntelligenzelî‘!
un
L'uomo 1-; L'UNIVERSO Sulla struttura dell'universo Maimonide segue molto da vicino le teorie di Avicenna. sull'esempio del grande filosofo arabo egli divide l'universo in due grandi ordini: uno superiore che comprende dieci lntelligenze pure, prive di qualsiasi materia, nove delle quali presiedono al moto delle sfere celesti, mentre la decima è l'lntelletto agente che esercita la diretta influenza sull'anima umana (mediante l'intelletto
possibile);
inferiore che comprende, oltre alle sfere Celesti, la luna, il mondo sublunare e i quattro elementi. L'uomo, grazie alla sua composizione psicofisica è posto al confine tra i due mondi ed è pertanto il punto focale della realtà cosmica: l'essere in cui si uniscono, sia pure in forma transitoria, i due aspetti più diversi dell' universo. Ogni uomo è dotato di un intelletto possibile personale (mentre l’Intelletto agente è unico per tutti). Le conoscenze che i singoli accumulano nella loro vita costituiscono una sorta Cli patrimonio razionale, diverso per ogni individuo, ed è questo "intelletto acquisito" che, a parere di Maimonide, dà all'uomo la possibilità di sopravvivere dopo la morte, riunendosi all'Intelletto agente e per il tramite dell’Intelletto agente a Dio stesso. Per conseguire questo sublime traguardo occorre vivere una vita morigerata: «L'uomo deve controllare i propri desideri e limitarli per quanto ‘e possibile, conservando soltanto quelli che sono indispensabili per sopravvivere. Il suo pensiero deve essere costantemente teso verso l'obiettivo proprio dell'uomo in quanto uomo, cioè la formazione delle idee e null'altro. E tra tutte le idee quella più bella e più sublime che l'uomo può formarsi è l'idea di Dio, degli angeli e del resto del creato. Coloro che la posseggono sono sempre con Dio».25 La perfezione del-
e uno
14)
Cf. ibid., II, cc. 25
25) Ibid<, lll, C. 8.
ss.
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metafisica ebraica nel medioevo
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l'uomo è, pertanto, di ordine contemplativo e spirituale. La legge morale, fattore di ordine sociale, liberal’uomo dalle sue passioni e gli permette di realizzare la sua vocazione spirituale. La Torah consente ai credenti di partecipare, attraverso la fede, alleredità spirituale di Mosè. Secondo Maimonide tredici articoli di fede riassumono i dogmi della Torah cui i figli di Israele devono aderire per accedere alla perfezione spirituale e alla salvezza. Maimonide crede che anche il cristianesimo e l'Islam contribuiscano all’avvento del regno di Dio; l'intera umanità realizzerà allora la pienezza della propria vocazione divina. LA
SCUOLA DI
MAIMONIDE
In seno al giudaismo tradizionale l'opera di Maimonide suscitò accese controversie. Mentre i rabbini di Montpellier, incitati da Salomon ben Abraham e dai suoi discepoli, bruciarono sulla pubblica piazza la Guida dei perplessi, in Spagna Juda al-Fakbar attaccava l'opera con argomenti propriamente filosofici. Ma, nonostante queste reazioni negative, l'opera
di Maimonide ottenne una grande diffusione e contribuì notevolmente allo sviluppo della speculazione razionale tra gli ebrei, sia in Oriente che in Occidente, specialmente in Spagna, Provenza e Italia. La Guida dei perplessi ebbe i suoi commentatori e prosecutori, fra cui bisogna citare Ioseph ben Iuda Ibn Aknin, un contemporaneo più giovane del maestro e che nelle sue opere, Commentari sui ”pirké avot” e Le massime dell'anima, riecheggia le principali dottrine della Guida, pur formulando una nuova dottrina sui rapporti tra scienza e rivelazione. Nella seconda metà del secolo XIII, Hillel ben Shamuel riconsidera e sviluppa nella sua opera principale, La retribuzione dellfiinima, le grandi tesi di Maimonide, insistendo sullîmmortalità dell'anima e sulla teoria degli intelletti (passivo, agente e acquisito). Fu invece un severo critico di Maimonide Hasdaj Crescas, il massimo filosofo ebreo del secolo XIV. Nella sua opera principale, La luce del Signore, egli polemizza contro l’averroismo, Yaristotelisrno e specialmente contro Maimonide, del quale denuncia l'eccessivo razionalismo, difendendo il primato della volontà e dell’amore, nonché il metodo della cabbala. LA CABBALA Nei secoli XIII e XIV, nel mondo giudaico, come reazione al razionalidi Maimonide, ottenne grande sviluppo la cabbala, una forma di
smo
conoscenza mistica
ed esoterica.
408
Parte seconda
Cabbala, 0 Kabbala, in ebraico significa tradizione. È
un sistema di interBibbia comunicata da Dio ai suoi eletti, Adamo, Abramo, Mosè e trasmessa ai rabbini. L'interpretazione cabbalistica fa ricorso al valore simbolico dei numeri e ad altre regole da iniziati, che Consentono di trovare nella Sacra Scrittura dottrine occulte, di intonazione prevalentemente gnostica. Il presupposto della cabbala è che la Bibbia nasconde nelle sue lettere la chiave della natura spirituale del mondo e di Dio. I temi fondamentali della cabbala sono: il mistero della vita interiore di Dio, la creazione del mondo, Yangelologia, l'elezione di Israele, la redenzione del mondo, l'avvento messianico, l’ascesi spirituale, l'unione con Dio ecc. La cabbala ripete i terni classici del pensiero giudaico medievale, ma tali dottrine vengono presentate in una luce nuova e rivestono un carattere di ineguagliabileoriginalità. La compilazione delle scritture cabalistiche è dovuta all’ebreo spagnolo Mosè di Leon (t 1350), il quale si servì di libri risalenti al l e al II secolofié
pretazione mistica della
36)
Sulla "cabbala” cf. C. SCHOLEM, La kabbale et sa symbolique, Paris 1966; G. VAlDA, Recherches sur la phiiosoplzie et la Kabbale dans la pensée juive di: moyen age, Paris-La
l-laye 1973.
La
metafisica ebraica nel medioevo
409
Suggerimenti bibliografici generali: I. ADLER, Philosophy of jurdaism, New York 1960; E. BERTOLA, La filosofia ebraica, Milano 1947; I. HUSIK, A History of Medioevo! Iewish Philosophy, Phìladelphia 1946; C. SCHOLEM, Les gmndes couronts de la mystique juive, Paris 1950; C. SIRAT, La philosophiejuive au Moyen Age selon Ies textes et Ies imprimés, Paris 1983; G. VAIDA, La pensée juive au Moyen Age, Paris 1947. Studi
IBN GABIROL Traduzioni: In francese è stata curata da I. Schlanger 1a traduzione di Pons vitae: Livre de la science de la vie, Paris 1970. Studi: E. BERTOLA, Ibn Gebirol (Azricebron). Vita, opere e pensiero, Padova 1953. MAIMONIDE Traduzioni: Della Guida dei perplessi esistono la traduzione francese e inglese: La guide des égarés, a cura di S. Munk, in 3 V011, Paris 1956-1966; The Guide for the Perplexed, a cura di M. Friedlander, New York 1956.
I. HESCHEL, Maimonides, New York 1935; M. ORIAN, Maimoizides. Vida, pensamiento y ohm, Barcelona 1985; H. SERUOYA, Maimonide. Sa vie et son oeuore, Paris 1964; D. j. SILVER, Maimonideizn Criticism arzd the Mdimonidean Cori troversy 1180-1240, Leiden 1965. Studi: A.
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IL SECOLO D'ORO DELLA METAFISICA CRISTIANA
Ogni grande civiltà ha il suo secolo d'oro. Per la civiltà greca il secolo d'oro fu quello di Pericle, per la civiltà romana quello d'Augusto, per la civiltà spagnola quello di Carlo V, per la civiltà francese quello di Luigi
E, così, per la civiltà medievale il secolo d'oro fu il secolo XIII: il secolo di Federico II e di Tommaso d'Aquino. Il secolo d'oro è sempre quello in cui una cultura raggiunge il culmine in tutte le sue espressioni creative; ‘e il momento in cui il genio, diventato maturo, manifesta prepotentemente tutta la sua prodigiosa fecondità in tutti i campi del sapere e del fare: nell'arte, nella letteratura, nella scienza, nella filosofia, nella politica, nella religione, nella teologia. Un tale periodo è sempre stato un momento favorevole per la metafisica, poiché in esso un popolo tocca le vette più alte del pensiero. Così avvenne nella Grecia del IV secolo, nella Spagna del XVI secolo, nella Francia del XVII secolo; e così fu anche per la cristianità medioevale del secolo XIII, durante il quale vissero e furono attivi Alberto Magno, Bonaventura, Tommaso d'Aquino, Sigieri di Brabante, Duns Scoto e altri ancora. Ma quali sono stati i fattori culturali che hanno favorito la ripresa e lo sviluppo di un sapere, la metafisica, che era stato per tanti secoli trascurato dai latini? I fattori determinanti sono stati quattro: la creazione delle università; l'ingresso del pensiero di Aristotele nel mondo latino; la nascita dei grandi Ordini religiosi dei Mendicanti; lo sviluppo della teologia. XIV.
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La fondazione delle università Per la storia della metafisica la fondazione delle università nei primi decenni del secolo XIII è stato un momento importante, anzi decisivo; e ciò per svariate ragioni, ma principalmente per il fatto che nelle università acquista grande prestigio la Facoltà delle Arti (Lettere), la quale nei suoi programmi accogliein larga misura i libri di Aristotele, compresa la
Metafisica.
Il secolo d '0r0 della
metafisica cristiana
411
ORIGINE DELLE UNIVERSITÀ
L'origine dell'università è legata alle scuole delle cattedrali, e più precisamente alla scuola della cattedrale parigina di Notre Dame. Durante il secolo XII questa scuola si sviluppò considerevolmente; con l'arrivo di Abelardo la parte della scuola che rappresentava le Artes si trasferì sulla riva sinistra della Senna, mentre la Theolrìgia restava nel Chiostro di Notre Dame. Però, nonostante questa separazione, tutta la scuola rimaneva sotto la giurisdizione del vescovo di Parigi e del cancelliere della cattedrale. Ma col costituirsi delle corporazioni della universitas dei docenti da una parte e della universitas degli studenti dall'altra, si mise in moto un meccanismo che portò alla definitiva separazione della uniUersitas dalla schola sia claustrale che episcopale. Ciò avvenne mediante
l'acquisizione di speciali privilegi da parte
dei docenti
e
dei discenti,
concessi loro sia dal papa che dal re di Francia. I maestri e gli scolari di Parigi trovarono un alleato potente in papa Innocenzo Il, il quale voleva dotare la cristianità di grandi centri di studio e di ricerca religiosa legati direttamente al papato, in anni in cui si accendevano ovunque focolai di eresia. Il decennio 1200-1210 fu decisivo per la formazione della università parigina. in questi anni nasce una Vera organizzazione corporativa dei maestri e degli scolari parigini e, di conseguenza, il loro conflitto col Vescovo e il cancelliere entra in una fase acuta; il contrasto durerà più di venticinque anni per concludersi con la vittoria pressoché totale di quella che ormai si può chiamare l'università di Parigi. Negli ultimi anni del secolo XII e nei primi del seguente le decisioni di papi e re furono indirizzate alla concessione, in favore degli studenti, di tutti i privilegi goduti dai chierici: «Una prima bolla di Celestino lII (1194) non era ancora formale in questo senso, ma la Carta accordata nel 1200 da Filippo Augusto ai maestri e agli studenti di Parigi, in seguito a scontri sanguinosi con la polizia del re, riconosceva loro esplicitamente il privilegio del tribunale, che per qualsiasi reato li assoggettava alla giustizia ecclesiastica. Tale decisione fu confermata e completata negli anni seguenti da un certo numero di bolle pontificie (particolarmente la Parens scierztiarunz del 1231) che al privilegio del tribunale aggiunsero quello del canone (con la pena della scomunica maggiore per chi usasse violenza fisica a un chierico) e significarono così con ogni evidenza che agli occhi del papato gli studenti dipendevano solo dall’autorità ecclesiastica».1 Tra il 1215 e il 1231 il Vescovo di Parigi e il cancelliere di Notre
l) I. VERGER, Le università nel Medioevo, Bologna 1991, p. 50.
412
Parte seconda
Dame tentarono l'ultimo assalto a un'organizzazione universitaria ormai bene organizzata, la cui resistenza vittoriosa sfociò nella già menzionata bolla Parens scientiarum di Gregorio IX, vera «Magna Charta dell'università» (DENIFLE) completata poi fin verso il 1250 da qualche altro privilegio. Tra i privilegi concessi alle corporazioni dei maestri e degli studenti c'era anche quello di un proprio sigillo, il simbolo della propria autonomia per autenticare gli atti. L'università di Parigi ottenne il suo sigillo nel 1246. Come osserva Iacques Verger, sulla organizzazione universitaria grava sin dalle origini un certo numero di contraddizioni, «forse legate alle necessità pratiche della lotta, ma che pesarono su tutto il destino successivo: corporazione urbana, l'università restava una istituzione
della
Chiesa; corporazione locale, ambiva a un'influenza internazionale
l'egida della Santa Sede»? sviluppo dell'università di Parigi e i suoi programmi di insegnamento (con svariati divieti relativi agli scritti filosofici di Aristotele) furono seguiti con speciale attenzione dai pontefici romani, perché era sotto
Lo
l'unica università
a
cui
era
consentito di concedere la licentia ducendi in
teologia. Contemporaneamente a Parigi sorse l'università di Bologna. Questa trasse origine per iniziativa degli studenti, i quali erano raggruppati in due grandi corporazioni (societates, universitutes): quelle dei Citramontani (gli italiani non bolognesi) e degli Ultramontani (i non italiani), e si caratterizzò come centro specializzato nello studio del diritto canonico. Anche gli studenti di Bologna come i maestri di Parigi ebbero l'appoggio efficace del papato, animato dalla volontà di favorire lo sviluppo dell'università mantenendola sotto il controllo della Chiesa. Nel 1219 Onorio III attribuì all'arcidiacono di Bologna il monopolio del conferimento dei gradi accademici e contemporaneamente condannò il giuramento di residenza che il comune cercava di strappare ai rettori. Altre importanti università videro la luce nella prima metà del secolo XIII: Oxford (1214), Padova (1222), Napoli (1224). Quest'ultima venne eretta dall'imperatore Federico II con motivazioni singolari: si trattava di danneggiare l'università di Bologna, città ribelle, e anche di fornire all'imperatore, sotto il suo controllo diretto, il personale amministrativo necessario per governare l'Italia in modo moderno. Di fatto gli inizi furono molto difficili e l'università di Napoli prese a funzionare regolarmente solo con l'avvento della dinastia angioina. -
2) 122141., p. 55.
-
Il secolo d'oro della
metafisica cristiana
413
STRUTTURADELLA ISTITUZIONE UNIVERSITARIA E METODI DI INSEGNAMENTO
Uuniversitas è una corporazione internazionale (di studenti e di docenti) per la promozione dello studio: si chiama infatti sia universitas studii sia universitas magistrorum et scholariunz. «A Parigi l'università era composta dai maestri e dagli studenti, ma l'iniziativa era per intero dei primi, mentre i secondi erano in posizione subalterna. A Bologna invece l'università, o piuttosto le due università degli Ultramontani e dei Ciframontani, erano costituite dagli studenti c i maestri ne restavano fuori. Perciò non solo gli studenti assicuravano da sé il funzionamento dell'università, ma si occupavano anche del reclutamento dei docenti, esercitando un controllo costante sul valore e la regolarità del loro insegnamento e anche della loro vita privata»! All'interno della realtà di base della università nel Duecento compaiono le suddivisioni delle facoltà e delle nationes. Le prime riguardano la suddivisione delle discipline insegnate. C'erano quattro facoltà, ordinate gerarchicamente nei diversi rami del sapere: la facoltà delle artes, dove si insegnavano le arti liberali del Trivio e del Quadrivio, e si forniva una preparazione alle tre facoltà superiori di teologia, diritto (canonico e civile) e medicina. Di fatto in molte università del Duecento c'erano solo due o tre facoltà; in particolare fino alla fine del Trecento, i papi si opposero alla moltiplicazione
delle facoltà di teologia, per riservare una sorta di monopolio a quella di Parigi, «lampada splendente nella casa del Signore». Così, dopo il tentativo fallito del 1229, Tolosa ebbe la facoltà di teologia solo nel 1362, Bologna nel 1364 e Montpellier nel 1421. Le nationes erano invece associazioni che raggruppavano gli studenti che avevano la stessa nazionalità, e provvedevano alla loro accoglienza e alla loro sistemazione. A Parigi le nationes erano quattro: francese, normanna, piccarda e inglese.
Il governo dell'università era gestito dal rettore, mentre gli esattori delle nazioni ne amministravano le magre finanze. «Il governo dell'università si riduceva ai due compiti essenziali della difesa dei privilegi universitari e dell'organizzazione del lavoro, cioè dell'insegnamento»! I corsi si tenevano in aule affittate dai maestri, mentre le assemblee, le dispute solenni, gli esami e le cerimonie erano svolti nelle chiese o nei
conventi.
s) lbid, p. 66. 4) lbid, p. 68.
414
Parte seconda
programmi e i metodi di insegnamento dell'università restano praticamente immutati, nella sostanza, rispetto a quanto già si faceva nelle scholae delle cattedrali e nei monasteri. Alla base dell'insegnamento c'è un testo che il maestro insegna a leggere e a capire. Per una migliore comprensione del testo egli si avvale di commenti accreditati, integrandoli opportunamente con proprie glosse o magari con una propria summa. Lo studio della teologia a Parigi si basava sui due testi fondamentali della Bibbia e delle Sentenze di Pier Lombardo; ma a questi testi tutti i magistri più qualificati (Rolando da Cremona, Alessandro di Hales, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino ecc.) aggiungevano la propria summa. Nelle facoltà delle Artes, per molto tempo la disciplina fondamentale rimase la dialettica, studiata sullflrganon e sui commenti di I
Boezio o di altri autori. Ma con l'avvento di Aristotele e dei filosofi arabi, l'attenzione dei maestri delle Arti liberali si spostò sempre più verso la fisica e la metafisica. In ogni facoltà l'insegnamento si svolgeva in due forme fondamentali: la lectio (lezione) e la disputatio (disputa). «La prima mirava a far conoscere allo studente gli ”autori" grazie ai quali avrebbero padroneggiato l'insieme della disciplina studiata; la seconda dava al professore il mezzo di approfondire alcune questioni in modo più libero di quanto non fosse consentito in sede di commento a un testo e offriva allo studente Yoccasione di mettere in pratica i principi della dialettica, di far prova della vivacità del suo ingegno e della correttezza del ragionamento».5 La lectio era tenuta al mattino: nella prima parte della mattinata dal magister, nella seconda dal suo assistente, il baccelliere, che riassumeva e spiegava quanto era già stato svolto dal maestro. La disputano sui punti più importanti e più difficili (le quaestiones) aveva luogo nel pomeriggio. Alla disputa potevano assistere oltre agli studenti e ai baccellieri della classe del maestro anche persone estranee. Il giorno dopo il magister forniva la determinatio, ossia la soluzione personale della "questione disputata”. I professori più bravi lasciavano la maggior parte dei corsi ai baccellieri per dedicarsi soprattutto alle dispute. Nei suoi due soggiorni parigini S. Tommaso organizzò almeno 518 dispute, cioè circa due alla settimana, dando luogo a quella serie di scritti che portano il nome di
Quacstioties disputatae.
Un esercizio didattico del tutto singolare si teneva una o due volte all'anno durante le vacanze di Pasqua o di Pentecoste -; era quello del quodlibet: una disputa pubblica, davanti all'intero corpo docente e di-
5) lbid, p. 76.
Il secolo d ’0r0 della
metafisica cristiana
415
scente dell'università, che poteva riguardare qualsiasi tema (quod tibet) e che perciò supponeva nel magister una competenza vastissima, enciclopedica, un esercizio quindi che pochi maestri erano in grado di affrontare. Nella sua duplice docenza parigina S. Tommaso ne sostenne ben dodici. Già al momento della nascita delle università, la facoltà delle Arti (Lettere) si presenta con una fisionomia diversa da quella delle scholne artium del secolo XII, soprattutto nella misura in cui essa rivendica per i maestri che vi operano un'autonomia completa dagli altri settori di studio, sia dal punto di vista del metodo sia in ciò che concerne i contenuti. Con l'avvento delle nuove strutture e del nuovo clima di libertà e di scoperta che anima il mondo accademico, gli artistae ritengono oggetto della propria competenza non soltanto i principi della logica, che consentono la regolamentazione formale delle diverse discipline, ma in pratica l'intera philosophia, intesa come il sistema del sapere di tutte le cose comprese nell'orizzonte naturale ed esplorate dalla ratio physica. Grazie soprattutto all'avvento dellaristotelisino, il programma di studi delle Arti finisce con Yidentificarsi con la philosoplzica doctrina naturalium, i cui maestri, esperti di philosophicaerationes, si impongono come i naturalium sectatores. In queste condizioni, e in evidente contrasto con la considerazione che ha di sé e della propria funzione, anche la facoltà di teologia non può che dipendere direttamente dalle Arti, se vuole fare uso di tale philtisophia o se solo vuole esprimere un giudizio su di essa. Lo stesso ordine degli studi, d'altra parte, impone tale subordinazione: gli studenti iscritti a teologia si sono già "affezionati" alla scientin Aristotelis e non intendono rinunciarvi o sconfessarla. Da studenti e poi da maestri di teologia essi continuano perciò a fare filosofia «tam in substantiu quam in modo» (RUGGERO BACONE). Come vedremo più avanti, da questa profonda penetrazione della filosofia aristotelica nel territorio della teologia, la metafisica trasse enorme profitto.
L'ingresso di Aristotele e dei filosofi arabinel mondo latino Il secondo fattore che ha contribuito in modo decisivo alla rinascita e allo sviluppo della metafisica nel mondo latino fu «ilritorno di Aristotele in Occidente». Fino alla fine del XII secolo di Aristotele gli scolastici conoscevano e utilizzavanosoltanto la logica: sia la logica tretzzs (Categorie, Interpretazione, Arzalitici primi), sia la logica nova (Arialitici secondi, Topici, Elenchi sofistici). Tutto il resto del grandioso corpus aristotelicum era loro praticamente ignoto.
416
Parte seconda
Per quali intricati passaggi i latini siano riusciti nel giro di pochi decenni a giungere alla conoscenza di tutte le opere filosofiche e scientifiche dello Stagìrita è stato chiarito da alcuni eminenti medioevalisti, in particolare da M. De Wulf, M. Grabmann, P. Glorieux e F. van Steenberghenfi I primi passi furono compiuti con le traduzioni dal greco in latino,
passando attraverso l'arabo. Ciò avvenne in Spagna e in Sicilia, dove i musulmani disponevano delle traduzioni arabe delle opere aristoteliche. Così, con l'aiuto di qualche studioso che conosceva perfettamente l'arabo, oltre che il latino: Enrico Aristippo, Domenico Gundissalino, Michele Scoto, Gerardo da Cremona, volsero dalla lingua araba nella lingua latina le seguenti opere di Aristotele: De anima e De ‘qeneratione (Enrico Aristippo); De nzurzdo ed Ethica (Domenico Gundissalino), De coelo e Physica (Michele Scoto); Metaphysica e MBÌETCOIOgÌCtI (Gerardo da Cremona). Tutte queste traduzioni furono effettuate negli ultimi decenni del
XII secolo. Nello stesso arco di tempo furono tradotte anche alcune opere di Al-Farabi,Avicenna e Averroè, e le S ufiìcientiae di Avicenna, eccellente sintesi della Metafisica; i vari commenti alla Metafisica od opera di Al-Farabi e di Averroè contribuirono in modo decisivo a far prendere via via una più viva coscienza del valore e dell'importanza del pensiero di Aristotele, incommensurabilmentepiù ricco di quanto si potesse desumere solamente dagli scritti logici deIYOrganOn. Ma la recezione di Aristotele da parte dell'università di Parigi, che come sappiamo in quel tempo era il massimo centro della cultura cristiana, fu lenta e difficoltosa. L'opposizione proveniva dalla facoltà di teologia, che aveva prontamente denunciato il cattivo uso che due illustri maestri, Amalrico di Bene e Davide di Dinant avevano fatto di Aristotele nei loro scritti teologici. Si conosce poco del loro pensiero perché tutte le loro opere andarono perdute. Amalrico di Bene morì a Parigi nel 1206, dopo avervi insegnato prima logica e successivamente teologia. Accusato di eresia nel 1204, si appello Amalrico fu a Innocenzo III che confermò la condanna, e per questo avversari e testimonianze Dalle tesi. le degli abiurare ad costretto proprie attrache Amalrico, sembra carico dai procedimenti dei processi a suo materia di e del aristotelico verso una cattiva interpretazione del concetto motivi neoplatoniconcetto platonico di partecipazione, sviluppando dei ci di Giovanni Scoto Eriugena, accentuasse la presenza di Dio nel mondo,
6)
Cf. M. DE WULF, Storia della filosofia medioevale, Firenze 1944; M. GRABMANN,
Forschungen ùber die lafeinischen Arìstoteles-Uebersetzungcn des XIII Iahrunderts, Freiburg i. B. 1916; P. GLORIEUX, Repertoire des nzaîtres en théologie au XIII siècle, Paris 1933; F. VAN STEENBERGHEN, Aristotle in the West. The Origins of Latin Aristoteliaitisnr, Louvain 1955.
Il secolo d'oro della
metafisica cristiana
417
considerandolo come l'essere di tutte le creature. Di qui certe tesi che vengono attribuite, come «Dio è pietra nella pietra»? L'autore del Contra Anzauricianos accusa Amalrico e i suoi porsi in una prospettiva teorica più filosofica che teologica e
gli
seguaci di
spiega che testimoniandelle il vero teologo dovrebbe preoccuparsi essenzialmente della verità ze della Scrittura e della Tradizioneecclesiastica a sostegno alla affida si che umana, colui è filosofo ragione contro della fede; per fondata sia il merito, fede la suo quando perde non tenendo conto che sugli "esperimenti" della mtiofi David di Dinunf (ancora vivo nel 1260) è l'autore di un'opera intitolata Quatemuli di cui possediamo pochissimi frammenti raccolti da G. Théry. Il suo pensiero sembra essere un insieme di aristotelìsmo e di platonismo e sfocia nelle stesse tesi panteistiche del suo contemporaneo e probabilmente collega di insegnamento, Amalrico di Bene. L'essere, secondo David di Dinant, comprende tre realtà primarie: la materia, da cui risultale no i corpi, la mente da cui derivano le anime, e Dio da cui provengono idensostanze eterne e separate. La materia prima costituisce l'elemento tico in cui convengono e in cui si identificano i corpi, le anime, Dio. Dio è identico alla materia prima perché è senza forma, altrimenti sarebbe una sopra della qualsiasi sostanza determinata, soggetta alle categorie. Al sidi identificano materia prima nulla è concepibile.l tre indivisibiliquindi tra di loro: Dio è identico alla materia prima}! Preoccupati per i rischi che correva la teologia aprendosi indiscriminatamente ad Aristotele, i maestri parigini della facoltà di teologia sollecìtarono i vescovi della loro provincia a intervenire con fermezza. Il che avvenne prontamente. Nel 1210 i vescovi della provincia ecclesiastica di Sens (a cui allora apparteneva anche Parigi) si riunirono sotto la dal presidenza dell'arcivescovo Pietro di Corbeil. I decreti elaborati di di Bene e Amalrico di condanna la sinodo formulario dapprima siano conseDinant del i che Quatemuli David de Dinant; ordinano poi dati alle fiamme; e infine pronunessere di al vescovo Parigi per gnati ciano il seguente divieto: «Non vengano letti a Parigi né i libri di Ari7) 8)
M. DAL FRA, Amalrico di Bene, Milano 1951, pp. 33 ss. «Ma poiché mi sembra di parlare più a dei filosofi che a dei teologi infatti se fossero veri teologi concorderebbero più con l'autorità dei santi che con la ragione umana, sapendo che la fede supportata dalla prova della ragione umana non ha merito allora questo stesso possiamo provare in forza della facoltà naturale» (Contra Amauricianos, ed. C. Baeumker, Mùnster 1926, in Bcitràge zur Geschichte der Philosophic dcs Mittelalters, 5-6, p. 32). Cf. L. GARDET-M. M. ANAWATI, Introduction ù la rhéologie musulmaize, Paris 1948, —
—
’
9)
pp. 266 ss.
418
Parte seconda
stotele sulla filosofia naturale né i commenti, pubblicamente 0 privatamente, e ciò proibiamo sotto la pena della scomunica (Nec libri Aristotelis de naturali philosophia nec commenta legantur Parisius publice ve! secreto, et hoc sub poema excommunicatlonis inhibemus)». Il divieto suona chiarissimo: esso riguarda i libri riaturales, vale a dire tutte le opere di Aristotele della Logica e dell'Etica; e riguarda il loro uso come testi di insegnamento (è questo il senso di legantur, in quanto si riferisce precisamente alla lectio) e non come testi di consultazione personale privata. Quanto ai cornmenta, si tratta dei commenti e delle sintesi del pensiero di Aristotele scritti da Al-Farabi e Avicenna, perché nel 1210 le traduzioni di Averroè non erano ancora
Cinque anni
state fatte.
più tardi (1215) il delegato pontificio Roberto di Courgon
fece pubblicare i nuovi statuti dell'università parigina, dove il divieto dell'uso dei testi aristotelici veniva ribadito nei termini seguenti: «Non siano letti i libri di Aristotele sulla metafisica e sulla filosofia naturale né
le summe dei medesimi, 0 dell'insegnamento del maestro Davide di Dinant o dell'eretico Amalrico o di Maurizio di Spagna (Non legantur libri Aristotelis de metapbysica et naturali philosoplzia nec summae da eisdem, aut de doctrina nzagistri David de Dinant aut Anzalrici ltaeretici, aut Mauricii hispani)». Anche il senso di questo decreto è molto chiaro. Tra i libri naturales ora figura esplicitamente anche la Metafisica; le Summae del 1215 corrispondono ai Commenta del 1210, i due termini convengono molto bene per designare le parafrasi di Avicenna. "Maurizio di Spagna” (Maurici hispani) resta invece un personaggio affatto sconosciuto. Questi divieti non potevano certo essere accolti con favore dalla facoltà delle Arti, la quale iniziò un'aspra e prolungata polemica con la facoltà di Teologia, polemica che conoscerà una pausa tra gli anni 1240-1260, per riprendere poi con rinnovato vigore e raggiungere 1’acme nel 1277.10 Per qualche tempo il decreto fu osservato e nessun professore dell'università di Parigi osò leggere o commentare in pubblico la Pbysica o la Metaphysica di Aristotele. Ma non tardarono a farsi sentire rimostranze più o meno vivaci. Il martedì grasso del 1229 venne turbato da un conflitto tra l'università e le forze dell'ordine: l'urto si inasprì a tal punto che si giunse a una sospensione generale dei corsi e all'esodo degli studenti verso le città di provincia o i paesi stranieri. Lo sciopero studentesco durò per più di due anni, preoccupando vivamente il papa. Gregorio IX decise di intervenire direttamente emanando 1a bolla Parens scientiarum (13 aprile 1231), che divenne la magna charta dell'università di Parigi. Quanto alle opere di Aristotele la bolla ribadiva però i precedenti
m)
Cf. F. VAN STEENBFRGHEN, 0p. ciL, pp. 78 ss.
Il secolo d ‘oro dalla metafisica cristiana
419
divieti, fino a quando non fossero state adeguatamente corrette ed emendate: «A Parigi non vengono utilizzati quei libri sulla natura, che nel Concilio provinciale furono proibiti per una giusta causa, finché non saranno stati esaminati e liberati da ogni sospetto di errore (... libris illis naturalibus, qui in Concilio provinciali ex certa causa prohibitifuere, Parisius non. utantur, quousque examinatifiierintet ab omni errorunz suspitionc purgati)». A tal fine il papa nominò una commissione di cui faceva parte lo stesso vescovo di Parigi, il grande teologo Guglielmo d'Auvergne. Ma la commissione non si mise mai al lavoro.“ Così, fino al 1250 l'insegnamento di Aristotele a Parigi restò ancora limitato almeno ufficialmente alla Logica e aIPEthiCa. Una sorte migliore toccò ai Libri naturales nella università di Oxford, dove la Physica e la Metaphysica circolavano liberamente e venivano pubblicamente commentati sin dalla seconda decade del sec. XIII. Comunque anche a Parigi quando ci si avvide che Femenclazionedei libri incriminati non risultava fattibilee non sarebbe mai giunta in porto, alcuni docenti cominciarono a ignorare il divieto. In genere coloro che potevano farlo impunemente erano i membri dei nuovi Ordini Mendicanti, Francescani e Domenicani, sui quali la vigilanza e il peso dell'autorità ecclesiastica era minore. Nella Summa theologica di Alessandro di Hales, il primo francescano a occupare una cattedra di teologia nell'università di Parigi (dal 1238 al 1242), si trovano frequenti citazioni di Aristotele, anche se Hales è del parere che si deve credere più ad Agostino e ad Anselmo che ad Aristotele: «plus credendum est Augustino ac Anselmo quam Arist0teli>>J2 Che fino al 1240 i libri di Aristotele non circolassero ancora facilmente e ampiamente nell'università di Parigi ci risulta anche da una specie di "guida del candidato", redatta da un maestro della facoltà delle Arti tra il 1230 e il 1240, per facilitare agli studenti la preparazione agli esami. Vi si descrive ogni libro impiegato nell'insegnamento e si indica— no le questioni più frequentemente poste sul loro contenuto. L'enorme interesse di questo documento emerge dalla descrizione Che ne ha dato Grabmann. ljanonimo autore inizia la sua esposizione con alcune considerazioni di carattere generale sulla filosofia. Ispirandosi a Boezio descrive la natura e la struttura della filosofia; combina la vecchia divisione tripartita (rationalis, naturalis, moralis) con la divisione aristotelica in speculativa e pratica. Il Liber de causis figura come terza parte della Metafisica di Aristotele, mentre la teologia diviene una scienza pratica, una specie di morale soprannaturale o di sapienza di vita. —
I1) Ci. Ibzat, pp. 84-88. l?) Ibzd, p. 118.
—
420
Parte seconda
era in effetti l'idea di teologia che circolava durante la prima metà del secolo XIII e corrispondeva alla concezione agostiniana della scienza teologica. Il dato più frequente per quanto concerne l'effettivo insegnamento che si teneva a Parigi e il posto che vi occupavano nei decenni 1220-1240 le varie materie nella facoltà delle Arti, è fornito dallo spazio che l'anonimo autore del vademecum riserva a ciascuna di esse. Così la Metafisica occupa appena mezza colonna; la Fisica poco più di una colonna, mentre all'Etica di Aristotele sono riservate ben cinque colonne. La Grammatica riempie 23 colonne e la Logica 60. La differenza di Considerazione risulta ancora più accentuata se si considera il contenuto dello scritto. Della Fisica e della Metafisica l'autore indica solamente la finalità dei trattati e aggiunge qualche annotazione di carattere generale; per l’Etica, la Grammatica e la Logica la ripartizione dei testi (divisio textus) è accompagnata da un numero più o meno considerevole di questioni che riguardano l'opera presa in esame: ogni questione riceve anche una breve risposta. «Da questi fatti emerge una chiara conclusione: in questo periodo la Metaphysica e i Libri naturales di Aristotele non erano esposti nella facoltà delle Arti di Parigi. La loro esistenza veniva ricordata e forse se ne forniva anche qualche breve analisi, ma non erano usati come testi scolastici. Il che spiega l'assenza totale di commenti parigini a tali opere prima del 1240».13 Ad Aristotele l'università di Parigi spalanca ufficialmente le porte nel 1252, quando sono ormai trascorsi i tre settenni fissati nel 1232 per l'enrendatio degli scritti aristotelici. Si comincia con il De anima adottato come testo dalla nazione inglese nel 1252. Fra il 1252 e il 1255 si verifica una vera irruzione delle opere aristoteliche nel campo universitario degli "artisti" e dei filosofi parigini di tutte le nazioni; tanto che nel 1255 si sente il bisogno di fissare il calendario della lettura pubblica dei testi dell'intero corpus aristotelico. Di comune accordo il senato accademico vara un programma di studio che riguarda le opere di Aristotele. Il calendario stabilisce che nell'arco di un anno accademiconella facoltà di lettere si leggano e si commentino praticamente tutti gli scritti di Aristotele: Logica vetus, Physica, Metaphysica, De animalibus, De coelo et mando, Meteorologica, De anima, De generatione, De sensa et sensato, De somno, De plantis, De memoria et reminiscentia, nonché il De caasis (ancora
Questa
ritenuto opera di Arist0tele).14
13) Ibiaî, p. 93. 14) Cf. A. MASNOVO, Da Guglielmo dvfiuvergne a V.
I, pp. 32-33.
S. Tommaso d'Aquino, Milano 1944,
Il secolo d'oro della metafisica cristiana
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Mai prima d'allora, né ad Atene né a Roma, né ad Alessandria né a Badgad, né a Damasco né a Cordoba Aristotele aveva riscosso un così grande successo. In quegli anni egli divenne veramente il sapiente per eccellenza nei campi principali del sapere umano: la logica, la fisica (scienza) e la metafisica. Sotto l'influsso del suo pensiero la civiltà cristiana nel suo complesso ricevette un nuovo impulso e si avviò verso traguardi sempre più avanzati; inoltre dal «ritorno di Aristotele in Occidente» trassero grande profitto non solo le scienze naturali ma anche la teologia e la metafisica.
Le recezioni di Aristotele nel XIII secolo che tutta la filosofia del secolo XIII risente dellînflusso di si Aristotele, deve peraltro chiarire che i magistri parigini non recepiscono Aristotele tutti nello stesso modo e che questi viene conosciuto c insegnato attraverso interpretazioni tra loro assai differenti, per cui si può dire che non sempre si tratta dello stesso Aristotele. Infatti in questo secolo incontriamo in successione tre principali recezioni del pensiero aristotelico che sono collegate rispettivamente ai nomi di Avicenna, Averroè, Tommaso d’Aquino. Abbiamo anzitutto la recezione avicenniana. Nella prima metà del secolo XIII Aristotele viene letto nella prospettiva di Avicenna. Questi, come sappiamo, nel Sifiz e nel Najat aveva realizzato una eccellente parafrasi neoplatonizzante della metafisica aristotelica. Sin dai primi decenni del secolo XIII tutti i maestri parigini conoscono gli scritti di Avicenna, li leggono assiduamente, li citano frequentemente, senza fare distinzione tra ciò che appartiene effettivamente ad Aristotele e ciò che invece è opera di Avicenna. Comunque «Patmosfera che si respira nei primi del 1200 è impregnata di Avicenna. Tutti, pro o contro ne respirano. Uorganismo forte irrobustisce, l'organismo debole ne muore».15 Mostrano favore per Avicenna Guglielmo d’Auvergne, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino; mentre gli sono per lo più contrari Ales— Se è
vero
Sandro di Hales, Ruggero Bacone, Bonaventura. Di fatto Avicenna non può essere considerato un autentico "aristotelico” proprio perché egli ha inserito le grandi categorie metafisiche aristoteliche entro il quadro complessivo di una cosmogonia e di una teologia di evidente matrice neoplatonica. Agli occhi dei primi latini venuti a con-
15) Ibid, vol. II, p, 131. Questa eccellente opera del Masnovo è lo studio più completo e più profondo della stagione avicenniana della metafisica cristiana del secolo XIII.
422
Parte seconda
la filosofia greco—araba tuttavia, e precisamente per questo, egli appare come il sapiente che ha saputo almeno virtualmente accordare il maestro dei physici, Aristotele, con la Visione religiosa del mondo. Agli inizi della nuova gestazione intellettuale del mondo universitario il suo pensiero sembra dunque offrire lo sfondo più adatto per operare una tatto
con
conciliazione tra la concezione
teologica
del mondo dello
pseudo-
Dionigi, l'antropologia cristiana di Agostino e il sistema scientifico della natura di Aristotele. I più originali risultati di tale confronto, e più in particolare la sintesi che i maestri latini hanno creduto, lungo questa via, di poter realizzare tra Agostino e Avicenna, hanno suggerito agli storici del pensiero la possibilità di contrassegnare, a seconda della maggiore o minore incidenza dell'uno 0 dell'altro, ora come agostinismo avicennizzante (GILSON) ora come avicennismo latino (DE VAUX) l'orientamento speculativo che avrebbe caratterizzatoanzitutto alcuni autori del secolo XII e poi contagiato molti teologi del primo Duecento, preoccupati prima della pericolosa influenza clelYAristotele naturalista e successivamente dell'aristotelismo averroistìco. La seconda recezione di Aristotele è quella averroistica. A partire dal 1230 i commenti letterali di Averroè soppiantano le grandi epitomi di Avicenna e Al-Farabi. Aristotele viene completamente de-platonizzato e ricondotto al suo autentico e genuino insegnamento. Fra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo XIII Averroè viene accolto dalla facoltà delle Arti come autentico interprete di Aristotele: prima del 1246-1247 solamente Ruggero Bacone afferma più volte che Averroè e non Aristotele ha fatto dell'intelletto agente una facoltà distinta dall'anima. In generale, gli Artistae ritengono che l’autenticoAristotele non è quello di Avicenna ma quello di Averroè, senza con ciò essere turbati dal fatto che con l’esegesi averroistica si viene ad aggravare il disaccordo tra le posizioni di Aristotele e i dogmi della fede cristiana su questioni di capitale importanza come l’origine del mondo, la divina provvidenza, l'intelletto agente, l'immortalità dell'anima. Essi pensano che si possa tracciare un solco netto tra verità di fede e verità di ragione, e insistono sul fatto che secondo Aristotele l'eternità del mondo, Yinalterabiie regolarità della natura e l'unità dell'intelletto agente potrebbero essere dimostrati in maniera conclusiva per mezzo della ragione umana. In questo modo essi gettano le basi di quella che più tardi sarà chiamata la teoria della doppia verità. La terza recezione di Aristotele è quella tomistica. Essa nasce dal contrasto tra Avicenna e Averroè e dalla inammissibilitàdella teoria della doppia verità. Tommaso d'Aquino era un grandissimo ammiratore di Avicenna ma soprattutto di Aristotele e non credeva che su punti fondamentali della metafisica questi due acutissimi ingegni fossero così lontani dalla verità come lasciava intendere Averroè nei suoi commenti ad
Il secolo d'oro della nzetafisica cristiana
423
Aristotele. Così 1’Aquinate decide di compiere un'opera di personale verifica e Compie la straordinaria impresa di commentare "letteralmente” tutto il corpus aristotelico. Ne viene fuori un "terzo” Aristotele, diverso sia da quello platonizzante di Avicenna che da quello "paganeggiante” di Averroè: un Aristotele talvolta ambiguo e che andava quindi chiarito ma molto più vicino al cristianesimo di quello di Averroè. Anche l'opera di ”purificazione” e di chiarimento compiuta da S. Tommaso non consentiva di aderire in tutto e per tutto all’aristote1ismo, assolutizzandolo come se fosse realmente la regala infallibilisomnis veritatis, come pretendevano gli averroisti. Nonostante ciò sul piano filosofico e metafisico, Aristotele a giudizio di S. Tommaso risultava più attendibiledi Platone ed era indubbiamenteuna guida sicura nella ricerca della verità. Dialogando con questo ”nuovo” Aristotele, il Dottore Angelico costruisce un sistema metafisico che assume come fondamento un concetto di essere differente da quello posto alla base dei precedenti sistemi metafisici, e che viene cioè inteso non semplicemente come actus, bensì come actus omnium actuum: come atto di tutti gli atti. -
-
—
-
I nuovi Ordini religiosi di San Domenico e San Francesco Il terzo fattore che contribuì alla rinascita della metafisica fu la fondazione nel secolo XIII degli Ordini religiosi dei Mendicanti. Fu questo un evento di capitale importanza non soltanto per la Chiesa ma anche per la respublica christiana e per la sua cultura. Fino a quel momento l'ordine religioso cui spettava il merito di aver tenuto viva la fiaccola della cultura cristiana e di quella greco-romana in generale era stato l'Ordine benedettino, con la sua enorme diffusione e le sue molteplici ramificazioni. L'Ordine benedettino era un ordine monastico, e quindi orientato più alla contemplazione che alla predicazione e all'azione, e durante la sua storia aveva coltivato gli studi, tanto da diventare il solo tramite per la trasmissione della cultura antica nel mondo latino. Ma anche in questa attività i monaci praticavano una specie di ”clausura", ritenendo che la cultura fosse riservata esclusivamente ai monaci e non ai chierici e ai laici. I nuovi Ordini di S. Domenico e S. Francesco istituiscono un nuovo rapporto col mondo del sapere, avendo come scopo precipuo la cristianizzazione universale nel nuovo contesto intellettuale e sociale rappresentato dalla diffusione dei centri universitari. Francesco e Domenico sono entrambi mossi dall'esigenza di contribuire al rinnovamento della vita evangelica ed ecclesiale attraverso una "nuova predicazione”.16
15)
Cf. I. LONGÈRE, La prédication médiévale, Paris 1983, pp. 93-124 Bibliografia, pp. 253-260.
e
relativa
424
Parte seconda
Quella domenicana, fin dalle origini, fu rivolta ai ceti intellettuali e fu
combattere e a debellare i movimenti ereticali contemporanei; invece fu sempre di carattere tipicamente morale e si francescana quella sostanziò soprattutto nella testimonianza della fraternitas evangelica, all'interno del complesso e dinamico tessuto sociale dei nuovi ceti sociali. Per svolgere degnamente la missione di annunciare il Vangelo sia alle classi più umili come a quelle più elevate, i frati avevano bisogno di un'adeguata preparazione intellettuale: dovevano cioè possedere una conoscenza approfondita della S. Scrittura, della teologia e deìla morale. Così entrambi gli Ordini Mendicanti procedettero alla fondazione di propri centri di studio studia generalia situandoli nelle città che fossero sedi universitarie come Parigi, Padova, Bologna, Napoli, Oxford ecc., e generalmente nei pressi delle stesse università. Ciò consentiva ai loro frati di frequentare le facoltà delle Arti, di teologia, di diritto e di conseguirvi i titoli accademici che li abilitavano all'insegnamento (licentia docendi). Prima del 1220 i Domenicani furono inviati direttamente dal loro fondatore a studiare teologia a Parigi e a erigervi un loro studium: il famoso convento di Saint Iacques, che già nel 1224 poteva contare ben 120 frati studenti provenienti da tutte le province dell'Ordine. I Francescani tentarono l'ingresso a Parigi a partire dal 1220, ma si scontrarono con la forte avversione della corporazione universitaria. Nonostante i tanti pregiudizi che li circondavano a motivo del loro ”evangelismo", riuscirono egualmente nell'intento, grazie alle reiterate raccomandazioni pontificie e all'appoggio del maestro Filippo il Cancelliere. Non più tardi del 1236, in seguito all'ingresso nell'Ordine del maestro secolare Alessandro di Hales, anche lo studium dei Francescani fu integrato nel Corpo della facoltà di Teologia. Dopo pochi decenni, a contatto con le università, Francescani e Domenicani divennero protagonisti decisivi nella nuova vita intellettuale della respublica christiana. Quasi tutti i maestri più celebri del secolo XIII appartennero agli Ordini di S. Francesco e 5. Domenico, e furono proprio questi che crearono nuovi sistemi di pensiero, produssero nuove ”somme teologiche" e innalzarono nuovi edifici metafisici. Anche la vocazione missionaria dei nuovi ordini religiosi si può considerare come un'altra ragione importante del profondo rinnovamento della formazione culturale del tempo: essa infatti esigeva una conoscenza seria e profonda delle popolazioni alle quali si portava l'annuncio evangelico. E poiché i destinatari dell'evangelizzazioneerano soprattutto gli arabi, ciò che si richiedeva era un'adeguata conoscenza della religione, della cultura, della filosofia e della teologia islamica: anche questo contribuì ad allargare gli orizzonti della metafisica cristiana.
intesa
a
—
—
Il secolo d '0r0 della
L0
metafisica cristiana
425
sviluppo della teologia
Già nel secolo XII la
teologia aveva fatto registrare una straordinaria
fioritura speculativa.” Con Pier Lombardo, Ugo e Riccardo di S. Vittore, Gilberto Porretano, Abelardo e Alano di Lilla dalla semplice lettura (lectio) della Sacra pagina si era passati alla discussione (aaaestio) dei punti più importanti e più difficili della Bibbia e della fede cristiana, e si erano già raccolte e ordinate le qaaestiones in Summae. Ma lo statuto epistemologico della teologia era rimasto ancora incerto e confuso; ci si chiedeva infatti se fosse anch'essa un’ars oppure una scientia. Il suo strumento privilegiatoera ancora la dialettica, la quale serviva non tanto all'approfondimento della conoscenza e della chiarificazione razionale dei misteri quanto alla determinano delle sentenze dei Padri. Nel secolo XIII, soprattutto per merito di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, la struttura gnoseologica della teologia viene finalmente chiarita: anche la teologia è scienza, in quanto si avvale di una metodologia precisa e rigorosa come tutte le altre scienze e si basa su principi (i misteri) che definiscono l'area della sua ricerca; e come ogni altra scienza anche la teologia si avvale della logica. Tutto ciò era stato in effetti ben compreso anche dai teologi del secolo XII: Abelardo, Gilberto Porretano, Alano di Lilla. Ma la logica può garantire soltanto la correttezza degli argomenti e non è in grado di apportare invece nuove conoscenze e l'approfondimento dei contenuti e dei concetti. Per poter ottenere questo guadagno speculativo la teologia aveva bisogno di un altro strumento conoscitivo, cioè della metafisica. Pertanto, attraverso una più chiara definizione dello statuto epistemologico della teologia, si crea anche uno spazio nuovo per la metafisica, poiché essa ricava dalla sua utilizzazione da parte della teologia enormi vantaggi e orizzonti vastissimi. L'esigenza della teologia di assicurare alla fede più solide basi razionali indusse i teologi del secolo XIII a vestire sempre più i panni del filosofo e del metafisico. Così tutti i grandi teologi del secolo d'oro della teologia divennero anche grandi metafisici. Da Aristotele, Platone, Agostino, Boezio, Avicenna, Avicebron essi trassero ispirazioni e ricchezze di pensiero. Anche Agostino tra i dottori cristiani ascende alla dignità di filosofo, e Aristotele fa sentire il suo peso in ogni specie di trattazione.
Come ha osservato Gilson, le metafisiche elaborate dai teologi del seuna cosa in comune: sono tutte metafisiche dell'essere. In vera struttura unificante cui approdarono i magistri del
colo XIII hanno effetti, la prima
17)
Cf. M. D. CHENU, La
tlzcolngie aa doazfènre siede, Paris 1957.
426
Parte seconda
secolo XIII fu la dottrina dell'essere. Basandosi su minimali spunti teoreticì suggeriti dalle intentiones degli auctores del passato, essi affinarono il discorso sull'essere, relativo a tutti gli enti, con termini di massima astrazione concettuale, concentrarono in un unico procedimento speculativo le considerazioni che la mente umana può compiere intorno a Dio e alle creature e, di conseguenza, spiegarono i rapporti che sono convenienti all'essere divino e agli esseri creaturali. In questo modo essi posero le basi delfinscindibilenesso tra ontologia metafisica e teologia fondamentale: cioè il denominatore comune della modalità filosofica della teologia di tutto il secolo Xlll. La civiltà cristiana è necessariamente una civiltà teologica, ma essa è allo stesso tempo anche una civiltà metafisica. È quindi del tutto naturale che il secolo XIII, oltre che il secolo d'oro della teologia, sia stato anche il secolo d'oro della metafisica. In effetti la grande Scolastica ha scritto pagine memorabili non soltanto nella storia della teologia ma anche nella storia della metafisica. Anzi, si può affermare che la grandezza della speculazione teologica dei maestri del secolo XIII è strettamente legata alla profondità delle loro speculazioni metafisiche.
I principali indirizzi della metafisica cristiana nel XIII secolo Classificare le molteplici correnti di pensiero che attraversano il secolo XIII non è cosa agevole. Gli storici che assumono come base della classificazione l'utilizzazionedella metafisica di Aristotele sono inclini ad individuare tre indirizzi principali, 1. Quello di coloro che utilizzano Aristotele con grande parsimonia, conservando una visione sostanzialmente platonico-agostiniana. Esso viene chiamato agostinismo-aristcitelizzante ed è rappresentato principalmente dalla Scuola Francescana. 2. Viene poi l'indirizzo capeggiato da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, i quali assumono la metafisica di Aristotele in toto e allo stesso tempo cercano di armonizzare Aristotele col cristianesimo apportando al pensiero dello Stagìrita alcune modifiche e integrazioni. A questo indirizzo si dà il nome di aristotelismo moderato. 3. C'è infine l'indirizzo degli averroisti latini, guidati da Sigieri di Brabante. Essi fanno professione di aristotelismo puro, così come era stato esposto da Averroè. A questo indirizzo si dà il nome di aristotelismo radicale.
Questa classificazione però non esaurisce il quadro della utilizzazione della metafisica aristotelica da parte dei maestri latini del secolo XIII.
Il secolo d'oro della metafisica cristiana
427
C'è una fase preliminare, cui come abbiamo ricordato si dà il nome di aristotelisnzo avicenrxizzante: è la fase del primo trentennio del secolo in cui Averroè è ancora sconosciuto, mentre Avicenna è molto apprezzato e seguito. Abbiamo pertanto quattro indirizzi principali e cronologicamente si dispongono nel modo seguente: aristotelismo avicenizzante di Guglielmo d'Auvergne e di Filippo il Cancelliere (1200-1240); agostinismo aristotelizzantedella Scuola Francescana (1240-1300); aristotelismo moderato della Scuola Domenicana (1240-1300); aristotelismo radicale di Sigieri di Brabante (1260-1275). -
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Parte seconda
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I PRIMI ALBORI DELLA RINASCITA DELLA METAFISICACRISTIANA: GUGLIELMO D’AUVERGNE
La rinascita della metafisica cristiana nel secolo XIII è stata determinata, come abbiamo Visto, dal «ritorno di Aristotele in Occidente». Il primo incontro dei latini con Aristotele è stato mediato da Avicenna, le cui geniali epitomi della metafisica aristotelica il Sifa e il Najat erano state usate nei primi decenni del Duecento come introduzioni al difficilepensiero dello Stagirita. È di questo Aristotele avicennizzatoche si servono i nzagistri parigini quando cominciano a elaborare una teologia che non è più semplicemente ”dialettica”, come quella abelardiana, ma autenticamente speculativa. Per compiere questo approfondimento speculativo essi ricorrono volentieri a concetti, formule e dottrine di Avicenna. Il principale esponente di questa metafisica cristiana aristotelico-avicennizante è Guglielmo d'Auvergne. Figure minori dello stesso indirizzo sono Maestro Adamo e Filippo il Cancelliere, suoi contemporanei. -
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Maestro Adamo Adamo di Puteorumvìlla o Pulchrae Mulieris fu maestro delle Arti a Parigi nei primi decenni del secolo XIII. È l'autore dell’opera Memoriale rerum difiicilium che porta pure il titolo Liber de intelligentiis, scritta tra il 1210 e il 123D, edita sotto il nome di Witelo, al quale Baeunker Vattribuiva. È un'opera profondamente venata di aristotelismo e di neoplatonismo avicenniano e che contiene molti spunti di quella metafisica della luce, che avrà come maggiore esponente Roberto Grossatesta. All'inizio del trattato l'autore esordisce dicendo che si tratta di una summa la cui finalità è di colligere le cose difficili allo scopo di agevolare la memorizzazione («Aut et ea nzenzoriae facilius possimus Commendare»): ciò spiega il suo secondo titolo, Memoriale rerum difficilium.L’o pera ha la forma di un insieme dottrinario compatto, ordinato secondo un procedimento deduttivo rigoroso, secondo lo stile del De causis.
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Parte seconda
Il reale è visto come il fluire di un unico processus: il punto di partenè Dio, il punto d'arrivo le intelligenze gerarchicamente ordinate. Dio, presentato come unità immanente e principio fontale di tutta la molteplicità degli effetti, è perciò causa prima sia della conoscenza che del movimento di tutte le intelligenze. ll concetto metafisico dell'essere di Dio non corrisponde a quello dell'essere come nozione in generale (esse: commune) bensì a quello di essere infinito. Tutti gli altri esseri ne sono partecipazioni progressive, in senso discendente. Per spiegare il processus di partecipazione degli esseri particolari all'essere divino Mastro Adamo ricorre allfinzmagine della luce, molto familiare ai neoplatonici e ben nota anche alla S. Scrittura. L'essere viene identificato con la luce, e in tal modo ogni sostanza che influisce su un’altra sostanza o è luce per essenza o è qualcosa avente in sé la natura della luce. Dio stesso, la sostanza prima, è la luce. «Da ciò deriva, spiega Adamo, che tutti gli altri esseri, in quanto creati, partecipano della natura della luce». La luce, in ogni vivente, e sia principio di vita e di moto, che in ciascuno opera diversamente in ragione del rispettivo grado di perfezione in rapporto alla materia, sia principio di conoscenza: anzi la luce e la stessa facoltà conoscitiva: «lux est ipsa virtus cognoscitivamî Con questa metafisica della luce l'autore intende spiegare il rapporto di partecipazione tra gli esseri creati e Dio, evitando ogni rischio di emanatismo. A questo scopo egli si sforza di ridurre al minimo il ricorso all'ilemorfismo: solo le sostanze corporee sono composte di materia e forma, mentre negli esseri spirituali vige semplicemente una distinzione tra atto e potenza. Inoltre anche per l'attività conoscitiva vale il principio metafisico aristotelico secondo il quale l'atto ha la priorità sulla potenza. Come in ambito metafisico Adamo ha coniugato il nuovo peripatetismo con le dottrine neoplatoniche del Liber de causis, così in psicologia e gnoseologia gli spunti aristotelici ricorrenti non attenuano il neoplatonismo di base. Pertanto Contro Aristotele egli sostiene che l'anima non è atto del corpo, ma sostanza semplice, indipendente, motrice: «se è unita al corpo, si unisce ad esso come motore, e non come atto (si Corpori uniatur, unitur ei sicut motor, et non sicut actus)». La luce non solo attraversa il corpo e lo orienta nello svolgimento delle sue funzioni, ma muove anche l'anima, che è intelligentia: per questo non è necessaria a suo parere alcuna za
distinzione tra intelletto possibileed intelletto agente.
1)
Liber de intelligentiis, IV-XIl.
Guglielmo dìflutrergne
431
Guglielmo d’Auvergne Guglielmo d’Auvergne (Alvernia) nacque ad AurillacVerso il 1180 e morì a Parigi nel 1249. Per molti anni fu maestro di teologia dell'università parigina, ma quando fu nominato vescovo di Parigi (1229) dovette lasciare l'insegnamento. L'attività pastorale non gli impedì di portare a termine la sua opera principale, il Magisteriurrt divinale, che consta di sette parti: De Trinitate sea de prima principio, De universo creaturarum, De anima, Cur Deas homo, De fide et legibus, De sacramentis, De virtutibus et
moribas. Oltre a questa specie di grande summa Guglielmo d’Auvergne compose molti altri scritti di vario genere. Tra gli scritti filosofici ricordiamo il De immortalitate animae; tra quelli dogmatici, il De gratin et libero arbitrio e il De errore Pelagii; tra quelli esegetici: In Proverbia, In Ecclesiasten, In. Canticam canticorum; tra quelli ascetici, il De beatitadinibus, il De laadibus patientiae e il De dono scientiae. Com'era costume nel secolo XIII la produzione di Guglielmo d'Auvergne ha carattere spiccatamente teologico, è cioè una riflessione sulla sacra pagina; e tuttavia essa si distacca nettamente da quella dei suoi predecessori per una densa e robusta componente filosofica, ricca di spunti originali, che lasciano chiaramente intravedere i germi di quella metafisica dell'essere, che acquisterà forma completa pochi anni dopo la morte di Guglielmo per opera di Tommaso d'Aquino. Guglielmo d’Auvergne è una figura di spicco nel vasto ambito della metafisica cristiana del XIII secolo, ponendosi come il rappresentante più illustre della corrente aristotelico-avicenniana. Guglielmo possiede la stoffa del metafisico di razza: è uno speculatore attento e profondo, che appunta il suo sguardo oltre il mondo sensibile verso il mondo della trascendenza, è un argomentatore fine e rigoroso, un dialettico vivace che non risparmia invettive e insulti ai suoi avVersari, accusandoli non di rado di stoltezza e ignoranza. Il vescovo di Parigi, nella difficile epoca dei ”divieti aristotelici” ebbe un ruolo importante nella diffusione nel mondo latino del pensiero di Aristotele e dei suoi interpreti arabi ed ebrei, specialmente Avicenna e Ibn Gabirol (Avicebron), anche se personalmente prediligeva Sant'Agostino. Il suo criterio di fronte alle nuove dottrine era: «Benché in molte cose si debba contestare Aristotele come in realtà è conveniente e giusto, e ciò in tutti i discorsi nei quali fa affermazioni contrarie alla verità; così bisogna accettarlo e difenderlo in tutte quelle affermazioni nelle quali sembra che abbia pensato rettamente (Quamquam autem in multis contradicendum sit Aristoteli sicut revera digrzum etjastam est, et hoc
432
Parte seconda
in (minibus sermonibus quibus contradicit veritati; sic suscipiendum et sustinendunz in eis onmibus in quibus recte sensisse invenitur)».l Fedele a questo criterio Guglielmo respinge la teoria aristotelica e avicenniana della eternità del mondo, la tesi avicenniana della creazione per opera di enti intermedi (le intelligenze), la dottrina di Ibn Gabirol dell’ilemorfismo universale, la teoria dei filosofi arabi ed ebrei intorno a un intelletto agente separato, esistente fuori degli individui. Mentre per spiegare la Conoscenza delle Verità eterne egli professa la teoria agostiniana della illuminazione. Come si è detto Guglielmo d’Auvergne getta le basi di una nuova metafisica, che non appartiene più al paradigma henologico dei neoplatonici e di Avicenna, ma al paradigmaontologico di Aristotele. I punti chiave della metafisica dell'essere del teologo di Auvergne sono quattro: l) l'essere considerato come perfezione massima, come attributo primario di Dio e pertanto come costitutivo metafisico della sua essenza; 2) la distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature; 3) la partecipazione degli enti nell'essere sussistente; 4) Panalogia della predicazione dell'essere. Mentre tutta la filosofia cristiana dei padri e dei primi scolastici aveva posto alla base della riflessione su Dio l'attributo della bontà e aveva concepito la creazione come una irradiazione o una partecipazione della bontà divina alle varie realtà finite, Guglielmo d’Auvergne, sotto l'influsso di Avicenna, getta le basi di un nuovo tipo di filosofia cristiana, assumendo come attributo primario di Dio l'essere anziché la bontà. Per lui Dio è anzitutto e soprattutto ”Ens per essentiam” oppure "Ens per se necesse esse”; cioè Ente in cui essenza ed essere si identificano così caratteristicamente da essere rappresentato nell'Es0d0 ai figli di Israele per il "Qui est". Spiega Guglielmo d’Auvergne: «Ma l'Ente manifesta a tal punto la sua essenza che volle per se stesso farsi conoscere ai figli di Israele: affinché conosciuto esso solo fossero conosciute anche tutte quelle cose che si possono dire della sua essenza ».3 Mentre in Dio essenza ed essere si identificano, in quanto l'essere costituisce la sua essenza stessa, nelle creature c'è netta distinzione: in nessuna il suo quid est si identifica con l'asse. «Ora l'essere non è compreso nella essenza di alcunché (qualsiasi cosa ci saremo immaginati o un uomo o un asino o altro) in modo che in essa lo conosciamo, eccettuato
2) 3)
De anima 2, 12. Il Masnovo, che è colui che ha
Guglielmo d’Auvergne, ha
meglio studiato la
"filosofia dell'essere" di
acutamente rilevato che l'identità reale tra
essenza
ed essere «per il d'Auvergne costituisce l'attributo fondamentale di Dio, come a dire l'essenza stessa di Dio, quasi il fondo su cui galleggia il resto della ricchezza divina» (A. MAsNovo, Da Guglielmo dfluvergne... cit., p. 163).
Guglielmo dflfluvergne
433
solo quello di cui esso si dice essenzialmente (cioè Dio). La sua essenza infatti non si può conoscere se non per mezzo dello stesso essere, giacché l'una e l'altro sono assolutamente la medesima realtàwl Come è stato giustamente rilevato dagli storici della filosofia medievale, le epressioni Wzsse” e ”id quod est", che erano state introdotte da Boezio non per distinguere l'essere daltessenza, bensì la sostanza seconda o l'essenza universale (l'asse) dalla sostanza prima, concreta e individuale (id quod est), acquistano nel d’Auvergne una valenza semantica
del tutto nuova, appunto quella della distinzione reale tra essenza o definizione di una cosa (id quod est) ed essere (la sua realtà effettiva). Questa distinzione era stata una delle grandi conquiste della metafisica avicenniana, dove Veniva utilizzata per distinguere il nccesse esse per se (Dio) dai necesse esse per causam (i possibili,vale a dire tutte le creature). Guglielmo riprende da Avicenna la distinzione reale e talvolta anche il linguaggio per formularla, ma più spesso per esprimere questa distinzione la travasa nel linguaggio boeziano deltesse e del id quod estfi Il terzo punto chiave della filosofia dell'essere di Guglielmo è la dottrina della partecipazione. Con questa dottrina egli chiarisce ulteriormente i rapporti tra Dio e le creature: mentre con la dottrina della distinzione reale aveva messo al sicuro la distanza infinita che separa Dio dalle sue creature, con la dottrina della partecipazione precisa la solidarietà di Dio con le creature e la dipendenza di queste da Quello. Che cosa si intenda per partecipazione Guglielmo lo spiega trattando dell'esistenza di Dio (servendosi anche in questo caso delle famose formule boeziane: praedicatio per essentiam e praedicatio per partecipationem), quando scrive: «Infatti, tutto ciò che si dice di qualsiasi cosa, o è essenziale alla stessa 0 accidentale: cioè o è l'essenza o è di quell’essenza che è parte di un'essenza; oppure è al di fuori dell'essenza e questo è ciò che chiamiamo accidentale, che si dice anche che è posedutt) per partecipazione (...). Dunque l'ente si dice di ogni cosa o sostanzialmente o per partecipazione. Ma di uno si dice sostanzialmente, di un altro per partecipazione».
4) 5)
Citazione in ibid, p. 83. Per la portata esatta della dottrina del d'Auvergne intoralla distinzione reale, cf. ibid., pp. 170-172. Un testo in cui il linguaggio boeziano si intreccia con quello avicenniano è il seguente: «Poiché l'ente potenziale è non ente per essenza, allora esso stesso e il suo essere, che non è per essenza, sono realmente due, e l'uno sopravviexìe all’altro, né cade nella sua definizione né nella sua essenza. Perciò l'ente è composto secondo questa modalità ed è risolvibilenella sua possibilitào quiddità e nel suo essere. Dal che è chiaro che esso è causato da ciò che educe la sua possibilità neltessere di fatto e da ciò che congiunge lo stesso essere con la sua possibilità: infatti ciò che è in potenza non viene ad essere di fatto per la sola potenza ma per partecipazione» (De Tririitate l, l). no
434
Parte seconda
Chiariti i termini che gli servivano per impostare l'argomento, il d'AuVergne così prosegue il suo ragionamento: «Poiché l'essere non si
l’uò dire di tutte le cose P er P arteci azione, occorre che ci sia 9 ualcuno del quale s1 predichi per essenza, affinché venga determinato 1l senso e la sua definizionemfv Il ‘luarto P ilastro su cui d’Auver8ne innalza il nuovo edificio della filosofia dell'essere è la dottrina dellanalogia, dottrina che egli riprende da Aristotele il quale nella sua Metafisica aveva affermato a più riprese che l'essere non appartiene agli enti allo stesso modo ma in modo analogo e che quindi la predicazione dell'essere non è univoca bensì analogica. Guglielmo osserva che sebbene unico sia l'essere che sta alla base di tutte le partecipazioni, ciò non autorizza a concludere che l'essere viene predicato allo stesso modo e univocamente: «Non ti spaventi l'identità .
.
.
.
.
del partecipato, come se per questo tu fossi costretto a considerare tutte le cose egualmente e univocamente: poiché la salute viene detta dell'uomo e dell'urina e del cibo, non però univocamente e ugualmente. In questo stesso modo si ha nel primo essere: infatti, anche se e partecipato da tutti non lo è, tuttavia, ugualmente né nello stesso modo. Dunque, quel primo essere e l'essere per cui tutte le cose sono, ma non ciò che sono; infatti, quel primo non è nessuna di quelle cose che sono per sua partecipazione, ma è una sola essenza, pura, solitaria, non comunicante con alcunché e non mescolata»? L'ente divino entifica, per così dire, l'ente creato: così però che il concetto di essere si applica a entrambi non già univocamente ma analogicamente. Con l'introduzione delfanalogia per definire i rapporti tra Dio e le creature, il d'Auvergne getta un ponte tra l'infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle creature (espressa dalla distinzione reale tra l'esse e l'id quod est nelle creature) e la comunanza di realtà (richiesta dalla partecipazione). In effetti Yanalogia attesta un minimo di somiglianza tra esseri profondamente dissimili in quanto non appartengono né alla stessa specie e neppure allo stesso genere (come risulta anche troppo chiaramente dall'esempio della predicazione del termine sano che
d'Auvergne riprende da Aristotele). Dentro la robusta impalcatura dei quattro principi suddetti: l'essere come perfezione massima, la distinzione reale negli enti tra essenza ed essere, la partecipazione e Panalogia, Guglielmo innalza il suo solido edificio metafisico. È un edificio costruito secondo lo stile neoplatonico e quindi dall'alto verso il basso, partendo da Dio e discendendo verso le 5) Citazione in A. MASNOVO, Da Guglielmo d Havergne... ciL, p. 81. 7) lhid, pp. 191-192.
Guglielmo d ‘Auvergne creature;
ma non
è costruito
435
aprioristicamente e matematicamente come
quello esposto nel De causis di Proclo, nel De hebdomadibus di Boezio 0 nel De intelligentiis di Maestro Adamo, perché le singole parti del sistema metafisico, inclusa la componente fondamentale, cioè Dio (quasi un architrave"), sono introdotte mediante delle dimostrazioni a posteriori. Tutti i temi più importanti della metafisica sono discussi da Guglielru
nel De Trinitate, detto anche De primo principio. L'opera risulta Composta di 47 capitoli: i primi tredici considerano Dio in generale, i suoi attributi e operazioni, mentre i capitoli successivi parlano del mistero della Trinità. Nel prologo del De Trinitate l'autore ci dice quale egli intenda seguire nella trattazione del suo soggetto: «E bene che sappia che in questo magistero sacro e divinale (in isto sacro et divinali magisterio) esistono tre modi di conoscere gli argomenti che vi Vengono trattati. Il primo modo è quello della profezia. Il secondo è quello della virtù (della fede). Ricorrendo a questi due modi la scienza divina non viene trasmessa come arte o disciplina ma come legge... Il terzo modo è quello che si acquisisce mediante la dimostrazione e l'indagine (per viam probationis et inquisitionis). A questo modo non ricorre l'autorità divina, perche con esso si possono fronteggiare esclusivamente gli errori dei dotti. Quanto al volgo la via della dimostrazione non gli si addice». Ma se il terzo modo non è adatto per il volgo, si confà però ai filosofi: «Tertius vero modus est philosophantium,et ex toto cum ipsis agendum suscemo
procedimento
pimus».
Dunque Guglielmo si atterra al procedimento razionale proprio dei filosofi e, come dice poco dopo: «assumendo l'abito dei filosofi, cercheremo di soddisfare ai loro criteri». Il suo principale obiettivo è salvaguardare la saluberrima veritas dalle mani degli empi che la contraddicono: anzi fare deporre questa verità dalle mani stesse di così fatta gente. «Fino dalle prime mosse ci si promette di mantenere il contatto con la realtà. Guglielmo d'Auvergne vuole trattare con gente tutt'altro che campata in aria: anzi con gente proprio in carne ed ossa, la quale professa dottrine avverse al pensiero cattolico, avvalendosi di procedimenti dai quali è possibileper altro cavar partito contro di essa. Naturalmente il nostro autore sta sempre volto a guardare le Cose del suo tempo, pur non dimenticando il passato e profittandone all'occorrenza. C'è in lui il temperamento del filosofo che non vuol giurare sulla parola del maestro, quando pure si elegge un maestromfi
s) Ibid, p. 40.
436
Parte seconda
Nel primo capitolo del De Trinitate Guglielmo affronta il problema dell'esistenza di Dio, argomento primario e fondamentale di ogni metafisica, essendo Dio la massima di tutte le realtà. Per provare la sua esistenza egli non ricorre alla dimostrazione aristotelica basata sul divenire, che avendo carattere empirico probabilmenteGuglielmo ritiene troppo incerta e discutibile,ma propone due argomenti fondati sul principio di partecipazione: la partecipazione dei beni nel Bene e la partecipazione degli enti nell’Essere. strutturalmente le due argomentazioni si equivalgono. Il punto di partenza è la distinzione tra predicazione essenziale e predicazione partecipativa 0 accidentale: «Infatti, tutto ciò che si dice di qualunque cosa 0 è essenziale alla stessa cosa 0 è accidentale: cioè o è l'essenza o è dell'essenza che è parte dell'essenza; oppure è al di fuori dell'essenza, e questo è ciò che chiamiamo accidentale, e ciò che diciamo che è posseduto e predicato secondo partecipazione». Si può fare l'applicazione di ciò indifferentemente alle predicazioni di "bene", di ”ente" e di qualsiasi altra nozione trascendentale. Mentre
alcuni ne ha fatto applicazione alla nozione di "bene” parlando di «bene per sostanza o per partecipazione (bonum aut substantia aut patrticìpatione)», Boezio osserva il d'Auvergne ne ha fatto applicazione anche alla nozione di "ente" nel De hebdomadibus, là dove dice che «tutto Ciò che è semplice ha uniti il proprio essere e ciò che è». Secondo il nostro autore, la dottrina per cui «omne simplex esse suum et id quod est unum habet» e invece, ben inteso, non il composto, equivale alla divisione in ente per o
—
-
essenza e
in ente
partecipato.
Guglielmo d'Auvergne, come Boezio, vuole occuparsi delle predicazioni di ente per essenza e per partecipazione. Quali rapporti intercorrono fra loro? Anzitutto, dice l'autore del De prinzo principio, le due predicazioni dell'ente non possono farsi di una medesima cosa: «dunque, l'ente si predica di ogni cosa o sostanzialmente o per partecipazione. Si dice poi di una cosa sostanzialmente, di un'altra per partecipazione (ens igitur de unoquoque aut substarztia aut participatione dicitur. Dicitur autem de quodzmz sitbstantialiter, de quodam participatione dicetur)». Sta bene. Ma potrebbe ogni cosa essere e venire denominata ente per partecipazione? Il d'Auvergne risponde di no: «E poiché non si può predicare di ogni cosa per partecipazione, bisogna che di qualcosa si dica per essenza». Per quali ragioni? Eccole. Potrebbero forse tutti i beni essere beni per partecipazione? No. E, quindi, nemmeno tutti gli enti possono essere enti per partecipazione. Infatti è impossibileche tutti i beni siano beni per partecipazione, perché in tal caso ci sarebbe un bene che darebbe ad altri ciò che ancora non possiede. Subito passando dal bonum all’ens il D’Auvergne soggiunge: «In questo modo si mostrerà che l'ente non si può predicare di ogni cosa per partecipazione. Perciò è necessario
Guglielmo dfluvergne
437
predichi per essenza affinché sia definita l'essenza e la di comprensione esso». A questo punto Guglielmo d'Auvergne paragona tra loro i tre modi di
che di qualcosa si
dire: «secundum essentiam et secundum
participationein», «per se
et per
ac-
cidens», «simpliciter et secundum quid». Da ciò afferma che è sufficiente constatare (ma constatare davvero però) uno dei tre modi ossia uno dei
tre binomi in questione nella realtà in aliquo e subito di lì si sarà autorizzati ad affermare che esiste, lì 0 altrove, il primo membro del binomio, non potendo il secondo stare senza il primo, giacché i primi membri «sono come le radici e le fondamenta degli altri che già ti ho indicati —
—
come secondari».
Alcuni studiosi hanno voluto vedere in questa prova dell'esistenza di Dio del vescovo di Parigi una variante dell'argomento ontologico di Anselmo d'Aosta. Ma come osserva giustamente il Masnovo, la dimostrazione del De prima principio non ha nulla a che vedere con il procedimento aprioristico del Proslogion. «Chi abbracci di un sol colpo d'occhio i momenti del procedere argomentativo del d'Auvergne, troverà che in esso, ben diversamente che nel Proslogion, si prende come punto di partenza un fatto: quella data cosa: aliquid, l'ente. Al fatto si applica un prinCipio dichiarato astrazion fatta da ogni attuale realtà, e però valevole per tutta la realtà attuale e possibile: l'ente per partecipazione suppone l'ente per essenza. Di qui la conclusione: Dunque esiste l'ente per essenza, Dio. Che questo Dio trascenda l'universo o vi sia immanente non è ancora detto: né Guglielmo d’Auvergne ha la pretesa di averlo detto a questo punto. Nulla che richiami il procedimento del Proslogion»)! Nel secondo capitolo Guglielmo d'Auvergne riprende e sviluppa ulteriormente l'argomento basato sulla distinzione tra esse per essentianz e esse per partecipationem, facendo leva sulla distinzione avicenniana tra essenza ed essere negli enti finiti o possibili. Scrive il D'Auvergne: «Nella definizione di nessuna cosa si include l'essere: qualsiasi cosa noi ci raffiguriamo, un uomo, un asino o qualche altra realtà, l'essere non viene incluso nel loro concetto (in ratione eius), eccezion fatta per colui del quale l'essere è detto essenzialmente (essentialiter dicitur). Infatti la sua essenza può essere intesa soltanto mediante lo stesso essere (per ipsum esse), dato che in lui essenza ed essere sono la stessa cosa». Ma l'universo non potrebbe essere costituito esclusivamente di enti Contingenti, che posseggono l'essere accidentalmente, ossia per partecipazione? Niente affatto, ribadisce il dfiàuvergne, preoccupato di affermare la realtà del concetto fondamentale di "Ente necessario o per essen-
9) Ibid., p. 53.
438
Parte seconda
za", in cui essenza ed essere sono la stessa cosa. Pertanto scrive:
«Se però che l'essere è dalla distinto allora è necessario cosa stessa, per ogni si proceda circolarmente; oppure in linea retta e sarà all'infinito». Qui il d’AuVergne inizia una lunga argomentazione per eliminare i due processi, lineare e circolare, con i quali si vorrebbe assegnare la ragione sufficiente delle cose in una totalità di Contingenti e così evitare di introdurre l'ente necessario o per essenza, cioè Dio. Va eliminato il cosa
processo circolare, dice il nostro autore, perché altrimenti «una cosa sarà causa di se stessa e precederà e seguirà se stessa». Va eliminato anche il processo lineare all'infinito, perché in questo caso non si darebbe ragione dell'origine prima e completa di un ente contingente: mai «l'essere dello stesso A è spiegato o chiarito» e con A ogni altra cosa resta inintelligìbile.
Quindi, se
si vuole tenere salva
Yintelligibilità dell'ente,
non
è
possibiìe
porre alcuna cosa senza anche porre Yens secundum essentiam, che è Dio.
questa riformulazione della dimostrazione dell'esistenza di Dio, il posteriori dell'argomento risulta ancora più evidente. Il d'Auvergne, constatato il fatto della contingenza della esistenza degli enti che non posseggono l'essere per essenza e supposto il principio di ragion sufficiente grazie al quale soltanto l'ente, ossia il reale è intelligibile, si rivolge contro l'inutile e assurdo circolo vizioso e particolarmente contro la retrocessione all'infinito, per poi concludere alla necessità di un ens secundum essentiarrz. Questo argomento basato sulla distinzione In
carattere a
reale tra essenza e actus essendi negli enti sarà utilizzato varie volte anche da S. Tommaso per dimostrare l'esistenza di Dio, e questa è un'ulteriore conferma che si tratta di un argomento a posteriori, poiché l’Angelico fu uno dei critici più decisi dell'argomento anselmiano. Stabilita l'esistenza di Dio, nel terzo capitolo del De prima principio, Guglielmo d’Auvergne comincia ad illustrarne gli attributi: «Iam incipit elucere ens essentiale (cioè l'ente in cui si identificano essenza ed essere)
esse. necesse
aeternum et
incorruttibile, non
causatum...
ideoque irzgenitunz
et
simplex in ultimo sintplicitatis, hoc est per omnem modum». Si capisce senza difficoltà che l'ente essenziale o necessario sia anche eterno, incorruttibile, non causato, ingenito: ma perché anche semplice in ultimo simplicitatis, ossia semplice al massimo grado? Il d'Auvergne spiega: «Se infatti fosse in qualche modo composto e quindi scomponibile, sarebbe necessariamente anche causato: ogni composto è in realtà causato dalle parti che lo compongono e da colui che lo compone, che è colui che unisce e ordina le parti nel composto». Insomma, l'ente che voi dite per essenza, insegna il nostro magister, non sarebbe più tale, e quindi incausato, qualora lo affermaste composto: perché ogni composto è causato sia dalle sue parti sia da un agente esterno che lo compone
Guglielmo d’Auvergne
439
Dalla somma semplicità dell’ens secundum essentiam il d’Auvergne deriva l'assoluta trascendenza di Dio nei confronti del mondo, dove tutto è Composto e molteplice. La natura divina dellmente per essenza" è anche unica, individua e immoltiplicabile,tale cioè da non potersi ripetere 0 individuare in dei particolari. Sull’attributo della unicità di Dio il d'Auvergne si sofferma a lungo nel complesso capitolo quarto, sviluppando alcune importanti considerazioni intorno al nome proprio dì Dio e alla sua indefinibilità.Il nome "Ente” compete a Dio e per essenza e come singolarmente proprio. È il nome che Dio stesso si dà: Qui est, quando Mosè gli chiede di svelargli il suo nome. Qui est o Ens non solo è un nome che compete a Dio, ma è come la fonte donde ogni attributo divino deriva. «Siamo così avvertiti che il concetto di ”Ente per essenza cioè necessario" o di Ente in cui l'essere si identifica con l'essenza 0 di Ente semplicissimo (che poi fa tutt'uno con i diversi momenti dello sviluppo speculativo) è non solo praticamente centrale anzi fondamentale nella teologia naturale del De Trinitate, ma pure teoricamente, in quanto Guglielmo d’Auvergne ha la piena
consapevolezza del proprio procedimentmfl“ Con i neoplatonici, S. Agostino, Dionigi l’Areopagita e Avicenna, Guglielmo d’Auvergne include tra gli attributi di Dio anche la ineffabilità. Benché Dio abbia un nome proprio e anche molti attributi, di fatto egli sfugge ad ogni definizione e a qualsiasi concettualizzazione.I1 concetto stesso di Ens ci consente di raggiungere Dio ma non di definirlo: «Perciò Egli (Dio) è per sé impresso nel nostro intelletto in quanto ENTE; ma in quanto Dio e Signore non è fra le prime apprensioni, e questo è il modo per cui sbaglianoriguardo ad esso i privi di intelletto». Nei capitoli successivi del De Trinitate, dopo avere trattato dell’esistenza di Dio e della sua natura, Guglielmo studia le sue operazioni, a partire dalla creazione. In quanto Essere per essenza Dio è la prima e
unica fonte
dell'essere; pertanto tutta la realtà deriva da lui. Quindi non
si può ammettere alcun dualismo nel campo originario dell'essere. Il d’Auvergne rimprovera legittimamente ai fautori del dualismo una incomprensibilececità intellettuale. «Ormai risulta chiaro per quanta cecità coloro che
sono nell'errore e i deboli di mente ammettono due Abbiamo ormai infatti mostrato che il suo essere (di Dio) è principi. sotto ogni aspetto solitario e che nessun altro è ad esso pari o coevom" Di questi «erronei et imbecilles», come li definisce d'Auvergne parecchi erano contemporanei e connazionali del vescovo di Parigi, in particolare
i catari e
gli albigesi.
w) Ibid, p. 147. 11) De Trinitate I, c. 5. ’
44D
Parte seconda
spiegare l'origine della realtà il linguaggio migliore, secondo Guglielmo d'Auvergne, è quello fornito dalla dottrina della creazione, mentre trova ambiguo il linguaggio dellflamanatismo.Come si può parPer
lare di emanazione, mentre le cose derivano da Dio in modo che Dio, ente necessario, non entra per nulla nella loro essenza contingente? La creazione non è un'azione necessaria, come insegnava Avicenna, ma libera; perché Dio non ‘e dotato soltanto di intelligenza ma anche di volontà e questa è supremamente libera. Proprio perché è un'azione libera, la creazione non ha avuto luogo ab aeterrxo, come asserivano AlFarabi, Avicenna e Averroè, filosofi verso i quali il d’Auvergne nutriva grande ammirazione, ma contro i quali non esitava a prendere posizione
quando le loro dottrine gli sembravano errate. «Guglielmo d’Auvergne non è uomo da lasciarsi aggirare o intimidire. I signori peripatetici o aristotelici che stanno per l'eternità del mondo egli non esiterà un solo istante a metterli bene in vista e a combatterli con tutte le sue forzewz Certo la potenza di Dio è infinita e poteva creare il mondo sin dall'e-
di fatto il mondo sublunare lo ha prodotto nel tempo, non per 1a sua impotenza, ma per la natura stessa di questo mondo che essendo materiale è anche soggetto al tempo. Trattando della creazione il D’Auvergne pone fortemente l'accento sulla voluntas liberrinra ac potentissima creatoris. Coloro che negano a Dio libertà e volontà fanno del loro Dio una pura forza naturale priva di conoscenza: a tale concezione di un Dio irrazionale non può consentire esclama il nostro autore che un essere irrazionale: «Quarti irrationale autem sii primam potentìam ponere irrationalem nonnisi qui irrationabilisest
ternità,
ma
-
-
ignorat».
Perciò nella liberrima ac potentissima voluntas creatoris non c'è nulla che
lo abbia costretto a creare questo mondo, come insegnava Avicenna, e neppure a creare un mondo perfetto come sosteneva Abelardo molti secoli prima di Leibniz. «Molti hanno creduto che l'universo sia uscito dal Creatore come lo splendore dal sole o il calore dal fuoco: così dalla sua bontà è uscita la bontà dell'universo e dalla sua vita la vita che c'è nell'universo, e analogamente delle altre cose, e così sono stati indotti a pensare che il Creatore non avrebbe potuto fare diversamente, esattamente come accade nei predetti esempi del sole e del fuoco>>fl3 Guglielmo d'Auvergne non cessa di insistere sul fatto che l'artista divino, mentre opera al di fuori di sé resta nella pienezza della sua libertà. La creazione va pensata si come arte, non però come un'arte che
13) 13)
A. MASNOVO, Da Guglielmo dfiflluvergire... cit., vol. Il, p. 134. De zmizwrsti I, p. 1, c. 2].
Guglielmo dìîuvergne
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quasi travolga l'artista nel suo fatale agire, sebbene come un'arte che, pur essendo vita, rispetta ed afferma la somma libertà divina: «Quindi non è solamente arte o sapienza ma anche virtù e vita, ed è frutto abbondantissimo in ogni cosa che Yaccoglie: e tuttavia è tale per la somma perfezione della libertà, come dissi prima: per cui egli è arte vitale e virtuosa al massimo grado». Appunto per questo le cose, benché volute in un verbo eterno, accadono nel tempo secondo la successione liberamente determinata nel Verbo da Dio. Conferire l'essere alle creature è azione propria ed esclusiva di Dio, e
con l'essere Dio conferisce alle creature anche tutte le altre perfezioni. In questo senso Dio non ha bisogno di alcun intermediario: né del Nous dei neoplatonici né delle intelligenze di Avicenna: «È perfettamente vero che il Creatore causa egualmente tutte le cose per quanto lo concerne e in modo semplice e diretto, perché l'intermediario (medium) o gli intermediari non aggiungono nulla né diminuiscono la causalità. Già ti ho spiegato nel primo trattato (De Trinitate) che soltanto il Creatore è degno di portare il nome di causa propriamente e veramente; invece le altre cose che servono come intermediari del causare non sono che messaggeri che annunciano quanto e stato loro trasmesso dal Creatore (...). Pertanto tutte queste cose, che noi chiamiamo cause, riempite dall’inondazione della fonte prima e universale, trasmettono alle altre cose ciò che sovrabbonda».14 Esaltando l'onnipotente Volontà di Dio, la sua sconfinata libertà e riservando a Lui solo la causalità, Guglielmo d'Auvergne abbandona le dottrine di Aristotele e Avicerma e si schiera apertamente con Agostino, il quale rimane una guida insostituibile per tutti coloro che, come il nostro, intendono elaborare una metafisica cristiana. La più importante novità dell'edificio metafisico costruito da Guglielmo d'Auvergne è il ruolo che vi si assegna all'essere, che diviene il cardine dell'intero edificio. Così, dopo la lunga serie di metafisiche henologiche elaborate dai neoplatonìci pagani, cristiani e arabi abbiamo finalmente una metafisica ontologica. In Guglielmo d'Auvergne l'essere non gode più soltanto di un primato gnoseologico come in Avicenna (ens est prima animate inzpressio) ma di un primato metafisico. D'altra parte l'essere regge l'intero edificio metafisico non perché è il concetto più universale, ma perché è la pienezza della realtà e, in ultima analisi, si identifica con Dio stesso: l'essere per essenza. La ragione principale dell'affermazionedell'essere come il costitutivo metafisico di Dio stesso il d'Auvergne non la accoglie né da Aristotele né da Avicenna, ma anzitutto dall'Es0d0 che aveva definito Dio come
14) Ibid, I, p. 1, c. 26.
442
Parte seconda
Qui est e poi da Boezio che est in Dio. Nella cursore
affermato l'identità dell'asse e del
quod
metafisica dell'essere il d'Auvergne si qualifica come il prediretto e più importante di S. Tommaso. Con ciò non si vuol
sua
più
dire che il d'Auvergno sia se sono
aveva
infatti le
stato un tomista ante litteram; troppo numerotra i due, soprattutto in antropologia e in
divergenze
teologia fondamentale. In antropologia il d'Auvergne rimane sostanzialmente all'interno di una prospettiva agostiniana, mentre Tommaso segue l'impostazione aristotelica; in teologia fondamentale Guglielmo d’Auvergne afferma il primato della volontà in Dio, mentre l’Aquinate sostiene il primato della conoscenza. Ad ogni modo, una cosa è certa: uno dei più importanti ispiratori della metafisica dell'essere di Tommaso fu il d'Auvergne, del quale il giovane frate domenicano non poteva non conoscere gli scritti, perché Guglielmo reggeva la diocesi di Parigi, quando Tommaso giunse in quella città per iniziare i suoi studi teologici sotto la guida di Alberto Magno.
Filippo il Cancelliere Nato a Parigi nel 1170 ca., Filippo fu maestro di teologia in quella università verso il 1206, e cancelliere dal 1218 al 1236. Tra il 1230 e il 1236 compose il suo scritto principale, la Summa de bono, che è ritenuto il primo trattato sistematico sui concetti trascendentali. Prima di lui dei trascendentali aveva parlato ampiamente Avicenna. Questi aveva considerato come concetti supremi della mente la res, l'ens, Yunum, il verum, il bonum, il possibile, il necessarium, ma non aveva elaborato nessuna dottrina organica di questi concetti collegandoli all’ens, e non aveva visto in essi gli aspetti primi dell'essere. Già in precedenza Guglielmo d'Auxerre si era avvicinato alla dottrina dei trascendentali identificando il verum e il bonum. Nella Summa Aurea leggiamo: «Il Vero e il bene sono identici. Mentre però il Vero co— stituisce il fine dell'intelletto e della speculazione, il bene è tale in quanto fine del desiderio e dell'azione. Infatti proprio Aristotele nel libro De anima ha detto che ”vero e bene sono identici, mentre però il vero è senza atto, il bene è connesso con l’atto"».15 Non pare, però, che Cugliel— mo d'Auxerre concepisca il verum come perfezione trascendentale onto-
logica.
15)
GUGLIELMO DAUXEKRE, Summa aurea III, t. 10, cap. 4, q. 3.
Guglielmodbauvergne
443
La prima trattazione sistematica dei trascendentali si trova, invece nel Prologo della Summa de bono di Filippo il Cancelliere. In quest'opera l'autore intendeva combattere il pessimismo degli albigesi e fare chiarezza sul problema del bene. Prendendo a prestito l'espressione di Avicenna,
egli elenca le tre
condizioni trascendentali che accompagnano
l'ente: tres Conditiones concomitantcs esse, che sono Funum, il verum e il bonum. Alla pari dell'ente, si tratta di concetti comunissimi: «communissima autem haec sunt: ens, unum, vcrum, borzum». Infatti per la mente umana non si danno nozioni più universali di queste.
Filippo spiega l'appartenenza essenziale dei tre trascendentali all'esfacendo riferimento alle tre cause che agiscono in un medesimo
sere
ente, vale
a
dire la
causa
efficiente, formale e finale (esclude la
causa
materiale). Poiché ciascuna essenza è caratterizzata dalle tre rationes di queste cause, il suo essere è accompagnato da tre condizioni, posto che
esso derivi dall'Essere Primo. Ogni ente riceve la propria unità dalla Causa Prima, la verità da Dio in quanto causa esemplare e la sua bontà da Dio in quanto causa finale. Le tre proprietà trascendentali sono identiche all'ente, sebbene differiscano nel contenuto concettuale. La bontà ad esempio aggiunge all'ente la nozione che esso non è separato dal suo fine. La Seconda Questione del trattato studia i rapporti tra bontà e Verità. Filippo cita l'opera anonima Liber de vero et bono (che egli attribuisce ad Agostino): la bontà e la verità sono convertibilinel soggetto di cui esse sono predicate. Ciononostante i due termini differiscono, dal momento che vero è opposto a falso e buono a cattivo. Egli intravede un accordo tra i due principi «la verità manifesta l'ente» e «il bene comunica se stesso». Come Guglielmo d’Auxerre, al quale sembra appoggiarsi, egli postula la priorità del vero rispetto al bene: «verum naturaliter prius est quam bonum». Nonostante Filippo abbia mutuato molto da Avicenna, egli trasforma la teoria di quest'ultimo ponendo i concetti trascendentali all'interno dell'ente stesso. La teoria dei trascendentali segna un passo importante nello sviluppo della metafisica cristiana. Infatti una volta che l'essere (esse) non è soltanto il concetto più comune ma la perfezione più elevata, a tal punto da identificarsi con l'essenza di Dio, allora i trascendentali diventano i primi e più importanti attributi della natura divina: è la natura divina che è una, vera, buona e tutto ciò in sommo grado. I trascendentali inoltre non solo chiariscono in un certo qual modo la struttura della natura divina, ma illustrano anche i suoi rapporti con le creature. Così dall'Un0 procede il molteplice, che tuttavia nella sua molteplicità conserva sempre una sostanziale unità; dal Vero procede lîntelligibilitàe la verità delle creature; dal Bene deriva la stessa ragione per cui le creature sono tratte dal nulla e poste in essere.
444
Parte seconda
"Conversioni" dei trascendentali tra di loro, Filippo conclusioni ”teologiche”. Fonte di tutto il reale è il Sommo Bene: se non esistesse, gli esseri trarrebbero la loro bontà gli uni dagli altri, in un processo infinito di causalità ‘reciproca che distruggerebbe la nozione stessa di bene trascendentale («ergo destruitur bonum»). Chiamare Dio
Completate le
trae le
significa aggiungere qualcosa a ciò che Egli ‘e («Ego sum qui sum»). E, invece, la nozione di primo bene a postulare la sua assoluta semplicità ontica di esclusivo atto senza potenza, quella stessa semplicità che è all'origine della Considerazione ontologica della indivi-
Sommo Bene non
sione della
potenza e dell'atto. Poiché diciamo che Dio è il Sommo bene
per essenza, dobbiamo anche dire che ha creato liberamente e che la bontà è la disposizione della volontà che rende produttrice la causalità efficiente. D'altra parte, poiché il bene è Dio stesso, esso non può essere comune a Dio e all’esse creaturae: occorrerà dire, invece, che in sé e per sé conviene solo a Dio, mentre si predica delle creature in quanto vengono da Lui e a Lui ritornano, secondo l'ordine del fine che per ciascuna Lui ha stabilito. Ecco il testo del Cancelliere: «In senso proprio (questi termini) convengono a Dio; alla creatura convengono invece in quanto da Lui proviene e a Lui è diretta (ab ipso et ad ipsum) e questa è una comunanza tra Dio e la creatura secondo il rapporto del prima e del poi (est commununtia secundunî prius et posterius). Il "bene" infatti si dice di Dio perché fine della creatura, e altresì si dice della creatura, perché essa è ordinata al fine; come l'ente (ens), primariamente (secundum prius) si dice della sostanza che è per se stessa ente, e secondariamente (secundirm posterius) si dice anche dell’accidente che e tale in forza della sostanza che così,
indirettamente, si conosce in esso».16 Questo testo contiene una chiara formulazione della dottrina dell’a—
nalogia, dottrina capitale per intendere correttamente il senso del linguaggio teologico e anche del linguaggio metafisico in generale. L'analogia viene intesa dal Cancelliere come predicazione secundum prius et poster-ius, che è il tipo di analogia che meglio consente di salvaguardare
la trascendenza divina nei confronti delle creatura; e non la considera dunque come predicazione secondo il criterio della proporzionalità, dove la subordinazione delle creature a Dio resta inespressa. Anche su questo punto l'autore della Summa de bono si può ritenere un anticipato-
dì S. Tommaso d'Aquino. L’inf1usso di Filippo il Cancelliere si fa sentire nelle Somme di Alessandro di Hales, di Giovanni de la Rochelle e, in genere, su tutto il periodo immediatamente anteriore alla Scolastica della età aurea. re
1°) Summa de bono, q. 5.
Guglielmo d ‘Auvergne
445
Suggerimenti bibliografici GUGLIELMO UAUVERGNE
Opere: Magisterium divinale et sapicntiale, Norimberga 1496, Parigi 1560, Venezia 1591; De Trinitate, a cura di B. Switalski, Toronto 1976. Studi: A. GHISALBERTI, Agostirzismo e aristotelismo nel "De Trinitate” di Guglielmo dfllvernia, in ”La Scuola Cattolica” 115 (1987), pp. 205-219; E. GILSON, La notion dexistence chez Guillaunze dfluvergne, in AHDL 21 (1946), pp. 55-91; A. MASNOVO, Da Guglielmo dfluvergne a S. Tommaso d'Aquino, 3 v0l1., Milano 1930-1946; I. ROHLS, Wilhelm van Auvergne und der mittelalterliche Arisfotelismus, Mùnchcn 1980; S. SCI-IINDELE, Beitrage
zur
Metaphysik des Wilhelnt von Auvergne, Mùnchen 1900.
FILIPPO IL CANCELLIERE
Opere: Summa de bono, a cura di N. Wicki, 2 vo11., Berna 1985. Studi: E. BETTONI, Filippo il Cancelliere in ”Pier Lombardo” (1960), pp. 23-35; H. POUILLON, Le premier traite’ des propriétés trarzscendentales. La "Summa de Bono” da Chancellier Philippe, in "Revue néoscholastique de philosophie"42 (1939), pp. 40-77.
446
ALBERTO MAGNO, COMMENTATORE DI ARISTOTELE
Alberto Magno è uno dei principali artefici del rinnovamento della cultura teologica, filosofica e scientifica che ebbe luogo in Occidente durante il secolo XIII. Accogliendo i nuovi apporti dovuti al pensiero di Aristotele e a quello degli Arabi egli ha creato una nuova sintesi tra ari-
stotelismo, platonismo e cristianesimo.
Vita Alberto fu conosciuto comunemente dai suoi contemporanei europei come fra Alberto il tedesco (frater Albertus Teutonicus) o Alberto di Colonia (frater Albertus de Colonia). Ma tra i suoi concittadini e confratelli della provincia di Germania era conosciuto più propriamente come fra Alberto di Lauingen, perché egli era nativo di quella cittadina della Svevia. La sua era una famiglia di militari, di nobiltà minore, al servizio dei corti di Bollstàdtfl Incerta è la data di nascita, che alcuni (Pelster, Scheeben) collocano nel 1193, mentre altri (Mandonnet, Lottin, Puccetti, Glorieux e Van Steen— berghen) posticipano fino al 1206. Secondo Weisheipl si può affermare con certezza che Alberto nacque intorno al 1200 o poco prima. Ebbe un fratello minore, Enrico, che entrò nell'ordine Domenicano, e due sorelle, che abbracciarono anch'esse la vita religiosa. Per quel che riguarda la sua educazione e la sua istruzione possiamo pensare con verosimiglianza che abbia avuto dei precettori in casa e che sia poi passato a frequentare qualche scuola claustrale. Nel 1220, mentre il padre si trova in Lombardia impegnato con l'esercito di Federico II, Alberto viene in Italia accompagnato da uno zio e compie i suoi primi studi universitari di diritto e di scienze naturali forse a Bologna e sicuramente a Padova, nella università che si era costituita proprio in quell'anno, distaccandosi da Bologna. A Padova egli non
1)
Nella ricostruzione della vita di Alberto Magno abbiamo tenuto presente soprattutto la biografia di A. PUCCETTI, S. Alberto Magno, 2 voll., Siena 1937, e]. S. W121SHEIPL, La ziita e le opere di S. Alberto Magno, in Alberto Magno e le scienze, a cura di
]. S. Weisheipl, ESD, Bologna 1994, pp. 17-58.
Alberto Magno
447
conseguì nessun titolo accademico. Oltre alla filosofia studiò medicina e fece ia prima conoscenza con le opere etiche e fisiche di Aristotele. Le scienze naturali divennero ben presto il campo del sapere in cui poteva
vantare
una
profonda conoscenza e
una
competenza superiore a quella
colleghi guadagnò subito il soprannome di filosofo, che allora equivaleva a quello di scienziato o fisico. Mentre era studente a Padova, Alberto si fece domenicano e ricevette l'abito da Giordano di Sassonia intorno alla Pasqua del 1223, nonostante molte difficoltà personali e familiari, come si narra nelle Vitae frutrum. Subito dopo i suoi superiori decisero di inviarlo nel convento di Colonia per compiere il noviziato e per attendere agli studi teologici. Nel 1228 Alberto diventa lector di teologia, prima nel suo convento a Colonia e poi a Friburgo e a Ratisbona, dove nei 1236 scrisse il suo primo trattato conosciuto, il De natura boni, nel quale si parla del bene soprattutto dal punto di vista morale, e non da quello ontologico. Nel 1242 viene inviato a Parigi per il conseguimento dei gradi accadernici: «demum nzissus Parisius ad legendum Sententìas». Il commento di Alberto, in sette volumi (nell'edizione Borgnet), sui quattro libri delle Sentenze è chiaramente una ordinatio, cioè una edizione preparata per i rivenditori di libri. È certo che Alberto completò il suo commento definitivo sul quarto libro a Colonia nel 1249. Nel 1245 diviene magister theologiae e per tre anni ricopre una delle due cattedre di teologia che i Domenicani avevano nel convento parigino di Saint-Iacques. Il frutto dell'insegnamento di questo periodo è la Summa de creaturis, suddivisa in sei parti: De quattuor coeqitavis, De sacramentis, De incarnaiione, De resurrectione, De homine, De bono. A Parigi Alberto ha l'onore di annoverare tra i suoi giovani studenti Tommaso d'Aquino. Quando nel 1248, il Capitolo generale dei Domenicani, tenuto a Parigi, decide di aprire un nuovo studium generale in Germania, e precisamente a Colonia, l'incarico viene affidato a uno studioso già affermato e autorevole, come Alberto, il quale lascia così la sua cattedra parigina e porta con sé a Colonia anche il suo alunno prediletto, del quale aveva già intuito la genialità: Tommaso d'Aquino. Una volta arrivato a Colonia i suoi confratelli lo pregarono di spiegare i libri naturales di Aristotele. Alberto accolse di buon grado questa richiesta e iniziò quella grande impresa che sono le sue parafrasi alle opere di Aristotele con il commento dei Physicorum libri e del De coelo et munda. Dal 1254 al 1257 ricopre con grande zelo anche la carica di provinciale della Germania, visitando i numerosi conventi dei Domenicani e delle Domenicane. Appunto in quegli anni si stava facendo particolarmente aspra la lotta tra clero secolare e clero regolare per il diritto di insegnadi tutti i suoi
e
così si
448
Parte seconda
Parigi: nel 1255 Guglielmo di Sant’Amore, capo dei maestri secolari che osteggiavano l'ingresso degli Ordini Mendicanti nell'università, scrive il De periculis novissimorum tcmporum. I principali esponenti degli Ordini Mendicanti chiamati in causa da questo opuscolo erano Bonaventura da Bagnoregio, dei Francescani, e Tommaso d'Aquiil no, i quali replicarono all'autore con due memorabili opuscoli. Ma intervento necessario un riteneva Domenicani dei maestro generale della Santa Sede perché la questione fosse autorevolmente e definitivamente risolta. A tal fine nel 1256 invia Alberto alla Curia pontificia, che si trovava allora ad Anagni, per sostenere la causa degli Ordini Mendicanti. Così nel settembre Alberto difende dinanzi alla Curia papale il diritto dei frati ad insegnare nelle università, e lo fa con tale successo che il 5 ottobre Alessandro IV condanna l'opera di Guglielmo di Sant’Amore. Alberto si trattiene ad Anagni ancora per qualche tempo e su richiesta dello stesso pontefice compone il De unitate intellectus contra Avermcm per confutare gli errori del filosofo arabo. Nel 1257, rientrato in Germania e sollevato dalla carica di provinciale, Alberto riprende gli studi e l'insegnamento a Colonia dove rimane fino al 1260, lavorando intensamente alle sue parafrasi aristoteliche. È di questo periodo la parafrasi del De animalibus. Nel 1260 accetta la nomina a vescovo di Ratisbona per riportare ordine in quella diocesi che si trovava in gravi difficoltà finanziarie e disciplinari. Dopo un paio d'anni, portato a termine il suo compito rinuncia alla carica. Dal 1262 al 1263 trascorre un biennio, prima presso la Curia papaìe di Viterbo, dove in quel periodo si trovavano anche Tommaso d'Aquino e Guglielmo di Moerbeke, e successivamente ad Orvieto, componendo le parafrasi all'Etica, agli Analitici posteriori e alla Politica. Nel 1263 accetta un nuovo gravoso incarico che Urbano IV gli affida: predicare in Germania la crociata per la liberazione di Gerusalemme. Alberto si reca in molte città tedesche ma pare con scarso successo, e Per aldopo un anno l'incarico viene sospeso, per la morte di Urbano IV. fino al conventi dell'Ordine, vari in anni cuni riprende l'insegnamento Kreuz di domenicano nel convento stabilisce Heilige 1269 anno in cui si di Colonia dove rimane fino alla morte. Sono incerti sia la sua partecipazione al Concilio di Lione (1274) sia il suo viaggio a Parigi nel 1277 per difendere il suo amatissimo discepolo Tommaso dalla condanna del
mento all'università di
vescovo
Tempier.
Il 13 novembre 1280 Alberto muore nella
Colonia.
sua
cella nel convento di
Alberto Magno
449
Opere di Alberto abbiamo riferito i titoli di alcune sue opere; ma rispetto alla sua vastissima produzione letteraria essi non ne rappresentano che una piccola porzione. Alberto ha scritto moltissimo, ed essendo una mente enciclopedica ha scritto di tutto: teologia, filosofia, scienza, esegesi, mistica. Anche a un rapido esame l'edificio dottrinale costruito da Alberto mostra dimensioni colossali. La prima edizione dell'Opera omnia, curata da P. Jammy (Lione 1651), comprende 21 VOlumi in folio; la seconda, fatta da1l’abate Borgnet e cominciata nel 1890 comprende 38 volumi, mentre una nuova edizione diretta da B. Geyer e tuttora in corso prevede oltre 40 tomi. Nell’attività di scrittore di Alberto F. Van Steenberghen distinguo quattro periodi: 1) Primo periodo teologico (1236-1248), al quale appartengono gli scritti fondamentali già citati: De natura boni, Summa de creaturis e il Commento alle Sentenze di Pìer lombardo. 2) Periodo mistico e dionisiano (1248-1254), che coincide col secondo ciclo di insegnamento di Alberto Magno a Colonia. È costituito dal commento all'intero corpus dionisiano il e dalla prima spiegazione dell'Etica a Nicomaco che egli fece durante
Esponendo la vita
soggiorno a Colonia. 3) Periodo filosofico 0 aristotelica (1254-1270) consacrato alla stesura delle grandi parafrasi di Aristotele, che si estendono a quasi tutto il corpus aristotelico e che comprendono inoltre scritti di Boezio (De divisione, De syllogismo) e il De caasis. In queste parafrasi si possono distinguere tre parti: la philosophia rationalis (l’Organon di Aristotele e i trattati di Boezio), la philosophia realis (i libri naturales di Aristotele, le opere di astronomia, la Metafisica, il De causis et processu universitatis) e la philosophia moralis (Etica e Politica). 4) Secondo periodo teologico (1270-1280): è contrassegnato dalla stesura della Summa theologiae, che resterà incompiuta e che ignora la Somma teologica di 5. Tommaso! La
personalità
secolo ricco di grandissime personalità in tutti i campi della cultura basti ricordare i nomi di Innocenzo III, Gregorio IX e Bonifacio VIII per il governo della Chiesa, di S. Francesco e S. Domenico per il rinnovamento della vita religiosa, di Federico II per la politica, di Dante per la poesia, di Giotto per la pittura, di Bonaventura e di Tommaso per la teologia la stella di Alberto Magno splendette radiosa in modo inIn
un —
-
2)
Cf. F. VAN STEENBERGHEN, Le grandi sintesi dottrinali dal 1250 al 1275, in Storia della Chiesa, a cura di Fliche-Martin, vol. XIII, pp. 331-332.
450
Parte seconda
confondibile,suscitando grande ammirazione ovunque. Fu chiamato giustamente DOCÌO?‘ Universalìs, perché i suoi meriti di pensatore e di scrittore si estendono a tutti i campi degli studi sacri e profani, dimodoche fu detto che, se fosse perita tutta la scienza dei suoi tempi, egli
sarebbe stato capace da solo di risuscitarla dal tesoro della sua mente. «In tutta la sua vita S. Alberto fu monaco, dottore, apostolo. Né solo limitava la sua influenza alle classi colte, ma scendeva ancora tra le file del popolo a spargere il seme evangelico. Una così fatta vita si riassume in una frase: virtù e sapere al servizio dellapostolato, e di un apostolato integrale, concepito come termine di ogni attività, ma in maniera che tutta la vita sia protesa come una molla potente verso il bene dei fratelli. Nel Santo di Colonia è evidentissima questa convergenza di tutte le energie verso lo scopo sublime dell’apostolato; si direbbe che egli tema di volteggiare troppo a lungo nei cieli solitari della speculazione, e senta il bisogno insopprimibile di accorrere sui campi sterminati della vita pratica, dove gli uomini gemono, si agitano, furoreggiano, cadono, nel
quotidiano, estenuante combattimento»! Bernardo Guidonis, suo contemporaneo, delinea con questi tratti inci-
sua figura: «Alberto Teutonico fu massimo nelle scienze fisiche e divine. Lascio molti e vari volumi a tutto il mondo; e quello che scrisse nell’esporre la Sacra Scrittura e le altre scienze ha profondità di concetto, altezza di significato e di sentenzenfl Un analista tedesco, che scriveva intorno alla metà del secolo XV, lo chiama «il Varrone germanico, o per dir meglio, molto più dotto di Varrone, perché niente gli sfuggì ma tutto conobbe a perfezione, e fu veracissimo conoscitore della natura, dietro Aristotele. La dialettica, la matematica, la fisica, la geometria, la metafisica, l'etica, la teologia e, se è lecito, anche le scienze occulte, sono esposte con tanta esattezza e precisione, come egli non si fosse consacrato che a una materia sola, senza occuparsi delle altre: tanto sono perfette nel loro genere! Non conobbe meno le dottrine di Platone, di Epicuro, di Pitagora e degli altri filosofi, che quelle di Aristotele; fu il primo tra i latini a ricercare quanto di egregio vi fosse nei pensatori greci, latini, arabi, ebrei, egiziani; fu tra i latini il primo a scrivere commenti su tutti i libri di Aristotele, Euclide, Pietro Lombardo e simili autori».5 Non meno lusinghieri i giudizi espressi dagli storici moderni riguardo alla vastità e all'importanza del lavoro filosofico, scientifico e teologico compiuto da Alberto Magno. «Alberto scrive C. Baeumker è un dotto nello e stesso tempo uno spirito sensibile, pensatore profondo, e
sivì la
—
3) A. PUCCETTI, 0p. ciL, I, pp. 208-209. 4) Citazione in ibid, Il, p. 41. 5) lbid., p. 43.
-
Alberto Magno
451
ricco di belle doti, che accoglie e sviluppa ogni impressione che lo colpisce. Egli vive in un periodo di poderosa agitazione nel mondo della speculazione filosofica e teologica, la quale, a causa di molteplici forze motrici, e specialmente di nuove idee provenienti dalla scienza ellenica e dall'Oriente, si trovava in grande fermento. Col suo Sguardo egli domina tutto questo fenomeno. Con grande flessibilitàabbraccia molte cose: speculazione filosofica c scienza teologica positiva; acuta ed esatta meditazione della natura e fede pia; scolastica e mistica».6 Alberto Ma— gno attesta P. Mandonnet «pensò di incorporare nel lavoro scientifico di cui Aristotele forniva il principio capitale, tutto ciò che Fantichità, i maestri arabi e la sua personale esperienza potevano offrirgli quali elementi utili al suo disegno. Giunse così alla concezione di un'opera che metteva alla portata degli uomini di studio la totalità dei risultati scientifici, quali lo spirito umano aveva elaborati fino a lui (...). Egli organizzò un piano generale ispirato ad Avicenna e lo riempì sovrabbondantemente incorporandovi tanto i materiali di Aristotele e dei suoi commentatori, quanto le proprie osservazioni. Fu questa facilitàdi intendere Aristotele e di avere sottomano tutta la scienza antica a fare la straordinaria fortuna dell'opera di Alberto Magno»? «Il gesto audace di questo maestro di teologia dichiara F. Van Steenberghen era pieno di significato. Alberto proclama, con tutto il suo modo di agire, che lo sviluppo delle scienze profano è necessario e benefico, e che la stessa teologia troverà in esso il proprio utile. A questo tacito insegnamento egli unisce le dichiarazioni più esplicite sulla natura e i metodi propri della teologia, della filosofia e delle scienze particolari, costruite secondo i dati dell'osservazione e della sperimentazione. La sua curiosità scientifica non ha limiti e il suo sapere è talmente vario e così universale che egli si trova al punto di partenza di quasi tutte le correnti dottrinali del suo secolo: tomismo, neoplatonismo, mistica tedesca, movimento scientifico».8 —
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—
-
Il programma Uimmensa opera letteraria in particolare le grandi parafrasi di Aristotele è la splendida realizzazione del programma che Alberto aveva concepito sin dai primi anni della sua docenza parigina: «rifare Aristotele a uso dei latini». -
-
6)
C.
8)
F. VAN STEENBERGHEN, Le grandi sintesi... ciL, p. 341.
BAEUMKER, Der Anteil des Elsass ari der: geisrigen Bewegungen des Mittelalters, in «Beitràge zur Geschichte der Philosophieund Theologie» 25 (1928), pp. 228-229. 7) P. MANDONNET, Siger de Bralmnt et lîzivcrmisnze latin mi XIII siècle l, Louvain 1911, pp. 37-38.
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Parte seconda
Ci è già noto il tortuoso, difficile e lungo cammino che aveva restituito Aristotele al mondo latino. La presenza di Aristotele nelle università,
lungamente frenata dai divieti ecclesiastici, verso il 1250 si affermò definitivamente, e nel breve giro di un quinquennio tutte le opere di Aristotele, tradotte in latino, divennero materia di insegnamento obbligatorio nella facoltà delle Arti di Parigi. Nel 1252 la nazione inglese promulga nuovi statuti, che regolano l'ammissione dei baccellieri all'insegnamento ed enumerano le materie di esame, imponendo ai candidati alla licentia docendi di avere seguito non soltanto i corsi della logica antica e nuova, del Liber sex principiorum, del Priscianus minor et magnus, ma
anche quello del Liber de anima di Aristotele. Nel 1255 è l'intera facoltà delle Arti a mettere in programma tutte le opere conosciute di Aristotele, ivi comprese tre pseudoepigrafi aristoteliche: il De caasis, il De plantis, e il De daifferentia spiritus et animae. Oltre alla logica antica e nuova, con i commenti classici di Boezio, oltre ai libri di grammatica e ai sex principia, sono ricordate le seguenti opere: Ethicas quantum ad quatuor libros, Physicorunz Aristotelis, Metaphysicam et librum de animalibus, Librum cocli et mundi, Librum primum metheorum, Librum de anima, Librum de causis, Librum de sensu et sensato, Librum de somno et vigilia, Llibrum de plantis, Librum de memoria et reminiscentia, Librum de difierentia spiritus et animae (di Costa ben Luca), Librum de morte et vita. Questo improvviso dilagare di Aristotele non poteva certo esser ben visto dai maestri della facoltà di Teologia, i quali appartenevano quasi tutti ali’ala conservatrice (dei chierici secolari e della scuola francescana). Essi erano contrari all'impiego della psicologia e della metafisica aristotelica nella formulazione del dogma cattolico. Nel suo commento In epistulas Beati Dionysii Areopagitae scritto tra il 1250 e il 1255, Alberto Magno esprime tutto il suo sdegno contro gli avversari della filosofia: «Ci sono degli ignoranti che vogliono in tutti i modi combattere l'uso della filosofia, soprattutto tra le file dei predicatori, dove nessuno lì fronteggia; come animali irragionevoli bestemmiano contro ciò che ignorano». Il giusto atteggiamento da assumere, secondo Alberto, anche da parte dei teologi e dei predicatori non poteva essere quello di un cieco rifiuto bensì di una prudente assimilazione.Convinto dell'importanza del sapere profano, della sua intrinseca bontà e della sua utilità per la stessa teologia, Alberto si dedicò col massimo impegno allo studio di Aristotele e alla sua corretta interpretazione, parafrasando sistematicamente tutte le sue opere. C'erano senz'altro anche degli errori negli scritti di Aristotele, perché nessun genio umano, per quanto grande, è onnisciente e infallibile,ma Alberto era convinto che sarebbe stato più facilee più opportuno combattere gli errori che bandire Aristotele in blocco. Perciò decise di fare due cose: parafrasare i difficili testi dello
Alberto Magno
453
Stagirita per renderli più accessibiliai lettori latini: «Il nostro proposito è quello di far comprendere ai latini tutte le parti dette (fisica, metafisica e
matematica)»; effettuare un'interpretazione del pensiero aristotelico che risultasse compatibilecon 1a fede cristiana, pur senza costringerlo dentro i limiti della fede. Alberto riconosceva infatti la legittimità di una ricerca scientifica condotta col solo lume della ragione, distinta dalla conoscenza rivelata, ed era inoltre convinto che lo sviluppo autonomo del sapere profano era necessario e che la stessa teologia poteva trarne
grande vantaggio. Ma nella sua coraggiosa battaglia a favore di Aristotele, ben presto Alberto Magno dovette scontrarsi, oltre che con i teologi tradizionalisti, anche con i filosofi averroisti e con quello che F. Van Steenberghen ha chiamato «il pericolo dellarabismo». «Alberto Magno si rende conto di ciò che viene compiendosi da un mezzo secolo nella cristianità: per la prima volta nella storia della Chiesa, un compatto sistema di discipline
scientifico-filosoficheha forzato l'entrata del mondo cristiano: Yaristotelismo, capolavoro dell'intelligenza greca, arricchito dagli apporti del
neoplatonismo greco, ebraico e arabo si è improvvisamente alzato di fronte alla teologia; una sapienza pagana si trova improvvisamente di fronte alla presenza della sapienza cristiana; il sapere profano non è più
rappresentato dal modesto e inoffensivo corteo delle arti liberali, bensì dalla possente sintesi scientifica del peripatetismo. Ora, tra la filosofia pagana e la sapienza cristiana il conflitto è inevitabile,giacché in parecchi punti, le due visioni dell'universo accusano profonde divergenze»)! Alberto Magno, mediante un'indagine condotta personalmente sulle opere di Aristotele, riuscì a mostrare che le interpretazioni di Averroè, che aggravavano il dissidio tra lo Stagirita e la Sacra Scrittura erano del tutto ingiustificate e arbitrarie, e fece Vedere che i principali fondamenti della metafisica e della psicologia aristotelica potevano essere tranquillamente accolti anche dal filosofo cristiano. Per la posizione che egli occupa nel risolvere il problema dellassimilazionedi Aristotele, Alberto sta nel giusto mezzo tra i teologi conservatori, nemici dichiarati di Aristotele, e gli ”artisti” disposti a seguirlo fin nei suoi più gravi errori. Con i primi egli afferma che la fede domina la ragione, che la scienza sacra è superiore alla filosofia, che Aristotele e i filosofi pagani si sono talvolta grossolanamente ingannati e che l'autorità di S. Agostino nel campo teologico deve essere rispettata. Ma con i secondi riconosce che Aristotele è la grande personificazione del sapere profano, che la filosofia deve elaborarsi secondo metodi propri e che essa deve godere i vantaggi dell'autonomia scientificabene intesa.
9) 11nd,, p. 339.
454
Parte seconda
«Il merito specifico di Alberto è quello di avere portato personalmente positivo e grandioso contributo all'opera di costruzione delle scienprofane, tenendosi nel rispetto della ortodossia, e di avere così lavoratojn modo decisivo, allo sviluppo integrale dell'intelligenza cristiana. E proprio degli intelletti superiori avere la chiara visione dei bisogni del proprio tempo e così, di fronte alla nuova situazione creata
un ze
dalla massiccia
penetrazione della
scienza
greco-araba, Alberto
Magno ha compreso che, per la cristianità, era venuta l'ora di compie-
la sua emancipazione intellettuale e di entrare definitivamente nei movimento scientifico, che bisognava, di conseguenza, accogliere Aristotele e assimilarlosecondo le esigenze proprie del pensiero latino e cristiano e infine che gli errori, le deviazioni e le lacune della scienza pagana sarebbero stati più efficacemente superati da uno sforzo costruttivo di riflessione e di critica, che non da interdizioni o mutilazioni praticate sui testi».10 re
Strenuo avvocato di Aristotele, Alberto ne sposa in larga misura l'impianto metafisico e le dottrine filosofiche fondamentali, ma apportandovi opportuni e significativi ritocchi un po’ ovunque, soprattutto nella teologia naturale e nella psicologia, ricorrendo ora ad Agostino, ora a Boezio, ora ad Avicenna, ora a Maimonide; il che attesta che le sue dottrine filosofiche obbediscono a una sostanziale unità di fondo, che però sembra essere dovuta in maggior misura ai contenuti della sua fede cristiana che non a princìpi di ordine razionale. Per questo motivo la sua costruzione filosofica conserva un carattere frammentario. Alcuni storici hanno veduto in lui soltanto un compilatore eclettico, la cui opera sparsa e le cui tendenze disparate farebbero contrasto col vigoroso e personale pensiero del suo migliore discepolo, Tommaso d'Aquino. Secondo Van Steenberghen, questo giudizio è esagerato: «Alberto è anche lui un filosofo e un ricercatore che si è applicato, nel corso della propria vita, a meditare il sistema di Aristotele, a raffrontare le tendenze e le dottrine del peripatetismo con quelle del platonismo, del neoplatonismo e del cristianesimo e infine ad arricchire il tesoro della scienza con il frutto delle sue personali ricerche. Occorre tuttavia riconoscere che Alberto non è giunto a costruire una sintesi filosofica paragonabilea quella di Tommaso d'Aquino. Nelle sue parafrasi aristoteliche non è sempre facile determinare in quale misura Alberto impegni il suo pensiero, giacché spesso dichiara di non fare sue le dottrine che espone. Nellînsieme dell'opera predomina l'influenza di Aristotele; ma Alberto accoglie con simpatia le idee neoplatoniche di provenienza greca e araba, restando inoltre tributario delle dottrine tradizionali della teologia latina. E tutte queste varie fonti non sono pienamente unificatemlî
w) una, p. 340. 11) 11nd,, p. 342.
Alberto Magno
455
Le parafrasi aristoteliche Le
parafrasi aristoteliche sono indubbiamenteil principale contributo
apportato da Alberto Magno alla filosofia nonché ai vari campi del sape-
re scientifico. Ma non tutti gli storici sono d'accordo sull'importanza e sul significato di questa colossale impresa. Dobbiamo quindi fare alcune considerazioni a tale riguardo. Quale fosse l'obiettivo che Alberto intendeva perseguire compiendo questo lavoro è detto a chiare lettere nel suo celebre Prologo alla Fisica. Scrive Alberto:
«E sarà nostra regola in quest'opera seguire l'ordine ed il pensiero di Aristotele, e dire tutto ciò che è necessario alla sua chiarificazione ed alla sua dimostrazione, in modo che tuttavia non si faccia mai menzione del suo testo. Ed oltre a ciò faremo alcune digressioni, manifestando i dubbi che sorgono e rimediando a tutto ciò che, detto meno espliCitamente negli scritti del filosofo, in certuni causò confusione. Inoltre divideremo tutta quest'opera coni titoli dei capitoli, anche dove il titolo mostra semplicemente che la materia del capitolo è dalla serie dei libri di Aristotele. In qualunque luogo, poi, nel titolo viene indicato che è fatta una digressione, lì è stato aggiunto da noi per completezza o è stato introdotto per dimostrazione. Ora, procedendo in tal modo abbiamo portato a termine i libri con il medesimo numero e con i titoli coni quali Aristotele fece i suoi. E aggiungeremo in alcuni luoghi delle parti di libri non finiti e in altri luoghi libri interrotti o perduti, che Aristotele non fece e che se forse fece, a noi non pervennero». Per rispondere alla richiesta pressante dei propri confratelli Alberto si propone di comporre una vasta enciclopedia nella quale essi possano trovare un'esposizione completa della scienza della natura e grazie alla quale possano acquistare quella competenza necessaria per comprendere i libri di Aristotele. Il metodo (modus) consisterà nell’esplicare il più chiaramente possibile la dottrina di Aristotele, senza far mai menzione del suo testo (textus eius nulla fit mentio), e ne11’aggiungere tutte le digressioni che sembreranno utili per risolvere le questioni lasciate in sospeso o per completare il testo di Aristotele. Come si vede, l'obiettivo di Alberto non è semplicemente quello di spiegare e commentare Aristotele, bensì di approntare una serie di manuali per tutti i campi del sapere scientifico e filosofico, assumendo le opere di Aristotele come base, ma nello stesso tempo integrando il corpus aristotelico con altri libri, per quelle materie sulle quali o Aristotele non aveva scritto libri o non erano stati conservati. «È evidente che un tale progetto supera infinitamente quello d'un commento nel quale il pensiero personale dell’esegeta sarebbe messo tra parentesi. È evidente anche che la scienza della natura costituisce per Alberto un valore uma-
456
Parte seconda
d'importanza e non l'oggetto d'una vana curiosità, senza utilità per il teologo. Infine il punto di vista esegetico è così poco rilevante nel pensiero di Alberto, da non fargli stimare opportuno di riprodurre il testo di
no
Aristotelemll Molti altri
passi delle parafrasi esprimono idee analoghe a quelle implicite negli intenti dichiarati nel Prologo della Fisica. Così nel De generatione Alberto annuncia che integrerà l'esposizione di Aristotele con
ciò che ha potuto trovare presso altri autori, insieme inoltre al frutto delle proprie esperienze e riflessioni personali. Nel De natura locorum, che studia una questione speciale a complemento del trattato sulle Meteore, egli dice espressamente che esporrà il proprio pensiero e non quello di Aristotele in materia. D'altronde il metodo stesso della parafrasi consente all'autore, molto più del commento letterale, di fare tutte quelle digressioni e quelle interpolazioni personali ritenute utili per una maggiore comprensione del testo e dell'intenzione dell'autore: e tutti sanno come Alberto usi abbondantemente di questo procedimento. Cade pertanto la pretesa del Nardi” di far coincidere la filosofia e la metafisica di Alberto con quelle di Aristotele letto in chiave averroistica. Questa tesi, inoltre, contrasta apertamente con il proposito di Alberto di operare una sintesi delle filosofie di Platone e di Aristotele: «Sappi che l'uomo non è bene istruito nella filosofia se non dalla conoscenza delle due filosofie di Aristotele e di Platone>>fl4 Per quanto riguarda Aristotele si può affermare con Weisheipl che «personalmente Alberto fu un aristotelica Convinto e insistette (1) sull'autonomia delle scienze naturali nel loro campo, (2) sullîmpossibilitàdi scoprire "le cause reali" dei fenomeni naturali in quanto naturali attraverso la matematica e (3) sulla necessità di stabilire i fondamenti dell'etica e della metafisica nella natura delle cose del mondo reale, cioè nell'ambito che viene studiato dalla filosofia naturale. Questo non significa che Alberto fosse integralista nell'accettare, alla lettera, tutto quello che Aristotele aveva detto, o che escludesse qualsiasi verità proveniente da qualsiasi altra fonte compatibile con le sue convinzioni cristiane. Semplicemente vuol dire che Alberto fu veramente un realista e accolse l'autonomia della ragione umana nel suo campo, perché niente di quanto la ragione correttamente conosce può entrare in contraddizione con la verità rivelata>>fl5
'12) F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia di Alberto Magno, in «Sapienza» 18 (1965), p. 385. Cf. B. NARDI, Studi di filosofia nzedieoale, Roma 1960: «Egli non ha Voluto affatto fondare un "aristotelismo cristiano", ma spiegare semplicemente Aristotele ai cristiani che lo ignoravano o l'avevano frainteso» (p. 123). 14) Metaph. I, tr. 5, c. 15. 15) J. A. WEISHEIPL, 0p. ciL, p. 38.
13)
Alberto Magno
457
La datazione delle parafrasi aristoteliche costituisce un problema molto intricato e controverso e fonte di grandi perplessità tra gli studiosi. Mandonnet ha sostenuto che tutte le parafrasi aristoteliche sono state scritte tra il 1245 e il 1256,- per contro Pelster afferma che le parafrasi di Alberto furono scritte tra il 1256 e il 1275. Da parte sua Weisheipl sostiene che esse furono redatte nell'arco di un ventennio, e precisamente tra il 1250 e il 1270: «certamente entro l’aprile del 127] tutte le parafrasi erano state ultimatenflò Uordine cronologico della loro stesura sembra abbastanza sicuro ed è il seguente: Physicorum libri, De coelo et munda, De natura Zocorum elementorum, De generatione et corrutione, Meteore, De mineralibus et lapidibus, De anisma, Parva naturalia (undici opere distinte), De vegetabilibus, De animalibus, Metaphysicorum libri, De XV problematibus. Il vasto corpus delle parafrasi aristoteliche, in generale, non fu direttamente oggetto di lezione o di commenti nelle aule delle università, né tantomeno fu il frutto di un insegnamento svolto in uno dei numerosi studium dell'ordine a quell'epoca già attivi. Le parafrasi furono, invece, scritte o dettate da Alberto per i confratelli come impegno extracurricu— lare, perché fossero lette dagli studenti per capire meglio Aristotele e acquisire il massimo grado di conoscenza possibile della sapienza umana (filosofia),in quanto necessario preambolo della teologia. Alberto fu un instancabilestudioso non solo del mondo della natura, ma anche di tutto ciò che gli antichi, particolarmente i ”peripatetici”, ebbero a dire nel campo filosofico, che per lui rappresentava la totalità della conoscenza umana naturale. Si applicò a tal punto allo studio delle scienze naturali, nelle quali egli comprendeva oltre alla filosofia della natura anche la filosofia morale e la metafisica, che Enrico di Gand (m. 1293) lo accusò di trascurare le scienze sacre. Questa accusa non è solo ingiusta, ma è anche falsa. Infatti abbiamo Visto che prima di iniziare la composizione delle parafrasi Alberto si era dedicato per un ventennio allo studio della scienza sacra per eccellenza, la teologia, componendo tra l'altro il suo monumentale commento alle Sentenze, la Summa de creaturis e il commento al corpus dionisiano. Alberto Magno ha mantenuto rigorosamente distinte le due grandi aree della conoscenza umana, la conoscenza naturale e la conoscenza rivelata, ma le ha coltivate intensamente entrambe. Per professione, nella sua veste di nuzgister regens, attese maggiormente allo studio della teologia, ma per sua propensione si dedicò specialmente alla ”filosofia”.
D16) Ima, p. 32.
458
Parte seconda
Per conoscere il pensiero filosoficod'A1bert0 occorre, dunque, esaminare sia le parafrasi aristoteliche sia le sue opere teologiche. Questo vale in modo particolare per quel territorio di confine tra le scienze naturali e la teologia che è la metafisica. Per farsi un'idea corretta e adeguata della metafisica albertina non ci si può accontentare dei commenti ad Aristotele ma occorre esaminare attentamente il suo commento alle Sentenze, la Summa de creaturfs e i commenti al corpus dionisiano. Per quanto attiene il campo delle scienze Alberto non fu un semplice ripetitore di Aristotele, Tolomeo, Avicenna e quanfaltri, ma apporto personali contributi all'approfondimentoed alla ricerca del sapere scientifico, tali da procurargli l'ammirazione dei suoi contemporanei, nonché significativi riconoscimentida parte degli storici della scienza.” In un'epoca in cui il platonismo continuava a privilegiare il metodo matematico in tutti i campi del sapere, compreso quello delle scienze naturali, la grande rivoluzione epistemologica operata da Alberto fu quella di proporre un nuovo metodo scientifico basato sull'esperienza sensoriale. «Alberto ha compreso che la scienza naturale è un'indagine dei fatti e delle cause del mutamento dei corpi in quanto sottoposti a regolari mutamenti attraverso processi naturali. Tale scienza deve basarsi sull'esperienza sensoriale. Può e deve servirsi della matematica come strumento di ricerca, ma non per ricavarne i principi esplicativi ultimi. Deve essere logicamente sistematizzata procedendo dalle proprietà universali dei corpi mutevoli naturali, ma deve estendere le sue ricerche fin Verso le proprietà particolari di ogni genere specifico di corpo, giungendo infine a studiare l'essere umano. Deve cercare spiegazioni rigorosamente causali, quando ‘e possibile, procedendo a ritroso dagii elementi stabili, composti e dalle realtà organiche viventi, fino ai processi che li producono regolarmente in natura. La scienza naturale scopre i propri limiti, lasciando spazio alla metafisica per considerare aspetti più ampi e più profondi della realtà. Essa trae validità dalle sue applicazioni tecnologiche, ma ancor più dal contributo che essa dà alla vita dell'intelletto, e molto di più in quanto conduce alla comprensione migliore di come dobbiamo vivere. Per il cristiano, però, la luce che la scienza naturale getta sul mondo richiede il sostegno e anche la correzione della luce della verità rivelata».|8
17) 18)
Cf. A. C. CRoMmn, Medicea! and carly Modern Science, 2’ ed, New York 1959, vol. l, passim. B. M. AsHLnv, S. Allaerto e la natura della scienza naturale, in I. M. WElSHEIPL (ed.), Alberto Magno c le scienze, cit., p. 114.
Alberto Magna
459
Classificazionedelle scienze e oggetto della metafisica era
La dottrina di Alberto a proposito della classificazione delle scienze la stessa già stabilita per la Scolastica da Domenico Gundissalino, il
quale a
sua
volta l'aveva ripresa da AI-Farabi (Opusculum de
scientiis).
questo schema la divisione platonico-stoica delle scienze in logica, fisica ed etica era stata ulteriormente rielaborata dividendo la ”fisica" o In
scienza teorica
(in opposizione alla morale e alla tecnica) in scienza
naturale, matematica e divina (metafisica e sacra teologia). Alberto, seguendo Aristotele, giustifica questa divisione tripartita
della scienza teorica in base ai tre livelli di astrazione. La scienza naturale astrae dalla materia individuale ma non dalla materia sensibile, trattando di tutti gli aspetti dei corpi, in quanto presentano aspetti regolari e generalizzabili.La matematica, d'altro canto, astrae dalla materia sensibile, ma non da quella intelligibile, cioè la quantità, in quanto può essere idealmente ricostruita dalla immaginazione. Infine la metafisica astrae completamente dalle caratteristiche proprie della realtà fisica, e considera solo gli aspetti dell'essere comuni a tutti gli enti, materiali o immateriali, reali, possibili o immaginari, ma sempre con lo scopo primario di trattare delle realtà ultime.” Per quanto attiene il valore scientifico e la portata conoscitiva delle tre ”scienze teoriche", mentre i platonici giudicavano la matematica, grazie alla sua certezza, superiore alla scienza naturale, Alberto, da buon aristotelico, sostiene, come abbiamo visto, la tesi opposta. Egli guarda alla matematica come all'infima delle scienze teoriche, anche se per dignità è superiore alla logica il cui valore è puramente strumentale rispetto alle altre scienze. La matematica è un'autentica scienza della realtà, notevole per il suo grado di certezza e di chiarezza, ma insufficiente rispetto al suo oggetto materiale, che è la pura quantità degli oggetti fisici, considerata cioè astraendo idealmente dalle condizioni esistenziali di tali oggetti. Dunque la matematica non si può considerare come un contributo teoretico per l'attuazione del sapere metafisico, il quale invece in quanto studio dell'essere come tale è più direttamente legato alla fisica, la scienza del nostro mondo sensibile. È solo dall'esistenza delle realtà visibiliche possiamo giungere a conoscere l'esistenza delle realtà invisibili,come dall'effetto si conosce la causa. Alberto non nega il valore e l'importanza della matematica come strumento della scienza naturale; sostiene però che essa può stabilire solo un fatto fisico (quid), senza poter dimostrare la ragione fisica o causa (propter quid), in
19)
Cf. Metaph. I, tr. l,
c.
l.
h
460
Parte seconda
della quale la spiegazione scientifica è incompleta. Così la matematica è correlata alla scienza naturale in quanto strumento cli ricerca, ma non come fonte della conoscenza dei suoi principi propri. Assai più stretto, dunque, è il rapporto che unisce la fisica alla metafisica e viceversa. Per Alberto entrambe le discipline sono autentiche scienze; solo la metafisica, però, merita l'appellativo di sapienza (sapientia), perché la scienza naturale si limita allo studio dei corpi mutevoli che non sono le realtà ultime (delle quali si occupa la metafisica) e che non possono essere compresi completamente se non in relazione alle stesse realtà ultime, come gli effetti non possono essere compresi se non in relazione alle loro cause. Tuttavia questo stato inferiore della scienza naturale non significa che essa sia subalterna alla metafisica nello stesso modo in cui la matematica è subalterna all'astronomia, perché la matematica (o la fisica) non fa mai uso dei principi metafisici come tali nelle sue dimostrazioni. Alberto dice che la metafisica "fonda” la matematica e la scienza naturale, perché essa stabilisce e difende la validità dei principi di tutte le scienze speciali. La metafisica difende quei principi precisamente difendendo la validità dell'esperienza sensibile e dell'indagine intellettuale basata su tale esperienza. La scienza naturale, poi, precede la metafisica nell'ordine della conoscenza poiché la metafisica è una riflessione sulle conoscenze raccolte dalle scienze speciali e in primo luogo dalla scienza naturale, e dal momento che la matematica tratta solo di oggetti idealìzzati e non direttamente della esistenza, mentre le scienze pratiche non hanno per scopo la conoscenza teorica.” Come avviene allora la transizione dalla scienza naturale alla metafisica? ll passaggio avviene, come in Aristotele, lasciando lo studio di ambiti particolari della realtà e concentrando la ricerca esclusivamente sull'esse che è comune a tutte le cose. Ecco le parole testuali di Alberto:
mancanza
«Dal momento che lo scienziato naturale suppone l'esistenza (esse) dei corpi mutevoli e il matematico suppone l'esistenza della quantità continua o discreta ciascuno suppone l'esistenza, non essendo in grado di dimostrarla con i propri principi -, l'esistenza (esse) deve essere provata tramite i principi dell'esistenza come tale. Perciò questa scienza (la metafisica) ha il compito di fondare sia il soggetto che i principi di tutte le scienze. E. questi non possono essere stabilitio fondati da scienze particolari nelle quali l'esistenza (quia sunt) o esse è lasciato indeterminato o presupposto. Questa scienza è chiamata anche divina, perché tutti questi principi sono divini, ottimi e primi, fornendo a tutte le altre realtà il loro compimento nell'esistenza. -
2°)
Cf. ibid, IV, tr. 3,
cc.
5-6.
Alberto Magno
461
Perché l'esistenza (esse) che questa scienza considera non è contratta questo 0 quel genere di esistenza, ma è piuttosto considerata in quanto è il primo flusso proveniente da Dio e la prima creatura, prima della quale nient'altro è creato»? da
A questo punto Alberto non esita a citare anche il platonico Tolomeo, il quale afferma che dal momento che la scienza naturale tratta solamente di realtà immerse nel flusso temporale, essa a differenza della metafisica è «mescolata all'opinione e non può attenersi al carattere consolidato, permanente e necessario della scienza».22 Questa posizione è coerente con il fatto che Alberto, mentre sottoscrive il punto di vista secondo cui tutta la conoscenza è radicata nell'esperienza sensibile, non può rinunciare completamente all'idea che sia necessario supporre qualche forma di illuminazionediretta da parte di Dio per garantire la certezza dei principi più elevati del conoscere umano, dando prova ancora una volta della sua abilitàdi conciliare Aristotele con Sant'Agostino.23 —
-
I trascendentali
Dopo Filippo il Cancelliere, Alberto Magno, nel suo De bono, è l'autoche ci dà la trattazione più elaborata e completa dei trascendentali. Il De bono non è un trattato di ontologia ma di morale: si occupa infatti delle virtù cardinali. Tuttavia nel capitolo introduttivo, studiando il concetto di bene in tutte le sue accezioni, Alberto prende in esame anche il concetto metafisico di bene e chiarisce i rapporti che lo legano agli altri concetti trascendentali: l'ente, il vero e l'uno. Alberto presenta e spiega tre definizioni del bene: 1) quella di Aristotele, secondo cui il bene è ciò che ogni ente desidera; 2) quella di Avicenna che chiama il bene Yindissolubilitàdi potenza e atto; 3) quella di AlGhazali, il quale descrive il bene come l'atto (actus), il cui raggiungimento è accompagnato dal piacere. La definizione aristotelica («ciò che tutti gli esseri desiderano») Va interpretata come il desiderio naturale (appetitus naturalis) ossia l'inclinazioneVerso il bene di ciò che è ancora in potenza alla sua perfezione. Ora, questo desiderio si trova in tutte le cose. Mettendo a confronto l'ente, che ‘e il primo concetto della nostra mente, e la bontà, Alberto porta una serie di argomenti a favore della loro convertibilità. L'ente è ciò che viene prima in ogni cosa, mentre la re
,
31) lbid. l, tr. l, c. 1. 22) lbid. 23) Cf. E. GlLsON, History of Christian Philosophy in the Middle Ages, New York 1955, p. 670, nota 9.
Parte seconda
462
bontà viene per seconda. Essa può essere risolta nel concetto di ente in quanto l'ente è diretto verso un fine. Ma se si considera la bontà della Causa prima e l'essere nelle cose create, l'essere è posteriore alla bontà. Tuttavia negli esseri di cui entrambi sono predicati i due termini sono convertibili,infatti non c'è alcun ente che non sia anche bene, seppure in maniera imperfetta. L'articolo VII esamina più in dettaglio se ciò che esiste è bene per il semplice fatto che è. Se così fosse, sorgerebbe una domanda: gli esseri
buoni sostanzialmente oppure per partecipazione? È il quesito che aveva già affrontato Boezio nel De hebdomadibizs, e del quale aveva data una sua personale soluzione, che però Alberto non condivide. Egli suggerisce che tutto il bene creato procede dal Primo Bene, poiché questo è la causa efficiente che intende fare una determinata cosa. Ciò significa che l'essere delle cose create non e mai separato da ciò che è significato dal termine bontà. Cionondimeno ”essere" e "essere buono" non sono la stessa cosa, poiché lmessere" dipende dalla causa efficiente, mentre l’ ”essere buono” dipende dalla causa finale. La bontà non aggiunge una realtà positiva all'essere, bensì un nuovo significato: nel soggetto in cui si trova, la bontà è la stessa cosa dell'essere, ma ne differisce quanto al sono
contenuto concettuale. Nel commento al De divinis
nominibus dello Pseudo-Dionigi Alberto dottrina analoga per quanto riguarda i rapporti tra vero e propone una buono: ”vero” indica una relazione con l'idea di una cosa, in quanto esso è il principio della conoscenza; mentre ”buono" aggiunge una relazione al fine della cosa stessa. Alberto afferma che in questo modo entrambi i predicati aggiungono una certa "natura" (vale a dire un contenuto positivo) all'ente, essi dunque non sono convertibilicon l'ente quanto al loro contenuto. Anche altri predicati sono convertibiligli uni con gli altri per quanto attiene il loro soggetto (in cui si trovano) e secondo la loro natura (il loro contenuto positivo), ma non secondo il loro contenuto concettuale. Tali sono l'ente e l'uno: l'uno aggiunge una certa modalità (l'indivisibilità)all'ente. Tuttavia poco oltre, nello stesso testo, Alberto afferma che nulla può essere aggiunto all'ente nel senso di un contenuto nuovo e diverso (quasi altera natura ab ipso), ma questi nomi possono avere un diverso modo di significare a seconda che essi determinino l'ente a un
grado più o meno elevato.“
Nel commento al De divinis nominibus Alberto si occupa anche del
bello, senza tuttavia comprenderlo nella classe dei trascendentali. Per Alberto la bellezza è «lo
24)
Cf.
splendore della forma sostanziale o accidentale
Super Dionysii De divinis nominibus q. 5 (Opera orrmia XXVIII, p.314).
Alberto Magno
463
delle parti materiali che sono proporzionate o delimitate». L'essenza della bellezza sta nell’armonia di un certo numero di parti. Alberto attribuisce alla bellezza tre caratteristiche essenziali: lo splendore della forma, il sorgere dellammirazione e la buona disposizione delle parti. Alberto e consapevole della novità della sua trattazione sui trascendentali, poiché afferma che Aristotele non dice che verità e bontà sono su
proprietà che accompagnano ogni essere.
Esistenza e natura di Dio Dei problema dell'esistenza di Dio e dei suoi attributi Alberto si occupa sia nel suo Commento alle Sentenze sia nella Summa theolcigiae. Nella prima opera egli sembra considerare l'esistenza di Dio come una verità evidente e in qualche modo nota a tutti: la filosofiaha il compito di chiarire e di distinguere meglio questa conoscenzafi Invece nella seconda opera egli afferma che è necessaria una certa argomentazione per giungere alla conoscenza dell'esistenza di Dio e pertanto, adduce una serie di ”vie" (cioè di prove), delle quali alcune sono tratte dall'elenco di Pier Lombardo, mentre altre sono desunte da Avicenna e Maimonide. La prima Via conduce a Dio quale causa efficiente del mondo. La seconda, per ablationem, arriva a determinare Dio come essere incorporeo e immutabile. La terza riprende la prima e giunge a Dio quale causa dell'universo. La quarta via arriva a Dio affermando la superiorità dell'intelligibilesul sensibile. La quinta inferisce l'esistenza di Dio dalle perfezioni delle creature: così la grandezza dell'universo ci fa conoscere Tonnipotenza del Creatore, mentre la sua bellezza e il suo ordine ci fanno conoscere la sapienza infinita di Dio. Queste sono prove tradizionali alle quali Alberto dichiara di volere aggiungerne altre due: his v/Îis ego addo duas. E le due nuove vie sono quella aristotelica del moto (dal moto al motore immobile)e quella avicenniana basata sulla composizione reale tra esse e id quod est. Ecco in breve la formulazione dell'ultima via: tutto ciò in cui si distinguono l'asse e l'id quod est, ha l'essere da una causa diversa da quella che produce l'id quod est; questo lo riceve da una causa seconda che è della sua stessa natura, invece l'asse non può riceverlo che dalla Causa prima la quale è essere per essenza ed è pertanto causa generale di tutto ciò che appartiene all'asse. Alberto nota che tutte queste prove dell'esistenza di Dio non conducono a un essere anonimo ma, di volta in Volta, a un essere qualificato da un determinato attributo: efficiente, intelligente, immobile, perfetto ecc. ,
35)
Cf. In ISent. d. 3, aa. 1
ss.
464
Parte seconda
Ma si tratta sempre di una conoscenza estremamente povera e imperfetta, che per parlare di Dio deve ricorrere al linguaggio dei simboli e dell’analogia. Nel problema di Dio, come altrove, si nota in Alberto lo sforzo di coniugare le esigenze della metafisica aristotelica con quelle del neoplatonismo dello Pseudo-Dionigi. Da un lato egli «introduce un cambiamento nellbrientamento della conoscenza naturale e metafisica di Dio, la cui concettualizzazione e dimostrazione non muoverà più da una conoscenza diretta dell'anima e della illuminazionesuperiore, bensì dall'esperienza metafisica della realtà circostante. Attraverso Pastrazione dell'intelletto agente e in un processo ascendente di analogia, la mente umana Cerca una spiegazione universale dell'essere, il primo principio della realtà».26 Da un altro lato, nel suo commento al De divinis nominibus Alberto pone fortemente l'accento sul momento negativo delYanalogia che, come lo Pseudo—Dionigi, egli considera il linguaggio più appropriato per parlare di Dio. Il metodo causalità-negazione-eminenza conduce a un linguaggio rigoroso su Dio-Causa prima. La negazione stabilisce che quanto alle grandi perfezioni in cui si condensa la conoscenza possibile per la nostra ragione, Dio rimane inaccessibilee trascendente. La sovraeminente perfezione di Dio ci costringe ad adoperare molti nomi per descrivere la sua realtà nel migliore dei modi; ma tutto ciò che riusciamo a esprimere si riferisce all'unica, medesima, semplicissima essenza e alle sue relazioni con le creature. Per Alberto anche il nome Ego sum qui sum ha una connotazione essenzialmente negativa. Ciò che gli interessa stabilire è se si tratta di un nome personale oppure essenziale. Egli lo considera un nome essenziale, perché quando Mosè lo udì, egli non lo riferì a una persona piuttosto che a un'altra. Passando a determinare gli attributi di Dio, Alberto stabilisce che Dio è uno, vero e buono. È una perché di esseri necessari non può essercene che uno solo. È vero, perché, come dice Agostino nei Soliloqui: «la verità è ciò che è». Dio non è soltanto verità, ma è verità immutabilee la causa di ogni altra verità. Infine Dio, oltre che uno e vero è anche buono; anzi, essendo eterno e immutabile egli non può né guadagnare né perdere alcunché ed è quindi supremamente buono. È buono in sé e per sé; ed è inoltre buono nei confronti delle sue creature. Egli è detto summum bonum perché e la causa suprema e universale di ogni bontà delle creature. Considerato quale causa di tutto ciò che esiste, Dio è chiamato creatore. Questa parola indica la divina essenza stessa intesa come principio degli esseri che, presi in se stessi, non sono la causa della loro esistenza:
25)
P. RIBES MONTANE, Cognascibilidady demonstraciòn de Dios Ivlagno, Barcelona 1968, p. 185.
segùn
san
Alberto
Alberto Magno
465
«Dio è la causa efficiente di ogni cosa mediante il suo intelletto agente, poiché egli è l'intelletto supremo, al quale solo compete di agire assolu-
tamente e in tutti i modi possibili».
Altri attributi di Dio su cui Alberto pone l'accento sono la semplicità, Yimmutabilità e l'eternità. Mentre ogni altro essere è composto quanto meno di essenza ed esistenza (esse), Dio è assolutamente semplice: «Nella prima causa, che è Dio, come dicono Avicenna e Algazel, sono assolutamente e sotto Ogni aspetto la medesima cosa l'essere e ciò che è e ciò per cui è (In prima causa, quae Deus est, ut dicunt Azricenna et Algazel, omnino et onmimodo idem est esse et quod est, et quo est)».27 Che cosa, però, intenda Alberto per esse che noi abbiamo regolarmente tradotto con esistenza non risulta affatto chiaro. Egli riprende la distinzione da Avicenna e pare usare le espressioni esse e id quod est come sinonimi. «Non c'è nessuna indicazione che, persino alla fine della sua vita, si sia convertito alla nozione tomistìca di esse. Per lui, come per molti altri suoi successori fino ai tempi nostri, la distinzione di esse e quod est rimase un'espressione tecnica del fatto che gli enti creati esigono una causa della loro esistenza. Donde la sua citazione del De causis: "La prima creatura è l'essere (esse), nulla fu creato prima dell'essere". Questa è la ragione per cui Dio è l'unico ente che non può essere concepito come non-esistente».28 L'immutabilitàdi Dio è una conseguenza necessaria della sua semplicità. Poiché Dio è sostanzialmente tutto ciò che è, non può cambiare né nella sua sostanza né a causa di qualche accidente, e poiché soltanto Dio è la sua sostanza egli solo è veramente immutabile. Altimmutabilitàsi salda direttamente l'attributo della eternità. L'eternità non è un tempo senza fine. Noi parliamo di durata eterna, perché a noi sembra un'esistenza estesa indefinitamente; di fatto però l'esistenza di Dio non ha durata; neppure un tempo eterno equivale all'eternità. L'eternità è semplicemente il modo di esistere proprio di un esse semplice, puro e immutabile. -
—
La creazione e le creature Per parlare dell'origine delle cose da Dio Alberto adopera indifferenespressioni creatio, errzanatio, processio, fluxus. Ma è chiaro che lui i termini emanatio, processio e fluxus non designano una derivazioper ne necessaria delle cose dall'Uno, cioè da Dio. La creazione infatti è
temente le
27) Metaph, ed. Borgnet, V()l. VI, p. 134. 25) E. GILSON, History ofChristian Philosophy... cit., p. 291.
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Parte seconda
un'opera della libera Volontà di Dio e non una spontanea e necessaria effusione della sua bontà. Nel suo zelo di mettere d'accordo Aristotele con Platone e gli aristotelici con i platonici Alberto giunge ad equiparare le due formule con cui questi filosofi spiegavano l'origine e il divenire delle cose: la formula platonica del dator formarum e la formula aristotelica della editctio formamateria. Scrive Alberto a questo proposito: «Il flusso è l'emanazione della forma dalla prima fonte, che è fonte e origine di tutte le, forme. Per questo Platone chiamò tale origine dato—
rum a
delle forme... Dal che risulta che benché la forma secondo i Peripatetici sia edotta dalla materia, tuttavia secondo questa via non si dice che fluisce ma piuttosto che ‘e causata e prodotta; rna si può dire che fluisca come l'atto è dall'atto, e Pabitare dallabitare, la salute dalla salute, come dice Aristotele nel VII libro della filosofia prima. Questo modo di fluire gli antichi e i primi Peripatetici lo chiamarono re
processione» ,29
Sulla scorta di una famosa Glossa della Bibbia Alberto dice che Dio all'inizio creò quattro realtà coeve (coaequezaa): la materia, il tempo, il cie-
lo empireo e gli angelifiv
Nell’ordine della generazione la materia viene necessariamente per prima, essendo il soggetto delle forme di tutti gli esseri che saranno generati. In un altro senso, come s'è visto, la prima creatura è lesse, poiche’ nell'ordine della conoscenza l'asse è l'idea che precede qualsiasi altra idea. Ma poiché qui abbiamo a che fare con la generazione delle cose nella realtà, la materia prima è il principio primo, o l'origine di qualsiasi altra cosa. La natura propria della materia è di essere in potenza rispetto alle forme, e in quanto tale rimane inintelligibileseparatamente dalla forma di cui è soggetto. La sua prima forma è la forma sostanziale; le forme successive invece sono accidentali}! Il secondo ”coevo” è il tempo. Questo termine indica la durata propria di ciascun tipo di essere. Infatti per ogni tipo di essere la misura della durata si diversifica secondo la natura del suo essere. Dio è un essere immutabile e perciò la sua durata è eterna, vale a dire un nunc che non viene mai meno: e propriamente solo Dio è eterno. Ma se il termine ”eterno" viene usato in senso meno rigoroso, si possono chiamare eterni anche gli esseri che non vengono mai meno. Però il termine esatto
3”) in Liber de Causis, ed. Borgnet, p. 411. 3“) Cf. Summa de creaturis, ed. Borgnet, p. 319. 31) Cf. ibid, p. 323.
Alberto Magno
467
per qualificare gli esseri mutevoli che tuttavia non hanno né principio né fine è ”evo”. Questi esseri non sono eterni ma, per così dire, "eviterni”, ossia dotati di una vita che dura per sempre. In senso proprio, il tempo è la misura della durata che caratterizza gli esseri soggetti a generazione e corruzione.
Il terzo ”coev0" è il cielo empireo: creato da Dio può cessare di esistere piacimento. Poiché con le sue operazioni ha inizio la serie delle generazioni e corruzioni in tutto l'universo, il cielo empireo è una causa universale. Per questo motivo «alcuni dicono che c'è una natura naturans e una natura naturata; la natura naturante è Dio e la sua opera è il cielo; invece l’opera della natura naturata sono le cose generabili e corruttibili».32 Il cielo è composto di materia e di forma ma la natura della sua materia è sconosciuta. Al di sopra del cielo astronomico c'è il cielo della Trinità: identico a Dio è di natura immateriale e corrisponde allînfinita potenza di Dio e contiene e circonda ogni essere creato. Il cielo empireo è il più nobiledi tutti i corpi; la sua natura è quella della luce ed è inoltre la dimora degli angeli. Dopo il cielo empireo Alberto colloca il cielo cristallino, il firmamento e le nove sfere, ciascuna delle quali è dotata di un a suo
proprio motore. Il quarto "Coevo" è
la natura angelica. Gli angeli sono nature compoquod e di quo est. La loro non è una composizione di materia e forma, poiché dove c'è una composizione ilemorfica, la forma non può esistere senza la materia, e gli angeli sono invece forme pure. Gli angeli sono Intelligenze sussistenti, dotate di una conoscenza innata delle realtà intelligibili.Essi non hanno bisogno del conoscere discorsive per Vincere l'ignoranza, perché il loro potere intellettivo ha carattere intuitivo. Come gli uomini sono dotati di libertà, ma le loro scelte sono immediate e non incerte e titubanti come quelle degli uomini. Alla creazione delle quattro realtà ”coeve" segue la creazione dell'uomo.
ste, costituite di
est
L'anima umana: origine, spiritualità, immortalità
problema dell'anima problema metafisico per eccellenza ai tempi di Alberto era diventato di urgente attualità per la posizione assunta da Averroè, il quale come sappiamo con la sua dottrina dell’Intellett0 separato giungeva a negare l'immortalità personale, riconoscendo soltanto l'immortalità della specie umana. Per gli averroisti, assertori della doppia verità, questa dottrina non dava luogo a nessun conflitto col dogma religioso della immortalità dell'anima; ma per un Il
-
-
—
32) Ibid, p. 402.
-
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Parte seconda
aristotelico cristiano quale era e Voleva essere Alberto Magno questa soluzione risultava inaccettabile.Di qui la sua rilettura di Aristotele in senso cristiano e la sua battaglia contro il monopsichismo di Averroè. Anche per questa parte del suo pensiero, il grande "peripatetico” a cui Alberto si ispira è AViCenna. Lui è il filosofo citato più frequentemente, e il suo De anima seu Sextus de naturalibics è stata la fonte principale di Alberto: «Alberto dipende da Avicenna per molte dottrine particolari e per il suo metod0».33 Quanto al metodo, Alberto distingue due possibilimodi di affrontare lo studio dell'anima e lo fa richiamandosi espressamente al filosofo arabo: «AViCenna dice nel Sextus de naturalibus che ci sono due modi di definire un marinaio: in uno egli è considerato in se stesso e viene detto un lavoratore che sa governare bene una barca; nell'altro egli è uno che esegue le sue funzioni mediante gli strumenti di cui la barca è dotata, e cioè il pennone, l'albero, la vela e i remi. Similmente anche l'anima ammette due definizioni: una, secondo la quale essa è ciò che compie le operazioni della vita mediante il corpo e i suoi organi; l'altra, riguarda l'anima in se stessa, in quanto è separabiledal corpo»?!
Così, dice Alberto, si può studiare l'anima a priori, in se stessa, oppure a
posteriori, mentre compie le varie operazioni nel corpo e
di esso. Considerata in
attraverso
priori, l'anima umana è nella sua essenza spirituale separabiledal corpo, e che differisce dagli angeli soltanto per il suo legame col corpo umano. Poiché in linea di principio essa è indipendente dalla materia, potrebbe essere concepita come il motore del corpo, la sua perfezione o atto, e non come 1a sua forma. In questo modo sarebbe unita al corpo solo accidentalmente per svolgere le
una
se
stessa,
a
sostanza
funzioni inferiori della nutrizione e della sensazione. Da questo punto di vista l'anima umana non è semplice: contiene una parte inferiore che svolge le funzioni corporee, e un'altra parte superiore che attende alle
funzioni intellettuali.
Nella sua indagine a posteriori sull’anima, cioè a partire dalle operazioni con cui viene manifestata, Alberto mette al centro del suo argomentare la trasformazione della nozione aristotelica di facoltà operata da Avicenna. Al tempo in cui Alberto scrisse la Summa de homine, la sua prima Vasta discussione sull’anima, la teoria psicologica latina era in gravi difficoltà. Si riteneva che le potenze dell'anima avessero un ruolo
33)
34)
PARK, L'influenza di Alberto sulla psicologia del Tardo Medioevo, in]. A. WEISHEIPL (ed), 0p. cit., p. 537. Summa de homine I, 1, l, ed. Borgnet 35, p. 3.
K.
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centrale e di
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importanza fondamentale per tutte le funzioni vitali dell'a-
c'era alcun consenso sulla loro natura e sulla loro distinnima, zione e suddivisione, poiché le Varie autorità, greche, latine, arabe, cristiane avevano proposto modelli e analisi del tutto contrastanti fra di loro. Molti tra gli autori latini precedenti si erano accontentati di fare dei resoconti delle diverse classificazioni senza tentare di conciliarle tra di loro. Alberto invece con la sua Summa de homine sostituisce al caos delle autorità e delle opinioni un sistema coerente basato sul pensiero di Avicenna, integrato con elementi desunti da scrittori latini precedenti. In primo luogo, Alberto pone ordine nell’enumerazionedelle potenze dell'anima, istituendo un unico sistema derivato dalla interpretazione di Aristotele data da Avicenna. Il risultato è uno schema complesso ma coerente delle facoltà, che sono suddivise in: vegetative, sensitive, motorie e intellettuali. Esse sono riconducibilia tre tipi di anima: la vegetativa, la sensitiva (o animale) e la intellettiva (o umana). Le divisioni e le suddivisioni di Alberto rimasero paradigmatiche nella teoria psicologica latina fino alla fine del XV secolo e in alcuni autori sono presenti ben oltre il 1600. Intorno all’intelletto i filosofi arabi avevano creato una enorme confusione, distinguendo fino ad otto tipi diversi di intelletto, mescolando le attività intellettive con i vari livelli di conoscenza. Alberto ritorna alla semplice divisione aristotelica tra intelletto agente (o attivo) e intelletto passivo. Prendendo posizione contro Averroè, Alberto afferma che sia l'intelletto agente sia quello passivo (o possibile) si trovano nell'anima. L’intelletto agente non è né un habitus né un'intelligenza separata che riversa le forme intelligibili nell'anima: «Uintelletto agente è unito all'anima umana, è semplice, non possiede idee (intelligibili)ma le produce ma non
nell’intelletto possibileastraendoledai fantasmi».35 Nonostante la sua associazione al corpo, l'anima intellettiva è per
sua
separabileda esso e correlata strettamente alle altre sostanze spirituali: gli angeli e Dio stesso. Perciò, riferendosi alle immagini sensibili, nella sua attività iniziale, Fintelletto può procedere oltre queste, giungendo a contemplare prima se stesso, poi le intelligenze celesti e infine Dio. natura
Alberto chiama questo stato intellettuale ”assimilativo”z «Uintelletto assimilativo è quello nel quale l'uomo, per quanto è possibilee consentito, si eleva mediante l’analogia verso l'intelletto divino, che è la luce e la causa di tutte le realtà (...). Perciò, a partire dalla luce di questo suo intelletto agente, raggiunge la luce della intelligenza, e da questa si spinge verso l'intelletto divino».36
35) lbid., p. 466. 36) De intellectu et intelligibilz‘II, 9; ed. Borgnet IX, p. 516.
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In
questo modo l'anima ascende alla virtù, alla sapienza e, infine, alla
contemplazione di Dio.
Avendo definito l'anima come sostanza spirituale, Alberto può agevolmente provare la sua immortalità, opponendosi risolutamente sia ad Alessandro di Afrodisia, per il quale l'anima intellettiva sarebbe soltanto una specie di accordo degli elementi materiali del corpo, sia ad Averroè, secondo cui l'anima umana in quanto forma del corpo sarebbe mortale. Alcuni degli argomenti addotti da Alberto sono semplicemente probabili, mentre altri sono necessari. Tra i secondi, quelli tratti da Avicenna sono
particolarmente cogenti.
Mentre per
spiegare la natura dell'anima, i suoi rapporti col corpo, la
spiritualità ed immortalità, Alberto si affida principalmente alla guida del neoplatonico arabo Avicenna, quando deve parlare del destino dell'anima dopo la morte la sua guida preferita è il neoplatonico cristiano Dionigi PAIeOpagita. Si deve d'altra parte notare che per Alberto entrambi questi autori appartengono alla scuola dei ”peripatetici”. Lasciato questo mondo l'anima raggiunge la sua vera patria che è il cielo della Trinità, dove gode perfetta beatitudine che, secondo Alberto, consiste essenzialmente nella contemplazione di Dio e nell'unione con Lui; e tale beatitudine è un'attività propria dell'intelletto, più precisamente dellîntelletto assimilativo, il quale in questo stato non ottiene più l'assimilazionemediante Yastrazione, bensì mediante una speciale illuminazione prodotta da Dio nell’intellett0: «In patria, nel profondo dell’intelletto splende la luce di gloria che
sua
colma totalmente l'anima, la irradia di vita eterna (...) e la volge in modo immediato verso Dio, così da farle accogliere direttamente da Dio null'altro se non Dio stesso. Unita in questo modo con Lui in un solo spirito (1 Cor 6, 17), essa conosce Dio in Dio. In grazia di tale presenza sostanziale di Dio nell’anima, per svolgere la sua attività intellettiva, essa non ha bisogno dell’assimilazioneche ordinariamente viene esercitata dalla forma intelligibileastratta (...). In patria la luce incircoscrivibile della divinità che è Dio stesso è unita all'intelletto agente e così si diffonde secondo un modo sostanziale su tutta l'anima e la colma. In questa maniera l'anima è riempita di Dio stesso, che è la sua beatitudine. Questo è proprio ciò che nella loro maniera oscura (obscure) hanno insegnato i filosofi, ossia che se l'anima dopo la morte entrasse in congiunzione con il Primo Motore, in questo si realizzerebbela sua vera e perfetta finale fioritura».37
37)
In IV Sent. d.
49, a. 5 sol. et ad
1-2.
Alberto Magno
471
Diversamente da Plotino, per il quale contemplazione e unione con l’Uno sono una conquista dell'anima, al termine di una lunga e faticosa ascesi, per Alberto l'incontro unitivo e contemplativo con Dio è un dono, una grazia analoga a quella che Dio ha concesso a Mosè sul monte Sinai:
«Separato da tutti, Mosè
entra nella nube della non-conoscenza. Di questa nube è detto (da Dionigi), poiché in essa è Dio, del quale noi ignoriamo ciò che è, che è ”mistica”, ossia nascosta. In essa Mosè chiude tutte le sue ricettività conoscitive, ossia tutti i poteri naturali dell'anima che conoscono per modo di recezione, i quali poteri, una volta sottrattisi alla conoscenza del resto del mondo creato, sono colmati dalla sola nube divina. E così Mosè colloca se medesimo, per l'adesione del suo intelletto (per adhaesianenz intellectus), in ciò che è assolutamente non palpabile e non visibile:perché ciò che egli in questo momento discerne non è né sensibilené intelligibiledi una intelligibilità totalmente comprensiva. Mosè dunque, dico io, così stabilito, finisce per appartenere interamente a Colui che è al di sopra di tutte le cose, cioè a Dio, per la totale conversione di se medesimo a Lui, e non esiste per nessun altro che Dio, né per se medesimo né per un altro, poiché non è volto ad altra cosa se non a Dio. Mosè è dunque unito nella maniera migliore secondo il modo eccellente dell'unione (unitio), a Colui che è completamente ignorato, cioè a Dio, per il fatto stesso di aver messo da parte ogni conoscenza naturale: egli infatti non è rivolto verso le cose naturalmente conosciute ma esclusivamente verso Dio, che non è conosciuto secondo alcuna conoscenza naturale. Così, poste le sue conoscenze naturali in una condizionedi riposo, cioè nella misura in cui egli non conosce più nulla per via di conoscenza naturale, Mosè e già posto in condizione di conoscere al di là del proprio spirito (mena), ovvero in maniera superiore alla natura del suo spirito, grazie a una luce divina che, infusa dall’alto, eleva lo spirito al di sopra di se stesso>>fl8
Concludendo, la mistica pagana di Plotino era una mistica senza gra-
zia; la nuova mistica cristiana di Alberto è una mistica della grazia.
L'apporto di Alberto Magno alla metafisica giudizi degli storici sul valore del pensiero filosofico di Alberto Magno sono decisamente contrastanti. Alcuni hanno visto in lui soltanto un compilatore eclettico, la cui opera farebbe da contrasto al pensiero vigoroso e personale del suo migliore discepolo, Tommaso d’Aquino. I
38) Super Dionysii Mysticam thenlngiam, 1, ed. Col. 37/2, p. 462.
472
Parte seconda
Così, il giudizio di M. De Wulf su Alberto come filosofo era abbastanza severo:
Quando
«la
sua
filosofia è
priva di
commenta Aristotele è
Coerenza e
di
spirito sistematico.
aristotelico; quando Commenta dottrine
neoplatoniche di provenienza araba è altrettanto disposto a Condivider-
le».39 E più oltre: «Alberto si lascia trascinare dalla sua erudizione. È il tipo del compilatore e dell’erudito>>.4fl Inoltre si fa osservare che nelle sue parafrasi è difficiledeterminare fino a che punto egli impegni il suo pensiero, dal momento che dichiara spesso di fare opera di esegeta e di non voler assumersi la responsabilitàdelle dottrine che espone.“ Secondo altri studiosi questo giudizio è ingiusto e inaccettabile.Pur riconoscendo che Alberto non è giunto alla costruzione di una sintesi filosofica paragonabilea quella di Tommaso d'Aquino si sostiene che anch'egli possiede la stoffa dell’autentic0filosofo e del pensatore ori ginale. Secondo l’autorevoleparere di F. Van Steenberghen, Alberto «durante tutta la sua vita si è applicato a scrutare il sistema di Aristotele, a studiarne le tendenze e le dottrine, a confrontarle con quelle del platonismo, del neoplatonismo e del cristianesimo, infine ad arricchire il tesoro della scienza col frutto delle proprie osservazioni e riflessioni persona1i».42 Alla nuova sintesi creata da Alberto si può dare sia il nome di «aristotelismo cristiano>>43 sia quello di «aristotelismo neoplatonizzantem“ L'opera di Alberto Magno si può accostare a quella non meno importante per la storia della filosofia e della metafisica di Filone Alessandrino. Entrambi sono eminenti commentatori: il primo di Aristotele, il secondo della Bibbia. A prima vista appaiono degli eclettici in quanto attingono a fonti filosofiche assai disparate, e tuttavia se si fa bene attenzione si scopre che essi dominano e unificano il copioso materiale a loro disposizione, così da trarne una nuova sintesi speculativa: la sintesi tra platonismo e giudaismo, per Filone; la sintesi tra Aristotele, la filosofia araba e cristianesimo, per Alberto. L'obiettivo specifico di Alberto è quello di comporre in una unica sintesi Platone ed Aristotele. Ciò che ad Alberto consente di compiere in modo originale questa difficile operazione è la mediazione di Avicenna, che aveva già percorso in modo più brillante questa strada, ma, in misura ancora maggiore, il cristianesimo, il quale ha per le creature un rispetto che manca in Plato-
39) M. DE WULF, Histoire de la philosophiemédiévale, vol. II, Louvain 1936, p. 136. 4“) lbid. 41) Cf. ibid., p. 134. 42) F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia... cit., p. 382. 43) I’. MANDONNET, 0p. cit, pp. 36 ss. 44) F. VAN STEENBERGHEN, 0p. cit, pp. 382, 390.
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473
e, allo stesso tempo, ha un senso della Trascendenza che è assente in Aristotele. «L'approccio filosofico di Alberto era quindi quello di convogliare materiali aristotelici e anche altri a carattere peripatetico di origine greca, islamica ed ebraica in un sistema creazionale nel quale il cosmo Veniva Visto in diretta dipendenza per la sua specificità dall'azione creazionale di Dio».45 La riconciliazionedella tradizione platonica e aristotelica in Alberto è opera di una grande capacità di penetrazione intellettuale e di una immensa cultura. Essa germina dal suo vasto spirito scientifico e dalla sua profonda formazione cristiana. Il suo temperamento scientifico gli fa apprezzare Aristotele, mentre l'eredità filosofica del cristianesimo lo tiene in stretto contatto con Platone. Per quanto attiene la storia della metafisica i grandi meriti di Alberto Magno sono soprattutto due. Il primo è di avere riconosciuto e strenuamente difeso l'importanza di questa ricerca anche per un credente, perché la fede cristiana non rende affatto superflua la metafisica, anzi la assume riconoscendo in essa una preziosissima ancella. Il secondo è di aver cercato con le sue accurate parafrasi di agevolare la lettura e la comprensione delle opere di colui che ormai erauniversalmente riconosciuto come il Filosofo, l'autore di quella Metafisica, che nessun cultore di questa disciplina può ignorare. Alla luce di quanto è stato detto è facilescorgere in che senso perfettamente legittimo si possa considerare Alberto Magno come il fondatore dellîlristotelisnto cristiano. Prima di lui, l'assimilazione dell’aristotelismo da parte dei pensatori cristiani era ancora molto imperfetta; come ha detto molto giustamente il P. Mandonnet, Alberto si è assunto per primo l'onere di «rifare Aristotele a uso dei latini».46 Come ha mostrato F. Van Steenberghen, Alberto «è stato il primo ad offrire ai suoi contemporanei un'esposizione praticamente completa del sapere umano così come era stato elaborato dalla scienza greco-araba e principalmente dal Filosofo, e questa esposizione è molto più di un'opera d’esegesi testuale, poiché l'autore vi impegna spesso il proprio pensiero sotto forma di critiche e di apporti personali».47 ne
45)
46) 47)
E. BOOTH, «Conciliazioni ontologiche delle tradizioni platonica e aristotelica in S. Alberto Magno e S. Tommaso» in AA. Vv., S. Alberto Magno, l'uomo e il pensatore, Massimo, Milano, p. 69. P. MANDONNET, 0p. ciL, p. 37. F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia... cit, p. 391.
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La scuola albertina L'influenzadi Alberto fu enorme e il successo della sua opera clamoroso. «Il granaio del suo sapere non si vuoto facilmente:l'azione intellettuale esercitata da lui sul Medioevo è stata probabilmente la più potente di tutte, senza eccettuare S. Tommaso d'Aquino, la cui opera si estende a un dominio meno vasto, ma fu più profonda e durevole».48 Ancora in vita Alberto viene citato come autorità degna di stare a fianco di Avicenna o di Averroè. Nel suo De anima in tellectizia Sigieri di Brabante parla di Alberto e di Tommaso come praecipui vin" in philosophiiz. Ulrico di Strasburgo, suo discepolo fedelissimo, lo chiama nostri temporis stupor et miraculitnz, e nel seC. XIV si comincia a designarlo Col nome di Albcrtus Magnus. Prescindendo dal suo maggiore discepolo, Tommaso d'Aquino, che per la sua grandezza e originalità non può dirsi propriamente suo scolaro, profonda e duratura fu l'influenza dell'insegnamento e dell'opera di Alberto Magno in Germania sia nello Studiunz generale domenicano di Colonia, e nell'Ordine di S. Domenico, sia nella cultura tedesca, tanto negli ambienti scientifici quanto in quelli filosofici e teologici. L’influsso di Alberto Magno si fece sentire anche fuori della Germania, specialmente in Polonia. «La rielaborazione dell'universo scientifico aristotelico fu ripresa in forma più o meno libera dai discepoli di Alberto, soprattutto dal suo discepolo prediletto, Ulrico di Strasburgo. I primi albertisti, Giovanni di Nova Domo ed Emerico di Campo, contribuirono a far penetrare la sua metafisica nell'insegnamento universitario, fissandone la terminologia e l'ordine sistematicom" Più tardi la riforma e Fumanesimo cercheranno di espellere Falbertismo da tutte le accademie, ma la sua presenza resterà ancora forte e vivace a Colonia e a Cracovia fino al secolo XVIII.
48) 4°)
P. MANDONNET, Alberi‘ le Grand, in DTC l, c. 670. I. CRAEMER-RUEGENBERG, Albertus Magnus, Mùnchen
1980, p.15‘).
Alberto Magno
475
Suggerimenti bibliografici OPERE
Opera omnia, ed. P. Iammy, Lyon 1651, 21 V011. Opera omnia, ed. A. Borgnet, Paris 1890-1899, 38 voll. Opera omnia... coloniense, ed. Geyer, Kòln 1951. Studi (relativi alla metafisica): E. BOOTH, «Conciliazioniontologiche delle tradizioni platonica e aristotelica in Sant’A1bert0 e San Tommaso», in AA. Vv., Sant’Albert0 Magno, l'uomo e il pensatore, Massimo, Milano, pp. 61-81; A. DE LIBERA, Alberi le Grand et la philosopltie, Paris 199D; L. DE RAEYMAEKER, Albert le Grand, philczsophe. Le lignes fondamentales de son systèrwze métaphysique, in «Revue néoscol.» 35 (1933), pp. 31-36; L. DUCHARME, "Esse" chez sant Alberi le Grand. Introdaction a la métaphysique de ses prerniers écrits, in «Rev. Univ. Ottawa» 27 (1957), pp. 209-252; B. GEYER, "De aristotelismo B. Alberti Magni”, in Atti della settimana albertina, Roma 1932, pp. 63-90; B. NARDI, Studi di filosofia medievale,
1960; F. RUELLO, La notion de vérité chez saint Alberi le Grand et saint Thomas d’Aquin de 1243 a 1254, Paris 1969; F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia di Alberto Magno, in «Sapienza» 4 (1965), pp. 381-395; ID., Albert le Grand et Faristotélisme, in «Rev. int. philos.» 34 (1980), pp. 566-574; G. WIELAND, untersaclzungen zara Seinsbegrijff im Metaphysikkommentar Alberts des Grossen, Miinster 1972; J. A. WEISHEIPL, Alberto Magno e le scienze, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1994. Roma
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TOMMASO D'AQUINO, METAFISICODELUESSERE
Tommaso d'Aquino inizia la sua attività di docente di teologia nell'università di Parigi nel 1252, Vale a dire proprio nel momento in cui il grande flusso del corpus arìstotelico, lungamente ostacolato dai divieti ecclesiastici, irrompe finalmente nella facoltà delle Arti: nel giro di un quinquennio tutte le opere di Aristotele diventano materia obbligatoria di insegnamento e di esame. A quel punto a nessun teologo è più consentito di lavorare come prima. Gli strumenti concettuali messi a disposizione da Agostino, Proclo, dallo Pseudo-Dionigi, Boezio e Anselmo non bastano più. Occorre integrarli con i metodi e le dottrine insegnati dal grande Filosofo di
Stagira.
d'Aquino fu tra i primi a rendersi dell'eredità aristotelica e della necessità di aprire la teologia a quel preziosissimo patrimonio. Tommaso divenne così non solo un convinto avvocato di Aristotele, ma anche l'autore di una nuova felice inculturazione della fede cristiana e il creatore di una nuova sintesi tra fede e Cultura. In una civiltà già interamente dominata dai valori del cristianesimo, S. Tommaso sa Valorizzare anche tutto il patrimonio culturale che il mondo arabo e giudaico, il quale aveva già Con Alberto Magno, Tommaso
conto dell’enorme valore
pienamente assimilato il corpus arìstotelico, metteva a sua disposizione. Alla scuola di Aristotele Tommaso porta a piena maturazione la stessa scienza teologica, conferendole quei titoli di scientificità che fino a quel momento non era ancora riuscita ad acquisire. S. Tommaso fu il principale artefice dell'ingresso definitìvo di Aristotele nella filosofia cristiana e nella teologia. Ma la sua sintesi teologica è molto più che un felice connubio della fede cristiana con il linguaggio filosofico aristotelico. Infatti l'intera eredità aristotelica come pure quella neoplatonica viene ri— pensata da S. Tommaso in modo originale, alla luce di un nuovo Concetto dell'essere, inteso in modo forte, intensivo, come atto, actus essendi. È questo un modo nuovo di pensare la realtà, tutta la realtà: quella di Dio, dell'uomo, di Cristo, della grazia, dei sacramenti ecc., in chiave strettamente ontologica che assicura alla poderosa sintesi teologica dell’Angelico una singolare robustezza e una profonda coesione, una stupenda armonia e una straordinaria chiarezza. Davanti alla Summa Tlzeologiae -
-
Tommaso d'Aquino
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di S. Tommaso si rimane estatici e attoniti come davanti alle maestose cattedrali che i suoi contemporanei andavano innalzando a Parigi, a Chartres, a Colonia, a Burgos, a Milano, a York e altrove. Il valore del pensiero filosofico e teologico di S. Tommaso e del suo grandioso sistema fu prontamente riconosciuto dai membri del suo ordine che sin dalla fine del secolo XIII ravvisò nel Dottore Angelico il suo teologo più rappresentativo. Sin da allora la scuola domenicana si identifîcò con la scuola tomistica. Questa, tuttavia, fino al Concilio di Trento fu una scuola fra le altre, ossia pari a quelle degli scotisti, degli occamisti e degli agostiniani. Solo col Concilio tridentino, il quale a sostegno della dottrina cattolica invoca spesso, oltre all'autorità di Agostino anche quella di Tommaso, il nome dell’Angelico cominciò a imporsi anche all'esterno dell'Ordine Domenicano. La posizione del Dottore Angelico in seno alla Chiesa cattolica venne ulteriormente rafforzata da Leone XIII con Penciclica Aeterni Patris (1879). Questa rendeva obbligatorio l'insegnamento della dottrina di S. Tommaso in tutti i Seminari e nelle Università cattoliche. Sotto la spinta di Leone XIII sorse il neotorrtismo, un movimento culturale di vaste proporzioni che coinvolse tutto il mondo cattolico. Studiosi di chiara
fama come Mercier, Mandonnet, Grabmann, Gilson, Masnovo, Maritain, Fabro, Manser, De Finance hanno riscoperto l’autentico pensiero delI’Aquinate e hanno mostrato allo stesso tempo la grande solidità del suo sistema filosofico,modello ideale di ogni filosofia cristiana. Mentre la grandezza della statura teologica di S. Tommaso non è mai stata messa in dubbio in molti ambienti il Dottore Angelico è ritenuto il più grande teologo di tutti i tempi soltanto grazie al neotomismo è finalmente emersa anche l'importanza della sua concezione filosofica. Le ricerche del secolo XX hanno messo in luce la profonda originalità della metafisica tomistica, che se è indubbiamente costruita secondo il -
-
paradigma ontologico, come quella di Aristotele, non è tuttavia una semplice riedizione della metafisica aristotelica bensì una metafisica profondamente rinnovata, strutturata su un nuovo concetto di essere, concepito come actualitas omnium actuum. Studiare la metafisica di S. Tommaso significa studiare solo una parte del suo ricchissimo pensiero, ma è un parte molto importante e tra le
più affascinanti. Nel presente capitolo, dopo alcune informazioni preliminari sulla vita, sulle opere e sulle fonti del pensiero filosofico e metafisico del-
l’Aquinate, cercheremo di ricostruire il suo sistema metafisico seguendo la logica di un pensiero che vede tutta al realtà alla luce dell'essere, con-
cepito intensivamente, come actus.
Parte seconda
478
Vita Tommaso nacque a Roccasecca, in uno dei castelli dei conti di Aquino tra il i224 e il 1225.1 La madre, donna Teodora, era una nobildonna di Napoli (Theate), di origine normanna, mentre il padre Landolfo era un personaggio importante nel regnum di Federico II, al quale era legato da lontani vincoli di parentela. Landolfo si era unito a Teodora in seconde nozze. Dal loro matrimonio nacquero almeno quattro maschi e cinque femmine. I maschi si chiamavano Aimone, Rinaldo, Landolfo e Tommaso. Nei progetti dei genitori, Tommaso, in quanto figlio cadetto, avrebbe dovuto abbracciare la vita ecclesiastica. Al tal fine ”dopo il quinto compleanno", e cioè intorno al 1230, lo condussero all'antica abbazia benedettina di Montecassino e lo affidarono ai monaci come oblato (oblatus), «il che significa che veniva offerto a Dio secondo lo stile di vita benedettino per essere istruito nella pratica della regola monastica e nelle materie di studio fondamentali»? La permanenza di Tommaso a Montecassino venne interrotta nel 1239 a causa della guerra tra Federico II e il papa. Le truppe imperiali assaltarono Montecassino e scacciarono tutti i monaci che non fossero nati nei territori di Federico. Solo otto monaci ebbero il permesso di rimanere: era perciò impossibile per l'abbazia mantenere ancora degli oblati nel monastero. Uabate consigliò il padre di mandare Tommaso a Napoli; il giovane assecondo volentieri il desiderio del padre e si trasferì nella metropoli ai piedi del Vesuvio, dove riprese gli studi del trivio e
quadrivio. Napoli ebbe luogo la sua prima diretta iniziazione alla logica e alla filosofia aristotelica sotto la guida di due eccellenti maestri, Martino di Dacia e Pietro di Hibernia (Irlanda). A Napoli ha luogo anche l'evento del
A
che decide per sempre il destino di Tommaso: la sua decisione di abbracciare lo stato religioso nel recente Ordine Mendicante dei Frati Predicatori. Quello stile di vita che si ispirava al motto: salus animarum per praedicationerr: et doctrinam gli pareva assai congeniale. Quando, probabilmentenell'aprile del 1244, Tommaso indosso l'abito religioso il padre era morto da quasi un anno. La famiglia non aveva assolutamente nulla contro la scelta dello stato religioso del giovane; ma ciò che non poteva tollerare era il suo
l) 2)
ingresso in un Ordine Mendicante, nel quale era de-
Per tutti i particolari delle informazioni biografiche che seguono, cf. l'eccellente studio di]. A. WEISHEIPL, Tommaso d'Aquino. Vita, pensiero, opere, Milano 1994. Ibid, p. 14.
Tommaso d’Aquin0
479
stinato a un'esistenza piena di stenti, di insicurezze e senza privilegi di alcun tipo. E COSÌ madre e fratelli ricorsero a ogni mezzo per fargli cambiare idea; quando i suoi superiori, per sottrarlo alle pressioni e alle minacce dei suoi familiari,decisero di inviarlo in Francia, donna Teodora indusse due fratelli di Tommaso ad assalire il convoglio dei Domenicani e a rapire Tommaso. Essi lo ricondussero a Roccasecca dove lo tennero rinchiuso in un loro castello per oltre un anno. Ma Tommaso rimase irremovibilenella sua vocazione e respinse con un tizzone ardente una bella ragazza che i fratelli gli avevano mandato in camera per sedurlo. È a questa vicenda che si riallaccia il titolo di Doctor Angelicus, ossia "uguale agli angeli”, per la sua castità. Nel 1245, ormai maggiorenne, Tommaso fu rilasciato e così, finalmente, poté recarsi a Parigi per iniziare i suoi studi teologici sotto la guida del suo confratello più anziano, Alberto Magno, che allora era magister regens dello Studium parigino dell'Ordine Domenicano. Quando tre anni più tardi Alberto lasciò Parigi per recarsi a Colonia a organizzarvi un nuovo Studiun: si fece accompagnare dal più intelligente e brillante dei suoi allievi, Tommaso d'Aquino. Questi a Colonia proseguì gli studi teologici fino al conseguimento del baccalazireatus biblicus e allo stesso tempo, alla scuola del suo grande maestro, prese contatto non solo col corpus aristotelicum ma anche con i commentatori arabi, specialmente con Avicenna e con il corpus dionysiacum che proprio in quegli anni A1berto stava parafrasando. Dopo l'ordinazione sacerdotale (1252) Tommaso fu inviato a Parigi per acquistare i gradi accademici superiori: il baccalaureatus sententiarius e il magister sacrae doctrinae. Per quattro anni tenne i corsi su Pier Lombardo e questo insegnamento sfocio nella sua prima opera monumentale, il Contmentum in quattuor libros Sententiarum. Nel 1255, insieme con Bonaventura, Tommaso fu coinvolto nella lotta per l'assegnazione delle cattedre di teologia, che i maestri del clero secolare ritenevano ingiusto affidare a coloro che, come i frati degli Ordini Mendicanti, facevano professione di povertà. La questione fu portata a Roma e grazie all’abile perorazione di Alberto Magno, i Mendicanti ebbero la meglio. A difesa del proprio diritto alla docenza universitaria l’Angelico aveva intanto scritto l'opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religioncm. Dopo la vittoria dei Mendicanti, Tommaso venne nominato magister regens di una delle cattedre di Teologia dell'Università parigina. Nel 1259 Tommaso Venne richiamato in Italia per svolgere vari e importanti incarichi nella sua provincia di appartenenza, quella romana (alla quale apparteneva anche il convento di Napoli), della quale egli era già considerato, grazie alla sua laurea parigina, la stella più fulgida.
480
Parte seconda
Il decennio della vita di
Tommaso d ‘Aquino
te il suo
481
soggiorno alla corte pontificia di Viterbo, presso la quale si era
recato, avesse l'intenzione di commentarli. Non solo non esistono commenti che si possono far risalire a quel periodo, ma egli non aveva affatto bisogno di occuparsene. ln quanto maestro di teologia, egli era profondamente impegnato in questioni teologiche, soprattutto dopo avere concepito il disegno di comporre la sua monumentale Summa Theologiae. Ancora a Viterbo egli completò il primo libro, che contiene la dottrina su Dio e sulla creazione. In quegli anni, dopo il ritiro dei divieti aristotelici, a Parigi il pensiero di Aristotele aveva avuto un'accoglienza trionfale. Tutte le sue opere erano diventate materia di insegnamento obbligatorio nella facoltà delle Arti. Insieme ad Aristotele erano arrivati anche i suoi commentatori, in particolare il commentatore per eccellenza, Averroè. Grazie al grande metafisico Sigieri di Brabante, nella facoltà delle Arti la versione averroistìca delle dottrine aristoteliche divenne di moda. Ma in questo modo l'operazione iniziata da Alberto Magno di armonizzare Aristotele con la fede Cristiana risultava impossibile. I maestri di teologia specialmente i Francescani e gli Agostiniani che non avevano mai visto di buon occhio Aristotele, ne invocarono nuovamente la proscrizione. A questo punto, nel 1269, lo Studium domenicano di Parigi decise di richiamare S. Tommaso e di affidargli, oltre che la cattedra di teologia, anche e soprattutto Vincombenzadi difendere la causa di Aristotele. S. Tommaso si trovò a lottare su due fronti: contro i teologi tradizionalisti (Francescani e Agostiniani) che accusavano Aristotele di paganesimo e contro gli averroisti che davano del suo pensiero un'interpretazione incompatibile con alcune verità fondamentali del cristianesimo (negazione della provvidenza di Dio, della libertà umana, dell'immortalità dell'anima, della pluralità degli intelletti ecc). Contro questi ultimi l’Angelico scrisse immediatamente il De unitate in tellectus contra averroistas. Ma il lavoro colossale che Tommaso svolse nel quadriennio della sua seconda docenza parigina fu un altro: rifece completamente i commenti di tutte le opere di Aristotele sulla base di traduzioni più affidabili (quelle del Moerbeke), al fine di liberare il pensiero di Aristotele dall'ip0teca averroistica e legittimare in tal modo l'utilizzazionedel metodo e delle dottrine di Aristotele nell'approfondimento della verità rivelata. Quello che l'Angelico riuscì a fare nel breve giro di quattro anni ha dell’inverosimi— le. Lavorando intensamente dalla mattina alla sera, con un gruppo di assistenti e di segretari, egli portò quasi a termine il commento dell'intero corpus aristotelico. Ecco la lista delle opere commentate tra il 1268 e il 1272: De interpretatione (Peri Hermeneias), Analitici Posteriori, Fisica, -
-
De c0eI0 et
munda,
De
generatione et corruptione, Metereologica, De anima,
De sensu et sensato, De memoria et reminiscentia, Metafisica, Etica, Politica.
482
Parte seconda
Con i suoi profondi commenti Tommaso fornì la sospirata guida esegetica ad Aristotele, una guida che aiutava i giovani maestri delle Arti a comprendere la filosofia aristotelica in armonia con il testo autentico e, dove necessario, con i dettami della fede. Secondo Weisheipl «Tommaso si occupò di Aristotele in quanto sentiva la necessità dal punto di vista apostolico di aiutare i giovani maestri delle Arti a comprendere la filosofia aristotelica (...). Non poteva essere ignorato il rischio di giovani maestri che, dovendo insegnare Aristotele a scuola, potevano continuamente essere indotti all’eresia, specialmente da Averroè. Perciò Tommaso si sentì in dovere di scrivere per i giovani maestri delle Arti commenti che fossero fedeli ad Aristotele anche quando il suo insegnamento doveva essere rigettato e nello stesso tempo scevri da errore dal punto di vista filosofico».4 Tommaso, sull'esempio del suo grande maestro Alberto Magno, esplicitando l’«intenzione di Aristotele» (intentio Aristotelis) e facendone anche l'esegesi testuale (littera), fece nuovamente vedere che tra Aristotele e il cristianesimo non esistevano contrasti insanabilie che quindi era molto meglio per la Chiesa e per la teologia cercare di dialogare Con Aristotele piuttosto che condannarlo in blocco, come facevano -
-
Bonaventura e
gli Agostiniani.
Nell'estate del 1272 Tommaso aveva esaurito il suo compito a Parigi. Nulla era stato risolto; le controversie contro gli Ordini Mendicanti, l'averroismo latino e l'opposizione da parte degli Agostiniani erano destinati a continuare anche dopo la sua morte, e a lui non restava altro da fare. Con la nomina del suo successore alla cattedra di teologia, il domenicano Romano da Roma, della famiglia degli Orsini, Tommaso poteva lasciare Parigi e far ritorno a Roma. In Italia ricevette l'incarico di riordinare l'insegnamento della teologia nell'università di Napoli e di tenervi egli stesso alcuni corsi, cosa che fece regolarmente fino al gennaio del 1274, quando però aveva già smesso definitivamente di scrivere. Che cosa era accaduto? Un giorno del dicembre del 1273, dopo la celebrazione della S. Messa, Tommaso chiamò il suo fedelissimo segretario, fra Reginaldo da Piperno e gli comunicò che aveva deciso di interrompere ogni lavoro perché, dopo la visione del Cristo che aveva avuto quella mattina durante la Santa Messa, tutto quanto aveva scritto gli pareva un mucchietto di paglia: tota palea. Così rimasero incomplete due delle sue opere più importanti: la Summa Theologiae interrotta alla Questione 90 della Tertia Pars e il Compendium Theologiae, sospeso al capitolo 10 del Libro Secondo.
4) una, p. 285.
Tommaso d’Aaaino
483
Nel gennaio del 1274, su invito di Gregorio X, Tommaso partì alla volta di Lione, dove il papa aveva convocato il Concilio ecumenico. Ciunto nei pressi di Fossanova Tommaso fu colto da un grave malore e venne ricoverato sollecitamente nell’abbazia cistercense di quel paese. Tutte le cure però risultarono vane e dopo qualche settimana (il 7 marzo) egli morì senza che si fosse potuta capire la natura del male che l'aveva
colpito.
Nei suoi contemporanei Tommaso lasciò un ricordo profondo per la finezza e acutezza della sua intelligenza, per la grandezza e originalità del suo genio, per la soavità e santità della sua vita. Il suo primo biografo, Guglielmo di Tocco, sottolinea la straordinaria originalità di S. Tommaso in tutto ciò che faceva: «Fra Tommaso proponeva nelle sue lezioni problemi nuovi, scopriva nuovi metodi, impiegava nuove concatenazioni di prove, e nell’udirlo spiegare, spiegava così una nuova dottrina con nuovi argomenti che non si poteva dubitare che Dio, attraverso l’irradiarsi di questa nuova luce e la novità di questa ispirazione, gli avesse fatto dono dell'insegnamento, in parole e scritti, di una nuova dottrina». Tommaso d'Aquino fu proclamato santo da Giovanni XXII nel 1323. Ben presto gli fu conferito il titolo di ”Dottore Angelico” e recentemente quello di ”Dottore Comune”.
Opere Secondo un uso molto diffuso nell'antichità e nel Medioevo, per cui, per dar credito a certi scritti, li si attribuivano ad autori famosi, anche a S. Tommaso sono state ascritte opere che, al vaglio della critica moderna, sono poi risultate di dubbia autenticità o spurie. Ancora oggi il problema del catalogo delle opere autentiche non è stato completamente risolto. Il padre Mandonnet ha creduto di trovare la soluzione apodittica del problema nel catalogo di Bartolomeo di Capua: a suo giudizio questo sarebbe un catalogo ufficiale e pertanto le opere ivi contenute sarebbero autentiche, mentre le opere non comprese sarebbero apocrifo. Ma più tardi Pelster e Grabmann hanno dimostrato l'infondatezza di questa tesi, facendo Vedere che non esiste nessun catalogo ufficiale e dimostrando che alcune opere sicuramente autentiche non sono incluse nel catalogo di Bartolomeo di Capua. Ad ogni modo si deve dire che, tutto sommato, si tratta di una questione di importanza relativa, in quanto tutte le opere maggiori attribuite a S. Tommaso sono sicuramente frutto del suo ingegno e sono pertanto sicuramente autentiche. Sì è soliti suddividere gli scritti di S. Tommaso in sei gruppi: a) Commenti alla Sacra Scrittura; b) Commenti ad Aristotele; c) Opere sistematiche; d) Opuscoli autentici: e) Varie; f) Altri commenti.
484
Parte seconda
A) COMMENTI ALLA SACRA SCRITTURA
‘JONW-PU
Expos. in 10b (Tolomeo di Lucca, 1261-64,- Mandonnet, 1269-72). In Psalmos Davidis lectura (1271-73). Expos. in Cantica canticorum (perduto). Expns. in Isaiam prophetam (Mandonnet, 1256-59; Destrez, 1269-74). Expos. in Ieremiam prophetam (Mandonnet, 1267-68). Expos. in Threnos Ieremiae prophetae (Mandonnet, 1264-69). Catena aurea super quattuor Evang. (1261-64 per S. Matteo; dopo il 1264 per gli altri). O0 Expos. (Iectura) in Ev. s. Matthaei(1256-59). 9. Expos. (Iectura) in Ev. s. Ioannis (1269-72). 10. Expos. in s. Pauli apost. epist. (per I Cor. da c. 11 alla fine: 1259-65; per Rom. I Cor. 1-10: 1272-73). 1.
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B) COMMENTI AD ARISTOTELE
m :-
In libros Perihermeneias expos. (fino al 1. II, lect. 2: 1268-72). In Iibros posteriorum Analyticorum expos. (1268-72). In octo Iibros Physicorum expos. (dopo il 1268). 4. In Iibros de Caelo et Mando expos. (fino al 1. III, lect. 8: 1272). 5. In Iibros De Generatione et Cormptione expos. (fino al 1. I, lect. 17: 1272-73). 6. In Iibros Metereologicorum expos. (fino al 1. II, lect. 10: 1269-72). 7. In libros De Anima Iectura (lib. l; verso il 127D, Verbeke), expos. (ll. II-III: .
.
1267-72).
8. In Iibros De sensu et sensato expos.
(1267-72).
9. In Iibrum De memoria et reminiscentia expos. (1267-72). 10. In duodecim libros Metaphysicorum expos. (1266-72). 11. In decem libros Ethicorum expos. (1260-69). 12. In libros Politicorum expos. (fino al 1. III, lect. 6: 1269-72). 13. In librum de causis expos. (1269-73)
C) OPERE SISTEMATICHE 1. Comnzentum in quattuor lìbros Sententiarum magistri Petri Lombardi (1254-56; un secondo commento posteriore è andato perduto). 2. Summa contra gentiles (1261-64). 3. Summa Theologiae (fino alla pars III, q. 90. Segue il SuppIenL, compilazione di fra Reginaldo da Piperno che si è servito del Commento tomista al 1. IV delle Sentenze): pars 1, 1266-68; para II: Ia-IIae, 1269-70, Ila-Ilae,1271-72; pars III, 1272-73.
Tommaso d ’Aquin0
4.
.
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disputatae:
De veritate: Parigi, artt. 1-84 (1256-1257); Quaestiones artt. 85-168 (1257-58); artt. 169-253 (1258-1259); De potentia: Roma, artt. 1-55 (1265-67); Viterbo, artt. 56-83 (1267-68); De spiritualibus crea-
turis, Viterbo (1268); a Parigi: De anima (1269); De virtutibus in communi (1269-72); De rrzalo (1269-72); De earitate (1269—72); De spe (1269-72); De correctionefraterna (1269-1272); De unione Verbi incarnati (1270-72). Quaestiones Quodlibetales (si tenevano durante le vacanze di Natale e di Pasqua): Quodl. VII-IX (1256-59); Quodl. I-VI e XII. I1 p. Mandonnet suggerisce la seguente distribuzione: Quodl. VII (Natale 1256); Quodl. VIII (Natale 1258); Quodl. IX (Pasqua 1258); Quodl. XI (Pasqua 1259); Quodl. I (ancora Pasqua 1259); Quodl. II (Natale 1269); Quodl. III (Pasqua 1270); Quodl. IV (Pasqua 1271); Quodl. V (Natale 1271); Quodl. VI (Pasqua 1271). I dubbi avanzati da P. Glorieux sull’autenticità del Quodl. IX sono stati respinti come infondati da J. Isaac, in Arch. d’hist. doctr. et Iitt. du m. rî. 22-23 (1947-48), pp. 187 ss.
D) OPUSCOLI AUTENTICI Sono una cinquantina, tra cui segnaliamo i seguenti: 1. Contra errores Graecorum ad Urbanum IV Pont. Max. (1261 —64). 2. Compendiunz Theologiae ad fratrem Reginaldum socium suum carissimum (1272-1273); incompiuto, fino al De virtute spei, c. 256. 3. De difierentia verbi divini et humarzi. 4. De natura verbi intellectus. 5. De substantiis separatis seu de angelorum natura ad fmtrem Reginaldunz socium suum carissimum (incompiuto; 1272-73). 6. De unitate intellecfus contra averroistas (1270). 7. Contra pestzferam doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu
(1270).
8. De perfectione vitae spiritualis (1269-1270). 9. Contra impugnantes Dei cultum et religione”: (1256-57). 10. De regimine principum ad regerrz Cypri (fino al 1. Il, cap. 4: 11. De regimine judaeorunz ad ducissanz Brabantiae (1270). 12. De aeternitate mundi contra nzurmurantes (1270). 13. De principio individuationis. 14. De ente et essentia (1254-56). 15. De principiis naturae adfratrem Silvestrum (1255). 16. De propositionibus modalibus. 17. De natura accidentis. 18. De natura generis.
1265-66).
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Parte seconda
E) VARIE Sermoni (il numero è incerto. Una nuova raccolta di 11 prediche è stata scoperta nelle biblioteche di Spagna da P. T. Kàppeli, v. Arch. Fr. Praed., 13 [1943], pp. 59-94). Preghiere (il numero è incerto). Due Principìa (0 lezioni magistrali): uno come «Baccalaureus biblicus» del 1252 sul tema: «Hic est liber mandatorum Dei» e l'altro come «Magister regens» del 1256 sul tema: «Rigans montes de superioribus suis» (ed. F. Salvatore, Due sermoni ined. di s. T. d’A., Roma 1912).
F) ALTRi COMMENTI 1. In Boethii De Trinitate. 2. In Boethiz’ De Hebdomadibus. 3. In Dionisii De divinis nominibus.
Gli scritti di metafisica Di tutte queste opere a noi qui interessano soltanto quelle che riguardano la metafisica, che non sono poche. In effetti nell'epoca medievale nessun altro autore ha scritto tanto di metafisica quanto S. Tommaso, e lo ha fatto utilizzando vari generi letterari: il commento, il saggio (opusculum), la quaestio disputata, il quodlibet e il tractatus. I commenti che riguardano propriamente la teoresi metafisica sono: i commenti alla Metafisica e al De anima di Aristotele; al De Trinitate e De Hebdonzadibus di Boezio; al De dìvinis nominibus dello Pseudo-Dionigi e al De causis. Una buona metà degli Opuscula discutono terni di metafisica. Fra tutti eccelle il De ente et essentia che può considerarsi il manifesto della metafisica di S. Tommaso. Ma vanno segnalati anche il De substantiis separatis, il De aeternitate mundi, il De principio individuationis, il De principiis naturale, il De naturae accidentis. Tra le Quaestiones disputatae dibattono tematiche squisitamente metafisiche il De veritate, il De potentia, il De malo, il De anima e il De spirituali-
bus creaturis. Anche un discreto numero dei Quodlibetalìa si interessano a problemi metafisici, in particolare il II, il III, l'VIII, il IX e il XII. Un vero e proprio trattato completo di metafisica S. Tommaso non lo ha mai composto, ma nelle sue tre grandiose opere sistematiche, il Commento alle Sentenze, la Summa contra gentiles e la Summa Theologiaeegli ha avuto l'opportunità di svolgere completamente, benché occasionalmente e dispersivamente, tutti i problemi che riguardano la metafisica. Que-
Tommaso d 'Aqu ino
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opere monumentali sono essenzialmente teologiche, ma nel modo teologia dell’Angelico l'indagine razionale (ossia la filosofia) ha un posto e una funzione essenziale. Secondo lui un'esposizione della dottrina cattolica che voglia rivolgersi a tutti gli uomini deve prendere le mosse da ciò che la ragione umana può scoprire, perché è la ragione quella che accomuna tutti gli uomini. L'uomo è per la ragione, secondo Tommaso: «intellectus et ratio est potissima hominis natura»; anche se la ragione non è tutto l’u0mo (potissima, non tota). Anche per il credente, del resto, che, pur partendo da ciò che Dio ha rivelato, vuol cercare di averne una certa intelligenza, l'esercizio della ragione è necessario, perché il dono divino della grazia non distrugge la sua natura ma la eleva: «Cum igitur gratin non tollat naturam sed perficiat, oportet quod naturalis ratio subserviat fidei sicut naturalis inclinatio voluntatis obsequitur charitatimé Si capisce quindi che il teologo Tommaso d'Aquino dedicasse intere trattazioni a problemi filosofici e metafisici anche nello svolgimento delle sue opere teologiche, là dove la materia poteva richiederlo. L'opera teologica in cui il discorso metafisico è svolto in modo più organico e unitario è la Summa contra gentiles, a cui non a caso è stato dato il nome di Summa philosophiae.In questo scritto S. Tommaso opera una netta distinzione tra i grandi misteri cristiani, Trinità, Incarnazione, Sacramenti, che sono verità del tutto inaccessibilialla ragione, e i temi relativi a Dio, le creature angeliche e l'anima umana, che sono verità su ste tre
di fare
cui la ragione umana è in grado di acquisire una certa conoscenza: «Vi sono scrive l'Angelico alcune verità che superano ogni potere dell'umana ragione, per es. che Dio è uno e trino. Altre sono tali da poter essere raggiunte dalla ragione naturale, per esempio che Dio esiste, che Dio è uno, e simili».7 Ora, mentre nella Summa Theologiae verità naturali e verità soprannaturali sono esposte nell'ambito del medesimo trattato (per es., nella Prima Parte, dopo le questioni su Dio accessibilialla ragione si passa subito alla Trinità), nella Contra gcntiles, i primi tre libri sono dedicati esclusivamente alle verità che Tommaso ritiene intelligibilialla ragione. Nel primo libro, per es., in cui si parla di Dio, non si accenna alla Trinità e le verità note solo mediante la rivelazione sono tutte raccolte nel quarto libro. Non solo, ma Tommaso afferma anche che all'interno di un certo discorso occorre partire dalle verità accessibili alla ragione perché, nell’esporre e giustificare la dottrina cristiana discutendo con gli eretici si può assumere come presupposto comune tutta la Bibbia e con gli ebrei si può assumere l'Antico Testamento, ma con i musulmani e -
5) 6) 7)
s. TÌI. 1-11, 31, 7. s. Th. I,l,8. C. G. 1, 3.
—
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pagani non si può ammettere come presupposto se non ciò che è comune a tutti gli uomini, cioè la ragione: «Perciò è necessario ricorrere alla ragione, alla quale tutti devono assentirewi L'ordine della trattazione seguito da S. Tommaso nella Contra gentiles (come pure nella Summa Theologiae) è quello dall'alto al basso, tipico dei neoplatonici: prima Dio, poi le creature angeliche e, per ultima, l'anima
con
i
umana.
Anche nel Commento alle Sentenze Tommaso affronta tutti i grandi problemi della metafisica, ma in modo meno ordinato dovendo seguire l'ordine di Pier Lombardo. La lettura di quest'opera è estremamente fruttuosa, non solo perché è la più estesa ma anche perché è una tra le più profonde di quelle scritte da Tommaso per l'acutezza delle soluzioni alle più intricate questioni. Essa, infatti, non è diretta a chi inizia gli studi teologici come la Summa Theologiae, ma a chi già possiede il baccalaureatus biblicus, e si presta quindi a discussioni e ad analisi specifiche che la Summa non affronta. Il Commento alle Sentenze, benché sia stato scritto da Tommaso nella sua giovinezza, è sostanzialmente un'opera della maturità del suo pensiero. Come abbiamo avuto modo di mostrare nella monografia Saint Thomas Aquinas’ Philosophy in the Commentary to the Sentences‘? tutte le posizioni filosofiche e metafisiche di base di S. Tommaso vi sono già chiaramente espresse, inclusa quella sua originalissima concezione dell'essere, come perfezione massima e radice di ogni altra perfezione, che è l'asse portante di tutta la sua metafisica.” Per ciò che attiene alla metafisica nelle opere posteriori al Commento alle Sentenze non si registrano mutamenti significativi, anche se ci sono accentuazioni diverse nell'analisi e nella trattazione degli argomenti e un evidente progresso nella conoscenza delle f0nti.11 Per questo motivo nella ricostruzione del pensiero metafisico dell'Angelico non trascureremo mai il suo insegnamento contenuto nel commento ai libri di Pier Lombardo.
Le fonti della metafisica di S. Tommaso Le fonti della metafisica di S. Tommaso sono moltissime: esse vanno dai filosofi dell'antichità, soprattutto Aristotele ma anche Platone, ai neoplatonici,specialmente Proclo, ai filosofi cristiani, Agostino e Boezio, nonché lo Pseudo-Dionigi, ai filosofi arabi, Avicenna e Averroè, ai filosofi ebrei, Avicebron e Maìmonide, e ai suoi contemporanei, Guglielmo d'Auvergne e Alberto Magno.
5) Ibîd. I, c. 2. 9) Nijhoff, L'Aia 1975. 1”) Cf. B. MONDIN, Saint Thomas Aquinas’ Phil0s0phy..., cit., pp. 46 ss. H) Cf. S. VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Bari 1973, pp. 17-18.
Tommaso d 'Aquinc)
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può fare un'idea delle fonti principali della metafisica dell'Aquidando uno sguardo agli autori che egli cita in quella summula della sua metafisica che è il De ente et esserztia. Ecco lo specchietto degli autori menzionati e il numero di volte in cui sono esplicitamente citati: Aristotele (14 volte), Avicenna (15), Averroè (10) Avicebron (11), Boezio (4). Si tratta certamente di un elenco parziale perché oltre ai suoi contempoCi si
nate
ranei omette Platone, Agostino, lo Pseudo—Dionigi e Proclo, pensatori ai quali egli deve molto. Ma è significativo constatare che in testa alla lista degli autori più citati figurano Aristotele ed Avicenna, perché sono
indubbiamente questi due grandissimi pensatori coloro che con le loro dottrine sull'ente, sulle sue strutture e sui suoi principi primi hanno aiutato di più S. Tommaso a costruire un nuovo edificio metafisico. S. TOMMASO E ARISTOTELE
Il debito di S. Tommaso verso Aristotele e la stima per il suo pensiero così grandi che non solo egli si proclama apertamente suo discepolo ma vuole essere anche suo fedelissimo interprete, perché è convinto che, specialmente in metafisica, nessuno ‘e giunto più vicino alla verità dello Stagirita, e che per questo motivo tra Aristotele e il cristianesimo non può esserci nessun contrasto insanabile.S. Tommaso scorge nel pensiero di Aristotele la Vera filosofia umana ed avverte la cospicua superiorità di Aristotele su tutti i filosofi antichi, compreso Platone; non manca di farla notare esplicitamente e comunque agisce in conseguenza di tale opinione. In tutta la sua opera si nota il peso che ha per lui una concezione così chiara della filosofia dello Stagirita: u_n rispetto, questo, che non gli venne imposto da nessuno; anzi, si deve ricordare che in un'epoca in cui l'indirizzo filosofico e teologico imperante era quello di Agostino lo schierarsi apertamente e decisamente per Aristotele, come fece S. Tommaso, fu un grande atto di coraggio, dovuto esclusivamente all'amore per la verità. E fu l'amore per 1a verità che lo portò a rifare i commenti all'intero corpus aristotelico al fine di contrapporli a quelli scritti da Averroè, il quale aveva compiuto un’esegesi dei testi aristotelici che risultava incompatibile su alcuni punti fondamentali della metafisica e dell'antropologia con la verità rivelata. Ora, per S. Tommaso, come in buona sostanza per tutta la metafisica cristiana, la verità per sé non può che essere una sola, e perciò il possibile contrasto tra verità rivelata e verità di ragione (filosofica) è solo apparente e risolvibileda un impegno analitisono
co
più profondo. L'obiettivo primario, anzi unico dell’esegesi tomistica è quello di sve-
lare la verità del testo, non la verità cristiana e neppure la Verità filosofica, bensì la verità secondo Pintentio flMCÎOTÎS. Nei suoi commenti l'Aqui-
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Parte seconda
nate non si propone fini apologetici a sostegno della fede cristiana o dello stesso Aristotele. Contro una Critica malevola S. Tommaso difende il suo diritto a rispettare il carattere dei testi senza pregiudizi confessionali:
possa riguardare la dottrina della fede il modo in cui le vengono spiegate parole del Filosofo (Nec video quid pertineat ad dottri«Non vedo
come
fidei qualiter Philosophi verba exponarztur)» (Rcsponsìo ad Mag. Ioannem). Per scoprire lfintentio auctoris S. Tommaso ricorre alle indagini testuali, al confronto dei testi paralleli. Così, per stabilire quale sia l'insegnamento nam
di Aristotele sull’anima mette a confronto le affermazioni del III libro del De anima con quelle del II, «perché dal confronto reciproco delle sue parole risulti chiaro quale sia stato il suo pensiero sull'anima (ut ex collatione verborum eius ad invicem appareat quaefiierit eius senten tia de anima)». Quella del commento è un'arte in cui gli autori medioevali ebbero ben pochi rivali. Tutto l'insegnamento sia nelle facoltà delle Artes come in quella di teologia era condotto attraverso il commento dei testi di autori considerati classici e vincolanti per tutti. Il commentatore «dà importanza al proprio testo e Cerca di intenderlo rettamente, non per compiacersi da puro erudito nella restaurazione di un sistema ormai superato, ma per trovarvi un testimone della verità, più o meno perspicace, più o meno parziale, ma idoneo a sorreggere una ricerca ulteriore e progressiva» (M. D. CHENU). Dell'arte del commento S. Tommaso si era ìmpadronito sin dai primi anni del suo insegnamento parigino, commentando prima le Sentenze di Pier Lombardo e poi alcuni libri dell'Antico Testamento. Ma quest'opera non presentava particolari difficoltà, tanto più che poteva contare sul lavoro di moltissimi altri commentatori che l'avevano preceduto. Ben più ardua era invece l'impresa di commentare Aristotele. Anzitutto perché l'originale non era un testo latino ma greco, lingua praticamente sconosciuta a S. Tommaso. In secondo luogo perché le traduzioni latine di Aristotele non erano sempre attendibilie richiedevano pazienti verifiche, che S. Tommaso non era sempre in grado di eseguire personalmente. Infinc, perché per numerose opere di Aristotele non poteva avvalersi dell'apporto di altri commentatori e doveva assumersi il rischio di fare da battistrada. In generale si può dire che commentando Aristotele l'Aquinate si avvalse di tutte le traduzioni latine e di tutti i commenti tradotti in lingua latina che poteva trovare nella ricca bibliotecadell'università di Parigi e nel suo convento dello Studium generale parigino all'inizio del 1270. Per la Metafisica chiese al confratello Guglielmo di Morbeke, eccellente grecista, di approntare una nuova traduzione. Per il Peri hermeneias si avvalse soprattutto del commento fattorie da Boezio.
Tommaso d'Aquino
491
Metodo Il metodo usato da S. Tommaso per commentare Aristotele si adegua all'obiettivo intrinseco al lavoro esegetico, che come s'è visto è quello di scoprire la intentio azictoris; pertanto non può essere che il metodo della esegesi letterale. Infatti nello studio di un autore profano non può più
aver luogo, come nello studio della S. Scrittura, la distinzione tra senso storico o letterale e senso allegorico 0 spirituale. La Scrittura infatti contiene più sensi perché è ispirata dallo Spirito Santo, mentre gli scritti profani avendo un unico autore non possono avere che un unico senso, cioè quello inteso dall'autore: Yintentio auctoris. S010 cogliendo Peffettiva ‘intentio uuctoris si possono eliminare esegesi inesatte 0 sbagliate. Amante delresegesi letterale S. Tommaso evita la parafrasi dei testi e si impegna in un’esegesi minuziosa, quasi parola per parola. Ma Yesegesi tomistica di Aristotele si nutre di una forte simpatia e di una grande ammirazione per il suo autore. Ciò porta S. Tommaso ad interpretare i testi aristotelici con disposizione favorevole evitando qualsiasi contrapposizione tra verità di fede e verità di ragione. Tommaso cerca di interpretare Aristotele in maniera estensiva anziché restrittiva, facendo attenzione più ai principi in se stessi che alle conclusioni. Caso tipico, e ben noto, di questo modo di procedere è il problema dell'eternità del mondo affermata da Aristotele, e che S. Tommaso cerca di conciliare con la dottrina cristiana della creazione ipotizzando una creazione del mondo ab aeterno. Questa ipotesi secondo YAquinate è perfettamente razionale, in quanto non si danno limiti temporali alla potenza divina e perciò la negazione a priori della creazione del mondo nell’etemità risulta più dannosa alla fede che non la sua affermazione. Ecco l'argomentazione stringente dell’Angelico: «Che il mondo non sia sempre esistito si tiene soltanto per fede e non si può provare con argomenti convincenti (...). Infatti non si può investigare razionalmente quale sia la volontà di Dio, se non a proposito di quelle cose che ‘e assolutamente necessario che lui Voglia; ma tale certamente non è quanto egli vuole riguardo alle creature. La volontà divina può essere invece manifestata all'uomo per rivelazione, sulla quale appunto si fonda la fede. Quindi che il mondo abbia avuto inizio è cosa da credersi, ma non oggetto di dimostrazione o di scienza. E questa è una cosa che bisogna tener ben presente, perché qualcuno, presumendo di dimostrare ciò che è soltanto di fede, non abbia a portare argomenti che non provano, e offrire così materia di derisione a coloro che non credono, facendoloro supporre che noi si credano le cose di fede con argomenti di questo generemîî
12) S. Th. I, 46, 2.
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Parte seconda
M. D. Chenu, «una elaborazione esegetica di questa specie non senza i suoi lati negativi, in quanto porta talvolta a dissociare i principi dalle conseguenze che Aristotele ne trae. Si corre il ri-
Come
osserva
è
schio allora di presentare un aristotelismo che non osa spingersi fino alle sue ultime conclusioni. Agostiniani e Averroisti non si faranno scrupolo di
rimproverare a san Tommaso di presentare un
averroismo quasi
ver-
stesso».13 D'altronde S. Tommaso non aveva affatto l'intenzione di tentare una mediazione tra agostinismo e aristotelismo come
gognoso di
se
facevano i maestri francescani (Alessandro di Hales e S. Bonaventura). Il suo obiettivo era quello di esporre fedelmente il pensiero di Aristotele raccordandolo per quanto possibilecon la fede cristiana e non contrap-
ponendolo ad essa. In questo egli non era né averroista né agostinjano, ma semplicemente aristotelìco. Valore dell Qzsegesi tomistica
Werner Iaeger, il massimo tra gli studiosi di Aristotele del XX secolo, sul valore dei commenti tomistici agli scritti aristotelici ha formulato il seguente giudizio: «I commenti di S. Tommaso ad Aristotele rivelano un nuovo sforzo di concentrazione per arrivare a capire sia lo spirito che la lettera di un autore nuovo, che presenta serie difficoltà allo specialista e ostacoli insormontabilial lettore medio impreparato...; non vi è nulla di paragonabilealla serietà e alla tenacia del felice tentativo di 5. Tommaso di penetrare il significato delle opere del grande filosofo, alla cui analisi ed interpretazione egli dedicò una così gran parte della sua vita. Non troviamo esempi di questo tipo di comprensione, che è al tempo stesso particolare e generale, inventiva eppure assolutamente oggettiva, neppure se consideriamo i secoli del più dotto umanesimom“ Lentamente nelle università medioevali i commenti dell’Aquinate presero il posto di quelli di Averroè, e Tommaso si guadagnò il titolo di Commentator noster. Lo stesso Alberto Magno li teneva in tale considerazione da far ritirare dalla circolazione i propri commenti per farli sostituire con quelli del suo eminente discepolo. Nei commenti di Tommaso c'è una straordinaria ricchezza di dottrina. Il pensiero di Aristotele non vi viene soltanto chiarito, ma anche rafforzato e approfondito. Per avere una comprova deltesattezza di questa affermazione si legga l'ampia analisi che nel commento al IV libro della Metafisica S. Tommaso riserva alle pagine aristoteliche sul principìo di non contraddizione. L’Angelico vi prende in considerazione i molteplici argomenti che si possono addurre contro il Valore della Cono-
13) 14)
M. D. CHENL‘, Introduzione alla studio di S. Tommaso, Firenze 1953, p. 183. W. JAEGER, Umanesimo e teologia, Milano 1958, pp. 35-36.
Tommaso d ’Aquin0
scenza
(con una rassegna assai più ampia
smonta uno
per
uno, facendo vedere
di
quella
di
Cartesio)
493
e
li
che nella vita pratica tutti gli uomi-
ni riconoscono la validità dei principi primi, in particolare del principio di non contraddizione.” Nel commento al Peri Hermeneias arricchisce la
dottrina aristotelica sulla Verità, introducendo la
capitale distinzione tra
Verità misurante e verità misurata, ignota ad Aristotele.“
approfondimenti del pensiero aristotelico sono importanti in Vista di un'adeguata ricostruzione del pensiero filosofico di S. Tommaso, ma si commetterebbe un gravissimo errore se si volesse ridurre il tomismo a quanto S. Tommaso ha scritto nei suoi commenti ad Aristotele. In questi infatti, il tomismo non compare che in Tali arricchimenti e
assai
minima parte, ossia per la parte che viene mutuata da Aristotele. Ora, il tomismo è infinitamente di più, e non tanto per il grosso debito che Vi si paga oltre che ad Aristotele anche ai neoplatonici, a S. Agostino, a Boezio, allo Pseudo-Dionigi e ad Avicerma, ma soprattutto per un'ispirazione metafisica assolutamente nuova e originale, ispirazione che venne suggerita a S. Tommaso dal concetto intensivo di essere, che viene posto al Vertice di tutta la realtà e a fondamento di tutti gli enti. Di questa sua originalità metafisica S. Tommaso offre poche tracce nei commenti aristotelici, mentre ne parla ripetutamente e diffusamente nei suoi opuscoli filosofici (nel De ente et essentia in particolare), nei Quodlibetalia, nelle Quuestiones disputatae, nel Commento alle Sentenze e nelle due Summae. S. TOMMASO E AVICENNA Non è certamente un caso che nel De ente et essentia, il migliore compendio di metafisica tomistica, Avicennasia l'autore più citato da S. Tommaso. Egli aveva imparato a conoscere le eccellenti opere di metafisica del filosofo arabo sin da giovane, alla scuola di Alberto Magno, le cui parafrasi ad Aristotele spesso non facevano che riprodurre quelle di Avicenna. Un secolo di ricerche storiche ha definitivamente chiarito quanto S. Tommaso nella sua speculazione metafisica deve ad Avicenna. Già Max Horten con le sue preziose note alla traduzione tedesca della Metafisica di Aviccnna (1906) aveva segnalato i notevoli influssi che il filosofo arabo aveva esercitato SulYAquinate. Gli studi successivi di A. Forest, A. Masnovo, Carra de Vaux, E. Gilson, C. Vansteenkiste" hanno
15) 16) 17)
Cf. Lectio 6, nn. 605-609. Cf. Lectio 3, nn. 29-31. A. FOREST, La structttre métaphysique du concret selon saint Thomas dC/‘lquin, Paris 1931, con in appendice l'elenco di 250 citazioni tratte da Avicenna e che compaiono nelle sue opere; A. MASNOVO, Da Guglielmo dfluîìergne a S. Tommaso
494
Parte seconda
confermato e precisato ulteriormente la dipendenza di S. Tommaso da Avicenna. Ma qual è il debito effettivo che S. Tommaso paga ad Avicenna? È un debito grosso o piccolo, Costante o passeggero, profondo 0 superficiale; inoltre, riguarda qualche punto particolare o tutto il sistema? Notiamo anzitutto che S. Tommaso mostra sempre grande rispetto per Avicenna e ha per lui una grandissima stima. Lo tratta come un maestro ed è felice di costatare su certi punti l'accordo della dottrina del filosofo arabo con la fede cristiana. Spesso le sue citazioni terminano con un «Sicut dixit Avicenna» come per addurre una conferma autorevole e decisiva.” Nei suoi confronti non adopera mai le espressioni dure e severe che usa invece per Averroè: «Corruttore piuttosto che Commentatore (depravator potius quam commentator)». Nel caso in cui non si trovi d'accordo con Avicenna si limita ad affermare «In hoc non est sustinendum Avicenntbfl‘),oppure: «Avicenna deceptus fuitmî" Il debito che Tommaso paga ad Avicennaè costante: va dall'inizio alla fine della sua attività letteraria. Chi ha esaminato le citazioni di Avìcenna secondo l'ordine cronologico delle opere di S. Tommaso ha notato che le citazioni sono più frequenti nelle prime e più rare nelle ultime. Però è anche vero che Avicenna continua ad essere citato anche nella Summa Theologiae (14 volte nella Prima Pars), nel commento alla Metafisica (4 volte) e nei Quodlibetalia (13 volte), che sono tra le opere più mature dell'Angelico. E come ha osservato Vansteenkiste i riferimenti diventano molto più numerosi se si tiene conto anche dei passi in cui S. Tommaso pensa indubbiamenteal filosofoarabo anche se non lo cita espressamente. Cornelio Fabro, studiando le fonti della nozione tomistica di partecipazione, dichiara: «Ultimo nell'ordine cronologico, questo arabo persiano andrebbe posto primo per l'ampiezza dell'influsso esercitato sulla prima formazione speculativa di S. Tommaso»_2I
d'Aquino, 3 voli, Milano 1930-1946; P. CARRA DE VAUX, Notes et tcxtes sur 1 hvicennisrrie tam: mix confins des XII-XIII siècles, Paris 1934; E. GILsoN, Pourquoi S. Thomas a critiqué S. Augustin, in «Archives cl’hist. doct. et litt. du M. A», 1 (1926), pp. 6-127; C. VANSTEENKISTE, Avicenna-Citaten bij S. Thomas, in «Tijdschrift voor Phìlosophie» 15 (1953), pp. 457-507. ll Vansteenkiste estende notevolmente le citazioni tomistiche di Avicenna e ne enumera complessivamente 450.
13)
19) 2°) 21)
«Et idea accipienda est via Azvicennae» (In Boethii de Trinitate q. 4, a. 3); «Dicendum secundum Avicennam» (In Il Sena‘. 13, 1, 1 ad 4); «Similiter Avicenna istum errorem
reprobat» (lbid, 17, 2, 2).
De ver. 12, 3 ad 9. In Il Phys. 1, 1, 1. C. FABRo, La nozione Torino 1950, p. 113.
metafisica di partecipazione secondo S.
Tommaso
d'Aquino,
Tommaso d 'Aquin0
495
Il debito di S. Tommaso verso Avicenna è quindi grande, costante e profondo. Per l'Angelico Avicenna non è soltanto un fidato interprete di
Aristotele ma un ponte sicuro tra la vecchia metafisica della sostanza di Aristotele e la nuova metafisica dell'essere di cui l'Angelico è il geniale creatore. Avicenna aveva affermato la netta distinzione, logica e ontologica, tra essenza (sostanza) ed esistenza (esse) non ignorata da Aristotelc ma da lui considerata di scarso valore —, e in questo modo aveva posto le premesse per il grande guadagno speculativo di S. Tommaso: l'elevazione dell'essere al vertice della realtà, al di sopra di tutte le sostanze, di ogni atto e di ogni perfezione. Il debito di S. Tommaso verso Avicenna riguarda soprattutto la metafisica. Basta scorrere le citazioni che egli fa del filosofo arabo per notare che esse si riferiscono a tutti i punti nodali dell'indagine metafisica: la definizione di questa disciplina, il concetto di essere, la distinzione tra essenza ed esistenza, la dimostrazione dell'esistenza di Dio, i trascendentali, l'origine delle cose da Dio (creazione/ emanazione), la causalità di Dio e delle creature, l'ordine del cosmo, il principio di individuazione, Pimmaterialità delle Intelligenze (angeli) e dell'anima. Pertanto si deve concludere che l'influssodi Avicenna su S. Tommaso non riguarda qualche punto particolare della sua filosofia ma tutto il suo sistema teoretico. E, tuttavia, questa presenza costante del pensiero di Avicenna non cancella la grande differenza di fondo che separa il sistema di S. Tommaso da quello del filosofo arabo. Si tratta, in effetti, di due metafisiche ontologiche, che si trovano su due ordini diversi anche se paralleli. Come ha dimostrato E. Gilsonîî ma oggi è cosa ovvia per tutti gli studiosi la metafisica di Avicenna è una metafisica essenzialistica, una metafisica dei possibili,ossia delle essenze; e, in effetti, l'ente da Avicenna è concepito come un'essenza l'esistenza della quale è un corpo estraneo, un qualcosa di accidentale. Per contro la metafisica di S. Tommaso è una metafisica dell'essere: la pienezza della realtà è data dall'essere e non dall'essenza. Senza l'essere l'essenza è nulla, non ha nessuna dimensione ontologica; è sì una possibilità, non però una possibilità sussistente di per sé, ma semplicemente come idea nella mente di Dio. Ogni traccia dell'ultrarealismo platonico viene completamente eliminata dalla metafisica dell'essere di S. Tommaso, che è una metafisica dell'atto e del concreto e non una metafisica del possibile e dell’astratto come era invece quella di Avicenna. -
—
-
32) Cf. E. GILSON, Being ami some lflrilosopizers,Toronto 1952.
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Parte seconda
Il sistema metafisico di S. Tommaso Se è ormai certo che S. Tommaso abbia un suo personale sistema metafisico, resta il problema di determinarne meglio la natura. Gli storici della filosofia, da Hegel fino a Bréhier non hanno mai riconosciuto alcuna originalità filosofica e tanto meno metafisica al pensiero di S. Tommaso: ottimo commentatore di Aristotele egli non avrebbe
fatto altro che cristianizzareAristotele là dove era necessario. Abbiamoricordato che è merito dei neotomisti non solo l'avere ricuperato il pensiero filosofico del Dottore Angelico ma anche l'aver dimostrato l'originalità della sua metafisica. La grande novità che ormai tutti gli riconoscono è il nuovo concetto di essere, il concetto intensivo di essere, l’esse come actus e non come esse commune. Che cosa comporta questa importante conquista per la metafisica? Noi sappiamo che l'unica opera in cui S. Tommaso ci ha lasciato un abbozzo della sua metafisica è il De ente et essentia, nel quale, però, il nuovo concetto di essere, che è pur presente, emerge tanto poco, che tutte le analisi dell'opuscolo riguardano praticamente solo l'essenza nella sua triplice manifestazione: essenza identica all'essere in Dio, essenza pura negli angeli, essenza composta di materia e forma nelle Cose materiali. Cosi S. Tommaso, che pure occasionalmente rinnova tutti i terni della metafisica immergendoli nella sua propria concezione dell'essere, di fatto non ha mai elaborato una ricostruzione sistematica di tutto il suo edificio metafisico. Questo ha indotto la maggior parte degli espositori della metafisica di S. Tommaso da A. Forest (La structure métaphysique du concret selon saim‘ Thomas dbîquin) a L. Elders (The Metaphysics of Being of St. Thomas Aquinas in a Historical Perspective) a descrivere la metafisica di S. Tommaso seguendo l'ordine della metafisica aristotelica e dando grande spazio all'analisi delle strutture ontologiche dell'ente: sostanza-accidenti, materia-forma, atto-potenza, con l'appendice della struttura essenza-esistenza. Ma questa dettagliata e prolungata analisi rischia di far perdere di Vista ciò che è assolutamente nuovo e decisamente peculiare, capace di dar vita a un sistema più robusto di quelli precedenti: l'essere. I punti nodali dell'indagine metafisica di S. Tommaso sono due: l'ente e l'essere. Nonostante il primato ontologico dell'essere rispetto all'ente, l'ordine euristico esige che si parta dall'ente. Lo studio iniziale, che apre il discorso metafisico, Va dunque centrato sull'ente, ma sull'ente nel suo rapporto Con l'essere, come aveva visto giustamente Aristotele quando definiva la metafisica come studio dell'ente in quanto ente. Ora, l'essere a cui va relazionato l'ente, in S. Tommaso non è l'essere comune, bensì l'essere intensivo, Yactus essendi. -
-
Tommaso d'Aquino
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Infatti l'asse commune è 10 strato ontologico più elementare, condiviso da tutti gli enti; esso non può condurre l'ente ad aprirsi nella sua ricchezza ontologica e dare il via alla "seconda navigazione”. L'attenzione inquirente va quindi rivolta sempre all'essere. L'interrogativo incessante è: che cos'è l'ente rispetto all'essere? O, secondo la bella formula heideggeriana: «Perché vi è in generale, 1’essente (ente) e non il nulla?» Pertanto, nella ricostruzione del sistema metafisico di S. Tommaso si esordisce con una rassegna delle strutture ontologiche dell'ente: mate-
ria-forma, sostanza-accidenti, quantità-qualità, relazione, tempo, spazio, atto e potenza, essenza ed esistenza. Questa analisi va fatta ma non può assumere le dimensioni che aveva in Aristotele, che non è un filosofo dell'essere
ma
della sostanza,
e
per il quale ciò che contava
maggior-
mente era fornire un quadro complesso delle sostanze e delle loro
cause.
Chi ricostruisce la metafisica di S. Tommaso deve concentrare continuamente |'attenzione sull'essere e deve cercare di capire quali nuove questioni questa attenzione per l'essere comporti in tutto il sistema. La mappa delle strutture dell'ente è necessaria per avere un adeguato
quadro fenomenologico della realtà da cui prende il via la "seconda navigazione" tomistica, ma si tratta pur sempre di un semplice allestimento del materiale necessario per fare il viaggio, mentre la traversata metafisica deve ancora iniziare. Il metafisico dell'essere vuole sapere se l'ente da noi esperito, con le molteplici strutture ontologiche che lo costituiscono, assorbe già in sé,
esaurendolo, tutto l'essere, o se invece proprio la complessità di queste un chiaro indizio, una spia, che l'essere sovrasta e supera infinitamente l'ente. A questo punto la traiettoria dell'ente verso l'essere
strutture è
rivela che l'essere non coincide con nessuno degli enti composti, siano essi materiali oppure immateriali. Così l'uscita dagli enti verso l'essere si realizza sempre lungo l'orizzonte dell'essere e non per altra via. Questa è esattamente la linea seguita da S. Tommaso nella sua metafisi-
dell'essere. S. Tommaso per risalire dagli enti alla Causa prima, percorre molte vie, delle quali le più note sono soprattutto le ”Cinque Vie”. Ora, queste non possono affatto venire considerate come vie dell'essere, ma sono piuttosto vie del moto (divenire), delle cause seconde, della contingenza, dei gradi di perfezione, dell'ordine dell'universo. Perciò non sono la via propria dell'essere, non sono le vie della metafisica dell'essere. Eppure S. Tommaso non poteva ignorare un elemento così importante per una metafisica dell'essere, e non l'ha fatto: dal Commento alle Sentenze al Commento al Vangelo di S. Giovanni quindi dall'inizio alla fine della sua produzione letteraria egli percorre ininterrottamente questa via: dagli ca
-
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Parte seconda
enti risale direttamente all'esse ipsum. Egli apre così una grande via "ontologica", alternativa a quella ontologica di Sant'Anselmo, che parta dal concreto, l'ente, e non da una definizione astratta di Dio. Nessuno degli studiosi che hanno ricostruito la metafisica di S. Tommaso ha mai dato importanza alle varie versioni della sua ”prova ontologica" dell'esistenza di Dio. Così hanno ricostruito parti della sua metafisica ma mai l'intero edificio. Qualche studioso ha persino negato che S. Tommaso abbia un proprio sistema filosoficofiMa chi tiene gli occhi aperti e non perde mai di vista il filo rosso dell'essere scopre che S. Tommaso non solo dispone di una nuova piattaforma metafisica, l'essere, ma anche di tutti gli elementi necessari per comporre un nuovo edificio. Molti provengono da Aristotele, Platone, Proclo, Boezio, Avicenna, ma sono dottrine a cui egli dà un significato nuovo rileggendole alla luce
radiosa dell'essere. Nelle pagine che seguono mente
presenterò una rapida sintesi, sufficiente-
documentata, del sistema metafisico di S. Tommaso. Essa intende
confutare sia l'accusa di ”oblio dell'essere” mossa da Heidegger a tutta la metafisica occidentale, sia la negazione dell'esistenza di un sistema filosofico proprio di S. Tommaso. È vero invece il contrario: in S. Tommaso c'è un sistema metafisico, solido e bene articolato, che ha come base l'essere. Nella ricostruzione del sistema metafisico di S. Tommaso si possono seguire due metodi: il metodo discendente dei neoplatonicì, nel qual caso si procede dall'alto verso il basso, dall’Uno alle sue emanazioni spirituali e alla produzione di questo mondo materiale e dell'uomo; oppure il metodo ascendente di Aristotele, che dall'analisi delle strutture dell'ente va poi alla ricerca delle sue cause, dei principi primi. Di fatto S. Tommaso ha praticato entrambi i metodi. Nella Sunmta contra gentiles, dove nei primi tre libri espone il suo pensiero metafisico, procede dall'alto Verso il basso, da Dio, agli angeli e all'uomo. Invece nel De ente et essentia segue il procedimento inverso: prima esamina le strutture dell'ente e dell'essenza nelle realtà sensibili e poi dalle essenze composte risale a quella essenza semplicissima che si identifica con l'essere
stesso.
33) All’interrogativo: il tomismo è, in senso proprio, un sistema di filosofia? A. Forest risponde negativamente: «Esso non lo è, a nostro parere, nel senso in cui si intende questo termine riferendolo alla maggior parte dei filosofi moderni. Non troveremo in alcun modo nel tomismo la ricerca di una verità prima, di un dato niziale da cui si possa far partire la serie delle altre verità» (La structurc nzétaphysique du Concret selon saint Thomas d 'Aquin, cit., p. 324). E evidente che il Forest non si è reso conto del ruolo di verità primaria, basilare, che svolge l'essere nel sistema di S. Tommaso.
Tommaso a’ ’Aquin0
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Nella ricostruzione dell'intero sistema metafisico di S. Tommaso noi seguiremo il metodo del suo opuscolo giovanile, perché è quello che si addice meglio alle esigenze di una metafisica inquìsitiva, che procede dall'esperienza dell'ente sensibile,ne avverte le problematiche e cerca di risolverle risalendo alla sua ultima radice, l'essere.
L'oggetto, le proprietà e il metodo della metafisica metafisica, del suo oggetto, proprietà e metodo S. Tommaso si occupa soprattutto in due opere: il Commento alla "Metafisica di Aristotele Della
"
e
il Commento al ”De Trinitate"di Boezio. Per la
sua
eloquente sinteticità merita di essere riferito integralmente
il Prologo del Commento alla Metafisica. Ecco le parole dell’Angelico:
«Come insegna il Filosofo nella sua Politica quando più realtà convergono in qualche cosa d'uno, bisogna che una d’esse faccia da regolatrice, da dirigente, e le altre siano regolate e dirette. Ciò che è manifesto nell'unione dell'anima e del corpo: giacché l'anima per natura sua comanda, impera, e il corpo ubbidisce. L0 stesso accade nel campo delle stesse energie dell'anima: il potere irascibilecome il c0ncupiscibile, secondo l'ordine naturale, sono diretti dalla ragione. Ora, tutte le scienze e le arti convergono in qualche cosa d'uno, nel rendere, cioè, all'uomo la sua perfezione: in che sta la sua felicità. Onde è necessario che una di coteste scienze sia direttrice di tutte le altre, per cui meriti di essere appellata “sapienza”. E, infatti, ufficio del sapiente imporre l'ordine alle cose. Quale, poi, sia cotesta scienza, e circa quale realtà essa versi, basterà considerare diligentemente che cosa si richieda per essere idoneo a reggere gli altri. Come, infatti, dice il Filosofo nel predetto libro, gli uomini dotati d’intelletto sono naturalmente portati a reggere e a comandare: gli uomini, invece, che hanno robustezza di corpo, ma deficienti d'intelligenza, sono naturalmente servi (portati al lavoro servile); così perché una scienza possa essere di sua natura regolatrice delle altre, dev'essere sommamente intellettuale, deve avere, cioè, per suoi oggetti i più alti intelligibili.Ora i supremi intelligibili li possiamo considerare da un triplice punto di vista: innanzi tutto dall'ordine stesso del conoscere intellettuale, giacché sono maggiormente intelligibiliquelli dai quali risulta maggiore certezza nell'intelletto. Onde, siccome l'intelletto acquista la certezza della scienza attraverso l'indagine delle cause, ne segue che la conoscenza delle cause sia massimamente intellettuale. Quella scienza quindi, che considera le prime o supreme cause è senz'altro regolatrice delle altre. Il secondo argomento si desume dalla comparazione dell'intelletto col senso. Infatti, siccome il senso è conoscitivo delle realtà particolari, l'intelletto si differenzia da esso, in quanto è conoscitivo delle realtà universali. Per conseguenza quella scienza è massimamente in-
500
Parte seconda
tellettuale che specula i princìpi assolutamente universali; quali sono l'ente, e tutte le determinazioni conseguenti all'ente: l'uno e il moto, la potenza e l'atto. Tali nozioni non devono rimanere affatto indeterminate, perché senza di esse non è possibile avere una completa cognizione di tutto quello che appartiene a qualunque genere o specie di
scibile. Né, peraltro, si può trattare di tali nozioni (o princìpi) in qualsiasi scienza particolare, perché siccome ciascun genere di enti non è scibile se non in funzione di essi, ne seguìrebbe che ogni scienza particolare dovrebbe trattare di tali princìpi. Resta, quindi, assodato che tali principi vanno trattati in una scienza superiore comune, la quale, essendo per ciò stesso massimamente intellettuale, è regolatrice delle altre. Il terzo argomento lo si ricava dal conoscere intellettuale. Difatti, siccome in tanto si ha la forza intellettiva in quanto si è immune dalla
sono quelle realtà sono massimamente intelligibilile qualil'intele infatti, dalla materia. ljintelligibile, massimamente separate letto devono essere proporzionati, e dello stesso genere, giacché l'intelletto e Yintelligibile in atto sono una sola cosa (intenzionalmente). Orbene, le realtà massimamente separate dalla materia sono quelle le quali non solo astraggono dalla materia individua "come ledi forme cui si
materia,
naturali astrattamente considerate, nella loro universalità, occupa la scienza della natura", ma che astraggono dalla stessa materia sensibile (come tale). E non soltanto per una mera considerazione mentale come usa la matematica, ma astratta, altresì nel loro essere, come Dio e le intelligenze sussistenti. Onde la scienza la quale considera tali realtà astratte da ogni materia, è massimamente intellettuale,
quindi è la scienza ”principe e signora" di tutte le altre. Se non che tale triplice considerazione va attribuita, non a diverse scienze, ma a una sola. Le predette sostanze (Dio e gli angeli) sono le prime ed universali cause dell’essere. Ora appartiene alla medesima scienza considerare sia le cause proprie d'un determinato genere di scibile, sia il genere stesso; a quel modo che il filosofo naturale considera i princìpi stessi del corpo naturale. Bisogna, quindi, che alla e
medesima scienza appartenga considerare le sostanze separate, e l'ente in comune, che ne sarebbe quasi il genere le cui cause comuni e
universali sono le predette sostanze. Da quanto si ‘e detto appare che quantunque tale scienza consideri cotesta triplice realtà, non per questo significa che debba considerare ciascuna d'esse come suo soggetto, ma unicamente l'ente in comune.
Il soggetto d'una scienza è quello del quale indaghiamo le cause e le proprietà; e non già le cause di un dato genere. La cognizione,la infatti, delle cause di un dato genere di scibile è il fine cui perviene considerazione della scienza. E sebbene il soggetto di questa scienza, cioè, della metafisica, sia l'ente comune, si dice, tuttavia, ugualmente delle realtà le quali sono separate dalla materia secondo l'essere e secondo il modo di considerarle. Sì dicono, peraltro, separate secondo il loro essere e il modo di considerarle, non soltanto quelle realtà che non possono mai essere a contatto con la materia (o nella materia) quali
Tommaso d'Aquino
501
le sostanze intellettuali (gli angeli) ma altresì quelle che possomateria, come l'ente comune. Il che non si verificherebbe, se dipendessero nel loro essere dalla materia.
Dio
e
no essere senza
Secondo, dunque, cotesta trina considerazione dalla quale dipende la perfezione della presente scienza, questa prende tre denominazioni. Si dice scienza divina ossia teologica, in quanto considera le predette sostanze; metafisica, in quanto considera l'ente e le sue conseguenti determinazioni, le ‘.1 uali, nel .1’ rocesso risolutorio, ven g ono do 0 la fisica, come le considerazioni 1u universali ven ono doP o le meno universali. S1 dice, inoltre, filosofia prima, in quanto considera le supreme cause della realtà. E chiaro, per tal modo, quale sia il soggetto di questa scienza, quale sia il suo rapporto con le altre scienze, e quale ,
.
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sia il suo n0me».24
In questo testo S. Tommaso, in primo luogo, sottolinea l'importanza e la necessità della metafisica. Più di qualsiasi altra attività conoscitiva essa merita il nome di "sapienza", perché è quella che dirige tutte le altre e dimostra la Validità dei principi che esse presuppongono e non giu-
stificano. Poi, ricordando che Aristotele aveva dato tre definizioni della metafisica: studio delle cause o principi primi, dell'ente in quanto ente, e delle sostanze separate, S. Tommaso fa vedere che tutte queste tre definizioni sono legittime e che per questo motivo essa viene giustamente chiamata scienza divina, ossia teologica in quanto considera le sostanze separate, metafisica in quanto considera l'ente in quanto ente, e filosofia prima in quanto studia le supreme cause della realtà. Viene poi l'importante puntualizzazione intorno all'oggetto (soggetto) formale della metafisica. Pur studiando tutte le tre suddette realtà, l'ente in quanto ente, le cause prime e le sostanze separate, soltanto la prima
costituisce propriamente l'oggetto della metafisica. Ciò su cui anzitutto e soprattutto si concentra l'attenzione del metafisico, ciò che egli Vuole capire e spiegare è l'ente. I principi e le sostanze separate Vengono dopo, nel momento in cui egli scopre che la spiegazione dell'ente esige il riconoscimento, appunto, dei principi primi e delle sostanze separate. Quando definisce la metafisica S. Tommaso non si allontana mai dalla formula aristotelica. Sia nel Prologo come nel commento al IV libro della Metafisica egli non si stanca mai di ripetere che oggetto proprio della metafisica è l'aria, più precisamente l'ens commzme o ens Lmiversale.
24)
Traduzione di G. Calà Ulloa in Grande pp. 987-989.
enciclopedia filosofica IV, Milano s. d.,
502
Parte seconda
Ecco un testo molto significativo in merito: «Vi è una scienza ed è quella di cui presentemente parliamo la quale considera l'ente in quanto ente (speculatur ens secundum quod ens) quale suo proprio oggetto, insieme considerando ciò che conviene all'ente per sé (quae insunt enti per se), vale a dire tutte le modificazioni che necessariamente conseguono l'ente in quanto ente. Le altre scienze che hanno per loro oggetto gli enti particolari, senza dubbio studiano l'ente, giacché tutti gli oggetti delle scienze sono enti, tuttavia non considerano l'ente in quanto ente, ma in quanto è tale ente; in quanto Cioè o è il numero, 0 la linea 0 il fuoco o sirni1i>>.25 La metafisica è scientia communis e non particularis (come sono tutte le altre scienze), precisamente perché considera Funiversale ens secundum -
-
quod ensiîfi
Perciò è errato affermare come fa L. Elders27 e con lui molti altri studiosi di S. Tommaso che l'oggetto formale della metafisica è l'essere: infatti anche per l'Aquinate l'oggetto formale rimane sempre l'ente. Soltanto che nella ricerca dei principi primi egli osserva che il principio primissimo dell'ente è l'essere: l'ente infatti è id quod habet esse oppure id quod participat esse. Pertanto l’esse non entra direttamente nella definizione dell'oggetto della metafisica bensì nella definizione dell'ottica con cui S. Tommaso considera l'ente. ljerzs eommune che S. Tommaso, seguendo Aristotele, pone alla base dell'indagine metafisica non è un concetto generico, astratto, il più povero di tutti i concetti, e neppure l'ente in quanto pensato che forma l'oggetto della logica, ma è l'ente concreto, reale, nella sua straordinaria ricchezza, nelle sue molteplici strutture, nelle sue profonde esigenze. Nel Commento al "De Trinitate” di Boezio S. Tommaso, sulla scia di Aristotele, divide le scienze speculative in tre grandi rami: fisica, matematica e metafisica,- la fisica studia l'ente corporeo, la matematica studia l'ente misurabile (il numero) e la metafisica studia l'ente in quanto ente. Questa divisione viene collegata alle tre modalità dell'astrazione: 1) astrazione dalla materia sensibile individuale ma non dalla materia sensibilecomune; 2) astrazione dalla materia sensibilema non dalla materia intelligibìle (misurabile);3) astrazione totale da ogni tipo di materia. La prima astrazione determina l'oggetto della fisica, la seconda l'oggetto della matematica e la terza quello della metafisica. Leggiamo a questo riguardo il celebre passo del Commento al "De Trinitate":
25) In IV Metaph. lect. 1, nn. 529-530. 26) Cf. ibid, n. 532. 27) Cf. L. ELDERS, La metafisica dell'essere di
S. Tommaso in una l: L'essere comune, Roma, Città del Vaticano 1995, pp. 21 ss.
prospettiva storica.
Tommaso d'Aquino
503
speculazione (quaedam speculebiliunz) dipenperciò non possono esistere se non nella materia. E tra questi si può procedere a un'ulteriore distinzione. Alcuni infatti dipendono dalla materia secondo l'essere e secondo il concetto, e sono quelli nella cui definizione si pone la materia sensibile, senza di cui non possono essere compresi, così come, ad esempio, nella definizione dell'uomo è necessario porre la carne e le ossa: di tali oggetti si occupa la fisica 0 scienza naturale. Altri invece, quantunque dipendano dalla materia secondo l'essere, non ne dipendono invece secondo il concetto, poiché nella loro definizione «Alcuni
degli oggetti
di
dono dalla materia secondo il loro essere,
non
si pone la materia sensibile, come nei casi della linea e del
nume—
si occupa la matematica. Altri speculabili infine non dipendono dalla materia secondo l'essere, perché possono esistere senza materia, sia che non esistano mai nella materia, come Dio e l'angelo, sia che esistano nella materia in alcuni casi e in altri no, come la sostanza, la qualità, l'ente, la potenza, l'atto, l'uno e i molti e così via; e di tutti questi speculabilisi occupa la teologia, cioè la scienza divina, perché il principale oggetto di conoscenza in essa è Dio. E con altro nome essa viene chiamata anche fisica, cioè "al di là della fisica" (trans physicam), perché essa può essere appresa da noi che siamo costretti a pervenire a ciò che non è sensibile a partire da ciò che è sensibile dopo la fisica; e viene chiamata anche filosofia prima, in quanto tutte le altre scienze, ricevendo da essa i loro principi, vengono dopo di essa>>23 r0; e di
tali
oggetti
—
-
designare l'operazione con cui l'intelletto della metafisica l'oggetto adopera il termine separazione (sepail abstractio riserva termine ratio) e per gli oggetti della matematica e della fisica: «Nellbperazione dell'intelletto si ritrova una triplice distinzione: una secondo l'operazione dell'intelletto componente e dividente, Talvolta S. Tommaso per
conosce
che
può
essere
chiamata
separazione (separatio) in
compete alla scienza divina o metafisica; un'altra
proprio e che secondo l'operazione senso
quiddità delle cose e che consiste nella astrazione materia sensibile ed è quella che compete alla matematica; la terza, secondo la stessa operazione, consiste nell'astrazione dell'universale dal particolare, ed è quella che compete anche alla fisica, ed è comune a tutte le scienze, dal momento che in ogni con
cui si formano le
(abstractio) della forma dalla
scienza Viene lasciato da parte ciò che è accidentale e viene preso in considerazione ciò che è per sé».29
23) De Trinitate, q. 5, a. 1. 29) Ibid., a. 3.
504
Parte seconda
A dire il vero, in metafisica l'intelletto opera in tutti e due i modi: l'ente in quanto ente è raggiunto per via di astrazione, invece le sostanze separate e immateriali sono colte per via di separazione che è frutto del giudizio. L’astrazione scopre l'oggetto formale della metafisica; la separazione attinge gli oggetti derivati dalla indagine metafisica. La necessità della metafisica e la nobiltà del suo oggetto assicurano a questa scienza una serie di caratteristiche che la distinguono da tutte le altre, e cioè: 1) la metafisica è aperta a tutto lo scibile, giacché i suoi principi, essendo universalissimi, influiscono su tutto l'umano sapere; 2) tratta i problemi più alti e più dzfiicili, per la semplice ragione che sono massimamente astratti dai sensi e dalla materia; 3) perviene a una maggiore certezza, appunto perché discende da principi assolutamente certi; 4) è tra tutte le scienze la più dottrinale, perché scruta le cause più profonde ed universali della realtà; 5) è tra tutte la più intellettuale, perché il campo del suo scibileè il più elevato e il più puro; 6) è, per conseguenza, regolatriee e direttrice di tutte le altre in funzione del suo altissimo fine, il quale è costituito dalla prima causa che muove tutte le altre, da cui dipende il conoscere, l'agire e le artifiO «Da quanto si è detto conclude S. Tommaso appare che l'appellativo di sapienza compete al sapere metafisico, a questa scienza teoretica, cioè speculativa dei primi principi e delle prime cause».31 Qui possiamo aggiungere un'ulteriore nota che caratterizza la metafisica di S. Tommaso: ‘e la nota della esistenzialità, su cui hanno posto giustamente l'accento Gilson e Maritain. Anche i metafisici greci ed arabi avevano assegnato alla metafisica il compito di trovare la causa o ragione ultima del reale esperito nel mondo sensibile, ma tale ragione veniva poi da loro riposta nell'ordine delle pure essenze (le idee di Platone, le forme di Aristotele e i possibili di Avicenna). S. Tommaso sposta il suo sguardo dalle essenze all'essere; così gli esistenti trovano la loro spiegazione nell'essere. Sta qui anche la ragione più profonda della differenza della metafisica dalla fisica o dalla -
—
matematica. Queste ultime due sono discipline essenzialistiche, che spiegano le strutture delle cose, invece la metafisica ha un obiettivo esistenziale: Cerca la ragione d'essere degli esistenti (del Dasein, come dice I-Ieidegger) e la scopre nell'Esse ipsum. Oltre che dell'oggetto e delle proprietà della metafisica S. Tommaso si è occupato anche del suo metodo e lo ha fatto con straordinario acume nella Questione VI del suo Commento al ”De Trinitate" di Boezio}?
3°) Cf. In l Metaph. lect. 2, nn. 36-50. 31) Ibid. n. 51. 32) Per una buona visione d'insieme di tale questione si veda G. MAZZOTTA, Forza c debolezza del pensiero. Commento al De Trinitate di Boezio, Messina 1996, pp. 66-75.
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S. Tommaso osserva anzitutto che le scienze speculative (matematica, fisica e metafisica) Oltre che oggetti distinti hanno anche metodi diversi, e per definirli ricorre alla terminologia di Boezio: «In rzaturalibus igitur rationabiliter,in maihemuticis disciplinaliter, in divinis intellectualiter versari oportebit (Pertanto nelle scienze naturali occorre usare il metodo razionale, nelle matematiche il metodo dell'apprendimento, nelle divine il metodo intellettuale)».33 Resta difficileidentificare che cosa abbia voluto intendere Boezio con questi termini. La traduzione qui proposta (ratioriabitibercon ”metodo
razionale", disciplinaliter con ”metodo dell'apprendimento” e intellectua-
liter con "metodo intellettuale”) ha bisogno di qualche chiarificazione lessicale per capire le soluzioni di S. Tommaso. l termini ratio e intellectus, che identificano rispettivamente i metodi cui fanno capo la filosofia della natura e la metafisica, non designano due distinte potenze spirituali, bensì due diversi procedimenti della intelligenza umana. Infatti «nell'uomo si identificano la ratio e l'intellettus».34 La ratio procede discorsivamente, ragionando, da una conoscenza all'altra, dal noto allîgnoto. Uintellectus invece procede intuitivamente e non discorsivamente, cogliendo immediatamente la verità delle cose. La ratio di S. Tommaso corrisponde sostanzialmente allepisteme di Aristotele; mentre Fintellectus corrisponde al nous. Il termine disciplina che definisce il metodo della matematica deriva dal verbo latino discere, equivalente al greco mathein, donde anche "matematica”.I due verbi tanto in greco quanto in latino hanno il medesimo significato di imparare, «ricevere la scienza da un altro», come qui precisa lo stesso Tommaso. La comune radice semantica induce a tradurre disciplinaliter con "apprendimento sistematico" anche perché procedere per apprendimento sistematico porta a quella conoscenza certa che solitamente ”si chiama scienza". Nell'articolo primo della VI Questione S. Tommaso spiega i tre metodi delle discipline speculative: fisica, matematica e metafisica. La fisica o filosofia della natura pratica il metodo razionale: la ragione assumendo come elementi di partenza del suo argomentare i dati sensitivi, che rispetto a noi sono più evidenti, procede verso la compren—
33) 34)
-
L. Orbetello traduce: «Siamo dunque necessitati a usare nella filosofia naturale il metodo razionale, nella matematica quello dimostrativo, nella teologia quello intellettuale» (BOEZIO, La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici, tr. L. Orbetello, Milano 1979, p. 362). «Il ragionamento sta all’inte1lezione come il movimento sta al riposo 0 come Pacquisizionesta al possesso... Nell'uomo si identificano la ragione e Yintelletto» (S. Th. I, 79, 8). Cf. l. PEGHAIRE, lntellectus et ratio selon St. ‘Thomas d’Aquin, ParisOttawa 1936.
506
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sione dell'essenza delle cose materiali; inoltre, sempre discorsivamente, passa dalla conoscenza di una cosa a un'altra, fino a farsi un quadro generale del mondo fisico. Poiché le cose considerate dalla fisica sono legate alla materia e al movimento, le sue conclusioni sono meno certe e meno stabili di quelle della matematica, ed allo stesso tempo la sua ricerca
risulta più difficile.
Trattando della matematica S. Tommaso più che il suo metodo, che egli qualifica come disciplinaliter, in quanto particolarmente adatto all'apprendimento e all'insegnamento, ci illustra le sue qualità, che la rendono a un tempo più certa, più sicura e più facilesia della filosofia della natura sia della scienza divina. Ecco il ragionamento dell'Angelico: «La matematica ‘e intermedia tra la scienza naturale e quella divina, e più certa di entrambe. E più certa di quella naturale per il fatto che la sua considerazione prescinde dal movimento e dalla materia (...). Il procedimento della matematica è inoltre più certo di quello della scienza divina, perché ciò su cui verte la scienza divina è più lontano dai sensi (da cui trae origine la nostra conoscenza) sia per quel che riguarda le sostanze separate, alla cui conoscenza ciò che ricaviamo dalle sostanze sensibili contribuisce in modo insufficiente, sia per quel che riguarda gli aspetti comuni a tutti gli enti, che sono i più universali e così anche i più lontani dai particolari che cadono sotto i sensi. Gli stessi enti matematici (come la linea, la figura, il numero e altro del genere) cadono invece sotto i sensi e sono disponibili alla immaginazione e perciò l'intelletto umano può ricavare dai fantasmi la loro conoscenza con maggiore facilità e con maggiore certezza di quelle che è possibileottenere nel conoscere una intelligenza, o anche
quiddità di una sostanza, Patto, la potenza o altro del genere. E così appare chiaro che la considerazione matematica (mathematica consideratio) ‘e più facile e più certa di quella naturale e di quella teologica e in misura ancora maggiore delle altre scienze operative; ed è per questo che si dice che ad essa soprattutto compete i} procede in modo conforme alla disciplina scientifica (disciplinaliter procedere)».
la
della sublimità dell'oggetto della sua indagine la metafisica deve praticare un metodo più elaborato di quelli impiegati dalla fisica e dalla matematica. Il suo è un metodo complesso: è sia discorsivo (collegato alla ratio) sia intellettivo (collegato allfintellectus). Esso abbraccia due momenti a cui S. Tommaso dà il nome di resolutio e compositio. Nel momento della resolutio, o momento ascendente, la ratio esaminando gli effetti, sale verso Yintellectus dei principi. Nel momento della cornpositio, o momento discendente, lînfellectus dalla contemplazione dei principi muove verso Tesplicitazionedegli effetti. Data la duplicità dell'oggetto della metafisica, le sostanze separate e l'ente in quanto ente, vi sono anche due diverse resolutiones: «Il fine ultimo del A
causa
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507
processo risolutivo in questa vita si raggiunge quando si arriva alle cause supreme e più semplici, che sono le sostanze separate (...). L'ultimo termine del processo risolutivo in questa vita è 10 studio dell'ente e delle proprietà dell'ente in quanto tale». Nell'articolo secondo della Vl Questione S. Tommaso fornisce ulteriori precisazioni intorno al metodo della metafisica, mostrando ancora una volta che per lui questa è una scienza molto concreta, che non tralascia la realtà empirica per attingere direttamente le cause supreme dell'universo: essa procede dal basso. Al pari della fisica e della matematica, i suoi primi dati sono le cose di questo mondo, le quali vengono colte anzitutto dai sensi e dalla fantasia. Senza le immagini sensibilil'intelletto agente non compie nessuna operazione. La conoscenza umana infatti inizia nei sensi: la fantasia raccoglie le apprensioni sensibili e le offre alla elaborazione intellettuale. «Chi neglige i sensi nelle cose naturali cade in errore». Questo accade all'iniziodel processo conoscitivo che sta appunto nell'apprensione sensibile. Il compimento o il termine della conoscenza invece si ha nel giudizio. Pertanto anche il metafisico usa i sensi e l'immaginazione come fonte di conoscenza; anzi muove sempre dal dato offerto dai sensi e dalla immaginazione, ma lo sottopone subito a una triplice purificazione: <
Parte seconda
508
forza e la debolezza della umana ragione, ma pure additando la sua destinazione a un compimento inatteso che ”cuore di uomo" mai riuscirà e presentire>>fi5 La costante e chiara distinzione che S. Tommaso pone fra lo studio dell'ente in quanto ente e lo studio delle cause prime e delle sostanze separate sta a significare che per il Dottore Angelico ontologia e teologia naturale non sono la stessa cosa, ma non sono neanche due discipline distinte, bensì due momenti di un'unica scienza, la metafisica. Essa è ricerca del fondamento, ossia di ciò che spiega esaurientemente l'ente, il reale, tutto il reale. Perciò, se si deve fare un'opzione, la metafisica va definita come ricerca delle cause ultime. Più che ontologia la metafisica è eziologia, esattamente come afferma Aristotele nel primo libro della Me-
tafisica.
Il cardine della metafisica di S. Tommaso:
il concetto forte di essere Nella sua definizione dell'oggetto, delle proprietà e del metodo della metafisica S. Tommaso ricalca sempre da vicino le posizioni di Aristotele. Eppure poi, di fatto, egli costruisce un edificio nuovo molto diverso da quello dello Stagirita, in cui incorpora materiali platonici, procliani, pseudo-dionisiani, boeziani, e avicenniani e che ridisegna da capo a fondo, secondo un nuovo impianto speculativo. Ora ci domandiamo: da dove viene la novità del sistema teoretico di S. Tommaso, l'idea che rinnova tutto il discorso della sua metafisica e le sue stesse conclusioni? Abbiamo già più volte anticipato che ciò che consente a S. Tommaso di rielaborare una nuova metafisica è il suo nuovo concetto di essere,
più come esse Commune, una perfezione minima, universale, ma inteso come actus, e pertanto come perfezione massima e radice di ogni altra perfezione in qualsiasi ordine di cose. inteso
non
comune a
tutte le cose,
grande svolta metafisica di S. Tommaso. Su questo punto di capitale importanza dobbiamo insistere, perché è stato ignorato da molQui
sta la
tissimi interpreti di S. Tommaso e che non è stato ben compreso neppure dai più recenti studiosi della sua metafisica. Andiamo quindi a verificare quanto sia nuovo e ricco il linguaggio di S. Tommaso quando parla
dell'essere.
35)
G. MAZZOTTA,0p. cit, p. 75.
Tommaso d ‘Aquino
509
L'asse IPSUM S. Tommaso sapeva molto bene che normalmente l'essere viene concepito come esse commune o esse universale, che è l’«esse quo quaelibet res formaliter est (essere per cui qualsiasi cosa è formalmente)».36 Questo è il primo concetto che noi ci formiamo dell'essere dell'ente e per questo motivo l'indagine metafisica può assumerlo come punto di partenza della sua ricerca intorno all'essere dell'ente. Ma ben presto egli ebbe la felice intuizione che, l'asse commune, questo concetto vago, indeterminato, un supergenere che abbraccia tutti gli altri generi non è in grado di
riempire le cose della perfezione che esse posseggono Questo ruolo può essere svolto soltanto da un concetto forte dell'essere, dall'essere inteso intensivamente, cioè come attualità di ogni atto e come nucleo di ogni perfezione.
ricerca metafisica, scrutando attentamente l'essere dell'ente, S. Tommaso si avvede (ed è questa la sua grandissima, originalissima
Nella
sua
intuizione) dell’assolut0 valore che compete alla perfezione dell'essere, egli percepisce con estrema chiarezza ciò che era appena stato sfiorato dall'intuito di Pannenide, che cioè nell'essere sta la radice di ogni realtà, l'attualità di ogni atto, il plesso di ogni perfezione. Ecco come Tommaso canta la perfezione dell'essere
che ha abbagliato la sua mente: «fra tutte le
l'essere è la più perfetta (esse est inter omnia perfectissimum)».37 «L'essere stesso possiede tutte le perfezioni (esse ipsum habet omnes perfecti0nes)».38 «All'essere non si può aggiungere nulla che gli sia estraneo, poiché nulla gli è estraneo tranne il non-essere, il quale non può essere né forma né materia».39 «L'essere è più nobiledi tutte le cose che accompagnano l'essere; perciò in assoluto è più nobileanche del conoscere, se pure fosse possibileconcepire il conoscere senza l'essere. Perciò ciò che sta più in alto nell'ordine dell'essere sta più in alto anche in qualsiasi altro ordine».40 «Ciò che in qualsiasi effetto è maggiormente perfetto è l'essere; qualsiasi natura o forma acquista perfezione per il fatto che è dotata dell'atto dell'essere».41 «L'essere è l'atto dell'ente (...) come il brillare è l'atto di ciò che brilla».42 «L'essere è l'attualità di ogni atto e quindi la perfezione di ogni perfezi0ne».43 «La nobiltàdi ogni cosa dipende dal suo essere»,44 cose
36) De ente et essentia, C. 6. 37) De poi‘. 7, 2 ad 9. 33) De ente et essentia, c. 6. 39) De pot. 2, 2 ad 9. 4") In I Scnt. 17, l, 2 ad 3. 4‘) C. G. lll, 56. 42) lnlSenL19, 2, 2. 43) De 17015.2, 2 ad 9. 44) C. G. 1,36.
510
Parte seconda
L'essere concepito in modo forte, intensivamente, come lo concepisce S. Tommaso, è la radice di tutto, è ciò per cui ogni cosa è in atto tutto quello che è. Di conseguenza l'essere non è una perfezione minima, né una perfezione particolare, ma è perfezione massima, è perfezione assoluta. Questa gli appartiene perché l'essere è l'atto supremo, l'atto di ogni attuazione, la forma di tutte le forme: «maximeformale omnium est ipsum esse (ciò che è massimamente formale rispetto a ogni cosa è l’essere)».45 «L'atto primo è l'essere sussistente per conto proprio. Perciò ogni cosa riceve l'ultimo completamento (completionem) mediante la partecipazione all'essere. Quindi l'essere è il completamento di ogni forma. Infatti la forma arriva alla completezza solo quando ha l'essere, e ha l'essere solo quando è in atto. Sicché non esiste nessuna forma se non mediante l'essere (nulla forma est nisi per esse). Per questo affermo che l'essere sostanziale di una cosa non è un accidente (come affermava Avicenna), ma è l'attualità di ogni forma esistente (actualitas cuiuslìbetformae existentis), sia che si tratti di una forma dotata di materia oppure no».46 E così non vi è dubbio che «tra tutte le cose l'essere è la più perfetta, perché a tutte le cose si trova rapportata come atto (comparatur enim ad omnia ut actus). Niente infatti possiede attualità se non in quanto è: perciò l'essere stesso è l'attualità di tutte le cose, anche delle stesse forme. Quindi esso non sta in rapporto alle altre cose come il ricevente al ricevuto, ma piuttosto come il ricevuto al ricevente. Infatti, se di un uomo, di un cavallo o di qualsiasi altra cosa dico che è, l'essere stesso rispetto ad essa è considerato come principio formale e come elemento ricevuto, non come una realtà cui compete l'essere (illud cui competit esse)».47 In conclusione, come argomenta splendidamente Tommaso in un celebre testo del De potentia di cui abbiamo già riferito alcuni frammenti,
Ciò risulta dal fatto che l'at«tra tutte le cose l'essere è la più forma della potenza. Ora to è sempre più re si trova in atto soltanto se le si aggiunge l'essere. Infatti l'umanità o
perfetto
perfetta.
qualsiasi
particola-
Pigneità possono considerarsi come esistenti o nella potenza della materia, 0 nella capacità dell'agente oppure nella mente: invece ciò che ha l'essere (cioè l'ente) è esistente in atto. Conseguentemente ciò che chiamo essere (quod dico esse) ‘e l'attualità d'ogni atto e quindi la perfezione di qualsiasi perfezione. Né si deve pensare che all'essere si possa aggiungere qualche cosa di più formale, che lo determini come l'atto determina la potenza, perché l'essere di cui stiamo parlando è essenzialmente (secundum essentiam) differente dall'essere (comune) a 45) s. Th. 1, 7, 1. 46) Qu0dl.12,5,1. 47) s. Th. 1, 4, 1 ad 3.
Tommaso d'Aquino
511
cui si possono fare delle aggiunte. Infatti nulla si può aggiungere che gli sia estraneo, perché all'essere nulla è estraneo eccetto il non essere, che però non è né forma né materia. Quindi l'essere non viene determinato da qualche cosa come la potenza dall'atto, ma viceversa come
l'atto dalla potenzamfl‘
A questo punto anche se può sembrare una osservazione superflua Vale forse la pena notare che la perfezione assoluta che compete all'essere inteso intensivamente non è come in tutti gli altri casi una perfezione possibilebensì una perfezione attuale. Mentre ogni altra perfezione può considerarsi indifferentemente come esistente 0 come non esistente, come reale 0 come possibile, la perfezione dell'essere invece non si può concepire che come essente, come reale, come attuale: l'essere è e non può non essere. La nozione di ogni altra perfezione è logicamente perfetta anche se la perfezione viene considerata nello stato di possibilità. Invece la nozione dell'essere viene logicamente cambiata e in maniera radicale se per essere non si intende l'attualità di ogni atto, ma semplicemente la condizione della possibilitàdi una cosa; allora si perde il concetto intensivo di essere e si cade nell'esse commune, nell'essere concepito come genere generalissimo suscettibiledi tutte le aggiunge o addizioni possibili. L'essere è veramente l'attualità di ogni forma o natura, l'atto primo e ultimo di ogni ente. È l'atto ultimo perché l'essere attua l'ente che esso presuppone logicamente costituito nella sua concreta singolarità (la quale abbraccia sia i principi sostanziali che accidentali); quindi, nell'ordine formale, esso Viene per ultimo e col suo sopravvenire pone in atto tutto quanto entra nella costituzione dell'ente e che prima del suo avvento era ancora rinchiuso nel regno del non essere. L'essere è inoltre atto primo, perché l'ente acquista attualità proprio grazie all'essere. L'essere sta quindi al fondo della realtà dell'ente e la sostiene in tutti i suoi momenti, modalità e forme. L'essere è veramente la perfezione assoluta, la radice di ogni altra perfezione. Infatti spetta all'essere non soltanto di costituire gli enti nell'ordine degli essenti ma anche di dar loro tutto ciò che hanno come realtà esistenti. L'essere è quindi ciò che c'è di più perfetto in realtà, anzi è il fondamento e il completamento di tutte le perfezioni, le quali si rivelano così come partecipazioni all'essere, come sue facciate. Nella linea ontologica l'essere è anche il supremo valore: è l'essere che conferisce realtà a ogni altro valore. Ueccellenza dell'essere risulta proprio da questo fatto che mentre nessun'altra perfezione e nessun altro valore sono -
45)
De pot. 7, 2 ad 9.
—
512
Parte seconda
concepibilicome effettivi, cioè reali senza che partecipino all'essere, l'essere, invece, ‘e concepibileanche senza che partecipi ad altre perfezioni: è concepibilea sé stante. Infine l'essere, come afferma Tommaso è ciò che nelle cose è maggiormente intimo e profondi): «nell’ente l'elemento più intimo è l'essere; dopo l'essere (rispetto all'intimità) viene la forma, grazie alla cui mediazione l'ente possiede l'essere; infine viene la materia, che pur costituen-
do il fondamento (fundamentum) della cosa, si trova tuttavia più distante dall'essere della cosa di qualsiasi altro elemento>>.49 Nella trama costitutiva dell'ente, nel suo sviluppo e nel suo completamento tutto procede dall'essere: l'ente si forma grazie all'essere, si muove nell'essere e fa ritorno all'essere. Questo e il concetto che Tommaso ha dell'essere ed è questo concetto di essere che costituisce per lui l'oggetto della metafisica. Si tratta di un concetto nuovo del tutto sconosciuto ai filosofi greci e totalmente disatteso dai filosofi moderni. Al concetto intensivo di essere i greci non arrivarono di fatto ma non potevano neppure arrivare perché a loro mancava tanto la concezione dell'essere quanto del nulla nel loro significato radicale. In effetti, nella filosofia greca il nulla è sempre qualche cosa (la materia, il caos, il vuoto), e l'essere non è mai concepito come perfezione suprema (se si eccettua Parmenìde). Colpiti dal fenomeno del divenire della realtà circostante, i filosofi greci si sono preoccupati di trovare una spiegazione di questo divenire, senza spingersi oltre. Invece Tommaso, più che dal divenire è impressionato dall'essere e vede in esso l'unica vera spiegazione dell'ente in tutte le sue manifestazioni, sia di quelle mutevoli sia dì quelle permanenti. «L'atto ultimo è l'essere sentenzia l’Aquinate -, ed essendo il divenire un passaggio dalla potenza all'atto, è necessario che l'essere sia l'ultimo atto verso cui tende qualsiasi divenire, e poiché il divenire naturale tende verso ciò che naturalmente si desidera, occorre che esso, l'essere, sia l'atto ultimo cui ogni cosa anela».50 S. Tommaso, che conosce la storia della filosofia in modo abbastanza approssimativo, ha tuttavia un'idea precisa delle tappe del pensiero che hanno condotto progressivamente alla scoperta dell'essere. Le tappe -
principali sono tre: a) La prima è quella dei presocratici: «Essendo, per cosi dire, piuttosto grossolani, essi credevano che non esistessero altro che corpi sensibili. Quelli che
tra essi accettavano il moto
non
lo consideravano che sotto
certi aspetti accidentali, come sarebbe la rarefazione e la condensazione,
49) De nm‘. accid. c. 1. 50) Comp. Theol. l, c. 11, n. 21.
Tommaso d'Aquino
513
l'associazione e la dissociazione. E supponendo che la sostanza stessa dei corpi fosse increata, si limìtarono a stabilire delle cause per codeste trasformazioni accidentali, quali l'amicizia, la lite, l'intelligenza o altre cose del genere» (S. Th. I, 44, 2). b) La seconda tappa è quella conseguita da Platone e Aristotele: «Essi distinsero razionalmente la forma sostanziale dalla materia che ritenevano increata; e capirono che nei corpi avvengono delle trasformazioni di forme sostanziali. Di queste trasformazioni stabilironodelle cause universali, cioè il circolo obliquo per Aristotele e le Idee per Platone (...). Tuttavia entrambi considerarono l'ente sotto un aspetto particolare (atrique igitur consideraverunt ens particulari quadam consideratione) o in quanto appartenente a una determinata specie o in quanto determinato dai suoi accidenti. Quindi essi assegnarono alle cose solamente delle cause efficienti particolari» (Ibid). C) La terza tappa è quella percorsa dallo stesso S. Tommaso (il quale, però, si guarda bene dall’attribuirsi questo merito): è la tappa che concerne la scoperta del principio unico e universale di tutte le cose, l'essere stesso. «Essendo necessario che esista un principio primo semplicissimo, il suo modo di essere non va concepito come qualcosa che partecipi all'essere, bensì come quello dell'essere sussistente stesso (quasi ipsum esse existens). E poiché l'essere sussistente non può essere che uno solo, ne consegue che tutte le altre cose che traggono origine da esso, esistano come partecipanti all'essere. Occorre pertanto una risoluzione comune per tutte le forme di divenire (accidentale, sostanziale, esistenziale), dato che tutte implicano nel loro concetto due elementi, l'essenza e l'essere. E quindi oltre al modo di divenire della materia col sopraggiungere della forma, occorre riconoscere in precedenza un'altra origine delle cose, grazie alla quale l'essere viene dato a tutto l'universo reale dall'ente primo, che si identifica con l'essere».51 La singolarità del concetto di essere era già stata rilevatada S. Agostino quando aveva notato che Dio l'aveva scelto come suo nome proprio, ma nella speculazione dell'lpponate non c'è ancora la scoperta della densità semantica dell'esse e tanto meno una filosofia dell'essere. Questo passo l'ha compiuto l’Aquinate scrutando l'ente non soltanto sotto qualche aspetto particolare (i suoi rapporti con l'essenza, con la sostanza, con gli accidenti, con la materia, con la forma ecc.) ma proprio in quanto ente, ossia in quanto partecipe della perfezione dell'essere (essendo l'ente ciò che ha l'essere). Fu proprio in quel momento che egli colse il valore singolarissimo dell'essere: che è solo l'essere a fare dell'ente qualche
51)
De sub. sep.
c.
9, n. 94.
514
Parte seconda
di reale, di attuale; che è solo l'essere a conferire attualità, nobiltà, perfezione, dinamismo all'ente. In conclusione, fu una più attenta e più accurata indagine dell'ente in direzione dell'essere a condurre S. Tommaso alla scoperta del concetto intensivo di essere e a metterlo alia base del suo edificio metafisico. cosa
LA
CONOSCENZA
DELUESSERE
S. Tommaso distingue due concetti di essere, quello più astratto e più generico, e quello intensivo che è il concetto più concreto e più determinato in quanto abbraccia tutte le determinazioni (tutte le determinazioni in assoluto quando si tratta dell'asse per essentiam; tutte le determinazioni di un ente particolare, quando si tratta di un esse per participationem). Il concetto comune, generico, sta alla base di tutta la conoscenza ed entra nell’apprensione di ogni altra idea; ma per quanto primario e immediato, neppure il concetto di esse conzmune, nella gnoseologia di S. Tom-
Sappiamo che
comune
che è il concetto
colto intuitivamente, perché l'Aquinate esclude nella qualsiasi forma di intuizioneintellettiva: tutta la conodeve intellettiva scenza passare attraverso i ”fantasrni" che a loro volta raccolgono i dati dei sensi esterni; perciò tutto quanto l'intelletto conosce, anche l'idea elementarissima di essere e di ente, è il risultato del procedimento astrattivo. Certo nel caso dell'esse commune e dell'ens si tratta di un’astrazione peculiare che viene chiamata astrazione precisiva in quanto non esclude ulteriori determinazioni ma soltanto prescinde da esse. Ma al concetto intensivo di essere che è più ricco, più denso, più elevato di tutti gli altri concetti come si arriva? In quanto è un concetto che è ricavato dagli enti ma che allo stesso tempo oltrepassa tutte le limitazioni e determinazioni degli enti stessi, si deve dire che è il frutto sia di un processo astrattivo sia di un processo riflessivo, in altre parole di un processo altamente speculativo. Riflettendo sugli enti, su ciò che li costituisce come enti, ma che non si lascia mai catturare dagli enti, perché tutte le essenze sono ricettacoli troppo piccoli per abbracciarlo interamente, è necessario lasciare in disparte gli enti (le loro qualità, la loro sostanza, la loro forma, la loro essenza) e andare oltre gli enti stessi: verso lesse nella pienezza e ricchezza del suo infinito dominio. «Il percorso da fare qui è caratterizzato da un approfondimento progressivo d'atto in atto, dall'atto accidentale all'atto sostanziale, e dall'atto formale a1l'esse autentico che è Yactus essendi, atto ultimo» (C. FABRo). Si tratta di quel processo astrattivo-risolutivo che corrisponde al terzo grado di astrazione, che è il procedimento proprio della metafisica. maso,
può essere
conoscenza umana
Tommaso d ‘Aquino
515
Che tale sia il percorso che segue la nostra intelligenza quando va alla conquista del concetto intensivo dell'essere, S. Tommaso non lo dice mai esplicitamente, e questo giustifica la notevole varietà di opinioni tra i tomisti su questo argomento. Tuttavia che tale sia l'insegnamento dell'Angelico lo si può evincere da testi come i seguenti: «Uintelletto umano non acquista subito alla prima apprensione una conoscenza perfetta dell'oggetto; ma da principio ne percepisce un aspetto, mettiamo l'essenza, che è l'oggetto primario e proprio dell'intelligenza, e in seguito conosce le proprietà, gli accidenti e le relazioni che ricoprono la quiddità. Si trova così costretto
a
raffrontare e
a
contrapporre, a comporre e a scomporre e
composizione divisione a ulteriori composizioni 0 diviragionarewî Quando noi cerchiamo di farci un'idea di Dio, «anzitutto noi escludiamo da lui tutto ciò che è corporeo; poi quanto è spirituale o mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature viventi, come per es., bontà e sapienza. Allora resta nella nostra
passare da
sioni, cioè
una
o
a
mente soltanto la verità che Dio è, e nulla più. Infine eliminiamo anche l'idea dello stesso essere, così come tale idea si trova nelle crearure».53 Pertanto l'essere in senso intensivo non è il risultato di un’intuizione (come vuole Maritain) ma neppure di un giudizio (come sostiene Gilson), bensì di un laborioso processo speculativo che implica senz'altro sia giudizi sia ragionamenti. Il processo si conclude con l'acquisizione di un "concetto" singolare per il quale può essere valida la denominazione di concetto riflessivo (mentre quello dell'essere comune è un concetto
precisivo).
Molti studiosi di S. Tommaso sostengono che l'esse è oggetto del giudizio e a sostegno di questa tesi possono addurre numerosi testi dell'Angelic0, in cui si ripete regolarmente che l'oggetto della prima operazione della mente (l'apprensione) è l'essenza o quiddità della cosa; mentre l'oggetto della seconda (il giudizio) è l'essere della cosa (esse rei): «Prima quidem operatio respicit ipsam naturam rei (m). Secunda operatio respicit ipsum esse reì>>.54 Ma, a nostro avviso, è necessario distinguere tra l'espressione dell'essere e la sua apprensione. Certo, l'espressione generalmente avviene nel giudizio: è il giudizio che rispecchia l'actus esserzdi e non la definizione. Ma l'elaborazione del concetto intensivo dell'essere non è frutto del giudizio, quanto di una lunga e laboriosa riflessione comparativa e risolutiva.55
52) S. Th. l, 85, 5. 53) ISent. 8, 1, 1, ad 4.
54) 55)
In De Trim, lect. 2, q. 1, a. 3; Cf. l Sent, 38, 1, 3; De ver., 1, 9; S. Th. I, 14, 2, ad 1. Cf. B. MONDIN, La conoscenza dell'essere in Fabro e Gilson, in «Euntes docete» 50 (1997), pp. 85-115.
516
I
Parte seconda
principi primi della metafisica
Ogni scienza si caratterizza oltre che attraverso il proprio oggetto formale anche mediante una serie di principi o postulati, i quali le consentono di procedere all'analisi di tale oggetto. Abbiamovisto che una delle ragioni per cui la metafisica merita il titolo di reggitrice di tutte le scienze è che essa sola è in grado di fondare, giustificandoli,i principi che le altre scienze presuppongono e che non dimostrano.
Quali sono i principi che tutte le scienze presuppongono e di cui necessita anche la metafisica, sulla quale ricade l'onere di provarne la validità? Di alcuni principi, in particolare quello di non contraddizione, si era già occupato Aristotele nel IV libro della Metafisica dove egli aveva dimostrato Yinconfutabilitàdi questo principio cardine non solo della logica ma anche della fisica, della metafisica e della morale. Ma ci sono anche altri principi, che lo stesso Aristotele riconosce, pur non analizzandoli sistematicamente, che sono indispensabilisia alle scienze della natura sia alla metafisica. Tali sono i principi di causalità, di ragione sufficiente e di finalità. Anche in S. Tommaso non si incontra nessuna trattazione sistematica sui principi primi della metafisica. Ma ritengo che nel suo elenco (se ce lo avesse fornito) dovrebbero rientrare quei principi ai quali egli ricorre più spesso nella elaborazione delle sue argomentazioni metafisiche, e cioè: identità dell'essere con se stesso: l'essere è l'essere; non contraddittorietà dell'essere: l’essere non può essere e non essere allo stesso tempo; efficienza dell'essere: l’essere è la causa prima di tutto ciò che è; analogia: l'essere genera effetti che necessariamente gli rassomìgliano; finalismo o teleologia: l'essere e il fine ultimo d'ogni azionefiò Per la formulazione di questi principi fondamentali della metafisica dell'essere, generalmente Tommaso non adopera il linguaggio dell'essere, ma le formule in uso al suo tempo tratte dal linguaggio platonico oppure da quello aristotelico. Questa mancanza di una formulazione esplicita nel linguaggio dell'essere si spiega agevolmente: essa è dovuta alla carenza di una elaborazione sistematica da parte di S. Tommaso di tutto il Vasto tessuto della sua metafisica dell'essere. Ma l'incertezza del linguaggio non deve in nessun modo offuscare il carattere squisitamente ontologico (cioè di riferimento all'essere) che i suddetti principi assumono nel suo sistema e, in più, il ruolo fondamentale che S. Tommaso asse56)
Cf. H. REITH, The Metaphysics of St. Thomas Aquinas, Milwaukee1958, pp. 141-171.
Tommaso d'Aquino
517
legge attentamente le opere deIYAquinate non può sfuggire l’importanza che egli attribuisce ai principi di identità, di noncontraddizione, di causalità, di analogia e di teleologia dell'essere. Nel suo sistema questi principi svolgono il ruolo di quei ”postulati di base” che ogni scienza assume per dare rigore allo studio del proprio oggetto. Solo che per Tommaso non si tratta semplicemente di postulati convengna ad essi. A chi
zionali come per i costruttori dei sistemi della fisica o della matematica bensì di verità primarie, di principi primi, assoluti dell'essere stesso; allbccasionc, S. Tommaso adduce argomenti di vario genere, onde accreditare l'assoluto Valore di tali principi. Così, a proposito del principio di non contraddizione del quale tra l'altro dà una formulazione che quadra perfettamente con le categorie della filosofia dell'essere, dicendo che è il principio secondo cui «impossibileest esse et non esse simul (per una cosa è impossibile essere e non essere simultaneamente)» dopo avere spiegato che «è il principio naturalmente primo nella seconda operazione dell'intelletto, cioè nel giudizio»,57 perché in questa operazione è impossibileapprendere alcunché senza la conoscenza di tale principio, Tommaso seguendo l'esempio di Aristotele fa vedere che anche se in se stesso non risulta dimostrabiledirettamente, in quanto non esistono ulteriori principi a cui agganciarlo, tuttavia a difesa di tale principio si possono addurre vari argomenti che provano indi» rettamente il suo indiscutibilevalore. In primo luogo, mostrando l'assurdità della pretesa di coloro che reclamano anche per questo principio una dimostrazione diretta. Perché reclamare una dimostrazione vera e propria anche per il principio di non-contraddizioneche è il primo di tutti i principi significa esporsi a un regresso all'infinito. «Ma se si retrocede all'infinito non si perviene mai alla dimostrazione, perché la conclusione di qualsiasi dimostrazione acquista certezza mediante la sua riduzione al primo principio della dimostrazione. Ma questo principio non esiste qualora la dimostrazione debba far marcia indietro all'infinito. Ma se c'è qualcosa di indimostrabilenessuno può pensare che ci sia alcunché di più indimostrabiledel suddetto principio».58 In secondo luogo, facendo vedere che coloro che negano valore al principio di non contraddizione, sostenendo che una cosa può essere e non essere simultaneamente, di fatto tuttavia lo ritengono come Valido e lo contestano soltanto a parole. Basta soltanto che pronuncino una parola sensata: per es. se piove che dicano ”piove”; pronunciando questa parola non potranno allo stesso tempo intendere dire che “non piove". -
—
-
—
57) 55)
In IV Metaph. lect. 6. lbid.
518
Parte seconda
può fare solamente nel caso che colui che mette in dubbio la validità di tale principio dica qualche cosa, ossia esprima qualche cosa a parole. Perché se non dice niente è ridicolo fornire delle spiegazioni a chi rifiuta di far uso della ragione>>.59 Anche per definire il principio di efficienza 0 causalità dell'essere
«Tuttavia
-
soggiunge acutamente S. Tommaso
-
ciò si
S. Tommaso si rifà alla classica formula di Aristotele: «quidquid movetur ab alia movetur (tutto ciò che si muove è mosso da un altro)»,60 ma gli conferisce una densità ontologica che non possedeva nell'uso dello Stagirìta. Anzitutto allargando notevolmente il suo orizzonte di applica-
zione: mentre Aristotele se ne serve per spiegare il moto, il divenire delle cose, S. Tommaso lo usa anche e soprattutto per spiegare l'origine prima, cioè l'essere delle cose. In secondo luogo modificando la prospettiva: Aristotele guarda al principio di causalità muovendo dall'effetto, mentre S. Tommaso lo guarda muovendo dalla causa. Certo il principio di causalità viene alla luce soltanto nel momento in cui viene posto in atto un effetto, per cui l'effetto è indispensabileperché si possa parlare del principio di causalità; ma non vi è dubbio che in sede ontologica la causa conta di più dell'effetto: e in effetti l'efficienza è proprietà della causa e non dell'effetto.“ Considerando il principio di causalità in rapporto all'efficienza della Causa, S. Tommaso può caricarlo di una densità ontologica del tutto nuova e straordinaria. Infatti qualcosa per essere causa deve già possedere la perfezione dell'effetto, cioè deve già essere in atto quanto comunica all'effetto. Ora nell'ordine degli atti il primo posto tocca all'essere: che è l'attualità di tutti gli atti. Per questo motivo è all'essere che compete in sommo grado anche l'efficienza.” E, di conseguenza, quanto più un ente si trova in alto nella gerarchia dell'essere, tanto più in alto si trova anche nell'ordine delle cause.“
59) lbid. 60) Ci. s. Th. 1, 2, 3. 61) «L'effetto, dunque, deve dipendere dalla causa. Ciò infatti è della ragione del-
62) 63)
l'effetto e della causa: il che appare chiaramente nelle cause formali e materiali. Infatti, tolto da qualsiasi realtà il principio formale o quello materiale, questo cessa immediatamente di essere, dal momento che tali principi entrano a costituire l'essenza della cosa. È necessario, poi, ritenere il medesimo giudizio sulle cose efficienti, e formali o materiali» (De poi‘. 5, 1). Cf. C. G. 1, 22, n. 210. Ci. s. Th. 1, 44, 1; Comp. Theol. c. 68, n. 116.
Tommaso d'Aquin0
Da
519
quanto si è detto risulta evidente che la concezione tomistica del
principio di causalità non ha nulla da spartire con la concezione che di
tale principio si sono fatte la filosofia e la scienza moderne. Da queste il principio di causalità è definito come un nesso stabile tra fenomeni che si succedono regolarmente, un nesso che può essere anche affatto soggettivo, cioè frutto della fantasia (Hume) o dell'intelletto (Kant). Invece, come abbiamo visto, S. Tommaso concepisce il principio di causalità come un nesso ontologico, il nesso che lega realmente la causa all'effetto e consente alla causa di comunicare parte della propria perfe-
zione all'effetto e viceversa all'effetto di ricevere e di assimilare la realtà, la perfezione che gli viene comunicata dalla causa. Quindi, per Tommaso, il principio opera anzitutto sul piano oggettivo dell'essere, e solo in un secondo momento viene ripreso e riconosciuto dal piano del conoscere. Come osserva lo stesso S. Tommaso non c'è perfetta coincidenza tra l'ordine genetico (che è quello ontologico) e l'ordine euristico (che è quello logico). Nell'ordine genetico viene necessariamente prima la causa e successivamente l'effetto. Per es. prima il padre e poi il figlio; prima l'elefante e poi l'impronta delle sue zampe nella sabbia. Invece nell'ordine euristico (della scoperta) l'ordine è inverso: prima si conosce qualcosa e si scopre in essa il carattere di effetto e successivamente si passa alla ricerca e alla scoperta della causa. Prima si nota l'impronta dell'elefante nella sabbia e poi si va alla ricerca dell'elefante. A ragione Hume dice che non si può arguire a priori l'emissione di un effetto da parte di una causa. Ma la presenza di un effetto esige chiaramente l'esistenza di una causa. Perciò ogniqualvolta ci accorgiamo che una data realtà non si autogiustifica dobbiamo cercare altrove la ragione della sua giustificazione. Il principio di causalità, in sede logica, è pertanto l'invito fatto alla nostra mente di ricercare la causa di una cosa che non ha in se stessa la ragione del proprio essere. Per parlare del principio di causalità S. Tommaso usa tre espressioni assai eloquenti, che connotano tre differenti funzioni della causa e illustrano la densità ontologica propria della causa efficiente. Le tre espressioni sono: creazione, comunicazione, partecipazione. Creazione significa la produzione di una cosa, di un ente, che prima non era in nessun modo, né in sé né nella potenza di un soggetto (o materia). Il termine Vuole quindi evidenziare la totale inesistenza dell'ente prima della sua produzione da parte dell'Essere sussistente; esso pone l'accento sul nulla del punto di partenza di ciò che è oggetto dell'azione creatrice. S. Tommaso mette bene in luce quesfaspetto di origine assoluta, di salto ontologico radicale dalla condizione del nulla alla condizione dell'essere che ha luogo nella creazione, nella seguente definizione: «la creazione è la produzione di qualche cosa in tutta la sua so-
520
Parte seconda
senza che di questa ci sia presupposto alcuno sia creato che in(crepitio est productio alicuius rei seczmdum totam substantìam suam nullo praesupposito, quod si vel increatunz ve! al? aliquo creatum)».64 L'effetto proprio della creazione è l'essere e questo non può essere
stanza creato
da chi già 10 possiede in maniera eminente, perfetta, cioè l’Essere sussistente stesso, che è Dio. Infatti, «quanto più universale è un effetto, tanto più elevata è la sua causa propria; perché quanto più alta è la causa, tanto maggiori sono gli effetti a cui si estende la sua Virtù. Ora l'essere è più universale del divenire, essendovi degli enti che sono immobili,a dctta anche dei filosofi,come le pietre e simili. Occorre dun-
prodotto che
che solamente opera muovendo e trasmutando, che è primo principio dell'essere», e questa non può quella causa essere che l’Essere sussistente stesso, Dio.65 Così risulta parimenti dimostrato che il primo effetto prodotto da Dio nelle cose è l'essere stesso (primus efiectus Dei in rebus est ipsum esse) perché tutti gli altri effetti lo presuppongono e su di esso si fondano. Perciò è necessario che tutto ciò che in qualche modo esiste, riceva l'essere da Dio. «Infatti in tutte le cose ordinate avviene di solito che chi e primo e ha maggior perfezione in un dato ordine, sia la Causa di tutto ciò che appartiene a quell’ordine. P. es., il fuoco a cui compete di occupare il primo posto tra tutte le cose calde, è ciò che causa il calore in tutti gli altri corpi caldi. Infatti Vimperfetto ha sempre origine dal perfetto come i semi degli animali e delle piante. Ma Dio è l'essere primo e perfettissimo; occorre perciò che sia la causa dell'essere in tutte le cose che lo posseggonmfié Comunicazione significa quel darsi spontaneo e generoso dell'essere agli enti, un darsi assolutamente straordinario perché dal darsi del donatore dipende l'esistenza stessa e tutta la realtà di colui cui viene fatto il dono: col darsi dell'essere fiorisce l'ente nel deserto del nulla.” L'appartenenza all'essere della ”virtù” della comunicazione Tommaso la stabilisce così: «Le cose esistenti in natura non solo hanno verso il loro bene l'inclinazionegenerale a cercarlo quando non lo hanno, e a riposarvisi quando lo possiedono; ma anche a effonderlo sulle altre per quanto è loro possibile. Per questo vediamo che ogni agente nella misura in cui ha attualità e perfezione tende a produrre cose a sé somiglianti. E quindi rientra nella natura della volontà (dell'essere che è somma attualità e
que che sopra la
causa
esista
64) S. Th. I, 65, 3. 65) C. G, II, 16. 56) Cump. theol. C. 68. 67) Cf. H. HAYEN, La Parigi 1957.
communication de lkître dhprès saint Thomas dfiàqufn, 4 voll.,
Tommaso d'Aquino
521
perfezione, in quanto attualità di tutti gli atti e perfezione di ogni perfezione) il comunicare agli altri, nella misura del possibile,il bene possedutonbfi Quindi se le cose in quanto sono perfette comunicano ad altre la propria bontà, a maggior ragione conviene all'essere di comunicare agli enti analogicamente, nella misura del possibile, il proprio bene. All'essere compete la virtù della comunicazione proprio perché l'essere racchiude in se stesso qualsiasi perfezione, inclusa quella della somma
bontà,
e questa è in forza della sua stessa natura diffusiva, benefica: «bonum est dzfiasivunr sai». Come si vede, il termine "comunicazione" illumina il punto di partenza dell'ente e fa vedere che esso risiede tutto nell'essere, nella sua generosa dedizione, una dedizione che non ha nulla a che vedere né con l'emanazione necessaria dei platonici, ne’ con l'alienazionedell'Assoluto degli idealisti.
Partecipazione, come suggerisce l'etimologia stessa della parola, esprime un prendere parte a qualche cosa: «est autem participare quasi partem capere>>fi9 Quindi, «quando qualche cosa riceve in maniera parziale ciò che appartiene ad altri in modo totale, si dice che ne è partecipe. Per es., si dice che l'uomo partecipa all'animalità perché non esaurisce la ragione de1l'animalità in tutta la sua estensione; per la stessa ragione si dice che Socrate partecipa all'umanità; parimenti si dice che la sostanza partecipa all’accidente, e la materia alla forma, in quanto la forma sostan-
ziale o accidentale, che, considerata in se stessa è comune a molti, viene determinata a questo o a quell'oggetto particolare; similmente si dice che l'effetto partecipa alla causa, soprattutto quando non ne adegua il potere; un esempio di questa partecipazione si ha quando si dice che l'aria partecipa alla salute del sole>>.7° Applicato all'origine degli enti il termine "partecipazione" indica quel prendere parte, quel partecipare degli enti alla perfezione dell'essere, che inizia con la comunicazione di se stesso agli enti da parte dell'essere. Pertanto, come la comunicazione non comporta nessuna alienazione, nessun calo di perfezione nell'essere, così la partecipazione, contrariamente a quanto potrebbe suggerire l'etimologia, non implica nessun frazionamento, nessuna spartizione della perfezione dell'essere tra i singoli enti. Infatti l'essere, come si è visto, è assolutamente semplice e non è suscettibile di alcuna scissione, divisione, frantumazione. Quindi, se parlando dell'origine degli enti dall'essere si ricorre al termine parteci-
68) s. Th. I, 19, 2. 69) In De Hcbdom. lect. 2, n. 24. 7”) Ibid.
522
Parte seconda
può significare ”avere una parte dell'essere”, poisono parti, ma possedere in modo "particolare", non ”limitato", ”imperfetto" quella perfezione che nell'essere (l'esse ipsum) si
pazione, questo
non
ché nell'essere trova in modo
vi
totale, illimitato, perfetto: <
in parte (particulariter) ciò che a un altro appartiene universalmente si dice che vi partecipan." L'essere in quanto perfezione di tutte le perfezioni e attualità di tutti gli atti è di diritto infinito e perciò non si può mai comportare come un partecipante (poiché i partecipanti sono sempre finiti e si trovano in condizione di potenzialità e ricettività rispetto al partecipato). «L'essere -
-
può esso stesso partecipare a nessuna cosa. Invece ciò che è, ossia l'ente partecipa all'essere, non come il più comune partecipa al meno comune, ma partecipa all'essere come il concreto partecipa all'astratto»fl La misura della partecipazione di un ente all'essere come si vedrà meglio più avanti viene definita dall'essenza. Questa svolge la triplice funzione dì ”definire" gli enti, di diversificarli e di moltiplicarli (plurrficatio). «Le cose spiega S. Tommaso non si distinguono le une dalle altre in ragione dell'essere poiché questo è comune a tutte. Se dunque differiscono realmente tra loro, bisogna o che l'essere stesso sia specificato da alcune differenze aggiunte, in maniera che cose diverse abbiano può venire partecipato dalle altre cose,
ma non
-
—
—
—
specificamente diverso, oppure che le cose differiscano perché lo stesso essere compete a nature specificamente diverse. Il primo caso è impossibile, perché all'essere non si può far aggiunta in quel modo con cui si aggiunge la differenza specifica al genere. Bisognerà allora
un essere
che le cose differiscono a cagione delle loro diverse nature o essenze, per le quali si acquista l'essere in modi diversi>>.73 «Poiché dunque tutte le forme limitano l'essere, nessuna di esse si identifica con l'essere (...). Ciascuna forma in quanto si distingue dalle altre è un modo particolare di partecipare all’essere».74 Ci resta ancora da spendere qualche parola sugli altri due principi primi dell'essere, il principio di analogia e il principio di teleologia. Della loro portata effettiva dovremo occuparci più avanti; per il momento sarà sufficiente farsi un'idea del significato e del ruolo che essi occupano nel sistema di S. Tommaso. ammettere
71) Ibid. 72) Ibid. 73) 74)
Sul senso esatto di questo testo vedi C. FABRO, Torino 1960, pp. 209 ss. SEI, C. G. l, 26. In De Hebdonz. lect. 2, n. 34. —
Partecipazione e causalità,
Tommaso d'Aquino
523
Strettamente legato al
principio di causalità il principio di analogia dice produce un effetto che in qualche misura le rassomiglia: «omne agens agit simile sibi». L'analogia, la somiglianza cioè tra effetto e causa, è una conseguenza necessaria della causalità concepita come comunicazione e come partecipazione della perfezione della causa all'effetto. Applicato all'origine delle cose il principio dell’analogia esprime
che la
causa
una certa tensione nell'essere alla riproduzione di se stesso nella figura di qualche cosa che gli rassomiglia e non nella figura dell’identico, perché un identico dell'asse ipsunz e indistinguibiledallfiesse ipsumfi Il principio di analogia chiarisce quindi a un tempo la necessità che gli enti rassomiglino all'essere, e l'impossibilitàche gli enti si identifichino con l'essere: il rapporto tra gli enti e l'essere è esattamente un rapporto di analogia, cioè di somiglianza. S. Tommaso lo spiega magistralmente parlando di Dio. Scrive l'Aquinate:
«Siccome ogni agente si prefigge di portare la sua somiglianza (similitudinem) nell'effetto nella misura in cui questa può riceverla, sarà
tanto
più perfetta questa
sua
azione, quanto più
perfetto è l'agente.
Infatti è chiaro che quanto più un oggetto è caldo, tanto maggiormente riscalda, e quanto più uno è un bravo artefice, tanto meglio eseguisce nella materia il disegno artistico. Ora Dio è un agente perfettissimo.
Quindi a lui compete imprimere perfettissimamente la sua somiper quanto è possibile a una natura creata.
glianza nelle cose create,
Ma nelle cose create non può conseguire una perfetta somiglianza con Dio mediante una sola specie di creature, perché essendo l'effetto oltrepassato dalla causa, ciò che nella causa si trova in modo semplice e unito, si ritrova nelreffetto in modo composto e molteplice; a meno che l'effetto non raggiunga la perfezione specifica della causa. Questo non può dirsi nel nostro caso, perché la creatura non può essere uguale a Dio. Bisogno dunque che nelle cose create vi fosse molteplicità e Varietà affinché vi si riscontrasse una perfetta somiglianza con Dio, secondo il loro modo».76
Il principio di teleologia presiede all'agire e dice che ogni azione si compie in vista di un fine (telos). Questo principio come il principio di analo-
gia è implicito nel principio di causalità e non fa altro che esplicitare una proprietà della causalità. Ma mentre l’analogia qualifica il nesso tra causa ed effetto dal punto di vista della somiglianza (e dice che l'ente
75) 75)
«L'essere per sé sussistente è uno solo. È dunque impossibileche oltre ad esso vi sia un qualche sussistente che sia soltanto essere (lpsum esse per se subsistens est unum tantum. lrripossibile est igitur quod praeter ipsam sit aliqaid subsistens quod sit esse
tantum)» (De sub. sep. c. 8, n. 87).
C. G. Il, 45.
524
Parte seconda
rassomiglia sempre all'essere), la teleologia stabilisce che l'essere è il fine ultimo di ogni agire: «Ogni azione e movimento sono ordinati in qualche maniera all'essere (ad esse aliquo modo ordinari); sia allo scopo che esso venga conservato nella specie 0 nellîndividuo, oppure perché venga acquistato di nuovo»? Infatti «l'atto ultimo è l'essere, ed essendo
passaggio dalla potenza all'atto, è necessario che l'essere sia l'ultimo atto verso cui tende qualsiasi divenire; e poiché il divenire naturale tende verso ciò che naturalmente si desidera, occorre che esso, l'essere, sia l'atto ultimo cui ogni cosa anela».75 La portata di questo principio che nella formulazione astratta sembra
il divenire
un
dire ben poco, nella metafisica dell'essere di S1 Tommaso diviene enorche nella come si vedrà più avanti me. Perché una volta accertato il cui identifica si nome totalità della sua perfezione l'essere con Dio, proprio è esse ipsum, allora diventerà chiaro che il finis ultimus di ogni agire è Dio stesso, e S. Tommaso potrà scrivere: -
-
principio e fine d'ogni cosa e, di conseguenza, ha con le creaduplice rapporto: quello secondo cui tutte le cose arrivano all'essere per causa sua, e quello secondo cui tutte le cose si dirigono a lui come a loro fine ultimo. Questo secondo rapporto (quello teleologico) si realizza diversamente nelle creature irrazionali che in quelle razionali: nelle prime si attua mediante la rassomiglianza (per vitmz <
ture
un
assimilationis); nelle seconde mediante la
conoscenza della divina oltre che mediante la rassomiglianza. Infatti in tutte le cose che procedono da Dio ‘e insita la inclinazione verso il bene da conseguirsi mediante l'agire. Ora nel conseguimento di qualsiasi bene la creatura si rassomiglia a Dio. Ma le creature razionali possono raggiungere Dio oltre che con la rassomiglianza anche con l'unione mediante le operazioni del conoscere e dell'amare, e quindi sono maggiormente in grado delle altre creature di essere fe]ici».79
essenza
Le strutture primarie dell'ente
L'oggetto formale della metafisica è, come sappiamo, l'ente Considerapporto alle sue cause e ai principi primi, che già Aristotele riponeva in una sfera trascendente, immateriale. Ora, poiché proprio questo è lo scopo della filosofia prima, lo studio delle numerose strutture che sono proprie dell'essere materiale e di tutta la lunga serie di accidenti che Paccompagnano (quantità, qualità, spazio, tempo, luogo, habi-
rato in
77) C. G. 111,2. 73) Comp. Theol. l, c. 11, n. 21. 79) De ver. 20, 4.
Tommaso d'Aquino
525
tus ecc), su cui amano soffermarsi molti studiosi della metafisica di S. Tommaso, non può avere che un'importanza assai modesta, quanto meno nella fase ascendente della ricerca. In questa fase non ci si può caricare di eccessiva zavorra, altrimenti la seconda navigazione non prende mai il via. Il fine dell'indagine metafisica è la resolutio: la riconduzione e la riduzione dell'essere materiale (finito, mutevole, contingente, imperfetto) a un principio superiore, immateriale. Per compiere questo importantissimo passaggio le sole strutture che contano sono due. La struttura fondamentale è quella di atto e potenza, già utilizzatada Aristotele. Questa è sufficiente per compiere la grande navigazione: è la struttura che serve a S. Tommaso per uscire dal mondo degli esseri materiali, composti di atto e potenza e perciò in perpetuo divenire, e raggiungere la Causa
prima, atto purissimo, sostanza immateriale, sommamente intelligibile. quella di ed La di ed essenza essere. composizione essenza essere negli enti conduce S. Tommaso alla vetta della realtà, l'asse ipsum subsistens. Nella nostra breve ricostruzione della metafisica di S. Tommaso ignoreremo il suo pensiero ricco ma scarsamente originale intorno a materia e forma, sostanza e accidenti, quantità e qualità, tempo e spazio ecc., La seconda struttura, caratteristica della metafisica tomistica, è
-
-
per soffermarci esclusivamente sulla sua dottrina intorno alle due strutture fondamentali: atto e potenza, essenza ed essere.
ATTO E
POTENZA
La dottrina dell'atto e potenza fu, come sappiamo, la grande scoperta Aristotele, che ne fece largo uso soprattutto per spiegare i rapporti tra la materia e la forma, tra la sostanza e gli accidenti, tra la causa e l'effetto e per risolvere molti intricati problemi metafisici, specialmente il problema del divenire. I punti chiave della dottrina aristotelica, largamente condivisi anche da S. Tommaso, sono i seguenti: 1) Anzitutto i concetti di potenza e di atto; per potenza si intende tutto di
ciò che è indeterminato e che è suscettibile di ulteriori determinazioni: «la potenza è nel paziente stesso il principio di una mutazione passiva provocata da un altro o da sé in quanto altro>>fl0 Invece Patto è qualsiasi realizzazionedi una perfezione: «l'atto rispetto alla potenza è quello che è il guardare rispetto al non guardare, pur avendo la vista; l'oggetto cavato dalla materia e ben lavorato rispetto alla materia stessa».81
30) ARISTOTELE, Metafisica 1046a, 11-12. si) Ibìd., 1048b, 1-2.
526
Parte seconda
2) In secondo luogo le prerogative dellîîtto rispetto alla potenza. L'atto ha priorità ontologica sulla potenza. Infatti la potenza anche quando esiste prima dell'atto al quale è ordinata come potenza, acquista questo atto soltanto grazie a qualche cosa che è già in atto: «sempre si passa da ciò che esiste in potenza a ciò che esiste in atto a causa di qualche cosa che esiste in atto». L'atto gode inoltre di priorità teleologìca: la potenza è
ordinata all'atto e non viceversa. «Ogni cosa che diviene va verso un fine, e il fine è sempre l'atto: ed è proprio l'atto a costituire la ragion d'essere della potenzamaz 3) In terzo luogo le prerogative della potenza rispetto all'atto, che sono fondamentalmente due: ricevere l'atto e moltiplicarlo. La potenza è in condizione, anzi è la condizione della passività e pertanto non può che ricevere l'atto. Allo stesso tempo essa provvede alla moltiplicazione (plurificatio) degli atti. Infatti l'atto non si moltiplica se non è ricevuto nella potenza correlativa. Così «ciascun uomo differisce quanto all'insieme da tutti gli altri, ma quanto alla specie non differisce; perché tali differenze non riguardano la forma (atto) la quale è un principio ultimo e indivisibile»ma la materia, ossia la potenza.” 4) Infine, i rapporti tra potenza e atto. Potenza e atto sono principi correlativi, perciò si richiamano sempre a Vicenda e formano un unico tutto. La potenza fornisce all'atto un soggetto da determinare, mentre a sua Volta l'atto comunica alla potenza la propria perfezione e con la propria perfezione delle caratteristiche ben definite: «mediante la forma (atto) la materia (potenza) diventa una cosa ben determinatawfl In quanto sono principi correlativi l'atto e la potenza non possono sussistere ciascuno per conto proprio. D'altra parte, pur dovendo coesistere nello stesso soggetto, sono realmente distinti. «ljatto e la potenza pur esistendo nello stesso soggetto non sono la stessa cosa».85 Infatti la potenza è ciò che è determinabile, mentre l'atto è ciò che determina. La formulazione aristotelica della dottrina dell'atto e della potenza, anche se oltrepassa i confini della materia e della forma da cui è stata ricavata, di fatto, però, risente fortemente del contesto ermeneutico in cui si è sviluppata. Ciò è evidente soprattutto quando Aristotele nega che si possa dare un atto puro infinito. Essendo principio di determinazione l'atto, secondo Aristotele, non può essere che finito. Ciò è vero, però, soltanto se l'atto viene identificato con la forma (sostanziale o accidentale) e finché l'indagine non oltrepassa i confini del divenire sostan-
82) 112111., 104919, 24-25. 83) Ibîd, 1058b, 8-10. 84) lbid., l041b, 8-9. 85) ARISTOTELE, Fisica 3, 3.
Tommaso d ’Aquin0
ziale
e
527
accidentale, come accade in Aristotele. Se invece l'indagine si
sospinge oltre tali confini e
esistenziale,
se
comincia a muoversi sul piano del divenire si sale, cioè, come dice egregiamente S. Tommaso, «al
supremo modo del divenire, che ha luogo per mezzo dell'influss0 immediato dell'essere (in supremo modo fiendi, qui est per essendi influxum)»,86 allorché i principi che si rapportano alla maniera di potenza e atto non sono più la materia e la forma ma l'essenza e l'essere, allora la tesi della finitezza dell'atto non regge più. E infatti a questo livello, che è quello del divenire esistenziale, si incontra un atto (quello dell'essere) che, considerato in se stesso, dice solo perfezione e perfezione infinita, che può essere delimitata soltanto da un principio diverso dall'essere e questo compito come si è visto spetta all'essenza. Questa rispetto all'essere si comporta diversamente dalle altre potenze. Infatti, mentre la potenza esaminata da Aristotele, la materia, viene determinata dall'atto, la potenza è correlativa all'essere, cioè l'essenza determina, pone confini, limita l'atto, ossia l'essere. Pertanto, riprendendo la dottrina aristotelica dell'atto e della potenza al fine di chiarire i rapporti tra essenza ed essere nel1’ente, S. Tommaso vi apporta due importanti modifiche, richieste dalla sua scoperta dell'essere come perfezione assoluta: esse riguardano le tesi di Aristotele secondo cui l'atto è di sua natura finito e svolge la funzione di delimitare la potenza. Ad esse Tommaso contrappone le tesi della infinità dell'atto quando si tratta dell'essere e della funzione della potenza di fissare dei limiti all'atto, quando il ruolo della potenza viene svolto dall'essenza in ordine all'essere. Per questo motivo l'Aquinate non si stanca di ripetere che la composizione che si stabiliscene]l'ente per mezzo dell'essenza e dell'essere ha connotati ben diversi da quelli della composizione di materia e forma. Ecco come egli spiega la diversità della Summa con tra gentiles: «Non sono identiche queste due risultino di potenza e atto. Primo,
composizioni sebbene ambedue
perché
la materia non è l'essenza della cosa, altrimenti avremmo che tutte le forme sarebbero accidentali come ritenevano gli antichi naturalisti; la materia invece è una parte dell'essenza (substantia). Secondo, perché l'essere stesso (ipsum esse) non è l'atto proprio della materia, ma della sostanza tutta intera; infatti l'essere è l'atto di ciò che può dirsi esistente. Ora Pesistere non si dice della materia da sola ma dell'insieme (de toto). Perciò non può dirsi della materia che essa sia, ma ciò che veramente esiste è la sostanza. Terzo, perché neppure la forma è l'essere (ipsum esse), ma c'è tra di loro (la forma e l'essere) un certo ordine, poiché la forma si paragona all'essere come la luce al risplendere,
(substantia) stessa
36)
De sub. sep. c. 9, n. 98.
Parte seconda
528
la bianchezza all'essere bianco. E inoltre alla forma l'essere si rapporta Infatti negli esseri composti di materia e forma si dice che la forma sia principio dell'essere perché è il complemento della sostanza, il cui atto è l'essere stesso; come la qualità di trasparire è per l'aria principio di risplendere, poiché la rende soggetto appropriato della luce. Perciò negli enti Composti di materia e forma, sia la materia sia la
e
come atto.
forma non si possono dire né essenza (ipsunz quod est) né essere (ipsum esse). Tuttavia la forma si può dire ciò per cui la cosa è (quo est) e l'essere (esse ipsum) è ciò per cui la sostanza si chiama ente. Invece nelle sostanze intellettuali (o separate), che non sono composte di materia e di
forma ma la stessa forma è in esse sostanza sussistente, la forma ‘e ciò che esiste; mentre l'essere è sia atto sia ciò per cui esiste la forma. Per questo motivo vi è in esse la sola composizione di atto e potenza, composizione che risulta dall'essenza (substantia) e dall'essere (esse), e da alcuni viene detta anche ex quod est ed esse, oppure ex quod est e quo est. Nelle sostanze poi che sono composte di materia e forma, vi sono due composizioni di materia e forma; la prima è della sostanza stessa che si compone di materia e forma; la seconda risulta dalla stessa sostanza già composta e dall'essere, e questa può dirsi emergere da ciò che è (quod est) e dall'essere, oppure da ciò che è (quod est) e da ciò per cui è (quo est) Si vede dunque chiaramente come la composizione di atto e potenza sia superiore alla composizione di materia e forma. Infatti la materia e la forma sono divisioni della sostanza naturale (fisica), mentre l'atto e la potenza dividono l'ente in generale (ens c0mmune)».37 .
In
questa densa pagina della Contra gentiles S. Tommaso non si limita
chiarire che la struttura atto/ potenza ha una maggiore portata ontologica della struttura materia/forma, ma dimostra che essa si applica anche alla struttura essenza / essere. Questa seconda struttura costituisce a fianco del concetto intensivo dell'essere il secondo grande pilastro su a
l'Angelico innalza il suo possente edificio metafisico. Dopo avere colto nel concetto intensivo la verità dell'essere, nella distinzione reale tra essenza ed essere egli coglie la verità dell'ente. Ma vediamo come S. Tommaso prova che all'interno dell'ente, di qualsiasi ente finito, la struttura primaria è quella di essenza ed essere. cui
ESSENZA ED ESSERE
dottrina di S. Tommaso su questo metafisica occorre anzitutto fare attenzione al
capire la
Per sua
serve
regolarmente. ln
esse, di
57)
un esse
C. G. ll,
c.
punto capitale della
linguaggio di cui si primo luogo egli non parla mai di un duplice
essentiae e di
54. Cf. anche il testo
un esse
existentiae come farà Scoto
parallelo di De sub. sep. c. 1.
e come
Tommaso d ’Aquin0
529
faranno anche alcuni interpreti di S. Tommaso. L'asse per il Dottore Angelico è uno solo e costituisce un principio distinto dall'essenza. Per designare la realtà globale di una cosa S. Tommaso parla di ens, res, substantia particularis; mentre per qualificare l'aspetto quidditativo (essenziale) fa uso dei termini essentia oppure id quod est, e per indicare l'aspetto "esistenziale" usa i termini esse, actus essendi, id quo est. Il termine existentia non è tomistico anche se valenti tomisti come Gilson e Maritain lo hanno adottato per parlare dell'esse di S. Tommaso. Ente (ens), come termine chiave della metafisica dell'essere, dice la totalità di una cosa, non una sua parte (l'essenza, la materia, la forma eco). Tuttavia, come suggerisce l'origine stessa del termine (ens proviene da esse), ente connota in modo particolare il suo rapporto con l'essere: ente «è ciò che ha l'essere (quod habet esse)»;9fl o, più precisamente : «è ciò che partecipa all'essere (quod participet esse)>>.89 E poiché l'essere si carat— terizza sempre come atto, l'ente può essere definito anche come «essere in atto (ens dicit aliquid proprie esse in actu)».90 Come concetto universale il termine ”ente" ha la stessa estensione del termine "cosa" (res), ma la sua intenzione è diversa, poiché res fa riferimento all'essenza mentre ens fa riferimento all'essere: «dicitur res secundum quod habet quidditutenz ‘nel essentiam quamdam; ens vero secundum quod habet esse».9î Generalmente S. Tommaso adopera il termine essentia (essenza) per indicare ciò che appartiene necessariamente a una cosa, e pertanto viene posto nella sua definizione: «l'essenza propriamente è ciò che viene espresso dalla definizione. Ora la definizione comprende i principi specifici e non quelli individuali. Perciò nelle cose composte di materia e forma l'essenza non significa né la sola forma né la sola materia ma il composto di materia e di forma in universale (ex materia et forma commurzi) in quanto sono principi della specie».92 Sinonimi del termine "essenza", nel linguaggio di S. Tommaso sono: natura, quiddità, ”ciò che è"
(quod quid est), sostanza, specie. Che cosa l’Angelico intenda per essere (esse) è stato già chiarito in precedenza: l’essere è lfizctualitas omnium actuum, la perfectio omnium perfet-
tionum, atto supremo, superiore alla stessa forma con cui Aristotele l'a-
veva
identificato.
33) lSent. 37, 1, 1, sol. H9) s. Th. 1,4, 2 ad 3. 9°) Ibid., 5, 1 ad 1. 91) II Sent. 37, 1, 1 sol. 92) S. Th. l, 29, 2.
530
Parte seconda
Dal confronto dell'ente con l'essere emerge la prima grande dzfierenza ontologica: l'ente non è l'essere; nessun ente esaurisce il pelago infinito della perfezione dell'essere. A questo punto affiora una seconda differenza ontologica, già colta da Avicenna, ma da lui interpretata in modo molto diverso da S. Tommaso: la differenza ontologica tra essenza e atto d'essere negli enti. Tommaso, studiando più a fondo dei suoi predecessori il ruolo che svolge l'essenza in seno all'ente, giunge alla conclusione che il suo ruolo principale è proprio quello di porre dei confini alla perfezione dell'essere nell'ente: i confini alla perfezione dell'essere non Vengono imposti né dalla materia né dalla forma ma dalla essenza stessa. Si prenda per es. un banco: perché non ha un maggior grado di essere e di perfezione di quello che di fatto gli appartiene? La risposta di S. Tommaso è che il banco, proprio in forza della sua natura o essenza di banco, non comporta un maggior grado di essere e di perfezione; potrà essere di materiale più pregiato, lavorato più finemente, più largo, più alto eCC., ma non potrà avere la perfezione della coscienza, della libertà, della conoscenza, del movimento e tante altre perfezioni che la sua essenza di banco esclude e che invece l'essere in quanto attualità di tutti gli atti contiene necessariamente. Quindi la limitazione della perfezione dell'essere negli enti e la ragione ultima della differenza ontologica tra ente ed essere va ricercata nell'essenza. Le essenze, spiega S. Tommaso, sono come dei recipienti e contengono tanto di essere quanto ne comporta la loro capacità; viceversa Yessere si trova negli enti secondo la misura della loro capacità. «L'essere che in se stesso è infinito (ipsum esse absolute consideratunz infinitmn est) può essere partecipato da infiniti enti e in infiniti modi. Se dunque l'essere di qualche ente è finito, bisogna che esso sia limitato da qualche altra cosa, che sia in una certa guisa presente nell'ente come suo principio».93 Tale è il ruolo dell'essenza. D'altronde le cose non si possono distinguere le une dalle altre in ragione dell'essere che è comune a tutte. Perciò «se differiscono realmente tra loro, bisogna o che l'essere stesso sia specificato da alcune differenze aggiunte, in maniera che cose diverse abbiano un essere specificamente diverso, oppure che le cose differiscano, perché lo stesso essere compete a nature specificamente diverse. Il primo caso è impossibile, perché all'essere non si può fare aggiunta in quel modo con cui si aggiunge la differenza specifica al genere. Bisognerà allora ammettere che le cose differiscano a cagione delle loro diverse nature, per le quali si acquista l'essere in modi diversi» P4
93) C. G. I, 43. 94) lbid, 26.
Tommaso d 'Aquino
L'intuizione che la delimitazione della
53]
perfezione dell'essere è dovu-
ta all'essenza anziché alla materia 0 alla forma consente
a S. Tommaso di disfarsi della teoria dell'ilemorfismo universale, teoria patrocinata dall'ebreo Avicebron e che ai tempi di Tommaso contava molti seguaci anche tra gli scolastici latini. Secondo questi studiosi la materia è un elemento che entra nella costituzione di tutte le creature, compresi gli angeli, perché soltanto la presenza della materia le distingue da Dio. S. Tommaso non è di quesfavviso. Egli ritiene che per spiegare la finitudine degli angeli come di qualsiasi altra realtà creata può bastare l'essenza. Questa è di sua natura finita ed è la ragione intrinseca della delimitazione della perfezione infinita dell'essere nell'ente creato. Ecco quanto scrive a questo proposito lo stesso S. Tommaso nel De substantiis separatis, opuscolo in cui critica la tesi ilemorfistica di Avicebron. cose che partecipano all'essere per opera dell'Essere suprepartecipano all'essere secondo il modo universale di essere (non participant esse secundum modum universalem essendi) che è proprio del principio primo, ma parzialmente (particulariter) secondo un modo di essere particolare, quello proprio di un genere o di una specie. Ogni cosa infatti si adegua a quel determinato modo di essere che è proprio della sua sostanza. Ma il modo di una sostanza composta di materia e di forma dipende dalla forma per cui appartiene a una determinata specie. Così una cosa costituita di materia e di forma diviene partecipe dell'essere che le viene conferito da Dio mediante la forma, secondo una modalità particolare. Occorre però tener presente che in una sostanza costituita di materia e di forma si dà un duplice ordine (o relazione): uno è quello della stessa materia alla forma; l'altro è quello del composto all'essere partecipato (rei compositae ad esse
«Tutte le
mo non
participatirrrz). L'essere della cosa infatti non è né la materia né la forma, ma qualche cosa che sopravviene alla cosa mediante la forma.
Così nelle cose composte di materia e forma, la materia considerata in stessa, secondo il modo proprio della sua essenza ha l'essere in potenza (habet esse in potentia) e ciò dipende da una sua partecipazione all'essere primo; ma considerata in se stessa è priva della forma grazie alla quale partecipa all'attualità dell'essere (esse in actu) secondo la modalità che le è propria. Invece la cosa composta vista nella sua essenza è già in possesso della propria forma e grazie alla forma diviene partecipe dell'essere che le compete. Però, dato che la materia riceve l'essere determinato attuale mediante la forma (recipit esse determinatum actuale per formanz) e non viceversa, nulla vieta che ci sia qualche forma che riceve l'essere direttamente e in se stessa, e non nell'ambito di un soggetto (non in aliquo subiecto): infatti la causa non dipende dall'effetto, ma piuttosto il contrario. E così una forma sussistente in se stessa diviene partecipe dell'essere direttamente, in se stessa e non all'interno di un soggetto (...). Dal che risulta come differisce la potenza che si trova nelle sostanze spirituali dalla potenza che se
Parte seconda
532
si registra nella materia. Infatti la potenza delle sostanze spirituali si riferisce solamente e direttamente all'essere; invece la potenza della materia si riferisce sia alla forma sia all'essere. Se qualcuno vuole usare per entrambi i casi (di potenzialità) la parola ”materia", è evidente che egli adopera il termine "materia" in maniera equivoca».95 al sicuro due Verità: a) la verità dell'essere che di sua natura è perfezione assoluta, illimitata; b) la verità dell'ente, che di fatto è sempre una partecipazione limitata alla perfezione dell'essere e deve alla sua stessa essenza la ragione della limitazione Fin
qui S. Tommaso ha
messo
della propria partecipazione all'essere. Si tratta indubbiamente di due verità importantissime, fondamentali ma che sono ancora ben lontane dall’esaurire il discorso metafisico sia sull'essere sia sull’ente. Infatti, da quanto è stato stabilito risulta che l'essere è presente ovunque perché è la ragion d'essere di tutto (senza l'essere tutto decade nel nulla), ma l'essere in prima persona, come essere sussistente, non si è ancora lasciato intravedere e tanto meno contemplare. Quanto all'ente si è soltanto chiarita la ragione della differenza ontologica: la sua distanza infinita dall'essere è dovuta alla sua stessa essenza, che è sempre un ricettacolo limitato, dell'infinito oceano dell'essere. A questo punto Yesplicitazione dei rapporti tra l'essenza e l'essere nell'ambito dell'ente potrebbe ritenersi conclusa. Ma non lo è per S. Tommaso, perché ai suoi tempi su questo problema circolava una soluzione, quella di Avicenna, che il nostro non poteva affatto sottoscrivere, essendo incompatibilecol suo concetto intensivo dell'essere. Avicenna, che per quanto ci è dato conoscere, fu il primo a insegnare la dottrina della distinzione reale tra l'essenza e l'essere,96 per spiegarla si avvalse dei concetti di sostanza e accidente, e poiché l'essere non è una sostanza concluse che è un accidente. Per S. Tommaso questa spiegazione è inammissibile.Perché essendo l'essere l'attualità di ogni atto esso non può cadere sotto il dominio di nessuna categoria né di quella della sostanza e tanto meno di quelle degli accidenti. L'asse ipsum è una supercategoria, ‘e un trascendentale e rispetto a ogni genere di ente svolge il ruolo di atto. Perciò «non pare che Avicenna abbia detto il giusto. Infatti pur essendo l'essere della cosa diverso dalla sua essenza (quamvis esse rei si! aliud ab eius essentia), tuttavia non si deve concepire come qualcosa di aggiunto a mo’ di accidente, ma come qualcosa che diviene in certo qual modo Costituito mediante i principi dell'essenza».97 D'al-
95) 95)
97)
De sub. sep.
c.
8.
Cf. AVICENNA, Metaphysices compendium, tr. di N. Carame, Roma 1926 (cf. in particolare L. I, pars II, tract. I). In IV Metaph. lect. II, n. 558.
Tommaso d 'Aquino
533
completezza finale di ogni cosa è data dalla partecipazione «Quindi l'essere ‘e il completamento di ogni forma: essa infatti è completa quando ha l'essere, e ha l'essere quando è in atto; sicché non c'è nessuna forma se non in forza dell'essere (nulla forma est nisi per esse). Per questo affermo che l'essere sostanziale (esse substantiale) di una cosa
tronde la all'essere.
accidente ma è l'attualità di qualsiasi forma esistente, tanto di materiali come di quelle immateriali».98 quelle Della teoria di Avicenna Tommaso conserva l'aspetto essenziale, che è quello relativo all'affermazione della distinzione reale tra essenza ed essere in tutti gli enti finiti, distinzione sufficiente e adeguata a esprimere la differenza ontologica tra l'ente e l'asse ipsum. Ovviamente si tratta di una distinzione reale che ha luogo a livello metafisico non fisico: essere ed essenze non sono separabili fisicamente; non possono esistere a parte, ma solo come comprincipi dell'ente. Ma nell'ente sono realmente distinti: l'essere non è l'essenza e l'essenza non è l'essere. Infatti se l'essenza non fosse distinta dall'essere non potrebbe limitarlo, e se l'essere non fosse distinto dall'essenza non potrebbe Venire limitato. Essenza ed essere sono quindi realmente distinti; l'essenza ‘e il soggetto dell'atto dell'essere, questo è la perfezione che conferisce realtà, esistenza al suo soggetto, l'essenza)” Questo modo di concepire i rapporti tra essenza ed essere è nella storia della filosofia altrettanto originale quanto la concezione tomistica dell'essere, alla quale è strettamente legata. Nessun filosofo antico o moderno, all'infuori di S. Tommaso, l'ha mai compreso o insegnato. non
La
è
un
grande resolutio degli enti nell'esse ipsum
Finora abbiamo esaminato i due grandi pilastri su cui si regge l'edificio metafisico di S. Tommaso: l'essere concepito intensivamente e la dijjferenza ontologica tra essenza ed essere negli enti. Ora ci resta da vedere come egli procede alla costruzione dell'intero edificio, collegando i due pilastri: la differenza ontologica e l'essere stesso (esse ipsum). Passare dagli enti all'essere per garantire agli enti stessi un solido fondamento: in questo consiste la "navigazione metafisica" di S. Tommaso. Il punto di partenza della sua ricerca metafisica non è qualche cosa di astratto: la verità, la bontà, lo spirito, l'intelligenza, ecc. ma qualcosa di estremamente concreto, l'ente; mentre il suo punto d'arrivo è qualche cosa di
93) Quodl. XII, 5, l.
99)
La distinzione reale tra essenza e atto d'essere negli enti viene enunciate esplicitamente da S. Tommaso in numerosi testi. Si veda in particolare I Seni. 19, 2, 2; De ver. 27, 1 ad 8; In De Hebdom. II, nn. 33-34; Quodl. Xll, 5, 1. «
534
Parte seconda
più concreto, l'asse ipsum. Le vie che S. Tommaso percorre sono squisitamente on tologiche, nel senso proprio e corretto di questo termine (che non è quello kantiano), in quanto sono tutte collegate al-
ancora
tutte vie
l'ente e all'essere. Per S. Tommaso, come s'è visto, l'esperienza quotidiana non ci offre mai l'essere sussistente ma solamente l'essere inerente negli enti. Ma questa stessa esperienza, anziché convincerlo che non c'è posto per l'essere sussistente nell'universo del reale, gli fornisce una chiara testimonianza della sua esistenza. I documenti principali gli vengono esibiti dalle seguenti verità: l) la limitazione della perfezione dell'essere nell'ente da parte dell'essenza; 2) la composizione di essenza ed essere in ogni ente; 3) il rapporto d'atto e potenza tra l'essere e l'essenza di ogni ente; 4) la distinzione reale tra l'essenza e l'essere. Questi elementi teoretici esigono che lo studio dell'essere non si arresti a questo punto: cioè non basta constatare la presenza di due principi metafisici nel1'ente (l'essenza e l'essere), né è sufficiente chiarire i loro rapporti, allorché proprio attraverso la delucidazione dei loro rapporti ci si avvede che l'ente, a causa della composizione di essenza e di essere, non è in grado di dar conto della propria origine. In tale prospettiva è necessario affrontare l'interrogativo dell'origine dell'essenza e dell'essere nell'ente. Una cosa risulta subito chiara a S. Tommaso: dato che negli enti c'è distinzione reale tra essenza ed essere, né l'essere può trarre origine dall'essenza, né l'essenza dall'essere. In effetti, gli enti che ci circondano non sono mai in grado di darsi né l'essenza né l'essere, ma li ricevono sempre da qualche altro ente. A prima vista anche l'essere viene causato da qualche altro ente: il figlio, sembra, riceve l'essere dal padre, il padre dal nonno e così via. Ma non è possibilein questa serie retrocedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe una causa prima della comunicazione dell'essere, e di conseguenza non esisterebbe nessun ente. Ciò significa che all'origine degli enti sta tesse ipsum. Questa è la sola spiegazione plausibiledel fatto che enti, quali sono tutti gli enti finiti, i quali in se stessi non possono accampare nessun diritto all'essere (perché questo non appartiene alla loro essenza) e che godono soltanto di una certa potenzialità nei confronti dell'essere, di fatto lo posseggono come atto loro proprio, come attuazione e realizzazionedella loro essenza. Ecco come S. Tommaso descrive questa velocissima scesa all'asse ipsum assumendo come punto di partenza l'una o l'altra delle verità relative all'appartenenza dell'essere all'ente: la verità che l'essere appartiene all'ente per partecipazione; la verità che l'essere non costituisce l'essenza dell'ente ma è realmente distinto da essa; e la verità che la perfezione dell'essere si trova realizzata negli enti secondo un ordine gerarchico. Assumendo come punti di partenza una di queste verità con rapidissimi passaggi S. Tommaso raggiunge la vetta dell'asse ipsum.
Tommaso d'Aquino
535
punto di partenza la partecipazione egli realizza l'a(la resolutio) così: «Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per es., tutte le cose calde per partecipazione si riducono al Prendendo come
scesa
fuoco il quale è caldo per
che sono partecipano all'essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima essenza.
Ora, dato che
tutte le
cose
tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essen— (necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum, aaod sit ipsum esse per suam essentiam), ossia che la sua essenza sia l'essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa efficientissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose che esistono partecipano all’essere>>.100 a
za
Muovendo dalla verità che l'essere non appartiene all'essenza di nessun ente finito, S. Tommaso imposta la "risoluzione" come segue: «Tutto ciò che conviene a qualche cosa 0 è causato dai principi della sua natura, come la risibilità nell'uomo, o le compete in virtù di qualche principio estrinseco, come la luce all'aria per influsso del sole. Ora non si può dire che l'essere di una cosa sia causato dalla sua stessa forma o essenza, intendendo come da causa efficiente, perché così una cosa sarebbe causa di se stessa o produrrebbe se stessa, cosa del tutto impossibile. È necessario quindi che ogni cosa in cui l'essere è diverso dalla sua natura, abbia l'essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige come causa prima ciò che è per se’, vi deve essere qualche cosa che sia causa dell'essere in tutte le altre, appunto perché essa è soltanto essere (ipsa est esse tantum); diversamente si andrebbe all'infinito nelle cause, avendo ogni Cosa che non è solo essere una causa, come si è visto».101 Assumendo infine come punto di partenza la gradualità della perfezione dell'essere negli enti, S. Tommaso opera la scalata all’esse ipsum nel modo seguente: «l'essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto, in altre in modo meno perfetto; però non è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza, altrimenti l'essere farebbe parte della definizione dell'essenza di ogni cosa (alias esse esset de intellectu cuiuslibet quidditatis), il che è evidentemente falso, giacché l'essenza di qualsiasi cosa è concepibileanche prescindendo dall'essere. Pertanto occorre concludere che le cose ricevono l'essere da altri e (retrocedendo nella serie delle cause) necessita che si arrivi a qualche cosa la cui essenza sia costituita dall'essere stesso (ipsum suum esse), altrimenti si dovrebbe andare indietro all’infinit0».102
1W)In evang. Ivan, Prol., n. 5. 101) De ente et essentia c. 4, n. 27. ‘ÙîflnII Sent. 1, 1, 1.
536
Parte seconda
ipsum, la realtà suprema da cui ogni altra cosa trae origine, quesussistente che ha come propria essenza tutta la pienezza, tutta la ricchezza, tutta l'attualità dell'essere, corrisponde, come nota lo stesso L'esse
sto
essere
S. Tommaso, a ciò che i filosofi sono soliti chiamare col nome di Dio. Noi moderni, vittime più che mai di innumerevoli preconcetti nei confronti dell'essere, siamo alquanto restii ad assegnare a Dio il nome di esse ipsum. Ma lo scrupolo non ha ragione d'essere se per esse ipsum intendiamo quello che ha inteso S. Tommaso, ossia quella perfezione suprema che raccoglie in sé tutte quelle perfezioni che siamo soliti attribuire a Dio. Per Tommaso l’esse ipsum, anziché essere un titolo anonimo, come può sembrare a noi, è un titolo personalissimo: anzi è il nome proprio di Dio. E questo per tre motivi. «Prima di tutto, per il suo significato. Infatti non esprime già una qualche forma o modo particolare di essere, ma lo stesso essere (ipsunz esse). Quindi, siccome l'essere di Dio è la sua stessa essenza, e
come abbiamo dimostrato, non conviene a nessun altro, è evidente che tra tutti gli altri nomi questo compete a Dio in modo massimamente proprio: ogni cosa infatti si denomina dalla propria forma o essenza. Secondo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi o sono meno vasti e universali o, se combinanocon esso, Vi aggiungono secondo la nostra maniera di concepire qualche cosa, che in certo modo lo qualifica e lo restringe. Ora il nostro intelletto nella vita presente non può conoscere l'essenza di Dio così come è in se stessa: ma facendo qualsiasi restrizione intorno a quel che conosce di Dio, si allontana dal modo nel quale Dio è in se stesso. E perciò quanto meno i nomi sono ristretti e quanto più sono estesi e assoluti, tanto più propriamente noi li applicheremo a Dio. Perciò dice anche il Damasceno che ”di tutti i nomi che si dicono di Dio quello che meglio lo esprime è Colui che è: poiché comprendendo tutto in se stesso, possiede l'essere medesimo come una specie d’oceano di realtà infinito e senza rive". Con ogni altro nome si viene infatti a determinare un qualche modo della sostanza della cosa; invece questo nome non determina nessun modo di essere, ma conserva la sua indeterminatezza rispetto a tutti i modi di essere; perciò esprime “l'oceano infinito di realtà". Terzo, perché il nome Colui che è (Qui esi‘) è più proprio di Dio dello stesso nome di Dio, sia per la derivazione del termine che è l'essere, sia per l'universalità del significatomm
siccome ciò,
La via che ha tracciato S. Tommaso per raggiungere il vertice del reale (cacumen lo chiama egli stesso), Dio, è una via singolarissima, perfettamente in linea con il suo concetto intensivo dell'essere. Ma questa via ‘e stata generalmente disattesa dai suoi commentatori che hanno
"ÌÙS. Th. I, 13, 11.
Tommaso dflquino
537
quasi sempre ignorato il suo concetto intensivo dell'essere e si sono accontentati di analizzare le meglio conosciute "Cinque Vie" della Somma Teologica. Questa via è assolutamente originale, anche se presenta alcune affi-
l'argomento aristotelico fondato sul divenire. Infatti sebbene il di punto partenza sia per Tommaso come per Aristotele il divenire e sebbene tutti e due i filosofi facciano appello ai due principi: la potenza passa all'atto in virtù dell'atto, nella serie delle cause non si può retrocedere all'infinito, tuttavia Tommaso esibisce una prova che è profondamente diversa da quella di Aristotele. Infatti mentre lo Stagirita assume come punto di partenza il divenire sostanziale, I’Aquinate assume come premessa il divenire esistenziale. nità
con
Dio: esistenza, natura, attributi, operazioni
metafisiche, sia in quelle che procedono "dall'alto” come in muovono "dal basso", il discorso su Dio è di capitale impor-
In tutte 1c
quelle tanza.
che
In quelle che procedono "dall'alto" (come in Platone, Filone, Plotino, Porfirio, Proclo, Io Pseudo-Dionigi, Anselmo, Scoto, Spinoza, Schelling ecc.) il discorso su Dio è posto all'inizio della speculazione metafisica. Questa inizia con una ”intuizione”di Dio, l'essere di cui non si può pen-
nulla di più grande, e con un elenco dei suoi attributi e delle sue operazioni; successivamente viene studiata la serie delle emanazioni che da lui procedono e che costituiscono la realtà: Dio è il Padre dell'universo, in lui sono racchiuse le perfezioni di tutte le cose, i paradigmi di ogni realtà; lui è il sole da cui provengono tutti i raggi di luce che inondano il cosmo; in lui è riassunto e anticipato tutto ciò che si manifesterà nel corso sare
dei secoli. Nei sistemi
metafisici, invece, che procedono ”dal basso" (come in Aristotele, Avicenna, Tommaso, Sigieri di Brabante, Cartesio ecc.) il discorso su Dio viene posto alla fine di tutta l'indaginespeculativa. Non
è più uno sguardo intuitivo su Dio quello che ne rivela la natura, gli attributi e le operazioni, bensì una resolutio logica che induce a porre in Dio tutte le perfezioni, gli attributi e le operazioni che competono di diritto a colui che è l'essere supremo, il motore immobile, il principio primo di tutte le cose. Ma sia che Dio venga posto all'iniziodella metafisica sia che lo si incontri alla fine, la metafisica è necessariamente scienza divina o teologia, come la chiamava Aristotele. Nella sua metafisica dell'essere, che è una metafisica "dal basso", S. Tommaso sviluppa una delle più profonde, articolate e complete trattazioni su Dio che la mente umana sia mai riuscita a concepire. Indub-
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Parte seconda
biamente la sua trattazione è meno brillante, vivace e appassionante di quella di Agostino, ma nello stesso tempo è molto più rigorosa e più sistematica. Tutto il ricchissimo discorso su Dio, di Agostino, dello Pseudo-Dionigi e di S. Anselmo viene ripreso e riproposto da S. Tommaso, ma con una "coloritura" nuova, la coloritura dell'essere. Abbiamogià detto, e torniamo ora a ripetere che non è soltanto nella trattazione dell'ente che la metafisica di S. Tommaso è innovatrice ed originale, ma lo è ancora di più nella trattazione dì Dio. Tutta la teologia filosofica della tradizione viene rivisitata e riletta dall'Angelico in chiave "ontologica". Questo punto di capitale importanza è stato sistematicamente disatteso non soltanto dai grandi commentatori della Seconda Scolastica, ma anche dai più eminenti neotomisti (Gilson, Fabro, Maritain). S. Tommaso è invece un grande e coerente metafisico. Egli ascende a Dio percorrendo la via dell'essere; coglie quindi Dio come esse ipsunz subsistens e perciò legge i suoi attributi e le sue operazioni alla luce dell'essere. Certamente S. Tommaso fa suo anche tutto il prezioso patrimonio dei metafisici che l'hanno preceduto; e perciò potrebbe sembrare che egli ripeta senz’alcun apporto teoretico personale le loro dottrine; ma non è così, perché le stesse dottrine che accoglie dalle formulazioni tradizionali egli le ripropone e, per così dire, le traduce nel linguaggio dell'essere, alla luce della sua propria concezione intensiva dell'essere. EsIsTENzA DI DIO In tutte le esposizioni della teologia filosofica di S. Tommaso si dà sempre grande rilievo alle "Cinque Vie" le quali pero rispecchiano solo indirettamente e per di più in modo limitato il nuovo impianto metafisico di S. Tommaso, in quanto sono argomentazioni che egli riprende da una lunga tradizione metafisica che fa capo a Platone e ad Aristotele. Le nuove vie che rivelano perfettamente il suo pensiero metafisico sono le vie "ontologiche" della partecipazione dell'essere, della distinzione reale tra essere ed essenza negli enti, della gradualità dell'essere, di cui ci siamo occupati in precedenza. Per questo motivo qui ci limiteremo a riassumere brevemente le "Cinque Vie" che l’Aquinate espone all'inizio della Summa Theologiae. Le Cinque Vie si trovano nella Prima Pars, più precisamente nell'articolo terzo della Quaestio II, intitolata De Deo: an Deus sit. Seguendo lo schema consolidato della Quaestio, nella prima parte dell'articolo S. Tommaso elenca gli argomenti degli atei contro l'esistenza di Dio, poi nella seconda parte propone gli argomenti a favore dell'esistenza di Dio tracciando le ”Cinque Vie".
Tommaso d ’Aquino
539
Pur vivendo in un clima di profonda religiosità S. Tommaso non ignoche quanto meno nell'antichità ci sono stati degli atei e che la posizione dell’ateismo ha dalla sua qualche argomento che merita d'essere preso in considerazioneflm ra
Gli argomenti dell ‘ateismo Tutte le obiezioni contro l'esistenza di Dio si possono ridurre a tre: il fenomeno del male, la possibilitàdi spiegare tutto con la scienza e con la libertà umana: «Sembra che Dio non esista (videtur quod Deus non si t). Infatti: 1) Nel nome Dio si intende affermato un bene infinito. Dunque se Dio esistesse non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio non esiste. 2) Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da Cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura,
quelli volontari alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di Dio».1°5 Com'è suo stile, S. Tommaso non replica immediatamente alle obie-
zioni, ma prima si preoccupa di far vedere che, nonostante tutte le difficoltà degli atei, ci sono argomenti molto solidi e decisivi a favore dell'esistenza di Dio; così riesce le loro obiezioni.
già a liquidare, quanto meno indirettamente,
L'argomentoontologico Tra gli innumerevoli argomenti che già la filosofia greca e successivamente la filosofia cristiana avevano elaborato per dimostrare l'esistenza di Dio, S. Tommaso ricorda il celebre argomento con cui S. Anselmo aveva preteso di provare l'esistenza di Dio muovendo dalla sua essenza, intesa come «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (id quo maius cogitari nequit)». S. Tommaso disapprova l'argomento anselmiano e fa vedere che la via che pretende di discendere dall'essenza divina fino all'esistenza non è percorribile, per il semplice motivo che prima di provare l'esistenza di Dio la nostra mente non può avere che una definizione nominale e non reale di Dio; e in secondo luogo perché anche suppo-
104) Tra i numerosi studi sulla teologia filosofica di S. Tommaso si veda in partirola-
re: R. GARRIGoU-LAGRANGE, Dieu. Son existence e! sa nature. Solution thomîste des antinomies agnostiques, 2 voll., Paris 1950; F. VAN STEENBERGHEN, Le problème de Fexistence de Dieu dans les écrits de S. Thomas dflquin, Louvain 1980; L. ELDERS, La metafisica dell'essere di S. Tommaso d'Aquino in una prospettiva storica. II: La teologia filosofica, Roma, Città del Vaticano 1995. 7”5)S. Th. I, 2, 3, obb. 1-2.
540
Parte seconda
sto
che noi avessimo
un
concetto reale di
Dio, si tratterebbe sempre di
perché Dio non è tanto colui di cui non si può pensare nulla di maggiore, quanto semplicemente colui che non si può pensare affatto: «Dico dunque che questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato si identifica un
concetto essenzialmente negativo,
col
soggetto; Dio, infatti, come si
vedrà in
seguito, è il suo stesso essere:
siccome noi ignoriamo l'essenza di Dio (nos non scimus de Deo quid est), per noi non è evidente, ma necessita d'essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effettimwò ma
LE "CINQUE VIE"
DELLA
SuMMA
Perciò, Visto che non abbiamo nessuna intuizione di Dio, né della sua essenza, né
cedere
a
della
sua
esistenza, per provare la sua esistenza occorre proesame i fenomeni che ci circondano
posteriori: prendendo in
(incluso lo stesso fenomeno umano) e verificare se questi stessi fenome-
ni, per essere spiegati esaustivamente, non esigano l'esistenza di Dio. Questo è il procedimento seguito costantemente da S. Tommaso nelle sue opere, presentando argomenti nella maggior parte dei casi già noti e familiari,ma talvolta anche adducendo argomenti nuovi, ricavati dalla
filosofiadell'essere. Nella Summa, allargando fino a cinque la lista degli argomenti dell'esistenza di Dio, che nelle altre opere non supera mai il numero di quattro, S. Tommaso fa vedere che l'esistenza di Dio può essere provata pan tendo da cinque fenomeni noti a tutti: il divenire (movimento), le cause seconde, la contingenza, i gradi di perfezione, l'ordine dell'universo. Nessuno di questi fenomeni è originario e incausato; tutti manifestano una condizione di dipendenza e carenza ontologica. Di qui la necessità di ricercare la loro causa. E la ricerca che non vuol essere un regressus ad inflnitum si conclude sempre necessariamente con la scoperta di Dio. La struttura delle Cinque Vie è uniforme ed è di una semplicità esemplare. Essa consta di quattro momenti: 1) Si attira anzitutto l'attenzione su di un determinato fenomeno di contingenza (il divenire, la causalità subordinata o strumentale, la possibilità, i gradi di perfezione, l'ordine). 2) Si evidenzia il carattere relativo, dipendente, contingente, causato da ogni singolo fenomeno: ciò che è mosso, è mosso da altri; le cause seconde, strumentali, sono a loro volta causate; il possibile riceve l'essere dal necessario; i gradi ricevono la loro perfezione dal grado massimo; l'ordine richiede sempre intelligenza, mentre le cose naturali ne sono prive. sua
1U°)1bid., 1.
Tommaso d ‘Aquino
3) Si
541
che la realtà effettiva, attuale, di un fenomeno contingente può spiegare facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti. 4) Si conclude dicendo che l'unica spiegazione plausibiledel contingente è Dio: lui è il motore immobile, la causa incausata, l'essere necessario, il sommamente perfetto, l'intelligenza ordinatrice suprema. Ecco ora, in breve le ”Cinque Vie”: Printa via: dal moto al motore immobile. «La prima e la più evidente si desume dal moto (prima autem et manzfestior via est, quae sumitur ex parte motus). È certo infatti e consta ai sensi, che alcune Cose mutano in questo mondo. Ora tutto ciò che muta o diviene è mutato da altri (omne autem quod movetur, ab all'0 movetur) (...). Se dunque ciò da cui deriva il mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch'esso sia mutato da un terzo e questo da un quarto, ma in ciò non si può procedere all'infinito (...). Dunque è necessario arrivare a una prima ragione del mutamento che non muti affatto: e questo è ciò che tutti gli uomini intendono per Dio».1°7 Seconda via: dalle cause seconde alla Causa Prima. «Vediamo nelle cose che cadono sotto i sensi un ordine di cause efficienti (invenimus enim in istis sensibilibus esse ordinem causarum efiicientium); tuttavia non si vede né e possibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa poiché, se Così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di se stessa, il che è impossibile.Ma non è possibile che nelle cause efficienti si proceda all'infinito non
-
-
mostra
si
542
Parte seconda
stenza di un essere che sia di per se stesso necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio».109 Quarta via: dai gradi di perfezione all’assolutamente perfetto (quarta via sumitur ex gradibus qui in rebus inveniuntur). Nelle Cose si riscontrano gradi di perfezione (cose più 0 meno buone, più 0 meno vere, più o meno belle ecc.). «Ma il grado maggiore 0 minore si attribuisce alle diverse cose secondo che si accostano di più 0 di meno ad alcunché di sommo e di assoluto (...). Vi è dunque un qualche cosa che è massimamente vero, massimamente buono, massimamente bello, e di conseguenza qualcosa che ‘e il supremo ente (maxime ens) (...). E questo chia-
miamo Dio». 11° Quinta via: dall'ordine del
al supremo Ordinatore (quinta via sumitur ex gubernatione rerum). «Noi osserviamo che alcune cose prive di conoscenza, cioè i corpi fisici (corporei naturalia), tuttavia operano per un fine, come risulta dal fatto che esse operano sempre 0 quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione (ex intentione) raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’ essere chiamiamo Dio».1“ Per aiutare il lettore moderno a cogliere il senso delle ‘Cinque Vie" osserviamo anzitutto che nella prima via, il moto (divenire) di cui parla S. Tommaso non è il moto locale bensì il moto sostanziale ed entitativo; nella seconda, la serie di cause seconde a cui si riferisce l’Angelico non è una serie di cause dipendenti tra di loro accidentalmente, che può essere più o meno lunga e persino indefinita, bensì una serie di cause collegate necessariamente in vista dell'effetto (per es. la falce, il manico, la mano, il corpo per la falciatura del fieno); nella terza, si parla di necessità nell'ordine dell'essere e non in quello dell'essenza; nella quarta, S. Tommaso si riferisce alle perfezioni semplici e non alle perfezioni miste; nella quinta, i corpi naturali abbracciano non soltanto gli esseri materiali (acqua, aria) ma anche gli esseri viventi privi di intelligenza (i fiori, le piante) nelle cui operazioni il finalismo è quanto mai palese. La seconda osservazione è che le prove di S. Tommaso non sono legate a nessuna teoria cosmologica particolare: i fenomeni che egli prende in considerazione e i principi che egli invoca non sono legati né a Platone, né ad Aristotele, né a Tolomeo ecc., ma appartengono all'esperien-
‘Wflbid. 11°)Ibid. 111)Ibid.
cosmo
Tommaso d ’Aquin0
543
ordinaria, e i principi (di causalità e dellhssurdità del regressus ad infinitum), non sono legati a nessuna scienza e a nessuna visione cosmologica, ma sono principi primi della metafisica. La terza e ultima osservazione riguarda più specificamente il princi-
za
pio di causalità: esso non va inteso come mera successione e concatena-
zione necessaria di eventi, come accade nella filosofia e nella scienza moderna a partire da Hume e Kant; bensì come comunicazione della propria perfezione da parte della causa all'effetto: è comunicazione d'essere e non mera successione (‘e la comunicazione della propria realtà del melo alla mela, della mucca al vitellino e non la mera successione del tuono rispetto al lampo). Tale principio ha valore assoluto come il principio di non contraddizione e funge da validissimo supporto alle argomentazioni di S. Tommaso. Alla luce di queste osservazioni riteniamo che le ”Cinque Vie" conServino inalterato il loro valore anche per l'uomo della civiltà ciberneti-
Concediamo tuttavia, che a codesto uomo possono risultare più comprensibilie più persuasive altre vie (le vie a Dio sono d'altronde infinite), soprattutto quelle che partono dall'uomo stesso anziché dal cosmo. ca.
Replica agli argomenti dellkzteismo Dopo avere provato l'esistenza di Dio con argomenti di indubbio valore, l’Angelico prende in esame gli argomenti degli atei. All’argomento tratto dal male, a questo punto si accontenta di replicare come segue: «Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse r
del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male”. Sicché appartiene all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni» (lbid, ad 1). La replica di S. Tommaso è decisamente troppo "secca” e troppo ”comoda” per risultare pienamente soddisfacente. Ma si deve tener conto del fatto che qui egli ha ridotto la sua critica ai minimi termini e non ha inteso in alcun modo impegnarsi sulla questione della natura e delle cause del male. Il problema lo affronterà altrove con estrema serietà e con grande impegno, specialmente nella Quaestio disputata de malo. Altrettanto brevi ma più persuasive sono le risposte dell’Aquinate alle altre due obiezioni. A quella tratta dalla scienza che spiega le operazioni della natura mediante le leggi naturali, S. Tommaso replica: «Certo la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro causa prima» (Ibid, ad 2). All’obiezione relativa alla libertà umana, la risposta è la seguente: «Similmente
Parte seconda
544
gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti a una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibilie tutto ciò che e mutevole e tutto ciò che può venir meno deve essere come
ricondotto a
una causa
si è dimostrato» (Ibid).
prima immutabilee
di per se necessaria,
Le prove dell'esistenza di Dio nelle altre opere La trattazione dell'esistenza di Dio nella Summa è la più completa e la più approfondita, ma anche quanto S. Tommaso ha scritto nelle altre opere va sempre tenuto presente. La questione dell'esistenza di Dio è affrontata in tutte le opere sistematiche a partire dal Commento alle Sentenze fino al Compendio di Teologia; ma è esaminata anche in alcune Questioni disputate, nell'opuscolo De ente et essentia e nel Commento al Vangelo di S. Giovanni. Nel Conzmento alle Sentenze S. Tommaso presenta quattro prove, che egli stesso denomina: a) via cansalitatis («tutto ciò che ha l'essere dal nulla dipende da un altro dal quale riceve l'essere»); b) via renzotionis («al di là dellimperfetto deve esserci il perfetto che esclude ogni mescolanza di imperfezione»); c) via enzinentiae in esse («i gradi di bontà si stabiliscono in rapporto all'ottimo»); d) via eminentiae in Cognitione («i gradi di evidenza esigono ciò che è evidente in se stesso»)."2 Nel De Veritate il problema dell'esistenza di Dio è toccato un paio di volte. Nella q. 2, a. 3, l'esistenza di Dio è ricavata dal finalismo. Nella q. 10, a. 2, 5. Tommaso esclude che l'esistenza di Dio sia una verità ovvia, per se nota e fa vedere che va dimostrata: «L'essenza di Dio non ci è nota, quindi rispetto a noi (quoad nos) l'esistenza di Dio non ci risulta evidente (Deum esse non est per se notam), ma ha bisogno di dimostrazione». Nella Summa contra gentiles, S. Tommaso propone quattro Vie: del divenire (motus), della causalità, dei gradi di perfezione e dell'ordine. Le ultime tre sono esposte in modo sintetico, mentre la prima viene presentata con una lunga serie di passaggi e con moltissimi riferimenti alla fisica aristotelica e, a rendere la cosa più complicata, in due versioni, una diretta e l'altra indirettam Nel De potentia il problema dell'esistenza di Dio non viene sollevato esplicitamente, ma è incluso implicitamente nella q. 3, a. 5, che ha per titolo: UÌTHÌH possit esse aliquid quoal non sit creatum a Dea (Può esserci qualcosa che non è stato creato da Dio?). La risposta di S. Tommaso a questo interrogativo assume l'andatura di una vera e propria prova del-
113M Sent. d. 3, div. primae partis texlus. 1‘3)Cf. C. G., I, 13.
Tommaso d'Aquino
545
l'esistenza di Dio, che coincide in larga misura con la Quarta Via della Summa Theologiae, solo che nella formulazione del De potentia si ricorre in maniera più esplicita al principio di partecipazione: «Quando si incontra qualcosa che viene partecipato da molti enti, occorre che essa sia attribuita loro da colui che la possiede perfettissimamente...». Nel Contpendium Theologiae dato il carattere sintetico dell'opera, S. Tommaso propone una sola Via, che corrisponde a quella del divenire, che qui viene detta, «via visibilealla ragionewl‘! Nel Prologo al Commento al Vangelo di S. Giovanni, S. Tommaso afferma che gli antichi filosofi sono giunti alla conoscenza di Dio in quattro modi, e basandosi sul versetto biblico: «Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato» (I5 6, 1), li denomina rispettivamente: modo dell'autorità (vidi Dominum), dell'eternità (sedentem), della dignità o nobiltà (super solium excelsum) e della verità incomprensibile(elevatum). Il modo dell'autorità di Dio si basa sul finalismo e corrisponde chiaramente alla Quinta Via della Summa Theologiae; il modo dell'eternità è basato sulla mutabilità (divenire delle cose) e corrisponde alla Terza Via; i due modi della dignità e della verità si basano entrambi sulla partecipazione e coincidono praticamente con la Quarta Via. Nel De ente et essentia (c. 4) S. Tommaso sviluppa un importante argomento dell'esistenza di Dio a partire dalla distinzione reale tra essenza e atto d'essere nelle creature.
L'essenza di Dio Accertata l'esistenza di Dio, S. Tommaso passa allo studio della
sua
della sua natura. L'analisi e il discorso sull'essenza e sulla natura di Dio, in sede razionale, è ancora più arduo e più impegnativo di quello della sua esistenza. Se infatti di quest'ultima nella contingenza radicale delle cose non mancano tracce inconfondibili,tuttavia esse non sono tali da consentire un'identificazione e una definizione adeguata della realtà di Dio, della sua essenza, della sua persona, delle sue proprietà e attributi. Infatti dal mondo non è possibile ricavare concetti precisi, chiari e distinti del suo autore, come dalle orme lasciate da un elefante non è possibile farsi un'idea adeguata dell'elefante che le ha impresse. Le perfezioni infinite di Dio si manifestano sempre alla mente dell'uomo per speculum et in aenigmate, sia perché sono spezzettate e frantumate in tante piccole dosi, sia perché la nostra capacità di apprenderle è quella di un'intelligenza essenza e
114) Comp. TheoL, c. 3.
546
Parte seconda
finita, limitata, condizionatadalla materia e dalla storia. Tuttavia questo
elimina la legittimità e la necessità di fare un discorso anche sulla natura, sugli attributi e sulle operazioni di Dio, dal momento che se ne conosce l'esistenza. Alcuni aspetti dell'essere di Dio risultano già chiari dalle conclusioni delle varie Vie: Yimmutabilità,l'efficienza, la necessità, la perfezione e l'intelligenza. Ma sappiamo che, oltre che con le "Cinque Vie", S. Tommaso è asceso a Dio anche in altri modi, in particolare percorrendo la Via dell'essere. Ora è proprio quest'ultima che conduce S. Tommaso a scoprire quell'aspetto di Dio che ne costituisce la differenza specifica rispetto a tutte le creature, e quindi a individuare perfettamente la sua essenza. La differenza specifica non consiste nel possedere l'efficienza, l'intelligenza, la potenza, la perfezione, la bontà, la verità ecc. Ciò che distingue Dio dalle creature è di non avere l'essere per partecipazione, bensì per essenza: è l'identificazione in lui dell'essenza con il suo essere. Ecco quindi raggiunto il concetto più adeguato di Dio, la definizione più precisa: Dio è l'esse ipsum subsistens. Questa espressione, secondo S. Tommaso, si applica soltanto a Dio; e perciò non è affatto un titolo anonimo, come può sembrare a prima vista, ma è un titolo personalissimo: anzi è il nome proprio di Dio. E questo, spiega S. Tommaso, per tre motivi: «Anzitutto per il suo significato. Infatti non esprime già una qualche forma o modo particolare di essere, ma lo stesso essere (...). In secondo luogo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi sono meno vasti e universali (...). In terzo luogo è Colui che è il nome più proprio di Dio, sia per la derivazione del termine, che è l'essere, sia per l'universalità del significatomlfi Per quanto concerne la determinazione e la conoscenza dell'essenza di Dio in sede filosofica la verità più importante alla quale si può arrivare è indubbiamente questa: il suo è possesso pieno dell'essere, proprio perché è l'essere a costituire la sua essenza. Questo privilegio compete esclusivamente a Dio. «Ciò che è l'essere, non è incluso perfettamente nel concetto di nessuna creatura; infatti in qualsiasi creatura l'essere è distinto dalla sua essenza; per questo motivo non si può dire di nessuna creatura che il suo esistere è qualche cosa di necessario e di evidente (per se notum et secundum se) in forza dei suoi stessi principi. Ma in Dio l'essere è incluso nel concetto della sua essenza, perché in Dio l'essere e l'essenza si identificano, come dicono Boezio e Dionigi».1"= non
115)s. Th. I, 13, 11. 116)De ver. 10, 12.
Tommaso d 'Aquin0
547
Gli attributi di Dio La
lunga rassegna degli attributi di Dio che l'Angelic0 ci presenta in
tutte le sue
opere sistematiche ha
come
filo conduttore il concetto inten-
sivo dell'essere. Così tutti gli attributi ricevono la loro giustificazione definitiva chiamando in causa l'essere. Riassumendo, il procedimento di S. Tommaso per stabilire gli attributi di Dio è il seguente: egli prende una perfezione, la confronta con l'essere; controlla se si basa sull'essere stesso o se invece ottiene l'essere solo quando si incarna in una determinata essenza. Nel primo caso ha raggiunto un attributo di Dio, nel secondo no. I principali attributi che S. Tommaso ottiene con questo procedimento sono i seguenti: semplicità, infinità, perfezione, immutabilità, eternità, onnipresenza, unicità, verità, bontà, bellezza. Ecco gli argomenti come sempre molto lucidi e convincenti con cui, avvalendosi del -
-
concetto intensivo dell'essere, -
egli
ne
giustifica l'applicazionea Dio.
Semplicità: «Colui che conferisce l'essere a tutti gli altri, per quanto concerne l'esstesso non può dipendere da nessun altro; infatti chi per esistere dipende da un altro, deve ricevere l'essere da quello, e non può Certamente essere colui che dà l'essere a tutti gli altri. Ma Dio è colui che conferisce l'essere a tutti; quindi il suo essere non dipende da altri. Ma l'essere d'ogni composto dipende dai suoi componenti: togliendo i componenti viene meno il composto sia come cosa sia come idea (secundum rem et secundum intellectum). Quindi Dio non è composto. Inoltre, colui che è il principio primo dell'essere (primum principium essendi) lo possiede in modo eccellentissimo, perché ogni cosa è presente in maniera più eccellente nella causa che nel causato. Ma il modo più eccellente di possedere l'essere è quello per cui una cosa è identica all'essere. Quindi Dio è il Suo essere (est suum esse), mentre nessun composto è il suo essere, perché il suo essere dipende dai componenti e nessuno dei componenti è l'essere stesso. Dunque Dio non è composto. Ciò dev'essere ammesso assolutamentemîl?’ sere
-
Perfeziona‘: «In Dio si ritrovano le perfezioni di tutte le cose. Perciò è anche detto universalmente perfetto (universaliter perfectus), perché non gli manca nessuna delle perfezioni che si possono incontrare in qualsiasi genere di cose, come dice il Commentatore. E questo si può arguire da quanto abbiamo già dimostrato, che cioè Dio è l'essere stesso per sé sussistente (ipsum esse per se subsistens); di qui la necessità che egli contenga tutta la perfezione dell'essere (totam perfectionem essendi). È chiaro
117)] SenL, 8, 4, 1.
548
Parte seconda
se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché il calore non è partecipato in tutta la sua perfezione; ma se il calore fosse per sé sussistente, non gli potrebbe mancare niente di ciò che forma la perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi niente gli può mancare della perfezione dell'essere. Ma le perfezioni di tutte le cose fanno parte della perfezione dell'essere (omnium autem perfectiones pertinent ad perfcctio-
infatti che
nem essendi), essendo perfette le cose a seconda del modo con cui partecipano all'essere. Di qui ne segue che a Dio non può mancare la per-
fezione di
-
nessuna
cosamîif‘
infinità: «infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa maniera la materia viene limitata dalla forma e a sua volta la forma dalla materia. La materia è limitata dalla forma in quanto la materia, prima di ricevere la forma, è in potenza a molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La forma poi è limitata dalla materia, perché la forma, considerata in se stessa, è comune a molte cose; ma dal momento in cui è ricevuta nella materia, diventa forma soltanto di una determinata cosa. Se non che, la materia riceve la sua perfezione dalla forma che la determina, e perciò l'infinito attribuito alla materia racchiude imperfezione, perché è come una materia senza forma. La forma invece non viene perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua ampiezza illimitata; quindi l'infinito che si attribuisce alla forma non delimitata dalla materia importa essenzialmente perfezione. Ora, come abbiamo già veduto, l'essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa trovare (maximeformale omnium est ipsum esse). Quindi, siccome l'essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio è il suo proprio essere sussistente (suum esse subsistens), come si è precedentemente dimostrato, resta provato chiaramente che Dio è infinito e perfetto».119
-
Onnipresenza: «Essendo Dio l'essere stesso per essenza (ipsum esse per suam essentiam), bisogna che l'essere creato sia l'effetto proprio di Lui, come bruciare è l'effetto proprio del fuoco. E questo Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano a esistere, ma fintanto che perdurano nell'essere; come la luce è causata nell'aria dal sole finché l'aria rimane illuminata. Fino a che dunque una cosa ha l'essere, è necessario che Dio le sia presente nella proporzione in cui essa possiede l'essere.
113)S. Th. I, 4, 2. 119)Ibid., 7, 1.
Tommaso a’ ‘Aquino
549
poi è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profonda(magis intimum et profundius), poiché, come si è già detto, l'essere è elemento formale rispetto a tutti i principi e i componenti che si trovano in una data realtà. N ecessariamente dunque Dio e in tutte le cose e in maniera intima (Deus est in omnibus rebus, et intime)».12Ù L'essere
mente radicato
—
Immutabilità: «Da quanto è stato precedentemente esposto si dimostra che Dio è assolutamente immutabile(...). Infatti tutto ciò che si muove acquista qualcosa in forza deI suo movimento e arriva a ciò cui prima non arrivava. Ora, Dio, essendo infinito e racchiudendo in se stesso in modo perfetto e universale la pienezza di tutto l'essere (plenitudinem perfectionis totius esse), nulla può acquistare né estendersi a qualcosa cui prima non arrivava; in nessun modo quindi a lui conviene il movimento. Ecco perché anche tra gli antichi, alcuni, quasi costretti dalla stessa verità, affermarono Yimmutabilitàdel primo principiomlîî
—
Eternità: «La nozione di eternità nasce dalfimmutabilità,come quella di tempo deriva dal movimento, come risulta da ciò che è stato detto. Quindi essendo Dio sommamente immutabile, a lui in modo assoluto compete d'essere eterno. E non è soltanto eterno, ma è anche la sua stessa eternità, mentre nessun'altra cosa è la propria durata, perché non è il proprio essere. Dio invece è il suo stesso essere uniforme (Deus est suum esse uniforme), e perciò com'è la sua essenza così è la sua eternitàmm
-
Unità: «L'uno è l'ente indiviso (ens indivisum). Perciò perché una cosa sia massimamente una occorre che sia massimamente ente e massimamente indivisa. Ora, l'una e l'altra condizione si verifica in Dio. Egli infatti è massimamente ente, perché non è ente per avere un essere
determinato da
una
qualche natura (o essenza) alla quale sia stato
unito, ma perché è lo stesso essere sussistente, illimitato in tutti i sensi (est ipsum esse subsistens, omnibus modis indeterminatum). È poi massimamente individuo, in quanto non è divisibileper nessun genere di
divisione né in atto né in potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti, come fu già dimostrato. E quindi evidente che Dio è somma-
mente uno».123
120)Ibz'd., s, 1. 120112111, 9, 1. 122)1bid., 10, 2. 123112111, 11,4.
Parte seconda
550
-
Bontà: «Il bene è definito egregiamente da Aristotele come ”ciò che tutti desiderano". Ora, tutte le cose desiderano di esistere nella loro piena attualità, secondo il modo loro proprio, come risulta dalla ripugnanza naturale che hanno alla distruzione; quindi l'esistenza in atto (esse actu) costituisce la ragione essenziale del bene. Per questo, dalla privazione dell’atto nella potenza consegue un male, come dimostra Aristotele (Met. IX, lect. 19). Ma Dio è ente totalmente in atto, non in potenza, come s'è visto sopra. Dunque è veramente buono (...). Anzi, da questo può ricavarsi che Dio è la stessa bontà. Infatti, per qualunque cosa la pienezza dell’essere, ossia l'essere in atto, è ciò che costituisce il suo bene; ora Dio non soltanto è un ente in atto, ma è il suo stesso essere (est ipsum suum esse) come si è dimostrato sopra. Perciò egli non soltanto è buono, ma è la stessa b0ntà>>J24
Vita e operazioni di Dio Dopo avere accertato l'esistenza di Dio, definita la sua essenza e illustrati i suoi principali attributi, S. Tommaso passa a studiare la vita di Dio e le sue opere. Si tratta di una vita intensissima e di una serie di operazioni eccellenti, che si addicono al suo essere immateriale, semplice, ìnfinito, perfetto, buono, immutabileecc. A Dio competono due ordini di operazioni: 1) ad intra: sono quelle che costituiscono la vita intima di Dio, e precisamente le operazioni del conoscere e del volere; 2) ad extra: esse riguardano i rapporti di Dio con il mondo, e sono la Creazione, la provvidenza e la conservazione. Qui esporremo brevemente il pensiero di S. Tommaso sulle operazioni ad infra; per le operazioni ad extra rimandiamo il lettore alle pagine successive (pp. 576-590) nelle quali le tratteremo più specificatamente. -
La
conoscenza
di Dio
Appartiene alla natura stessa dello spirito d'essere intelligente e libero, di comunicare con gli altri e di farlo con perfetta autonomia. La materia è cieca, tenebrosa e impenetrabile, ed è inoltre incatenata a leggi immutabili.Invece lo spirito è luminoso e mobilissimo,va dove vuole, è libero. È dalla condizione stessa della natura spirituale, che compete a Dio in modo sommo, che S. Tommaso deriva immediatamente la sua dottrina sulla conoscenza e sulla volontà di Dio. In quanto spirito assoluto Dio è sommamente conoscitivo. «A chiarimento di ciò bisogna considerare che gli esseri conoscitivi si distinguono dagli esseri non conoscitivi in questo, che i non conoscitivi non hanno
124)C. G. l, 37-38.
Tommaso d 'Aquin0
551
che la
propria forma; mentre quelli dotati di conoscenza sono fatti per giacché in chi conosce si trova l'immagine dell'oggetto conosciuto (...). Ma la limitazione viene dalla materia (...). Quindi, essendo Dio all'apice della immaterialità, come risulta chiaramente da ciò che precede, ne viene che egli sia anche all'apice del avere
anche la forma di altre cose,
conoscere».125
Mentre nell'uomo il conoscere è altra cosa dall'essere (ora conosce, ora conosce), in Dio essere e conoscere coincidono perfettamente: Dio è sempre in atto di esistere e di conoscere e, conseguentemente, non può avere che se medesimo come oggetto intelligibile,adeguato e sempre presente: perciò Dio conosce se’ in se stesso. E si conosce perfettamente, cioè conosce totalmente se stesso. Conoscendosi perfettamente, Egli conosce anche ciò a cui può estendersi la sua virtù, conosce quindi tutte le cose, essendone la causa, e le conosce non con cognizione generica, ma distinta e propria, e in se stesso vede anche le cose tutte insieme, mentre l'uomo conosce le cose una dopo l'altra, con scienza discorsivaflîé Dio sa tutto quello che può fare lui e anche quello che possono fare, dire, pensare le creature; e siccome Dio è eterno e per lui tutto è presente egli conosce con scienza di Visione quello che è presente o fu o sarà; invece Conosce con scienza di semplice intelligenza quello che non è presente e neppure fu o sarà, ma resta soltanto possibile. Conoscendo il bene Dio conosce anche il male, che è o corruzione del bene o mancanza del bene.127 In Dio la conoscenza delle cose, in quanto le si aggiunge la volontà, è causa delle cose e le cose esistono in quanto Dio le conosce e non già Dio le conosce perché esistonoflzîî non
-
-
-
La volontà di Dio S. Tommaso prova che a Dio compete oltre all'operazione del conosce-
anche quella del volere, richiamandosi al principio che ogni essere possiede l'inclinazioneverso ciò che giova alla propria autorealizzazione.
re
«Questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscenza si chiama appetito naturale. E così anche gli esseri intelligenti hanno una simile inclinazione al bene appreso mediante una specie intelligibile, in maniera che quando hanno questo bene vi si riposano, quando non l'hanno lo ricercano. Questa duplice operazione appartiene alla vo-
1î5)S. Th. I, 14, 1. l25)Cf. ibid, 2-7. ‘27)Cf. ibid, 9-10. 123)Cf. ibid., 8.
552
Parte seconda
lontà.
Quindi in ogni essere che ha l'intelletto, c'è la Volontà, come in
ogni essere dotato di senso c'è l'appetito sensitivo. Perciò e necessario volontà, essendovi l'intelletto. E come il così è per il suo volere>>flî9 coincide con l'essere, suo «A Dio compete avere volontà, essendo dotato di intelligenza. Ora, siccome egli intende mediante la sua essenza, come s'è provato in precedenza, così ancora vuole. Pertanto la volontà di Dio è la sua ammettere che in Dio vi è la conoscere
stessa essenzamm
Come
l'oggetto del
conoscere
divino è anzitutto
(Dio si diletta nella contemplazione di
e
soprattutto il prostesso) altrettanto
prio oggetto primario e principale della Volontà divina è l'infinita ricchezza del suo essere: Dio si compiace e gusta le perfezioni superlative e meravigliose del proprio essere. «Infatti oggetto della volontà è il bene conosciuto. Ora il primo oggetto conosciuto da Dio è l'essenza divina. Dunque l'essenza divina è il termine a cui principalmente si dirige la volontà divina (...). Inoltre, per qualsiasi essere volente, l'oggetto principale voluto è il suo ultimo fine; poiché il fine è voluto in se stesso, e per esso si vogliono le altre cose (i mezzi). Ora l'ultimo fine è Dio stesso, perché è il sommo essere
se
bene; quindi egli è il principale oggetto Voluto dalla sua V0l0ntà>x13l
Ma Dio non vuole e non ama soltanto se stesso; con un unico atto egli vuole e ama oltre che se stesso anche le cose, ma non allo stesso modo. Come infatti conosce le cose solo come imitazioni della divina essenza, Così Vuole e ama le Cose come partecipazioni della divina bontà. Mentre però Dio Vuole se stesso necessariamente, le cose le vuole liberamente. «La Volontà divina ha un rapporto necessario alla sua bontà, la quale è il suo oggetto proprio. Dio Vuole dunque necessariamente che esista la sua bontà, come la nostra volontà necessariamente vuole la felicità. Tutte le altre cose Dio le vuole in quanto sono ordinate alla sua bontà, come al loro fine (...). Siccome, però, la bontà di Dio è assolutamente perfetta in se stessa e può stare senza tutto il resto, non traendo da esso nessun accrescimento di perfezione, ne segue che volere le cose da sé distinte non è necessario per Iddio di necessità assoluta. Tuttavia può divenire necessario in forza di un'ipotesi: supposto infatti che Dio le voglia, non può non volerle, perché la sua volontà non può mutareml-‘î
129)lbid., 19, 1. 13°)C. G. I, 73. 130112121, 74. 132)s. Th. 1, 19, 3.
Tommaso d’Aquin0
553
Studiando la volontà di Dio, S. Tommaso affronta anche il tormento-
so
problema del male e questa volta 10 fa in modo più profondo ed esau-
riente di
quanto non avesse inteso fare replicando a coloro che invocano il fenomeno del male per negare l'esistenza di Dio.133 S. Tommaso riafferma il principio che il male non si può volere per sé ma soltanto in quanto congiunto con qualche bene. Questo principio si applica anche a Dio. Pertanto Dio, volendo la sua bontà sopra tutto, rigetta il male di colpa che è ad essa direttamente contrario; quanto agli altri mali, volendo Dio le altre cose in ordine a sé, può volere il male di pena in ordine alla giustizia e il male naturale in ordine alla provvidenzafi“ -
Trinità
Già attingibiledalla ragione attraverso le vie della teologia naturale e della religione, il mistero di Dio assume lineamenti più definiti e più avvincenti attraverso la Rivelazione (unicità, onnipotenza, creazione, misericordia, giustizia, amore, azione liberatrice ecc.). Lungo la storia della salvezza, attraverso una vera e propria azione pedagogica, Dio stesso ha rivelato all'umanità l'unicità della sua natura e, con Gesù Cristo, la Trinità delle persone (ipostasi). Del mistero della Trinità, in quel possente capolavoro speculativo che è il De Trinitate, S. Agostino aveva detto praticamente tutto quello che alla mente umana è consentito dire: egli aveva trovato le formule giuste e le immagini appropriate per chiarire come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti e l'identità della natura, senza cadere nel politeismo. La felicissima intuizione di Agostino fu quella di collegare la sussistenza alla relazione: in Dio si hanno le tre persone del Padre, Figlio e Spirito Santo grazie alla sussistenza delle relazioni della Paternità, della Filiazionee della Spirazione passiva. Nella sostanza l'insegnamento trinitarìo di S. Tommaso ricalca fedelmente quello di S. Agostino; la novità più significativa riguarda lo studio delle due operazioni specifiche e immanenti dello spirito umano, l'intellezi0ne e la volizione. S. Tommaso fa Vedere che la processione del Figlio ha luogo mediante la intellezione e che si tratta di una vera e propria generazione, mentre la processione dello Spirito ha luogo mediante la volizione comune del Padre e del Figlio, ma non si può chiamare
generazionefi35
133)Cf. ibinl, 2, 3, 1. I34)cr. ibid., 19, 9. 135)Cf. ibid., 27, 4.
554
Parte seconda
Conoscibilitàdi Dio: la
"
ia"
dell’analogia
Nella Summa Tlzeologiae S. Tommaso affronta il problema della conoscibilità di Dio, quando si trova a metà strada del trattato De Deo: dopo aver trattato della esistenza, della natura e degli attributi di Dio, e prima
di iniziare la trattazione delle sue operazioni. La questione XII tratta del con cui noi conosciamo Dio (Quomodo Deus a nobis mentre la questione XIII tratta dei nomi di Dio (De nominibus Dei). Noi abbiamo preferito trasferire queste due questioni alla fine dell'esposizione del pensiero di S. Tommaso su Dio, perché sono questioni che non
modo
cognoscatur),
riguardano la realtà di Dio, bensì i poteri che l'uomo ha nei confronti di Dio: i poteri di conoscerlo e di nominarlo. Pertanto si tratta di una verifica critica di quanto l'uomo pretende di fare con i suoi concetti e con le sue parole, applicandoli a Dio. In entrambi i casi S. Tommaso si mantiene fermamente ancorato alla sua posizione gnoseologica (e, di conseguenza, anche semantica) del realismo moderato, e collega sia la conoscenza sia il linguaggio umano all'esperienza sensibile. Come s'è visto, le stesse prove dell'esistenza di Dio sono tratte dall'esperienza. Perciò la conoscenza che l'uomo acquisisce di Dio e i nomi che gli assegna non possono avere che un valore analogico. Nessun concetto e nessuna parola esprime direttamente e adeguatamente ciò che Dio è in se stesso. Neppure il nome più proprio di Dio, l'Esse ipsum subsistens, ci consente di acquisire un concetto adeguato di Dio. Esso deve passare attraverso il filtro molto stretto della via negativa, la quale alla fine salva la res significata ma distrugge completamente il modus significandi. Ecco due dichiarazioni molto esplicite di S. Tommaso a questo proposito: una è tratta dalla Summa Theologiae e riguarda l'origine ”empirìca" del nostro parlare di Dio; l'altra è tratta dal Commento alle Sentenze e si riferisce alla purificazione di tutti i nostri concetti quando ce ne serviamo per intendere la realtà di Dio. «Noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine
si dica di Dio e delle creature si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio come principio e causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose».136 «Noi neghiamo anzitutto a Dio tutto quanto è corporeo e, secondariamente, quanto è intellettuale e mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature viventi, come, per es., bontà e sapienza. E allora resta nella nostra mente soloche Dio è e nulla più. Infine rimuoviamo anche l'idea dello stesso "essere", così come questa idea di "essere" si trova presente nelle creature e allora Dio rimane nell'oscura notte dell'ignoranza, ed è in questa
136)Ibid., 13, 5.
Tommaso d'Aquino
555
ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio nella nostra vita, come dice Dionigi. Infatti in questa nebbia,dicono, abita Dio».137 La posizione che S. Tommaso assume circa problemi della conoscibilità e della ineffabilità di Dio è intermedia tra un eccessivo apofatismo, che concede che su Dio si possa fare soltanto un discorso negativo, e un temerario catafatismo, troppo fiducioso nelle possibilitàumane di capire e di esprimere ciò che Dio è in se stesso. A Maimonide, massimo esponente de11’apofatismo ai suoi tempi, S. Tommaso replica che nella sua teoria «sparisce ogni differenza tra dire che Dio è sapiente, e dire che Dio si adira 0 che Dio è fuoco. Si dice che si adira perché si comporta come chi si adira quando punisce: è quello che fanno di solito le persone adirate quando puniscono. Si dice fuoco, perché opera come il fuoco quando purifica, ciò che a suo modo fa pure il fuoco. Ma ciò contrasta con la posizione dei santi e dei profeti che hanno parlato di Dio, i quali approvano l'attribuzione a Dio di determinate cose, mentre altre le escludono; concordano che Dio è vivo, sapiente e così via, ma negano che sia un corpo, oppure soggetto a passioni. Secondo la teoria di Maimonide si può dire e negare indiscriminatamente tutto, senza nessuna distinzione».138 Ma c'è di peggio, osserva S. Tommaso: se fosse Vera la teoria di Maimonide, «prima della creazione,
oppure nel caso che Dio non avesse creato il mondo, di Lui non si potrebbe dire né che è buono, né che è sapiente, né che è vivo ecc.».139 È innegabile che l'uomo parla di Dio positivamente e non solo negativamente e questo significa che egli possiede anche concetti positivi e non solo negativi della sua realtà. Ma che cosa riesce effettivamente a pensare e dire di Dio un'intelligenza così povera come la nostra? Ciò che S. Tommaso ritiene ovvio è che nessun concetto e nessuna parola dell'uomo si possono applicare univocamente, ossia allo stesso modo, a Dio e alle creature, perché la distanza tra loro è infinita. Non c'è mai parità di senso quando si pensa e si parla di Dio e delle creature. E tuttavia, applicati a Dio e alle creature i nostri concetti e le nostre parole non divengono insensati: ciò accade grazie alfanalogiaflo
137)] SenL, 8, 1, 1, ad 4. I3“) De p0t., 7, 5. 139)Ibid. 14°) L'analogia è uno degli argomenti più studiati e più dibattuti della letteratura tomistica. Ricordiamo in particolare: R. Mc IRNEY, The Logic of Analogy, The Hague 1961; G. P. KLUBERTANZ, St. Thomas Aquìnas on Analogy, Chicago 1960; C. FABRO, Partecipazione e causalità, cit.; B. MONDIN, The PrincipleofAnalogy in Protestant and Theology, 2“ ed., The Hague 1968; B. MONTAGNE, La dottrine de Wanalogia" de i’e“tre d ’après saint Thomas d ‘Aquin, Paris / Louvain 1963; T. TYN, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, ESD, Bologna 1991.
556
Parte seconda
Analogia etimologicamente significa "secondo ragione” (dal greco analogon). Già usato dai presocratici e da Platone, Panalogia assume un
ruolo importante in Aristotele, che se ne serve sia in metafisica, per qualificare un tipo di unità tra esseri che non appartengono né allo stesso genere né alla stessa specie, sia in logica, per catalogare termini e concetti che non sono predicati né univocamente né equivocamente. S. Tommaso riprende e precisa ulteriormente la dottrina aristotelica e ne fa uno dei capisaldi del suo pensiero filosofico e teologico: è lo strumento concettuale che gli consente di risolvere alcuni problemi fondamentali di logica, gnoseologia, metafisica e teologia, secondo quella linea di moderato realismo che salvaguarda il valore della conoscenza senza incorrere negli errori del razionalismo (idealismo) o del nominalismo, e gli permette di difendere il valore della creatura senza compromettere né la trascendenza né Yimmanenza del Creatore. Data l'ampiezza e complessità del tema, lo suddividiamo nei seguenti punti: 1. Definizione; 2. Divisione; 3. Fondamento; 4. Statuto gnoseologico; 5. Applicazioni teologiche.
Definizione pensiero anche per l’analogia S. Tomespressioni di cui si avvale più ad oltre sono: habitudo, similitudo, conzmunitas, proportio, analogia, spesso, secundum et convenientia, praedicatio prius posterius. Quanto alla definizione Come per altri elementi del
maso usa un
suo
linguaggio vario e duttile. Le
del concetto, S. Tommaso la dà per scontata e non si cura di farne oggetto di una trattazione esplicita. Di fatto però egli propone due distinte definizioni dellanalogia: una riguardante la logica e l'altra la metafisica. In logica Yanalogia è definita in contrapposizione alla univocità e all’equivocità. Ecco un testo esemplare in cui viene chiarito in che consiste la analogia come categoria logica:
«Si deve sapere che un termine si può predicare di molte cose in tre modi: univocamente, equivocamente e analogicamente. Si predica univocamente quando si ha identità di nome e di concetto (secundunz idem nomen et secundum eandem ratìonenz) ossia di definizione, come quando si predica ”animale" dell'uomo e dell'asino. L'uno e l'altro sono infatti animali, cioè sostanze animate sensibili,che è la definizione di animale. Si predica equivocamente, quando il nome è lo stesso ma il concetto è diverso (secundum idem nomen et secundum diversam rationem)... Si dice infine che un termine si predica analogicamente (analogice) se si predica di molte cose i cui concetti e definizioni sono diversi ma si riferiscono a una stessa realtà (rationes et definitiones sunt diversae, sed attribuuntur uni alicui eidem). Per es., "sano” si dice del corpo dell'animale, della urina e della bevanda, ma non secondo un significato completamente identico in tutt'e tre i casi».141
14')De princ. naL, c. 6, nn. 366-367.
Tommaso d Vlquino
557
In metafisica Panalogia è definita in contrapposizione alla unità generica e specifica: è un vincolo che unisce tra loro cose che non appartengono allo stesso genere e alla stessa specie, e tuttavia hanno qualche aspetto in comune. «A una cosa si può attribuire l'unità non solo secondo il numero, la specie 0 il genere, ma anche secondo una certa analogia 0 proporzione, e questa è l'unità 0 comunanza esistente tra la creatura e Dio».142 L'analogia metafisica è fondata sulla partecipazione di vari enti nella stessa perfezione; in definitiva si tratta della partecipazione alla
perfezione dell'essere. Divisione
Dell’analogia S.
e tra gli possibilità di operare una sistema— tizzazione organica dell'insegnamento dell’AngeliCo su questo punto. C'è chi ha pensato di ridurre tutti i tipi di analogia, chi a due: attribuzione e proporzionalità (Mclnerny); chi a tre: ineguaglianza, attribuzione e proporzionalità (Gaetano); chi a quattro: attribuzione intrinseca, attribuzione estrinseca, proporzionalità propria e proporzionalità metaforica (Suarez); chi è arrivato a un elenco di dodici tipi di analogia (Klubertanz). Pur non condividendo gli apprezzamenti di Suarez in merito alla proporzionalità, ci sembra che la sua divisione dell’analogia in quattro tipi sia esauriente e pienamente soddisfacente. Tra i tanti testi che si potrebbero
studiosi c'è
un
Tommaso presenta innumerevoli divisioni
forte disaccordo sulla
riferire per documentare il discorso di S. Tommaso su questo punto, due meritano di essere segnalati in modo speciale. Il testo del Commento alle Sentenzem dove si parla di tre tipi di analogia: meramente logica (secundum intentionem tantum et non secundum esse) e per questa si cita l'esempio di "sano", quando è predicato dell’orina, della dieta e dell'animale; meramente fisica o reale (secundun: esse et non secundum intentionem) e qui l'esempio addotto è quello di "corpo" quando è predicato delle cose materiali e dei corpi celesti; sia logica che reale (secundum intentionem et secundum esse) e qui si porta l'esempio di. "essere" quando è predicato della sostanza e dell'accidente. L'importanza di questo testo deriva in buona parte dal fatto che il Gaetano se n'è servito per ricavare la sua celebre interpretazione della dottrina tomistica della analogia. L'altro testo, è bene ricordare, si trova nel Commento all'Etica.î44 Dopo avere osservato che lo stesso nome può essere predicato di molte cose secondo nozioni (rationes) che non sono del tutto diverse ma convengono in qualche aspetto, S. Tommaso così prosegue:
142)5. 171.1, 93, 1, ad 3. 143M Senti, 19, 5, 2, ad l. 144M, lect. 7, nn. 95-96.
558
Parte seconda
«Talvolta esse convengono nel fatto che si riferiscono a un unico prinunum principium), come quando cose differenti sono dette ”militari"... Talvolta nel fatto che si riferiscono a uno stesso fine (a unum finenl) come quando la medicina è detta ”sana"... Talvolta secondo le diverse proporzioni a uno stesso soggetto (secundum diversas proportiones a unum subiectum), come quando la qualità ‘e detta
cipio (a
”essere",
perché
”essere", perché
è
una
ne
è la
disposizione dell'essere,
sua
e
la
quantità è
detta
misura, e simili. Infine secondo una stessa
proporzione a diversi soggetti (secundum proportionem ad diversa subiccta), ad cs. la vista, rispetto al corpo è nella stessa proporzione dell'intelletto rispetto all'anima». Nei
primi due
casi si tratta di
analogia di attribuzione mentre negli
ultimi due si tratta di analogia di proporzionalità. Si è detto che i tipi principali delranalogia sono quattro: due appar-
tengono all'attribuzione(intrinseca ed estrinseca) e due alla proporziona— lita (propria e metaforica). Si ha analogia di attribuzione quando la predicazione viene fatta secondo un rapporto di priorità e dipendenza (secun-
dum prius et posterius) cosicché la perfezione predicata appartiene senz'altro all’analogato principale; mentre negli analogati secondari può essere presente ma anche non esserlo. Quando è presente in tutti gli analogati (per es. la bontà detta di Dio, degli angeli, della Madonna, del bambino ecc.) si ha analogia di attribuzione intrinseca; mentre quando è presente soltanto nell’analogatoprincipale (come nella predicazione di ”sano") si ha quella estrinseca. Invece c'è analogia di proporzionalità quando un termine viene usato per Vari soggetti, ma secondo la misura che conviene (è proporzionata) ai singoli soggetti. Per es. la vita si può dire sia del fiore, sia del cane, sia dell'elefante, sia dell'uomo, sia di Dio, ma non allo stesso modo-e neppure a motivo di qualche rapporto che li unisce tra loro, bensì proporzionatamente al loro diverso grado di essere. Nell'esempio citato si ha analogia di proporzionalità propria, perché la perfezione predicata è effettivamente presente in tutti i soggetti. Invece quando si applica il termine "cane" all'animale, alla costellazione e alla parte di un fucile, allora si ha analogia di proporzionalità metaforica. Quanto al valore dei vari tipi di analogia quando si tratta dei ”nomi divini" e, in generale, del linguaggio che noi usiamo per parlare di Dio, c'è profondo disaccordo tra gli interpreti di S. Tommaso. Il Gaetano, che nega l'analogia di attribuzione intrinseca, giudica funzionale soltanto quella di proporzionalità propria. Per cui quando si dice che «Dio è buono», ciò che si intende dire è che la bontà sta a Dio così come la bontà sta all'uomo; ma in effetti l'unica bontà che noi conosciamo è la bontà dell'uomo, non quella di Dio. Molti altri studiosi di S. Tommaso ritengono che Yinterpretazione del Gaetano sia inesatta. In effetti, l’Aquinate,
Tommaso d'Aquino
559
quando spiega il significato del linguaggio teologico, si richiama pochissime volte alla proporzionalità, mentre parla quasi sempre di un'analogia secundum prius et posterius, che è esattamente Yanalogia di attribuzione e intende riferirsi all'attribuzione intrinseca e non semplicemente all'attribuzione estrinseca perché soltanto la prima conduce a qualche conoscenza
effettiva di Dio.
Fondamenta
L'analogia si fonda sulla causalità, e precisamente sulla causalità efficiente. Il rapporto di causa comporta necessariamente qualche somiglianza tra la causa e il causato, tra la causa e l'effetto: Omne agens agit simile sibi (ogni agente produce qualche cosa di simile a se stesso) ripete con insistenza S. Tommaso. Nessun effetto può essere un'immagine adeguata della sua causa; ciò vale sia quando la causa è Dio sia quando la causa è una creatura. Quando la causa è Dio, il suo effetto essendo necessariamente una creatura finita, non può eguagliarlo, poiché ha solo un potere finito di imitare l'infinita perfezione della sua causa. Quando la causa è una creatura, non può mai produrre un effetto totalmente simile a sé, poiché nessuna creatura è la causa totale del suo effetto. Per S. Tommaso, dunque, il principio omne agens agi! simile sibi significa soltanto che c'è una qualche somiglianza tra la causa e l'effetto. S. Tommaso, tuttavia, non si accontenta di questo vago significato dei principio, ma cerca
di determinarne più esattamente la
portata, distinguendo tra
univoca e causa equivoca. Nel De potentia egli descrive così questi due tipi di causalità: «La forma dell'effetto è nell'agente naturale in quanto l'agente produce un effetto di natura simile, dal momento che ogni agente produce qualche cosa di simile a sé (omne agens agit aliquid simile sibi). Ora, questo avviene in due modi: a) Quando l'effetto porta in sé una perfetta somiglianza con l'agente, in quanto proporzionato al potere dell'agente, allora la forma dell'agente è nelleffetto allo stesso grado; ciò avviene negli agenti univoci, per es. il fuoco genera il fuoco. b) Quando tuttavia l'effetto non è perfettamente simile all'agente, non essendo proporzionato al potere dell'agente, allora la forma dell'effetto non è nellagente allo stesso grado ma in grado superiore: questo è il caso degli agenti equivoci, per es., il sole genera il fuoco».145 La causalità equivoca è quella che interviene quando Dio produce le creature: essa non instaura mai con gli effetti prodotti che sono sempre necessariamente finiti e imperfetti una somiglianza generica o specifica ma semplicemente analogica. E questo vale per tutte le perfezioni che Dio cocausa
-
-
145)De pot. 7, 1, ad 8; cf. S. Th. l, 105, 1, ad 1.
560
Parte seconda
munica alle creature, incluse le perfezioni trascendentali: non c'è mai parità di possesso tra Dio e le creature, ma soltanto una qualche somiglianza con un'abissale dissomiglianza. Inoltre il possesso avviene sempre per prius et posterius, ossia secondo il rapporto di priorità e dipendenza.
Statuto gnoseologico Il problema qui è di sapere se esiste un concetto analogico (distinto dal concetto univoco) o se analoghe sono soltanto le relazioni tra le cose. Ci sono alcuni studiosi che si dicono tomisti (per es. Quiles) che negano che ci possano essere concetti analoghi: i concetti sarebbero tutti necessariamente univoci, e quindi concludono che Yanalogia esiste soltanto come vincolo reale tra le cose; in altre parole riconoscono Fanalogia come categoria metafisica ma negano Yanalogia come categoria logica. Ora questa tesi non corrisponde affatto al pensiero di S. Tommaso. Abbiamo riferito il testo del Commento alle Sentenze)“ dove S. Tommaso parla esplicitamente di termini e concetti che sono analoghi sia secundum intentionem sia secundum esse; ora analogo secundam intentionem significa precisamente analogo in sede logica, cioè analogo concettualmente (oltre che realmente). Qui non è il caso di approfondire la natura del concetto analogico, ma è certo che S. Tommaso insegna che la categoria dell'analogia si applica sia in sede logica sia in sede metafisica.
Applicazioneal linguaggio teologico (religioso) Le applicazioni più importanti della dottrina dell’analogia riguardano il linguaggio religioso. Con questa dottrina S. Tommaso trova una soluzione adeguata per il problema del senso e del valore del linguaggio che l'uomo usa per parlare di Dio, problema che nel medioevo andava sotto il nome di problema dei ”n0mi divini"; un problema arduo, già attentamente discusso in tutti i suoi aspetti dallo Pseudo-Dionigi nel suo
De divinis nominibus, opera di cui lo stesso S. Tommaso ha proposto un Commento esemplare. Con l’analogia il Dottore Angelico respinge allo stesso tempo sia la teoria di Maimonide che, troppo scrupoloso nel difendere la trascendenza di Dio, professava Pequivocità dei nomi divini, sia la tesi di Scoto che sosterrà una univocità iniziale di tutti i termini e concetti che l'uomo applica a Dio. Ecco il testo magistrale della Summa Theologiae in cui S. Tommaso espone la dottrina dell’analogia del linguaggio religioso:
146)! Sent. 19, 5, 2, ad 1.
Tommaso d'Aquino
561
«È impossibileche alcuna cosa si predichi di Dio e delle creature uniPoiché ogni effetto, che non e proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell'agente non secondo la stessa natura, ma imperfettamente (e tale è il caso delle creature rispetto a Dio) (...). Per conseguenza, applicato all'uomo, il termine sapiente circoscrive in qualche modo e limita la qualità che esprime; non così se applicato a Dio, ma lascia in tal caso la perfezione indicata senza delimitazione ed eccede il significato della parola. Quindi è vocamente.
chiaro che il termine sapiente si dice di Dio Fidentico concetto (formale). E così di tutti
e
dell'uomo non secondo
gli altri nomi. Perciò nes-
sun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature. Ma neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal modo nulla si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creature; ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato ”equiVocazione" (...). Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo analogia (secundum analogiam) cioè proporzione (proportionem) (...). E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e la semplice univocità, perché nei nomi detti per analogia non vi è una nozione unica (una ratio), come negli univoci, né totalmente diversa, come negli equivoci; ma il nome che analogicamente si applica a più soggetti significa diverse proporzioni (relazioni) riguardo a una medesima cosa; cosi sano detto dell'orìna, indica il segno della sanità; detto della medicina invece significa la causa della stessa sanitàmW
Noi però sappiamo che S. Tommaso distingue vari tipi di analogia. Di quale analogia si tratta quando si dice che il linguaggio teologico viene usato analogicamente: dell'attribuzione o della proporzionalità? E poiché ci sono due specie di attribuzione (intrinseca ed estrinseca) e di proporzionalità (propria e metaforica), a quale di esse si ricorre per intendere rettamente ciò che diciamo quando parliamo di Dio? Abbiamogià chiarito, trattando della divisione dell’ana1ogia, che l'attribuzione intrinseca è quella più ricca di spessore semantico, in quanto riesce a dire qualcosa di intrinseco e di oggettivo di tutti gli analogati, sia di quello principale sia di quelli secondari, anche se, ovviamente, non allo stesso modo, ma secundum prias et posterius. Si deve quindi concludere che l’analogia che S. Tommaso invoca per determinare il senso del linguaggio religioso, quando rifiuta l’univocità e Yequivocità, è l'analogia di attribuzione intrinseca. Però l'analogia di attribuzione intrinseca (come pure quella di proporzionalità propria) non vale per tutto il linguaggio religioso, ma soltanto per
quello
147)S. Th. l, 13, 5.
che
esprime perfeziona" semplici (perfezioni come verità,
562
Parte seconda
causa, persona ecc., che possono prescindere dallo spazio, dal tempo, dalla materia), non perfezioni miste che come parlare, sentire, vedere, camminare, adirarsi ecc. sono legate al corpo, alla materia. Ora, il linguaggio religioso abbonda di espressioni ”antropomorfiche", relative a perfezioni miste. Questo linguaggio ha valore metaforico e perciò, secondo S. Tommaso, va interpretato secondo Yanalogia di attribuzione estrinseca oppure di proporzionalità meta-
bontà, bellezza, essere, sostanza,
forica. C'è un'ultima precisazione che S. Tommaso ha cura di fare per determinare meglio il senso dei "nomi divini”, anche quando si tratta di nomi che si riferiscono alle perfezioni semplici: è la distinzione tra la res signzficata e il modus praedicandi: tra ciò che si dice e il modo di dire. Per res praedicata S. Tommaso intende la perfezione (la qualità) indicata da un nome; per modus praedicandi intende il modo secondo cui tale perfezione si realizza, modo che viene connotato o consignificato dallo stesso nome che indica la perfezione; p. es., il nome ”sensazione" esprime allo stesso tempo sia la perfezione della conoscenza (ras praedicata) sia il modo secondo cui tale conoscenza si realizza, ossia mediante i sensi (modus praedicandi). Applicata ai nomi divini questa importante distinzione chiarisce che tali nomi (di perfezioni semplici) sono predicati propriamente e direttamente di Dio secondo la res praedicata ma non secondo il modus praedicandi. Così il nome ”sapiente” si addice propriamente a Dio quanto alla perfezione del conoscere indicato dal termine sapiente, ma non quanto alla modalità finita (di qualità limitata e accidentale) che viene connotata da tale termine. Anche i concetti umani più elevati, a causa della loro origine mantengono sempre un riferimento implicito ai modi limitati, dai quali possono essere affrancati solo imperfettamente. I concetti umani non significano mai il modo divino delle perfezioni che noi riconosciamo e attribuiamo a Dio. È per questa ragione che essi possono essere sempre esclusi da Dio. Ed è questo il compito della Via negativa, che fa parte dell'intero processo analogico (insieme alla Via positiva e alla Via eminenziale). Per quanto concerne la ”Via negativa" lo stesso S. Tommaso, analizzando la predicazione della perfezione dell'essere, che nel suo edificio metafisico è la massima, la più ricca, la più pervasiva di tutte le perfezioni, ha fissato le seguenti tappe: «Anzitutto noi escludiamo da Dio tutto ciò che è corporeo; poi quanto è spirituale o mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature viventi, come, per es., bontà e sapienza. Allora resta nella nostra mente soltanto la verità che Dio è, e nulla più. Infine, eliminiamo anche l'idea dello stesso essere, così come tale idea si trova realizzata nelle stesse creature. Giunti a questo punto Dio rimane avvolto nell’oscura notte dell'ignoranza, ed è in questa ignoranza che noi ci avviciniamo aDio
Tommaso d ‘Aquino
durante la nostra vita, abita DÌ0».148
come
dice
Dionjgi. Infatti, in questa
563
fitta nebbia
Da quanto siamo andati dicendo risulta che la dottrina tomistica del-
Vanalogia soddisfa al duplice intento: di salvaguardare, da
una
parte,
di Dio; e dall'altra, di preservare sua assoluta trascendenza, "la fitta nebbia" in cui Dio abita. L'analogia dà un senso al linguaggio teologico, ma un senso che vale di più come indicazione che come immagine. Pertanto Fanalogia non va intesa come ingenua rassomiglianza tra Dio e le sue creature, bensì, come vuole il Concilio Lateranense, come minima somiglianza là dove regna la più grande dissomiglianza. In tal modo Vanalogia non distrugge ma salva l'infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle sue creature. La dottrina tomistica del1’anal0gia ha valore perenne. Studiosi contemporanei del linguaggio religioso (Ramsey, Ferré, Mascall, Bochenski ecc.) hanno mostrato che essa rappresenta la migliore risposta alle tesi dei positivisti, degli esistenzialisti, degli analisti del linguaggio, i quali pretendono che il linguaggio religioso sia privo di qualsiasi significato oggettivo e che abbia soltanto un valore soggettivo ed emotivo. L'analogia mostra invece che esso possiede un significato oggettivo, per quanto modesto, povero e assai limitato. certa intatta la
una
-
seppur minima
148M Sent. 8, 1, l, ad 4.
-
conoscenza
564
TOMMASO D’AQUINO: I TRASCENDENTALI
In ogni metafisica un capitolo importante è riservato ai trascendentali. In precedenza abbiamo visto come questo trattato si andò sviluppando nella prima metà del secolo Xlll, e che esso deve alla penna di Filippo il Cancelliere la sua prima sistemazione completa. In molte ontologie la trattazione dei trascendentali viene collocata subito dopo 10 studio dell'ente in generale. Ma a nostro avviso l'analisi del problema dei trascendentali secondo una tale successione può condurre all'interno di una concezione univoca degli stessi, come accade a Duns Scoto, il quale vede nei trascendentali dei concetti genericissimi comuni a tutte le cose. Per sapere che cosa sono i trascendentali non basta approfondire il concetto di ente, ma occorre soprattutto conoscere che cos'è l'asse ipsum, perché prima che degli enti i trascendentali sono proprietà dell'essere stesso. Questa è la ragione per cui esponiamo il pensiero di S. Tommaso sui trascendentali a questo punto, cioè dopo lo studio sull'essere e su Dio, perché la loro piena comprensione appartiene più al momento discendente che a quello ascendente della sua metafisica. Osserviamo inoltre che l'Angelico non ci ha lasciato nessuna trattazione organica di questo argomento; però esso è presente in varie opere, specialmente nel De veritate, dalle quali si può ricavare un quadro abbastanza completo del suo pensiero. Rifacendosi a un celebre passo della Metafisica di Avicenna, S. Tommaso insegna che all'essere in quanto essere (come pure all'ente in quanto ente, in quanto cioè partecipa all'essere) spettano di diritto tutte quelle proprietà che si possono "convertire" con esso, vale a
dire
quelle proprietà che hanno la stessa estensione dell'essere, anche se
la medesima connotazione. Tali sono l'unità, la verità e la bontà.‘ Infatti queste «tre modalità aggiungono all'essere qualche cosa senza peraltro imporre delle restrizioni al suo contenuto; infatti se imponessero delle restrizioni non sarebbero proprietà universali dell'ente. Perciò non
1) Questa è Penumerazione più comune e frequente che Tommaso dà dei trascendentali; ma qualche volta (per es. nel De ver. l, l) fornisce una enumerazione più ampia che comprende oltre a unità, verità, bontà, anche "cosa" (res) e "qualcosa" (aliquid).
I trascendentali
565
può trattarsi che di aggiunte di ordine logico (secundum rationem) cioè delle connotazioni: l'uno aggiunge all'ente la connotazione della negazione (in quanto dice che è indiviso); mentre la verità e la bontà aggiungono la connotazione di una relazione: relazione con l'intelletto nel caso della verità; relazione con la volontà nel caso della bontà»! Quindi mentre l'essere si dice uno in quanto è indiviso in se stesso, si dice vero e buono per una sua conformità con le facoltà operative dell'uomo 0 di un altro essere intelligente, l'intelletto e la volontà. Infatti, «la conformità come modalità dell'essere è possibile solo se esiste una realtà che sia capace di stabilire un rapporto di conformità con ogni ente (e quindi con l'essere in quanto tale). Questa realtà è l'anima, la quale è in certo qual modo tutte le cose, come si dice nel III libro dell'Anima (di Aristotele). Ma nell'anima ci sono due facoltà, una conoscitiva e una appetitiva. La conformità dell'ente (e dell'essere) con la facoltà appetitiva è espressa dal termine "bene". Tale è il significato di "bene" all'inizio dell'Etica, quando si dice che "bene è ciò che tutti desiderano”. La conformità dell'ente con la facoltà conoscitiva invece si esprime col termine ”vero" (conventiam vero entis ad intellectun: exprimit hoc nomen "verum”)».3 La dottrina dei trascendentali deriva direttamente da Aristotele, almeno per quanto concerne i tre trascendentali più noti: unità, bontà, verità, il quale però li concepiva come proprietà universali dell'ente e non
dell'asse ipsunt, che ignorava. Ripresa da S. Tommaso la dottrina dei trascendentali subisce necessariamente qualche importante ritocco, richiesto dalla sua applicazione oltre che all'ente anche all’esse ipsum, che sta all'origine di ogni ente e che non può non essere dotato di unità, di verità e di bontà, perché l'ente è uno, vero e buono soltanto grazie alla sua partecipazione all’esse non
ipsum. Vediamo.
Unità Trattando dell'unità S. Tommaso ricorda che questo termine conosce due significati principali: secondo un primo significato essa dice il primo elemento della enumerazione (principium numeri); secondo un altro significato essa esprime la indivisione interna dell'ente e la sua distinzione dagli altri enti (indioisio entis).4 Ai due significati corrispondono due distinti problemi metafisici, di cui si occuparono i filosofi greci sin dall'inizio della storia della filosofia: il problema della risoluzione di
l’) 3) 4)
De pot. 9, 7 ad 6. Cf. anche De ver. De ver. 1, 1. Cf. S. Th. I, 11,1.
21, 4.
566
Parte seconda
molteplice, all'unità; e il problema della unione interna dell'ente, di qualsiasi ente. Il problema dell'unità concepita come unicità del reale nasce dalla costatazione della pluralità degli enti: il problema è di sapere se nonostante la pluralità apparente si dia un'unità di fondo. Il problema dell'ututte le cose, cioè del
problemi filosofici fu il primo a suscitare l'inteLa filosofia greca nasce precisamente da uomini. speculativo degli di rinvenire un principio unificatore all'interno di una questa esigenza realtà evidentemente molteplice. Dopo le prime soluzioni ingenue dei naturalisti, i Pitagorici cercano di risolvere il problema ricavando dall'uno, un "uno" inteso non come essere supremo ma come unità numerica.‘ Neppure Platone e Aristotele riescono a dare una soluzione soddisfacente al problema della unicità della causa prima, perché considerano la materia, le idee (o le forme per Aristotele) e il Demiurgo (o Dio per Aristotele) come cause prime assolutamente irriducibili. La prima soluzione adeguata dell'unità del molteplice la consegue la filosofia cristiana, soprattutto nella formulazione di S. Tommaso, dove la molteplicità degli enti viene spiegata mediante l'atto creativo dell'asse ipsum subsistens. Il problema dell'unità concepita come indivisione dell'ente nasce dalla costatazione che nell'ente, nonostante la pluralità degli elementi che lo costituiscono e la fragilità dei loro vincoli, c'e tuttavia un principio interiore di unità. Tale proprietà compete a fortiori all'asse ipsum in quanto, come si è già dimostrato, l'asse ipsum esclude ogni composizione
nità così intesa fra tutti i resse
divisione. I primi ad affrontare il problema dell'unità dell'ente furono Platone e Aristotele. Secondo Platone l'unità è un'esigenza fondamentale di ogni ente: ogni ente è infatti concepito come unità e, secondo Platone, ogni ente è dotato di unità in quanto partecipa dell'idea dell'Uno. Secondo Aristotele «in generale uno è soprattutto ciò la cui intellezione è indivisibile, e la cui pura essenza si apprende come un atto che non può essere separato»! L'unità, precisa Aristotele, è proprietà universale dell'ente, perché ogni ente è tale fintanto che rimane indiviso. Pertanto, come e
determinazione costante dell'ente, essa deve predicarsi oltre che della anche di tutte le altre categorie, e perciò appunto si predica dell'ente in quanto ente. Principio interiore dell'unità dell'ente è l'atto, e atto per Aristotele significa forma.
sostanza
5) «Pitagora e Platone, vedendo che l'uno che si identifica con l'ente non aggiunge alcunché di reale all'ente, ma significa la sostanza dell'ente in quanto è indivisa, stimarono che fosse altrettanto dell'uno che è principio del numero» (S. Th. l, 11, ad 1).
5) ARISTOTELE, Metafisica 101Gb.
I trascendentali
567
Nella soluzione del problema dell'unità dell'ente, Tommaso non si discosta molto dalla soluzione di Aristotele. Anche per l'Aquinate come per lo Stagirita, l'unità dell'ente significa che ogni ente è se stesso e non un altro. Uno in se stesso però non vuol dire semplice, e distinto da un altro non significa che non ha assolutamente bisogno di altri per esistere: tale unità assoluta appartiene soltanto all'esse ipsum. Unità, in quanto trascendentale, significa soltanto attuale indivisione dell'ente; e per gli enti al di fuori dell'asse ipsum si tratta naturalmente solo di un'unità relativa, essendo essi tutti costituiti di parti (quanto meno di due parti: essenza ed essere). Ma le parti, se si tratta veramente di un ente e non di un aggregato di enti, sono tra loro strettamente congiunte: la materia è strettamente congiunta, unita alla forma, la sostanza agli accidenti, l'essere all'essenza. Negli enti il grado di unità Varia secondo la molteplicità degli elementi costitutivi: è maggiore dove gli elementi sono pochi, è minore dove sono molti. Però tutti gli enti ne sono dotati. «Infatti ogni ente è o semplice o composto. Quello semplice non è attualmente diviso e neppure divisibile.Quello composto non esiste finché le sue parti sono divise, ma solo dopo che l'hanno costituito e composto. Quindi ‘e manifesto che l'essere di qualsiasi cosa consiste nel1’indivisione. Di qui deriva che ogni cosa come conserva il proprio essere, così conserva la propria unità (unumquodque sicut custodit suum esse, ita custodit suam unitatem)>>.7 Si dà pertanto una gerarchia di gradi rispetto all'unità come si dà una gerarchia in ordine all'essere: quanto più elevato è il grado di essere tanto più elevato è il grado di unità. Infatti -
—
«ogni cosa si rapporta all'essere come si rapporta all'indivisi0ne, per-
ché,
dice il Filosofo, l'ente si dice uno in quanto indiviso. Di quelle cose che sono indivise in forza della loro stessa natura (per se), posseggono l'unità più autenticamente (îzerius) delle cose che sono indivise solo accidentalmente, come per es., il bianco e Socrate, i quali formano un'unità accidentale (unum per accidens). Ora, fra le cose che hanno unità in forza della loro stessa natura (quae sunt unum per se), quelle che sono indivise assolutamente posseggono l'unità più autenticamente (verius) di quelle che sono indivise rispetto a qualcosa o di generico o di specifico o di analogico. E, infatti, quelle cose che non sono indivise assolutamente neppure si dicono unite assolutamente ma soltanto con riferimento o al genere o alla specie o all'analogia (proportione). Invece ciò che è assolutamente indiviso (simpliciter indivisum) si dice uno assolutamente ed è uno anche numericamente. Ma anche fra le cose dotate di unità si dà gradazione come
conseguenza
7)
s. T111, 11, 1.
568
Parte seconda
(invenitur aliquis gradus). Ce ne sono infatti alcune che sono indivise in atto ma divisibili in potenza, e ciò può avvenire in tre modi: o mediante divisione quantitativa o mediante divisione essenziale oppure mediante divisione sia quantitativa che essenziale. La prima riguarda il continuo; la seconda le cose composte di materia e di forma, oppure di essenza e essere (ex esse et quod est); la terza riguarda i Corpi naturali. Se alcune di queste cose non sono di fatto (in actu) divise, ciò è dovuto a qualche cosa di estraneo alla natura della composizione e divisione, come si riscontra nei corpi celesti e simili, i quali, non essendo di fatto divisi, sono tuttavia divisibilinella mente. Ci sono però delle cose che non sono divisibiliné in atto né in potenza (indivisibileactu et potentia); e anche di queste si danno varie cate-
gorie. Alcune includono nella loro definizione qualcosa di estraneo all'idea di indivisibilità;per es. il punto, oltre all'indivisibilitàinclude anche l'idea di posizione (situm). Invece altre cose contengono soltanto Fidea di indivisibilità,per es. l'unità che è principio del numero (unitas quae est principium numeri); e tuttavia (per esistere) hanno bisogno di qualche cosa che non sia essa stessa unità, ossia della sostanza. Dal che risulta che ciò in cui non v'è nessuna composizione di parti, nessuna continuità di dimensioni, nessuna molteplicità di accidenti, e non abbisogna di nessun soggetto per poter esistere, è sommamente e veramente uno (summe et vere unum est), come conclude Boezio. E quindi la sua unità è principio di ogni unità e misura d'ogni cosa>>fi
Nella sua trattazione dell'unità trascendentale S. Tommaso si discosta da Aristotele su un punto importante. Per lo Stagirita il principio interiore su cui si fonda l'unità dell'ente è l'atto, cioè la forma, perché per l'autore della Metafisica la forma costituisce l'atto supremo. Anche per l'Aquinate il principio inferiore su cui si fonda l'unità dell'ente è l'atto, ma come abbiamo visto in precedenza egli non identifica l'atto supremo con la forma, bensì con l'essere, l'asse ipsum. Per cui per l'Aquinate il principio ultimo su cui poggia l'unità dell'ente non è la forma bensì l'esse ipsum. Questo sigla definitivamente l'unione tra la sostanza e gli accidenti, tra la forma e la materia, tra la natura e le potenze e impone il marchio dell'unità sulle stesse sostanze separate e persino su quell’ente che è essenzialmente l'esse ipsum. Riguardo all'esse ipsum come ragione dell'unità di colui che è l'Essere sussistente stesso, cioè Dio, S. Tommaso scrive quanto segue: «Siccome l'uno è l'ente indiviso (ens indivisum), affinché una cosa sia massimamente una occorre che sia massimamente ente e massimamenteindivisa. Ora, l'una e l'altra condizione si verificano in Dio. Egli è infatti massimamente ente, perché non è ente grazie al
5)
ISertt. 24, l, l.
I trascendentali
569
possesso di un essere determinato da qualche natura (esse determinatum per aliquam naturam), alla quale sia stato unito; ma perché è 10 stesso essere sussistente illimitato in tutti i sensi (ipsum esse subsistens omnibus modis
indeterminatum). È poi
massimamente indiviso, in
quanto
non
è
divisibileper nessun genere di divisione né in atto né in potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti. È quindi evidente che Dio e somma-
mente uno»)?
Verità Trattando della tre
S. Tommaso assegna alla parola “verità” logico (verità della conoscenza), linguistico
conoscenza
significati: gnoseologìco
o
semantico (verità cli una proposizione) e ontologico (verità dell'ente). La verità in senso ontologico per S. Tommaso, come già per Aristotele, è una proprietà trascendentale dell'ente, vale a dire accompagna l'ente sempre e ovunque. Ma che cosa si intende precisamente per verità ono
tologica?
La definizione formale di
questa verità è la stessa che si dà per la verità gnoseologica o logica; è la celebre definizione adaequatio rei et intellectus (corrispondenza tra la mente e la cosa). Si tratta quindi essenzialmente di una relazione. Ma mentre nella verità logica il relativo, o come dice con grande precisione S. Tommaso, il “misurato” è la mente e il "misurante" è la cosa, nella verità ontologica il rapporto si rovescia: il ”misurato” è l'ente (che, come sappiamo, è sempre una Certa misura e partecipazione all'essere) e il misurante è l'essere stesso, che poi, in definitiva, come è stato chiarito, non è altri che Dio. Ecco come si esprime molto lucidamente S. Tommaso a questo riguardo: «Occorre tener presente che le cose si possono rapportare all’intelletto in due maniere differenti: a) come misura al misurato (sicut mensura ad merzsuratunz); così, per es., si rapportano le cose naturali all’intelletto speculativo umano; infatti la nostra mente si dice vera in quanto si conforma alle cose (secundum quod conformatur rei), e falsa, in quanto discorda da esse. Pertanto le cose non si dicono vere in forza del rapporto che esse hanno con la nostra mente, come ritennero alcuni antichi filosofi, i quali facevano consistere la verità solo in ciò che appare:
fosse così, ne risulterebbe che proposizioni contraddittorie sarebbecontemporaneamente vere. Invece le Cose si dicono vere o false per il rapporto che hanno con l'intelletto, non essenzialmente o formalmente ma efficientemente, ossia in quanto sono destinate a far nascere un giudizio vero o falso nei propri riguardi; e in questo modo l'oro si dice vero o falso. b) In secondo luogo, le cose si possono rapportare se
ro
9)
S. Th. I, 10, 4.
570
Parte seconda
all'intelletto non
come
misura al misurato ma come il misurato al mi-
surante (sicut mensuratum ad mensumm); ciò accade rispetto all’intel1etto pratico che è la causa delle cose. Onde il lavoro di un artigiano dice-
si vero quando realizza l'idea che egli voleva realizzare; si dice invece falso quando non la realizza. Ora, siccome tutte le cose si rapportano allintelletto divino come gli artefatti al loro artefice, ne consegue che
ogni cosa si dice vera in quanto possiede una forma che imita l'idea di
Dio. Così il falso oro ha pure una sua verità come ottone. Perciò l'ente e il vero sono convertibili (ens et 03mm conventurtur), perché tutte le cose mediante la loro forma si confermano all'idea di Di0».1D
ontologica delle cose rispetto a Dio, all’esse ipsum subsistens, essenziale, perché la realtà delle cose e quindi la loro verità dipende dalla loro partecipazione (secondo una certa misura) all'asse ipsum. Invece la verità ontologica delle cose rispetto La verità
è detta verità sostanziale o
all'intelligenza umana è detta accidentale: infatti l'essere delle cose non dipende affatto dalla nostra conoscenza. «Le cose conosciute scrive 1’Aquinate possono avere con l'intelletto rapporti essenziali oppure accidentali (ordinem ve! per se vel per accidens). Sono ordinate essenzialmente a queltintelletto dal quale dipen-
-
dono per il loro essere (secundum suum esse); accidentalmente all'intelquale sono conoscibili. Come se dicessimo: la casa importa relazione essenziale alla mente dell'architetto, e relazione accidentale a un altro intelletto da cui non dipende nell'essere. Ora, una cosa non si giudica già in base a quello che le conviene accidentalmente, ma in base a quello che le si addice essenzialmente: quindi ogni cosa si dice vera assolutamente per il rapporto che ha con l'intelligenza dalla letto dal
quale dipende (ras dicitur vera absolute secundum ordinem ad intellectum quo dependet). Perciò i prodotti delle arti si dicono veri in ordine al nostro intelletto; vera si dice infatti quella cosa che riproduce la forma che è nella mente dell'architetto; vere le parole, quando esprimono un pensiero vero. Così le cose naturali si dicono vere in quanto attuano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: per es., si dice vera pietra, quella che ha la natura propria della pietra, secondo la concezione preesistente nella mente divina».11 a
La verità ontologica accidentale si chiama anche intelligibilità,termine questo che esprime meglio il fatto dell’attitudine delle cose a diventare pensiero che non l'espressione ”verità ontologica accidentale”, perché dice p iù esP licitamente l’”a pertura” delle cose risp etto alla nostra mente, in cui consiste essenzialmente la Verità dell'ente, come ha 8iustamente o
u
u
n
1”) In I Perih. lect. 3, nn. 28-29. 11) S. Th. I, 16, 1. Altri passi importanti sulla verità ontologica si possono trovare nel De Z181‘. 1, 2 e 4; In I Sent. 19, 5; C. G. I, 60-62.
I trascendentali
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affermato Heidegger, il quale però non si è preoccupato di trovare una spiegazione e un fondamento di questa verità. Invece S. Tommaso ha scoperto e ha rivelato il suo ultimo fondamento: le cose sono vere e intelligibili perché il loro essere consiste anzitutto nell'essere conosciute: noi le possiamo conoscere perché sono già state conosciute da Dio. Nella metafisica di S. Tommaso lîntelligibilitàdelle cose, la loro ”apertura", la loro verità non nasconde nulla di misterioso: è una proprietà primaria, universale, trascendentaledell'ente: l'ente è essenzialmente intelligibile,aperto, vero. Secondo l’Aquinate la verità ontologica essenziale è convertibilecon l'ente. La ragione è che questa verità, come si è Visto, non dice altro che l'ente stesso considerato in rapporto all'esse ipsum subsistens, rapporto che gli è essenziale, ma che sotto l'aspetto della conformità non è esplicitato dal termine ente ma soltanto dal termine verità. Tra ente e vero pertanto non si dà nessuna distinzione reale quanto alla realtà sono perfettamente convertibili-; c'è solo una diversità di concetti e quindi di connotazioni. Ente dice partecipazione all'essere, mentre verità dice che tale partecipazione all'essere avviene secondo le esigenze della propria essenza, la quale a sua volta trova la sua misura nell'esse ipsum subsistens, cioè nella mente divina. Perciò fondamento ultimo della verità delle cose come dell'unità è l'esse ipsum. Infatti le cose sono intelligibili e vere nella misura in cui sono in atto. Ma abbiamo visto che qualsiasi atto ha la sua radice ultima nell'esse ipsum, che è l'attualità di tutti gli atti. Quindi le cose sono intelligibilie vere nella misura in cui partecipano all'essere. Da quanto abbiamo esposto risulta che nella spiegazione della verità dell'ente (verità ontologica essenziale) S. Tommaso è molto più vicino a Platone che ad Aristotele (il quale non esibisce alcuna ragione della verità ontologica delle cose). Però, ponendo a ultimo fondamento della verità ontologica l'asse ipsum Tommaso abbandona anche la soluzione speculativa di Platone e propone una teoria nuova, assolutamente originale. -
Bontà «I1 termine bene (bonum) dice la conformità all'ente con la facoltà appetitiva (convenientiam entis ad appetitum), come si legge all'inizio dell'Etica: ”ilbene è ciò che ogni cosa desidera"».12 Però, precisa Tommaso, «la definizione "il bene è ciò che ogni cosa desidera" non va presa nel senso che qualunque bene sia da tutti desiderato, ma nel senso che tutto ciò che è desiderato ha ragione di bene».13
12) De ver. 1, 1. 13) S. Th. l, 6, 2, ad 2.
Parte seconda
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La dottrina tomistica della bontà trascendentale ricalca da vicino quella della verità ontologica. In entrambi i casi si tratta di una relazione logica (fondata nella realtà delle cose): nella verità come abbiamo visto è la relazione dell'ente all'intelligenza e dice conoscìbilità e conformità della conoscenza secondo la misura di realtà contenuta nell'ente (verità ontologica accidentale) e conformità dell'ente con l'idea della mente da cui trae origine (verità ontologica essenziale). Nella bontà è la relazione dell'ente alla volontà e dice Pappetibilitàdell'ente da parte della volontà. Anche per la volontà occorre distinguere tra bontà ontologica essenziale e bontà ontologica accidentale. La prima è lappetibilità dell'ente da parte dell'esse ipsum subsistens, cioè da parte di Dio che è colui che pone in atto l'ente: è una relazione essenziale perché senza di essa l'ente svanisce. La seconda è l'appetibilìtà dell'ente da parte della volontà umana o di qualche altro essere intelligente: è accidentale perché l'essere
dell'ente non dipende dalla nostra appetibilità.” S. Tommaso dimostra che tutte le cose sono dotate oltre che di bontà ontologica accidentale anche di bontà ontologica essenziale. Infatti essendo tutte frutto della volontà divina, non possono non avere con essa un rapporto di convenienza, di appetibilità, di amore. tutti gli esseri esistenti (omnia existerztia amat), perché tutto ciò che esiste in quanto esiste è buono; infatti l'essere di ciascuna cosa e un bene, come è un bene del resto ogni sua perfezione. Ora la volontà di Dio è causa di tutte le cose e per conseguenza ogni ente ha tanto di essere e di bene nella misura che è oggetto della volontà di Dio. Dunque a ogni essere esistente Dio vuole qualche bene. Perciò, siccome amare vuol dire volere a uno del bene, è evidente che Dio ama tutte le cose esistenti. Dio, però, non ama come noi. La nostra volontà infatti non causa il bene che si trova nelle cose (voluntas nostra non est causa bonitatis rerum); al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto; e quindi il nostro amore con il quale vogliamo del bene a qualcuno non è causa della bontà di costui, che anzi la di lui
«Dio
ama
bontà, vera 0 supposta, provoca l'amore che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha, e ci
adoperiamo a tale scopo. L'amore di Dio invece infonde e crea la bontà delle cose
'4)
15)
(Deus omnia quae sunt amat)».15
Stranamente gli scolastici, anche i più recenti e meglio informati, quando tratta— no della bontà ontologica ignorano la distinzione tra bontà ontologica accidentale ed essenziale e sembrano ammettere soltanto la prima. Nessuna meraviglia dimostrazioni che la bontà è un trascendentale siano cavillose. poi che le loro sia E naturale che così, perché pretendono di provare la trascendentalità di una
relazione accìdentalel.
S. Th. I, 20, 2. Cf. itesti paralleli: In II SEHÌ. 26, 1; C. G. I, 111; De ver. 27, 1; In Ioan 5, lect. 3; In Div. 110m. c. 4, lect. 9.
c.
I trascendentali
573
Anche la bontà come la verità è una facciata dell'ente da cui differisce soltanto logicamente, non realmente: «il bene e l'ente si identificano secondo la realtà, ma differiscono secondo il concetto (differunt secundum rationem tantum). Eccone la dimostrazione. La ragione di bene consiste in questo, che una cosa è desiderabile (quod sit appetibile). Infatti Aristotele dice che ”ilbene è ciò che ogni cosa desidera"». Ora, è chiaro che una cosa è desiderabile nella misura in cui è perfetta, perché ogni cosa vuole la propria perfezione. Ma una cosa è perfetta in quanto è in atto, e così è evidente che una cosa in tanto è buona in quanto è ente; l'essere infatti è l'attualità d'ogni cosa (esse est actualitas omrzis rei), come appare da quanto si è detto in precedenza. E così si dimostra che il bene e l'essere sì identificano realmente; ma il bene esprime il concetto di appetibile (bonum dicit rationem appetibilis),non espresso dall’ente».16 Anche nell'analisi della bontà trascendentale, come già per quella della verità ontologica, Tommaso è più debitore a Platone che ad Aristotele.” Infatti lo Stagirita ammette sì che Dio è il supremo bene attorno al
quale gravita tutto l'universo, ma per Dio stesso le cose non sono buone, in quanto non le conosce, non le vuole, non le crea. Invece secondo Platone le cose sono buone anche per il Demiurgo perché questi è sommamente buono e l'effusione della propria bontà è l'unica ragione della creazione delle cose: «Buono egli è; e mai in chi è buono senso alcuno di invidia, per nessuna cosa, viene insorgendo. Siccome egli è remoto di invidia, così volle che ogni cosa fosse per massimo grado a lui somigliante (...). Iddio volle dunque che l'universalità delle cose fosse buona e che per quanto possibile,nullo fosse il malemlfi S. Tommaso sottoscrive l'insegnamento di Platone solo in parte, in quanto dice che le cose sono buone perché partecipano della bontà del Demiurgo, Dio. Per il resto lo rinnova facendo fare alla bontà un bagno salutare nelle acque deIYesse ipsum. Da questo bagno la dottrina della bontà esce trasformata su due punti importanti: a) la bontà a cui le cose partecipano non è un’Idea ma Dio stesso; b) la bontà non costituisce il fondamento ultimo della realtà né nelle cose né in Dio stesso: essa rimanda a un principio superiore, all’esse ipsum, che è la perfezione suprema, la perfectio omnium perfectionum, di cui la bontà non dice che un aspetto: quello di essere appetibiledalla volontà e di appagarla. -
16) S. Th. I, 5, 1. 17) Stillbriginedella dottrina tomistica della bontà trascendentalesi veda E. GILSON, Elements ofChristian Philosophy,New York 1959, pp. 153-157. 18) PLATONE, Timeo 28, tr. Turolla.
Parte seconda
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Unità, verità e bontà sono secondo S. Tommaso le più importanti proprietà trascendentali dell'ente e dell'essere, ma non sono le sole. In alcu-
enumerazioniî‘! l’Aquinate fa figurare tra i trascendentali anche la ras (cosa) e aliquid (qualcosa). Per quanto mi risulta non esiste invece in Tommaso nessuna enumerazione dei trascendentali in cui comprenda anche la bellezza (pulchrum) e il valore (valor, dignitas). Ma da quanto egli dice intorno alla bontà e alla verità e dagli argomenti che egli adduce per dimostrare che si tratta di proprietà che appartengono all'ente in quanto ente e all'esse ipsum (e non soltanto a un gruppo particolare di enti, come accade alle categorie), si può agevolmente allargare il quadro tomistico dei trascendentali e includervi anche la bellezza e il valore, come hanno proposto di fare alcuni tomisti contemporanei. Si è visto che i trascendentali non sono qualità che aggiungono qual-
ne
all'ente o all'essere realmente ma soltanto logicamente: si tratta infatti di relazioni che mettono in risalto un determinato rapporto dell'ente o dell'essere con le facoltà spirituali dell'uomo: la verità evidenzia il rapporto di intelligibilità che hanno con l'intelletto; mentre la bontà esplicita il loro rapporto di appetibilità che hanno con la volontà. Se S. Tommaso, come Aristotele, Avicenna e gli altri filosofi antichi prima di lui e Cartesio, Campanella, Leibniz e tanti altri moderni dopo di lui, limitano i trascendentali relativi alla verità e alla bontà è perché nella sua psicologia intelletto e volontà sono le uniche facoltà spirituali del-
cosa
l'uomo.
partire da Kant tra le facoltà spirituali si fa entrare anche il sentimento, al quale si assegnano due funzioni fondamentali: la funzione della percezione del bello (funzione estetica) e la funzione della perceMa
a
zione del valore (funzione assiologica). In tal modo anche il bello e il valore vengono a trovare una precisa collocazione nel quadro dei trascendentali. Il bello è la prerogativa dell'ente e dell'essere di suscitare un sentimento di ammirazione (le cose belle sono ammirate, e sotto qualche aspetto tutti gli enti e ancor più l'asse ipsum presentano motivi di ammirazione); mentre il valore è la prerogativa dell'ente e dell'essere di suscitare un sentimento di stima (e non vi è ente che non sia degno di
stima).
Stabilitoil carattere trascendentale della bellezza e del valore, individuando la relazione precisa che tali qualità instaurano tra l'ente o l'essere e l'uomo, si può agevolmente completare il discorso su questi due trascendentali applicando al loro caso quanto è stato detto in precedenza a proposito della bontà e della verità, quando si è distinta una verità
19)
Cf. De ver. 1, 1.
I trascendentali
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(o bontà) ontologica essenziale da Lina Verità (0 bontà) ontologica accidentale. La distinzione vale anche per la bellezza e per il valore. È essenziale (o fondante 0 misurante) la bellezza dell'ente quando è oggetto delrammirazione di Dio. Altrettanto dicasi del valore. Infatti l'ammirazione e Yestirnazione che nutre l'asse ipsum subsistens, Dio, per gli enti determina il loro valore e la loro bellezza. Mentre è accidentale la bellezza che è oggetto della nostra ammirazione; ed è accidentale il valore che è oggetto della nostra estimazione. Gli enti sono oggettivamente belli e sono oggettivamente validi anche se non c'è nessun uomo che li ammira o che li stima.
576
TOMMASO D'AQUINO: LA CREAZIONE, LA PROVVIDENZA E L'ORDINE DELL’UNIVERSO
Ne1l’edificio metafisico di S. Tommaso il discorso sulla creazione viealla fine. In entrambe le Summae esso viene posto a coronamento del discorso su Dio. Tutto questo è perfettamente in linea con le esigenze di una metafisica costruita dal basso. L'origine degli enti è l'obiettivo principale della metafisica, ed è stato perseguito appassionatamente dai metafisici di tutte le epoche prima e dopo il cristianesimo. Ma per raggiungerlo è necessario anzi tutto interrogarsi sulla natura dell'ente e dell'essere, dimostrare che esiste l'Essere sussistente, conoscere i suoi attributi, le sue perfezioni, i suoi poteri, e provare che è in grado di progettare un universo e di Volerne l'esistenza, Il Dio di S. Tommaso è un Dio creatore, provvidente e ordinatore. La dottrina della Creazione faceva già parte della metafisica sin dai tempi di Filone; successivamente venne ripresa da tutti i pensatori cristiani. Ma nel terzo secolo d. C., alla dottrina della Creazione i neoplatonici affiancarono quella della emanazione e la trasmisero ai filosofiarabi (Al-Farabi,Avicenna, Averroè). Così, quello della creazione divenne per i filosofi cristiani del sec. XIII, specialmente per S. Tommaso, uno degli argomenti più discussi di tutta la metafisica. I punti più dibattuti erano due: creazione oppure emanazione; creazione ab aetemo oppure creazione nel tempo. L'Aquinate è un sincero creazionista e quindi rifiuta categoricamente la dottrina della emanazione ma allo stesso tempo contro la fortissima corrente agostiniana guidata da S. Bonaventura egli vede di buon occhio l'ipotesi di una creazione ab aetemo. Anche nella speculazione sulla creazione l'Ange1ico fa valere il suo concetto intensivo dell'essere, e questo gli consente di eliminare tutta quella innumerevole serie di sostanze o di enti intermediari inseriti dai neoplatonici nella spiegazione dell'origine delle cose (dalYUno). ne
—
-
La nozione di creazione
Quale sia il concetto tomistico di creazione, l'abbiamo chiarito in precedenza parlando del principio di causalità. Creare significa anche per S. Tommaso «productio rei ex rlihilo sui et subiecti». La nozione di creazio-
La creazione, la provvidenza e l'ordine dell'universo
577
pone l'accento sul nulla del punto di partenza (ex nihilo) di ciò che è oggetto dell'azione creatrice. S. Tommaso mette bene in luce quest'aspetto di origine assoluta, di salto ontologico radicale, dalla condizione del nulla alla condizione dell'essere, che ha luogo nella creazione, nella seguente definizione: «La creazione è la produzione di qualche cosa in tutta la sua sostanza senza che di questa ci sia presupposto alcunché sia
ne
creato sia increato>>fl
proposito del nulla che costituisce, secondo il nostro modo di clire,. partenza dell'azione creatrice, va precisato (e S. Tommaso non manca di farlo) che si tratta davvero del nulla e non di un orizzonte A
il punto di
tenebroso o di un oceano caotico. Noi siamo tentati di entificare il nulla (come hanno fatto Heidegger e Sartre) facendo di esso il polo contrario all'essere. Ma ciò che ha realtà è soltanto l'essere; mentre il nulla è assolutamente nulla, tanto che la stessa parola nulla non è affatto nulla, bensì l'emissione di una voce o un insieme di lettere scritte. Il nulla, se facciamobene attenzione, è assolutamente ineffabilee incogitabilee non semplicemente inconoscibile.Diventa così evidente che il modo di esprimersi e di intendere al quale siamo ancorati quando diciamo che «il punto di partenza dell'universo è il nulla», resta antropomorfico. Noi significhiamo in quei termini l'emanazione prima degli esseri alla maniera di un fieri (un divenire), d'un cambiamento sopravvenute, di una specie di successione o movimento che parte dal nulla per sfociare nell'essere. Ma in nessun modo la creazione, propriamente parlando, può essere un cambiamento, un fieri, per la semplice ragione che un cambiamentoesige due termini e ogni fieri è in un soggetto. Ora qui non c'è un soggetto, poiché ilfieri in questione implica tutto l'essere e nulla al di fuori dell'essere. E nemmeno, correttamente parlando, c'è punto di partenza, poiché la sola immaginazione, entificando surrettiziamente il nulla, può presentarlo come un inizio. Tutto quello che si può dire di una tale azione è che si tratta di una relazione pura, e poiché non si dà creazione prima del creato, si capisce che la relazione in questione non è una relazione bilateralema unilaterale: è una relazione che va dal creato a Dio e non viceversa. La creazione, dalla nostra ragione concepita come una relazione intermedia fra il Creatore e la creatura, è in effetti posteriore alla creatura, come ogni relazione è posteriore al soggetto che la pone. Solo in quanto indica Dio come principio, la creazione può essere riguardata come anteriore, logicamente, all'essere del mondo; ma sotto questo aspetto, per così dire, non è più la stessa cosa. Nella sua realtà propria la creazione ò una relazione del creato ed è dunque posteriore al
1)
S. Th. I, 65, 3.
578
Parte seconda
proposizione, «il mondo è stato creato» significa per noi due cose e cioè: primieramente, il mondo ‘e; secondariamente, il mondo dipende dalla sua fonte. Per quanto sconcertante, questa concezione si impone manifestamente a chi si rende conto di quel che può essere un cominciamento assolucreato; così la
to. Un tale cominciamento non può propriamente chiamarsi un cambiamento sopravvenuto, una successione di stati, un passaggio dal nulla all'essere. Solo la nostra mente opera un tale passaggio, se tenta di rappre-
l’irrappresentabile. Non potendo considerare il non—essere assoluto se non sotto la specie dell'essere, immagina anche il nulla e a questo fa succedere il mondo. Oppure dice: primìeramente il mondo non è, secondariamente il mondo è, senza avvedersi che il ”primieramente” non ha consistenza alcuna; che ne potrebbe avere solo se si trattasse di un non essere relativo, sostenuto da una potenzialità reale. Quello che non è nulla assolutamente non può assolutamente precedere nulla, e non c'è dunque alcun passaggio, nessuna preesistenza, nemmeno per quel nulla illusorio di cui si parla come di una realtà! L'effetto proprio della creazione è l’essere e questo non può avere altra causa che colui che già lo possiede in maniera eminente, perfetta, cioè l'Essere sussistente stesso, che è Dio. Infatti, «quanto più universale è un effetto, tanto più elevata è la sua causa propria; perché quanto più alta è la causa, tanto maggiori sono gli effetti a cui si estende la sua virtù. Ora l'essere è più universale del divenire, essendovi degli enti che sono immobili,a detta anche dei filosofi,come le pietre e simili. Occorre dunque che sopra la causa che solamente opera muovendo e trasmutando, esista quella causa che è principio primo dell'essere e questa non può essere che l'Essere sussistente stesso».3 Così risulta parimenti dimostrato che il primo effetto prodotto da Dio è l’essere stesso, perché tutti gli altri effetti lo presuppongono e su di esso si fondano. Perciò è necessario che tutto ciò che in qualche modo esiste, riceva l'essere da Dio. L'azione creatrice è pertanto un'azione singolarissima, non soltanto grazie al suo artefice che è Dio, e grazie al suo effetto che ‘e l’essere, ma anche grazie alla sua immediatezza, pervasività, incisività, intimità, inarrestabilità. Essa investe non soltanto il cuore oppure la superficie degli esseri, ma li attraversa e li pervade totalmente da capo a fondo. Nulla di quanto un ente possiede si sottrae all'efficacia dell'azione creativa: materia e forma, sostanza e accidenti, qualità e azioni, strutture e relazioni, sotto il profilo ontologico tutto si regge incessantemente sull'azione creatrice di Dio. sentarsi
2) 3)
Cf. ibid, 45, 2-3. C. G. II, 16.
La
creazione, la provvidenza e l'ordine dell'universo
579
Nell’azionecreatrice Dio segue un ordine logico che ha qualche somiglianza con l'ordine che si registra nelle produzioni umane: Dio contempla la sua infinita essenza e scorge in essa innumerevoli, infinite possibilità di riproduzione; quindi programma una scelta tra le varie possibilità e, infine, ne decreta liberamente l'attuazione. Solo che mentre nelle opere umane l'ordine comporta una successione temporale, in Dio che è al di fuori e al di sopra del tempo non esiste nessuna successione: Dio opera nell'eternjtà e nell'assoluta istantaneità. Creando l'universo Dio, in quanto intelligente e libero, si propone certamente degli obiettivi,i quali non possono essere diversi da lui stesso, per il semplice motivo che prima della creazione non esiste altro essere dal quale e per il quale Dio possa essere indotto ad agire. Ma finalizzare la creazione a se stesso, alla propria gloria, non ha carattere egoistico come si potrebbe pensare a prima vista, perché proporre Dio come ultimo traguardo è esaltare al massimo le recondite aspirazioni che ogni creatura ha iscritte nel profondo del proprio essere. A questo riguardo vale la pena leggere quanto scrive S. Tommaso nel De verimte:
principio e fine di ogni cosa e, di conseguenza, ha con le creaduplice rapporto: quello secondo cui tutte le cose arrivano all'essere per causa sua, e quello secondo cui tutte le cose si dirigono «Dio è
ture
un
a lui come a loro ultimo fine. Questo secondo rapporto si realizza nelle creature irrazionali diversamente che in quelle razionali: nelle prime si attua mediante l'assimilazione (per siam assimilationis),nelle seconde mediante la conoscenza della divina essenza oltre che mediante l'assimilazione.Infatti in tutte le cose che procedono da Dio è insita l'inclinazione verso il bene da conseguirsi mediante Yagire. Ora nel conseguimento di qualsiasi bene la creatura si rassomiglia a Dio. Ma le creature razionali possono raggiungere Dio oltre che mediante l'assimilazione, anche con l'unione mediante le operazioni
del conoscere e dell'amare, e quindi delle altre creature di essere felici».4
sono
maggiormente in grado
Quando si parla della creazione c'è ancora un punto da chiarire: quello che riguarda la continuità dell'azione creatrice di Dio. Il problema era già stato affrontato da S. Agostino, il quale l'aveva risolto mediante la celebre dottrina delle «ragioni seminali». Agostino prende alla lettera il testo biblico il quale dice che «Dio creò tutto simultaneamente» (omnia simul creavit). Ciò significa che Dio ha creato tutto insieme un mondo destinato a svolgersi nel tempo, ossia ha dato inizialmente al mondo tutte le virtualità che nella storia dell'universo si sareb4)
De ver. 20, 4.
580
Parte seconda
bero andate sviluppando e attuando. Queste virtualità impresse da Dio nelle cose al momento della creazione sono chiamate da Agostino ragioni seminalz’. Al momento della creazione, oltre ai corpi completi, Dio ha creato i germi di tutte le cose future: «Il mondo scrive Ylpponate è come una donna incinta: porta in sé la causa delle cose che verranno alla luce nel futuro. Così tutte le cose (di tutti i tempi) sono state create da Dio».5 Come nel seme di un albero sono presenti invisibilmentetutte le parti che si svilupperanno successivamente dall'albero stesso, così fin dall'inizio furono presenti germinalmente nel mondo tutti i diversi corpi. S. Tommaso, collocando l'azione creatrice di Dio assolutamente fuori (e non soltanto prima) dello spazio e del tempo, non ha bisogno di ricorrere alle ragioni seminali e concepisce la creazione come un evento istantaneo e costante: è l'azione fulgidissima di un sole eternamente immobilee perennemente raggiante, attorno al quale si muove, si distende e prende forma tutto l'universo. L’influss0 ontologico di Dio sulle sue creature è incessante. Essere creatura è essere totalmente, radicalmente dipendente, e dipendente proprio in ciò che è più fondamentale e primario, l'essere; cosicché questo non può mai diventare sua proprietà. In quanto Esse ipsum «Deus est universale etfontale principium omnis esse (Dio è il principio universale e fontale di ogni essere)».5 «La stessa divina sapienza è causa efficiente (efiectiva) di tutte le cose, e non soltanto dà alle cose l'essere, ma anche, nelle cose, l'essere con ordine, in quanto le cose si concatenano l'una all'altra, in ordine al fine ultimo. E ancora è Causa della indefettibilitàdi questa armonia e di questo ordine, che sempre rimangono, in qualsiasi modo mutino le cose»? Oltre che dell'apporto delle rationes seminales, ai tempi di S. Tommaso si discuteva della possibilità della collaborazione degli angeli nella creazione. Uipotesi era stata fatta da Platone, il quale nel Timeo parla di Potenze che collaborano con il Demiurgo nella produzione del mondo materiale; nel medioevo essa aveva incontrato il favore di alcuni filosofi mussulmani ed ebrei. S. Tommaso trova questa ipotesi del tutto inammissibile, perché Dio nella creazione non ha bisogno né di aiutanti né di intermediari. Ecco l’acuto ragionamento dell’Angelico: -
-
seconda strumentale non prende parte all'azione della causa superiore se non in quanto coopera, mediante una sua peculiarità, a disporre un soggetto all'azione dell'agente principale. Ma se non causasse nulla di ciò che forma la sua peculiarità, il suo impiego «La
causa
5) AGOSTINO, De Trinitate 2, l. 9, c. 16. 5) De sub. sep. c. I4. 7) In Div. Nom. c. 7, lect. 4, n. 733.
La creazione, la provvidenza e l'ordine deZlîi-niverso
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nell'azione sarebbe inutile, e non ci sarebbe affatto bisogno di determinati strumenti per determinate funzioni. Vediamo invece che la scure tagliando il legno, funzione che deriva dalla sua forma caratteristica, coopera a produrre la figura della seggiola, che è effetto proprio dell'agente principale (cioè dell'artigiano). Ora l'essere, che è l'effetto proprio di Dio nel creare, ‘e il presupposto d’ogni altra cosa. Perciò non si può dare alcun apporto a modo di disposizione o di strumento per ottenere questo effetto, non dipendendo la creazione da un prerequisito qualsiasi, il quale possa ricevere da una causa strumentale la disposizione a quell'atto. Quindi non è possibile che una creatura abbia la facoltà di creare, né per Virtù propria né come strumento né per delegazionemg
LIBERTÀ DELLA CREAZIONE La creazione è frutto esclusivo della bontà, della sapienza e della volontà di Dio, non essendoci nulla nella creatura (dato che ancora non esiste) che lo possa indurre alla creazione. Pertanto la creazione ‘e un’azione assolutamente libera. Il creatore per S. Tommaso è il Dio cristiano, non è l'Un0 inscrutabile di Plotino, il quale subisce per necessità naturale l'emanazione. I1 Dio di S. Tommaso ‘e 1’Esse ipsum subsistens dotato di infinita intelligenza e di assoluta libertà. S. Tommaso argomenta la libertà della creazione partendo sia dalla natura della causa sia dalla qualità dell'effetto. Da parte della causa nota che agire necessariamente è proprio delle cause naturali; ma Dio non è una causa naturale; quindi «non agisce per necessità di natura; ma dall'infinita sua perfezione procedono effetti determinati in conformità della determinazione del suo volere e del suo intelletto».9 Analoga la conclusione che egli ottiene guardando all'effetto: «La stessa verità si dimostra dal rapporto degli effetti con la causa. Gli effetti derivano dalla causa agente in quanto preesistono in essa; perché ogni agente produce qualcosa che gli somiglia. Ma gli effetti preesistono nella causa secondo il modo di essere della medesima. Perciò, siccome l'essere di Dio si identifica con la sua intelligenza, gli effetti preesistono in lui come intelligibìli. Quindi deriveranno pure da lui alla stessa maniera. Per conseguenza deriveranno come oggetto della volontà: perché appartiene alla Volontà l'impulso a compiere quello che è stato concepito dall’intelligenza. Quindi la volontà di Dio è causa delle cose» .1“
8) s. m. 1,45, 5. 9) 112211., 19, 4. 10) Ibid.
582
Parte seconda
LA POSSIBILITÀ Dl UNA CREAZIONE ETERNA Una delle dispute più accese a Parigi ai tempi di S. Tommaso riguardava l'eternità del mondo e quindi la possibilitàdi una creazione ab aeterno. Aristotele aveva insegnato l'eternità del mondo,‘ Averroè e i suoi discepoli sostenevano la tesi dell'eternità della creazione. Uno dei critici più tenaci della tesi della creazione ab aeterno era S. Bonaventura, il quale non la giudicava soltanto contraria alla fede, ma anche assurda in se stessa, e così pretendeva di dimostrare la verità della creazione nel tempo. Secondo Bonaventura la creazione ab aeterno è un concetto contraddittorio, perché postula una serie infinita di cause e una serie infinita di giorni. Su questo punto, come su tanti altri, S. Tommaso dissente nettamente da S. Bonaventura. Egli non mette in dubbio l'insegnamento della Scrittura circa la temporalità del mondo ma nega che la temporalità del mondo sia razionalmente dimostrabile: si tratta semplicemente di una verità di fede, che va accettata per fede come i misteri della Trinità e dell'Incarnazione. La sua indimostrabilitàrisulta dall'esame sia dell'effetto (il mondo), sia della causa (Dio). Dio, essendo eterno, ha certamente potuto causare da sempre. Quanto al mondo, perché sia creato, si esige soltanto che sia tratto dal nulla (ex nihilo) e non che sia prodotto nel tempo.
«Che il mondo non sia sempre esistito si tiene soltanto per fede, e non si può provare con argomenti convincenti (demonstrative probari non
potest): come sopra abbiamo affermato a proposito del mistero della Trinità. E la ragione si è che il cominciamento del mondo non può essere dimostrato partendo dal mondo medesimo. Infatti principio della dimostrazione (deduttiva e apodittica) è l'essenza stessa d'una cosa. Ora, quanto all'essenza sua specifica ogni cosa astrae dalle circostanze di luogo e di tempo; e per questo si dice che "gli universali sono dovunque e sempre". Quindi non si può dimostrare che l'uomo, il cielo o le pietre non siano sempre esistiti. Parimenti non si può dimostrare la cosa neppure partendo dalla causa efficiente, se questa opera per libero arbitrio. Infatti non si può investigare razionalmente quale sia la volontà di Dio, se non a proposito di quelle cose che è assolutamente necessario che lui voglia: ma non appartiene a questo genere quanto egli vuole riguardo alle creature, come si e spiegato. La volontà divina può essere invece manifestata all'uomo per rivelazione, sulla quale appunto si fonda la fede. Quindi che il mondo ha avuto inizio è cosa da credersi, ma non oggetto di dimostrazione o di scienza. E questa e una cosa che bisogna tener presente, perché qualcuno, presumendo di dimostrare ciò che è soltanto di fede, non abbia -
-
da portare argomenti che non provano, e offrire così materia di derisione a coloro che non credono facendo loro supporre che noi si credano le cose di fede per argomenti di questo genere».”
'11)
S. Th. I, 46, 2. Oltre che nella Summa la questione dell'eternità del mondo è affrontata con una vena polemica inconsueta nell'Angelico nell’opuscolo De aeternitate mundi contra murmurantes (i murmumntes erano i teologi parigini -
-
La creazione, la provvidenza e l'ordine dell'universo
583
Stupenda è la replica di S. Tommaso all’obiezionesecondo cui l'eternità del mondo sarebbe impossibileperché essa suppone una infinità di cause e di giorni. Essa merita di essere riportata integralmente: «Nella concatenazioneessenziale (per se) non si può retrocedere all’infinito (impossibileest procedere in infinitum); come sarebbe nel caso che si moltiplicassero le cause che sono essenzialmente richieste per un dato effetto; se, p. es., la pietra fosse mossa dal bastone, e il bastone dalla mano e così via all'infinito. Ma non è assurdo che si possa retrocedere all'infinito nella concatenazione non essenziale (per accidens) delle cause efficienti; nel caso cioè che tutte quelle cause moltiplicate all'infinito non abbiano che un solo rapporto causale (appartengano cioè allo stesso ordine causale), e che la loro molteplicità sia soltanto qualche cosa di meramente accessorio e occasionale; come per es. che un artigiano compia la sia opera con molti martelli, per la sola combinazione che se ne rompe uno dopo l'altro. Nel caso indicato capita a questo martello di agire per combinazionedopo un altro martello. E così a questo uomo capita pure di essere generato da un altro: infatti egli genera perché uomo, e non perché figlio di un altro uomo; perché tutti gli uomini sono sullo stesso piano nella scala delle cause efficienti, che è il grado particolare di coloro che hanno la virtù di generare. Perciò non è assurdo che un uomo sia generato dall'altro all’indefinito. Sarebbe invece assurdo se la generazione di quest'uomo dipendes-
da quest'altro uomo, quindi dalla sole e così di seguito all'infinjto».1î
se
sua
materia elementare,
poi dal
Con la tesi della non-dimostrabilitàdella temporalità del mondo, S. Tommaso si è preoccupato di non confondere ciò che si deve ritenere per fede con ciò che si può provare con la ragione, salvaguardando così quella distinzione formale dei due campi, che costituisce uno dei capisaldi del suo pensiero.
della corrente agostiniana). Come spiega S. Tommaso, ridotta all'osso la questiovuole sapere se tra le proposizioni «essere creato da Dio integralmente (secundum totam substantiam)» e «non avere inizio rispetto alla durata (durationis principium)» esiste contraddizione oppure no. L'argomento fondamentale con cui l’Angelico esclude la contraddizione è il seguente: «Nessuna causa che produce il suo effetto immediatamente, precede il suo effetto nel tempo. Ma Dio è una causa che produce il suo effetto non attraverso un movimento, ma immediatamente. Perciò non è necessario che preceda il suo effetto nel tempo (Nulla causa produccns effecturri suunz subito, necessarie pracccdit cjîectum suum duratione. Sed Deus est causa producens efiecturri suum non per motum, sed subito. Ergo non est necessarium quod duratione praeccdat eficctum suum)» (n. 299). S. Th. l, 46, 2, ad 7. ne
l?)
584
Parte seconda
La divina provvidenza e il problema del male La provvidenza consiste nella sollecitudine paterna e amorosa con cui Dio segue le sorti delle singole creature e di tutto l'universo e nell'assistenza costante che presta loro affinché possano raggiungere quella piena realizzazione del proprio essere (felicità) cui sono chiamate. «Siccome Dio e causa delle cose mediante l'intelletto e quindi la ragione di ogni sua opera preesiste necessariamente in lui, ne viene di necessità che l'ordinamento delle cose al loro fine preesiste nella mente divina. Ora, la provvidenza consiste precisamente in questo predisporre gli esseri al
loro fine (ratio ordinandorum in finem, proprie providentia est)».'3 La provvidenza divina si affianca alla creazione e, in certo qual modo, la completa. Mentre la creazione porta all'essere tutto ciò che ne è privo, la provvidenza interviene per dare un ordine alle creature e per conservarlo. Con la creazione Dio situa nell'orbita dell'essere le creature, con la provvidenza le accompagna e assiste perché possano realizzare quel grandioso piano che la mente divina disegna per l'universo cosmico, per l'universo spirituale e per l'universo umano. Perciò il termine «provvidenza» non indica soltanto la cooperazione, il concorso, Fazione continuata con cui Dio mantiene nell'essere le proprie creature, ma implica anche la ragione di scopo, di progetto: è il concorso di Dio teso a realizzare quel progetto che Egli stesso ha predisposto sia per le singole creature sia per l’universo intero. Che Dio, oltre che creatore, sia anche provvidente, è un convincimento ampiamente condiviso non solo da tutte le grandi religioni ma anche da molte filosofie. C'è un concetto di ”provvidenza” persino nelle filosofie pagane degli stoici e dei neoplatonici che pure ignoravano la dottrina della creazione. Solo i deisti del sec. XVIII cominceranno a dissociare l’idea di "provvidenza” da quella di creazione, ritenendo in tal modo di mettere Dio al riparo dai problemi del male e della libertà. La provvidenza divina, come la creazione, è anzitutto verità di fede che gli uomini hanno appreso da Dio stesso attraverso la storia della salvezza; ma poi ha acquisito anche un solido e robusto spessore razionale grazie alla assidua e acuta speculazione dei Padri della Chiesa e degli Scolastici. Verità basilare della rivelazione biblica, la provvidenza è diventata logicamente tema costante della filosofia cristiana, la quale un po’ alla volta le ha conferito una caratura razionale di indiscusso valore. Della provvidenza si sono occupati anzitutto i Padri della Chiesa, in particolare Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio Nisseno, Ambro-
13) Ibiaì, 22, l.
La creazione, la provvidenza e l'ordine dell'universo
585
gio, Agostino, Boezio. L0 studio della provvidenza venne poi ripreso e ulteriormente approfondito dai grandi maestri della Scolastica: S. Bernardo, S. Alberto Magno, S. Bonaventura e S. Tommaso. Il Dottore Angelico nel pieno ful gore della Scolastica offre una trattazione completa del “mistero” della provvidenza, esplorandone attentamente tutti gli aspetti: dall'esistenza alla natura, dalla estensione al modo, dando il giusto peso alle varie obiezioni che si possono addurre Contro di essa, in particolare le obiezioni del male, del Caso e della libertà. Nella questione 22 della Prima Pare della Summa, che è interamente dedicata alla provvidenza (De proziidentia Dei), l’Aquinate affronta i seguenti quesiti: 1. Se in Dio possa esserci provvidenza; 2. Se tutte le C0se siano soggette alla divina provvidenza; 3. Se la divina provvidenza si occupi immediatamente di tutte le cose; 4. Se la provvidenza renda necessario tutto quello a cui provvede. Secondo S. Tommaso, Dio, essendo creatore, ‘e anche provvidente. Infatti, poiché Dio è causa di tutte le cose mediante la sua intelligenza, è necessario che preesista nella mente divina la ragione dell’ordine delle cose verso il fine: nel che appunto consiste la provvidenza. Essa comprende due cose: la ragione dell'ordine, che è la provvidenza propriamente detta, e l'esecuzione dell'ordine, che è il governo delle cose. Dio provvede a tutte le cose senza distinzione concedendo a ciascuna quella assistenza che è conforme alla sua natura. «Dio provvede immediatamente a tutto, perché nella sua mente ha l'idea di tutti gli esseri, anche dei più piccoli, e a tutte le cause che ha prestabilito per produrre degli effetti, ha dato la capacità di produrre quei dati effetti».14 «La causalità di Dio, il quale ‘e l'agente primo, si estende a tutti gli esseri non solo quanto ai principi della specie, ma anche ai principi individuali, sia delle cose incorruttibili,sia delle cose corruttibili. Quindi è necessario che tutto ciò che in qualsiasi modo ha l'essere, sia da Dio ordinato al suo fine».15 E non per questo scompare dal mondo il fortuito e il casuale, come non scompare il contingente e il libero, essendo nel disegno stesso di Dio, che alcuni effetti siano fortuiti rispetto alle loro cause prossime. La provvidenza non elimina il fortuito e il casuale, ma lo fa essere nelle cose con l'efficacia della sua causalità. È anch'esso un modo di essere, e dunque viene dalla fonte prima dell'essere. Con grande lucidità e rigore S. Tommaso mostra l’inc0nsistenza delle obiezioni che si appellano al male e alla libertà per mettere in discussione la provvidenza. Il male, ricorda il Dottore Angelico, non è un modo di essere, ma privazione di entità e di ordine al fine. E tuttavia entra nei disegni 14) lbid., 3. 15) 11nd,, 2.
586
Parte seconda
della provvidenza universale per una somma maggiore di bene nel creato. È fatto servire a un ordine superiore pur essendo disordine. «Sebbene il male, in quanto esce dall’agente proprio sia cosa disordinata, e sotto questo aspetto si definisca come privazione di ordine, ossia disordine, nulla impedisce che da un superiore agente sia introdotto in un ordine; ed è così che cade sotto la provvidenza».16 Ancor meno costituisce un argomento contro la provvidenza la libertà umana, perché quanto all'essere anche questa dipende totalmente da Dio, il quale però assiste l'uomo senza fare violenza alla sua libertà. Proprio della provvidenza divina è governare tutte le creature secondo la loro natura, in modo conforme al disegno preconcepito. Ci sono nell'universo effetti necessari, perché Dio ha voluto e ha posto nell'essere cause necessarie; e ci sono effetti liberi perché Dio ha voluto e posto nell'essere cause che operano liberamente. «Effetto della provvidenza divina non è soltanto che una cosa avvenga in un modo qualsiasi; ma che avvenga in modo Contingente o necessario. Perciò quello che la divina provvidenza dispone che avvenga infallibilmentee necessariamente, avviene infallibilmentee necessariamente; quello che il piano della provvidenza divina esige che avvenga in modo contingente, avviene in modo contingente»? L'ordine della provvidenza è certo e infallibile, ma questa certezza e infallibilità,proprie dell'essere di Dio, non intaccano minimamente le condizioni proprie e le qualifiche specifiche delle varie creature che possono essere sia necessarie sia contingenti (libere). L'ordine della provvidenza è Certo e immobile, perché le Cose cadono sotto di essa non soltanto secondo il loro essere sostanziale, ma altresì secondo il loro proprio modo di essere. Ora contingente e necessario sono due modi di essere conseguenti all'essere creato; quindi le cose cadono sotto l'ordine della provvidenza e secondo l'uno e secondo l'altro modo; sicché «avvengono tutte nel modo da Dio prefisso; cioè in modo necessario o contingentemlfi Occorre ricordare che l'ordine increato, cioè l'ordine propriamente provvidenziale, non entra in composizione con l'ordine creato. Quindi questo resta quello che è, nella sua consistenza, ente per partecipazione, tutto plasmato secondo le idee divine e incessantemente legato all'azione del creatore, ma senza che nessun elemento divino entri a costituirlo. Ha tutte e sole le proprietà che convengono alla sua natura di ente per partecipazione, collocato in un modo di essere e di operare o contingente o necessario, secondo che la causa prima ha concepito e voluto che
16) De ver. 5, 4, ad 3. 17) 5. Th. l, 22, 4, ad l. l“) 15111., ad 2.
La
creazione, la provvidenza e l ordine dell'universo
587
Dio, l'asse ipsum subsistens, perfettissimo e infinito è determinatissimo e immutabile.Invece l'universo, creato secondo la scienza e il volere di Dio, costituisce il mondo della indeterminazione, della contingenza, della inutabilità, della fallibilità. Questi due mondi sono distinti, separati, incommensurabili.Non bisogna confonderli. Il secondo dipende interamente dal primo e dal primo ha tutto quello che ha, necessità o contingenza. La proposizione: «Se Dio ha voluto che una cosa avvenga, avverrà necessariamente», perché non sia un’astrazione deve essere completata così: «Se Dio ha voluto che una cosa avvenga come effetto di necessità, necessariamente avverrà in tal modo; se Dio ha voluto che una cosa avvenga come effetto di contingenza o di libertà, necessariamente avverrà in tal modo». Contingente e necessario sono modi conseguenti l'essere creato: Dio, volendo esseri concreti, vuole o l'uno o l'altro di questi modi; e come vuole, così sarà. S. Tommaso insiste giustamente sulla causalità universale della scienza e della volontà di Dio, perché questo è perfettamente conforme con il suo concetto di Dio, il quale, come sappiamo, si identifica con Yesseità: è l’Essere sussistente stesso, sorgente unica ed esclusiva di tutto quanto è dotato di realtà. L’Essere per sé sussistente è la causa creatrice dell'ente per partecipazione, cioè d'ogni cosa distinta da lui. lJEssere sussistente oltre che causa creatrice è anche provvidente: Egli accompagna e sostiene incessantemente l'ente per partecipazione anche in ogni sua azione. sia. L'essere di
Dio, principio primo dell'ordine dell'universo L'ordine con il quale l'universo si presenta agli occhi ed all'intelligendegli uomini ha esercitato un grande fascino sui pensatori sin dagli albori della speculazione filosofica, costituendosi come uno degli argomenti più discussi sia della metafisica classica sia di quella cristiana. L'ordine è un aspetto innegabile ed una caratteristica evidente del mondo in cui gli uomini vivono e dei cieli che contemplano. E proprio la parola di origine greca "cosmo” (kosmos), con la quale si è designato il mondo in quanto percepito come regolato e "ordinato” da leggi immutabili,significa ordine. Ma qual è la causa di questo meraviglioso fenomeno? La considerazione preliminare da fare è che la questione dell'ordine, del suo significato e della sua giustificazione razionale, è strettamente legata alla questione della provvidenza divina: questa infatti è per definizione, «l'ordinamento delle cose al loro fine preesistente nella mente za
divina».19
19) Ilrid, 22, 1.
588
Parte seconda
Ordinare significa collegare il molteplice mediante un principio unifil'ordine presuppone la molteplicità e allo stesso tempo che questa molteplicità sia unificata in forza di questo riferimento esige a un principio comune. Il principio unificatore è dato da una delle tre cause: formale, efficiente, finale. L'ordine dell'universo non può avere come principio primo altri che Dio. Questo è il nucleo della Quinta Via. S. Tommaso spiega che Dio ha stabilito l'ordine dell'universo per la sua gloria. Creando le cose per far rifulgere la sua gloria Dio non poteva crearle tutte eguali, perché soltanto moltiplicandole e differenziandole poteva offrire un quadro più vasto e più ricco dell'infinita perfezione della propria natura: «La diversità delle cose proviene pertanto dalla intenzione principale della Causa primamîfl Dio produce sempre le sue opere in base a un disegno unificatore ed ordinatore: «Ciò che Dio ha soprattutto a cuore nelle cose create è l'ordine dell'universo»? Poiché l'ordine dell'universo è ciò che è voluto in maggior grado dal Creatore, nella sua mente divina deve preesistere l'idea dell'ordine completo, il disegno dettagliato di tutta l'opera in tutti i suoi particolari. Plotino, Proclo, Avicenna e Averroè avevano attribuito a Dio la determinazione soltanto degli aspetti costanti ed universali dell'ordine cosmico, mentre avevano affidato agli intermediari (il Nous, le Intelligenze) la determinazione dei fenomeni contingenti. S. Tommaso respinge questa dottrina in nome di quella metafisica dell'essere che assegna a Dio la creazione immediata e diretta, ossia l'origine prima di tutte le cose. Scrive l'Angelico: «L'ordine dell'universo è scientemente ricercato da Dio. Esso non esiste per accidens, in base a una successione di agenti secondi: Così alcuni pretenderebbero che Dio abbia creato dapprima una sola creatura, questa una seconda, e così via fino all'apparizionedella moltitudine delle cose. Secondo tale opinione, Dio non avrebbe altra idea se non quella della prima creatura. Ma se l'ordine dell'universo ‘e per se creato da lui, è necessario che Dio abbiaun'idea dell'ordine dell'universo»?! L'ordine cosmico è per Dio quasi la più conosciuta e la più amata delle realtà create. La più conosciuta perché «se Dio conosce altre cose al di fuori di se stesso, conoscerà soprattutto ciò che è ottimo, cioè l'ordine universale, cui si ordinano tutti i beni particolari del mondoml‘ La più catore. Pertanto
20) C. G. 11,44. 21) Ibid. III, 64. 22) S. Th. I, 15, 2. 23) C. c. 1, 71.
La
creazione, la provvidenza e l ordine dell'universo
589
amata, perché «Dio ancor più ama il bene dell’universalità dei suoi effetnon qualche bene particolare, poiché in esso è maggiormente raffigurata la sua bontà>>24 Il male è essenzialmente disordine, perciò Dio non può averlo direttamente voluto. Tuttavia Egli non lo esclude dal suo disegno ma lo fa rientrare in un ordine ontologico superiore. Per questo S. Tommaso afferma con S. Agostino che «un universo nel quale non ci fosse alcun male non avrebbe tanta bontà quanta ne ha l'universo realmente esistente, perché non vi sarebbero in esso tante nature buone quante in questo, nel quale esistono nature buone cui il male non si può unire e altre cui il male si unisce; ed è meglio che esistano entrambi i tipi di nature piuttosto che uno solo».25 L'universo costituisce una grande totalità dinamica Comprendente tutti gli ordini particolari, con i loro principi propri disposti in scala gerarchica: «Tutte le creature compongono l'ordine universale come una totalità integrata nelle sue parti. Se vogliamo assegnare il fine di un tutto e delle sue parti, troviamo in primo luogo che le singole parti sono in funzione dei loro atti propri, come l'occhio è per vedere; in secondo luogo la parte meno nobileè in funzione della più nobile, come il senso è per l'intelletto e il polmone per il cuore; in terzo luogo, tutte le parti sono in funzione della totalità (...). Inoltre tutto l'uomo si orienta verso un fine superiore: il godimento di Dio».26 Nella visione teleologica di S. Tommaso ogni cosa occupa il suo posto nell'universo, e ogni cosa dà il suo apporto alla perfezione dell'universo nella misura in cui realizza pienamente se stessa: «ogni creatura è in funzione del proprio atto e della propria perfezione>>27 Tuttavia le «creature meno nobilisono in funzione delle più nobili,come le creature inferiori all'uomo sono per l’uomo»;28 ma alla fine «la totalità dell'universo con tutte le sue parti è ordinata a Dio come a suo fine».29 Ogni singola parte dell'universo ha il suo Valore intrinseco, prescindendo dal fatto che sia ordinata a realtà superiori; ma nel suo insieme l'universo tutt’intero ha un unico traguardo: Dio. ti che
24) 25) 26) 27) 28) 29)
lbid. I, 85. I Sent. 44, 1, 2, ad 5. S. Tlz. l, 65, 2. rana.
1m. Ibid.
590
Parte seconda
Così attraverso l'ordine cosmico si compie quella circolazione comexitus: pleta delle creature, che termina là dove aveva avuto inizio il loro cioè Dio. Nella trattazione dei problemi della Creazione, della provvidenza e dell'ordine del cosmo, mediante felici e opportune applicazioni del suo ricchissimo concetto di essere (Yactualitas omnium actuzem) S. Tommaso
conferisce una misteri.
maggiore intelligibilità a questi meravigliosi e ineffabili
TOMMASO D'AQUINO: GLI ANGELI E L'UOMO
La nostra ricostruzione della metafisica di S. Tommaso è già notevole quindi dobbiamo affrettarci a concludere aggiungendo ancora poche pagine sulle due opere principali della creazione:
mente avanzata,
gli angeli e l'uomo. Gli angeli in quanto realtà spirituali appartengono di diritto all'ambi-
metafisica, che è il mondo immateriale, trascendente. Ma anche l'uomo, grazie alla sua anima spirituale e immortale, appartiene all'ordine metafisico. Nello studio di queste due realtà, l'angelo e l'uomo, come nel suo studio dell'ente e di Dio, S. Tommaso escogita soluzioni nuove e più adeguate impiegando e mettendo a buon frutto il suo concetto intensivo dell'essere e la capitale distinzione tra essenza ed essere nelle realtà finite. Con le applicazioni delle sue più alte conquiste concettuali metafisiche S. Tommaso opera un profondo rinnovamento sia dell'angelologia
to della realtà studiato dalla
sia
dell'antropologia.
Gli angeli
prima sistemazione organica della dottrina sugli angeli fu operata Dionigi l'Areopagita in un breve scritto intitolato La celeste gerarchia (De coelesti hierarchia). Quest'opera, anche grazie alfautorevole pseudoLa
da
nimo di cui si era servito l'autore, esercitò un influsso costante e decisivo su tutti i pensatori che vennero dopo di lui. Nel De codesti hierarchia si definisce la natura degli angeli (sono "intelligenze" o "menti"), la loro funzione (di protezione e guida degli uomini) e la loro distribuzione in nove cori, raggruppati in tre triadi: la prima comprende i Serafini, i Cherubini, i Troni; la seconda le Dominazioni, le Virtù e le Potestà; la terza i
Principati, gli Arcangeli e gli Angeli. S. Tommaso riprende su larga scala l'insegnamento dello PseudoDionigi, ma lo perfeziona ulteriormente su alcuni punti di essenziale importanza, avvalendosi degli strumenti concettuali della metafisica aristotelica e della filosofia dell'essere. Degli angeli l’Aquinate si occupa in 35 opere, alcune delle quali devono essere considerate come vere e proprie monografie sugli esseri spirituali; tali sono in particolare il De spiri-
592
Parte seconda
tualibus creaturis, le questioni 54-64, 98-103 della Prima Pars della Summa Theologiae, i capitoli 73-78 del Compendium Theologiae. A giudizio di molti studiosi il trattato degli angeli che troviamo nella Summa Theologiae ‘e da considerarsi come un vero capolavoro, «per la profondità dei principi che lo sostengono e che lo animano, per la genialità delle intuizioni, e per l'armonia e la coerenza di tutte le sue parti» (T, CENTI). Due sono le tesi più originali e più importanti di tutta Yangelologia tomistica: l.a spiritualità delle creature angeliche, e la loro composizione ontologica di essenza e atto d'essere. SPIRITUALITÀ
tempi di S. Tommaso la maggior parte dei teologi richiamandosi a S. Agostino e ad Avicebron, autore del Fans vitae affermavano che gli angeli non sono puri spiriti, ma sono anch'essi composti di materia e forma, come tutte le altre creature. Questa (la composizione ilemorfica), a loro giudizio, era l'unica spiegazione possibile della finitudine degli angeli, della loro distinzione da Dio e della differenziazione tra gli angeAi
-
-
li stessi. S. Tommaso considera invece assolutamente irrinunciabilela tesi della spiritualità degli angeli e la assume come cardine fondamentale e principale di tutta la sua angelologia, derivandone tutte le logiche conseguenze, di cui le principali sono: a) Esistenza. A prova dellesistenza degli angeli S. Tommaso non adduce argomenti storici (la Sacra Scrittura) bensì metafisici: è la loro stessa natura spirituale che posto il disegno di Dio di creare un universo ne esige e giustifica l'esistenza. Infatti, volendo Dio creare un cosmo che fosse lo specchio della sua infinita perfezione, e non potendo conseguire tale obbiettivo con la creazione di un solo tipo di creature, era conveniente che producesse, tra le varie creature, anzitutto quelle che mag-
-
giormente gli rassomigliano: tali sono le creature angeliche che sono come Dio puri spiriti, intelligenti e liberi. «Poiché una cosa è nobile e perfetta nella misura in cui si avvicina alla somiglianza con Dio, e poi-
ché Dio è atto puro, senza mescolanza di potenza; è necessario che quegli enti che si trovano al massimo grado, siano maggiormente in atto e abbiano meno potenza; mentre quelli che si trovano più in basso, sono maggiormente soggetti alla potenza (...). Pertanto quelli che si trovano al massimo grado tra gli enti creati, sono quelli che maggiormente rasso-
migliano a Dio,
e non
c'è in essi
hanno ricevuto da Dio
un essere
potenza
a essere o a non
sempiterno.
essere,
ma
poiché la materia in rispetto all'essere che le E
forza della sua stessa natura, si trova in potenza viene dalla forma, questi enti in cui non c'è potenza a
essere o a non es-
Gli angeli e l'uomo
593
sere, non sono composti di materia e forma, ma sono pure forme sussistenti nel proprio essere, che hanno ricevuto da Dio>>J b) Finitudine. Questa non è dovuta alla materia (come pretendevano gli ilemorfisti),perché negli angeli non c'è materia, ma all'essenza: è l'essenza stessa che pone dei confini all'atto dell'essere, che in se stesso è infinito. Pertanto «anche nelle sostanze spirituali (i. e. gli angeli) vi è composizione di atto e potenza (solo Dio è atto puro). Infatti quando in una cosa si trovano due elementi, dei quali uno è complemento dell'altro, il rapporto dell'uno all'altro ‘e come il rapporto della potenza all'atto. Ora, nella sostanza intellettuale Creata si trovano due elementi, cioè l'essenza (substantìa) e l'essere, il quale non è l'essenza stessa: l'essere è il complemento dell'essenza esistente, poiché ogni cosa è in atto quando ha l'essere. Rimane dunque che in ognuna delle suddette sostanze si ha composizione di atto e potenza»! c) Individuazione. Questa non è causata dalla materia (come pensava-
gli ilemorfisti) ma dalla forma stessa, l'essenza; perciò gli angeli non distinti tra loro solo numericamente ma anche specificamente. Ogni singolo angelo fa specie a sé: «È impossibileche vi siano anche due soli angeli della stessa specie».3 d) Personzficazione.Agli angeli sono di diritto persone; infatti gode della perfezione della personalità chi è sussistente nell'ordine dello spirito: persona est subsistens in natura intellectuali vel ratiorialifl E tali sono gli angeli, creature eminentemente intellettuali, sussistenti nel proprio essere?’ e) Specificità dell'agire. Anche questa è ricavata dalla natura squisitamente spirituale degli angeli. La modalità del loro agire, sia nell'ordine conoscitivo sia in quello volitivo, si distingue nettamente da quella che caratterizza l'agire umano. La conoscenza intellettuale dell'uomo si reano
sono
lizza mediante l'estrazione; la libera scelta mediante la deliberazionee il si ritrova negli angeli. Per quanto concerne l'ordine conoscitivo essi sono dotati di intuizione intellettuale, grazie
giudizio. Nulla di questo alla
quale vedono immediatamente (senza astrazione) gli oggetti cono-
sciuti: Dio, le altre creature spirituali e materiali, i principi primi ecc.6 Mentre per quanto concerne l'ordine volitivo, le loro scelte non sono frutto di macchìnose deliberazioni, ma sono rapidissime, pressoché immediate. «È dunque evidente che negli angeli vi è libero arbitrio più perfetto ancora che negli uomini, come si verifica per l'intelligenza»? >4
h) LA >6:-
U1 O\ \l
xmg-‘/
Conzp. Theol. c. 74, n. 128. C. G. II, 53, nn. 1282-1283. S. Th. I, 50, 4.
Cf. C. G. IV, 35, n. 3725. Cf. Comp. Theol. c. 74, n. 128. Cf. S. Th. l, 58, 3; Comp. Thevl. c. 75. Ibirl, I, 59, 3.
594
Parte seconda
COMPOSIZIONE ONTOLOGICA S. Tommaso era certamente d'accordo con i teologi della scuola fran(Alessandro di l-lales, Bonaventura, Giovanni Peckham ecc.) nel ritenere che gli angeli, per quanto nobilie perfetti, sono esseri finiti; ma, come si ‘e visto, non era disposto a spiegare questa loro condizione ontologica ripiegando sulla composizione ilemorfica. Certo, se sono finiti deve esserci una ragione intrinseca della loro finitezza, ma poiché sono realtà squisitamente spirituali, la ragione della finitezza non può essere la materia. Ma allora qual è? Qui S. Tommaso, grazie al suo concetto intensivo dell'essere, actualitas omnium actualitatum e perfectio omnium perfectionzim, intravvede una nuova soluzione, più Corretta e più adeguata di quella ilemorfistica. La finitezza è certamente dovuta a una diffe-
cescana
ontologica e a una composizione, non però alla differenza e composizione che si incontrano nella materia e forma, ma a quelle che si registrano nelle creature tra essenza e atto d'essere (actus essendi). Mentre renza
Dio è infinito perché è puro atto d'essere e in Lui l'essenza si identifica con l'essere (è l'asse ipsum subsistens), gli angeli sono finiti perché il loro essere è ricevuto e limitato dall'essenza. Questa non è l'essere degli angeli ma la potenza che riceve l'atto dell'essere e allo stesso tempo si compone con esso, partecipa all'essere e lo delimita. Pertanto gli angeli sono essenze finite di ordine spirituale che ricevono un determinato grado della perfezione assoluta dell'essere. «Onde nelle cose composte si deve considerare un duplice atto e una duplice potenza. Infatti la materia è come una potenza rispetto alla forma, e la forma è il suo atto; inoltre l'essenza costituita di materia e forma è come la potenza rispetto al suo essere, in quanto lo riceve. Pertanto, rimosso il fondamento della materia, se rimane una forma sussistente avente una essenza sua propria, essa sarà ancora paragonata al suo essere come la potenza all'atto. Non dico come la potenza separabilc dall'atto ma come quella sempre accompagnata dal suo atto. In tal modo l'essenza della sostanza spirituale, la quale non è composta di materia e di forma, rispetto all'essere è come la potenza rispetto al suo atto»)?
GERARCl-IIA
Pseudo-Dionigi nella questione della gerarchia degli angeli, semplifica la eccessiva precisione. Considerata la trascendenza dell'Essere assoluto, non vi è che un'unica gerarchia che annovera gli angeli e le altre creature ragionevoli destinate alla grazia e S. Tommaso segue lo ma ne
3)
De Spir. Creat.
c.
1.
Gli angeli e Iîlomo
alla
gloria. Circa i soggetti
occorre
595
distinguere i gruppi gerarchici in
quanto ricevono in maniera non uguale gli ordini del Principe, come può
avvenire nelle città sottomesse a un unico sovrano, anche se abbiano ricevuto legislazioni diverse. Gli angeli dotati di una intelligenza più 0 meno
possente conoscono le leggi divine in maniera diversa; è questo il fattore
principale su cui si fonda la varietà gerarchica in essi. La prima gerarchia conosce e apprezza queste leggi come precedenti da un principio universale, che è Dio; la seconda le coglie come dipendenti da cause universali create, che sono già più o meno numerose; la terza gerarchia le coglie come sono applicate a ciascun essere e dipendenti da cause particolari}! La distinzione degli angeli in gerarchie e ordini si fonda non tanto sui doni naturali della loro essenza specifica, quanto sul grado della loro elevazione soprannaturale e sulla visione intuitiva che, dopo che ebbero
superato la prova, Dio ha loro concesso: un mare immenso di beatitudicon diversa profondità si immerge la loro estasi“) Essendo sussistenti nell'ordine dello spirito, grazie all'anima, anche gli uomini secondo S. Tommaso possono entrare nei diversi ordini degli angeli, ma non assumendo la loro natura, bensì meritando in cielo una gloria che li eguaglia all'uno 0 all'aìtro dei Cori angclici.“
ne, in cui
ATTIVITÀ
già detto dell'agire degli angeli in generale, sia per quanto C011l'ordine conoscitivo sia per quello che riguarda l'ordine volitivo. Per entrambi gli ordini l'oggetto primario e principale è Dio.” Ma agli angeli viene anche riservato un ambito operativo speciale, che riguarda l'uomo. Come già lo Pseudo-Dionigi anche S. Tommaso esclude che Dio affidi agli angeli compiti demiurgici: la comunicazione dell'essere (creazione) compete esclusivamente a Dio.” Il loro ufficio principale è essere custodi dell'uomo, di difenderlo dalle aggressioni del demonio e di aiutarlo a conseguire la salvezza eterna. Gli angeli possono illuminare gli intelletti umani, rivelando loro cose divine, proponendoperò tali verità sotto immagini sensibili e così adattandosi alla natura degli uomini. Però gli angeli non possono piegare la volontà degli uomini, perché ciò è esclusivo di Dio. Gli angeli possono indurre gli uomini con la persuasioSi è
cerne
9) Ci. S.Th. I, 112, 4. w) Cf. ibid, 108, 7. u) Cf. ibid, s. 12) Cf. ibid, 6D, 5. I3) Cf. ibid, 45, 5, ad 1.
596
Parte seconda
ne e, come possono fare anche gli uomini, possono muovere la volontà eccitando le passioni.” Gli angeli conoscono il futuro se viene loro rivelato oppure per congetture ben più penetranti delle nostre, poiché le cause delle cose si disvelano al loro sguardo in modo più universale e perfetto di quanto sia possibilealla nostra mente. Del pari, per pura con-
gettura, del resto acuta La volontà dell'uomo è
e
finissima, essi conoscono i segreti dei cuori. santuario, ove non penetra che la onniveg-
un
gente increata Sapienza. «In effetti, la volontà è soggetta soltanto a Dio,
Dio solo può operare in essa, ultimo fine».'5
e
perché ne ‘e l'oggetto principale quale
L'uomo Il problema metafisico dell'uomo si concentra tutto nell'analisi dell'anima, perché è chiaro che il corpo non è una realtà metafisica ma fisica. Sennonché non è affatto ovvio che l'anima umana, benché superiore a quella delle piante e degli animali, appartenga all'ordine immateriale, ossia metafisico. Tra ì filosofi greci chi aveva difeso con la massima energia lo statuto metafisico dell'anima era stato Platone, e, così, tutti i filosofi cristiani, da Origene ad Agostino, da Cassiodoro ad Anselmo, da Alessandro di Hales a Bonaventura, quando trattavano di questo problema
attingevano a piene mani agli scritti di Platone, specialmente al Pedone. Incerta era invece la posizione di Aristotele, e proprio sul suo insegnamento relativo allîmmortalità personale dell'anima, i suoi commentatori divergevano profondamente. Averroè, che nel secolo XIII era universalmente ritenuto il commentatore più autorevole, sosteneva che per Aristotele non esiste l'immortalità delle singole anime, ma soltanto dell'intelletto agente, il nous poictikòs. S. Tommaso non soltanto scrisse un suo De anima, una questione disputata, e si occupò dei problemi relativi all'anima in molte altre sue opere, specialmente nelle due Summae, ma compili) anche un eccellente commento al De anima di Aristotele, dove egli dimostra che leggendo secondo la lettera ma secondo Yintentio auctoris si trova Stagirita difese la posizione dell'immortalità personale dell'anima. Così, con notevole ardite il Dottore Angelico si distacco dalla linea dellagostinismo e del platonismo imperante ai suoi tempi e si schierò apertamente con Aristotele, sicuro della bontà sostanziale del suo penAristotele
non
che lo
14) Cf. ibid., 111, 1-2. 15) Ibial, 57, 4.
Gli angeli e l'uomo
597
siero, non soltanto negli ambiti della metafisica e dell'etica ma anche in quello dell'antropologia. Eppure, per quanto riguarda l'anima, quanto
propone S. Tommaso non è per nulla una semplice fotocopia delle dottrine aristoteliche, ma presenta, come Vedremo, sostanziali novità e preziosi arricchimenti.
NATURA DELL'ANIMA L'anima è di natura immateriale, cioè spirituale. Però la spiritualità non è evidente: per scoprirla non basta la semplice autocoscienza, Yintrospezione, come pretendevano gli agostiniani, Secondo S. Tommaso ci vuole una «diligens et subtilis inquisitio (scrupolosa e profonda indagine)»;‘6 occorre dimostrarla. Punto di partenza della indagine (inquisitio) sono le operazioni dell'anima, infatti «eo modo aliquid operatur quo est (il modo di operare di una cosa corrisponde al suo modo di essere)». Ora, «il principio intellettivo, chiamato mente o intelletto, ha un'attività sua propria in cui non entra il corpo. Ma niente può operare per se stesso, se non sussiste per se stesso. L'operazione infatti non compete che all'ente in atto; tanto è Vero che le cose operano conformemente al loro modo di esistere. Per questo non diciamo che il calore riscalda; chi riscalda è la sostanza calda (calidunz). Rimane dunque dimostrato che l'anima umana, la quale viene chiamata mente o intelletto, è un essere incorporeo e sussistentemb" Però S. Tommaso sa bene che anche le operazioni più squisitamente spirituali dell'anima, come la Conoscenza intellettiva e il libero arbitrio, non sono esenti da qualche legame con la materia. Ma, a suo giudizio, ciò non compromette l'intrinseca spiritualità dell'anima, perché la sua dipendenza dal corpo non ‘e "soggettiva" (non tocca l'ordine della causalitàefficiente) ma "oggettiva" (riguarda l'ordine della causalità fonnale). Si tratta infatti di operazioni che «richiedono il corpo non come strumento, ma solo come oggetto. Infatti Yintendere (intelligere) non si attua mediante un organo corporeo, ma ha bisogno di un oggetto c0rpore0».15 «Si deve dire che Yintendere è operazione propria dell'anima se si considera il principio da cui nasce l'operazione; non nasce infatti dall'anima per mezzo di un organo corporeo come la vista mediante l'occhio; il suo legame col corpo riguarda l'oggetto: infatti i fantasmi, che sono gli oggetti dell'intelletto, senza il concorso degli organi corporei non possono esistere>>.19
dell'anima
16) 11nd, s7, 1.
I7) 11nd, 75, 2. 18) In I De An. lect. II, n. 19. 19) De A71. 1, ad 12.
598
Parte seconda
Talvolta per provare la spiritualità (incorporeità) dell'anima, oltre che sulle singole operazioni dell'intelletto e della volontà, S. Tommaso fa leva su un altro importante fenomeno, quello dell’autotrascendenza: la tensione verso l'infinito di tutto l'agire umano preso globalmente. «L'anima razionale possiede una certa infinità (infinitatem) sia da parte dell'intelletto agente,
con
cui
può
fare tutto (omnia facere), sia da parte del-
l'intelletto possibile con cui può diventare tutto (omnia fieri) (...) e questo è argomento evidente della immaterialità dell'anima, perché tutte le forme materiali sono finitemZU PROPRIETÀ DELL'ANIMA
Della prima e massima proprietà dell'anima umana, la spiritualità, la quale costituisce la sua differenza specifica, in quanto la distingue essenzialmente dalle anime inferiori (vegetale e animale), si è già detto. Un'altra proprietà che conta moltissimo, soprattutto nella prospettiva tomistica, è la sostanzialità. La dimostrazione di questa proprietà consente a S. Tommaso di uscire dalle incertezze e ambiguità dell'antropologia aristotelica. A questo proposito l'Aquinate, nel De Anima, che è la trattazione più profonda e completa che ha dedicato a questo argomento, ricorda due tesi che giudica inammissibili:sono le tesi estreme dei materìalisti da una parte, che non riconoscono all'anima alcun carattere sostanziale ma la equiparano alle altre forme naturali, e dall'altra quelle dei platonicì, i quali non si accontentano di affermare che l'anima è una sostanza, ma ritengono che da sola basti a definire la realtà umana, senza alcun riferimento al corpo. Contro i materialisti gli è sufficiente ribadire quanto abbiamo già riferito a sostegno della spiritualità: «È necessario che l'anima intellettiva agisca per conto proprio, avendo un'operazionepropria senza l'aiuto di un organo corporeo. E poiché ciascuno agisce in quanto in atto, occorre che l'anima intellettiva abbia l'essere per sé non dipendente dal corpo (opvrtet quod anima intellectiva habeat esse per se absolutitm non dependens a corpore)» (De Ari. 1, resp.). Tuttavia, pur affermando la sostanzialità dell'anima, S. Tommaso non intende passare dalla parte dei platonicì (gli agostiniani) che identificaVano l'essere dell'anima con l'essere dell'uomo. L'Aquinate fa vedere che l'anima non fa specie a se’ e che pertanto da sola non esaurisce la realtà umana: «Occorre perciò concludere che l'anima, pur potendo sussistere per sé (per se potens subsistere) non è tale da formare una specie completa, ma entra nella specie umana come forma del corpo. Così si può dire dell'anima sia che è forma sia che è sostanzamîl
20) H Sent. 8, 2, 2, ad 2. 31) De Arz. 1, resp.
Gli angeli e l'uomo
599
Rispondendo a una obiezione che riguarda la composizioneontologidell'anima 5. Tommaso fa l'importante precisazione che l'anima, come gli angeli, pur essendo semplice, spirituale e dotata di un proprio atto d'essere, è anch'essa soggetta alla differenza ontologica che distingue ogni realtà finita dall'Essere sussistente: anche l'anima è composta ca
di essenza e atto d'essere, e di consc uenza è com osta di atto e di p potenza, infatti «la sostanza dell'anima non e 1l suo essere, ma s1 rapporu
r
u
u
u
la otenza all'atto il’sa substantia animata non est suum esse, scd comparatur ad zpsum ut potenha ad actum)».22 ta
a esso come
4
_
UNIONE SOSTANZIALE DELL'ANIMA COL CORPO Messe al sicuro le due verità capitali della spiritualità e della sostanzialità dell'anima, S. Tommaso non incontra più nessuna difficoltà a far sua la tesi aristotelica dell'unione sostanziale dell'anima col corpo, e per dare espressione a questa verità impiega il linguaggio ilemorfistico, assegnando all'anima il ruolo di forma sostanziale e al corpo il ruolo di materia: «L'anima è ciò per cui il corpo umano possiede l'essere in atto e questo è proprio della forma. Perciò l'anima umana è forma del corpo»? A sostegno dell'unione sostanziale S. Tommaso adduce due argomenti che hanno notevole peso anche a livello empirico: 1) L'unione dell'anima col corpo non può essere accidentale perché quando l'anima scompare, nel corpo non rimane più nulla di umano se non l'apparenza. «Perciò se l'anima fosse nel corpo come il marinaio nella nave, non conferirebbe la specie al corpo né alle sue parti; invece la dà; prova ne sia che, recedendo l'anima, le singole parti non mantengono che in modo equivoco il nome primitivo. Es.: il nome "occhio", parlando di quello di un morto, è equivoco, come quello scolpito sulla pietra o dipinto; così dicasi delle altre parti>>fi4 2) L'unione col corpo giova all'anima stessa sia nell'ordine dell'essere sia in quello dell'agire: «L'anima è unita al corpo per la sua perfezione sostanziale, cioè per completare la specie umana, e anche per la perfezione accidentale, per perfezionare cioè la conoscenza intellettive che l'anima acquisisce attraverso i sensi; infatti questo modo di intendere è connaturale all’uomo».25 Facendo dell'anima la forma e l'unica forma sostanziale del corpo S. Tommaso può disfarsi della teoria insegnata da Platone e largamente condivisa dai suoi contemporanei,
23) 23) 24) 25)
Îbîd, l, ad 6. lbid, rcsp,‘ ci. ad 7. lbiaî, resp. Ibid, ad 7.
600
Parte seconda
molteplicità delle anime. Nell'uomo si dà una sola anima, quella razionale, che svolge anche le operazioni delle anime inferiori, vegetati-
della
sensitiva. «Essendo l'anima forma sostanziale, che costituisce l'uoforma sostanmo in una determinata specie di sostanza, non c'è un'altra dalla stessa l'uomo ma materia la l'anima e prima, ziale intermedia tra in di diversi i secondo perfezione, gradi anima razionale è perfezionato raL'anima razionalemîfi anima animato e modo da essere corpo, corpo zionale in quanto forma più perfetta è in grado di assolvere anche le funzioni espletate dalle forme (anime) meno perfette. Infatti «pur essendo semplice quanto all'essenza, l'anima è potenzialmente molteplice in quanto è principio di svariate operazioni; e poiché la formaè perfeziona la materia in ordine non solo all'essere ma anche all'agire, necessario che l'anima, benché sia forma unica, perfezioni le parti del corpo in svariati modi, come conviene a ogni singola operazione»?
va e
IMMORTALITÀDELL'ANIMA Peri contemporanei di S. Tommaso che
seguivano l'indirizzo platoni-
co-agostiniano, l'immortalità dell'anima non costituiva un vero probleuna ma, giacché nella loro antropologia l'anima era concepita come vicissile da tutte esente di sostanza spirituale completa e, conseguenza, tudini del corpo, inclusa la morte. Il problema della immortalità dell'a-
nima sussisteva invece per coloro che condividevano le teorie di Aristotele, in particolare nella versione che ne aveva dato Averroè, il quale fa aveva negato l'immortalità personale. S. Tommaso, come s'è visto, sue le linee fondamentali dell'antropologia aristotelica, senza peraltro compromettere la tesi della immortalità dell'anima. L'argomento princidallo pale che l'anima è incorruttibile, e pertanto immortale, lo ricava del forma in quanto statuto ontologico peculiare che compete a essa corpo, statuto che le conviene in quanto possiede l'atto dell'essere (actus essendi) in proprio, direttamente, senza dipendere dal corpo. Infatti, forme alle osserva l'Aquinate, si danno due tipi di forme sostanziali: 1) il costituisce si cui in momento composto; quali l'essere sopravviene nel 2) forme alle quali l'atto dell'essere compete ancor prima che si realizzi il composto. Le prime sono corruttibili;le seconde incorruttibili:«Si ergo sit aliqua fornm quae sit habens esse, necesse est illam fornmm incorruptibilem necessario esse (Se perciò Vi è una certa forma che ha di per sé l'essere, è il è tale E precisamente caso delche quella forma sia incorruttibile)».28
25) Ibiri, a. 9. 37) Ibid, ad 14. 23) Ibid., 14.
Gli angeli e l'uomo
601
l'anima umana. Infatti «non si separa l'essere da una cosa avente l'essere (non separatur esse ab aliquo habente esse), sc non in quanto si separa la forma da essa; pertanto se ciò che ha l'essere è la stessa forma, è impossibile che l'essere sia separato da essa. Ora è manifesto che il principio per cui l'uomo svolge l'attività intcllettiva è forma avente l'essere in sé e non solo come ciò per cui una cosa è (...). Dunque il principio intellettivo per cui l'uomo intende è forma avente l'essere in proprio; onde è necessario che sia incorruttibile>>fi9Cadono per tanto le difficoltà di coloro che vogliono che l’anima sia mortale se è unita sostanzialmente al corpo. ln effetti gli assertori della corruttibilità dell'anima dimenticano alcune cose già provate in precedenza. «Alcuni, identificando l'anima col corpo negarono addirittura che essa sia forma e ne fecero un composto di materia e forma. Altri, sostenendo che l'intelletto non differisce dal senso, di conseguenza ammisero che anche la sua attività si svolge mediante un organo corporeo, e così non avrebbe l'essere elevato sopra la materia, onde non sarebbe forma avente l'essere (in proprio). Infine altri ancora, considerando l'intelletto una sostanza separata, esclusero che l'attività intellettiva appartenga all'anima stessa. Ma tutte queste teorie sono false, come abbiamo già mostrato in precedenza. Perciò l'anima umana è inc0rruttibile».3U L’immortalità dell'anima ‘e dote naturale essenziale, diretta conseguenza della sua spiritualità, pertanto non può essere intaccata dal peccato originale. Infatti, «il peccato toglie totalmente la grazia, ma nulla rimuove dell'essenza della cosa; rimuove qualcosa circa l'inclinazioneo Capacità della grazia
602
Parte seconda
le ha tenacemente difese per amore di novità, ma perché le trovava molto più rispondenti alla Verità che non le facilisoluzioni degli agostinismi platonizzanti. Ma in S. Tommaso queste tesi assumono anche un alto valore teoretica, perché sono basate su un fondamento razionale nuovo, più solido di quello su cui le aveva poggiate Aristotele; esse hanno per fondamento la
sua
originale concezione dell'essere,
l'essere
concepito
intensivamente, come ciò che «immediatius et intimius convenit rebus
(più
immediatamente e più intimamente conviene alle cose)»:33 l'essere è atto immediato e diretto dell'anima ancor prima che questa 10 comunichi al corpo: «anima lmmana esse suum in quo subsistit corpori communicat (l'anima comunica al corpo l'essere in cui essa stessa sussiste)».34 Così, S. Tommaso, attingendo alle enormi risorse della sua metafisica deltessere, supera le prospettive antropologiche di Platone e di Aristotele, di Agostino e di Averroè, prospettive apparentemente inconciliabili,e le unisce in una sintesi superiore in cui Fempirismo di Aristotele e Averroè si fonde felicemente con Pìdealismo di Platone e Agostino.
33) De An. 9. 34) Ibirì, 14, ad 11.
Gli angeli e l'uomo
603
Suggerimenti bibliografici La letteratura tomistica è immensa. Qui suggeriamo soltanto alcune opere fondamentali, per chi desidera approfondire gli argomenti trattati
nel presente capitolo.
Sulla vita: I. MARJTAIN, Le docteur angélique, Parigi 1934; tr. it., Cantagalli, Siena 1935; A. D. SERTILLANGES, Saint Thomas d’Aqain, Parigi 1914; tr. it., 2“ ed., Morcelliana, Brescia 1948; A. WALZ, San Tommaso d'Aquino. Studi biografici, Edizioni liturgiche, Roma 1945; I. WEISHEIPL, Tommaso d'Aquino, Iaca Book, Milano 1988. Sulle opere: M. D. CHENU, Introdaction a l ’étude de Si. Thomas, Parigi tr. it., Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953; M. GRABMANN, Die Werke des hl. Thomas von Aquin, Mùnster 1945; P. MANDONNET, Des écrits authentiauesde saint Thonzas d ’Aquin, Friburgo 1910.
1950;
Introduzioni generali: F. C. COPLESTON, Aquinas, Londra 1955; M. C. D’ARCY, St. Thomas Aqainas, Westmìnster 1954; C. FABRO, Breve introduzione al tomismo, Roma 1960; R. MC INERNY, St. Thomas Aquinas, Boston 1977; S. VANNI ROVICHI, Introduzione a Tommaso d ’Aquino, Laterza, Bari 1973. Sul pensiero filosofico: AA. VV., Saint Thomas d’Aquin aujourd'hui, Parigi 1963; D. B. BURRELL, Aquinas: God and Action, Notre Dame 1979; I. DE FINANCE, Eire et agir dans la philosophie de St. Thomas, Università Gregoriana 1960; L. EIDERS, La metafisica dell'essere di S. Tonmzaso in una prospettiva storica, 2 vol1., Roma, Città del Vaticano 1995; C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tonzmaso, SEI, Torino 1939, 1950 2"’ ed.; ID., Esegesi tomistica, Università Lateranense, Roma 1969; ID., Tomismo e pensiero moderno, Roma 1969; A. FOREST, La structure métafisique da concret selon S. Thomas d ‘Aquin, Paris 1956, 2*‘ ed.; E. GILsoN, Le thomisme, Parigi 1919, 1948, 6a ed.; W. KLUXEN, Philosophische Ethik bei Thomas oon Aquin, Mainz 1964; ]. LEGRAND, Ijunioers et l'han-rime dans la philosophie de S. Thomas, Parigi 1946; G. MATTIUSSI, Le XXIV tesi della filosofia di S. Tommaso, Università Gregoriana, Roma 1947; B. MONDIN, La filosofia dell'essere di San Tommaso d Aquino, Herder, Roma 1964; ID., The Philosophy
of Being in the Commentary to the Sentences of St.
Thomas Aqainas, Nijhof,
The Hague 1975; ID., Il sistema filosofico di S. Tommaso, Massimo, Milano
1985; ID., Dizionario enciclopedico del pensiero di S. ‘Tommaso d ’Aquino, ESD, Bologna 1991; ID., Ermeneutica, Metafisica e Analogia in S. Tommaso d'Aquino, in «Divus Thomas» 12 (1995); H. REITH, The Metaphysics of St. Thomas Aquinas, Milwaukee 1958 ; A. D. SERTILLANGES, La filosofia di S. Tommaso d'Aquino, Roma 1957.
604
SIGIERI DI BRABANTE E LA POLEMICA ANTIAVERROISTICA
Il decennio che va dal 1270 al 1280 è memorabile e denso di importanti avvenimenti per la storia della teologia del secolo XIII. Non è quello infatti soltanto il momento in cui scompaiono le figure più prestigiose: S. Tommaso, S. Bonaventura (1274), S. Alberto Magno (1280), ma è anche e soprattutto il decennio dei durissimi scontri fra tre opposte correnti di pensiero: la corrente platonico-agostiniana,la Corrente aristotelico-tomista e 1a corrente aristotelìco—averroistica. Al centro della polemica è di nuovo Aristotele, l'interpretazione del suo pensiero e il suo impiego in teologia.
Ricordiamo che la parte centrale del secolo aveva segnato la decadenza dei divieti aristotelici e il conseguente grande trionfo di Aristotele. Lo studio delle sue opere era diventato obbligatorio nella facoltà delle Arti; per merito di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, la filosofia di Aristotele era diventata strumento importante e privilegiato nel lavoro teologico. Per un paio di decenni sembrò che la questione aristotelica fosse definitivamente chiusa. Ma non fu così: attorno al 1270 essa esplose nuovamente e in modo più aspro che mai. Due fatti, tra loro intimamente congiunti avevano fatto agitare nuovamente le acque: 1) La traduzione latina delle opere di Averroè, nelle quali la dottrina di Aristotele riceveva un'interpretazione che la rendeva ancora più incompatibile con la fede cristiana; 2) L'accoglienza dell'interpretazione averroistica da parte di alcuni maestri della facoltà delle Arti, in particolare di Sigieri di Brabante che in quegli anni era diventata la figura più rappresentativa in campo filosofico. Il momento cruciale del durissimo scontro è rappresentato, come già più Volte detto, dalla condanna pronunciata dal vescovo Tempier nel 1277 contro le tesi di Sigieri di Brabante, che rispecchiavano tutti i punti fondamentali dell'averroismo. Quella condanna non mirava soltanto a Sigieri e ad Averroè, ma anche ad Aristotele e a tutti coloro che, come Alberto Magno e Tommaso d'Aquino avevano creduto di poter rifare la teologia cristiana utilizzandoAristotele al posto di Platone e dei neoplatonici. Quella drammatica sentenza sembrava vanificare tutto lo sforzo compiuto da Alberto Magno e da Tommaso d'Aquino per rinnovare la
Sigierz" di Brabante
605
teologia usando i metodi e le Categorie di Aristotele. Era una sentenza che poteva compromettere tutto il futuro della teologia. E in parte sarà
così. Ma
prima di esaminare la condanna del 1277 dobbiamo sapere che cosa di più preciso intorno a Sigieri di Brabante.
qual-
Sigieri di Brabante Per merito di F. Van Steenberghen, che alla figura cli Sigieri di Braban— ha dedicato una monumentale monografia} ora possediamo Conoscenze molto più ampie e più sicure intorno alla vita, le opere e il pensiero di questo importante personaggio del secolo XIII. te
VITA Nato nel ducato di Brabante Verso il 1240, Sigieri studia all'università di Parigi, dove consegue il grado di magister in artibus tra il 1260 e il 1265. Diviene chierico secolare e canonico di San Paolo di Liegi (la sua diocesi d'origine), ma non giunge al presbiterato. «Sin dai primi anni
del
insegnamento Sigieri professa un aristotelismo inquietante, non rispettoso della teologia e dell'ortodossia cristiana» (VAN STEENBERGHEN). Contro le sue dottrine prendono subito posizione sia Bonaventura sia Tommaso d'Aquino. Bonaventura apre la polemica nel 1267 con le sue Collatianes de decem praeceptis; nell'anno 1268 prosegue con le Collationes de donis Spiritus Sancti e nel 1273 tornerà sul tema con le Collutiones in suo
Hexaenzeron. Nel 1270 S. Tommaso interviene co] suo trattato De unitate intellectus contra averroistas. Nello stesso anno si registra anche il primo intervento dell'autorità ecclesiastica. Il 10 dicembre il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condanna una serie di tredici errori e scomunica quanti li hanno insegnati consapevolmente: «qui e05 docuerìnt scienter vel assueruerint». Questi sono i concetti condannati: che l'intelletto di tutti gli uomini è il medesimo dal punto di vista numerico; che la Volontà dell'uomo decide o sceglie in modo necessario; che tutto ciò che accade sulla terra è governato dalla necessità dei corpi celesti; che il mondo è eterno; che l'anima che è forma dell'uomo in quanto uomo, si corrompe anch'essa con il corpo; che Dio non conosce gli individui; che Dio non conosce altro che se stesso; che le azioni umane non sono governate dalla divina provvidenza.
1)
F. VAN STEENBERGIJEN, Siger de Brabant d hprès 1931-1942.
ses oeuvres
inédites, 2 v0ll., Louvain
606
Parte seconda
Sigieri scrive allora due nuovi trattati: Quaestiones de anima inteliectiva e Quaestiones super librum de causis (1275) in cui rivede parzialmente le proprie posizioni, ma non in misura sufficiente a soddisfare S. Tommaso e S. Bonaventura e neppure l'autorità ecclesiastica di Parigi. Il 23 novembre 1276 Sigieri e alcuni suoi colleghi sono citati davanti al tribunale dell’lnquisizionein Francia. Ma gli accusati riescono a fuggire prima della promulgazione del decreto di citazione, appellandosi al papa, Giovanni XXI (Pietro Ispano), il quale incarica il vescovo Stefano Tempier di condurre un'inchiesta e di informarlo, il più presto possibile, sugli errori che si insegnavano nell'università. ll vescovo di Parigi assolve con grande zelo quellîncarico e di sua iniziativa il 7 marzo 1277 pronuncia la solenne condanna di 219 proposizioni riguardanti l'insegna(1273)
mento di alcuni maestri della facoltà di filosofia. Questa clamorosa condanna sembra abbia troncato l'attività come maestro di Sigieri, che
doveva aver già lasciato Parigi per sfuggire ai fulmini dell'Inquisizione. Sigieri sarebbe poi stato assolto dall'accusa di eresia, ma costretto al soggiorno vigilato nelia curia pontificia. Il teologo muore a Orvieto, durante il pontificato di Martino IV, fra il 1281 e il 1282: sembra che sia stato assassinato dal suo segretario, sofferente di turbe mentali. OPERE Sono stati ritrovati finora una quindicina di scritti che sono sicuramente opera di Sigieri o resoconti del suo insegnamento; l'autenticità di altri sette è contestata, mentre l'esistenza di alcune opere oggi perdute è provata da diversi documenti. Gli scritti la cui autenticità è universalmente riconosciuta si possono dividere in due gruppi:
Commenti aristotelici Sono tre: le Quaestiones in Metaphysicanz. È un'eccellente parafrasi ai primi sette libri della Metafisica di Aristotele ed è l'opera più importante di Sigieri. Le Quaestiones «rivelano un Sigieri scrupoloso nel rivalutare la pura dottrina aristotelica come espressione della filosofia (...). Sigieri difende il valore di una filosofia che non è soltanto il preambolo della teologia, ma una scienza autonoma dotata di principi e metodi propri»! Possediamo inoltre le Quaestiones in Physicam (22 questioni sulla Fisica) e le Quaestiones in tertium de Anima (17 questioni sull’anima intellettiva, in cui Sigieri insegna l'unità dell'intelletto agente e possibile e di conseguenza nega l'immortalità dell'anima individuale).
2)
C. A. GRAIFF, lrztroduction Louvain 1948, p. XXVIII.
a
SIGER
DE
BRABANT, Questions
sur
la
métnplzysiqzte,
Sigieri di Braban te
607
Opuscolifliosofici Quaestiones logicales (la prima ha per oggetto il significato dei termini logici); Impossibilia (stesura di sei esercizi sofistici); Quaestio de necessitate et contingentia eausamflz; Quaestiones natumles (sotto questo titolo esistono due raccolte, una di Parigi, con due questioni, e un'altra di Lisbona con sei questioni); Tractatus de anima intellectiva (in dieci capitoli di cui l'ultimo o è andato perduto o non è mai stato composto; Sigieri vi tratta le questioni più dibattute sull’intelletto umano); Quaestiones morales (cinque brevi questioni su temi presi dal trattato sulle virtù). PENSIERO Come si è detto, l'opera più importante di Sigieri riguarda la metafisica, ed è intitolata Quaestiones in metaphysicam. E un commento ai primi sette libri della Metafisica di Aristotele. Il metodo di Sigieri è una combinazionedi due procedimenti: la parafrasi (breve riassunto del testo aristotelico) e la discussione dei punti più oscuri e più dibattuti. Il testo delle Quaestiones, che è stato edito per la prima volta nel 1948 da C. A. Graiff, sembra essere una reportatio di qualche studente parigino della facoltà delle Arti e non una editio curata direttamente dall'autore. In questo scritto Sigieri mostra di conoscere perfettamente non soltanto l’opera di Aristotele ma anche i commenti di Avicenna e di Averroè, nonché il commento di Alberto Magno e il pensiero di S. Tommaso. Ed è proprio per le vivaci discussioni con gli altri commentatori di Aristotele, nelle quali Sigieri assume generalmente le posizioni di Averroè ma sposando allo stesso tempo l'impianto metafisico dei neoplatonici, che l'opera di Sigieri occupa un posto importante nella storia della metafisica. La caratterizzazione più giusta del nuovo sistema è quella che gli ha dato F. Van Steenberghen: si tratta essenzialmente di un aristotelismo neoplatonizzanteeterodosso. Qui ci limiteremo a riferire il suo pensiero sulle seguenti questioni. La questione della distinzione tra
essenza
ed essere nel! ’en te
Nella Introductio, che di fatto è un breve commento al primo libro della Metafisica, dopo aver ricordato che il subiectum della metafisica è l’ens (videtur quod ens debet pani pro subiecto huius scientiae) (q. l, p. 2),?‘ Sigieri affronta la questione dei rapporti tra essenza ed essere negli enti.
3)
1 numeri delle pagine si riferiscono all'edizione in francese delle in metaphysicam, SIGFR DE BRABANT, Questions sur la métaphysiquey... cit.
Questinries
608
Parte seconda
Come
sappiamo, Avicenna e S.
Tommaso nella loro analisi dell'ente
(fi-
avevano introdotto una nuova composizione-distinzione, quella fra essere ed essenza, che veniva ad affiancarsi alle composizioni di materia e forma, e di atto e potenza. Sigieri conosce molto bene i loro argomenti e li riassume fedelmente e, schierandosi apertamente con
nito)
Averroè il quale l'aveva criticata e
respinta, Sigieri la trova ingiustificata
e inammissibile.Infatti dire "homo" oppure ‘homo est" è la stessa cosa. D'altronde non è affatto- vero che l'esse è creato da Dio, e Yessen tia no: «Haec distinctio nulla est, scilicet inter essentiam quod unum sii efiectus Primi Principii et aliud non (Questa distinzione è nulla, cioè fra l'essenza per cui qualcosa è effetto del Primo Principio e un'altra cosa non lo è)» (q. 7, p. 14) Sennonché nel prosieguo della discussione Sigieri anziché attenersi alla questione dei rapporti tra essenza ed essere nell'ente, sposta l'analisi alla considerazione dei rapporti tra ens e res e qui ha ovviamente buon gioco nel dimostrare che ens e res non sono due diversi elementi dell'essenza, ma due modi diversi di intenderla; nel caso dell'ente l'essenza viene intesa come atto, nel caso della cosa (res) viene intesa come habitus: «Res et cns significava!‘ eandent essentiam, non tamen sunt duo synonyma nei: significant duas intentiones sicut homo et risibile, sed significant eandem intentionem: ununz tamen ut est per modum actus ut hoc quod dico cns, aliud per modum habitus ut ras (La cosa e l'essenza significano la medesima essenza, tuttavia non sono due sinonimi né significano due intenzioni come uomo e risibile,ma significano la medesima intenzione: uno tuttavia in quanto è a modo di atto come questo che chiamo ente, l'altro a modo di abito come la cosa)» (q. 7, p. 17). Quanto ad Avicenna «egli ha errato credendo che esse e res significano due essenze diverse, perché significano (la stessa essenza) in modo diverso» (q. 6, p. 20). E non ha valore neppure l'argomento di S. Tommaso il quale, come sappiamo, ricorreva alla distinzione reale tra essenza e atto d'essere negli enti finiti, per distinguerli da Dio. Infatti, «ci sono altri modi per distinguere gli enti finiti dalla semplicità del Primo, per esempio il conoscere, poiché tutto ciò che è altro dal Primo Conosce mediante una specie che è diversa da se stesso<< (q. 6, p. 22).
questione ontologica e necessità della metafisica Ci deve essere una scienza che tratta dell'ente in generale e dei suoi principi, perché esistono questioni universali che toccano l'ente in quanIneludibilitùdella
che nessun'altra scienza affronta. La metafisica si interroga sulle sulle _cause e principi dell'ente, ma Sigieri osserva che l'interrogativo soltanto ma ente, dell'ente non può riguardare qualsiasi cause e principi l'ente causato. Questo è anche il limite del famoso interrogativo che geto tale e
Sigieri di Brabarxte
609
Heidegger e che invece si trova già in Simagis aliquid in rerum natura quam nihil? (Perché c'è
neralmente viene attribuito ad
gieri: «Quare
est
qualcosa in natura piuttosto che niente?)». Ecco il significativo testo di Sigieri su questo punto: «I principi e le cause dell'ente di cui parla Aristotele in questo testo della Metafisica non vanno intesi nel senso che l'ente assolutamente parlando abbia cause e principi, di modo che abbia delle cause semplicemente per il fatto che è ente, perché in tal caso tutti gli enti avrebbero una causa; perché ciò che appartiene all'ente in quanto ente, appartiene a qualsiasi essere, in quanto gli conviene per sé e universalmente; ma se ogni ente avesse una causa, allora nessun ente possiederebbe una causa: mancherebbe infatti una Causa prima c se manca una causa prima non ci sarebbe nessun'altra causa. Perciò per cause e principi dell'ente in quanto ente il Filosofo intende le cause per sé e simpliciter dell'ente causato non cause accidentali (secundum accidens) ma cause per sé della entità (entitatis) di quelle cose che hanno una causa di essa. Infatti non tutti gli enti hanno una causa della propria entità né Vale per tutti la questione che ricerca la causa dell'essere. Se ci si chiede perché nel mondo (in rerum natura) esista qualche cosa piuttosto che nulla, riferendosi alle cose causate, la risposta è che esiste un Primo Motore immobilee una Prima Causa immutabile.Se invece ci si chiede circa l'intero universo degli enti, perché in esso ci sia qualche cosa piuttosto che nulla, non è il caso di
perché è come chiedere perché esiste Dio anziché (quare magis est Deus quam non est), perché, senza dubbio, di questo
esibire una causa,
no
non
c'è
causa»
Causa prima e
(IV, comm., p. 183),
infinito regresso
respingere la tesi della processione in infinitum delle cause, invonegatori di un Primo motore, Sigieri ricorre all'importante distinzione già proposta da Averroè e da S. Tommaso, tra cause efficienti Per
cata dai
ordinate essenzialmente (che sono distinte nella loro essenza e appartengono quindi a generi diversi) e cause efficienti ordinate accidentalmente (e che sono dello stesso genere) e fa vedere che nelle cause ordinate essenzialmente il regressus in infinitum è impossibile(II, q. 10, pp. 53-54). Pertanto esiste un'unica causa efficiente di tutto: «Ciò che è massimamente perfetto negli enti è ciò che è causa effettiva di ogni cosa» (III, q. 8, p. 99). Inoltre «in tutto l'universo esiste un'ottima disposizione delle cose, e questo esclude che nell'universo ci sia una moltitudine di principi reggitori (principatuum), perché in tal caso non avremmo un'ottima disposizione» (ibicL, p. 100). Più avanti per sostenere la tesi dell'unità del principio, Sigieri presenta l'argomento secondo cui dell'essere non si dà che un solo principio: «Un altro argomento è questo. L'ordine
610
Parte seconda
degli effetti corrisponde all'ordine delle cause; sicché, quando qualcosa è unificato negli effetti, esso procede dall'unità di una sola causa; infatti gli effetti hanno un elemento comune perché procedono da un'unica
causa. L'uomo e l'asino sono distinti perché le loro cause sono distinte. Ma tutte le cose che esistono comunicano nell'essere, e non c'è nulla negli effetti che non sia dalla causa; pertanto la Causa di tutti è una sola» (III, q. 12, p. 108). Nella stessa questione lo stesso argomento e presentato anche nella forma inversa: ciò che è massimo in un determinato ordine è anche la causa di tutto ciò che appartiene a quell’ordine. Ora il
Primo è perfectissimurrt ens, maxime ens; perciò è causa di tutti gli enti (ibid, p. 109). Il Primo è causa universale ma immediatamente produce un solo effetto. Qui Sigieri fa sua una tesi cara a tutto il neoplatonismo, da Plotino fino ad Avicenna. L'effetto immediato di Dio è unico, necessario ed eterno: è la prima delle intelligenze (V, q. ll, p. 302).
Conoscibilitàdi Dio Commentando il Terzo Libro della Metafisica Sigieri affronta, e11 passant, la questione della conoscibilitàdi Dio. Da buon aristotelico si oppone al drastico apofatismo dei neoplatonici che ammettevano soltanto una conoscenza negativa di Dio. Anche per Sigieri esiste una conoscenza negativa del Primo, per es. che è incorruttibilee immateriale. È anche vero che del Primo non abbiamo nessuna immagine (phantasrtîa) o sensazione. «Tuttavia sostiene Sigieri noi siamo in grado di conoscere la sua essenza perché siamo in grado di conoscere l'essenza delle cose sensibili. Anche questa essenza si trova al di fuori delle sensazioni e dei fantasmi, e ciononostante viene conosciuta attraverso le immagini sensibili o fantasmi. Così risulta che l'uomo assai esperto in filosofia, attraverso gli effetti causati dal Primo può arrivare alla conoscenza dell'essenza del Primo» (lll, q. 2, p. 84). -
—
Eternità del mondo c della materia
gli aristotelici, compreso S. Tommaso, avevano difeso la fondaquesto punto Sigieri ritorna nelle volte in Quaestiones metaphysicanz. Egli afferma categoricamente più che il mondo è sempiterno «quiz: Caret potentia ad non esse (poiché manca della potenza al non essere)» (II, q. 8, p. 47). Questo però non significa Tutti
tezza della tesi della eternità del mondo. Su
che il mondo sia incausato. Infatti una cosa è dire che una realtà è causata nihilo e altra dire che ha inizio per transnmtationern: «ciò che ha una causa efficiente per transnlututîonenz ad esse non è sempiterno»; però anche il sempiterno «ha una causa del proprio essere» (II, q. 48, pp. 48-49).
ex
Sigieri di Brabante Pertanto, dal fatto che dedurre che il secondo una
un
non
ente sia
sia
causa e
sempiterno.
sostanza sia sempre esistita
e
che in
611
l’altro causato non si può «E viceversa dal fatto che
essa non
ci sia innovazione
(innovatîo) non si può concludere che non sia causata. Dalla esistenza di sostanze sempìterne sì può desumere che non hanno una causa rispetto al divenire (non est causa in eis quantum ad fieri) ma non rispetto all'essere>> (III, q. 7, p. 94). L'eternità del mondo esige logicamente Peternità della materia. Anch’essa, però, è ex nihilo e pertanto creata. E poiché la materia è pura potenza e questa non esiste mai senza l'atto, la materia
ò mai esistita senza qualche forma. Con Averroè, Sigieri distingue due specie di materia, una sensibilee una intelligibile 0 celeste, e si oppone ad Avicenna che invece aveva insegnato che c'è una sola specie di materia. Perciò l'individuazionedei corpi celesti non è causata dalla materia, come nelle sostanze sensibili, ma dal luogo: ogni corpo celeste occupa un posto distinto (III, q. 2D, pp. 157-158). non
Partecipazione ed analogia Partecipazione e analogia erano state due elementi essenziali della distinguere i platonici dagli aristotelici. La partecipazione era la dottrina tipica di Platone e dei neoplatonici, mentre l’analogia era quella di Aristotele e dei peripateci. Ma lo sforzo di conciliare Platone con Aristotele, che durava da secoli, aveva operato una specie di sintesi o di fusione di diversi elementi provenienti dalle due dottrine in un solo organismo teoretico più 0 meno definito. Cosi nello stesso S. Tommaso partecipazione ed analogia si richiamano a vicenda, e la partecipazione rappresenta il risvolto ontologico dell’analogia. Partecipazione e analogia sono due procedimenti diversi che si propongono lo stesso obiettivo: mantenere legati ma allo stesso tempo fortemente distinti i due piani: l’immanente e il trascendente, il sensibile e Yintelligibile, il finito e l'infinito. La partecipazione fa questo sul piano ontologico, Yanalogia sul piano logico. Sigieri tratta dellanalogia specialmente con riferimento alla predicazione del termine ”ente”. Seguendo Aristotele egli insegna che questo termine, benché usato in molti modi, non è ne’ univoco né equivoco ma analogo. Mentre nel termine equivoco (per es. tra pesce costellazione e pesce marino) non c'è nulla di comune se non il nome, nel termine analogo c'è qualcosa di comune e questa comunanza consiste nel rapporto (ordo) a un unico soggetto. Qui Sigieri ricorda il famoso esempio aristotelico della predicazione del termine ”sano": «sano è detto dell'animale, dell'urina e della dieta: ma la ragione (ratio) della sanità dell'urina e della dieta fa riferimento (ordinem habet) alla sanità nell'anima, e così il teoresi per
612
Parte seconda
nome
predicato in questo modo benché non abbia la stessa ratio, tuttavia
ratio che fa riferimento alla stessa cosa» (III, q. 8, p. 101). Tale è il Caso nella predicazione del termine "ente": «ens in quanto viene detto di tutti gli enti causati non viene detto di loro in modo meramente equivoco e a caso, ma la ratio essendi che viene detta di uno, è detta con riferimento a un altro, così come avviene quando ente è detto dell'accidente con riferimento alla sostanza» (IbicL). La comunanza, precisa Sigieri, non sta nella causa formale, che sfocia necessariamente nella univocità, bensì
è
una
efficiente (ex unitate suae causae efiectivae) 0 della
causa finale del nella termine C'è ente e non (a unum finem). predicazione analogia univocità perché si applica non allo stesso modo ma secondo un ordine di priorità e posteriorità (per prius et posterius): «Di tutte queste cose ente non viene detto secondo la medesima natura, ossia univocamente: per es. della sostanza e dell’accidente non si dice in modo puramente univoco oppure puramente equivoco, in tal modo che il nome ente sia un nome equivoco per caso (aequivocum a casu) imposto alla sostanza e all'accidente per ragioni diverse; ma viene detto di esse secondo priorità e posteriorità, poiché si dice dell'accidente per il rapporto che l'accidente ha con la sostanza (...): infatti la sostanza ha l'essere per sé, mentre Yaccidente lo possiede con riferimento alla sostanza. Pertanto ente si dice di molte cose in molti modi (multipliciter), ma non equivocamente, ma a causa del rapporto a un'unica cosa (a unum aliquid)» (IV, comm., p. 186). L'analogia fonda l'unità della filosofia prima, la quale pur trattando di realtà molto diverse tra loro, tuttavia le considera sotto un unico aspetto, quello dell'essere che è comune a tutti (cf. ibicL, p. 187). Nella questione 21 del commento al Terzo Libro Sigieri si chiede se si possa parlare di partecipazione dell'ente: «Utrunt ens possit participari». Richiamandosi alla distinzione tra l'Ens perfectissimum quod est lpsum esse e l'ens commune, Sigieri spiega che si può parlare di partecipazione soltanto nel primo caso, non nel secondo. E precisa che anche con riferimento all’Esse ipsum si può parlare soltanto di una partecipazione per imitazione, non di una partecipazione per essenza: «unde aliquid potest participare Ens Primum non. per essentiarm sed per imitatiorzem» (p. 161 ). Il principio di partecipazione non è invece applicabileall’ens commune, perché la partecipazione comporta sempre composizione tra la natura del partecipante e il partecipato, i quali appartengono a due ordini diversi. Ma questo non avviene nel caso dell'ente comune, «quia nihil est in ipso quod sit dijjfererts ab ente Uel a ratione entis (Poiché non vi è nulla in esso che sia differente dall'ente o dalla ragione di ente)»(lbid.). La negazione della partecipazione riguardo all'erta: commune è in perfetta sintonia col rifiuto della composizione di essenza ed essere nell'ente, che come s'è visto è uno dei punti chiave della metafisica di Sigieri.
nella
causa
Sigieri di Brabante
613
La provvidenza
provvidenza, secondo Sigieri, che anche su questo punto si schiera neoplatonici,è indiretta come la creazione: è esercitata per mezzo di cause intermedie e secondo leggi naturali, cioè attraverso sostanze spirituali, uniche nella loro specie, motori delle sfere celesti. Le ultime due sono l'intelletto agente e Pintelletto possibile (passivo). Nell'altra sua opera fondamentale, Quaestiones de anima intellectiva, Sigieri, da buon La
con
i
averroista, insegna che nell'uomo l'azione intellettiva viene svolta da un
unico intelletto agente
e da un unico intelletto possibile, i quali si servoimmagini della fantasia (phantasmuta) per esercitare l'attività astrattiva. La volontà è pure unica come l'intelligenza. Non vi sono dunque né immortalità personale né sanzioni individuali dopo la morte; le sanzioni sono immanenti alle azioni buone e malvagie di questo mondo. I rapporti tra fede e ragione Nell’ermeneutica del pensiero di Sigieri la questione più dibattuta verte sulla sua posizione a proposito dei rapporti tra fede e ragione. Gli storici hanno fatto di lui il padre della teoria della doppia verità: una verità filosofica che coincide sostanzialmente con gli insegnamenti di Aristotele, e una verità rivelata che è quella contenuta nella Sacra Scrittura. no
delle
In
precedenza, trattando di Averroè, abbiamo visto che tale dottrina è
estranea al suo pensiero. Per Averroè la verità è una sola e di fatto essa può stare sia dalla parte della filosofia sia della teologia. Qualora una
verità sia probativamente dimostrata con argomenti filosofici,in tal caso il testo sacro che può sembrare contraddirla, va interpretato simbolicamente.
Secondo F. Van Steenberghen la teoria della ”doppia verità” è stata imposta a Sigieri di Brabante dai suoi avversari, ma in realtà egli non l'avrebbe mai insegnata.
«Sigieri non ha mai affermato che esistesse una verità filosofica e una verità rivelata, benché queste verità fossero contraddittorie; simile dottrina è, del resto, affatto incompatibilecon la sua teoria della conoscenza e con la sua metafisica. Nelle formule più radicali Sigieri e i suoi fautori dichiarano che alcune conclusioni filosofiche sono necessarie, ossia inevitabilisul piano razionale, ancorché contrarie alle affermazioni della fede, le quali sono le sole a essere vere (...). Quando si riuniscono le indicazioni sparse negli scritti di Sigieri relative ai rapporti tra fede e ragione si ottiene l’abbozzo di un tentativo di conciliazione che può essere così riassunto: 1. Non può esistere contraddizione tra il vero rivelato e il vero scoperto dalla ragione, perché il vero è ciò che è, e lo stesso Dio non può fare che ciò che è non sia, che l'impossibilesia possibile, che affermazioni contradditto-
614
Parte seconda
rie siano allo stesso
superiore umana.
tempo vere; 2.
Perciò,
La verità rivelata è, per
sua
natura,
certezza alla verità intuita dalla ragione in caso di conflitto tra verità e una opinione filosofica,
per eccellenza
e
bisogna scegliere la prima e riconoscere che la seconda è contraria alla verità; 3. Lo sforzo della ragione umana è limitato e spesso inadeguato al proprio oggetto, tanto più che un intervento soprannaturale della Causa umano
no
prima può
introdurre nell'ordine cosmico
elementi nuovi che
ne
o
nell'ordine
modificano le condizioni,ma che
resta-
inaccessibilialla conoscenza naturale dell'uomo».4
Questa soluzione coincide sostanzialmente con quella di S. Tommaso e anche questo spiega perché alla fine Sigieri sia stato assolto dall'accusa di eresia. Dalla fine del sec. Xlll fino alla metà del sec. XIX, Sigieri è stato conosciuto quasi esclusivamente attraverso Pelogio che Dante ne fa per bocca di S. Tommaso: Questi, onde a me ritorna il tuo riguardo, è il lume d'uno spirto, che in pensieri gravi, a morir gli parve venir tardo. Essa è la luce eterna di Sigicri, che, leggendo nel vico delli strami, sillogizzò invidiosi veri (Paradiso X, 133-138). Dante colloca
Sigieri nel quarto cielo del paradiso, abitato da dodici
saggi che si sono distinti per la loro fedeltà alla missione ricevuta dallail Provvidenza. A Sigieri, che era un filosofo cristiano, il poeta assegna ruolo di rappresentante della filosofia (visto che tutti gli altri grandi rappresentanti di quella disciplina erano pagani e pertanto non potevano
inclusi nel paradiso). Dante era certamente al corrente dell'assoluzione dal crimine di eresia, per cui Sigieri era stato osteggiato dai teologi; così nulla si opponeva né alla scelta del maestro di Brabante come personificazione della filosofia, né al suo elogio da parte di S. Tommaso.
essere
La condanna del 1277 La condanna del 1277 non interessa soltanto l'università di Parigi ma tutta la cristianità, perché in quell'epoca Parigi era certamente il più importante centro culturale di tutto il mondo cristiano. Come ha scritto
4)
F. VAN STEENBERGHEN-A. FoREsr-M. DE GANDlLLAC, Il nzovimcizto dottrinale nei secoli IX-XI V, vol. XIII di A. FLICHE —V. MARTIN, Storia della Chiesa, cit., pp. 381—
382.
Sigieri di Braban te
615
Gilson, «La condanna del 1277 è una pietra miliarenella storia della filosofia e della teologia medievalemîv Essa pone praticamente fine al grande
sforzo di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino e dei loro discepoli di armonizzareil cristianesimo con Yaristotelismo e la fede cristiana con la ragione umana; si compie così una svolta decisiva a favore dell'agostinismo e del Volontarismo. Già conosciamo le circostanze che hanno portato il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, a promulgare la clamorosa sentenza del 7 marzo 1277. Su richiesta del papa, Tempier aveva riunito una commissione di sedici teologi (tra cui Enrico di Gand) che effettuarono un'inchiesta affrettata e incoerente: le proposizioni estratte da questi scritti furono riunite disordinatamente, senza alcuno sforzo di organizzazione o di unificazione, tanto che non si sono evitate in questo ”sillabo” di 219 proposizioni, ripetizioni e contraddizioni. Nel Prologo del decreto si biasima l'atteggiamento degli ”artisti" che, trascinati dai filosofi pagani, insegnano detestabili errori e che, per sfuggire all’eresia, oppongono la verità della fede cattolica alla verità filosofica come se potessero esistere due verità tra loro contraddittorie. Vengono quindi condannati in modo categorico tutti gli errori presentati nell'elenco che pubblichiamo di seguito e sono scomunicati tanto quelli che li hanno insegnati quanto i loro ascoltatori, a meno che si presentino, entro sette giorni, al vescovo o al suo cancelliere per ricevere la pena commisurata alle loro colpe. Si condannano inoltre due opere, il De D90 anzoris e un libro di geomanzia. Segue poi il Vero e proprio Sillabo. Il P. Mandonnet lo ha pubblicato introducendovi un ordine logico e giunse al seguente risultato: 179 errori filosofici e 40 errori teologici; i primi riguardano la natura della filosofia (7), Dio (25), le lntelligenze separate (31), il mondo corporeo (49), l'uomo e la sua attività spirituale (57), il miracolo (10). Gli errori teologici interessano la religione cristiana (5), i dogmi (15), le virtù cristiane (13) e i fini ultimi (7). Il ”sillabo" del 1277 include la precedente lista del 127D ma con molte aggiunte, e non è sempre facile stabilire con certezza la paternità delle proposizioni condannate. Secondo Gilson la paternità delle proposizioni principali sarebbe la seguente: 9. Che nella presente vita mortale Dio può essere conosciuto nella sua essenza (Sigieri); 10. Che tutto ciò che noi conosciamo di Dio è che egli è, vale a dire la sua esistenza (Tommaso d'Aquino); 13-15. Che Dio non conosce altri esseri e non ha conoscenza immediata delle cose contingenti (Sigieri); 20. Che Dio produce necessariamente ciò che segue immediatamente da lui (Sigieri); 33. Che la
5)
E.
GILSON, History ofChristian Philosophy... cit., p. 408.
616
Parte seconda
Prima Causa può produrre soltanto un unico effetto (Sigieri); 64. Che Dio è la causa necessaria del movimento dei corpi superiori (Avicenna); 80. Che l'argomento con cui il Filosofo dimostra che il movimento del cielo è eterno non è sofistico (probabilmente S. Tommaso); 99. Che ci sono vari primi motori (Sigieri); 117. Che l'intelletto degli uomini è unico (Sigierì); 133. Che l'anima è inseparabile dal corpo (Averroè); 153. Che l'intelletto e la Volontà non sono mossi ai loro atti da se stessi ma dai corpi celesti (Averroè); 189. Che la creazione ex nihilo è impossibilesebbene debba essere accolta per fede (Sigieri). Alcune delle proposizioni condannate sono di origine ignota e forse circolavano soltanto oralmente; per es. quelle che affermano che la religione cristiana è contraria all'educazione (quod lex christiana impedit addiscere); che nella religione cristiana ci sono falsità ed errori come nelle altre religioni (quod fabulae et falsa szmt in lege christiana sicut in aliis); che studiando la teologia non si impara nulla di più (quod nihil plus scitur propter sci-re theologiam); che ciò che insegnano i teologi si basa sui miti
(quod sermones theologifundatisunt in fabulis). Ricondotte al loro significato profondo le tesi condannate dal ”siilabo" del 1277 equivalgono all'affermazione che la vera saggezza è quella dei filosofi,non quella dei teologi (quod sapientes mundi sunt philosophi tantum) e che, di conseguenza, nessun altro stato è superiore alla pratica della filo-
sofia (quasi non est excellentior status quam varare philosophiae).Anche l'unifelicità è quella che l'uomo saggio può raggiungere con la pratica della virtù durante la vita presente (quod felicitas habetur in ista vita, non in alia). Non c'è pertanto bisogno di virtù soprannaturali infuse (quod non sunt possibiles aliae virtutes, nisi acquisitae vel innatae). Non c'è più posto per l'umiltà cristiana che consiste nel celare i propri meriti, né per la mortificazione che rende più triste l'esistenza. In breve, è tutto lo stile di vita "laico", non cristiano, dei filosofi greci e arabi (Avicennae Averroè) che in queste proposizioni viene rivalutato in contrapposizione al cristianesimo. La lista delle proposizioni tomìstiche implicate nella condanna varia a seconda che venga compilata da studiosi francescani oppure domenicani, oppure a seconda che si faccia coincidere con proposizioni che si trovano nelle opere di S. Tommaso alla lettera oppure no. La lista più sicura include una mezza dozzina di proposizioni, che sono le seguenti: 27. Che la Causa prima non può produrre vari universi; 42. Che Dio non può moltiplicare gli individui nella specie senza la materia; 52. Che le Sostanze separate non mutano nelle loro operazioni perché la loro appetizione è una sola; 53. Che un'intelligenza, un Angelo o un'anima separata non si trova in nessun luogo; 80. Che l'argomento con cui i filosofi provano l'eternità del mondo non è un argomento sofìstico; 162. Che la conoscenza di cose contrarie è la sola ragione per cui l'anima razionale
ca
Sigierz" di Braban te
617
può
volere cose opposte. Come vedremo tra poco, l'inclusione di una lista di tesi tomistiche nel sillabo del 1277 rese ancora più baldanzosi i numerosi avversari di S. Tommaso, che cercheranno di ostacolare con ogni mezzo la diffusione del suo pensiero. «Il decreto di Tempier ritarderà la marcia progressiva del tomismo e porterà un ritorno di vitalità all’aristotelismo eclettico che S. Tommaso aveva voluto superarew La condanna del 1277 ebbe Conseguenze di enorme portata per i successivi sviluppi della filosofia, della teologia, della scienza e della cultura in generale. Essa segnò il trionfo della facoltà di teologia su quella delle Arti, dei teologi sui filosofi,della linea conservatrice sulla linea liberalee
progressista,
dell'indirizzo della filosofia platonico-agostiniana sulla filosofia aristotelica e tomistica. Come nota Van Steenberghen: «il decreto del 1277 gravò pesantemente sulla vita scientifica di Parigi per un mezzo secolo».7 Uno spirito di sospetto verso la filosofia e la scienza prese il posto dello spirito di fiducia e collaborazione che Alberto Magno e Tommaso d'Aquino erano riusciti a instaurare per qualche tempo con la loro revisione cristiana di Aristotelefi Le conseguenze più marcate in campo teologico si avranno qualche decennio più tardi con Scoto e Occam. Con loro prenderà il sopravvento definitivo quell'indirizzovolontaristico che cambieràil volto della teologia, rendendo assai precario ogni tentativo di conferire carattere razionale ai misteri cristiani e di giustificare razionalmente i preamboli della fede. Dalla "teologia forte" nutrita di robusta metafisica di S. Tommaso si passerà a una ‘Teologia debole”, con basi metafisiche povere e vacillanti.
6) 7) 8)
F. VAN SFEENBÈRGHRN-A. FOREST- M. DE
cit., p.419.
GANDILLAC, Il muvinzento dottrinale...
Ibid. Sulle conseguenze della condanna del 1277 sulla Chrisfian Philosuphy... cit., pp—408—410.
teologia cf. E. GlLsoN, History of
618
Parte seconda
Suggerimenti bibliografici P. MANDONNET, Siger de Brabant et Faverroisnze latin 1934; 2" ed, Louvain 1911.
au
XIII siècle,
Parigi
B. NARDI, I1 preteso tomismo di Sigieri di Bmbante, in ”Giornale critico della filosofia italiana" 1936, pp. 36-33.
ID., Ancora sul preteso tomismo di Sigieri di Brabante, ibid. 1939, pp. 453-471 F. VAN STEENBERGHEN, Siger de Brabant dhprès ses oeuvres inédites, 2 V011, .
Louvain 1931-1942.
ID., Les oeuvres et les doctrirzes de Siger de Brabant, Bruxelles 1938.
I METAFISICIFRANCESCANI DEL XIII SECOLO
Con S. Francesco e S. Chiara l'Ordine Francescano ha scritto pagine indelebilinella storia della mistica; ma con i suoi grandi magistri (maestri) del secolo XIII ha scritto pagine molto importanti anche nel storia
della metafisica. L'obiettivo di questa scienza è uno solo: la scoperta del Principio primo di tutte le cose; ma molte sono le vie per raggiungerlo e molti i modi per raffigurarlo. Sulle due vie principali che sono quelle tracciate da Platone e da Aristotele si è mossa praticamente tutta la metafisica cristiana, privilegiando ora l'una ora l'altra, ma rinnovandole profondamente e cambiando radicalmente la raffigurazione del Principio che ora assume i lineamenti precisi del Dio Creatore del cristianesimo. Con il ritorno di Aristotele in Occidente tutti i pensatori cristiani devono fare i conti con la sua metafisica, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. C'è una corrente, che ha in Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Sigieri di Brabante i suoi maggiori esponenti, che accoglie quasi integralmente il pensiero metafisico di Aristotele e lo integra talvolta con qualche elemento platonico. C'è un'altra corrente che, pur non ignorando Aristotele, mantiene ancora essenzialmente l'impianto metafisico platonico-agostiniano. I maggiori esponenti di questa seconda Corrente sono i magistri francescani. Però essi conferiscono al loro edificio metafisico uno spirito nuovo, un'anima nuova, che è precisamente lo spirito flancescarzci. Così appare giustificata la caratterizzazione di agostinismo aristotelizzante che F. Van Steenberghen ha dato alla loro metafisica, come pure quella di "metafisica francescana” che le ha assegnato E. Gilson. E. Gilson, impareggiabilestudioso della filosofia cristiana medievale, nel suo capitale studio su Bonaventura, qualifica il suo pensiero come «sintesi mistica de1l’agostinismo medioevale», «metafisica della mistica cristiana», «metafisica francescana». Uaggettivo francescana vuole essere una qualifica intrinseca e non estrinseca, e non si riferisce al fatto che certi autori appartengono all'Ordine Francescano, ma al loro modo speciale di fare metafisica, rispecchiandovi lo spirito di S. Francesco, la sua considerazione mistica della realtà. Con tonalità diversa oltre che in Bonaventura lo "spirito francescano" è presente in tutti gli altri grandi maestri che l'Ordine ha dato alla Chiesa nel secolo XIII: Alessandro di Hales, Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Duns Scoto. Ciò che li
620
Parte seconda
accomuna, oltre al modo francescano di considerare le cose, è una forte subordinazione della filosofia alla teologia, una utilizzazionemoderata e circospetta di Aristotele e una marcata preferenza per S. Agostino. L'Ordine Francescano fu molto sollecito nell’aprire degli studia gene ralia per i propri membri nelle due massime università esistenti nell’Eu— topa cristiana agli inizi del secolo XIII, Parigi ed Oxford, che già allora seguivano due diversi indirizzi: più scientifico quello di Oxford, più filosofico e teologico e quindi più speculativo quello di Parigi. Ciò era dovuto anche al fatto che il privilegio di conferire i titoli accademici per l'insegnamento della teologia era stato dato dalla Santa Sede esclusivamente all'università parigina. Questa diversa sensibilità per la speculazione si manifesterà chiaramente anche nei magistri Francescani usciti da Parigi e da Oxford. La metafisica dei maestri oxoniensi è di stampo più fisicalistico, mentre quella dei maestri pariginì è di stampo spiccatamen-
te
spiritualistico.
I fondatori della metafisica francescana:
Alessandro di Hales, Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone Il capostipite e la guida più autorevole e seguita della Scuola francefu, fino a Duns Scoto, il maestro parigino Alessandro di Hales.
scana
ALESSANDRO DI HALES Alessandro nacque ad Hales, nella contea di Gloucester, verso il 1190 da una ricca famiglia, che lo inviò, ancora molto giovane, a Parigi, a studiare prima le Arti e poi la teologia. Alessandro vi conseguì la licentia docendi in entrambe le facoltà. Per molti anni fu reggente della facoltà di teologia, acquistandovi una grande fama come maestro «magnus magister in theolugia sui temporis», scrive Ruggero Bacone dove, sempre secondo Bacone, «primus fuit qui legit (Librum sententìarum)» e svolse un ruolo importante nella soluzione della crisi che colpì la Sorbona tra il 1229 e il 1231, a causa dei conflitti dell'università col re di Francia. Nel 1235 Enrico III di Inghilterra lo inviò quale suo ambasciatore presso Luigi IX di Francia per negoziare la pace tra i due paesi, cosa che avvenne l'anno successivo. Nel frattempo Alessandro aveva indossato il saio ne1l’Ordine Francescano (1231), divenendo in tal modo il primo frate minore a occupare una cattedra di teologia nella prestigiosa università di Parigi. Continuò il suo insegnamento fino al 1238, quando lasciò la cattedra a un discepolo pure francescano, Giovanni de la Rochelle, cui doveva succedere più tardi, nel 1248, il più grande teologo dell'Ordine, —
-
I metafisicifrancescani del XIII secolo
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Bonaventura da Bagnoregio. Questi chiamerà Alessandro «pater et magister nostrae bonae memoriae». Invitato al Concilio di Lione insieme a Giovanni de la Rochelle, fu incaricato di esaminare i documenti relativi alla canonizzazione di S. Edmondo di Canterbury. Morì a Parigi il 21 agosto 1245. I suoi funerali furono presieduti dal legato pontificio, a testimonianza della stima universale che Alessandro si era guadagnato in tutti gli ambienti,ecclesiastici e civili. Il nome di Alessandro di Hales è legato a una monumentale Summa theologiae, Completata da alcuni discepoli. La Summa è una vasta sintesi delle dottrine teologiche che costituiscono il patrimonio comune dell'agostinismo medievale, in cui il linguaggio filosofico di Aristotele e dei filosofi arabi da questi utilizzato per discutere di alcune fra le più importanti questioni della metafisica, viene assorbito in un contesto platonico-agostiniano attraverso l'interpretazione avicenniana. Due sono i tratti più salienti della Summa: l'uso sistematico del metodo dialettico e sillogistico, e la ricchezza e varietà delle fonti adoperate e citate. Per quanto concerne il primo punto, la Sitmma è una perfetta testimonianza dei nuovi sviluppi di quel metodo che era nato nelle scuole di Abelardo e di Gilberto Porretano e che aveva già avuto significativi approfondimenti per opera di Guglielmo di Auxerre e di Rolando da Cremona. Per quanto concerne il secondo punto, all'interno di una tradizione consolidata ormai da secoli, Alessandro espone la dottrina della Rivelazione basandosi soprattutto sulla Scrittura, ma ricorrendo frequentemente anche all’autorità dei teologi (Agostino, Anselmo, Bernardo, Ugo di S. Vittore) e dei filosofi (Avicenna, Al-Farabi, Avicebron) da lui preferiti. Nettamente distinte nel loro oggetto materiale e formale, nella origine della conoscenza (fede e ragione) e nel grado di certezza, teologia e filosofia convergono tuttavia nella costruzione della saggezza cristiana. Tracciata la profonda linea di demarcazione che separa la teologia dalla filosofia e da ogni altra scienza, e mantenendo Aristotele e la Sua metafisica a debita distanza, nella sua monumentale Samara Alessandro trova il modo di attingere a tutte le forme del sapere e in particolare alle nuove conoscenze della natura e dell'uomo giunte in occidente grazie agli arabi e ad Aristotele. Nonostante i divieti delle autorità ecclesiastiche e universitarie il pensiero dello Stagirita stava ormai conquistando le università di Parigi e di Oxford e nessun magister poteva più ignorarlo. Così anche Alessandro di Hales ne fa largo uso, pur considerandolo sempre soltanto qualcosa di esterno rispetto a ciò che costituisce essen-
zialmente la teologia. Nella Summa si ritrovano alcuni insegnamenti che diverranno tipici della scuola francescana, in particolare le dottrine della illuminazione, dell’ilemorfismouniversale e dell’esemplarismo. Con la illuminazione
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Parte seconda
egli spiega l'origine della conoscenza dei principi primi e delle idee universali: l'intelletto li apprende non mediante Pastrazione ma grazie alla divina illuminazione. Con l'ilemorfisn:0 universale (mutuato da Avicebron) egli afferma che gli angeli e le anime non possono essere pure forme, ma sono anch'essi dotati di materia e forma. Infine con l'esemplarismo egli insegna che Dio è la causa esemplare di tutto quanto esiste e, per questo motivo, tutte le cose sono immagini dell'essere divino. A fondamento della teologia naturale Alessandro pone la bontà divina assunta come principio della creazione: ogni creatura «est nata repleri
divina bonitate, aliter vacua esset (è destinata ad essere ricolmata dalla bontà divina, altrimenti sarebbe vuota)» (I, n. 44) e pertanto ogni Creatura diviene l'espressione della bontà divina. Di qui la simpatia di Alessandro per l'argomento anselmiano, dato che la creatura razionale dispone di immense possibilità per elevarsi a Dio: «natura rationalis ahimdat in potentîa cognoscendi Deum» (II, n. 166). Nella soluzione del problema del male è evidente l'influsso di S. Agostino. Uobbligazione morale deriva dalla conoscenza di Dio e dalla sua legge impressa nella natura delle cose, in modo tale che il valore morale risiede nella conformità dell'attività libera col Sommo Bene. Nella teologia trinitaria, rifacendosi alle intuizioni agostiniane del De Trirzitate (VIII, 10), Alessandro propone una teologia integrale dell'amore, la quale gli consente di spiegare il dinamismo di tutte le processioni divine e non soltanto la processione della terza persona, lo Spirito Santo. L'amore in forma del tutto gratuita è il Padre, l'amore ricevuto e che si dona è il Figlio; l'amore puramente ricevuto è lo Spirito Santofl Egli così non fa appello all'intelligenza per distinguere le due processioni: l'intelligenza non è per lui feconda, così da poter produrre un altro essere. Il pensiero, in Dio, quindi appartiene alla sfera essenziale e non va da soggetto a soggetto. L'amore ‘e il principio adeguato di spiegazione della vita trinitaria. Il merito di Alessandro è la distinzione chiara tra ”amore di compiacenza", per cui una persona ama "per sé" facendo dell'io la ratio diligendi, e "l’amore di amicizia”, per cui si ama un soggetto per se stesso e nel quale l'oggetto amato e la ratio diligendi coincidono. Ne consegue che l'amore Veramente tende sempre verso l'altro ed esclude l'amore proprio e privato (Il, n. 176). A questa luce egli sviluppa l'intuizione di Riccardo di S. Vittore, secondo cui nell'Amore supremo c'è una pluralità di soggetti.
1)
Cf. Summa I, n. 317.
I
metafisicifrancescani del XIII secolo
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Alessandro di Hales godette di grande prestigio sia in vita che dopo la morte. S. Bonaventura si riferisce a lui come a un padre e un maestro spirituale. S. Tommaso lo raccomanda insistentemente e Giovanni di Garlandia 10 designa come «fiore dei filosofi e solida colonna della Chiesa». Molte sue posizioni dottrinali furono riprese e integrate in una nuova sintesi da S. Bonaventura e Matteo di Acquasparta, che le trasmisero a una
vasta posterità.
Mentre a Parigi Alessandro di Hales, con la sua Summa, forniva all'Ordine Francescano un manuale di teologia che rispondeva in pieno alle esigenze della spiritualità francescana, ad Oxford Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone promuovevano un profondo rinnovamento degli studi che toccava oltre che la teologia anche la metafisica. ROBERTO GROSSATESTA Roberto Grossatesta non fece mai professione religiosa nell’Ordine di S. Francesco, ma amava molto i figli del Poverello di Assisi fu lui a introdurli nell'università di Oxford -; contribuì inoltre allo sviluppo dello Siudium Francescano oxoniense tenendovi personalmente lezioni di Sacra Scrittura e di teologia. Roberto Grossatesta (nato a Stradbrock verso il 1175) aveva compiuto i suoi studi a Oxford e forse anche a Parigi. Fu il primo a occupare, nell'università di Oxford, la carica di Magister scholarunz (1214), assumendo le funzioni di primo cancelliere. Negli anni successivi percorse tutti i gradi della carriera ecclesiastica fino al1’episcopato: nel 1229 divenne arcidiacono di Leiccster; nel 1235 fu nominato vescovo di Lincoln. In quegli stessi anni, prima della nomina a vescovo, aveva chiamato i Francescani a Oxford ed era diventato lettore di Sacra Scrittura e di teologia nel loro Studium. Assai vasta, la produzione letteraria di Grossatesta comprende tre generi di scritti: trattati, commenti e traduzioni: a) tra i trattati ricordiamo: De sphaera, De cometis, De luce, De iride, De colore, De finiture motus et temporis, De libero arbitrio, De veritate, De scientia Dei; b) tra le traduzioni: molto importanti per la cultura latina medievale le sue traduzioni delle opere di Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa e De haeresibus) e dell'intero Corpus areopagiticum, nonché di alcune opere di Aristotele (il De coelo e Yfithica ad Nichomacunz); c) tra i commenti: ai Salmi, alle Lettere di S. Paolo e ad alcune opere di Aristotele: Analytica posteriore, Physica, De sophisticis elenchis. Roberto Grossatesta appartiene a quel singolare e straordinario momento storico in cui il mondo cristiano (la respublica christiana) si apre agli influssi della cultura araba (Avicenna,Averroè) e alla filosofia di —
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Parte seconda
Aristotele,
e
inizia una
nuova
inculturazione del cristianesimo in cui
sposta da Platone / Agostino verso Aristotele / Giovanni Damasceno / S. Tommaso d'Aquino. In questa Vicenda epocale Grossatesta ha avuto un ruolo importante più con le sue traduzioni di alcune opere fondamentali di filosofia e di‘ teologia che come pensatore originale. Solo in alcuni settori della scienza e della logica il suo contributo è anticipatore (per es. la teoria della luce con cui cerca di spiegare tutti i fenomeni l'asse si
del mondo della natura, la classificazione delle scienze fondata sul rigore del procedimento dimostrativo e la divisione delle scienze in propter quid e quia, ecc.). In campo teologico invece e in quello dottrinale, il suo atteggiamento è cauto, legato alla tradizione esegetica delle generazioni del XII secolo, e come vescovo si preoccupa di richiamare i teologi di Oxford alla tradizione. Nel Grossatesta si può intravvedere l'inizio di quell’indirizzo filosofico-teologicoconosciuto sotto il nome di agostinismo aristotelizzante, che avrà come massimo esponente S. Bonaventura: un indirizzo che si rifà ad Agostino per quanto concerne i contenuti (le dottrine filosofiche e teologiche) mentre da Aristotele mutua soltanto
espressioni linguistiche, categorie logiche e metafisiche} Il pensiero metafisico del Grossatesta è tutto racchiuso negli opuscoli:
La a
luce, Lemanazione delle
cose
da Dio, La
conoscenza
divina
e
nella Lettera
Adamo di Exeter su Dio, forma di tutte le cose e sugli angeli. In questi brevi
scritti egli traccia appena un abbozzo della sua metafisica della luce, tuttavia i punti più importanti vi sono chiaramente delineati. Si parla di un principio primo di tutte le cose, che è la luce, della informazione della materia da parte della luce, della irradiazione di tutte le creature dalla
luce, di Dio come forma esemplare non solo degli universali ma anche dei particolari, della conoscenza che Dio ha delle creature, della costituzione psicofisica dell'uomo e dei rapporti tra l'anima e il corpo. Il Trattatus de luce esordisce col seguente paragrafo:
«Ritengo che
la forma
prima corporea,
che alcuni chiamano corpo-
reità, sia la luce. La luce infatti per sua natura si propaga in ogni direzione, così che da un punto luminoso si genera istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti, a meno che non si frapponga un corpo opaco. La corporeità è ciò che necessariamente è prodotto dal-
l’estendersi della materia secondo le tre dimensioni, sebbene l'una
l'altra, cioè la corporeità e la materia, siano sostanze in se
2)
e
stesse sem-
Cf. D. A. CALLUS (ed.), Robert Grosseteste, Bishop of Lincoln. "Essays in Commemoration of the Seventh Centenary of his Death”, Oxford 1955; A. C. CROMBIE, Robert Grosseteste ami the origins of Experimental Science 1100-1700, Oxford 1953; S. P. MARRONE, Williazn of Auvergne and Robert Grosseteste. New Ideas
ofTruthin the Early Thirteenth Century, Princeton 1983.
I metafisicifrancescani del XIII secolo
625
plici, prive di qualsiasi dimensione. Non fu in verità possibile che la forma, in se stessa semplice e priva di dimensione, conferisse la dimensionalità in ogni parte della materia, a sua volta semplice e priva di dimensione, se non moltiplicando se stessa ed estendendosi immediatamente per ogni dove, trascinando la materia nel suo estendersi, da] momento che la forma in quanto tale non si può separare dalla materia, perché non è scindibileda essa, né la materia può essere privata della forma. Ora io ho indicato nella luce ciò che ha per natura questa capacità, cioè di moltiplicare se stessa e di propagare istantaneamente in ogni direzione. Quindi qualunque cosa produce questo effetto o è la luce oppure la produce in quanto partecipe della natura della luce, la quale agisce in tal modo per propria virtù. Quindi, o la corporeità è la luce stessa oppure essa agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa della natura della luce e agisce in virtù di essa».3 testo come pure negli altri scritti su Dio, forma di tutte le sull'emanazione delle cose da Dio significativo è i’impiego che Grossatesta fa del termine forma che viene usato sia nel senso aristotelico di attuazione di qualche cosa, sia nel senso più generale di principio. Alla luce egli assegna entrambe le funzioni. Con il principio della luce Grossatesta intende rispondere a quello che dai tempi di Talete era stato il problema principale della filosofia e della metafisica: ricondurre a un solo e unico principio tutto il reale. Nella sua risposta a questo fondamentale quesito Grossatesta si colloca a metà strada tra i naturalisti e gli ”idealisti”, tra i fisicalisti e i metafisici. Infatti la luce è qualche cosa di assai meno sensibile dell'aria, dell'acqua e del fuoco, e tuttavia decisamente molto più sensibiledell’Uno, del Bene, del Bello, dell'Essere. Anche i platonici, specialmente Platone, Plotino, Agostino, lo Pseudo-Dionigi, nelle loro speculazioni metafisiche avevano fatto ricorso alla luce, ma usandola più come immagine che come principio reale. Crossatesta invece Considera la luce come vero principio primo d'ogni cosa, contenente implicitamente la totalità della materia prima informe. Su questo punto poteva invocare anche l'autorità della Scrittura la quale nel racconto della creazione pone la luce al primo posto tra tutte le creature. La produzione delle altre creature è dovuta allautopropagazione(diffusio) della luce. L'opera dei sei giorni della creazione si compie così con la costituzione complessiva di un universo unico, perfetto, armonico e proporzionato: l’irradiazione della luce, forma prima corporea (prima
In
cose,
3)
questo
e
R. GROSSATESTA, Metafisica della luce. P. Rossi, Milano 1986, p. 113.
Opuscoli filosofici e scientifici, a
Cura
di
626
Parte seconda
forma corporalis) e infatti il principio di determinazione di un unico sistema, nel quale la prima sfera contiene in sé i principi di determinazione di tutte le altre. Scrive il Grossatesta: «Poiché il primo corpo è stato originato dalla luce che per sua natura si moltiplica, dal primo corpo per necessità si diffonde verso il centro la luce, che, essendo forma per nulla separabile dalla materia, nel diffondersi dal primo corpo trascina con se’ la spiritualità della materia del primo corpo. La luce, dunque, emana dal primo corpo, che ‘e un corpo spirituale 0, se si preferisce, uno spirito corporeo. Poiché la luce al suo passaggio non divide il corpo che attraversa, per questo passa istantaneamente dal corpo del primo cielo fino al centro».4 La teoria del1'autodiffusioneenergetica della luce e della moltiplicazione prodigiosa della materia che essa produce, spiegata da Grossa-
testa, sottintende una cosmologia differente da quella di Aristotele, che distingue risolutamente la materia costitutiva delle sfere celesti da quella del mondo sublunare. Anche se correda la propria esposizione con qualche citazione aristotelica, le sue fonti di ispirazione sono ben altre, tutte riconducibilial neoplatonismo, e da lui sapientemente coniugate con la dottrina biblica della creazionefi Muovendo dalla concezione della luce come corporeità Grossatesta giunge a una concezione del reale sistematica e totalizzante, ossia comprensiva di Dio e dell'uomo. Con la sua teoria, superati i confini settoriali della cosmologia o filosofia della natura, Grossatesta è in effetti in grado di raccogliere, nella struttura di una visione metafisica unitaria, l'intera realtà divina e umana. Dio è luce. E se Dio è non metaforicamente la luce, tutto ciò che ha creato oltre che essere a sua somiglianza, a maggior ragione è a sua inzmagine: in quanto tale ogni esistente appartiene a un qualche genere di luce (aliquid genus lucis). Nella Lettera su Dio forma di tutte le cose il Grossatesta dichiara: «Dio è forma ed è forma di tutte le cose, e inoltre, in quanto forma, è necessario che egli sia forma prima, poiché nulla e prima di lui; egli infatti è il principio e la fine».6 Ne segue che tutte le cose sono il riflesso della sua immagine e che ovunque nella creazione si rinvengono exempla ossia immagini speculari della Trinità, che compongono, nel diversificarsi graduale di intensità della luce riflessa per ciascun grado dell'essere creato, un itinerario di riconoscimento dell’intelligibilità totale di Dio, del mondo creato e dell'uomo.
4) 11nd,, p. 11s. 5) Cf. G. BATTISTI SACCARO, Il Grossatesta e la luce, in «Medioevo» 2 (1976), pp. 21-75. 5) R. GROSSATESTA, Metafisica della luce cit, p. 159.
I
nxetafisicifiancescani del XIII secolo
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L'uomo, l'ultimo ad essere creato, collocato al confine tra realtà materiale e spirituale, è l'asse lungo il quale si snoda sia Yexitus sia il reditus. Alrexitus creativo-illuminativo ordinato, corrisponde Paltrettanto ordinato reditus illuminativo mentale. La centralità della posizione dell'uomo nell'universo creato, per Grossatesta concerne tanto l'ordine delle proprietà dell'essere quanto l'ordine delle proprietà della conoscenza. Sul piano dell'essere la natura di tutto l'universo si riassume e si concentra nell'unità personale dell'uomo, costituita nell'unione tra l'organicità dei quattro elementi fisici, nella sua corporeità, e le potenze dell'ani-
nel1'incorporeità; unione realizzata dalla mediazione dello spirito incorporeo (spiritus incorporezis sive lux) che trasmette al corpo e alle sue parti la vitalità spirituale propria dell'anima. Grossatesta coniuga così, ma,
nel contesto della dottrina della creazione, il tema dell'uomo immagine di Dio con quello dell'uomo come microcosmo}
come
RUGGERO BACONE
Ruggero Bacone, nato a Ilchester, in Inghilterra, intorno al 1215, compì gli studi a Oxford e a Parigi. Ammiratore entusiasta di Roberto Grossatesta, da lui attinse quello spirito enciclopedico che lo spinse a studiare le scienze e le lingue con una passione rara ai suoi tempi. Dal 1240 al 1247 insegnò all'università parigina, contribuendo alla diffusione del pensiero aristotelico nella facoltà di teologia. La sua entrata nell'Ordine Francescano avvenne con tutta probabilità nel 1256-1257. Per il papa Clemente IV, salito al soglio pontificio nel 1265, Bacone scrisse le sue opere principali: Opus maius, Opus mirzus e Opus tertiurîz nelle quali traccia un ampio programma di riforma degli studi. Ma il pontificato di Clemente IV fu di breve durata (morì nel 1268), per cui il progetto baconiano non solo restò lettera
morta,
ma
espose lo stesso autore a
severe critiche. Nel 1277 alcune sue tesi relative allastrologia Vennero condannate e lui stesso venne imprigionato. In carcere compose il Compendium studii theologiae. Morì nel 1292. Con l’Opus maius Ruggero Bacone intendeva persuadere il papa di quanto sia Vasto il campo del sapere: quindi vi tratta di ogni cosa. Nella prima parte si occupa degli ostacoli del sapere (anticipando quasi alla lettera i famosi idola del suo più celebre omonimo, Francesco Bacone):
7)
Cf. ID.,
Quod homo sit minor mundus, ed. Baur, Miinster 1912; ]. MC EVOY, The piri-
losoplzy of Robert Grosseteste, Oxford 1982.
628
Parte seconda
l'eccessivo peso dato all'autorità, la consuetudine, il seguire l'opinione volgare, facendo sfoggio di un sapere apparente. Nella seconda parte tratta dei rapporti tra filosofia e teologia. La filosofia, intesa come il complesso di tutto il sapere, serve alla teologia che è scientia dominatrix alia-
le è necessaria. Del resto non c'è nulla di strano che le dottrine dei filosofi ci servano per spiegare la Sacra Scrittura, perché anche ai filosofi
rum e
Dio rivelò molte verità. Nella terza parte Bacone insiste sull'utilità della grammatica e della conoscenza delle lingue per lo studio della Sacra Scrittura (e insiste in particolare sulla conoscenza della lingua ebraica). Nella quarta si occupa della matematica; nella quinta dell'ottica (perspectizia); nella sesta della scientia experimentalis, che è una delle radici della sapienza. Nella settima e ultima parte, infine, tratta della morale. Gran parte della tematica dell'Opus nzaius viene ripresa e sviluppata nell'Opus tertiunz. Bacone vi ribadisce il concetto che la teologia non ha nulla da temere dalla filosofia e dalle scienze e così raccomanda al teologo di farsi una buona cultura filosofica, matematica, scientifica, tutte forme di sapere che gli sono utili nello studio della Sacra Scrittura. Possedendo uno spirito ”positivo", nel commento della Scrittura egli privilegia il senso letterale e storico, ma questo non gli impedisce di avvalersi ampiamente anche dell'autorità dei filosofi, soprattutto cli Platone e di Aristotele. L'obiettivo Chc Bacone si propone sia nell'Opus maius che nell'Opus teriium e quello di gettare le basi culturali di una società cristiana, che ha come fonte di ispirazione la sapientia christiana. Solo dentro i confini di tale sapienza trovano posto le varie scienze, le quali in tal modo vengono a occupare un posto che di fatto non avevano mai avuto e che soltanto S. Agostino nel suo De doctrina christiana aveva preconizzato. Ruggero Bacone aveva una spiccata sensibilità per il mondo della scienza e per la ricerca sperimentale, e insieme ad Alberto Magno e a Roberto Grossatesta fu tra coloro che maggiormente contribuirono alla ripresa degli studi scientifici nel medioevofi Che tempra di studioso fosse Ruggero Bacone, con quanto impegno e quale ardore si fosse votato alla ricerca scientifica, lo si desume non soltanto dalla vastità delle informazioni e delle competenze, di cui dà prova nelle sue opere, ma anche da quello che egli scrive di sé: «mi applicai sempre allo studio e all'infuori di due anni, nei quali mi presi un po’ di svago e di riposo per
8)
Cf. B. TORRhblNl, L'illuminazionedirvina in S. Bonaventura e Ruggero Bacone, Padova 1969; ]. M. HACKETT, The Meaning of Experimental Science (Scientia experimentalis) in the Philosuphy of Roger Bacon, Toronto 1983; D. C. LINDBERG, Roger Bacon's Philosophyof nature, Oxford 1983.
I
metafisicifmnccscani del XIII secolo
629
poter rimettermi con più lena al lavoro» (Lettera prefazione all'Opus
majzis). «In questi quarant'anni attesi sempre allo studio e sostenni molte (...). È
che
si affaticò come me intorno a così gran numero e lingue, né con tanta dedizione: la gente infatti quand'ero ancora borghese, si meravigliava del mio esagerato lavoro; e
spese
noto
di scienze
nessuno
di
tuttavia anche dopo che mi feci frate mi applicai allo studio con lo stesso ardore di prima» (Opus tertium). Pur concedendo largo spazio alle discipline scientifiche e alle dottrine dei filosofi antichi, Ruggero Bacone riuscì a mettere insieme una cosmovisione unitaria, ricorrendo ai principi ontologici del neoplatonismo (teoria della partecipazione) e alle dottrine gnoseologiche di S. Agostino (teologia della illuminazione). «Ruggero Bacone, se vogliamo collocarlo in una o l'altra delle scuole filosofiche, che fiorirono nel secolo XIII, ha titoli sufficienti per essere ammesso tra i seguaci dell'agostinismo medievale. Il suo è certamente un agostinismo originale, accentuatamente oxfordiano, ma nel suo fondo facilmentericonoscibile.Altrettanto scoperte mi sembrano le affinità spirituali di Bacone con il francescanesimo, che egli ha consapevolmente abbracciato. Alla fondamentale fedeltà con la tradizione filosofica dell’Ordine, bisogna aggiungere lo spiccato carattere Volontaristico e pratico della sua concezione del sapere e il profondo ottimismo con cui egli guarda alla natura e alla storia».9 La metafisica di Bacone presenta chiare affinità con quella del Grossatesta.” Principio primo di tutte le cose per lui come per il Grossatesta è la luce. Pertanto soltanto chi conosce in modo rigoroso l'ottica può essere un buon metafisico. Nel linguaggio preciso di Bacone, l'ottica non è solo il mezzo per conoscere quelle cose che sono comuni in una teoria della visione, ma è anche la chiave Verso tutte le cose sensibili Verso ”l’intera macchina del mondo sia nei cieli che nelle realtà inferiori” (totam mundi machinam, et in coclestibus et in inferioribus). Di fatto Ruggero Bacone non ha elaborato nessun sistema metafisico personale, e il suo apporto principale alla storia della cultura non riguarda la metafisica bensì la scienza. Egli ha della scienza un concetto “rnoderno". Di qui la sua insistenza sul valore pratico e tecnologico della scienza e sulla Verifica delle conclusioni scientifiche tramite Fexperimentum.
9)
1°)
E. BETTON], ‘Ruggero Bacone”, in Grande enciclopediafilosofica 1V, pp. 1270-1279. «Grossatesta influenzò fortemente Ruggero Bacone in questo stesso orienta mento pitagorico quando Bacone, divenuto francescano, ritornò da Parigi ad Oxford,
circa nel 1247, sebbene Bacone fosse stato uno dei primi a tenere lezioni sulla scienza naturale di Aristotele a Parigi, e sempre parlasse di Aristotele come il maggiore di tutti i filosofi» (B. M. ASHLEY, S. Alberto e la natura della scienza naturale, in ]. A. WEISHEIPL (ed.), Alberto Magi-m e le scienze, cit., p. 86).
630
Parte seconda
Suggerimenti bibliografici ALESSANDRO DI HALES
Opere: a cura
Santina
theologica (Summa flatris Alexaizdri Summa Halensis), collegio S. Bonaventura, 4 voIl., Quaracchi 1924-1948. =
dei Padri del
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ROBERTO GROSSATESTA
Opere: Conmzentarius in Posteriorum Analyticortzrrz, ed. P. Rossi, Firenze 1981; Commevitarius in VIII lihros Physicorurn Aristotelis, ed. R. C. Dales, Bolder (Col.) 1963; Die philosophischen Werke des Robert Grosseteste, ed. L. Baur, Mùnster (Westf) 1912: contiene quasi tutti gli scritti filosofici e scientifici; Metafisica della luce. Opuscolifilosofici e scientifici, ed. P. Rossi, Milano 1986: traduzione italiana di alcuni opuscoli filosoficie scientifici.
Stadi: E. BETTONI, La formazione dell'universo nel pensiero del Grossatesta, in AA. VV., La filosofia della natura nel Medioevo, Milano 1966, pp. 350-356;
A. C. CROMBIE, Robert Grosseteste and the Origin of Experimental Science, 1100-1700, Oxford 1953; L. E. LYNCH, The Doctrine of Divine ldeas anni Illuniination in Robert Grosseteste, Bishop of Lincoln, in MS 3, (1941), pp. 163-173; I. MCEVOY, The Philosophyof Robert Grosseteste, Oxford 1982.
RUGGERO BACONF ì
Opere: Opus Maius, 3 Voll., Oxford 1897-1900 (ristampa: Frankfurt a. M., 1964, con introduzione di ]. M. Bridgcs; Opera hactenus inedita, ed. Steele, F. M. Delorme e altri, 16 voll., Oxonii. 1905-1947; Part of the «Opus Tertium», lncluding a Fragment now Printed for the First Time, ed. Little, Aberdeen 1912 (ristampa: Farnborough 1966); An Llnedited Part 0t Roger Bacorfls «Opus Maius»: «De signis», ed. Fredborg, Nielsen e Pinborg, in «Traditio»34
(1978), pp. 75-136.
I metafisicifrancescani del XIII secolo
631
Studi: F. ALESSIO, Mito e scienza in Ruggero Bacone, Milano 1957; D. BIGALLI, I Tartari e lflpocalîsse: Ricerche sullflescatologia in Adamo di Marsh e Ruggero Bacone, Firenze 1971; E. MASSA, Ruggero Bacone, Etica e poesia nella storia delMOpus maius», Roma 1955; S. VANNI ROVICHI, I/immortalità delFaninza nei maestrifiancescani del secolo XIII, Milano 1939; C. VASOLI, Ruggero Bacone, Milano 1967.
632
BONAVENTURADI BAGNOREGIO
Nel vasto cielo della grande Scolastica la stella di Bonaventura è una delle più splendenti e luminose. Già Dante la collocava accanto a quella di S. Tommaso nel suo Paradiso (c. 11). Nel 1588 Sisto V affermò, e nel 1879 Leone XIII lo ribadì, che furono Tommaso e Bonaventura a costrui__re la sintesi del pensiero scolastico nel medioevo e grazie alla straordinaria ricchezza del loro pensiero essi restano tuttora delle luci splendenti nella casa del Signore: duo olivae et duo candelabro: in danza Dei lucentia. Ciò che Bonaventura ci ha lasciato nei suoi scritti è molto diverso da quello che ci ha trasmesso S. Tommaso nelle sue Summae: non è un sistema filosofico e, rigorosamente parlando, neppure un sistema teologico, bensì una "sintesi mistica", e come ha detto Gilson, «una sintesi mistica dellagostinismo medioevalemî L’elemento mistico proviene dall'ispira—' zione francescana, mentre l'apparato concettuale, pur non trascurando le recenti acquisizioni aristoteliche dell'epoca, discende principalmente dal filone neoplatonico attraverso S. Agostino. Bonaventura non è il primo pensatore né il primo teologo dell'Ordine francescano, e neppure la sola figura eminente fra i figli di S. Francesco, ma è certamente quella più rappresentativa e influente. E così, se non si può dire che Bonaventura è il padre della Scuola Francescana, di fatto è lui il vero caposcuola. ln Bonaventura, infatti, più che inlAlessandro di I-Iales e in Roberto Grossatesta viene portato a maturazione quel processo di introduzione delle categorie proprie della spiritualità francescana fra gli strumenti impiegati per lo studio della realtà: il carisma della carità, della pace e dell'amore per le creature. In Bonaventura S. Francesco ha trovato l'interprete più fedele e più autorevole della sua spiritualità a livello teologico e metafisico. Perciò il titolo di "metafisica della mistica francescana” oppure, più semplicemente, di "metafisica francescana” si addice perfettamente al pensiero filosofico del Dottore Serafico.
1)
E.
CILSON, La philosoplzicde Suini Bonaventure, Paris 1953, 3° ed., p. 393,.
Bonaventura di Bagnoregio
Vita
e
633
opere
Giovanni Fidanza, detto Bonaventuraiforse perché da fanciullo ebbe la buona ventura d'essere guarito da una gravissima malattia) nacque a Bagnoregio con molta probabilità nell’anno 1217 (ma secondo altri nel 1221). Entrò nell'Ordine Francescano nel 1243, dopo aver compiuto gli studi nella facoltà delle Arti a Parigi. Qui effettuò anche gli studi teologici, sotto la guida di Alessandro di Hales, che egli ricordò come suo "padre e maestro" e del quale volle seguire la dottrina. Per conseguire il titolo di baccelliere in teologia commentò, come voleva la tradizione, le Sentenze di Pier Lombardo, ricavandone un'opera monumentale che costituisce a buon diritto la vera Summa del suo pensiero. Nel 1253 divenne magister ma non fu riconosciuto come tale nella facoltà di teologia per la lotta che allora divampava fra il clero secolare e gli Ordini Mendicanti. Quando il papa Alessandro IV decise la disputa dando ragione agli Ordini Mendicanti, anche Bonaventura fu reintegrato nell'Università, ma solo per breve tempo. Infatti, appena un paio d'anni dopo (1257), quando fu nominato Ministro Generale dell'Ordine Francescano, dovette rinunciare definitivamente alla cattedra. Da allora egli poté dedicare poco tempo allo studio, assorbito com'era dal piano di riorganizzazione del suo Ordine, che dopo la morte di S. Francesco aveva attraversato
gravi dissensi e profonde spaccature tra coloro che volevano seguire la Regola alla lettera, sine Glossa, e coloro invece che volevano adeguarla alle esigenze dei tempi. Bonaventura riuscì comunque a trovare il tempo per scrivere alcune opere, quasi sempre di modeste proporzioni, ma di grande Valore, che ottennero un enorme successo. Tra queste sono particolarmente significativi gli opuscula, a partire dal Breviloquium (1257), un'autentica "summula" teologica. L'autore dice nel Prologo che, poiché la Sacra Scrittura è una selva nella quale non è facile muoversi e gli insegnamenti che essa contiene sono stati già diffusamente esposti dai Padri e dai Dottori egli intende riassumere alcuni punti fondamentali (magis opportuna ad tenendamhdpella verità che vi è contenuta e indicare anche le ragioni che aiutano a capire
momenti assai difficili,con
tale verità. Caratteristico della mentalità bonaventuriana è lo scritto De reductione artium ad theologiam, poiché, come dice già il titolo, in ogni scienza e arte umana è nascosta un'allusione alla multiforme sapienza di Dio e poiché d'ogni scienza e arte può servirsi la teologia per espri-
la verità intorno a Dio. Ma il più tipico e meritatamente famoso opusculutn di Bonaventura è lîtinerarium mentis in Deum, composto durante l'estate del 1259 alla Verna: in questo scritto filosofia, teologia e mistica trascinano l'anima verso la contemplazione di Dio.
mere
Parte seconda
634
lungo: dal 1257 al 1274, îpoco prima organizzatore, pur dovendo viaggiare recarsi in vari e paesi europei per presiedere i Capitoli generali spesso dell'Ordine, che si tenevano ogni tre anni, rimase sempre vicinolalîfifido universitario parigino, e a Parigi pronuncio quelle Collatiorigsiîe Il generalato di Bonaventura fu
della
sua
morte. Forte e abile
decenz
praeccptis (l 267), Collatinnes de septenz donis Spiritus Saricfi (Î268) e
Collationes in Hexaemerorz (1273), nelle quali prende posizione di fronte al progressivo affermarsi dell'aristotelismo, in Cui vedeva un grave pericolo per la fede cristiana. Nominato cardinale nel 1273, poté partecipare al Concilio di Lione del 1274: morì il 15 luglio di quello stesso anno. Delle principali opere di Bonaventura si è già fatta menzione. Per completare la rassegna bisogna ancora aggiungere: i Commenti ai Vangeli di Giovanni (d_l_,i_e___red_g__z_igl‘iì) e Luca, le Questioni disputate: De scientia Christi,’ De" mysterio Trinitatis,‘Deperfectibne evangelica; laliilpologia paiiperum (Difesa dei mendicanti); la Legenda maior S. Francisci e la Legenda minor S. Francisci (due vite di S. Francesco) e i Sermones (circa 400).
Il pensiero di Bonaventura in generale /
Il pensiero di Bonaventura è specchio fedele di quel mondo spirituale e culturale in cui è germinato, un mondo impregnato da capo a fondo di cristianesimo: cristiani infatti erano il linguaggio,’ le idee/lì costumi, i
valori, le istituzioni, e cristiane erano anche l'arte, la filosofia e la morale. Ma si tratta di
'
un
cristianesimo che nel
sec.
Xlll, in cui vive
Bonaventura, sa anche attingere abbondantemente ai prodotti della Cultura greca (Platone, Plotino, Aristotele), della cultura araba (Avicenna,
Al-Farabi,Averroè) e ebraica (MaimonidekCosì il pensiero di Bonaven-
agostiniano,
qualche
tura è anzitutto cristiano e ma è anche platonica con venatura di aristotelismo. Con tutto ciò ha peri) una sua specificità
che
di Agostino, Anselmo, Bernardo, distingue pensiero, per Tommaso: essa è data dal misticismo franccscarikìhBonaventura è un autentico figlio di S. Francesco. Del Poverello di Assisi egli è appassionato ammiratore, devoto discepolo ed eccellente biografo. Nella sua filosofia e teologia egli sa trasfondere quell’ansia reiigiosa e spirituale, quella fiamma d'amore appassionato per il Cristo, queltestatica ammirazione per le creature che avevano incendiato l'anima di Francesco. Così in arricchisce Bonaventura la grande tradizione lo
dal
es.
platonico-agostinia-nasi
l'apporto ideale del francescanesimo, cioè con l'esperienza mistica di S. Francesco e con una più ampia visione, francescana e propria,_della con
vita.
L'esperienza dell'amore del Poverello d'Assisi, in parte da lui rivis-
suta
e
soprattutto intensamente meditata, viene tradotta da
Bonaventu-
Bonaventura di
ra
stesso sulla scia
illuminare, nella
Bagnoregio
635
agostiniana in termini metafisici e teologici, così da ricerca sapienziale, la realtà concreta della vita, i
vera
fatti e i misteri della Creazione, ‘della Redenzioneìs del destino soprannaturale dell'uomo.
Altri tratti tipici, che danno un volto originale e personale al pensiero di Bonaventura sono: 1) lflesemplarisrno: tutte le cose sono studiate alla luce di Dio, l'essere infinito e perfetto, il modello supremo di cui tutte le creature sono copie più 0 meno fedeli; 2) il cristoccntrismo: il suo esemplarismo diviene cristocentrico, perché Gesù Cristo, il Dio fatto carne, rende
visibileYarchetipo divino, e restaura Timaggo Dei che nell'uomo era stata deturpata dal peccato; 3) l'amore per la Sacra Scrittura, che è il libro che Bonaventura ha costantemente letto, meditato e commentato, perché è il libro che contiene la Parola di Dio, che è l’unica parola di Verità.
subordinazione della filosofiaalla teologia
tempi di Bonaventura la questione dei rapporti tra fede e ragione, teologia e filosofia era vivacemente dibattuta. Ad acuirellasituazione” avevano contribuito soprattutto Averroè e i suoi discepoli parigini, capeggiati da Sigieri di Brabante, con la loro tesi della doppia verità: una verità della ragione (e della filosofia) e una verità della fede (e della teologia), verità diverse e separate, che non possono mai entrare in conflitto tra di loro anche quando sembrano esprimere tesi contraddittorie (per Ai
tra
es., mortalità
dell'anima in filosofia e immortalità dell'anima in teolo-
gia). Contro la tesi degli averroisti aveva già preso posizione S. Tommaso, il quale aveva sì riconosciuto la distinzione delle due discipline e delle rispettive sorgenti di conoscenza (fede e ragione) e aveva anche affermato la loro autonomia; però allo stesso tempo aveva escluso qualsia-
si forma di separazione e soprattutto la possibilità che esistano due Verità, una filosofica e un'altra teologica. ln un primo tempo nel De reductione artiunz ad theologiam Bonaven—
tura sembra muoversi sulla stessa linea di S. Tommaso.
-
Egli rifiuta la
separazione della filosofia e delle scienze dalla teologia e invoca la loro subordinazione a quest'ultima, ma manifesta grande apprezzamento e rispetto per queste forme dell'umano sapere. Ciò che insegna Bonaventura nel De reductione artium è la gerarchia degli ordini del sapere e quindi la subordinazione della scienza alla teologia, subordinazione che pero non significa disprezzo o scarsa considerazione; tutt'altro. Anche le scienze e la filosofia hanno il loro valore; esse aiutano a scoprire Dio anche nella natura, come la teologia ce lo fa scoprire nella Scrittura.
636
Parte seconda
La conoscenza di Dio a sua volta conduce al possesso di Dio. Infatti il frutto ‘di tutte le scienze culmina nel possesso di Dio e nella sua fruizione. Così viene indicato nella chiusa del De reductione artium: «E questo è il frutto di tutte le scienze, che in tutte si edifichi la fede, si onori Dio, si cornpongano i costumi, si attingano le consolazioni, che sono nell'unione dello sposo e della sposa. E questo avviene per la carità, a cui si indirizza tutto lo scopo deIlaScrittura, e per conseguenza ogni illuminazione che discende dall'alto, e senza la quale è vana ogni cognizione, perché non si perviene mai al Figlio se non per mezzo dello Spirito Santo, il quale ci insegna ogni verità». Ma negli ultimi scritti, specialmente nelle Collationes in Hexaenzeron, conferenze tenute all'università di Parigi proprio nel momento in cui la polemica con gli averroisti era maggiormente infuocata, Bonaventura prende una posizione di ferma e dura condanna per qualsiasi forma di sapere umano che pretenda di raggiungere la verità indipendentemente dalla federSÌìÌÌa-sqyestione dei rapporti tra fede_e_ ragione, a questo punto “Bonaventura ‘sembra far proprie le tesi di Agostino sui rapporti tragrazia enatura, durante la polemica antipelagiana. L'albero, dice Bonaventura, si conosce dai frutti, e i frutti sono questi: i_ ”filosofi” si gloriano degli splendori delle scienze ma sono privi ldello spiritoîi devozione, sono simili alle vespe che costruiscono anche loro Falveare ma non producono il dolce“ miele; lo spirito di presunzione e di curiosità rovescia ogni valore, disconosce l'ordine dell'essere. È necessario allora che si lotti perché venga ristabilitol'ordine dell'essere, perché nella vita venga restaurata la perfetta imitazione della Vita del Redentore. Non si ritorni alla schiavitù d'Egitto, non si pospongano ancora una volta i vili frutti della terra ai beni celesti, non si metta in primo luogo lo studio della filosofia, non ci si unisca all'ancella come se fosse la regina, e non si gozzovigli con essa. Il porre in primo luogo, nella ricerca della verità, lo studio della filosofia, è giudicato da Bonaventura un errore gravissimo. «Discendere però alla filosofia è un gravissimo pericolo (...). Per cui i maestri devono fare attenzione a non raccomandaree apprezzare troppo le parole dei filosofi, perché con questa scusa il popolo non ritorni in Egitto, o sul loro esempio lasci le acque di Siloe, nelle quali è la somma perfezione e vadano alle acque dei filosofi, nelle quali c'è l'errore eterno (Descendere autem ad philosophiam est maximum periculum l’). Unde magistri CHUBTE ciebent, ne nimis commendent et appretientur dieta philosophorurrz, ne hac occasione populus revertatur in Aegyptum, val exemplo eorum dimittat aquas Siloe, in quibus est summa perfcctit) et vadant ad aquam philosophorum, in quibus est aeterna deceptiobxî A questo punto Bonaventura sembra an-
2)
C011. in HEIIIEYII. XIX, n. 12.
Bonaventura di Bagrzoregio
637
nullare totalmente il valore della filosofia. Egli afferma che bisogna imil’esempio del beato Francesco il quale oppose un rifiuto all'invito del Sultano di difendere la sua fede discutendo con i sacerdoti perché non poteva disputare sulla fede né con la ragione, perché la fede è superiore alla ragione, né per mezzo della Sacra Scrittura, poiché quei sacerdoti non Yammettevano come vera. «Perciò non bisogna mescolare l'acqua della filosofia con il vino della Sacra Scrittura, in modo che il vino diventi acqua; questo sarebbe un pessimo miracolo; mentre leggiamo che Cristo dall'acqua fece il vino e non il contrario (Non igitur tantum miscendurrz est de aqua philosophiaein vinum sacrae Scripturae, quod de vino fiat aqua; hoc pessimum miraculum esset; et legimus, quod Christus de aqua fecit vinum, non e c0nver50)».3 La verità, insiste Bonaventura, è nostra. La filosofia è sostanzialmente erronea perché essa vuole spiegare la realtà con la realtà stessa, la creatura con la stessa creatura. Ma questo è un metodo erroneo perché alla conoscenza della creatura non si può pervenire se non per mezzo di ciò per cui è stata fatta, né la conoscenza della verità può aversi se la mente non è in possesso del criterio del Vero, cioè se non conosce la Verità. In breve: «Il nostro obiettivo è quello di far vedere che in Cristo sono rinchiusi tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, e che lui stesso costituisce il mezzo (medium) di tutte le scienze».4 LO stesso punto di Vista viene ribadito nelle Conferenze sui sette doni della Spirito Santo, dove, nuovamente, la scienza filosofica non viene Condannata in se stessa, ma per l'abuso che se ne fa quando si pretende di farne una fonte autonoma di verità, assolutizzandola. Chi si affida solo alla filosofia cade in errore. Il filosofo che crede di poter bastare a se stesso nella determinazione del vero, del bene, del giusto guadagnerà il mondo ma perderà se stesso; potrà anche conoscere Dio ma non lo adorerà come Dio. La scienza filosofica deve essere integrata dalla scienza rivelata; la scienza filosofica ha una utilità solo come via a una scienza superiore: «Philosophica scientia via est ad alias scientias; sed qui ibi vult stare cadit in tenebras (La scienza filosofica è strada per altre scienze; ma chi si vuol fermare lì cade nelle tenebre)».5 Lo splendore della scienza filosofica cede così il posto a quello delle scienze superiori: «Grande è lo splendore (claritas) della scienza filosoficanella stima degli uomini mondani; mentre è piccolo a paragone dello splendore della scienza cristiana. Ancora piccolo è lo splendore della scienza teologica agli occhi degli tare
3) 11nd,, n.7. 4) Ibid.,I,n.1]. 5) De scptem donìs, IV, n. 12.
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uomini mondani; ma in verità esso e assai grande. Però lo splendore della scienza gratuita è ancora più grande e massimo è lo splendore della scienza gloriosa, che rappresenta il traguardo finalem La ragione fondamentale additata da Bonaventura a sostegno della sua tesi della fallibilitàdella filosofia ‘e che questa, separata dalla teolo gia, cade in errori gravissimi e distrugge la retta filosofia nel suo triplice ordine: naturale, intellettuale, morale: «Nelle scienze filosofiche tre sono gli errori da evitare, in quanto sono errori gravissimi che distruggono la Sacra Scrittura, la fede cristiana e qualsiasi sapienza: il primo errore va contro la causa dell'essere (Causam essendi); il secondo va contro l'ordine del conoscere (rationem intelligendi); il terzo va contro l'ordine del vivere (ordinem vivendi). L'errore contro la causa dell'essere è la tesi dell'eternità del mondo, ritenere cioè che il mondo è eterno; l'errore contro l'ordine del conoscere è la tesi della necessità fatale (de necessitatefatali), sostenere cioè che tutto accade per necessità. Il terzo errore riguarda l'unità dell'intelletto e consiste nell'affermare che l'intelletto ‘e unico per tutti gli uomini».7 L'errore contro la causalità dell'essere, errore antico e funestissimo,
poiché ne misconosce la causalità piena, cioè l'attività creatrice; l'errore del fatalismo, affermando che tutto avviene necessariamente, distrugge il libero arbitrio, toglie il merito e il
sminuisce, annulla, il concetto di Dio
demerito; l'errore contro l'intelletto, dichiarando che uno solo è l'intelletto di tutti gli uomini, distrugge la individualità umana, «poiché l'intellet-
to ha l'essere distinto nei diversi soggetti: dunque ha i propri principi essenziali distinti e individuanti (quìa in diversis intellcctus lmbet esse distinctum: ergo habet principia suae essentiae propria et distinctcz et indivi-
duantia)»,8
Ora, la Verità rivelata elimina questi errori e ristabilisce l'ordine sia a livello ontologico (essere) che a livello gnoseologico (conoscere) e antropologico (molteplicità degli intelletti umani). Così, per Bonaventura, la subordinazione della filosofia alla teologia diventa una necessità morale: allo stato attuale di alienazione dal vero può porre rimedio solo lo Spirito Santo con i suoi doni della sapienza e dell'intelletto.
La
complessità della metafisica bonaventuriana
Sulle basi di ufiepistemologia che tiene strettamente legate tra loro fede e ragione, Bonaventura costruisce la sua magistrale sintesi mistica dell'universo. Si può dire che la sintesi bonaventurianaè anche una sintesi metafisica?
a) lbid.,n.3. 7) nani, VIII, n. 16. S) una, n. 19.
Bonaventura di
Bagnoregio
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Data la profonda avversione di Bonaventura per qualsiasi interpretazione e sistematizzazione puramente razionale della realtà, che faccia astrazione dalla conoscenza dei contenuti di fede, c'è chi ha negato a Bonaventura il titolo di filosofo e di metafisico. Ma, come ha mostrato Gilson, questa esclusione non pare legittima, perché quasi mai lungo il corso della storia della metafisica c'è stata un'interpretazione puramente razionale della realtà, né nei presocratici, né nei platonici e nei neoplato— nici e neppure nei peripatetici e negli stoici, per non parlare delle metafisiche religiose degli ebrei, dei cristiani e degli islamici. In secondo luogo, all'interno della cosmovisione bonaventuriana è indubbiamente presente e operante tutto il grande apparato metafisico aristotelico e neoplatonico. Sennonché il pensiero di Bonaventura nell'analisi dei gradi superiori e trascendenti della realtà in effetti si estende molto al di là dei classici limiti definiti dalla metafisica filosofica e abbraccia anche gli ambiti della teologia. Bonaventura ha una visione cristiana dell'universo, una visione in cui l'ambito del trascendente è molto più esteso e più ricco di quanto non lo sia generalmente nella metafisica puramente speculativa: oltre agli elementi meramente razionali ci sono quelli dati dalla fede, dalla cristologia e dalla mistica. Così si può arrivare a definire che cos'è la metafisica di Bonaventura soltanto con una serie di approssimazioni, partendo da ciò che essa ha in comune con le altre metafisiche e precisando poi ciò che ha di specifico. Ciò che ha in comune con tutte le metafisiche è lo studio dell'essere, ciò che invece ha di proprio è la triplice prospettiva sotto il quale l'essere viene considerato: teologica, mistica, cristica. Vediamo una per una queste quattro note della metafisica bonaventuriana.
Metafisica dell'esemplarità Come per Aristotele anche per Bonaventura la metafisica è essenzialmente studio dell'essere. Ma, come abbiamo visto poco sopra, Bonaventura condanna una metafisica dell'essere che, come quella di Aristotele, neghi la causalità efficiente e libera di Dio. Così alla metafisica aristotelica della sostanza e della forma Bonaventura, ispirandosi a Platone, contrappone la metafisica della esemplarità la quale non considera l'essere in se stesso ma in rapporto a Dio, considerato come essere perfetto e infinito che funge allo stesso tempo da causa agente e da archetipo di tutte le creature, le quali sono tutte senza eccezione immagini di Dio: «onmis enim creatura ex natura est illius aetemae sapientiae quaedarîi ejfigies et similitudo (infatti ogni creatura è per natura un'immagine e similitudine di quella eterna sapienza)».9 Pertanto << essere immagine di Dio non è
9)
Hinerarizmt Il, 12.
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Parte seconda
accidentale per l'uomo ma piuttosto è sostanziale (esse imaginem Dei non est homini accidens sed potius substantialebflo Tutte le cose sono imitazioni di Dio, ma in grado diverso: alcune sono vestigia, altre immagini, altre somiglianze di Dio: «La creatura del mondo è come un libro in cui risplende, viene rappresentata e letta la Trinità creatrice, secondo un triplice grado di espressione, cioè per modo di impronta, di immagine e di somiglianza, così che il Carattere dell'impronta si trova in tutte le creature, il carattere dell'immagine in tutti gli intelletti spirituali e razionali, il carattere della somiglianza solamente negli enti deitormi».11 Si può ben dire, come afferma Gilson, che quella di Bonaventura è una metafisica dell'essere, come lo è indubbiamentequella di S. Tommaso. In effetti, anche Bonaventura ha un concetto forte, pregnante, intensivo dell'asse. Egli non concepisce l'esse come perfezione minima, come il sostrato comune di tutte le cose, come il più generico di tutti i generi: «ipsunz esse est extra omne genus, licei primo occurat menti et per ipsum alia (l'essere stesso è al di fuori di ogni genere, benché si presenti per primo alla conoscenza e le altre cose attraverso di esso)»:12 l'essere è al di fuori e al di sopra di tutti i generi, ed è la prima idea che risplende nella mente umana, anche se questa non se ne rende conto.” L'asse e il centro di qualsiasi perfezione e per questo motivo merita anche per Bonaventura come per S. Tommaso d'essere considerato come il nome più proprio di Dio: «Primo enim menti Creatae innotescit esse; uizde nihil manzfestius. Perfectissimum est, quia quidquid de Deo dicitur reducitur ad esse; unde esse est propîiulîl nonren Dei (Infatti, per primo alla mente creata appare l'essere; per cui non c'è nulla di più evidente. È perfettissimo, poiché tutto ciò che si dice di Dio si riduce all'essere; per cui l'essere è il nome proprio di
DÌO)>>.14
Oltre che nel concetto di essere, c'è una certa coincidenza con S. Tommaso anche per quanto concerne il modo di salire a Dio partendo dalle creature: come il Dottore Angelico, similmente il Dottore Serafico, molte volte ascende a Dio e ne prova l'esistenza percorrendo la via dell'essere, cioè constatando che le creature sono esseri imperfetti che rinviano all'essere perfetto, potenziali che rinviano all'essere attuale, mutevoli che rinviano all'essere immutabile, relativi (secundum quid) che rinviano all'essere assoluto (esse simpliciter) ecc. «Ogni creatura dice che Dio è il primo essere grazie alla completezza dell'essere primo, così come se c'è l'essere potenziale, c'è l'essere attuale, infatti l'essere potenziale viene
11’) H Seni‘. 2, 2. 11) Breviloquiun: Il, 12. 13) Itinerarium 5. n. 4. 13) Cf. ibid. 14) Coli. in Hexaem. II, 3, n. 11.
Bonaventura di
Bagnoregio
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dall'essere attuale e dipende essenzialmente da esso. inoltre, se c'è l'esmutevole, c'è l'essere immutabile; infatti differiscono secondo il carattere della completezza e doll'incompletezza: il mutevole e fluente, Yimmutabilee fermo e fisso; ora, ogni fluente è da un fisso. Ancora, se c'è ciò che è essere in qualche modo, c'è ciò che è essere assolutamente (...). Ancora, se c'è l'essere dipendente, c'è l'essere assoluto; infatti essenzialmente ogni creatura, e soprattutto la materia e la forma, dipende dal primo».15 La riflessione quindi sulla precarietà dell'essere negli enti «conduce a quell'essere primo che tutte le creature rappresentano. E quell'essere oltre che primo, è sommo, incausato, fine a se stesso (propter se ipsum), semplice, uniforme, attuale, immutabile, indipendente, al di fuori di qualsiasi genere».16 Però, nonostante le sensibiliconvergenze e coincidenze, la metafisica dell'essere di Bonaventura ha una sua specificità che la distingue dalla metafisica dell'essere dell’Aquinate. La sua è essenzialmente una metafisica deIYeSempZarità: l'essere, che certamente è il centro d'ogni perfezione, è visto soprattutto nella sua funzione di causa esemplare: è ciò che tutte le cose rappresentano e riproducono. Invece quella di S. Tommaso è eminentemente metafisica dell'attualità: l'essere è concepito anzitutto e soprattutto come atto, lîictualitas omnium actuum. Così Bonaventura vede nelle creature soprattutto delle immagini più o meno fedeli dell'essc primum, mentre S. Tommaso vede in esse delle attuazioni limitate dell’esse ipsunz; Bonaventura vede nelle essenze delle copie dell'essere, invece S. Tommaso vede in esse delle potenze dell'essere, che è l'actualitas omnium actuum. Pertanto si può essere d'accordo con E. Gilson quando scrive: sere
«muovendo da una diversa concezione dell'essere, la dottrina di S. Bonaventura non è mai rigorosamente paragonabilein nessun punto alla dottrina di S. Tommaso d'Aquino (...). I tentativi compiuti talvolta dai loro interpreti per trasformare in identità di contenuto l'accordo fondamentale possono dunque essere considerati in anticipo come inutili e vani nel loro stesso fondamento; è chiaro infatti, che se due dottrine sono organizzate secondo due preoccupazioni iniziali diverse, non considerano mai gli stessi problemi sotto lo stesso aspetto e che, di conseguenza, l'una non risponderà mai al problema preciso posto dall'altra. La filosofia di S. Tommaso e la filosofia di S. Bonaventura si completano come le due interpretazioni più universali del cristianesimo: però, per il fatto stesso che si completano non possono né escludersi né coincidere»?
I5) m) I7)
Ihid. n. 17. Ihid. n. 18. E.
GnsoN, La philnsophie
642
Parte seconda
Metafisica teologale La seconda nota caratteristica della metafisica di Bonaventura è la teologalità: essa studia l'essere nella sua interezza ma lo scruta e lo vede sotto 10 sguardo congiunto della ragione e della fede, o meglio di una ragione che si lascia correggere e guidare dalla fede, evitando così gli errori in cui è incappata ogni metafisica che ha preteso di conoscere il Primo principio soltanto con le risorse della ragione. Già Aristotele aveva definito la metafisica come scienza divina e teologica, in quanto essa include lo studio di Dio. Ma la metafisica di Bonaventura è più che teologica: è teologale in quanto non è concepita come scienza puramente razionale bensì come la scienza di una ragione che si lascia illuminaredalla fede. I problemi che essa studia sono ancora i problemi specifici della metafisica, ma lo studio non è più fatto dalla pura ragione del filosofo pagano ma dalla ragione credente del filosofo cristiano, il quale percorre il suo cammino verso la verità lasciandosi guidare da quella luce che ha già illuminato tutto l'ambito della verità. La ragione accoglie la collaborazione della fede per conoscere meglio la verità. Essa non pretende più di costruire un sistema proprio, àutonomo, di verità, un sistema puramente filosofico, meramente razionale, perché una ragione che ricusa la fede non può che sfociare nell'errore. Mentre S. Tommaso crede nella possibilità di una metafisica autonoma e quindi separata dalla teologia, 5. Bonaventura sostiene la necessità
di una reductio metaphysicae ad theologiarrx. Conformemente alla idea direttrice del suo maestro Alberto Magno, S. Tommaso coordina e subordina la metafisica alla teologia, ma secondo criteri tali da farla apparire come autosufficiente fintanto che essa dimora entro il proprio terreno. Egli sa che è difficile ma non teoricamente impossibile conoscere tutte le verità metafisiche con il soccorso della ragione, tuttavia egli ritiene che sia compito del filosofo considerare le cose in modo diverso dal teologo: «Il filosofo e il credente considerano cose diverse nelle creature (...). Tuttavia, se considerano qualcosa di comune, lo spiegano con principi diversi (Alia et alia circa creaturas et philosophus et jîdelis considerant f...) si qua vero circa creaturas communiter a philosopho et jîdeli considerantur per alia et alia principia traduntur)».18 Questa concezione della filosofia e della metafisica era destinata ad avere un grande futuro: l'epoca moderna la farà sua e la porrà a fondamento di tutto il suo filosofare.
l”) S. TOMMASO, Sunmm contra gentiles II, 4.
Bonaventura di
Bagrzoreggio
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La metafisica di S. Bonaventura è visibilmenteanimata da una ispirazione molto differente. Egli non considera i problemi in astratto ma nella situazione storica, in statu viale. E così gli risulta evidente che la ragione non è competente neppure nel suo ambito se non conserva lo sguardo fisso sulle verità che le vengono proposte dalla fede. Perciò solo una ragione illuminata dalla fede è in grado di fare della buona metafisica. Per questo motivo la metafisica bonaventuriana è essenzialmente una metafisica teologalc.
Metafisica mistica Sin dall'inizio abbiamo qualificato la metafisica di Bonaventura come mistica. C'è un afflato mistico in tutte le pagine delle opere di Bonaventura, anche in quelle, anzi soprattutto in quelle in cui affronta i più ardui problemi della metafisica. La metafisica di Bonaventura ‘e mistica perché oltre che con le ragioni della mente è fatta anche e primariamente con le ragioni del cuore. Mentre le grandi realtà della metafisica (Dio e l'anima) risultano inaccessibiliallo sguardo scrutatore della ragione, esse vengono toccate, sentite, vissute dalle vibranti percezioni dellfizfiectus; e così lfizfiectusprende il posto dell'intellectzis. Mentre S. Tommaso eccelle su ogni altro metafisico cristiano nel far valere le ragioni della mente, dell'intelletto, S. Bonaventura supera gli altri metafisici nel far valere le ragioni del cuore, dellhfiectus. La sua è una metafisica sapienziale, la quale «Viene iniziata nella conoscenza e viene consumata ne1l’affetto (in cognitione inchoatur et in afiectione con-
summatztr)».19 Spetta a Gilson il merito di aver messo in chiara evidenza questa nota peculiare della metafisica bonaventuriana. Ecco quanto scrive il grande medievalista francese a questo proposito: «La tendenza profonda clelfagostinismo medioevale, che consisteva nel far passare in primo piano, subordinandogli tutto il resto, l'elemento mistico della dottrina, in Bonaventura otteneva per la prima volta piena soddisfazione. Sostenendosi e arricchendosi a vicenda, il desiderio dell'estasi e la scienza delle cose si sviluppano in una vasta architettura, in cui trova posto la totalità della esperienza umana, della quale anche il filosofo era un erede: una dottrina della conoscenza, una teoria dei principi metafisici della natura, nonché una regola dell'azione, il tutto penetrato, sostenuto, legato da un'ispirazione così perfettamente unitaria, che il pensiero si innalza dalle operazioni più umili degli oggetti materiali fino alle effusioni più elevate della
19) 20)
grazia, senza mai incontrare alcuna soluzione di continuitàmm
111 Seni. 35, 1. E. GILSON, La philosophie... cit., p. 394.
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Parte seconda
Metafisica cristica
Logos, il Nous, il Verbum occupano un ruolo In tutte le metafisiche neoplatoniche la prima fondamentale. importante, il Intelligenza è primo e principale mediatore tra l’Uno e l'universo creato. Nel cristianesimo questo ruolo viene trasferito al Logos (Verbo) che si è fatto carne, cioè a Gesù Cristo. S. Agostino nelle bellissime pagine conclusive del decimo libro del De civitate Dei fa vedere che Cristo ‘e l'unico mediatore tra Dio e l'uomo e che lui è l'unica via in grado di ricondurre l'uomo a Dio. Cristo «è la via universale per la liberazione dell'anima (...). Quanti non credono alla rettitudine di questa via che culmina nella visione di Dio e nella eterna unione a lui, nella verità propugnata ed asserita dalle Scritture sante, e perciò non la comprendono, possono combatterla ma non possono distruggerlamîî Su queste coordinate si muove anche la metafisica di Bonaventura, il quale, come sappiamo, non costruisce una metafisica astratta ma una metafisica concreta, ”st0rica”. E così, mentre nellflexitus della metafisica astratta il ruolo centrale spetta al Logos divino, nellîaxitus della metafisica storica il ruolo centrale spetta a Gesù Cristo. Del Cristo Bonaventura sottolinea soprattutto la centralità. Con il termine centrum di cui Bonaventura fa uso copioso nella sua ultima opera, l’Hexaen1cr0n, egli vuol significare qualche cosa di più importante di quanto indichi il termine medium, che pure usa spesso per definire la posizione di Cristo nel cosmo. Certamente il Cristo occupa una posizione mediana tra Dio e l'uomo, essendo l'uomo-Dio, e come medio egli occupa una posizione intermedia tra i due estremi, e pertanto svolge la sua funzione di mediatore tra Dio e l'uomo. Ma mentre col termine medium si indica una posizione centrale rispetto a due punti soltanto, col termine centrum si esprime la posizione centrale rispetto a tutti i punti: infatti ccntrum si dice rispetto alla sfera mentre medium si dice rispetto a una linea. Chiamando Cristo centrum Bonaventura intende affermare la sua posizione centrale rispetto a tutto l'universo: fisico, spirituale e storico. Egli è in posizione centrale rispetto a tutte le creature e a tutti gli eventi. La parola centrum applicata a Cristo riassume da sola tutto ciò che Bonaventura vuol dire circa i rapporti di Cristo con l'universo creato e con l'universo di Dio, e quindi Vuol significare che egli è il punto medio, la misura, il centro di significato, il legame che tutto abbraccia e tutto conserva; quell’unità cioè che mantiene la molteplicità, la unifica In molte metafisiche il
3‘) AGOSTINO, De civitate Dei 10, 32.
Bonaventura di Bagnoregio
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pur lasciandola molteplice e le conferisce un senso profondamente uniscrive Bonaventura è ogni tesoro di scienza e di sapienza del Dio nascosto; egli è il centro di tutto le conoscenze. Egli è il punto centrale in sette modi: dell'essere che è l'oggetto della metafisica; della natura, che è l'oggetto della fisica; della distanza che è l'oggetto della matematica; della dottrina che è l'oggetto della morale; della modestia che è l'oggetto della politica; della giustizia che è l'oggetto della teologia; della concordia che è l'oggetto della logica (...). Centrale è la posizione di Cristo nella sua generazione eterna, nella passione, nella risurrezione, nell'ascensione, nel giudizio futuro, nell’eterna retribuzione o felicitàmîl In linea con le esigenze della sua metafisica esemplaristica nel Cristo Bonaventura oltre che la centralità sottolinea anche l'esemplarità. Cristo è sommo modello (exemplum), sia nell'ordine dell'essere che dell'agire. Egli è modello sommo nell'ordine dell'essere perché in quanto Verbo di Dio egli contiene in se’ i modelli, gli archetipi di tutte le cose: «Perciò il Verbo esprime il Padre e le cose che sono state fatte per mezzo di lui (Verbum ergo exprimit Patrem et res quae per ipsum factae sunt)».23 La sola metafisica che Bonaventura riconosce per vera è la metafisica insegnata da Gesù Cristo, e non si tratta di altra metafisica che quella della esemplarità. Questa si riassume nella derivazione di tutta la realtà da lui. Cristo dev'essere quindi "la logica nostra", che dobbiamo seguire contro il diavolo che continuamente disputa contro di noi: «Questo è il mezzo metafisico che ci guida, e questa è l'intera nostra metafisica: cioè essere illuminatiattraverso i raggi spirituali e circa l'emanazione, Pesemplarità e il compimento essere ricondotti al sommo. E così sarai un vero metafitario: «In Cristo
-
-
sico (Hoc est nzedium metaphysicunz reducens, et haec est tota nostra metaphysica: de enmnatione, de exemplaritate, de consummatione, scilicet illuminariper mdios spirituales et reduci ad summum. Et sic eris verus metaphisicus)».24 Non meno incisiva è Pesemplarità di Cristo nell'ordine dell'agire. Tutta la sua vita vale come modello per la condotta del cristiano, «Cristo ci guida in quanto ci fa camminare secondo il suo modello, in conformità con una vita nuova, come dice S. Paolo ai Romani (6, 4)».25 Come in Agostino, anche in Bonaventura platonismo, neoplatonismo e cristianesimo si compongono in una sintesi perfettamente riuscita.
22) Coll. in Hcxaem, 1, n. 11. 23) Ibid, 1, 8. 34) Ibid. 25) III Seni‘. 19, l, 1.
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Parte seconda
splendida opera d’arte che parla il linguaggio di Platone e dei neoplatonici, ma proclama ad alta Voce la verità di Cristo. La struttura scalare della grande sintesi è quella dei neoplatonici, ma colui che porta a compimento l'ascesa verso la patria celeste è Gesù Cristo. Lo dichiara apertamente il Dottore Serafico nel primo capitolo del Breviloquium. «Tutto avviene per mezzo di Gesù Cristo il quale è stato fatto da Dio per noì sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Il quale, Si tratta di
una
essendo virtù di Dio e sapienza di Dio, essendo il Verbo incarnato pieno di grazia e di verità ci ha dato la grazia e la Verità, ci ha dato la grazia della carità, la quale, uscendo da un cuore puro, da una scienza buona e da una fede non finta, rettifica tutta quanta l'anima nel suo triplice aspetto di cui abbiamo parlato; ci ha dato la scienza della verità con le tre forme della teologia, cioè la simbolica, la propria e la mistica, affinché con la simbolica rettamente usiamo delle cose sensi, con la propria rettamente usiamo delle cose intelligibìlì, con la mistica siamo rapiti nell’estasi».
La reductio bonaventuriana della metafisica alla teologia fa assumere prima quelle quattro note su cui ci siamo soffermati, e che fanno di essa una metafisica esemplaristica, teologale, mistica e cristica. L’autentica metafisica di Bonaventura è soltanto questa sintesi globale di esemplarismo, fede, mistica e Cristo. Essa incorpora certamente anche la metafisica dei filosofi,ma vuole essere ed è infinitamente di più. Perciò chi cercasse di ricostruire la metafisica di Bonaventura limitan-
alla
dosi ad estrapolare dal suo pensiero quegli elementi che corrispondono alle dottrine della metafisica classica ne falserebbe completamente il senso. Forse si farebbe un'idea più o meno esatta delle sue fonti platoni-
che, neoplatoniche, aristoteliche e arabe, ma non giungerebbe a una con-
grandioso edificio. Bonaventura ci dice con ci egli vuole dare non è la metafisica dei filosofi, bensì un metafisica radicalmente cristiana, che vuole leggere tutta la realtà con gli occhi e il cuore di Cristo, ponendo Cristo al centro di tutto. adeguata del insistenza che ciò che
cezione
suo
Esistenza e conoscibilitàdi Dio Illustrando i caratteri propri della metafisica bonaventuriana abbiamo avuto modo di esaminare due tematiche fondamentali: Dio principio di tutte le cose come causa efficiente ed esemplare, Cristo momento centrale delYexitus e del reditus di tutte le creature. Ora dobbiamo completare la trattazione esaminando il pensiero di Bonaventura sull'esistenza e natura di Dio e sulla creazione del mondo, degli angeli e dell’uomo.
Bonaventura di Bagnoregio
647
che come S. Bonaventura ha il gusttîclel divino e del sopranchiedersi: esiste il Principio primo, Dio? di per sé non ha senso. naturale E un interrogativo irrispettoso, un insulto, una bestemmia (come lo sarà per Kierkegaard). È una domanda che nasce da una profonda Cecità mentale, pari a quella di chi nega che c'è il sole soltanto perché è privo di vista 0 perché non 1o vuole vedere. Però Bonaventura sa bene che ci sono degli atei e che l'interrogativo sull'esistenza di Dio è stato posto, e che è compito della metafisica fornire la risposta. Così anch'egli lo affronta in varie opere, in particolare nel Continente alle Sentenze, nella Per
uno
Quaestio disputata de mysterio Trinitatis e nellltinerariummentis in Deum. UESISTENZA Dl DIO NEL "COMMENTO ALLE SENTENZE"
La Distinzione terza del Libro primo delle Sentenze di Pier Lombardo quella in cui l'autore tratta la questione dell'esistenza di Dio. Questa distinzione è diventata il locus classicus in cui i commentatori presentano le loro prove dell'esistenza di Dio. È quanto fa anche Bonaventura nel suo commento. Egli adduce tre prove o tre gradi per ascendere a Dio: «Il primo grado quanto dell'ascesa alla visione sta nella considerazione delle cose visibili; il secondo nella considerazione delle Cose invisibili, come l'anima o un'altra sostanza spirituale; il terzo è dall'anima verso Dio, poiché l'immagine Viene formata dalla stessa verità e si congiunge immediatamente a Dio>>.26 Questo testo contiene già tutti gli elementi che saranno poi sviluppati ed accentuati nelle opere posteriori. Come S. Anselmo, di cui accetta l'argomento del Proslogion, Bonaventura ritiene che si possano pensare le parole “Dio non esiste" ma non Ciò che è espresso nelle parole. Si può avere un falso concetto di Dio e figurarselo come un idolo, poiché l'intelletto umano non coglie l'essenza di Dio, e questa è una implicita negazione del vero Dio, ma resta pur sempre la persuasione dell'esistenza di un Dio: «E poiché chi pensa che Dio non è ciò che è, come giusto, di conseguenza pensa che non ‘e; perciò a ragione della mancanza dell'intelletto si può pensare che Dio non è, o non è la somma Verità; tuttavia non semplicemente o generalmente, ma per conseguenza, come chi nega che in Dio non vi è la beatitudine, nega che Dio esistemî?’ è
36) 27)
156m. 3, 1, 2 ad 4. lbid. 8, 1, l, 2.
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Parte seconda
UESISTENZA DI DIO NELLA
“QUAEsTio DISPUTATA" DE MYSTERJO TRIÌWTATIS
Analogo procedimento a quello del Commento, ma con più ampi sviluppi si trova nella prima questione del De mysterio Trinitatis, ove chiedendosi se l'esistenza/di Dio sia una verità della quale non si possa dubitare (si! trenini irjdutritabile),‘Boriaventura risponde affermativamente qîpfiî-Ìina triplice viàlla prima via (è quella della esperienza interna analizzataìnelle sueìv-arie tensioniÎla secondarie quella fondata sull'esperienza esterna del mondo, conosciuto nella sua intima essenza di essere contingente mutabile 0 di essere partecipato; la terza vi; è legata all'argomentazione anselmiana e in particolare alla presenza delle ragioni eteri
nella mente umana.“ Che l'esistenza di Dio sia una verità naturalmente impressa nelle nostre menti è provato sia con argomenti d'autorità (asserzioni di S. Giovanni Damasceno, Boezio, Ugo di S. Vittore) sia con altre considerazioni come queste: abbiamo innato il desiderio della sapienza, della beatitudine, della pace, dunque dobbiamo averne un'idea; ora Dio è la sapienza, la beatitudine, la pace, dunque è innata in noi la nozione di Dio. ln questa via psicologica è compreso anche questo argomento: l'anima nostra porta in sé l'immagine di Dio, «se dunque è naturalmente impresso nell'anima che essa è immagine di Dio, l'anima ha innata la nozione di Dio». Nella seconda via che è quella cosmologica («ogni creatura proclama l'esistenza di Dio») Bonaventura elenca dieci aspetti delle cose che postulano necessariamente l'esistenza di Dio. Si tratta precisamente degli aspetti della subordinazione, della dipendenza, della possibilità, della relatività, della limitazione, dell'ordine, della partecipazione, della scomposizione, della potenzialità, del mutamento. «Il prinlo (aspetto) è questo: se c'è l'ente che viene dopo (posterias) c'è l'ente che viene prima; se dunque vi è l'insieme degli enti che vengono dopo, è necessario che vi sia un primo ente. Se dunque è necessario
ne
prima e un poi (ossia una dipendenza causale) nelle creache l'insieme delle creature implichi e proclami l'esiè necessario ture, di Primo stenza un principio». Secondo dove c'è un ens ab alio, deve esserci un ente che non dipende da altro. ljens ab alia corrisponde all'ente creato, il non ab alia all'ente increato. Terzo, se vi è un ente possibile, dev'esserci un ente necessario. Quarto, se c'è un ente relativo, dewesserci un assoluto. Quinto, se vi è un ente limitato, parziale (diminuturtt) dev'esserci l'ente simpliciter, e l'ente simpliciter dev'essere perfetto. Sesto, se vi è un ente ordinato ad altro (propter aliud), dev'esserci un ente autosufficiente, che ha valore per sé, e questo è l'ente di cui non può esserci miammettere un
13)
Cf. De rnyst. TriniL,1, 1.
Bonaventura di Bagnoregio
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gliore. Settimo, se vi è un ente per partecipazione, dev'esserci un ente per
Ottavo, se vi è un ente in potenza, dei/esserci un ente in atto, ma l'ente che è puro atto è Dio. Nono, se vi è un ente composto, clev'esserci un ente semplice. Decinzo, se c'è un ente mutevole, dev'esserci un ente immutabile,poiché ciò che muta è mosso da un ente in quiete. «Da questi dieci presupposti necessari ed evidenti si inferisce che tutti i diversi tipi o zone dell'ente implicano e proclamano l'esistenza di Dio. Se dunque ognuna di queste verità è indubitabile,‘e necessario che l'esistenza di Dio sia una verità indubitabile»?! Della terza via, che è quella ontologica Bonaventura cita varie Versioni, anzitutto la celeberrima formulazione anselmiana del Proslogion, basata sull'1'd quo maius cogitari nequit, poi la seguente formulazione agostiniana dei Soliloquz’: «Quanto maggiore e più universale ‘e una verità tanto è più nota; ma questa verità con la quale si dice che esiste il primo ente è la prima fra tutte 1c verità sia nell'ordine ontologico che in quello logico; perciò è necessario che essa stessa sia evidentissima e certissima».30 Infine Bonaventura aggiunge una formulazione personale che è la seguente: «Nessuno può ignorare che questa proposizione: l'ottimo e ottimo, sia vera, oppure pensare che sia falsa; ma l'ottimo è un ente completissimo ed ogni ente, per il fatto stesso di essere completissimo, è anche in atto; pertanto se l'ottimo è ottimo, l'ottimo è. Similmente si può argomentare: se Dio è Dio, Dio è; ma Pantecedente è vero a tal punto che non può essere pensato non esistente, pertanto l'esistenza di Dio è una verità indubìtabile>>.3‘ essenza.
—
-
-
ÌJESISTENZA DI DIO NELUITINERARIUM MI-ÎNTIS
IN
DEUM
La seconda via della Q. d. de mysterio Trinitatis è ripresa e notevolmenapprofondita nel capitolo terzo dellfitinerarium nzentis in Deum. L'ascesa a Dio presentata da Bonaventura nellîtinerario è la tipica ascesa (o navigazione) metafisica che dal mondo dell'esperienza conduce al mondo della trascendenza. Il passaggio decisivo è quello in cui si affronta la questione della consistenza dell'ente finito. Ecco il bel testo bonaventuriano: te
«Ogni definizione si fa con riferimento a dei termini superiori, e questi si definiscono con riferimento a termini più generali ancora, finché non si pervenga a quei principi supremi e generalissimi, ignorati i quali non possono essere intesi in maniera definitiva le cose inferiori. 29) 11nd,, 1, 29. 30) —lbid., 27. 31) Ibid., 29.
650
Parte seconda
Quindi, se
non
può
conosciuto,
mente la
si
essere
può conoscere pienaparticolare. Né l'ente per sé conosce le sue proprietà che sono: sé,
non conosce l'ente per nessuna sostanza
definizione di
se non
l'uno, il vero, il bene. Ora, potendosi l'ente pensare
si
si
come incompleto 0 come completo, imperfetto 0 come perfetto, come ente in potenza e come ente in atto, come ente sotto un aspetto particolare e come ente assoluto, come ente parziale e come ente totale, come ente transeunte e come come
ente
immanente, come ente condizionatoe come ente incondizionato, ente misto al non-ente e come ente puro, come ente dipendente
come
ente assoluto, come ente posteriore e come ente primo, come ente mutabile e come ente immutabile, come ente semplice e come "la privazione e il difetto non possono conoente composto, scersi se non per mezzo di ciò che è positivo", la nostra mente non e come
poiché
può pienamente intendere nessuno degli enti creati, senza servirsi della nozione dell'ente purissimo, attualissimo, completissimo e assoluto; il quale è l'ente semplicissimo ed eterno, in cui sono, nella loro purezza, le ragioni di tutte le cose. Come, infatti, il nostro intelletto potrebbe conoscere che questo ente è difettoso e incompleto se non avesse Conoscenza dell'ente assolutamente perfetto? Lo stesso vale per le altre condizionidell'essere già accennate>>.32
Come è agevole constatare Bonaventura non si accosta alle prove dell'esistenza di Dio con quella sensibilità critica che abbiamo incontrato in S. Tommaso (e che diventerà molto acuta nella filosofia moderna), che si preoccupa di distinguere tra argomentazioni valide e non valide. Praticamente, per Bonaventura, tutte le argomentazioni sono valide, perché non hanno valore probativo: non si propongono di dimostrare che Dio esiste, ma semplicemente di confermare ciò che è già risaputo da tutti. È verità assolutamente indubitabileche se Dio è Dio, egli non può non esistere. A questo riguardo sono assai pertinenti le seguenti osservazioni di E. Gilson:
«(Nell’elaborazione delle Vie) l'obiettivo di Bonaventura non è quello quattro o cinque prove convincenti a causa della loro
di costruire intrinseca
solidità, ma piuttosto di
mente attestato dalla natura che la
mostrare
sua
che Dio è così universal-
esistenza è
qualche cosa di evi-
dente e che c'è appena bisogno di dimostrarla. S. Tommaso insiste sul fatto che l'esistenza di Dio non è evidente; egli concentra quindi tutto il suo sforzo sulla scelta di uno o più punti di partenza privilegiati e sulla solidità dialettica della prova. Per contro S. Bonaventura insiste sul fatto che la natura tutta quanta proclama l'esistenza di Dio come una verità indubitabile,purché ci si dia soltanto la pena di guardarla;
32) Itin. 3, 3.
Borzaventura di
Bagnoregio
651
egli obbedisce quindi semplicemente al sentimento francescano della
presenza di Dio nella natura, allorché fa passare sotto i suoi occhi la
lunga serie delle creature di cui ciascuna grida a suo modo l'esistenza di DÌ0>>.33
Per Bonaventura l'esistenza di Dio è una tra le verità più evidenti. Se tutti non la percepiscono, ciò non dipende dal fattoche non sia conoscibile, ma dalla mancanza di considerazione da parte nostra. Ossia l'esistenza di Dio «non indiget proballone propter defectum evidentiae ex parte sua, sed propter defectum considerationis ex parte nostra». Pertanto le argomentazioni sono delle esercitazioni dell'intelletto piuttosto che «argomenti che danno l'evidenza e che manifestano la stessa Verità dimostrata (rationes dantes evidentiam et manzfestantes ipsum verum pr0batun1)».34 Data la natura dell'anima umana e della nostra mente essenzialmente legata all'essere e alla luce delle ragioni eterne la nozione di Dio diventa per Bonaventura una specie di idea innata. Non nel senso che sia tutta
formata e non richieda nessuno sforzo e nessuna riflessione da parte della nostra mente per essere conosciuta, ma nel senso che vi è tale e tanta luce nell'anima, per il fatto di essere Îflîflgl}Dei che facilmentepuò rendersi consapevole che non è possibileragionevolmente dubitare dell'esistenza di Dio; perciò scrive Bonaventura nello Hexaemeron: «L'essere divino infatti è il primo ad esser conosciuto (Esse enim divinum primum est quod zienit in mente)» (10, 6). Ed ancora in maniera più forte: «Perciò l'essere è ciò che per primo l'intelletto apprende (Esse igitur est quod prinro cadit in ÌHÌEÎÌECÌZJ)». E di ciò nessuno può dubitare. Spesso Bonaventura è stato presentato come un ontologista, e in quanto condivide in pieno l'argomento anselmiano lo è certamente. Ma i suoi argomenti preferiti nella Q. d. De mi/sterio Trinitatis e nelfitinerarium sono quelli tratti dalla presenza di Dio nell'anima e nella natura. Perciò, più che un ontologista Bonaventura è un intuizionista. L'occhio della nostra mente è fatto per vedere Dio, ed è una strana cecità quella che affligge l'intelletto che non riesce a percepire Dio: «È perciò sorprendente quella cecità dell'intelletto che non considera ciò che vede per primo e senza il quale non può conoscere alcunché. Ma come l'occhio che guarda le varie differenze dei colori non vede la luce, e se la vede non la percepisce, così l'occhio della nostra mente, rivolto agli enti particolari e universali, tuttavia non si accorge dello stesso essere al di fuori di ogni genere, benché per primo si presenti alla mente e attraverso di esso si presentino anche le altre cose».35
33) 34) 35)
E. GILsoN, La philosophie... cit., p. 107. De myst. Trirzit. 1, 1, ad 11. ltin. 5, 4.
652
Parte seconda
(si est), Bonaventura (quid est) e 1’affronta con quello spirito neoplatonico-agostiniano-dionisianoche caratterizza tutto il suo pensiero. E cosi egli confessa ripetutamente Pimpotenza della mente umana di fronte al mistero di Dio: di Lui noi possiamo formarci soltanto dei concetti negativi. La realtà di Dio, per difetto e limitaMessa al sicuro la verità della esistenza di Dio passa ad esaminare la questione della sua natura
zione della nostra intelligenza, ci resta totalmente ineffabile. Essa è conosciuta solo da Dio, che è perfetta autocoscienza, o pensiero di se stesso come diceva Aristotele: «Per perfectanz comprehensionem seu per perfectam expressionem (...). Deus sibi soli est intelligibilis, sicut sibi soli est efiabilis et nominabilismàîPer cui, mentre ci è massimamente chiara la sua esistenza, ci è massimamente nascosta la sua essenza: «maxime n05 latet quid est, sed tamen maxime patet si est».37 A tale imperfetta conoscenza noi perveniamo attraverso le creature: «non cognoscimus Deum nisi per creaturas»,38 le quali conducono a Dio per nwdunz umbme, per modunz vestigii e per modum secondo la diverdella loro Naturalmente entità. sa perfezione non tutto ciò che troviamo nelle creature lo possiamo attribuire a Dio nella stessa maniera, perché a lui non possiamo attribuire le imperfezioni, le limitazioni, la materialità, la corporeità, la composizione. Tutte queste imperfezioni creaturali vanno semplicemente rimosse da Dio. Essendo Egli l'essere perfettissimo, a lui dobbiamo attribuire solo le perfezioni delle creature, come la sapienza, la bontà, la bellezza, l'essere, la potenza e tutte le altre, ma senza le limitazioni che esse hanno nelle creature. Le dobbiamo quindi attribuire a Dio in maniera eccellentissima. Si hanno così tre modi di conoscere ciò che è Dio attraverso le creature: il modus causalitatis, il modus ablationis e il nzodus superexcellentiae. Quindi Bonaventura scrive lapidariamcnte: «Deus innotescit nobis tripliciter, scilicet per causalitutem, per ablutionem et per excellentiam (conosciamo Dio in tre modi, cioè per causalità, per negazione e per eminenza)».39 Sono i tre grandi momenti della conoscenza analogica egregiamente illustrati dallo Pseudo-Dionigi nel De divinis nominibizs. I titoli più belli (e le perfezioni più pregiate) che noi assegnìamo a Dio sono quelli ricavati attraverso la via eminenziale. Bonaventura ce ne dà un saggio neIYItinerarium esaminando il concetto di essere, plesso di ogni altro concetto e radice di ogni altra perfezione. Ecco alcuni brani di queste pagine stupende:
imaginis,
36) 1 Sent. 22, 1, concl. 37) 11nd,, s, 1, 1, 2 ad 4. 38) una, 22,3, concl. ad 2. 39) fbiti,2 concl.
Bonaventura di Bagnoregio
«...
L'essere
653
dunque che è essere puro, essere semplice ed essere asso-
luto, è l'essere primario, eterno, semplicissimo, attualissimo, perfettissimo e sommamente uno (|rv)w Lo stesso essere è primo e ultimo, eterno e presentissimo, è semplicissimo e massimo, è attualissimo e immutabilissimo;è perfettìssimo e immenso, è sommamente uno e tuttavia immensamente Vario
Parte seconda
654
idee porta a negare la provvidenza e ad introdurre quella necessità ”fatale” di cui parlano infatti gli interpreti arabi di Aristotele: ‘e tolta così la finalità dell'universo ed ‘e negata la libertà umana.“ Di qui l'importanza che Bonaventura annette all’esemp1arismo divino. In Dio ci sono le idee, ossia i modelli, le similitudini di tutte le cose.” E spiega in che modo le
idee divine
sono
similitudini delle cose,
distinguendo tra
due forme di
similitudine: una importa la Convenienza di due cose a una terza, la seconda dice somiglianza di una cosa rispetto a un'altra. Ma questa seconda forma di somiglianza si può realizzare in due modi: imitative, e cosi la creatura è similitudine del Creatore, oppure eserrzplatizio, e questo è il caso della somiglianza delle cose rispetto alle idee divine. Dal carattere esemplare di cui sono dotate le idee divine, Bonaventura ricava la conclusione che l'intelletto divino conosce tutte le cose. Ecco il passo più interessante al riguardo: «Il divino intelletto, in virtù della sua somma verità, esprimendo eternamente tutte le cose, possiede in se stesso le similitudini esemplari di tutte le cose, le quali similitudini non sono qualcosa di diverso da lui, ma sono essenzialmente ciò che è egli stesso. Inoltre, poiché è somma luce ed atto puro, perciò l'intelletto divino esprime le cose con somma lucidità, espressività e perfezione, e perciò senza alcuna diminuzione dell'uguaglianza e della intenzionalità proprie della similitudine! Onde segue che l'intelletto divino conosce ogni cosa con la massima perfezione, distinzione e integrità (...). E da ritenere che Dio senza dubbio conosce le cose, che le conosce in se stesso, che le conosce in se stesso come similitudine e che quella similitudine, per la quale conosce, non ‘e una similitudine ricevuta dal di fuori, né una similitudinedovuta alla convenienza a una terza natura; ma quella similitudine non è altro che la verità espressiva. Dire, quindi, che Dio conosce tutte le cose in se stesso, in quanto similitudine, non è altro che dire che Dio conosce le cose in se stesso, in quanto è verità o luce somma esprimente le altre cose. E poiché la divina verità è potentissima ad esprimere totalmente tutte le cose, perciò Dio conosce in se stesso, come verità esprimente, le cose tutte e t0talmente».43
Senonché
a
questo punto
nasce un
problema. Infatti il quadro della
realtà è molto vario: esso include cose buone e cose cattive, cose passate future, Cose possibiliche non accadranno mai, cose contingenti e cose necessarie. Uinterrogativo è: Dio le conosce tutte allo stesso modo 0 ci sono in Dio varie forme di conoscenza?
e cose
41) 43) 43)
Cf. C011. in Hexacm. 6, nn. 2-5. Cf. De scientia Chrisfi q. 2 concl. De scientia Christi qq. 2-3.
Bonaverztura di Bagnoregio
655
Assumendo Vesemplarità come ragione della conoscenza delle cose, Bonaventura è costretto a distinguere in Dio tre forme di conoscenza: di ZÌÎSÌOHC, di approvazione e di intelligenza.‘
«Triplice è il modo di conoscere divino, non per la diversità della scienza in se stessa, ma in relazione alle cose conosciute. Vi è infatti, in Dio la cognizione di approvazione, di visione e di intelligenza. La cognizione di approvazione è propria dei beni e delle cose finite. La cognizione di visione è propria solo dei mali e dei beni in quanto essi sono finiti per ciò che riguarda il tempo, in quanto cioè essi furono, sono e saranno. La terza cognizione riguarda le cose infinite, in
quanto Dio intende non soltanto le cose future ma anche le cose possibili;e le cose che sono possibilia Dio non sono finite bensìinfinite».44
Il passaggio dal mondo ideale dei modelli al mondo reale delle cose avviene per opera della potenza di Dio e ancor più della sua volontà. ll flusso delle cose da Dio non è un flusso automatico, meccanico ma è causato da una libera scelta, e questa appartiene alla Volontà. La potenza può molte cose e ne contiene di più di quante ne realizzi, e in se stessa non contiene la ragione della scelta da effettuare tra ciò che porta all'attuazione e ciò che lascia irrealizzato. La scienza, da parte sua conosce tutte le possibilità, rna non è essa a conferire la realtà alle possibilità. Tutto ciò che è reale lo diviene mediante l'efficacia della volontà: solo essa è cocstcnsiva a tutto ciò che possiede l'essere, e nulla si può scoprire nell'ambito del reale che non debba ad essa la sua realtà o, al di fuori di tale ambito, che essa sia stata impotente a realizzare. È dunque alla Volontà che appartiene il privilegio di far passare i possibili all'essere, mentre scienza e potenza non partecipano alla causalità efficiente che per il tramite della volontà: «Nella volontà si trova innanzitutto il carattere dell'attualità. Infatti la potenza e la scienza, anche se hanno carattere di cause abituali, tuttavia non sono attuali se non attraverso la volontà. Per cui la volontà fa della scienza una disposizione, cioè fa in modo che la scienza disponga e sia una potenza esecutrice (In voluntate prima invenitur ratio actualitatis. Potentia enim et scientia, etsi habeant rationem causae habitualis, non tanzen actualis nisi per voluntatem. Umile voluntas facit de scientia dispositionem, sive facit scientiam esse disponentem et potentiam exsequentembflî? La volontà divina non agisce arbitrariamente, ma secondo i criteri del bene, che corrispondono ai criteri del fine, che sono noti allîntelletto.
44) Ilari,q. 1 resp. 45) ISent. 45, 2, 1, 4 ad 2.
656
Parte seconda
Affinché la volontà intervenga, è necessario che la fecondità del bene entri in contatto con la sua finalità, e questo contatto si stabilisce nel momento in cui il bene, prendendo coscienza del suo contenuto totale, al di fuori di se stestrova nella sua perfezione la ragione di fecondità. le della secondo sua proprio a questo punto so, esigenze che sorge la volontà divina, riflessione del bene su se stesso, congiunzione immanente di tutto ciò che esso contiene di fecondo, con ciò che ha di desiderabile: «la volontà è l'atto secondo il quale il bene riflette sopra se stesso Cioè la bontà; perciò la volontà unisce l'effettivo con il fine (volumtas est actus secundum quem bonum reflectitur supra bonum sive bonitatent; ergo voluntas unit efiectivum cum fine)».45 La sequenza delle facoltà e delle operazioni in Dio non è diversa da quella che c'è nell'uomo: prima viene l'intelletto, poi la volontà. Per questo motivo Gilson esclude che se per Volontarismo si intende il primato della volontà sull'intelletto, si possa designare Bonaventura come volontarista. «Per san Bonaventura non c'è in Dio che un solo primato, quello di Dio stesso. Alla sorgente e alla radice di tutto c'è 1'Essere, oceano infinito di sostanza, ed è sulla ricchezza originaria di questo Essere che si innesta immediatamente l'atto mediante il quale egli si conosce e si vuole, conosce le cose e vuole le cose. Qualsiasi altra interpretazione del suo pensiero rischierebbe inevitabilmentedi falsarlo>>.47 Al quesito se ciò che Dio ha creato sia il migliore dei mondi possibili, Bonaventura risponde negativamente: la potenza di Dio è infinita e può sempre produrre mondi migliori di quello che ha già realizzato. Dio ha creato il mondo attuale perché l'ha voluto e lui solo ne conosce la ragione. Noi sappiamo che ciò che egli ha donato l'ha donato del tutto gratuitamente, in un atto di bontà che non può dar luogo al sospetto di qualche invidia. Il resto rimane un suo segreto: «e perciò tale questione è irrazionale, e non si può dare come soluzione se non questa, che lo ha voluto e lui stesso ne conosce la ragione (et idea talis quaestio est irrationalis, et solutio non potest dari nisi haec, quia voluit et rationenz ipse n0vit)».48
dispiegarsi
La creazione del mondo Con tutti i metafisici cristiani Bonaventura insegna che il mondo ha origine per creazione, e respinge la teoria della emanazione tanto cara ai neoplatonici greci ed arabi.
45) lbid, 45, 2, 1 concl. 47) E. GILSON, La philosophie...cit, p. 149. 48) 1 Seni. 44, 1,1 concl.
Bonaventum di
Bagrzoregio
657
Per meglio chiarire il concetto di creazione ex nihilo il Dottore Serafico passa in rassegna il pensiero degli antichi filosofi circa l'origine del mondo, dagli ionici agli aristotelici, ne fa Vedere le difficoltà, e conclude che il mondo è stato creato integralmente anche nei suoi principi intrinseci, costitutivi dell’essere finito. Ecco un passo significativo su questo punto: «Bisogna ammettere che questa è la verità: il mondo è stato prodotto nel suo essere, non solo secondo la sua totalità, ma anche secondo i suoi principi intrinseci, i quali non da altri principi, ma dal nulla sono stati prodotti. Ma questa verità, benché ora sia chiara e senza difficoltà per ogni fedele, tuttavia restò nascosta alla saggezza della filosofia, la quale per lungo tempo camminò fuori strada nella ricerca della soluzione alla questione sulla origine del mondo».49 Dopo aver chiarito il concetto di creatio ex nihilo, Bonaventura si chiede se è possibile ritenere che il mondo sia stato creato ab aeterno. Alla quale domanda, a differenza di S. Tommaso, risponde negativamente. Ecco le sue testuali parole:
«Bisogna dire che ritenere che il mondo sia eterno, ossia eternamente prodotto e ritenere che tutte le cose siano state prodotte dal nulla (ex nihilo), è semplicemente contrario alla verità e alla ragione (contra veritatenz et rationenz), ed è talmente contro la ragione che non crederci che qualche filosofo, per quanto di corta intelligenza, l'abbia ammesso>>fi° «È impossibile che ciò che ha l'essere dopo il non essere abbia un essere eterno, perché vi è unflmplicita contraddizione; ma il mondo ha l'essere dopo il non essere; quindi è impossibileche sia eterno. Che abbia l'essere dopo il non essere si prova in questo modo: ciò che riceve totalmente l'essere da qualcuno, è da questo prodotto ex nihilo; ma il mondo il suo essere lo ha totalmente da Dio, perciò il mondo è prodotto ex nihilo. Non dal nulla materialmente ma originariamente inteso. E che tutto ciò che è totalmente prodotto da uno che ha un'essenza differente, ha l'essere dal nulla, è chiaro, perché ciò che è prodotto totalmente, è prodotto secondo la materia e la forma, e siccome la materia non può essere tratta da un altro soggetto preesistente, né da Dio, è perciò manifesto che e prodotta dal nulla».51 Un'altra dottrina molto in voga tra i filosofi arabi era quella degli intermediari. Appellandosi al principio "ex uno nonnisi unum”, dall'Uno essi facevano procedere immediatamente soltanto la prima Intelligenza e successivamente tutte le altre fino alla decima, quindi l'anima del mondo e alla fine il mondo materiale. Tutti i metafisici cristiani avevano
49) Il Sent. 1, 1, 1, 1 concl. 50) lbid., 1, 1, 2. s1) Ibid.
Parte seconda
658
respinto questa posizione. Bonaventura la trova insostenibile per duc ragioni. 1) «Perché non si può capire come un agente di potenza finita
nihilo. Né credo che qualcuno dei filosofi la ragione della semplicità di Dio non Perché l'abbia s0stenuto».5= 2) regge; è vero anzi il contrario, «infatti quanto più un principio è sempli-
possa
produrre
ce, tanto
un essere ex
più è potente; e quanto più è potente,
tante
più cose può
pro-
durre. Onde, se Dio è un principio semplicissimo, per ciò stesso può tutto senza alcun intermediarionfl Altre dottrine caratteristiche della metafisica bonaventuriana e generalmente condivise da tutta la scuola francescana sono Yilemorfismo universale, la pluralità delle forme e le ragioni seminali. Sull’esempio di Ibn Gabirol Bonavcntura considera la materia come l'elemento costitutivo di tutti gli enti finiti e soggetti a cambiamento, inclusi gli angeli (ilemorfismo universale). I puri spiriti o angeli, a suo parere, non sono composti soltanto di sostanza e accidenti, di atto e potenza, di essenza ed esistenza, ma anche di materia e forma. Ecco il suo
ragionamento:
«Vi è dubbio sulla composizione di materia e forma o dell'elemento materiale e formale. Alcuni vollero dire che tale composizione è da escludersi nell'angolo e che vi sono solo le composizioni sopra nominate. Ma poiché, come è già stato dimostrato, nelYangelo vi è la ragione della mutabilità, non solo verso il non essere, ma anche secondo le diverse proprietà, vi è anche la ragione della possibilità, ed inoltre la ragione della individuazione e limitazione, ed infine la ragione dell'essenziale composizione secondo la propria natura, non vedo la causa né la ragione di poter difendere che la sostanza angelica, e l'essenza di ogni creatura esistente, non sia composta da diverse nature. E se è composta da diverse nature, quelle due nature stanno tra loro come ciò che ‘e attuale e potenziale, e perciò come la materia e la forma. Perciò quella soluzione che ammette nelfangelo la composizione di materia e forma sembra la più vera».54
Come risulta anche dal testo qui citato Bonaventura non concepisce la materia tanto come principio della corporeità quanto come principio della finitudine e della potenzialità. «La materia considerata in se stessa scrive lo stesso Bonaventura non è né materiale né spirituale», ma è -
—
semplicemente principio di potenzialità.
52) Ibid, 1, 1, 2, 2. 53) lbid. 54) lbid., 3, 1, 1, l concl.
Bonaventura di
Bagnoregio
659
L'individuazione non è dovuta alla materia soltanto, ma alla materia e alla forma. Infatti perché ci sia distinzione e molteplicità non basta la materia, occorre anche la forma. L'individuazione (discretio personnlis) è dovuta all'unione della materia con la forma. C'è individuazione anche negli angeli. Vi sono quindi molti angeli della stessa specie. Ogni grado di realtà è determinato da una forma speciale. Un essere che include vari gradi di realtà, come l'uomo, è costituito dalla presenza di molte forme. Così nell'uomo c'e una forma per la corporeità, una per la vita, una per la sensibilitàe una per la razionalità. Da Agostino Bonaventura riprende la teoria delle rationes seminales. Questa a suo avviso, è una dottrina che è necessario sostenere se si vuole intendere rettamente l'affermazione biblica: «Deus simul omnia creavit». Sin dall'inizio Dio ha fatto tutte le cose, ma alcune in modo completo, altre soltanto in germe. I germi delle cose sono contenuti nella materia e si sviluppano (educuntur in actum) sotto l'impulso di qualche agente. S. Bonaventura chiama questa presenza dei germi delle cose nella materia «Iatitatioformarum in nzateria».
L'uomo, icona di Dio Mentre Dio, se considerato in chiave eSefflplfirlfilîlCfl,‘e Yarchetipo dell'universo, l'uomo, letto nella stessa chiave, è l'icona (imagu) principale
quella di Bonaventura è essenzialmente unìîntropologia iconica. Bonaventura analizza con compiaciuta curiosità i tanti aspetti o gradi in cui l'essere umano presenta delle similitudini con l'essere divino, a partire dal grado più basso del semplice vesttgium fino a quello più elevato della conformitas expressa, o expressa sinzilitudo. L'uomo ha in comune con tutte le altre creature la rassomiglianza indeterminata del tipo causa-effetto, che è la somiglianza indicata dal termine vestigium. Ma ha in più una rassomiglianza più spiccata in quanto la sua struttura interiore è paragonabilea quella della Trinità, di cui può essere considerata una somiglianza manifesta (expressa sinzilitudo). «Ogni creatura detiene qualche rapporto per cui si conforma in qualche modo a Dio in quanto causa delle creature: tale è il rapporto dell'effetto con la sua causa. Questo rapporto di Dio con le sue creature è simile anche se non eguale, a quello dell'agente creato con i suoi effetti. Però la creatura ragionevole non rassomiglia a Dio solo per questo motivo, ma anche per l'origine, l'ordine e la distinzione delle sue facoltà interiori (intrinsecamm potentiarum), rispetto alle quali essa risulta simile alla distinzione e all'ordine che si registra nelle tre persone divine. Ed è in questo, come ha mostrato Agostino, che consiste il suo essere immagine di Dio. In effetti
660
Parte seconda
di Dio (imaginem Dei)».55 «L'uomo rappresenta Dio rispetto a quell'atto nobilissimo che è il conoscere; infatti non rappresenta Dio soltanto in quanto ente e in quanto vivente, ma anche in quanto intelligente, e in più rappresenta l'ordine e la distinzione che ci sono tra le persone divine, mediante la memoria, l'intelletto e la volontà. E così l'uomo è veramente
immagine di Dio».5b
Però l'image Dei, osserva Bonaventura, non è il risultato automatico della struttura ontica interiore dell'uomo. Tale struttura lo rende capace della imago Dei ma non lo costituisce già di fatto simile a Dio. Come per Agostino anche per Bonaventura l'attuazione della imago Dei si ottiene quando l'uomo diviene consapevole della sua rassomiglianza con Dio e si comporta nella maniera conveniente, ossia quando rivolge la sua attenzione e il suo amore a Dio. «Quando invece si rivolge alle creature inferiori, egli si rende simile a cose in cui non è presente Vimago Dei ma soltanto un vestigium. Pertanto le potenze dell'anima, nella misura in cui hanno per oggetto cose inferiori, recedono dalla ragione di immagine in quanto mancano della conformità esplicita (conformitate expressa)».57 Vera e propria intrigo Dei si dà quindi soltanto in colui che è consapevole di essere una partecipazione dell'essere divin0.58 Stabilite su basi razionali, oltre che rivelate, l'origine, la natura e l'estensione delfimago Dei, Bonaventura ne segue le sorti attraverso la storia della salvezza, la quale è essenzialmente la storia della costituzione, della deformazione e della restaurazione della imago Dei. La deformazione fu causata dalla superbia dei progenitori. Invece la restaurazione voluta da tutt'e tre le Persone divine di fatto è stata operata mediante l'incarnazione della seconda (che è anche l'image Dei connaturalis et consustantialis) in Gesù di Nazareth, il quale, in tal modo diviene anche l'esemplare, il modello, il prototipo che ogni uomo deve seguire al fine di realizzare pienamente in se stesso Yimago Dei.” In quanto icona di Dio, all'uomo compete una singolare dignità nel mondo delle creature. Bonaventura accenna spesso a tale dignità della persona umana, alla funzione centrale che essa occupa nell'economia della creazione. L'uomo esplica una medietà (centralità) nel creato. Il mondo creato prima della sua venuta era senza significato. Vagava nei cieli sconfinati, fioriva nella gioiosa primavera dell'infanzia, ma un silenzio di tomba gravava sulla creazione. Non una voce si elevava a —
-
55) Ibid, 16, 1, l. 56) Ibid. 57') 15cm. 3, 2, 1, 2. 58) Cf. II Sent. 16, 1, 1. 59) Cf. I Sent. 31, 2, 1.
Bonaventura di
Bagnoregio
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Dio creatore, non un occhio abbracciava con uno sguardo d'amore la sua opera. Venne l'uomo e venne anche il pensiero. Il mondo acquistò un significato, ebbe una Voce. Le creature inferiori vennero così ordinate e subordinate all'uomo perché servissero a lui e perché attraverso l'uomo venissero indirizzatc al fine ultimo della creazione, Dio. L'uomo compendia in sé tutto l'universo. Lo compendia in una maniera meravigliosa in quanto lo Conosce e in quanto lo ricrea in se stesso. «Poiché la creatura ragionevole mediante l'intelletto è in certo qual modo ogni cosa e poiché tutte le cose sono atte a esservi inscritte e tutte le immagini a esservi dipinte, ne consegue che come tutto l'universo rappresenta Dio
mediante qualche qualità sensibile, analogamente la creatura ragionevole lo rappresenta mediante qualche qualità spirituale; ma mentre qualsiasi altra creatura irrazionale rappresenta Dio soltanto parzialmente, l'uomo L0 rappresenta interamente>>fi°L'essere uomo creato a immagine di Dio, comporta tutto ciò; ma in questa mediazione universale è tipico dell'uomo fungere da voce di tutto il creato: è lui che raccoglie il pensiero inespresso delle creature tutte e che completa la creazionefll
Conclusione Che valore ha la metafisica di S. Bonaventura? Se la si riduce a quell'insieme di dottrine che ricalcano più o meno da vicino le tematiche della metafisica platonica ed aristotelica, il suo apporto alla storia della metafisica è decisamente modesto e si qualifica più per i severi giudizi negativi pronunciati nei confronti di una metafisica costruita con i criteri della pura ragione che per la elaborazione di un solido edificio metafisico. Quella che Bonaventura ha inteso costruire non ‘e affatto una metafisica della pura ragione ma una metafisica teologale e mistica. La sua ricerca (itinerarium) è metafisica in quanto è una possente e appassionata navigazione verso il Trascendente, Dio: un itinerario compiuto con tutte le forze dell'uomo, sia quelle della ragione che quelle del cuore, sia quelle naturali che quelle soprannaturali. È la navigazione di tutto l'uomo, dell'uomo credente, dell'uomo cristificato. Così Bonaventura costruisce il più perfetto modello di una metafisica mistica, che si distingue netta-
precedenti paradigmi enologici e ontologici. Essa è insieme ontologica ed enologica, ma questi due elementi sono sussunti e trasferiti a un livello superiore dall’elemento teologale. mente dai
5°) Ibid., 16, 1, 2. m) Cf. Il Sent. 16, l, l. Per una più ampia e approfondita esposizione della dottrina bonaventurianasull'uomo vedi E. GILSON, La philosophie...cit., pp. 254-273.
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Parte seconda
È la cosmovisione mistica che costituisce la novitas bonaventurfana ed è questa la grande eredità che il Dottore Serafico ha trasmesso ai posteri. Dopo Bonaventura tutta una serie di pensatori ha cercato di approfondire e sviluppare i suoi principi metafisici. Matteo dfiàcquasparta, Giovanni Peckham, Eustachio d'Arras, Guglielmo de la Mare, Giovanni Olivi subiscono in Vario grado il suo influsso e preparano le nuove sintesi dottrinali del secolo XIV, ma soprattutto rimane influenzato Duns
Scoto che ha cercato di dare un'espressione più rigorosa al pensiero bonaventuriano. L’intera opera di Raimondo Lullo risulta completamente inintelligibilese si fa astrazione dal simbolismo di S. Bonaventura. Attraverso Gerson questo influsso dottrinale si estende alla spiritualità moderna. Ormai essa penetra, occupandola per secoli, la coscienza cristiana. Come attesta Gilson, «non sarà assurdo cercare se ciò che oggi viene chiamata scuola francese in materia di spiritualità non tragga origine in parte dalla scuola francescana di spirito bonaventuriano. La storia dell’influsso esercitato dalla dottrina di san Bonaventura è attualmente impossibile, ma il poco che si conosce permette dfiaffermare senza timore d'errare che essa fu di una straordinaria fecondità».62
63)
E. GILSON, La philoscvpfiie... cit., p. 393.
Bonaventura di Bagnoregio
663
Suggerimenti bibliografici Opere: Opera onmia, edita studio et cura PI’. Collegiì a S. Bonaventura 11 volL, Ad cIaras Aquas 1882-1902; Opuscoli mistici, ed. Gemelli, Milano 1957; Il principio della conoscenza. De humanae cognitionis suprema ratione. Il maestro interiore. Christus unus omnium magister, ed. Muzio, Roma 1966; Itinerario della mente in Dio e Riduzione delle arti alla teologia, ed. Martignoni, Bologna 1969; Lascesa a Dio. Itinerariurn nzentis in Deum, introduzione e note di E. Bettoni, Milano 1974; Antologia del pensierofilosofico di S. Bonaventura (1274-1974), a cura di A. Coccia, Roma 1975. Studi: C. BÉRUBE, De la et
philosophie a
la sagesse chez saint Bonaoenture
Roger Bacon, Roma 1976; E. BETFONI, S. Bonaventura da Bagnoregio.
Gli aspetti filosofici del suo pensiero, Milano 1973; G. J. BOUGEROL, Introduction à lfiétude de Saint Bonaventure, Tournai 1961; F. CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Bari 1980; E. DEL R10, (a cura di), San Bonaventura da Bagnoregio, Roma 1973; E. GILSON, La philosophie de saint Bonaventure, Paris 1943 (ristampa: 1978); L. MAURO, Bonaoentura da Bagnoregio. Dalla «Philosophia» alla «Contempzatjo», Genova 1976; S. VANNI ROVIGHI, San Bonaoentura, Milano 1974; ID., Studi di filosofia medioevale, ool. Il: Secoli XIII e XIV, Milano 1978, pp. 40-71.
664
GIOVANNI DUNS SCOTO
Con Giovanni Duns Scoto arriviamo all'ultimo grande esponente della metafisica cristiana. Senzadubbit) inferiore a S. Tommaso, ma superiore a S. Bonaventura, Duns Scoto è il massimo rappresentante
della scuola francescana.
"sintesi metafisica” di Duns Scoto, oppure se ne esicostituisce la visione globale del mondo che gli fu sola sintesi La completa che Duns Scoto abbia concepita è propria. una sintesi teologica, al centro della quale si colloca l'affermazione di S. Giovanni: Dcus caritas est (I G114, 16)».1
«Non esiste ste una,
una
essa non
«Duns Scoto avrebbe potuto, come si fa oggi giorno, elaborare innanzi tutto una metafisica, poi utilizzarlanella teologia. Egli non l'ha fatto, e non pare nemmeno che vi abbia pensato, eccettuato il caso della logica. Lo si Vede dunque introdurre le tesi metafisiche nel momento in cui il teologo ne ha bisogno per l'intelligenza della fede,
giudica opportuno farne uso. Anche Verità filosofica quella che egli perseappella, verità bensì una teologica»? gue,
c
richiamarle ogni volta che
quando vi si
non è
una
Questi giudizi del Gilson, che è il più grande studioso di Duns Scoto del nostro secolo, e che gli ha dedicato una delle sue migliori mono-
grafie, credo che non possano essere messi in discussione da nessuno‘
Questo però non ci impedisce di affermare che Duns Scoto oltre che un eminente teologo è stato anche un eccellente metafisico, e che è stato
capace di immettere nel suo imponente edificio teologico anche le più avanzate acquisizioni della metafisica cristiana.‘ Dai tempi di Porfirio e di Proclo lo sforzo di molti filosofi era stato inteso a creare una sintesi tra platonismo e aristotelismo. Avicenna c'era riuscito meglio di qualsiasi altro. Ispirandosi al filosofo arabo e citando10 continuamente, Duns Scoto persegue un obiettivo analogo: creare una grande sintesi tra agostinismo ed aristotelismo.‘
1) 2)
E. GILSON, jean Duns Scotus. Introducfion à p. 339. Ibid., p. 635.
ses
positions fondamentalcs, Paris 1952,
e
.
Giovanni Duns Scoto
665
quella di Duns Scotog è una metafisica cristiana, sotto molti aspetti alternativa a quella di S. Tommaso, più sottile nei ragionamenti ma per questo anche più oscura; più sensibilealla storia e all'individuo Anche
ma
anche meno ordinata e
meno
sistematica. Scoto è il massimo rappreinglese; erede allo stesso tempo dello
sentante della scuola francescana
spirito mistico di S. Francesco e S. ‘Bonaventura e del gusto della scientia experimentalis di Roberto Grossatesta e di Ruggero Bacone. Vita
da
Giovanni nacque in Scozia Verso il 1266 un nobileproprietario terriero del villaggio di Ùuns. All'età di '13 anni entrò nell’Ordine Francescano; trascorse il decennio tra la fine del noviziato e l'ordinazione sacerdotale (1281-1291) studiando non solo a Oxford, come si presumeva fino a poco tempo fa, ma in vari altri luoghi, specialmente allîarigi. Qui completò la sua formazione scientifica e filosofica, studiandole materie del triyio e del quadrivio. A Parigi tornò nuovamente dopo l'ordinazione sacerdotale (1291) per perfezionare la propria cultura teologica e per prepararsi al conseguimento del titolo di magister theologine. Fu baccelliere biblico verso il 1296-1297, e baccelliere sentenziario nei due anni successivi. Nel 1299 venne richiamato in Inghilterra per Cornmentare le Senterîze di Pier Lombardo nelle università di Oxford e di Cambridge. ll commento di Oxford è detto Lecturaprima (o anche Opus oxoniense o Ordinatio oxoniensis), quello di Cambridge Reportatio Cambrigensîs. Nel 1301 Scoto è di nuovo a Parigi, ove tiene lezione commentando nuovamente le Sentenze. Questo terzo commento è chiamato Reportam parisiensia. Durante il conflitto tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello Scoto si schierò apertamente a favore del primo: ciò scatenò la rappresaglia del re, il quale gli impose di interrompere l'insegnamento e di rientrare in Inghilterra. Tornato a Oxford vi insegnò nell'anno scolastico 1303-1304. Nel 1308, dopo un altro breve soggiorno a Parigi, venne inviato dai suoi superiori allo studentato francescano di Colonia. Ma a pochi mesi dal suo arrivo, nello stesso anno 1308, morì: aveva appena compiuto 43 anni.
Opere Se si tiene conto della brevità della vita di Duns Scoto, la sua produprodigioso. Essa comprende, nella famosa edizione Vivès, 26 volumi in folio. Per la massima parte è costituita dai tre commenti alle Sentenze di cui si è detto sopra: Opus oxoniense (0 Ordinatio
zione letteraria ha del
666
Parte seconda
oxoniensis), Reportatio cambrigensis e Reportata parisiensia. Scoto ha comanche alcuni scritti di Aristotele, e precisamente: In duos libros Perihermerxeias; In Iibros Elenchorzim Aristotelis quaestiones; In librum
mentato
Praedicamentorum quaesfioncs; In librus Metaphysicorum Aristotelis expositiv textualis. Fondamentale il suo opuscolo di metafisica De printo principio, un'opera impareggiabile«per rigore, sistematicità e robustezza teoretica» (A. POPPI). Da non dimenticare infine il Quodlibetum, l'ultima opera di Scoto. L0 studio delle 21 questioni di cui si compone questo scritto riesce utilissimo anche perché le dottrine vi sono esposte «con maggior chiarezza, con metodo più facilee con argomenti più solidi» (WADDINGO). L'opera principale di Scoto è senza dubbio l’Opus oxoniense, che consta, sempre nella edizione Vivès, di ben 14 volumi e che è considerato il suo capolavoro. Questo scritto non è un frutto immediato dell'insegna-
mento, bensì un lavoro sistematico che egli andava man mano componendo e ordinando e nel quale raccoglieva il meglio delle sue lezioni, dando prova della Vitalità del suo pensiero.
Il momento storico
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7 i ì ‘7
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Giovanm’ Duns Scoto
possibiles aliae virtutes,
667
nisi acquisitac vel innatae); non c'e più posto per l'umiltà cristiana che consiste nel celare i propri meriti, né per la mortificazione che rende più triste l'esistenza. In breve, è tutto lo stile di Vita "laico", non cristiano dei filosofi greci ed arabi (Avicennae Averroè) che
668
Parte seconda
ha chiesto ai dogmi la sua metafisica, né le sue tesi filosofiche possono considerarsi un corollario dedotto dalle verità rivelate. Sarebbe tuttavia un errore pensare che questa filosofia sia stata elaborata indipendentemente dalle verità rivelate e senza nessun rapporto alle loro formule. Non è senza significato notare che Duns Scoto elabora la sua teoria sulla forma di corporeità soprattutto là dove parla del mistero della S8. Eucaristia, e le famose teskigsullîinivfiocxità dell'ente e sulla distinzione formale là dove dimostra l'esistenza di Dio e studia il mistero della S5. Trinità») Gilson ha detto giustamente che «i veri filosofi scolastici saranno sempre dei teologi» e questo vale tanto per i tomisti, quanto per gli scotisti. Il Dottorfàottìle è questo il titolo con cui Scoto viene ricordato), come in scolastici, ha creato la sua metafisica nello sforzo cli comdella fede, di formarsi un intellectus fidez’. i misteri prendere E come controprova di aver raggiunto o no questo intcllectus fidei, utilizzava il Magistero della Chiesa. Dice infatti: «Se vengono proposte alcune nuove verità (...) non si è tenuti ad assentire, ma prima bisogna consultare la Chiesa e così evitare l'errore (Si aliqua de novo proponuntur (...) non tenetur quis assentìre, sed prius tenetur consulere Ecclesiam et sic errorem vitare)».4 Ed il motto costante del suo pensiero era: «Bisogna sentire come sente la Chiesa Romana (Sentiendunz est (...) sicut sentit Romana Ecclesia)».5 Filosofare nella fede e in armonia con il Magistero è il procedimento seguito costantemente dal Dottore Sottile. Dalla fede ha tratto origine la sua segreta forza ispiratrice, e della parola di Dio ha fatto il campo delle sue attente riflessioni. Di fronte ai problemi dell'essere in genere e dell'esistenza umana in particolare il suo pensiero si trova sempre a dover sceglierefrafiue chiavi di lettura alternative: una offerta dall'ambito delle; ragione, ‘manifestata dal mondo pagano, espressione di_un_pa_r_t_igoLarestile esistenziale, e l'altra dell'orizzonte sapienziale del mondo cristiaiîoîìîli cui viene sottolineata la razionalitàtegretica, insieme-alla coereflefiza e alla profondità della visìonîîîsuotlpensiero storicamente si_coL-.. fides quaemal quadri) della_t_radizione «v Vloca arricchito datteirrtuizioni mistico-speculative di rens S. Francesco_ e S. Bonaventura. La sua rielaborazione dei principali problemi filosofici, analizzati storicamente e criticamente, tende a rendere più accessibileil mondo della fede e a valorizzare al massimo i risultati raggiunti dai filosofi. mente Duns Scoto
non
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intèllectum,
3) 4) 5)
agostiniano-ansjekflniaîafidella
C. BALIC, "La scolastica postomistica: Giovanni Duns Scoto", in Grande enciclopedia filosofica IV, p. 1349. Rcp. Par. III, d. 25, v. unica, n. 6. Ordinatio IV, d. 6, q. 9, n. 14.
Giovanni Duns Scoto
669
Il ricorso alla fede, infatti, non è negativo per l'uomo, quasi fosse inintelligibile e insensato. ll discorso della fede per Duns Scoto non attenta alla libertà dell'uomo, ma, al contrario, riconduce l'uomo al trascendimento delle implicanze della pura immanenza, proiettandolo nella sicura libertà del divino, da cui deriva ontologicamente e verso cui è esistenzialmente in cammino. Proprio dalla visione storico-critica del pensiero greco-arabo e dalla novità della rivelazione cristiana prende occasione e inizio la speculazione di Duns Scoto, che sintetizza da un lato la tensione dell'uomo verso Dio e dall'altro la liberalità di Dio Verso l'uomo, scoprendo il segreto filo che unisce la creatura e il creatore, gli enti e l'Essere.6 Mentre nella sostanza il metodo di Duns Scoto è palesemente teologico, con una costante sottomissione della scientia alla sapientia, della metafisica alla teologia, nella forma è fortemente e pesantemente raziocinativo, con una rigorosa sottomissione al procedimento sillogistico di tutte le tesi proposte e discusse. Nessuna proposizione viene accolta se non è passata sotto il torchio delle regole della logica: una eccessiva utilizzazione della logica aristotelica che rende assai faticosa la lettura dei testi del Dottore Sottile. A Duns Scoto ‘e stato assegnato il titolo di Dottore Sottile. In effetti la subtilitas è un altro importante aspetto della sua metodologia. Una’ subtilitas quasi cavillosa lo porta a vagliare tutte le posizioni e tutte le autorità con piglio severo, a porre nuove distinzioni nell'uso dei termini, ad introdurre nuovi concetti. Molte volte le lunghe discussioni storico-critiche condotte dal Dottore Sottile sono volte meno a risolvere la questione in esame che a precisare criticamente la stessa questione attraverso l'analisi della terminologia in uso o a creare nuovi termini per esprimere un contenuto concettuale nuovo o imprecisato. L'uso di una simile metodologia rende, molte volte, non solo difficile leggere il testo, ma anche seguire lo svolgimento della stessa analisi argomentativa. '
'
Fede e
ragione, metafisica e teologia
5:4
l .2,’
Parte seconda
670
sica di S. Tommaso è
conforme alla fede; quella
di Bonaventura è
una
metafisica mistica, totalmente assorbita dalla fede; la metafisica di Scoto è
metafisica di confine, disgiunta dalla fede e tuttavia aperta ad essa. Coniènotofila metìfgsica cristiana è il risultato di un felice connubio
una
tra fede e ragione; non solo la ragione non è ostile alla fede, ma neppure rivendi-ca una totale indipendenza dalla fede; essa si mostra invece assai interessata agli insegnamenti della rivelazione e ne fa tesoro per allargare gli orizzonti della verità filosofica. Tutti i filosofi cristiani accolgono in linea di principio la teoria dell'armonia tra fede e ragione, ma non lo fanno allo stesso modo. CÌ è chi con Alberto Magno e Tommaso d'Aquino;
ragione una considerevole autonomia, un'autonomia che anclie sul piano storico ha dato frutti positivi con le possenti speculazioni metafisiche di Platone e diuArjstgtgele, Per contro ci sono altri autori che con Alessandro di Hales e Bonaventura reclamano una rigorosa subordinazione (reductio) della ragione alla fede: solo nella sottomissione alla fede la ragione può filosofare correttamente. Per questo motivo nessuna metafisica costruita fuori dal cristianesimo ha raggiunto la verità. Scoto, filosofo francescano, condivide la soluzione dei suoi maestri, Alessandro di Hales e Bonaventura, ma simpatizza anche per la soluzione di S. Tommaso, e così opta per una soluzione intermedia tra Tomma-
riconosce alla
so e
Bonaventura.
La
questione dei rapporti tra fede e ragione viene affrontata eda_l_ Dot-Î"
tore Sottile nel celebre Prologo della Ordinatio nella questione che ha per titolo Controoersia tra filosofi e teologi (Prol. p. l, q. un). Come risulta dal
titolo la
questione non viene formulata in
storici, tenendo conto delle soluzioni che
termini astratti
ma
concreti,
ha già ricevuto nel corso dei secoli da parte dei filosofi, che difendono i diritti della ragione, e da parte dei teologi che, invece, difendono i diritti della fede e della rivelazione. Scrive Duns Scoto introducendo l'argomento: «In questa questione sembra che ci sia controversia tra filosofi e teologi. l filosofi sostengono la perfezione della natura, e negano la perfezione soprannaturale. I essa
teologi, invece, sostengono la debolezza della natura, la necessità della grazia e la perfezione soprannaturale» (lbid, n. 5). Poi, Scoto passa subito in rassegna gli argomenti dei filosofi. Il primo
si basa sul potere conoscitivo dell'uomo: «nessuna conoscenza soprannaturale è necessaria all'uomo nella sua presente situazione storica (nulla est cognitio supernaturalis homini necessaria pro statu isto), perché può acquistare ogni conoscenza che gli è necessaria, mediante l'azione delle cause naturali» (Ibid), e le cause naturali sono l’intelletto agente e l'intelletto possibile. Ora «l'intelletto possibile naturalmente desidera conoscere ogni conoscibile, ed è naturalmente perfezionato da ogni conoscenza»
(Ibid, n. 7). Inoltre «poiché possiamo naturalmente cono-
Giovanni Dzms Scoto
scere
i
671
principi primi, in cui sono incluse virtualmente tutte le conclusio-
ni, ne consegue che possiamo naturalmente conoscere tutte le conclusioni conoscibili»(IbicL, n.
'
10).
All’elenco degli argomenti dei filosofiScoto fa subito seguirexfla critica (inzprolnìtio) dell'opinione dei filosofi». Egli osserva che la critica non può essere costruita dall'esterno, invocando l'autorità della rivelazione, perché si incorrerebbe in una petitio principi? ma deve essere costruita dall'interno, mostrando l'infondatezza degli argomenti addotti dai filosofi e dell’usoFa"rb'itrario che essi fanno dell'autorità di Aristotele. L'uom_o_risulta infatti imperfetto sia nell'ordine del conoscere sia in quello del volere. Il suo intelletto benché dotato di una capacità illimitata di fatto non conosce tutte le cose, né può raggiungere la conoscenza della natura delle sostanze separate, né tantomeno quella di Dio. Ancora più grave è la debolezza della sua conoscenza nell'ordine pratico; inadeguata è lasua conoscenza sia del fine ultimo, sia dei mezzi per conseguìrlo. Infatti «la felicità eterna si concede come premio per i meriti che Dio accetta come degni di tale premio. Perciò essa non consegue di necessità naturale a qualsiasi atto umano, ma viene data liberamenteda Dio, che accetta come meritori alcuni atti a lui rivolti. Ciò, come sembra, non è naturalmente conoscibile,perché in questa questione i filosofi sbagliano, in quanto ritengono che tutto ciò che proviene direttamente da Dio, proviene necessariamente da Lui» (lbid, n. 18). Risulta pertanto chiarito che la ragione non può esaurire l'orizzonte della Verità e che quindi, la filosofia da sola non basta. Esistono verità soprannaturali la cui conoscenza è necessaria all'uomo per raggiungere la felicità e che fanno parte del mondo della fede e della teologia. L'ambito della fede e della teologia è il soprannaturale. Soprannaturale è sia la causa efficiente del conoscere, che non è più l'intelletto agente ma Dio stesso, sia gli oggetti rivelati, che superano tutto l'ordine della natura (Trinità, lncamazione, Grazia ecc.). Nella rivelazione divina, che è soprannaturale sia dalla parte dell'agente, sia dalla parte dei contenuti, l'agente fa le veci dell'oggetto soprannaturale, causando la conoscenza di verità che sarebbero per sé evidenti se l'oggetto in questione fosse conosciuto in sé. La teologia è per definizione scienza di Dio, il suo subiectum è Dio, in quanto rivelante e rivelato. Ma di Dio non si occupa anghela ra_r_i_regt_eigf_i_si_c__aî_ Già Aristotele aveva qualificato la filosofia prima come teologicafMa se di Dio si occupano sia la metafisica sia la teologia dogmatica, in che modo si distinguono queste due discipline? Del problema si erano già occupati Avicenna e Tommaso, i quali avevano chiarito che Dio rientra nella metafisica non come oggetto ma come termine della ricerca. L'oggetto è l'ente in quanto ente, mentre il _
672
Parte seconda
termine è l'Esse ipsum, Dio. Della distinzione tra metafisica e teologia S. Tommaso si interessa all'inizio della Summa Theologiae; egli fonda la loro distinzione sulla diversa ratio cognoscibilìs. Così per es.,_ la rotondità della terra può essere dimostrata sia dall'astronomo, attraverso la matematica, sia dal fisico attraverso l'analisi della materia. «Quindi niente impedisce che delle stesse cose delle quali tratta la filosofia con i suoi lumi della ragione naturale, tratti anche un'altra scienza che proceda alia
luce della rivelazione. Perciò la teologia che fa parte della sacra dottrina differisce secondo il genere, dalla teologia che rientra nelle dottrine filosofiche»? Prendendo parzialmente le distanze da questa spiegazione tomista, Scoto precisa che la conoscenza delle scienze speculative solo teoricamente verte su tutto il conoscibile,nel senso che è una conoscenza astratta che raggiunge l'essere solo in un'accezione generalissima; l'essere divino, inteso con i caratteri personali, resta perciò specifico oggetto della teologiafi Né a risultati più convincenti si giunge secondando l'ulteriore istanza dei filosofi per cui chi comprende i primi principi comprende tutto ciò che ne segue; per Duns Scoto non è vero che nei primi principi siano incluse virtualmente tutt'e ‘lelflconclusioni possibili. Le conclusioni che si traggono dai primi principi non possono essere che astratte e genericissime: «ma oltre alle affezioni comunissime ci sono molte affezioni conoscibili,per la conoscenza delle quali le affezioni dei primi principi non possono fungere da medio, poiché non le includon0».° Per S. Tommaso il fatto che il filosofo e il teologo considerino e studino la realtà secondo una prospettiva diversa non implica che essi pervengano inevitabilmentea conclusioni fra loro opposte; possono giungere anzi a risultati complementari, cioè destinati a completarsi fra loro; Scoto invece pensa che il filosofo, oltre che a conclusioni parziali e imperfette dal punto di vista della teologia, giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili.E questo perché esercitando la sua riflessionesulle nature in se stesse il filosofo si chiude in un'ottica puramente naturalistica, mettendosi così nella impossibilità di includere nel suo orizzonte il momento della libertà. Così l'universo dei filosofi non può essere che un universo senza storia, dominato da un determinismo rigoroso, che non potrà mai coincidere con quello dei teologi. Anche se i due universi non risultano necessariamente conflittuali, restano tuttavia essenzialmente diversi: quello teologico inizia là dove finisce quello filosofico.
7) S. T111, l, 1 ad 2. 3) Cf. Ordinaria, Prol. p. 1, q. un., nn. 79-82. 9) Ibid, n. s7.
Giovanni Duns Scoto
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Per questo, «al pari di san Bonaventura, Duns Scoto diffida diuna filosofia pura o separata ed è sempre attento a denunciare non solo i limiti, ma anche gli inevitabilierrori. Tuttavia la sua posizione nei confronti della filosofia in genere e delraristotelismo in specie non coincide del tutto con quella del Dottore Serafico e degli agostinisti. Scoto infatti non si limita a mettere in chiaro la superiorità della Vsapientia sulla seta:tia, cioè la completezza delle soluzioni teologiche rispetto _a quelle elab0— fate dai filosofi,ma crede di essere anche in grado di svelare, in veste di filosofo, l’intrinseca debolezza dei procedimenti razionali attraverso quali Aristotele e i suoi Commentatori arabi giungono alle loro infelici conclusioni. Egli, in altre parole, divide il processo critico intentato contro i filosofi in due momenti: dopo avere discusso e condannato le loro opinioni in veste di teologo, in un secondo momento fa vedere che anche sul piano puramente razionale le loro argomentazioni risultano tutt'altro che ineccepibili».10
L'oggetto della metafisica: ens in quantum ens La metafisica è per sua intrinseca costituzione una disciplina di confiEssa afferma che questo mondo empirico e sensibilenon è tutto, e lo supera, inoltrandosi in un mondo superiore, costituendosi come la scienza di quel mondo, del trascendente. Posta questa concezione della metafisica ne consegue che la metafisica cristiana a sua volta si colloca tra due confini: il confine del mondo inferiore della fisica e il confine del mondo soprannaturale della teologia. Duns Scoto costruisce intenzionalmente una metafisica di confine, una metafisica cioè i cui contenuti sono propri della filosofia prima e che al contempo possono essere sussunti anche dalla teologia e dove il terreno comune a queste due scienze è costituito dal concetto di ens in quanne.
=
tum
ens.
Ma che
indica questo
di cui si occupa la metafisica: a che cosa corrisponde? Quali sono i contenuti di questo concetto così comune e così ambiguo, che può dire tutto e nulla? E a quale concetto di ens si riferisce la metafisica? Ovviamente non si può trattare che di quellflzns che costituisce l'oggetto proprio dell'intelletto umano. Ma qui sorge il problema: qual è l'oggetto proprio dell'intelletto umano? cosa
ens
1°) E. BETIONI, Duns Scoto filosofo, Milano 1966, pp. 35-36. Sulla concezione scotista dei rapporti tra filosofia e teologia si veda l'eccellente trattazione di E.
GILSON, Iean Duns Scotusw cit., pp. 11-84.
r
{i
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Parte seconda
Duns Scoto è il primo scolastico che analizza con attenzione questo problema. «In realtà le pagine che egli dedica all'esame del nostro problema segnano una svolta nella storia della scolastica: viene in luce perla prima volta l'esigenza di interrogarsi sulla legittimità o meno di quel fervore metafisico a cui si erano abbandonati i maestri del secolo XIII. In questo modo Duns Scoto segna il passaggio dal periodo prevalentemente costruttivo della scolastica al successivo periodo critico. È la ragione cui molti storici del pensiero medioevale si sentirono autorizzatia vedere in Duns Scoto il primo responsabiledella decadenza della scolasticanm” Due sono le soluzioni311€. SCÙÌO Considera inaccettabiliper questo problema. La prima=è quella tomisticaìshe fa consistere l'oggetto proprio dell'intelletto umanofiîellaes-sieîììàidfifiecose materiali, e che quindi}; giudizio di Scoto pecca per difetto. L'altra anpselmianafîhe fa
per‘
soluzionesquella
consistere l'oggetto proprio nellbsserfìa divinappecca perreccessol Scoto ammette che nello stato attuale, in cui l'anima è unita al corpo, l'oggetto proprio dell'intelletto umano è costituito dalle essenze delle i
materiali astratte dai fantasmi; ma questo non è l'oggetto dell'intelletto in quanto tale, «perché l'intelletto, restando naturalmente sempre la stessa potenza, conoscerà per sé 1g quiddità della sostanzaimmateriale, come è chiaro secondo la fede pierl'anima beata. Ora, la potenza clell'intelletto, restando la medesima, non può esercitare il suo atto intellettivo circa qualche cosa che non è contenuta nel suo oggetto propriowî Tanto meno può essere oggetto proprio del nostro intelletto l'essenza divina, perché non è vero che nel nostro concetto di esserenoi intuiarrrg Dio. Infatti «Dio non ha un rapporto naturalegolnostrointelletto per quanto riguarda l'azione di movente, eccetto forse per la ragione di qualche naturale attributo, come viene ammesso dalla stessa opinione in esame. Pertanto oggetto primario è quell'attributo generale. CosLDio non è conosciuto se non sotto la ragione di ente (sub ratione entis) e non ha un rapporto naturale col nostrojntelletto che grazie a tale concetto universale>>fl3 cose
a
_,.--
1-...
Giovanni Duns Scoto
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include essenzialmente la ragione di ente, oppure è contenuto virtualmente o essenzialmente in ciò che include essenzialmente la ragione di ente. Tutti i generi infatti, le specie e gli individui, e tutte le parti essenziali dei generi e l'ente increato includono quidditativamente l'ente. Inoltre, tutte le differenze ultime sono incluse essenzialmente in alcuni di questi generi; mentre tutte le proprietà trascendentali dell'ente sono incluse virtualmente nell'ente e nei suoi inferiori. Di conseguenza, quelle proprietà di cui l'ente non si predica univocamente in modo essenziale, sono incluse nelle altre (proprietà) di cui l'essere si predica univocamente ed essenzialmente. E cosi è evidente che l'ente possiede la priorità di universalità rispetto ai primi intelligibilì, cioè rispetto ai concetti quidditativi dei generi, delle specie, degli individui, delle parti essenziali di tutti questi e dell'ente increato; e possiede anche la priorità di virtualità rispetto a tutti gli intelligibili inclusi nei primi intelligibilì,ossia rispetto ai concetti qualitativi delle differenze ultime e delle proprietà trascendentalimH
A chi obbietta che se l'ente è oggetto primario del nostro intelletto si dovrebbe concludere che anche Dio e le sostanze separate,‘ grazie alla ragione di ente, dovrebbero essere conosciute naturalmente da noi Scoto replica richiamando la distinzione tra l'oggetto di una facoltà considerata in se stessa e l'oggetto della stessa facoltà vista in una determinata situazione (storica) e afferma allo stesso tempo che «alla potenza viene assegnato come oggetto primario quello che è adeguato alla potenza in quanto potenza e non quello che è adeguato alla potenza in qualche situazione particolare (...). Ora, niente può essere adeguato al nostro intelletto in quanto potenza intellettiva come Oggetto primario, se non l'ente universalissimo (communissimunz). Tuttavia nella presente situazione (pro statu isto) al nostro intelletto è adeguato, come oggetto movente, la quiddità della realtà sensibile; e perciò nella presente situazione, l’intelletto naturalmente non conosce se non ciò che sia contenuto nei limiti di questo primo moVente».15 Tutto sommato la tesi di Duns Scoto circa l'oggetto primario del nostro intelletto coincide col punto di vista degli aristotelici e dello stesso S. Tommaso. In un celebre passo della sua Metafisica Avicenna aveva affermato: «ens est prima animae impressio». Da parte sua S. Tommaso aveva distinto nettamente tra «oggetto proprio dell'intelletto umano unito al corpo» che è l'essenza delle cose materiali e oggetto adeguato, che è l'essere in tutta la sua estensioneflò
14) Ibid, n. 137. 15) 11nd,, n. 186. 15) Cf. S. Th, I, 84, 7.
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Dove invece Scoto si discosta nettamente dalla intera tradizione metafisica sia classica che cristiana è quando sostiene che quello di ente non è un concetto analogo bensì univoco. Ma non è forse evidente che i termini ente ed essere non si predicano allo stesso modo della sostanza e dellaccidente, della materia e della forma, dell'uomo e di Dio? E allora quali sono le ragioni che hanno indotto Scoto a sostenere la tesi della univocatio entis?
L’univocità dell’ente La ragione principale che sembra aver indotto Duns Scoto a sostenere la tesi dell'univocità dell'ente è il desiderio di salvaguardare la conoscibilitàdi Dio da parte della ragione umana e di scongiurare quell'apofati— smo eccessivo in cui cadevano molti seguaci e sostenitori della teologia negativa dello Pseudo-Dionigi. Secondo E. Bettoni, «la teoria scotista dell’univocità costituisce il tentativo più serio di giustificare la positività del discorso teologico. Non è quindi fuor di luogo supporre che’ Duns Scoto sia stato spinto a proporla e a difenderla proprio dalla preoccupazione di portare un contributo decisivo alla lotta contro le tendenze agnostiche di chi sopravvalutava la teologia negativam" Per univoco Scoto intende quel concetto che «è uno in modo tale che la sua unità basta alla contraddizione, se si afferma o si nega la stessa cosa del medesimo soggetto; e basta anche per il termine medio del sillogismo, in Îiòdo che circa gli estremi uniti in un medio siffatto si concluda che si uniscono fra loro senza cadere nella fallacia della equivocazionem“ Uunivocità del concetto di essere si configura quindi, per Duns Scoto, come un'unità minimale di senso eppure sufficiente a fungere da fondamento del principio di non contraddizione; essa prescinde non solo dalle determinazioni categoriali, ma anche dai modi intrinseci dello stesso ente. Nella nozione di ente così intesa non rientrano i modi di essere radicalmente divergenti del finito e dell'infinito, ossia l'ente come concetto primo dell'intelletto è al di qua delle determinazioni che l'ente assume in quanto esistente, e perciò è solo un concetto «che per la sua indeterminatezza e tenuità di significato è predicabile univocamente, cioè totalmente e senza riserve, di tutto ciò che a qualsiasi titolo non è nulla. L'assoluta semplicità del concetto di ens, infatti, gli impedisce di variare di significato; di qualunque soggetto si predichi, si predica sempre nello stesso significatomlfl‘ l'7
18 19
‘x/;
cit., p. 66. Ordinatio I, d. 3, p. 1, q. 2, E. BETTONI, 0p. cit, p. 73.
E. BE'l'l'ONl, 0p.
n.
26.
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Le ragioni dell’univocità dell'ente sono spiegate per esteso da Scoto trattando del tema della conoscibilitàdi Dio. Le ragioni principali sono
cinque: 1. Qualsiasi filosofo fu certo che ciò che per lui era il primo principio, era un ente. Per es. colui che ritenne come principio il fuoco o l'acqua certo che era un ente, ma non increato, primo 0 non primofiu
era 0
era
certo
che fosse
un
ente creato
2. «Nessun concetto oggettivo è causato naturalmente nell’intelletto dell'uomo nella vita presente, senza l'azione di quei fattori che sono i moventi naturali del nostro intelletto, cioè il fantasma e l'intelletto agente. Di conseguenza, nessun concetto semplice si produce naturalmente nel nostro intelletto, che non sia prodotto da questi due moventi. Un concetto che non fosse univoco all'oggetto che riluce nel fantasma, ma del tutto diverso e anteriore a quello al quale ha analogia, non può essere prodotto in virtù dell'intelletto agente e del fantasma. Un tale concetto diverso, che si ritiene analogo, non può mai trovarsi naturalmente nell’intelletto umano nella presente vita; per cui non si potrà mai avere naturalmente un concetto di Dio, il che è falso»? 3. «Il Concetto proprio di un oggetto è la ragione sufficiente per dedurre tutti gli attributi di quell'oggetto, che ad esso ineriscono necessariamente. Di Dio, invece, non abbiamo alcun concetto per mezzo del quale possiamo conoscere sufficientemente tutti gli attributi da noi conosciuti e che gli ineriscono necessariamente, come è chiaro a chi considera la Trinità e le altre verità credute necessariamente>>22 4. «Ogni ricerca su Dio suppone che l'intelletto abbia lo stesso concetto univoco, che ha ricavato dalle creature»_23 5. «Tutti i maestri e i teologi sembra si servano di un concetto comune a Dio e alla creatura, benché nell'applicazionedifferiscano a parole. Tutti, infatti, convengono in questo: assumono i concetti metafisici e, rimuovendo ciò che di imperfezione hanno nelle creature, attribuiscono a Dio quel che hanno di perfezione, come la bontà, la verità e 1a sapienza>>24 Con l’univocità Scoto difende la stessa causa, vale a dire la conoscibilità di Dio, che difendono anche tutti i patrocinatori della dottrina dell'a-
nalogia.
20) Cf. ibid, n. 17. 21) una, n. 18.
29) Ibid, n. 19. 23} Ibid., n. 21. 24) Ibici, n. 25.
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Ciò che risulta abbastanza chiaro da tutti i testi in cui Scoto parla delYanalogia e del concetto analogo è che egli intende una cosa molto diversa da ciò che intendono Aristotele, 10 Pseudo-Dionigi e Tommaso d'Aquino mediante questa categoria. Non si tratta affatto, come suppo-
un secondo concetto, applicabile a Dio, in quanto simile a che noi possediamo delle creature, pertanto di un concetto che viene dopo quello univoco, rispetto al quale habet analogiam. Il concetto analogo non è un concetto secondo, il quale si dice analogo rispetto a qualche altro concetto, ma è un concetto primo, dotato di una unità di significato, anche se si dice di cose che non appartengono né allo stesso genere né alla stessa specie. Senonché la comunanza di significato non sta in un minimo denominatore comune come nella univocità scotista bensì nelI’appartenenza secondo un certo ordine (secundurtr prius et posterius) della perfezione, ai vari concetti analogati, intenzionata dal concetto analogo. L'origine del concetto analogo non è diversa da quella del concetto univoco: tutt’e due hanno origine per astrazione. Sia i concetti analoghi sia quelli univoci sono astratti dalle creature. Ciò che li distingue riguarda il modo di essere predicati: Yunivoco si riferisce a una determinata perfezione (animalità, umanità, bianchezza, pianta ecc.) e viene detto secondo una perfetta identità di significato. Uanalogo si riferisce pure a una determinata perfezione (verità, bontà, bellezza, potenza ecc.) ma viene predicato secondo una scala di significati che sono in parte eguali e in parte diversi. Il seguente asserto di Duns Scoto: «Dio e la creatura non sono principalmente diversi nei concetti, ma sono principalmente diversi nella realtà, poiché non convengono in nessuna realtà (Deus et creatura non sunt diversa in conceptibus; sunt tamen primo diversa in crealitatc quia in nulla realitate conveniuntl>>l5 può essere condiviso pienamente anche da coloro che difendono la dottrina delranaiogia, anche se non lo intendono perfettamente allo stesso modo.
ne
Scoto, di
un
concetto
-
—
I trascendentali e la distinzione formale Un'altra dottrina scotista di grande rilevanza per la metafisica riguarda la distinzione formale, che viene affiancata alle altre tre distinzioni, logica, reale e modale, generalmente riconosciute da tutti gli scolastici. La distinzione logica o di ragione dipende esclusivamente dalla capacità di analisi dell'intelletto, per es. la distinzione tra ”uomo” e ‘animale
ragionevole".
25) una, d. s, p. 1, q. 3, n. s3.
Giovanni Duns Scalo
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La distinzione reale è quella che ha luogo tra due cose separabili,per la distinzione tra anima e corpo. La distinzione modale è quella che si instaura tra una perfezione e il suo grado di intensità, per es. tra ente finito e infinito. La distinzione formale è quella che si evince dalla Considerazione di due concetti irriducibili l'uno all'altro, ma realmente identificati nell'unica realtà, come ad es., l'intelligenza che è formalmente distinta dalla Volontà, ma che coesiste insieme alla volontà stessa nell'unico essere dell'uomo. Non è, secondo Duns Scoto, una distinzione meramente concettuale, in quanto precede ogni atto di intelligenza creato e increato (praecedens omnem actum ÎHÌBÌÎGCÌHS creati et increati).26 Della distinzione formale Scoto fa largo uso, e nella categoria delle distinzioni formali include distinzioni che S. Tommaso considera come reali (per es. la distinzione tra essenza ed esistenza) oppure come distinzioni logiche cum fundamento in re (per es. la distinzione tra gli attributi di Dio oppure tra i trascendentali). Una delle applicazioni più importanti della distinzione formale riguarda i trascendentali, vale a dire quelle perfezioni che sono insepaes.
rabilidall'ente e che tuttavia, concettualmente, non coincidono con esso. Mentre S. Tommaso aveva proposto una deduzione puramente metafisica delle proprietà dell'ente, Scoto le situa primariamente in un'ottica teologica. Il testo chiave del Dottore Sottile sui trascendentali in genere si trova nella Ordinario I, cl. 8, q. 3, nn. 18-19. Per Scoto tutti i predicati che appartengono all'ente in quanto tale, prima che venga suddiviso in finito e infinito (e quindi anche nelle dieci Categorie), sono trascendenti. Scoto usa il termine "trascendente" in senso più ampio che quello di proprietà e di predicato convertibilecon l'ente. ”Anteriore" e ”posteriore", "atto" e "potenza" fanno parte di questo gruppo. Poiché Dio, l'essere infinito, non è suddiviso in categorie, egli è chiamato alterità trascendente. Questa estensionedelYuso del termine ‘Ti-ascendente’ implica che per Scoto i concetti trascendentali non sono più entia rationis ma intenzioni primarie che esprimono altrettante essenze formali. Scoto precisa che trascendentale è qualsiasi cosa non compresa in un genere. «Dunque non avere alcun predicato al di sopra di esso eccetto l'essere appartiene alla vera nozione di concetto trascendentale». Oltre all'unità, la verità e la bontà, alla classe dei trascendentali appartengono anche atto e potenza, necessario e contingente.
26)
Cf. ibid., d. 2, p. 2, q. 4,
n.
389.
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Come l'ente anche i trascendentali, per Scoto, sono concetti univoci: ogni entità fisica o res le perfezioni espresse dai concetti: ente, uno, vero e bene sono tutte unitive contenta (contenute in unità) in un tutto reale ed indivisibile»?Come fa notare Wolter, assumendo questa distinzione Scoto intendeva fornire una base oggettiva per il fatto che noi abbiamo concetti distinti??? Tuttavia ciò che Scoto fa effettivamente è proiettare nella realtà il modo in cui pensiamo questi concetti. È difficile dire come in una stessa cosa possano esserci distinzioni formali ma non reali tra l'ente e le sue proprietà trascendentali. Questa difficoltà può essere superata se si ritiene con Wolter che una tale distinzione formale debba essere vista come quella di un contenuto oggettivo intelligibile che rappresenta una parte della realtà stessa.” La conclusione che segue da quanto detto è che secondo Scoto unità, bontà e Verità non sono più formalmente l'ente. I concetti trascendentali sono diversi dall'ente a causa del loro contenuto reale (rationes reales). Questa posizione conduce a una sostantificazione dei concetti trascendentali e inaugura un modo di pensare che priva l'essere della sua unità, verità e bontà. Passando ora ad esaminare il pensiero di Scoto sui tre concetti trascendentali di unità, bontà e verità, dobbiamo notare che egli non sembra ammettere una distinzione reale ma soltanto modale tra unità numerica e trascendentale.” Tutto ciò che esiste è numericamente uno. L'unità più perfetta è quella dell'individuo. In Dio l'unità numerica è caratteristica della natura divina, con la quale essa coincide. Invece nelle creature dobbiamo distinguere due modalità dell'unità: la natura in quanto comune a diversi individui e la "ecceità" (haecceitas) di ciascuno. Per quanto concerne la verità Scoto ritiene che ogni ente possiede ufiattitudine a manifestare se stesso all’intelletto. Vero è ciò che ‘e conosciuto dall’intelletto. Per Scoto la verità dell'essere non ha la stessa importanza che ha per S. Tommaso, in quanto non la fonda sulla conformità degli enti al modello divino. La bontà più che come desiderabilità e concepita da Scoto come attuazione di una perfezione. Dio è buono perché è la pienezza dell'essere. ln effetti Scoto afferma che bene e perfezione significano la stessa cosa: ogni ente è buono dal momento che possiede la sua perfezione. A motivo di questa risoluzione della bontà nella perfezione, «la nozione di bontà trascendentale come proprietà universale dell'essere perde molto del suo significato, in particolare se viene intesa nel suo significa«In
27) 28) 29) 3°)
Ordinatia II, d. 16, q. un, n. 17. Cf. A. B. WOLTFÌR, The Trascendentals ami their Function in the Metaphysics of Duns Scotus, St. Bonaventura, N. Y. 1946, p. 28. Cf. ibîd, p. 30. Cf. Ordinatio I, d. 23, q. 1, n. 2.
Giovanni Duns Scoto
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to originario platonico. Non sorprende dunque di trovare in Scoto poco più d'un fuggevole accenno a tale attributo».31 A prescindere dalle difficoltà causate dalla sua distinzione formale, la dottrina dell’univocità dell'ente e delle sue proprietà trascendentali avrà un grosso impatto sui filosofi posteriori. Il sistema di Scoto tende ad estrapolare l'ente dalle sue proprietà. Gli sviluppi ulteriori della teoria dei concetti trascendentali hanno seguito la direzione tracciata da Scoto.
La dimostrazione dell'esistenza di Dio e
gli attributi divini
La dimostrazione dell'esistenza di Dio costituisce il cuore di ogni metafisica. Questo ‘e vero sia nella metafisica classica (Platone, Aristotele, Plotino) sia in quella cristiana (Agostino, Anselmo, Tommaso). E l'originalità di una metafisica si rispecchia sempre sia nella prova dell'esistenza di Dio sia nella caratterizzazione della sua natura. Così, la metafisica di Aristotele, che è una metafisica della sostanza, definisce Dio come Sostanza Prirna, la metafisica di Plotino, che è la metafisica dell'unità, definisce Dio come Uno, la metafisica di Agostino, che è la metafisica della verità, definisce Dio come Summa Veritas, la metafisica di S. Tommaso, che è la metafisica dell'essere, definisce Dio come Esse ipsum subsistens. Scoto costruisce tutta la sua metafisica intorno all'ente e alle sue modalità e perciò definisce Dio come ens infinitum in actu, Di tutti gli scolastici Duns Scoto è colui che si è appassionato maggiormente al problema dell'esistenza di Dio e, praticamente, incorpora tutta la sua teologia filosofica nella dimostrazione della esistenza dell'ente infinito in atto. Già ogni prova tomistica dell'esistenza di Dio conduceva a un determinato attributo divino (essere sussistente, motore immobile, causa prima, essere necessario ecc.). Ma le prove di S. Tommaso sono molte e così anche gli attributi di Dio diventano molto numerosi. Invece, la lunga e complessa dimostrazione di Scoto è una sola, per cui anche l'attributo che caratterizza la natura divina è uno solo: l'infinita. L'obiettivo di Scoto nella discussione del problema dell'esistenza di Dio è quello di elaborare una vera dimostrazione quid, che diversamente dalla prova ontologica del Proslogion di S. Anselmo Vuole avere un carattere rigorosamente induttivo. Inoltre Scoto intende costruire un'arg0mentazione genuinamente metafisica, totalmente svincolata dalla fisica, ciò che non succedeva invece nella dimostrazione aristotelica basata sul moto degli astri. Quindi, quella di Scoto non è né una prova fondata sui puri concetti come la prova ontologica, né una prova fondata su fatti em-
3T)
A. B. WOLrsR; 0p.
cit, p. 119.
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prova cosmologica. La sua argomentazione esclusivamente metafisica si richiama a princìpi primi ritenuti inconfutabili. Pur cercando di costruire una prova rigorosamente razionale, il contesto in cui Scoto si colloca è quello religioso: Dio è già pienamente riconosciuto in tutta la sua grandezza, potenza e perfezione sul piano della
pirici come la
-
—
ragione vuole prestare il proprio ossequio. Così l'esordio del De principio di Scoto presenta molte analogie con quello dei Soliloqui di Agostino e del Proslogion di Anselmo, nel senso che anch'esso si confede,
e a
lui la
figura come una elevatio mentis in Deum. Scrive Duns Scoto:
«Il Primo Principio di tutti gli esseri mi conceda di credere, di gustare la nostra e di esprimere quanto è gradito alla sua maestà, e innalzi mente alla sua contemplazione. Signore Dio nostro, quando Mosé, tuo servo, ti domandò come a dottore sommamente Verace, quale nome avrebbe dovuto darti davanti ai figli di Israele, tu sapendo cio che l'intelletto umano può concepire di te, svelandoti il tuo nome
benedetto, hai risposto: Ego sum qui sum. Tu, Signore, sei YEssere vero; tu sei l'Essere totale (tu es es
totum
esse). Questo
è
quanto
vorrei
conoscere,
Aiutami, Signore, a comprendere quanto può vero, che tu sei, la nostra ragione naturale.
se
verum esse,
mi è
conoscere
tu
possibile.
dell'Essere
Essere Primo nonché ultimo (novissinzmn), e proviene da te quale essere primo nell'ordine della eminenza e della finalità (prirmun efficiens, pridell'efficienza, di mum eminens finemqzie ultimum); tutto ciò o Signore concedimi dimostrare con la ragione, mentre già lo ritengo certissimo per fede... conosciute dai Signore, Dio nostro, molte tue perfezioni sono state filosofi, ma possono essere dimostrate anche dai cattolici. E precisamente che tu sei il Primo Efficiente; tu sei il Fine Ultimo; tu sei supremamente Perfetto, trascendente tutte le cose... Tu, o Signore, seì totalmente incausato e perciò ingenerabile e incorruttibile. Tu sei, o Signore, certamente ed assolutamente incapace di non esistere, per-
Signore,
tu sei l'unico tutto ciò che non sei tu
ché sei intrinsecamente necessario (ex te HECESSE’ esse)... Tu, 0 Signore, puoi volere e volendo causare ogni effetto possibile simultaneamente, contingentemente e liberamente. Veramente o Signore, la tua onnipotenza è infinita. Tu, o Signore, sei incomprensibile, sei infinito; infatti nessun essere finito è onnisciente. Nessun essere finito è onnipotente. Nessun essere finito e primo e ultimo tra essere finito è gli enti. Nessun essere finito è primo e ultimo. Nessun della al vertice sei semplicità, semplicemente semplice. Tu, o Signore, perché non hai parti distinte, né hai entità che non siano realmente
identiche con la tua essenza» ,33
33)
De prima prinriyiio l, 1; III, 42; IV, 80; IV, 155. Abbiamo qui riuniti i brani introduttivi ai vari passaggi della prova scotista della esistenza di Dio.
Giovanni Duns Scoto
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Come si vede, nella sua elevatio mentis in Deum, Scoto fissa tutti i punti principali del suo discorso metafisico su Dio, e li inserisce, come s'è detto, nell'amp io tracciato della sua dimostrazione dell'esistenza di Dio. La dimostrazione scotista non e, come le vie di S. Tommaso, uifascesa veloce verso la vetta del Principio Primo, ma una lunga, tortuosa e faticosa ascensione, che si snoda in varie tappe con numerosi momenti di sosta e di riflessione, che portano lentamente sempre più in alto e sempre più vicino alla vetta. Nella prima tappa Scoto dimostra che esiste una causa efficiente e incausabile,una causa finale suprema e un essere che supera in perfezione ogni altro essere possibile. Nella seconda tappa dimostra che la causa efficiente incausata e incausabilesi identifica con la causa finale suprema e con l'essere perfettissimo, e che l'essere che realizza in sé questi tre primati ‘e unico. Infine, nella terza tappa, dimostra che Dio è intelligenza e volontà eternamente in atto, e che è potenza, verità, bene e perfezione infinita. Ma vediamo finalmente come Duns Scoto svolge punto per punto la complessa argomentazione di cui abbiamo delineato il filo logico. Il primo assunto da dimostrare è formulato dal Dottore Sottile in questi termini: «quod aliquid cfiectivum si! simpliciter primum Îîa quod nec est efiectibile, nec virtute alterius a se effectivuiriuufl come a dire: a fondamento dell'attività produttiva che si dispiega nell'universo, ci deve essere una causa efficiente primordiale e assolutamente autonoma. Infatti comincia a dire Duns Scoto «aliquod ens est ejffectibile>>fi4 Qui è importante notare che il punto di partenza di Scoto non è un fenomeno, come nelle vie di S. Tommaso, non è un dato di fatto, bensì una possibilità. Duns Scoto non dice: qualche‘ cosa è prodotta, ma qualche cosa è pmducibile, è eficttuabile. Questa per lui è una rìgorizzazione importantissima. Infatti la conoscenza umana potrebbe anche ingannarsi sul fatto che esistano dei fenomeni, ma non sul principio che il contingente è producibile. Ecco il momento centrale di questa prima tappa dclfargomentazionescotista: u
q
.
r
.
—
-
qualche natura capace di produrre (effectivum) semplicemente non sia prodotta (effectibile),né producibile per virtù di un'altra natura. L0 provo così. Esiste qualche essere proclucibile. O è producibile da se stesso, 0 dal nulla o da qualche altro. Non può essere prodotto dal nulla, perché il nulla non può essere causa di ciò che ‘e. Non è producibile da se stesso, perché non c'è alcuna cosa che produca o faccia se stessa, come scrive Agostino nel De Trfriitate. Dunque è producibile da un altro. «Esiste
prima che
33)
Ordinario I, d. 2, p. 1, q. 1.
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Parte seconda
Se A è primo, di modo che al di sopra di la conclusione. Se, invece, non è primo, vi ho altra sé non vi sia causa, è un altro prima di lui, per la cui virtù è stato prodotto. Si ammetta questo altro e lo si chiami B. Intorno a B si ragiona come si è ragionato intorno ad A. In questo modo 0 si procede all'infinito, nel quale processo ciascuna causa rispetto all'anteriore è seconda, 0 si arriverà a un essere che non ha un altro anteriore. Ma una serie ascendente di cause che va all'infinito è impossibile. Dunque la prima causa è necessaria, perché, non avendo alcuna causa prima di sé, a nessuna è posteriore. Il processo all'infinito, infatti, nelle cause essenziali non è
Questo altro lo si chiami A.
possibile>>.35
Nella seconda tappa Scoto dimostra, con lo stesso procedimento, che oltre alla causa efficiente prima, esiste anche una causa finale suprema e un essere perfettissimo. Come nell'ordine delle cause efficienti così in quello delle cause finali non si dà il processo all'infinito, ma bisogna far capo a un fine che non sia ordinabile a un fine superiore. La possibilità che si dia una realtà ordinabile a un fine implica e postula la possibilità che ci sia un fine superiore e primo, cioè un Essere incausabile.Dalla sua possibilitàsi deduce, per analogo procedimento, la sua effettiva esistenza. Come l'ordine delle cause efficienti determina un corrispettivo ordine di cause finali, così all'ordine dei fini corrisponde un ordine gerarchico di perfezioni. Ugualmente, alla natura di una causa finale suprema è intimamente connessa la possibilità di una natura perfettissima, ossia «semplicemente prima nell'ordine della perfezione». Una tale natura è possibile solo come causa incausabile.Dalfevidenza della sua possibiiità si deduce, quindi, l'evidenza della sua esistenza. Come si può facilmente notare il metodo con cui Scoto costruisce le tre argomentazioni è sempre identico, e tranne per il punto di partenza coincide col metodo delle vie tomistiche. Il punto di partenza scotista è costituito dalla possibilità della realtà, che ha la sua evidenza direttamente nell’intelletto, la cui forza è maggiore di quella proveniente dall'evidenza dell'esperienza sensibiledella stessa realtà, che risulta sempre contingente. Il corpo dell'argomentazione, invece, è imperniato sull'applicazione dei due principi (utilizzatianche da S. Tommaso): «nessuno è causa di se stesso» e «nella ricerca delle cause essenziali non si dà il processo all'infinito». Dalla loro analisi si ricava che la possibilità di qualcosa non è concepibilesenza la possibilità di una Causa, con il triplice primato di cui si è detto. La Conclusione infine è sempre identica in tutte e tre le dimostrazioni: nella possibilità delle conclusioni è già implicita l'esistenza di fatto di una Causa efficiente prima, di una Causa
35) lbid, q. 2, n. 43.
Giovanni Duns Scoto
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finale suprema e di un Essere perfettissimo, e che l'essere che realizza in questi primati ‘e unico. Nella terza tappa della sua dimostrazione dell'esistenza di Dio Scoto dimostra che l’Essere necessario e unico è anche infinito. La Via proposta è quella finalistica: l’Essere necessario opera con intelligenza e volontà «a modo di artista». L'inizio è desunto dalla constatazione che «ogni causa autonoma agisce per un fine». È assurdo che una causa efficiente essenziale agisca ”a caso”, cioè senza uno scopo ben preciso. Ora, nessuna causa merita la qualifica di ”causa autonoma” come la causa efficiente prima, per cui questa agisce sempre finalisticamente. Una simile azione è possibile unicamente in quanto la Causa prima non solo conosce il fine da raggiungere ma anche lo ama. In questo modo Scoto supera lo scoglio in cui è sempre incappata tutta la metafisica classica, ossia l'agire necessario di Dio. Viene esclusa da Dio qualsiasi influenza ab exstrinseco. Così Dio è superiore ai fini che persegue nell'universo, perché li pone liberamente, volens causat. Dire ”causare volendo” e dire ”causare liberamente” è la stessa cosa, in quanto volontà e libertà, secondo Duns Scoto, coincidono. Onde la sua felicissima espressione: «Dio vuole in modo razionalissimo (Deus vult rationabilissime)». Dopo questo interludio sulla intelligenza e la libertà di Dio, Scoto riprende la dimostrazione dell'infinità divina, ultima tappa del suo itinerario metafisico. Ecco le parole iniziali dell'ultimo processo argomentativo: «Dopo avere manifestato questi preamboli, dimostro l'infinita di Dio con quattro vie». Leggiamo insieme alcuni brani dell’Ordinatio in cui con il suo consueto rigore logico Duns Scoto traccia le quattro Vie: sé
«Della prima via, ex parte causae (efiicientis) tratta Aristotele nell'VIII libro della Fisica e nel XII libro della Metafisica, quando afferma che il primo motore muove di moto infinito, e perciò ha una potenza infinita (...). La conseguenza si prova così: se il primo motore per sé e non in virtù di un altro muove con moto infinito, ne segue che non riceve da un altro il potere di muovere in tal modo, ma possiede nella sua propria virtù tutto l'effetto simultaneamente, perché lo possiede indipendentemente. Ma colui che ha nella sua propria virtù un effetto infinito, è infinjto».36 «Dimostrata l'infinita di Dio per
mezzo
della via della
prima causa
efficiente, segue la seconda tria, basata sul fatto che il primo efficiente conosce distintamente tutto ciò che è fattibile (omnia factibilîa).Lo si prova così: gli intelligibili sono infiniti in atto nell’intelletto che li conosce. L’intelletto che simultaneamente e attualmente conosce tutti i fattibiliè infinito. Tale è l'intelletto del primo essere».37
35) IbicL, q. 2, nn. 111-113. 37) Ibid, n. 125.
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Parte seconda
«Anche per la terza via, quella che parte dal fine, si argomenta così: la volontà umana può desiderare ed amare qualcosa di più grande di ogni bene finito, come lo può conoscere, ora pare chiaro che la sua inclinazione naturale è maggiore nell’amare sommamente il bene infinito. Uinclinazione naturale nella volontà Verso qualcosa, infatti, la si desume dal fatto che per se’, senza alcuna abitudine, la volontà libera Vuole quell'oggetto prontamente e dilettevolmente. E così sperimentiamo la volontà libera nell'atto di amare il bene infinito, anzi sembra che essa non riposi perfettamente in nessun altro bene».38 «Nella quarta via, si consegue lo stesso intento mediante la Via dell’eminenza (per "uiam eminentiae) e lo provo così: è impossibile che ci sia qualcosa di più perfetto dell’essere eminentissimo (eminentissinio incompossilvile est aliquid esse pcrfectius). Invece, non è impossibile che ci sia un essere più perfetto dell'essere finito. Dunque l'essere perfettissimo non è finito».39
Lo stesso Scoto nota che la sua quarta via ha una grande affinità con la via anselmiana del Proslogioiz. Questa è una via che egli giudica sostanzialmente valida, purché venga leggermente ritoccata (paresi colorari), con una piccola aggiunta nella definizione di Dio, definendolo non semplicemente come «l'essere di cui non si può pensare nulla di più grande», bensì come «l'essere pensato senza contraddizione, di cui non si può pensare uno maggiore, senza contraddizione». Ecco allora come il Dottore Sottile rielabora la prova ontologica di Anselmo: «Con ciò si può colorare l'argomento del Proslogion di Anselmo circa il sommo bene pensabile, e intendere la sua descrizione così: Dio è l'essere pensato senza contraddizione (cognito sine contradictiane), di cui non si può pensare uno maggiore senza contraddizione. E che bisogna aggiungere "senza contraddizione" è chiaro. Infatti, la conoscenza di qualcosa o il semplice pensare qualcosa che includa contraddizione, non è pensabile, altrimenti si darebbero due pensabili opposti che in nessun modo farebbero un solo pensabile, perché nessuno dei due determinerebbe l’altro».40
«Dunque, se è concepibilesenza contraddizione, il sommo pensabile (Dio) esiste anche in realtà. Per questo, Dio viene concepito come primo essere per sé quidditativamente perché in esso l'intelletto trova la sua massima soddisfazione, per cui bisogna dire che Dio possiede la natura di oggetto primo dell'intelletto, vale a dire dell'ente e questo in sommo grado (ratio primi obiecti intcllectus, scilicet entis et in summa). 38) lbid, n. 13o. 39) iena, n. 131. 40) una, n. 137.
Giovanni Duns Scafo
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Inoltre, l'essere in questione è l'essere realmente esistente (esse existentiae). Infatti non esiste solo nell'intelletto pensante, perché in tal caso
potrebbe sia essere che non essere mentre ripugna al concetto di esseil massimo, di dipendere da altri. Il pensabile, quindi, che esiste anche fuori dalî'intelletto è maggiore di quello che esiste solo nell'intelletto. Non nel senso che uno stesso essere, pensato soltanto, diventi maggiore se esiste in realtà, ma nel senso che un pensabile esistente è maggiore di ogni pensabilesoltanto pensatowfl re
l
Giunti al termine della lunga ricerca scotista, che ci ha portato alla scoperta di Dio come ens infinitum in actu, vale la pena osservare che «per Duns Scoto l'infinita non è propriamente un attributo di Dio, ma il costitutivo formale dell'essenza divina. Dinfinitas, infatti, non è una proprietà, ma un modo intrinseco dell'essere. L’infinità si rapporta all'essenza in maniera diversa da come si rapportano gli altri attributi, la bontà, la sapienza, la potenza ecc.. Poiché quando si afferma che Dio è somma bontà, eterna sapienza, ecc. si dice una cosa esattissima, ma non si sfugge alla suggestione di configurarsi questi attributi come qualità che ineriscono all'essenza divina a modo, quasi, di accidenti. Questo invece non succede quando si dice che Dio è infinito (...). La qualifica di infinito invita ad entrare, per così dire, nell'intimità dell'essere e a misurare l'intensità ontologica con cui quell'essere si oppone al nulla e si caratterizza radicalmente di fronte ad ogni altro essere. Mentre le altre perfezioni divine sono partecipate in qualche modo dalle creature, l'infinita è esclusiva di Dio; è ciò che lo separa e lo fissa, per cosi dire, nellinviolabilemistero della sua divinità. Proprio perché Dio è infinitum, egli è unico e perciò sovranamente libero>>.42
un essere
singolarìssimo,
Con la scoperta dell'aria: infiniturn in actu la metafisica ha praticamente esaurito il suo compito e deve cedere il passo alla teologia. Solo la rivelazione oramai può mettere l'uomo in condizione di continuare il discorso intorno a Dio. Come sappiamo, Scoto opera una cesura profonda tra teologia filosofica (metafisica) e teologia rivelata. ll Dio dei filosofi, a suo giudizio, rimane ancora un Dio anonimo, molto vicino alle creature dalle quali l'uomo ricava una certa conoscenza di esso. È sul piano dellunivocità che egli si forma l'idea di Dio. Sono le stesse perfezioni delle creature che Vengono proiettate su Dio aggiungendo il qualificatore infinito. Cosi la bontà divina diviene bontà infinita, la sapienza divina diviene sapien-
41) De printo principio IV, nn. 134-135. 42) E. BETTONI, 0p. cit., pp. 230-231.
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Partc seconda
infinita ecc. Ma dell'infinito l'uomo non possiede nessun concetto positivo, così neppure i metafisici possono elevarsi a un concetto positivo della natura e degli attributi divini. Tuttavia quello della metafisica, secondo Scoto, non è un Dio falso, za
lasciava intendere Bonaventura con le sue durissime critiche ai filosofi, ma è un Dio estremamente povero, ancora tutto avvolto nella nebbia, che nulla o quasi nulla svela del suo volto. Per conosce il vero volto di Dio occorre la rivelazione divina, la quale ci istruisce sulla natura e sull'attività ad infra e ad extra di Dio. come
L'origine del mondo: la dottrina della creazione Messa al sicuro l'esistenza del Principio primo, implicitamente è stata spiegata anche l'origine del mondo: il mondo non è autonomo, né autosufficiente, ma è stato causato. Colui che l'ha prodotto è il Primo Principio, Dio. Ma in che modo il mondo procede da Dio? Per emanazione, avevano risposto la metafisica classica (Plotino, Proclo) e la metafisica araba (Al-Farabi,Avicenna, Averroè). Per creazione, aveva risposto la metafisica cristiana (Origene, Agostino, Anselmo, Tommaso, Bonaventura). La dottrina creazionjsta al tempo di Scoto non solo era unanimemente accettata dai filosofi cristiani, ma anche precisata nei suoi assunti principali e sottratta a fraintendimenti pericolosi. Dopo Guglielmo d’Auvergne, Tommaso d'Aquino e Bonaventura non era più possibile confondere il creazionismo cristiano con il creazionismo imperfetto di Al-Farabi,Avicenna e Averroè: tutte le cose era chiaro ormai procedono da Dio direttamente, integralmente, e per via di conoscenza e di amore, cioè liberamente. Più che sull’atto creativo, che è una productio rei ex nihilo sui et subiecti, un atto che avrebbe potuto aver luogo ab aetemo, Scoto si sofferma su ciò che 1o precede e sugli effetti che lo accompagnano. Ovviamente prima di essere create le cose erano già presenti nella mente divina. Qui Scoto si chiede in che modo la mente divina si formi le idee delle cose. Le idee sono ordinate alla creazione, quindi non sorgono nella mente divina autonomamente. Perciò, secondo Scoto, per spiegare la formazione delle idee in Dio non basta un atto dell'intelletto divino che contempli la molteplice imitabilità della divina essenza, come aveva insegnato S. Tommaso. A parere di Scoto, questo modo di intendere le cose, «sembra svilire l'intelletto divino, poiché allora sarebbe passivo rispetto agli altri oggetti conosciuti attraverso queste idee, perché quegli oggetti lo attuerebbero alla conoscenza di queste idee (zridetur vilzficare intellectum divinum, quid tunc esset passivus respectu alia-
-
Giovanni Duns Scafo
rum
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objectorunz Cognitorum per istas rationes, per quale actuabiturad cognitiv-
istarum rafi0nurn)».43 Duns Scoto, a differenza di S. Tommaso, non ritiene che Dio vede i possibili come esistenti nella sua essenza in quanto imitabile, ma che prima li pone e li fa esistere in esse intelligibilicon il suo intelletto, e poi coglie il rapporto di imitabilitàche esiste tra essi e la sua essenza. «Risulta così che Dio conosce le creature non in quanto
nem
conosce la sua essenza come ìmitabile all'infinito, ma, Viceversa, conosce la sua essenza come infinitamente imitabile in quanto il suo intelletto nell’idea di sé produce anche le idee delle cose possibili.In questo modo Pintelligibilità delle Cose è riportata all'intelletto divino come al luogo originario di ogni verità. In questo modo anche il mondo delle essenze ripete la sua origine, come effetto da causa, da Dio e, precisamente dalYintelligenza divina».44 La creazione del mondo è il frutto di una libera opzione della volontà divina. Questo è un concetto che, secondo Scoto, i "filosofi" non hanno mai raggiunto ed egli è dell'avviso che il concetto di creazione è estraneo alla ricerca razionale e appartiene all'ambitodella fede. Mentre, secondo Scoto, il costitutivo metafisico di Dio è l'infinita, il costitutivo metafisico del mondo è la contingenza, una contingenza radicale che non riguarda solo il divenire ma l'essere stesso del mondo. Il mondo, come insieme di esseri contingenti, non può essere che contingente, svelando così che esso non dipende da sé, ma da un essere-causa che liberamente ne fonda l'esistenza e ne garantisce la consistenza e la durata. La dipendenza del mondo da Dio non può essere spiegata adeguatamente dalla relazione di causalità, perché non salverebbe dal necessitarismo, ma solo dalla relazione creaturale che traduce il vincolo libero e amoroso di Dio verso il mondo. La relazione creaturale, a diffe-
di quella causale, implica e comporta una dipendenza ontologica da Dio che condiziona la struttura intima dell'essere contingente. In quanto modalità intrinseca e positiva dell'essere, il concetto di continrenza
genza presenta due caratteristiche essenziali: dipendenza nell'essere e nelfagire. Caratteristiche che, secondo Duns Scoto, postulano che sia necessario nell'esistenza e contingente nell’operare. Essere un Con tutta la scuola francescana Duns Scoto sostiene la teoria dell'itemorfismo universale. Secondo il Dottore Sottile non solo la materia è la prima creatura di Dio ma è anche un elemento costitutivo per tutte le creature, terrestri, celesti ed angeliche. Inoltre, diversamente da S. Tommaso che non riconosceva alla materia alcuna autonomia ontologica necessità
43) 44)
Ordinati}; l, d. 35, q. un. E. BETTONI, 0p. cit., p. 235. Cf. E. GILSON, [san Duns Scotus... cit., pp. 279-315.
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Parte seconda
(essendo pura potenza passiva), Duns Scoto assegna alla materia una propria realtà, poiché, se non fosse così, la materia non potrebbe essere il
"ricettacolo" della forma. In quanto termine immediato di un atto creatila materia prima possiede una propria identità ontologica, minima quanto si vuole, ma propria e specifica. Per il grande Dottore francescano sembra contraddittorio affermare nello stesso tempo che la materia è creata e che riceve dalla forma la propria attualità. Ciò che era possibile nel necessitarismo aristotelico, cui era ignota la verità della creazione, non è più possibile nella nuova concezione creazionistica del mondo. La materia, perciò, secondo il Dottore Sottile non solo è una potenza oggettiva ma è anche una potenza soggettiva, cioè un soggetto con una sua specifica identità anche se minima e imperfetta. Tale identità viene chiamata agostinianamente prope nihil ed entra nella sfera della dottrina dell'oggetto proprio dell'intelletto e del concetto univoco dell'essere. Dove Duns Scoto prende le distanze da tutti gli altri scolastici, francescani inclusi, è nella dottrina della individuazione. La distinzione tra gli individui era generalmente attribuita alla materia e più precisamente alla materia segnata dalla quantità (quantitate signata). Per Duns Scoto questo significa misconoscere il valore e l'importanza dell'individuo. Per il filosofo scozzese l'individuo concreto possiede rispetto alla natura comune o specie un grado più elevato di perfezione. Di conseguenza, l'indi.viduo concreto è più perfetto della specie, e nella relazione individuo-specie prevale l'individuo sulla specie, come a dire che la specie è per l'individuo e non l'individuo per la specie, come avevano insegnato Aristotele e Avicenna. Perciò l'individuazione della sostanza concreta dev'essere posta in una entità positiva, intesa come attualizzazione completa dell'essere sostanziale. Questa entità singolare che caratterizza l'essere singolare è chiamata da Duns Scoto con il termine haecceitas, che letteralmente si potrebbe tradurre questa entità o questità e che invece propriamente significa l'ultima determinazione di un ente che lo individua nella sua irripetibilesingolarità. Per es. nel caso dell'uomo, la Imecceitas è il coronamento della forma umana in forza del quale non è più soltanto uomo, ma questo uomo come essere singolare e irripetibile:è la platonicità per Platone, la petrinità per Pietro ecc. La soluzione offerta da Duns Scoto è veramente rivoluzionaria in quanto si contrappone aila tradizione greca, che affermava la priorità delfuniversale, la specie, sul singolare, e riconosce un valore ontologico all'individuo, la cui essenza risulta anche la più perfetta. In questo modo Duns Scoto, superando la tradizione scolastica, apre la strada all'umanesimo, l'epoca del trionfo dell'individuo. vo,
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L'uomo e il suo destino Abbiamovisto che Duns Scoto traccia un solco profondo tra il discorso metafisico che l’uomo può fare su Dio e il discorso invece che può fare guidato dalla rivelazione. La "navigazione metafisica" è in grado di toccare terra, di giungere a conclusioni certe, ma l'approdo avviene in un territorio nonostante tutto ancora misterioso e in gran parte sconosciuto. La stessa divaricazione si attua nella speculazione scotista su quell'essere profondamente metafisico che è l'uomo. Anche qui il discorso metafisico riesce appena a sfiorare il mondo dello spirito, mentre ogni ulteriore chiarificazioneè rimandata alla teologia. Tra le diverse forme di antropologia formulate dai pensatori medioevali, quella di Duns Scoto si distingue per originalità e profondità. La caratteristica fondamentaleche qualifica l'antropologia scotista appare con tutta evidenza dalle problematiche sollevate nella controversia tra filosofi e teologi. Dal suo contesto risulta che vi sono due modi essenzialmente diversi di leggere la complessa realtà dell'uomo: l'uno fondato sul presupposto che la natura umana sia qualcosa di stabile, non soggetto al divenire e immutabilenella sua essenza, l'altro invece sulla visione dell'uomo come di un essere storico e mutevole nella sua essenza. La posizione di Duns Scoto, pur collocandosi in una prospettiva teologica, in quanto tiene conto della condizione "storica" dell'uomo come si rivela dal dato biblico, si sviluppa in chiave filosofica, perché guarda la realtà umana nella sua tensione verso l'infinito e il trascendente. «ljoriginalità della posizione di Duns Scoto consiste essenzialmente nel condurre l'analisi in modo da porre l'uomo nella condizione di fare una scelta critica tra le due forme di antropologia, naturale l'una e naturale aperta al soprannaturale l'altra. Scelta che rimanda sempre a un atto di fede. Di conseguenza l'antropologia scotista si polarizza sul concetto di libertà, sia nelle sue manifestazioni esistenziali che nella sua radice ontologica. Libertà che Duns Scoto Considera come un riflesso della Libertà di Dio che si è manifestata in Cristo, onde la sua ricerca sulla realtà "storica” dell'uomo come creatura che sintetizza in se’ il carattere naturale dell'essere ordinato al soprannaturalew“ In forza di tale visione antropologica, le manifestazioni principali della libertà dell'uomo si possono polarizzare intorno a quelle tre specifiche domande che da Kant in poi diventeranno imprescindibili:che cosa è l'uomo?, che cosa può fare l'uomo?, che cosa può sperare l'uomo?
45)
G. LAURlOLA, op. cit, p. 71.
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Parte seconda
CHE COS'È L'UOMO? A questa prima domanda sull'essere dell'uomo Duns Scoto risponde che l'essere umano è una realtà unitaria e complessa a un tempo. L'unità appare in tutta la sua portata nella singolarità che, pur non identificandosi formalmente con l'essere, è coestensiva con l'essere reale dell'uomo. La singolarità designa l'unità fondamentale dell'essere umano e costituisce una delle caratteristiche peculiari della persona definita come «esistenza incomunicabiledi una natura intellettuale». La realtà umana, pur essendo unitaria, non è semplice ma palesemente complessa: è composta quanto meno di due elementi fondamentali, anima e corpo. Discutendo questa innegabileComposizione, Scoto è dell'avviso che la forma sostanziale. che conferisce l'essere reale all'uomo non sia data esclusivamente dall'anima, ma contemporaneamente anche dal corpo, mediante la forma corporeitatis, senza togliere al corpo stesso la funzione di materia. La forma corporeitatis conferisce ad ogni singolo corpo la sua attualità di composto fisico vivificabiledalla forma animae, come si evince al momento della morte. La forma corporeitatis è l'ultima disposizione della materia organizzata, e la rende idonea a essere informata dal principio vitale. In questo modo, il corpo stesso diviene una dimensione essenziale, con una propria specifica dignità, dell'essere umano. L'altra dimensione essenziale del composto umano è l'anima. Essa svolge la funzione di forma sostanziale, ma non unica, del composto umano, e non esaurisce la propria realtà nell’informare il corpo. DelYanima non si ha conoscenza diretta e immediata. La sua natura spirituale viene colta specialmente dalle manifestazioni peculiari dell'attività conoscitiva e del volere libero. E così si passa alla seconda domanda.
CHE COSA PUÒ FARE L'UOMO?
dispone di molte facoltà vegetative e sensitive, ma anche e soprattutto di due facoltà spirituali: l'intelletto e la volontà. A quale di queste due facoltà spetta il primato? Sappiamo che tutta la metafisica classica aveva assegnato il primato all'intelletto, mentre la metafisica cristiana, già a partire da Agostino si muove verso il riconoscimento di un primato della volontà. Il primato dell'intelletto era stato nuovamente riaffermato L'uomo
dall'aristotelico Tommaso; invece Scoto ritorna decisamente ad affermare la superiorità della volontà. La ragione di questa priorità è dovuta principalmente alla libertà, che è una prerogativa esclusiva della volontà. Infatti mentre l'intelletto è una facoltà necessaria che non si può sottrarre all'azione dell'oggetto conosciuto, la Volontà è un potere perfettamente libero, che può accogliere e respingere qualsiasi oggetto, Dio compreso. La volontà è padrona di se stessa, dei propri atti e dei suoi oggetfi.
Giovanni Duns Scoto
In Duns Scoto la dottrina della
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preminenza incondizionatadella vo-
lontà, che giustifica l'appellativo di volontarismo che viene dato al suo sistema, raggiunge, nell'ambito della tradizione scolastica, gli antipodi
rispetto
all’intellettualismo dell'antichità. La visione della Vita
e del mondo cristiano perviene così a un'espressione concettuale propria come mai in precedenza si era verificato, neppure in Agostino. Il distacco da Plotino e da ogni forma di platonismo intellettualistico è altrettanto perfettamente e chiaramente concluso in questo campo, come il distacco da Aristotele, contro le cui influenze nel tomisrno combatte soprattutto Duns Scoto. Che l'atto di volizione sia determinato dalla conoscenza precedente dell'oggetto del volere e espressamente rifiutato da Scoto. Per quanto nell'agire particolare su Cose reali il sapere di esse possa dirsi una causa sine qua non dell'operazione, il principio agente è tuttavia la volontà, che in se stessa non è per nulla condizionata dalla conoscenza. Piuttosto la volontà determina se stessa in modo completamente autonomo ed è il movens per se di ogni azione, la causa unica e totale delle sue Volizioni, causa sufficiens omnis actus sui. La questione del fondamento ulteriore della volontà è priva di senso: essa è qualcosa di assolutamente ultimo. Il volere è libero per sua essenza, anche nei confronti dei fondamenti di determinazione dell'intelletto. La decisione è sempre un puro atto di Volontà; essa non giunge all'azione perché è spinta ad essa da una conoscenza. La sua decisione non è in alcun modo già fissata dallo stato della conoscenza. La volontà ha pur sempre la possibilitas ad utrumqzae, essa può decidersi in modi tra loro opposti, volgersi al bene o al male, a ciò che è conosciuto come superiore o a ciò della cui inferiorità si è ben consci. La volontà non solo può opporsi agli allettamenti dei sensi, ma anche ai beni presentati dall'intelletto: accade spesso che la volontà si decida anche contro una migliore visione della ragione. Per quanto sussista una naturale inclinazione al bene e alla felicità, la volontà rimane sempre libera di respingere i beni più alti, anche quelli già conosciuti come tali. La libera potestà del volere può decidersi una volta positivamente, e poi di nuovo negativamente nei riguardi di un medesimo oggetto, senza che nulla sia mutato quanto alla conoscenza che si ha di quello. La volontà come tale è sempre causa z'ndeterrnz'nata ad alterutrum oppositorum. Che Vi sia una tale Volontà, come principio della "contingenza" e come causa totale di per sé incondizionata,è mostrato non solo da una immediata evidenza interiore, ma, secondo Scoto, è anche una conseguenza necessaria dell'esistenza in noi della coscienza della responsabilità morale. Non è l'intelletto che viene biasimato nel giudizio morale, ma la volontà; non è l'intelletto a essere sentito come causa dell'azione peccaminosa, ma è la sola volontà a essere posta a fondamento
694
Parte seconda
della decisione. Se Yobiectunz cognitum, se la conoscenza dell'oggetto determinasse l'atto di volizione, si imporrebbe un nesso necessitante: il volere sarebbe costantemente fissato in modo univoco dal processo naturale dell'azione dell'oggetto sul soggetto: così la contingenza di possibilità contrarie non potrebbe mai aver luogo sebbene essa sia la
base di ogni concetto di responsabilità. Certo non v'è nessun volere completamente cieco,
privo di ogni legaanche Scoto. Ma lo riconosce conoscenza dell'oggetto. Questo me con dell'intelletto valida in questo contesto rimane come portatol'immagine re della fiaccola per la volontà, che e Yautentico principio di movimento per tutte le facoltà dell'anima. L’intelletto è solo causa subserviens volumtati, e non fondamento di determinazione dell'azione volontaria; per contro «la volontà che comanda l'intelletto è in rapporto al suo atto la causa superiore». Così non è la conoscenza a determinare il bene e il male della volontà, ma questa stessa è il fondamento dello sviluppo della conoscenza. Non è l'intelletto a determinare la volontà, ma inversamente, voluntas imperat intellectui. La direzione peccaminosa della volontà è causa dell'accecamento; l'orgoglio, ad esempio, conduce al disconoscimento dei valori altrui, condiziona Yallontanarsi dal bene che si potrebbe conoscere. E così, inversamente, è la volontà buona ad aprire l'anima alla conoscenza dei veri beni raggiungibilie delle Vie che ad essi conducono.“ la
CHE
COSA
PUÒ SPERARE L'UOMO?
Come abbiamo già anticipato, l'analisi metafisica dell'uomo in Duns Scoto si ferma a metà strada: egli dell'anima riconosce la spiritualità ma non l'immortalità. A suo parere nessuno degli argomenti addotti dalla metafisica classica e cristiana è rigorosamente probante. Non tiene l'argomento che ha come premessa Yimmaterialità dell'anima. Duns Scoto osserva acutamente che in questo argomento si presuppone ciò che si vuole provare. Per essere probante l'argomento dovrebbe portare all'evidenza che ogni essere immateriale sia ontologicamente necessario. Conclusione che non si può applicare all'anima, perché almeno nell'origine è contingente. Anche gli argomenti tratti dall'autorità di S. Agostino non sembrano a Duns Scoto rigorosamente dimostrativi. ll primo si fonda sull'istintivo orrore che l'uomo ha della morte. Il Dottore Sottile ribatte semplicemente che tale istinto non è identificabilecol desiderio naturale di immortalità. Perché vi sia identificazione occorre che sia evidente che l'anima è destinata a sopravvivere al corpo. Ciò, però, non appare!
45)
Cf. E. GILSON, jean Duns Scotus... cit., pp. 574- 624.
Giovanni Duns Scoto
L'altro
695
argomento prende spunto dal desiderio di felicità insito
in
felicità che non può essere perfetta se non è eterna. Anogni che riguardo a questo modo di argomentare Duns Scoto osserva: la validità dell'argomento riposa sulla certezza che la visione beatifica di Dio costituisce la felicità dell'uomo. Ora, una simile tesi non è filosoficamente provata né provabile. Sarebbe possibile una simile conclusione se si uomo: una
dimostrasse vero che oggetto
proprio dell'intelletto è Dio. Ma, per Duns abbiamo Visto, l'oggetto proprio dell'intelletto è l'ente in quanto tale. Al massimo con questo argomento si può arrivare a provare che l'uomo ha la "possibilità" di essere elevato all'ordine soprannaturale, ma non alla dimostrazione che ciò costituisca una esigenza intrinseca Scoto,
come
della natura umana."
metafisica scotista, si può concludere: rigorola tesi dell'immortalità dell'anima, come in altre queparlando che da è credere verità stioni-limite, più una una conclusione dimostrata filosoficamente. Duns Scoto, infatti, spinge al massimo consentito dalla ragione l'apertura dell'ordine naturale verso l'ordine soprannaturale, così da esigerlo come dono da parte della fede. Filosoficamente, quindi, Duns Scoto riesce a concludere intorno alla possibilità e convenienza dell'immortalità dell'anima, mentre spetta al teologo dimostrarne la necessità e la certezza, tenendo conto del dato rivelato.“ In sintonia
con
tutta la
samente
Conclusione: grandezza e
importanza di Duns Scoto
Con Alberto Magno, Bonaventura e Tommaso d'Aquino, Duns Scoto dei quattro grandi dell'epoca d'oro della Scolastica, di cui egli rappresenta anche la vera e propria conclusione. Lo splendore della sua stella è stato però alquanto oscurato dalla grandezza della figura di S. Tommaso, soprattutto dopo che le dottrine dell'Angelico ricevettero la consacrazione ufficiale del Magistero ecclesiastico. Ma da vari decen— ni gli studi sul pensiero del Dottore Sottile si sono andati moltiplicando e grazie ai saggi importanti di P. Minges, J. Klein, P. Balic, B. Landry, è
uno
Longpré, C. R. S. Harris, E. Gilson, E. Bettoni, L. Veuthey,M. Heidegger O. Todisco si è registrata una sostanziale rivalutazione della figura e del pensiero di Duns Scoto. È superfluo dire che Scoto è la figura più rappresentativa della scuola francescana, nella quale gode il prestigio di un Vero capo-scuola. «I francescani sono stati attratti da Duns Scoto e hanno fatto di lui il loro capoE.
e
47) 48)
Cf. Ordinatio IV, d. 43, q. 2. Cf. E. GILSON, Iean Duns Status... cit., pp. 480-486; E. BFTTONI, 0p, cit., pp. 134-140.
Parte seconda
696
non solo perché nella sua opera fervono il bellissimo aspetto perfezione di S. Francesco e gli ardori dello spirito serafico, ma perché Scoto stesso afferma la supremazia della carità sulla scienza, il primato universale di Cristo, somma opera di Dio, esaltatore della
scuola, della
SS. Trinità, redentore del genere umano, Re nell'ordine naturale e so— prannaturale, presso il quale splende di congenita bellezza Maria Immacolata, Regina del rnondo».49 Meno palesemente mistico di Bonaventura, più desideroso soprattutto di purificare l'eredità cristiana dalle formule talvolta ambigue di un mondo platonico concepito come imago Dei, in cui la ricerca e le similitudini possono far disconoscere tanto la funzione decisiva della Volontà divina quanto l'infinita distanza che separa la creatura dal Creatore, «Duns Scoto, anche nelle analisi più sottili, resta fedele più di quanto non sia stato detto, alla tradizione di S. Francesco, quando pone l'amore come intenzione prima di tutti i voleri divini ad extra».50 Gli studiosi non sono invece d'accordo sulla precisa caratterizzazione del pensiero di Duns Scoto. Ciò che è abbastanza evidente è che il Dottore Sottile ha tentato di operare una sintesi tra agostinismo e aristotelismo a partire da S. Agostino. In questo egli ha compiuto l'operazione inversa rispetto a S. Tommaso, il quale aveva cercato una sintesi del platonismo agostiniano con Paristotelismo a partire da Aristotele. Per alcuni studiosi il tentativo di Scoto non sarebbe riuscito. Tale è il parere, per es., di L. Veuthey, il quale scrive: «Scoto ha tentato di effettuare questa sintesi, ma non ha rispettato nelle sue formule la dualità necessaria dell'uno e dell'altro spirito; in tal modo ha ottenuto una lega che spesso è una miscela tra spirito agostiniano e spirito aristotelico, mentre lo scopo da conseguire non deve essere una miscela, ma una sintesi che rispetti
l'altro spirito, distinguencloli dalle loro proprie formule; non potendo essi affatto esprimersi con formule identiche senza pericolo di confusione e di contraddizione».51 Di parere opposto è invece E. Longpré, il quale sostiene che Duns Scoto è «un costruttore potente, per l'altezza come per la profondità delle dottrine. Egli ha elaborato un sistema di spiegazioni coerenti, anche se calate in uno stile un po’ tormentato. Alcune grandi idee illuminano e sorreggono le sue costruzioni metafisiche e teologiche: affer-
l'uno
e
49)
ZAVALLONI, Giovanni Duns Scoto, maestro di trita
50) 51)
R.
e
pensiero, Bologna 1992,
p. 100.
F. VAN STEENBERGHEN-A. F()I
p.497.
L. VEUTHEY, La scuola francescana francescana» 36 (1936), p. 33.
e
la critica filosofica rrioderna, in «Miscellanea
Giovanni Dzms Scoto
697
marle e farle trionfare, ecco l'obiettivo dei suoi sforzi e della sua dialettica incisiva. E, anzitutto, Duns Scoto ebbe la preoccupazione squisitamente francescana di elaborare
piano della
una
concezione
generale dell'intero
realtà dal punto di vista dell'amore. Duns Scoto ha fatto vedere che le cose, a qualsiasi ordine appartengano, si organizzano intorno all'amore; in più egli ha dimostrato in qual modo la potenza conoscitiva dell'intelletto, l'unità del sapere, l'esistenza della metafisica, l'incrollabilefermezza dei principi, la conoscibilità di Dio, si fondano sull'idea univoca di essere e sul suo valore assoluto e trascendente»? Come già precedentemente riportato, secondo Gilson la sola sintesi completa di Scoto è la sintesi teologica, con al centro l'espressione giovannea «Deus caritas est».53 A mio parere la diversità degli esiti dei tentativi di comporre una grande sintesi tra aristotelismo e platonismo agostiniano compiuti da Tommaso e da Scoto dipendono dal diverso concetto di essere con cui i due sommi Scolastici hanno cercato di operare la mediazione e la fusione. S. Tommaso lo ha fatto ricorrendo al concetto "forte" di essere (esse ut actus): esso gli consentì di elaborare una metafisica forte e, di conseguenza, di forgiarsi uno strumento forte per compiere il suo lavoro teologico, ottenendo splendidi risultati nelle dottrine su Dio, su Cristo, sugli angeli, sull'uomo, sull’anima umana, sulla grazia ecc. Invece Scoto ha fatto ricorso al concetto ”debole" di essere (esse commune); questo gli ha fornito una metafisica debole e, quindi, uno strumento povero per compiere la sua riflessione teologica. Le rispettive definizioni di Dio: l'asse ipsum subsistens di S. Tommaso, e Fans infinitum in acta di Scoto sono emblematiche. Esse, logicamente, danno vita a due visioni teologiche molto differenti: alla visione fiduciosa di acquisire mediante l'analogia una qualche conoscenza positiva e veridica di Dio: e questa è la visione del Dottore Angelico; e alla visione che mette fortemente l'accento sulla trascendenza di Dio, e che lo rende assolutamente inaccessibile alle categorie limitate e finite della ragione umana: ed è la visione del Dottore Sottile. Non si possono certo minimizzare i numerosi punti di convergenza che esistono tra Tommaso e Scoto, grazie alla loro comune eredità agostiniana. Ma le differenze rimangono tante e profonde. Come ha scritto C. R. S. Harris, le principali differenze consistono in questo: «mentre Tommaso mette in particolare rilievo l'elemento "necessario" della rivelazione divina, cioè le verità relative all'essere divino nella sua natura intrinseca, Scoto pone l'accento sull'aspetto contingente della teologia,
52) E. LONGPRÉ, La philosophiedu B. Duns Scot, Paris 1924, pp. 272-273. 53) Cf. E. GlLSON, Ietm DLHIS Scotus... cit., p. 339.
698
Parte seconda
cioè sull’insieme dei rapporti fra Dio e il mondo, i quali dipendono interamente dal libero agire della volontà divina e non sono però trattabili razionalmente. In ultima analisi questa differenza deriva dalle loro diverse concezioni psicologiche. Tommaso è in ogni caso un intellettualista, e per lui l'intelletto è la facoltà più nobile, sia nell'uomo sia in Dio; di qui la sua tendenza a interpretare i fenomeni volitivi in modo deterministico. Non così Duns Scoto: per lui la Volontà, sia nell'uomo sia in Dio, gode il primato e diventa, in fin dei conti, il principio supremo
della sua cosmologia»a4 Dal punto di Vista storico col suo volontarismo, il suo criticismo e soprattutto con la scissione dell'armonia tra fede e ragione, Duns Scoto, che si trova a cavallo tra la grande e l'ultima Scolastica, spalanca la porta alla via moderna, che è sia la via nominalistica di Occam sia la via mistica di Eckhart. Infatti, «è esplicitamente in rapporto a Duns Scoto, sia rigettando la sua ontologia, sia servendosi dei suoi metodi dialettici, che i pionieri della via moderna daranno un nuovo aspetto all'ultimo periodo della Scolastica. In questo senso bisogna situate il dottore francescano alla congiuntura delle due epoche».55
54) 55)
C. R. S. HARRIS, Duns Scotus, Oxford 1927, vol. I, p. 94. F. VAN STEENBERGHEN-A. FoREsT-M. DE CANDILLAC, Il movimento dottrinale... ciL, p. 496.
Giovanni Duns Scoto
699
Suggerimenti bibliografici Opere: Opera Omnia,
Wadding, Lyon 1639 (ristampa: studio et cura Commissionis Omnia, Opera Scotisticae ad {idem codicum edita praeside C. Balic, ‘L. Modric, Civitas Vaticana 1950 (V011. pubblicati: I-VII e XVI-XVHI); II prirao principio degli 12 VOIL, ed.
Hildeshcim 1968-1969);
esseri, ed. Scapin, Padova 1973.
Stadi: E. BETTONI, Duns Scoto filosofo, Milano 1966; M. DAMIATA, e II tavola. L'etica di G. Duns Santo, presentazione di S. Vanni Rovighi, Firenze-Pistoia 1973; E. GILSON, Iean Duns Scotus. Introduction à ses positions fondamentaics, Paris 1952; M. GRAJEWSKY, The Formal Distinction of Duns Scotus. A Study in Metaphysics, Washington 1944; M. HEIDEGGER, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A. Babolin, Roma-Bari 1974; W. HOFRES, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, a Cura di A. Bizzotto e A. Poppi, Padova 1976; O. TODISCO, L0 spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns Scoto, Roma 1975; A. B. WOLTER, The Transcendentals ami their Punction in the Metaphysics of Dzms Scotus, I
St.
Bonavcnture, N. Y. 1946.
700
LA SCUOLA AGOSTINIANA: ENRICO DI GAND E EGIDIO ROMANO
Nella storia della Chiesa, della teologia, della spiritualità, della filosofia e della metafisica, il secolo XIII è dominato dai due nuovi Ordini religiosi fondati da S. Francesco e S. Domenico. Grazie ai singolari carismi dei fondatori degli Ordini Mendicanti, non solo la vita della Chiesa e la predicazione registrano una profonda trasformazione, ma anche il livello culturale della cristianità sale notevolmente. Ciò avviene soprattutto con l'ingresso dei Francescani e dei Domenicani nelle università di Parigi, Oxford, Napoli, Bologna, Padova. Non è un caso che tutte le figure più prestigiose della teologia e della filosofia del secolo XIII appartengano agli Ordini di S. Francesco e S. Domenico. La possente crescita dei nuovi Ordini mette in difficoltà il clero secolare e i vari Ordini religiosi che si richiamavano alla regola di S. Agostino, ma non li soffoca completamente. Anche nelle loro file ci sono uomini di valore che danno un significativo apporto al rinnovamento della filosofia e della teologia. Per quanto attiene la metafisica il contributo più importante viene da Egidio Romano e Enrico di Gand.
Enrico di Gand
dagli inizi del secolo XIII l'indirizzo metafisico dominante era quello agostiniano, il quale aveva avuto tra i suoi sostenitori oltre ai pensatori dell'Ordine Francescano anche numerosi maestri del clero secolare. Tra di essi il più celebre fu Enricopdi Gand. Questi nasce a Gand intorno al 1217. E già da alcuni anni canonico della cattedrale di Tournai, quando, nel 1276 gli viene assegnata una cattedra di teologia a Parigi, che ricopre fino al 1293. Il suo insegnamento è egualmente distante sia dalle posizioni filosofiche degli averroisti sia da quelle dei tomisti. Ebbe un ruolo importante nella elaborazione del "sillabo" con cui il Vescovo Tempier condannò nel 1277, oltre a un Considerevole numero di tesi di Sigieri di Brabante, anche alcune proposizioni di S. Tommaso d'Aquino. Appartenendo al clero secolare, per quanto apprezzato dai suoi contemporanei Enrico di Gand non riuscì a crearsi una propria scuola e anche per questo molti dei suoi scritti andarono perduti. Fin
stato
La scuola agostiniana
701
Le opere più significative di Enrico che ci sono pervenute sono la Summa quaestionum ordinariarum e le XV Quaestioncs quodlibetales. Tra gli inediti figurano: Syncategorematum liber, Quaestîones in libros metaphysicae, Commentarium in libros physicortzm. Enrico di Gand ebbe una rilevante partecipazione alla dispute del suo tempo. Ma come pensatore non è facilmente classificabile:per una certa sua assimilazionedel pensiero di Avicenna e per una sua adesione sostanziale alle linee speculative di Agostino si potrebbe definire la sua filosofia come una specie di agostinismo avicennizzante. Uagostinismo viene immediatamente alla luce nella sua dottrina della conoscenza. Anche Enrico ritiene, come Agostino, che soltanto con la teoria della illuminazionesia possibile spiegare la conoscenza della verità da parte dell'uomo. Ma l'illuminazioneè vista da Enrico più come un dono speciale che Dio concede soltanto ad alcuni uomini come quindi un intervento ad modum actus e non a tutti (ad modum habitus). Secondo Enrico l'uomo con i suoi mezzi naturali può conoscere le cose, che sono vere, ma questo non vuol dire ancora conoscere la verità: «altro è conoscere ciò che è vero nella creatura, e altro è conoscere la sua verità: così come è diversa la conoscenza con cui si conosce la cosa, da quella con cui si conosce la sua verità»! La veritas delle cose è la loro conformità all'idea divina sulla quale sono modellate: non si può quindi conoscere la verità delle cose senza che Dio, in cui sono gli esemplari delle cose, ci illumini. L'avicennismo di Enrico emerge specialmente in metafisica, soprattutto nei concetti di essere e di necessario: questi sono per Enrico come per Avicenna i due concetti fondamentali della metafisica, la quale ha come oggetto proprio lo studio dell'essere in quanto tale, ma l'essere viene immediatamente collegato a ciò che è necessario, e questo può essere tale in due modi, o in se stesso o nella sua causa. Il primo è sussistente in se stesso, il secondo è creato. Questa divisione domina tutta la speculazione metafisica di Enrico. Dellesistenza di Dio si possono certamente dare prove cosmologiche, ma a suo avviso ancora più solida è la prova a priori. Questa prova è tratta immediatamente dal concetto di essere, inteso come puro essere identico a se stesso, nel quale l'essenza si identifica con l'esistenza. In tal modo, formandosi il concetto di essere, l'uomo si forma implicitamente il concetto di Dio: «poiché se l'uomo si rivolge all'ente e lo concepisce come in se sussistente, comprenderà distintamente Dio (quod si adversat homo et concipiat ens ut in se subsistens, Deum distincte intelliget)». Sulla questione della distinzione tra essenza ed esistenza Enrico di Gand prende posizione sia contro Tommaso che contro Egidio Romano (per il quale vedi a pp. 704-705), affermando che tra i due concetti non si dà nessuna distinzione reale, ma semplicemente ”intenzionale":l'esi—
—
l)
Sumnta quaestionum 0rd. l, 2, 13.
702
Parte seconda
stenza non aggiunge all'essenza se non il respectus (riferimento) a Dio come creatore. L'esistente non è nient'altro che lo stesso ente
realizzato dalla
quale già
sua causa.
caricava i
Anche
possibile qui traspare l'influsso di Avicenna, il
possibili (le essenze) di
tale realtà da rendere del
tutto accidentale l'aggiunta dell'esistenza. Dio possiede le idee di tutte le cose ancor
prima di crearle e non solo che non saranno mai anche di darà l'esistenza cui ma quelle quelle create. Le idee sono però intese in modo differente, a seconda che siano considerate dal punto di vista filosofico oppure teologico. Nel primo di
a
le idee «sono le essenze delle cose nella mente divina»; nel secondo «le relazioni di imitabilitàdell'essenza divina» da parte di tutto ciò che può essere creato. Enrico distingue tra ciò che è oggetto primario della conoscenza divina, che è la divina essenza, e l'oggetto secondario (objectunz secundarium), che ‘e tutto ciò che è distinto da Dio. La conoscenza dell'oggetto secondario, tuttavia, può avvenire in due modi: a) secondo il modo di trovarsi della creatura in Dio (id quod ipsa est in dea); b) secondo il modo di essere della creatura fuori da Dio (cognoscendo de ipsa id quod ipsa habet esse in seipsa aliud a Deo). In quanto conosciute da Dio nella condizione di idee le cose hanno in Lui un esse diminutum, in quanto esistono soltanto in esse cognito: posseggono infatti l'essere di un'essenza che può essere tramutato nell'essere di un esistente reale che è il modo di essere più perfetto.2 Il passaggio delle cose dalla condizione di pure idee, e quindi di essenze possibili, alla condizione di esistenti reali, e quindi di essenze attuali, secondo Enrico è opera della volontà di Dio, 1a quale acconsente liberamente alla creazione di determinati possibili mediante la potenza divina. Il fatto che Dio scelga liberamente tra un'infinità di possibili non modifica il contenuto delle loro essenze: cambia soltanto la loro condizione che passa da quella di mere essenze a quella di essenze realmente esistenti, e questo è l'effetto proprio della creazione. Nellantropologia Enrico segue la tesi della scuola francescano-agostiniana la quale afferma una pluralità di forme nell'uomo: c'è anzitutto una forma corporeitatis per il corpo, e poi c'è una forma speciale per l'anima intellettiva o spirituale. Il motivo di questa distinzione è che l'anima intellettiva, la quale viene creata direttamente da Dio, nel momento in cui viene infusa nel corpo non interferisce con la forma naturale che è già presente nell'embrione. Tuttavia, precisa Enrico, la creazione dell'anima intellettiva avviene nel momento stesso in cui agisce la forma corporea sulla materia dell'embrione. Questo sta a significare che l'uomo non è né interamente creato né interamente generato: la generazione riguarda il corpo con la sua forma e la creazione riguarda l'anima con la sua forma} Per quanto concerne la questione dei rapporti tra volontà e caso,
caso sono
3) 3)
Cf. Quodl. IX, q. 2. Cf. ibid,IV, q. 13.
La scuola agostinîana
intelletto, Enrico si
703
posizione volontaristica tipica dell'indiagostiniano: egli sostiene l'indipendenza della volontà dall’intel— letto e la sua superiorità nella Vita psichica. A sostegno di questa posiattesta sulla
rizzo
zione Enrico dì Gand adduce tutta una serie di argomenti, su cui ritornerà qualche anno dopo Duns Scoto: la Volontà è superiore all'intelletto in virtù del proprio habitus, del proprio atto e del proprio oggetto. Infatti Yhabitus proprio della volontà è la carità, che è superiore all'abito dell'intelletto, cioè la sapienza. Anche l'atto della volontà ‘e superiore a quello dell'intelletto: è infatti la volontà che muove l'intelletto, avendo essa il potere di muovere tutte le facoltà dell'anima: zirziversalis et primus motus in toto regno aniznac. Infine la Volontà Va verso l'oggetto qual è in se stesso, mentre l'intelletto riceve l'oggetto secondo il proprio modo imperfetto di conoscere. E c'è di più: l'oggetto della volontà è il bene universale mentre l'oggetto dell'intelletto è il bene soltanto sotto l'aspetto di vero/l A chi obbietta che ‘e la ragiono a guidare la volontà, Enrico replica che ci sono due modi di guidare (dirigere): « o per autorità: come il padrone guida il servo: questo modo di guidare è superiore; come la volontà dirige l'intelletto. Oppure in modo servile, come il servo guida il padrone, portando innanzi la lanterna di notte perché il padrone non cada: tale modo di guidare è inferiore; e così l'intelletto guida la volontà (ve! auctoritate, sicut dominus servwn: ille est superior; sicut voluntas dirigit
irztellectum. Vel ministerialiter, sicuf serws dominum, praeferendo lucernam ne dominus ofiendat: tale dirigerzs est inferius; et sic intellectus dirigit v0luntatem)>>.5 Certo anche l'intelletto può guidare la volontà, ma lo fa in modo servile (ministerialiler), come quando il servo guida il padrone portando la candela. Assegnando il primato assoluto alla volontà Enrico intende allo stesso tempo difendere anche l'appartenenza esclusiva della dote della libertà alla volontà: la libertà secondo la definizione di Enrico di Gand non è un'attività dell'intelletto, una libertas judicii, ma della volontà: est libertas eligendi’ arbitratum. Propriamente parlando, la libertà non esiste che nella volontà, e quando la ragione rimane incerta e indeterminata, questo è dovuto ancora alla volontà. La volontà può essere inclinata dalla ragione verso questo o quell'oggetto dal giudizio, ma questo giudizio non è che un'occasione per la sua scelta: la vera causa della scelta è la stessa volontà: flectitur ‘ooluntas per seipsamf- Con questo evidentemente Enrico non intende eliminare il concorso divino: Dio è il movente primo d'ogni cosa e quindi anche della volontà: la sua mozione è talmente necessaria che senza il suo influsso e il suo indirizzo, nessun agente può esercitare la propria azionei de nocte
4)
5) 6) 7)
Cf. una, 1, q. 14. Ibid. Cf. ibid, q. 16. Ctibid.
Parte seconda
704
Egidio Romano Egidio Romano, detto Doctor Pundamerztalissimus, nacque a Roma, probabilmente dalla famiglia dei Colonna. In passato si accettava come data di nascita il 1247; oggi si tende ad anticiparla al 1243, tenendo conto dell'età richiesta per conseguire i gradi universitari. Era già istruito in dei Frati eremitagrammaticalibzis et logicalibus quando entro nell'ordineMaria del Popolo. di S. ni di S. Agostino, forse nel convento romano col filosofici studi (conclusi fece Terminato il noviziato a Parigi prima gli ebbe i l'opmagister artium nel 1266) e quindi quelli teologici, per quali portunità di assistere anche alle lezioni di S. Tommaso d'Aquino durante il suo secondo triennio di insegnamento a Parigi (1269-1272). Fu a fianco dell’Aquinate nell'aspra battaglia contro gli averroisti e contro gli dell'ariagostinisti. Nel 1277 fu coinvolto nella condanna di alcune tesi solo anche di se stotelismo tomista, e questo gli impedì conseguire, per breve tempo, il dottorato in teologia. Subito dopo la condanna fece ritor-
in Italia, dove il suo Ordine lo dichiarò suo maestro ufficiale. Nominato vescovo di Bourges nel 1295 partecipò nel 1299 al Concilio dei vescovi francesi indetto da Bonifacio VIII contro Filippo il Bello. Nel 1311 partecipò al Concilio di Vienne in Francia. Morì nel 1316 mentre si trovava alla corte pontificia in Avignone. Egidio Romano ha scritto moltissimo sia in campo filosofico che teologico, prendendo posizioni molto nette e ferme su tutte le questioni filosofiche, teologiche e politiche dibattute ai suoi tempi. a) Scritti filosofici di maggior interesse: i Commenti alle seguenti opere di Aristotele: Primi e Secondi Analitici, Fisica, Metafisica, Politica, Retorica, L'Anima; i trattati: De ente et essentia, De erroribus philosophorum, De universalibus, De materia coeli contra averroistas, De plurificatione intellectus possibilis, De regimine principum. b) Scritti teologici più importanti: Commento alle Sentenze di Pier Lombardo (ll. I-III), e i seguenti trattati: De distinctione articulorum fidei; De praedestìnatione,praescientia, paradiso et inferno; De peccato originali; De subiecto theologiae; De ecclesiastica potestate sive de summi pontzficis poteno
state.
posizione speculativa di Egidio Romano è complessa: vicina in più punti a quella di S. Tommaso, se ne discosta sovente a motivo di alcune diverse influenze (agostiniane, neoplatoniche, arabe), conferendo così uno svolgimento originale al suo pensiero tanto da dar vita a una afferma propria scuola. Così, per es., in polemica con Enrico di Gand,che ed tra esistenza, reale essenza distinzione la però, S. Tommaso con diversamente dall’Aquinate, il quale non vede in esse due sostanze ma due comprincipi metafisici dello stesso ente, Egidio interpreta come due res (cose), dotate ciascuna di una propria entità. In psicologia Egidio Romano attribuisce all’intelletto agente non una capacità astrattiva ma una capacità di illuminazionedelle immagini dalle quali procede il conLa
La scuola agostiniana
705
tesi, che pure sono di matrice tomistica, in Egidio Romano Vengono a subire una forzatura e un irrigidimento che in S. Tommaso sono assenti. Così per es. la tesi della dimostrabilitàdella creazione del mondo, quella della unicità della forma sostanziale e del primato dell'intelletto. Quanto alla prima, a suo avviso, è pienamente valida la dimostrazione razionale della creazione del mondo. Egli raggiunse questo convincimento dopo che in un primo tempo aveva condiviso la posizione di S. Tommaso il quale, come sappiamo, riteneva plausibilela tesi dell'eternità del mondo. Anche nel problema della unicità della forma sostanziale si registra cetto astratto. Altre
un'evoluzione nel pensiero di Egidio. Negli Errores plzilosophorumegli ammette la pluralità delle forme in taluni enti composti; nei Theoremata de corpo-re Christi afferma che l'unicità della forma nell'uomo è valete probabilis; infine nel Contra gradus nega la pluralità delle forme in tutti i composti compreso l'uomo. In quest'opera Egidio contesta ai sostenitori della pluralità delle forme il pericolo che essa possa portare ad ammettere la tesi averroistica, ben più pericolosa per la teologia, dell’unicità dell'intelletto: se, infatti, l'anima non si congiunge al corpo umano per se stessa, non si dovrebbe neppure ammettere la sua moltiplicazione e così sarebbe numericamente una in tutti. A margine della composizione di materia e forma, prevista solo per i corpi, Egidio identifica il principio di individuazione, nell'ambitodi una stessa specie, con la materia signata quantitate che considera già, in quanto estensione, una sorta di principio ontologico rispetto all'individuo. Essendo stata criticata anche questa dottrina, in seguito Egidio tenta di correggerla affermando che non è la quantità il principio di individuazione ma il modus quantitativus della materia, ossia qualcosa di non accidentalefi
3)
Cf. S. DONATI, La dottrina delle dimensioni indeterminate in in «Medioevo» 16 (1988), pp. 149-233.
Egidio Romano,
706
Parte seconda
Suggerimenti bibliografici ENRICO DI GAND Edizioni: Summa quaestionum ordinariarum, 2 VOIL, New York 1953. Studi: E. BETTONI, Il processo estrattivo nella concezione di Enrico di Gand, Milano 1954; R. BRAUN, Die Erkenntnislehrc [Icinrich oon Geni, Friburgo 1916; P. GLORIEUX, La littérature quodlibétique l, Paris 1925, pp. 177-199; O. LOTTIN, Psychologie et morale au Xi° et X11 siècles, Louvain 1942-1949, I, pp. 274-278, 305-307; II, pp. 245-247; III, pp. 487-491; s. P. MARRONE, Truth and scientific Krzowledge in the Thought of Henry of Gand, Cambridge MA 1985; J. PAULUS, Henri‘ de Gand. Essai sur les tcndances de sa nzétczphysil que, Parigi 1938; F. A. PREZIOSO, La critica di Duns Scoto aliontologiszno di Enrico di Gand, Padova 1961; J. M. ROVIRA BELLOSO, Sobre e! metodo teologico en Enric de Gand, «Revista Catalana de teologia» 8 (1983), pp. 191-202. °
EGîDlo ROMANO Edizioni: De ecclesiastica potestate, Weimar 1929; Theoremata de
esse
et essentia, LOuVain 1930.
Studi: S. BROSS, Gilies de Rame et son traité De ecclesiastica potesiate; 1930; G. BRUNI, Le opere di Egidio Romano, Firenze 1936; A. TRAPÉ, Il concorso divino nel pensiero di Egidio Romano, Tolentino 1942.
Paris
LA CRISI DELLA CIVILTÀMEDIOEVALE E IL TRAMONTO DELLA METAFISICA CRISTIANA NEL XIV SECOLO
Al secolo d'oro della metafisica cristiana il Duecento non segue immediatamente la crisi della stessa; ma nel secolo successivo il Trecento sono già chiari quei segni che indicano come il destino della metafisica cristiana, espressione massima della civiltà medioevale, sia ormai avviato al suo declino. Durante il secolo XIV ha luogo un cambiamento Culturale epocale. Lo si nota ovunque: in filosofia come in teologia, in politica come in religione, in arte come in letteratura. Da una concezione forte—
-
-
mente sacrale di
-
ogni struttura e attività umana ci si sposta rapidamente
concezione più umanistica e naturalistica. Si sta concludendo l'era delle cattedrali gotiche e delle Somme teologiche, e si apre l'era dei palazzi delle città e delle opere monografiche di carattere scientifico e filosofico. Nel nuovo clima socio-culturale e religioso sorgono nuove esigenze e si maturano nuove idee, che annunciano tempi diversi e causano il rapido tramonto di tutto il grande assetto della respublica christiana e della sua civiltà. Ormai si va rapidamente verso la fine del medioevo, verso la decadenza della Scolastica e l'esaurimento della speculazione metafisica. Più che nella metafisica l'uomo del secolo XIV ripone la propria fiducia nella logica e nella scienza e, al limite, nella mistica. verso una
Le
cause
del declino della Scolastica
Per quanto attiene la produzione filosofica e è povero di ingegni e di idee. Non ha, certo,
teologica, il secolo XIV figure prestigiose come Bonaventura, Tommaso e Scoto, ma possiede figure storicamente importanti come Occam ed Eckhart, che pongono fine alla via antiqua e danno
non
inizio alla cosiddetta via moderna. Molti sono i fattori che hanno contribuito al declino della Scolastica. Anzitutto il fattore culturale: l'abbandono della metafisica, praticamente di ogni metafisica, sia di quella cli stampo aristotelico sia di quella di stampo platonico-agostiniano, a favore del nominalismo (Occam) oppure del misticismo (Eckhart). In entrambi i casi si passa dal realismo all’empirism0: non più un serio studio dell’essere e della realtà, ma un mero sperimentalismo logico (Occam) o mistico (Eckhart). Viene poi il
708
Parte seconda
fattore religioso: il declino del papato, che deve abbandonare la sede ro-
per trascorrere buona parte del Trecento ad Avignone e che vede le sue prerogative ulteriormente ridimensionate dal Concilio (conciliarismo) quando, dopo il rientro di Gregorio XI a Roma, esplode il grande Scisma d'Occidente. C'è inoltre il fattore politico: la debolezza dell'impero, che era stato sin dai tempi di Carlo Magno, la struttura politica che aveva assicurato l'unità della. respublica Christiana. Nel secolo XIV grandi nazioni come la Francia e l’Inghilterra e potenti signorie come Firenze, Milano e Venezia rivendicano la loro indipendenza dall’impero e spesso agiscono contro gli interessi comuni della cristianità. Infine c'è il fattore della secolarizzazionedella vita civile. La società ormai non è più disposta a seguire fedelmente e passivamente le norme della fede cristiana. Essa si regola secondo le leggi del profitto in economia, le leggi del potere in politica, le leggi della coscienza in morale, rivendicando una completa autonomia rispetto all'autorità ecclesiasticafl La crisi della teologia è un momento particolare della crisi generale della cultura. Nella crisi della Scolastica si specchia fedelmente la grave crisi religiosa che investe tutta la civiltà medievale. La natura della svolta che ha luogo nel mondo filosofico e teologico del secolo XIV viene così efficacemente descritta nella Storia della Chiesa
mana
dello Iedin:
generali la si può caratterizzare come il dissolversi di quell'universalismo e obiettìvismo, che avevano avuto la loro più grandiosa espressione nelle ”Summe" dell'alta Scolastica. Le sintesi filosofiche e teologiche vengono ora sostituite dall'esame critico dei singoli problemi. Fino ad allora si era voluto ricondurre tutto al generale, di cui le singole cose sono una parte; adesso invece l'interesse è volto più alla cosa concreta. Questa infatti è immediatamente conoscibile e non c'è bisogno di passare attraverso il generale. Si pone l'accento sullîndividuale, e il soggetto conoscente diventa molto più di «In termini
prima oggetto a se stesso. Si dà la preminenza alla conoscenza razio-
nale e nei confronti della tradizione e dell'autorità magisteriale si afferma più che per il passato il diritto alla critica. In tal modo la teoria gnoseologica e la logica formale acquistano maggior peso. Le grandi imprese del secolo successivo saranno proprio nel campo della logica. Questo riconoscimento non esclude di vedere in questo spostamento dalla filosofia dell'essere alla logica già un iniziale dissolversi del medioevo»?
1) 2)
Cf. G. DE LAGARDE, Alle origini della spirito laico, ll. Stato XIV, Brescia 1965. I-I. JEDIN (ed.), Storia della Chiesa V-2, Milano 1975, p. 65.
e
e
società nei secoli XIII
La crisi della metafisica cristiana nel XI V secolo
709
L'esclusione della metafisica, la rottura dell'armonia tra fede e ragione, il Volontarismo, il nominalismo fideista e positivista sono i tratti più
salienti della nuova teologia del secolo XIV, e sono anche le ragioni della decadenza e della fine della Scolastica. La nuova teologia non va ricordata soltanto per l'azione critica con cui ha demolito il grandioso edificio costruito dai magistri dell'epoca d'oro della Scolastica ma anche per lo sforzo di aprirsi nuove strade, di porsi nuovi problemi e di dare nuove risposte alle istanze spirituali del proprio tempo. «Da Eckhart a
Ruysbroeck, i mistici renani e fiamminghi rappresentano un vertice spi-
rituale che lega, attraverso i secoli, S. Gregorio di Nissa e S. Bernardo a S. Teresa e a S. Giovanni della Croce. Dal canto loro gli umanisti, mettendosi per una via aperta da S. Giustino, difendono una concezione dell'uomo in cui socratismo e stoicismo si presentano come preparazione e non come negazione del Vangelo».3 Il trapasso epocale del secolo XIV non avviene in modo pacifico e indolore. Il nuovo si apre la strada faticosamente, combattendo aspre battaglie contro l'antico: la via moderna si scontra continuamente con la via antiqua. A più riprese il papa riafferma i suoi diritti sull'ordine temporale
lanciando scomuniche a
re (Filippo il Bello) e a imperatori (Ludovico il Bavaro). Contro i nuovi teologi Occam, Marsilio da Padova, Eckhart, Wycliff vengono pronunciate condanne per eresia. Da parte loro i rappresentanti della via nloderna contrattaccano duramente, contestano e rifiutano la via an tiqua a causa del suo eccessivo razionalismo. ljideatore della via moderna è Guglielmo di Occam. Ma l'azione critica nei confronti della via antiqua era già stata iniziata da due valenti teologi: il domenicano Durando di san Porciano e il francescano Pietro Aureolo. Ambedue si ribellano alle grandi autorità dottrinali dei loro —
-
Ordini, cioè
Tommaso d'Aquino e a Duns Scoto. Per questo motivo, prima occuparci di Occam, che è la figura più rappresentativa della rivoluzione teologica del secolo XIV, esamineremo brevemente il pensiero di questi due autori. a
di
Durando di San Porciano Durando nacque verso il 1270 a Saint-Pourcain, nella Francia centrale. È passato alla storia, sin da quando era ancora in vita, col nome di "Dottore moderno" (o anche Doctor resolutissimus). Compi gli studi teologici nell'università di Parigi, dove divenne maestro di teologia nel 1312 e incorse subito nelle censure dell'Ordine cui apparteneva, quello
3)
F. VAN STEENBERGEN-A. FOREST- M. DE CANDILLAC, Il movimento dottrinale... cit.,
p. 460.
710
Pizrte seconda
”singolarità” dottrinali. Nonostante ciò Clemente V 10 nominò lettore del sacro palazzo ad Avignone. Restando legato alla tradizione agostiniana egli sviluppa il suo pensiero in opposizione a S. Tommaso. Nel 1313 il capitolo di Metz condanna le dottrine di Durando contenute in una lista di 91 proposizioni. Egli si difende nelle EJCCZISLIÌÎDHES, che tuttavia non migliorano la sua posizione dinanzi al Magistero, che condanna una più ampia lista di sue tesi antitomiste. Tutto ciò peraltro non impedisce a Durando di essere nominato vescovo di Meaux (1326); interviene poi nella polemica sui limiti della giustizia delle anime sanregale (1329) e dissente da Giovanni XXII sulla «visione 1334. settembre il 10 Durando muore te prima del giudizio universale». alle Sentenze; Commento Tra le sue opere principali segnaliamo: Quaestiones disputatae; Tractatus de habitibus; Quaestiones de libero arbitrio;
domenicano, per le sue
Quaestiones quodlibetaies.
In tutta la speculazione filosofica e teologica di Durando l'esigenza dominante è la ricerca di un modo di pensiero semplice ed essenziale che elimini ogni inutile molteplicità di concetti e riduca a un nucleo minimo le categorie della conoscenza. Per questo egli sostiene che il senso e l'immaginazione bastano a fornire alla mente il contenuto di cui essa ha bisogno per conoscere, e riduce gli universali a una pura nozione logica il cui fondamento sta nei caratteri comuni propri di un certo numero di individui e di cose. Per Durando, come per Duns Scoto, esi— ste nelle cose una "comunità di natura", ed è ad essa che si riferisce la
quando pensa all’universale. Analoga è la posizione assunta da Durando in cosmologia sulla questione della individuazione, che egli concepisce come dovuta non tanto
mente
insegnato Aristotele e Tommaso d'Aquino, forma speciale come aveva sostenuto Scoto. Per spiegare il quanto a una continuo succedersi di forme accidentali in un soggetto che passa da un grado di qualità a un diverso grado della stessa qualità, Durando introduce la teoria della latitudo formarum (1’occultamento delle forme): tali forme si svolgono in sostanziale continuità, analogamente a quanto si verifica nei processi di incremento e dì diminuzione quantitativa. La teoria più importante e più originale della metafisica di Durando riguarda il predicamento della relazione. Egli distingue la relazione reale dalla relazione logica: la prima si dà quando ci sono cose distinte, mentre la seconda è semplicemente il risultato dell'analisi razionale. La relazione reale, sebbene non sia una cosa ma soltanto un modo di essere, è tuttavia distinta effettivamente dalla realtà individuale dei suoi soggetti e non entra neppure nel compositum cui essa è riferita: «relatio est alia res a suo fundamento et tamen non facit compositionern». Così si dirà che in Dio «l'essenza e le relazioni differiscono realmente in qualche modo». Con questa formula non pare che Durando sia caduto nel triteismo, come sospettavano i suoi avversari: «Distinto dal Padre come persona, il Fialla materia,
come avevano
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
711
glio non costituisce pertanto una specie di sostanza indipendente, aggiunta al suo fondamento»! In teologia numerose posizioni di Durando erano suscettibilidi criti-
vari suoi confratelli lo accusarono di eresia. Oltre che di triteismo era sospettato di pelagianesimo, per la sua dottrina sul peccato originale. A questo riguardo Durando voleva distinguere nettamente l'imputazione della colpa di Adamo, che è applicata a tutti i suoi discendenti, e il peccato stesso, che egli considera unicamente come atto personale di volontà e che, come tale, non può essere trasmesso. Il timore di "reificare" l'azione causale dei sacramenti spinse Durando verso lmoccasionalìsino", che vede nel sacramento una causa meramente occasionale (e non strumentale) del conferimento della grazia. «Nonostante l'opposizione del suo ordine, Durando godrà larghissima stima nelle scuole dei sec. XIV e XV e Gerson raccomanderà il suo commento alle Sentenze. E però un fatto doloroso che gli storici abbiano male interpretato, separandole dal loro contesto, talune formule apparentemente ”moderne" di questo tradizionalista che preferisce S. Agostino a S. Tommaso. Ma resta sempre molto indicativo il fatto che i contemporanei giudicassero ”moderno" il suo distacco da S. Tommaso»? ca e
Pietro Aureolo Aureolo è il nome italianizzato di Auriol o Auriole. Pietro nacque il 1280 a Gourdon, in Francia, da famiglia nobile. Entrò ancora giovane nelI’Ordine dei Frati minori. Compì gli studi teologici a Parigi, senza conseguire nessun titolo accademico; avere dopo insegnato a Bologna (1312) e a Tolosa (1314) tornò a Parigi per completare gli studi, col conseguimento del magister theologiae nel 1318. Alla fine del 1320 venne eletto provinciale d’Aquitania, ma dopo pochi mesi Giovanni XXII lo nominò vescovo di Aix il 14 giugno 1321. Morì all'inizio del 1322, proverso
babilmentead Avignone. Pietro Aureolo, soprannominato Doctor facundus, lasciò una vasta produzione letteraria, tra cui i seguenti trattati: Tractatus de principiis, Tractatus de paupertate, Tractatus de conceptione Beatae Marine Virginis, che è la prima opera teologica sull’Immacolata Concezione. La sua opera principale è lo Scriptum super IV libros Sententiarum, che conobbe varie edizioni.
4) Ibid, p. 512. 5) lbid., pp. 312-313.
712
Parte seconda
Gli scritti di Aureolo si sono prestati alle interpretazioni più disparaAlcuni storici (K. Werner) lo hanno presentato come un severissimo critico di S. Tommaso, che avrebbe mutilato e deformato in ossequio ai in lui il grande principi del nominalismo. Altri (B. Haureau)hanno vistosia la gnoseoloavversario di Duns Scoto, del quale critica aspramente accostato hanno gia sia la metafisica. Altri ancora (M. De Gandillac) il nel abilità maneggiare famoso Aureolo a Occam, a causa della sua il ”rasoio di Occam”, che limita al minimo numero delle entità. Ciò che risulta abbastanza chiaro, anche dalla disparità delle valutazioni, è che Aureolo è un pensatore indipendente, che conosce assai bene sia i grandi maestri che l'hanno da poco preceduto, Tommaso e Scoto, sia i grandi filosofi dell'antichità e del medioevo, Aristotele e Avicenna in modo alla via moderna che alla via particolare; ma è indubbiamente più vicino afferma che «la sua XV nel secolo, antica. Sant'Antonino di Firenze, in discussione ha rimesso mano non ha risparmiato nessun autore; egli dai suoi predecessori: perciò la mano tutto quello che era stato affermato E di tutti si è levata contro di lui». aggiunge, non senza malizia: «Con tutto ciò, diventò arcivescovomfi Giovanni XXII, nella bolla di nomina neppure all'episcopato, lodava la maturità del suo giudizio.leD'altronde, idee generalmente a questo papa dispiaceva rimettere in discussione accettate e opporre tra di loro i sapienti dottori: «per questo non poteva serbare rancore al vigoroso frate di Linguadoca per le sue audacie dottrinali, tutt'altro»? Secondo G. De Lagarde si deve evitare di collegare Aureolo con qualche scuola. «Egli attinge a tutte le fonti per costruire il suo universo. Critica insieme gli antichi e i moderni. Rimprovera ai primi gli errori che crede di scoprire nelle loro opere, ma non segue gli altri nel giudizio "scienza sprezzante che essi formulario contro gli antichi in nome delladella virtù alle crede Aureolo non logidella del linguaggio" e ”logica". Occam maScoto che e nuovissimo strumento ca terministica. Questo Meccanica diffidenza. un'estrema gnificano a ogni occasione, gli ispira sapiente che ci separa dal reale: essa ci spinge a prendere le nostre fantasie per la verità e ci allontana dal buon senso (...). In qualsiasi materia, l'opinione moderata ha delle buone probabilitàdi essere la miglioremfi Nella dottrina della conoscenza Aureolo respinge la tesi agostiniana della illuminazione. Le rationes aeternae o regulae incommutabiles delle quali parla S. Agostino sono le proposizioni necessarie che si formano su concetti oggettivi (cioè su ciò che i concetti rappresentano e non sui concetti intesi come atti della mente); ora, i concetti ce li formiamo dal-
te.
6) S. ANTONINO, Chronica III, 8, 2. 7) G. D5 LAGARDE, 0p. cit, p. 348. 3) Ibiti, pp. 348-349.
La crisi della
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713
l'esperienza. Analogamente Aureolo respinge la teoria ultrarealistica dei platonici per quanto concerne il valore dei concetti universali: «Platone
ha posto nelle cose 10 stesso ordine che noi poniamo nella mente», e così ha potuto evitare di porre un mondo di Idee sussistenti in se stesse. Ma questa ipotesi, osserva Aureolo, è del tutto arbitraria e ingiustificata, perché le idee sono frutto dell'azione universalizzatrice della mente, che le ricava dall'esperienza. «Perciò se mi chiedi in che cosa consiste l'unità specifica dell'umanità, ti rispondo che consiste nella umanità e non nella animalità, ma nella umanità come è pensata. E in questo sta il valore oggettivo del concetto di umanità. Ma questa unità esiste in potenza e incoativamente nella realtà estramentale, per il fatto che questa può causare nell’intelletto un'impressione perfetta simile alla impressione causata da qualsiasi altra cosa».9 La soluzione che l’Aureolo propone per il problema degli universali non è ultrarealistica, né nominalistica, né concettualistica, ma moderatamente realistica. Per lui i concetti hanno valore oggettivo, sono "concetti oggettivi", fondati nella natura delle cose, anche se nelle cose Puniversale non si trova formalmente ma soltanto potenzialmente. «Riferita ad Aristotele, di cui mette in luce una delle possibili interpretazioni, Vepistemologia di Aureolo si distingue dalle varietà tomistica e scotistica per quello che talvolta viene chiamato il "realismo moderato", in quanto rifiuta quelle "immaginazioni" equivoche o, come dice l'autore, quelle "soluzioni ultrafantastiche" che per lui costituiscono sia delle ”specie" concepite come similitudini delle "forme" sia delle ”formalità" reali e irreali insiememw In antropologia Aureolo difende l'unione sostanziale tra anima e corpo, ma nega che l'anima sia forma del corpo secondo quella relazione di dipendenza per cui nelle altre sostanze composte la forma è unita alla materia. Nello stesso tempo, però, afferma che è impossibileprovare razionalmente l'immortalità dell'anima, condividendo così la posizione dell'aristotelism0 averroistico. Secondo Aureolo tutti gli argomenti che sono stati addotti per provare razionalmente l'immortalità dell'anima sono inconcludenti.“ Riguardo all'esistenza di Dio Aureolo afferma che essa è per se nota e conosciuta da tutti gli uomini naturalmente grazie alla tendenza insita nell'animo umano verso ciò che è migliore. Ma non si può dedurre, come pretendeva Anselmo, l'esistenza di Dio dall'idea che ne abbiamo, perché non è evidente che i concetti di necesse esse o di quo maius cogitari nequit siano accessibiliall'intelligenza umana. non
9) 10)
11 Scnt. 9, 2, 3. F. VAN STEENBERGHEN-A. FOREST-M. DE GANDILLAC, Il movimento dottrinale... cit.,
11)
Cf. H Sent. 19, 1.
p.515.
714
Parte seconda
Speciale attenzione riserva l'Aureolo alla questione della prescienza divina degli atti liberi. Questi sono certamente conosciuti da Dio, ma Aureolo nega che si possa parlare propriamente di pre-scienza, perché il pre ha una connotazione temporale che è inconciliabilecon la realtà eter-na di Dio. <<È assai arduo trovare il modo giusto di esprimere la conoscenza che Dio ha del futuro (...). Nessuna proposizione che contiene un riferimento al futuro esprime propriamente la prescienza divina; anzi strettamente parlando, una proposizione di questo genere è falsa (...). Ma possiamo dire che un evento contingente (libero) era noto a Dio dall’eternità mediante una conoscenza che non era né lontana dall'evento né lo precedeva, sebbene la nostra mente sia incapace di afferrare che cosa sia tale conoscenza in se stessan.” Valutando globalmente il pensiero di Pietro Aureolo, M. De Gandillac formula i1 seguente giudizio: «Aureolo si collega (...) a quella forma di arìstotelismo cristiano che era quella stessa di S. Tommaso e che non implicava nessuna concessione alle evidenti empietà del1’averroism0 latino».ì3
Guglielmo di Occam (Ockham) Nel mondo filosofico e teologico del secolo XIV quella di Guglielmo di Occam è certamente la figura dominante. Guglielmo è colui che esprime meglio di ogni altro la grave crisi culturale che attraversa la cristianità nel momento in cui essa volta le spalle alla Civitas medioevalis per imboccare la strada dell’umanesimo e del rinascimento. Occam è il Vencrabilìs Inceptor, è Yìnìziatoree l'artefice della "sia moderna. Questa Consiste essenzialmente nel rifiuto di tutti i grandi pilastri su cui si reggeva la via antiqua. Occam rifiuta la metafisica in nome della logica; si oppone al realismo in nome dei criticismo e del nominalismo; spezza la tradizionale armonia tra fede e ragione e accentua allo stesso tempo sia il fideismo sia il razionalismo; infine al primato dell'intelletto contrappone il primato della volontà e della libertà. L'arma di Occam contro gli abusi della ragione non è la fede, come in Bonaventura e Scoto, ma la ragione, la quale, nella decostruzione dei grandi sistemi metafisici e teologici non si mostra meno abile di quanto lo fosse stata nella loro costruzione. Francescano come Bonaventura e Scoto, Occam è di fatto privo di quelYafflato mistico che caratterizza le opere del Doctor Seraficus e del Doctor Si-sbtilis.
l?)
13)
ISent. 39, 3. F. VAN STEENBERcHEN-A. FoREsT-M. DE GANDILLAC, Il nrovinzento dottrinale... cit.,
p. 519.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
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Il grande successo che incontrerà la scuola di Occam, che per un paio di secoli sarà quella più seguita, lo si deve al fatto che le posizioni del suo fondatore sono quelle che rispecchiano fedelmente la crisi epocale che era in atto sin dai primi decenni del secolo XIV: tutto l'ordine politico, religioso, culturale e ideologico della civiltà medievale veniva contestato, mentre si invocava una riforma e una trasformazione sostanziale della Chiesa e dello Stato, della cultura e della società, e di conseguenza della filosofia e della teologia. Più che per l'edificazione del nuovo che avverrà soltanto nei due secoli successivi, l'apporto di Guglielmo di Occam è fondamentale per la decostruzione dell'antico. Egli demolì un'opera che aveva perduto la consistenza dei suoi principi fondamentali, ma non ebbe la mentalità adatta per costruire un sistema e metterlo al posto di ciò che aveva distrutto. «La critica lo porto unicamente verso la negazione: ‘in gnoseologia verso il nominalismo e in metafisica verso Yagnosticismo. Bisognava certamente confutare e criticare il realismo esagerato scotistico; ma era necessario trovare una dottrina che non portasse allo scetticismo. Invece Occam col suo nominalismo, che nega il valore oggettivo della scienza e della conoscenza, col suo soggettivismo e conseguente agnosticismo, che sopprime le basi razionali della fede, non solo non tornò verso S. Tommaso, ma si allontanò sempre più dalle tesi generiche della filosofia cristiana (...) e influì sulla formazione di quella filosofia moderna, che si sviluppò in contrasto col cristianesimo>>fl4 Interpretazioni più recenti del pensiero di Occam specialmente di Filoteo Bohner e dei suoi discepoli“ hanno messo in luce alcuni suoi importanti legami con la Tradizione. Ma questo non può giustificare la pretesa di fare di Occam uno scolastico, un continuatore di S. Tommaso e di Scoto. Ritengo che abbia ragione De Lagarde quando scrive che è errata sia la tesi di chi vede in Occam un precursore di Lutero sia la tesi di chi lo considera un continuatore degli scolastici del secolo Xlll: «Queste due posizioni ci sembrano ugualmente sbagliate. Occam, è chiaro sino alla evidenza, rifiuta i principi della filosofia scolastica, ai quali da parte di alcuni si tenta di piegare la sua dottrina. Ma egli ignora anche la filosofia moderna e la Riforma, a cui altri cercano di vincolarlo. Occam non è uno scolastico ligio alla tradizione. Egli, però, non è nemmeno un protestante "avant la lettre” >>.16 -
-
14) '5)
15)
C. GIACON, Ocfflm, Brescia 1943, p. 120. Cf. PH. BÒIINER, CDHECÌBLÎ Articles un Ockham, Louvain-Paderborn 1958; M. C. MENGES, The Concept of Univocity regardiizg the Predication of God ami Crcatures according to W. Ockham, New York 1952; D. WEBERING, Theory of demonstratio accurding to Ockham, New York 1953. G. DE LAGARDE, La naissance de l'esprit laique au declin da moyen zîge, vol. V, Guillazimed Ocklzam, critiquc des structures ecclésiales, Louvain-Paris 1963, p. 268.
716
Parte seconda
Anche il tanto deprecato nominalismo di Occam, probabilmentenon inteso in senso così drasticamente antirealistico come si è fatto in passato. A giudizio di H. Oberman, <
to in termini
più prudentim"
VITA
Guglielmo nasce ad Occam (Ockham), villaggio del Surrey, a sud-est di Londra. Inizia gli studi nel convento francescano di Occam verso il 1307. Dai rari accenni autobiografici che si incontrano nelle sue opere, allo stuapprendiamo che nella sua giovinezza si dedicò con impegno dio della logica e che vi si appassionò moltissimo, convinto com'era che la mancanza di una solida formazione logica espone sempre al pericolo di imbattersi in difficoltà insuperabili. Non si sa quali siano stati i suoi maestri negli studi. L'opinione accreditata da molti storici, secondo la quale Occam avrebbe studiato al Merton College e sarebbe stato discepolo di Duns Scoto, non ha alcun fondamento.“
Diventate «BaccalaureatusSententiarum» nel 1318, Occam rimane alla università di Oxford anche negli anni immediatamente successivi, fino al conseguimento del «Magister in sacra pagina» nel 1324. In quello stesso anno viene convocato dal papa ad Avignone, per difendersi dalle accuse di insegnare dottrine pericolose. In effetti, la commissione incaricata da Giovanni XXII di vagliare le dottrine contenute nel "Commento" di Occam alle Sentenze di Pier Lombardo, al termine di un lavoro che si era protratto per tre anni, elabora un documento nel quale sono esplicitamente riconosciuti come eretici sette articoli estratti dagli scritti ockhamisti, 37 sono dichiarati falsi e quattro temerari o almeno ambigui. Intanto, ad Avignone, era giunto anche il Generale dell'Ordine Francescano, Michele da Cesena, accusato a sua volta di eresia per le sue dottrine sulla povertà. Occam prende apertamente posizione a favore del suo superiore, e i due, il 26 maggio 1328, insieme a un gruppo di altri frati ribelli, decidono di fuggire da Avignone, dove si sentivano poco sicuri, per riparare in Italia e mettersi sotto la protezione dell'imperatore Ludovico il Bavaro. L'incontro tra i francescani ribelli e l'imperatore avviene a Pisa alla fine di settembre 1328. I frati inducono l'imperatore a dichiarare decaduto Giovanni XXII, tacciandolo di eresia, ma vengono a loro volta SCOmunicati. Quando Ludovico il Bavaro, nel 1330, è costretto a lasciare
17) 18)
li. ÙBERMAN, The Harvest of Medieval Theology, Cambridge 1963. Cf. L. BAUDRY, Guillaunze dfickham, sa arie, ses oeuvres, ses idées sociales et politiques, Paris 1950.
La crisi della
nzetafisica cristiana nel XIV secolo
717
l'Italia e a riparare in Germania, essi lo seguono stabilendosinel convenfrancescano di Monaco di Baviera, roccaforte del partito imperiale. «È da quest'ultimo baluardo che Ockham, per circa vent'anni, condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i pontefici Giovanni XXIX, Benedetto XII e Clemente VI, scuotendo le coscienze con i suoi trattati e libelli,fino alla fine della sua vita» (A. GHISALBERTI). to
OPERE Non è stato ancora criticamente fissato l'intero patrimonio letterario di Occam. L'edizione Critica dell'Opera Onmia è curata dall'Istituto francescano dell'università di Bonaventure (New York), che finora ha pubblicato tre volumi contenenti il Prologo e alcune distinzioni del primo libro del Commento alle Sentenze. Si è soliti dividere gli scritti di Occam in due serie: la prima comprende le opere filosofiche e teologiche, composte prevalentemente nel primo periodo della sua vita; la seconda abbraccia tutti gli scritti polemici composti dal 1328 in poi, a sostegno delle proprie posizioni contro l'autorità e il potere della Curia romana e del pontefice.
a) Opere filosofichee teologiche l) Expositio in librum Porphyrii" de praedicabilibus;2) Expositio super librunz primum Perihermeneias; 3) Expositio super Physicam Aristotelis; 4) Philosophia nataralis sive Summulae in libros physicorum; 5) Ordinatio
Ockham sive scriptum in libram I Sententiarum; 6) Reportatio Ockham sive quaestiones irz II, III, IV librum Sententîaram; 7) Summa logicae sive summa totius logicae; 8) Quodlibeta septem; 9) De sacramento altaris; 10) Tractatus de praedestinationeet de praescientia Dei et de faturis contingentibus; 11) De re-
latione; 12) Compendium logicae; 13) Elementarium logicae. b) Opere polemico
-
politiche
1) Opus nonaginta dierum (‘e la prima opera polemica, scritta in novangiorni, da cui il titolo, contro Giovanni XXII e tratta il problema della povertà francescana); 2) Epistola ad fratres minores in capitato apud Assisium congregatos; 3) Dialogus, prima pars (vi si discute sulferesia, su a chi spetta il giudizio dell'ortodossia, sulle pene da infliggereagli eretici); 4) De dogmatibus papae [ohannis XXII; 5) Compendium errorum papae Iohannis XXII; 6) Tractatus contra Iohanrzeiri XXII; 7) Tractatus contra Benedictum XII; 8) Allegationes de potestate imperiali; 9) Breviloquium de potestate Papae,‘ 10) Tractatus de jarisdictione imperatoris in causis matrimonialibus; 11) De imperatorum et ponfzficum potestate. ta
718
Parte seconda
IL "RASOIO DI OCCAM"
Occam opera una svolta decisiva nella Scolastica medievale, mettendone in discussione i presupposti fondamentali: l'armonia tra fede e ragione, e la fiducia nel potere stesso della ragione. Pone quindi fine all'ambizionedegli Scolastici di elaborare una grande Somma comprensiva e ordinata di tutto lo scibile umano, sia di quello acquisito sia di quello rivelato. C'è una frase che Occam ama ripetere nei suoi scritti e che e passata alla storia col nome di "rasoio di Occam". La frase dice: PÌLJMÌÎtas non est ponenda sirze neccssitate (non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità). Essa equivale al "principio di economia”, il quale prescrive di utilizzarenella spiegazione di una cosa o di un evento il minor numero di leggi possibili. Avvalendosi di questo criterio in modo sistematico Occam opera una riduzione radicale di tutte le teorie metafisiche, logiche, cosmologiche e teologiche costruite dai suoi predecessori, e spazza via tante famose distinzioni, presentandole come inutili doppioni: la distinzione tra essenza ed esistenza, tra atto e potenza, tra natura e sostanza, tra gli attributi in Dio ecc. Un caso emblematico dell'applicazione del "rasoio" è la eliminazione di una duplice conoscenza di Dio, una naturale e una rivelata. Secondo Occam la conoscenza naturale non giunge sino a Dio, ma soltanto a un principio primo del mondo. L'idea di Dio è frutto della rivelazione divina. ROTTURADEI
RAPPORTI TRA FEDE E RAGIONE
Il primo passo che conduce alla dissoluzione della respubliccz christiana e della metafisica cristiana ‘e la negazione dell'esistenza di un rapporto di armonia tra fede e ragione. Infatti, l'imponente edificio culturale e metafisico costruito dalla società cristiana del Medioevo muove dal presupposto che tra fede e ragione non solo non esiste alcun contrasto, ma, al contrario, regna una profonda corrispondenza, in quanto ‘gratin samzt
et pcrficit HLIÌLITLIIÌI. Occam è il primo teorico importante che nega l'esistenza di qualsiasi relazione tra fede e ragione. Una delle affermazioni ricorrenti nei suoi
scritti è questa: le verità di fede non possono diventare oggetto di dimostrazione razionale. L'affermazione in se stessa non era del tutto nuova, ma nuova fu l'interpretazione che Occam ne diede, almeno rispetto alle posizioni di quegli Scolastici del secolo XIII che, come S. Tommaso, avevano visto nei praeanzbulafidei il punto emergente dell'incontro tra fede e ragione. Anche per S. Tommaso un articolo di fede non può in quanto tale essere oggetto di dimostrazione: la ragione tuttavia è capace di guadagnare per via dimostrativa alcune verità, quali l'esistenza di Dio, la sua unicità, la creazione, la provvidenza, l'immortalità dell'anima; verità
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
719
queste che appartengono anche all'orizzonte della conoscenza per rivelazione. È su questa premessa che i padri e gli scolastici avevano costruito la metafisica cristiana. Occam si oppone a questa soluzione, affermando la necessità di una netta distinzione tra dato razionale e dato rivelato: tra i due ambiti non c'è nessuna base comune, dal momento che non può mai succedere chela verità propria di un articolo di fede sia passibile di dimostrazione: «Articulusfidei non potest evidenter pr0bari>>J9 Le ragioni che hanno spinto Occam ad abbracciare questa drastica posizione nella questione dei rapporti tra fede e ragione si devono ricercare, come suggerisce giustamente A. Ghisalberti, nel carattere radicale della sua speculazione, sempre pronta a Valutare il peso delle conseguenze di ogni affermazione teorica. Se le cose non stessero come Occam ritiene, se cioè alcune Verità rivelate si potessero attingere razionalmente, la loro rivelazione sarebbe perfettamente inutile. Ora, Dio non rivela all'uomo delle verità che l’uomo già conosce o che può raggiungere usando la ragione, e cioè in base a un mezzo adeguato per conoscere la verità che in ultima analisi viene da Dio, il quale creando l’uomo l'ha dotato della razionalità. Se c'è stata la rivelazione di certe verità da parte di Dio, significa che da solo l’uomo non poteva raggiungerle. Come si vede, già in questa questione preliminare sui rapporti tra fede e ragione, Occam si serve del suo ”rasoio”, cioè del principio metodologico di non moltiplicare gli enti senza necessità, e che nel nostro caso specifico possiamo parafrasare così: Dio non fa le cose due volte; oppure: Dio non opera cose inutili. Se Dio ha messo l’uomo in condizioni di raggiungere una verità è inutile che egli stesso si preoccupi successivamente di offrirgliela attraverso una rivelazione soprannaturale.” METAFISICA E
GNOSEOLOGÌA
Metafisica e gnosetìlogia sono due parti della filosofia profondamenlegate l'una all'altra e si trovano in un rapporto di dipendenza reciproca, nel senso che una metafisica debole non può che rapportarsi a una gnoseologia debole, mentre una gnoseologia forte è sempre il presupposto per una metafisica forte. Un indebolimento della ragione era già presente sia in Bonaventura sia in Duns Scoto; ma mentre Bonaventura era ancora riuscito a costruire una metafisica forte collocandola sotto lo scudo della fede, Duns Scoto invece, isolando completamente la ragione dalla fede, aveva elaborato un sistema metafisico privo di serie esigenze speculative: come abbiamo già visto, la sua ”navigazione" riusciva con difficoltà ad attingere l’ambitodel mondo superiore, spirituale, trascendente e divino. te
A
19) Quodl. I, q. 1. 3”) Cf. A. GHISALBERTI, Guglielmo di Ockham, Milano 1972, pp. 123-124.
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Parte seconda
Occam percorre sostanzialmente 1a stessa strada di Scoto, ma depotenziando ulteriormente, se possibile, la capacità di conoscenza del trascendente da parte della ragione. Essa diventa potente e assai efficace nella critica e nell’autocritica, ma debolissima nell'indagine metafisica. L0 strumento che essa sa maneggiare con grande perizia e con innegabile successo è la logica: ma questa è un mero calcolo di concetti e non una conoscenza oggettiva della realtà. Occam si sente pienamente autorizzato a limitarsi a un'indagine logica senza preoccuparsi di verificare ad ogni passo se e fino a che punto il ritmo dei concetti e delle parole si adegui a quello delle cose. Così, con una attezzatura concettuale assai debole e privata di una reale capacità conoscitiva Occam incontra enormi difficoltà a compiere la faticosa e impegnativa traversata verso la sponda del trascendente. In lui esiste ancora un impegno speculativo e una esigenza metafisica, ma i risultati dell'attività della sua ragione, che è critica ed empiricistica a un tempo, non possono essere che assai modesti. Occam in ultima analisi non deve essere considerato tanto un antimetafisico, quanto un metafisico debole che si pone al livello esigenziale di un minimalismo metafisico.
DOTTRINADELLA CONOSCENZA
L'oggetto proprio della conoscenza umana, secondo Occam, sono le singolari: «primum cognitum est singulare». Esso viene conosciuto intuitiva notitia, cioè intuitivamente, senza bisogno della specie impressa. La conoscenza degli individui non è rappresentativa ma intuitiva. cose
Occam
zione;
ma
parla anche di concetti universali, di idee universali e di astrapare che la sua teoria dell'astrazi0ne sia assai lontana da quella
di Aristotele. Sembra che si tratti di un’astrazìone operata dalla fantasia piuttosto che dall'intelletto, e che sfoci in immagini comuni anziché in concetti universali. Infatti il concetto universale dice qualche cosa di identico a tutti gli individui, mentre le idee di Occam rappresentano semplicemente qualche cosa di simile. Il concetto in quanto universale è puramente estrinseco alle cose, proprio come le parole dalle quali le cose vengono espresse: in esse non c'è un punto di appoggio, un appiglio, che dia modo all’universale di insinuarsi nella realtà a un titolo qualsiasi. Il concetto è un segno e basta: un segno mentale che, nell'ambito del pensiero, sta al posto di tutti i particolari da esso significati. Occam con questo non pretende che di spingere alle sue ultime e logiche conseguenze le critiche aristoteliche al platonico mondo delle essenze: egli queste essenze le perseguita, le scaccia inesorabilmente anche dalle estreme e fragili trincee metafisiche, davanti alle quali si erano arrestati gli assalti degli aristotelici più risoluti. Occam restituisce alla metafisica la realtà che è individuale e soltanto individuale, sanata da tutte le manomissioni della logica, e affidando a questa e solo ad essa il pieno e assoluto dominio delle essenze.
La crisi della metafisica cristiana nel XIV secolo
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Il Venerabilis lnceptor dunque non rinnega quella corrispondenza tra pensiero che è l'eredità più preziosa della filosofia classica e scolastica: Yintende però in modo diverso. Non si può dire che l'essere si riveli al pensiero con quella pienezza di significato e ricchezza di contenuti affermata dai grandi maestri della Scolastica. Per Occam il sistema dei concetti si svolge, diremmo, in piena autonomiadalla realtà; sebbene il concetto non abbia perso del tutto i contatti con la realtà, in quanto segno naturale delle cose, tuttavia non si può più affermare propriamente che ce la riveli: la significa infatti, ma non la esprime nella sua intimità metafisica. La corrispondenza fra l'essere e il pensiero è tutta affidata a quel rapporto naturale che si stabiliscefra il segno e la cosa significata: il realismo classico è ridotto, come si vede, a un filo tenuissimo, che si spezzerà del tutto agli inizi del pensiero moderno. Dalla posizione occamistica al soggettivismo moderno non c'è che un passo brevissimo. essere e
OGGETTO DELLA METAFISICAZ L'ENS COMMLINE Nel definire l'oggetto della metafisica Occam fa sue le due tesi fondamentali della metafisica scotista: cioè che l'oggetto proprio della metafisica è l'ens commune e che l'ente è un concetto univoco. L'oggetto della metafisica non può essere che l'oggetto proprio dell'intelletto umano. Ora, oggetto proprio dell'intelletto umano non è questo 0 quell'ente particolare, bensì l'ente in generale, l'ens commune.
L'ente in quanto concetto univoco generalissimo è l'oggetto adeguato dell'intelletto umano, perché quell'ultimo atto conoscitivo con cui penso l'ente mi mette in condizione di potermi riferire a tutti gli oggetti che possono entrare nella mia conoscenza: «l'ente è l'oggetto adeguato del nostro intelletto poiché univoco, comune ad ogni intelligibileper sé (ens est obicctunz adaequatum intellcctus nostri quid commune univocum omni per se intelligibilibflîNel concetto di ente si costituisce l'apertura stessa del pensiero verso la realtà. L'orizzonte dell'essere è anche per Occam lo stesso orizzonte del pensiero, che così è strutturalmente messo nella condizione di abbracciare tutta la realtà, non tutta insieme in un atto unico ma potenzialmente: l'intelletto non arriva a cogliere direttamente tutto ciò che è contenuto di per sé nella nozione di ens corrzmune, tuttavia la natura dell'intelletto ‘e tale da non escludere nulla dalla sua potenzialità conoscitiva, dalla sua inclinazionenaturale al conoscere. Il VenerabilisInceptor distingue opportunamente tra oggetto adeguato dell'intelletto che ‘e naturalmente attingibilein sé, e oggetto adeguato come ciò a cui l'intelletto tende naturalmente, sia che di fatto pervenga allo stato di concetto sia che non VÌ arrivi. Scrive Occam: «A proposito dell'oggetto naturale si pone una distinzione, poiché qualche cosa si di-
Zl)
In I Seni‘, d. 3, q. 8.
722
Parte seconda
oggetto naturale in quanto è attingibilenaturalmente oppure in quanpotenza Vi è naturalmente inclinata, sia che la potenza possa attingerlo naturalmente oppure no. Nel primo modo l'ente comunissimo (ens communissimzim), che è l'oggetto adeguato dell'intelletto non è oggetto naturale deli'intelletto, ma è naturale nel secondo modo; pertanto non occorre che l'intelletto possa attingere naturalmente ogni contenutomî? Il presupposto e la condizione necessaria d'ogni conoscenza è i1 concetto di ente. Infatti il procedimento conoscitivo, che concretamente si ce
to la
esplica sempre in
atti di intuizione di
cose
singole, non si
esaurisce in
intuizione, ma si prolunga in un'astrazione, (issia nella conoscenza astrattiva che accompagna sempre quella intuitiva: orbene la caratteristica fondamentale di questa notizia astrattiva è quella di coglie-
questa
stessa
re Yoggetto sempre e prima di tutto nella luce dell'essere e di implicare sempre il concetto di ente. Ecco quanto scrive al riguardo il nostro autore nei Quodlibeta: «Se mi chiedi: quale notizia astrattiva si ottiene mediante quella intuitiva? ecco la risposta: talora soltanto il concetto di ente (conceptzis entis), altre volte il concetto di genere, altre volte ancora il concetto di una specie specialissima, a seconda che l'oggetto sia più o meno remoto. Pero sempre si imprime nella mente il concetto di ente, perché quando l'oggetto è sufficientemente vicino, dalla cosa esterna singolare viene
specifico sia il concetto di ente»,13 La conoscenza dell'ente come dell'aspetto più universale implicito in ogni altro aspetto della realtà rivela che la conoscenza umana deve sempre progredire e che ha bisogno di porre nuove determinazioni per approssimarsi il più possibilealla realtà nella sua essenza individuale. Come Scoto, contro Aristotele e Tommaso d'Aquino, Occam sostiene che quello di Ente è un concetto univoco e non analogo. A suo parere si deve parlare di univocità di predicazione di un termine, solo in quanto la predicazione intende il termine secondo una certa unità di senso. Con Scoto, il VenerabilisInceptor distingue tre generi di univocità, che potremmo chiamare forte, media e debole. L’univocità forte si dà tra gli individui della stessa specie: «sic accipiendo fitrzizvocunl", conceptus solus speciei specialissinzae est univocus>>fl4 L'univocità media ha luogo tra individui che appartengono allo stesso genere: «hoc nzodo homo et asinus conveniunt in conceptu animalis sicut in concepita univ0c0»_25 Uunivocità debole esiste nel caso che ci sia una certa somiglianza o un certo rapporto tra entità che non appartengono né allo stesso genere né alla stessa specie: «Tertio modo accipitur "unizzocum" pro conceptit communi multis non habentibits aliquam sinzilititdinem, nec quantum ad substantianz nec quantunz ad accidentalìamîb causato sia il concetto
32) Itîîdu d. 3, q. 6. 23) Quodl. 1, q. 13. 24) In IH Seni. d. 9, q. un. 25) Ibid. 25)
Ibîd.
La Crisi della
rrzetafisica cristiana nel Xl V secolo
723
Il terzo tipo di univocità, quella debole, si può chiamare anche analogia. Ora, Occam sa bene che ci sono vari tipi di analogia e che S. Tommaso ne. distingueva due di fondamentali: analogia di proporzione (o attribuzione) e analogia di proporzionalità. La proporzionalità veniva a sua volta distinta in propria e metaforica; mentre l'attribuzione era suddivisa in intrinseca ed estrinseca. A questo proposito per Occam pareva necessario aggiungere qualche precisazione. Egli riconosce sia Yanalogia di proporzionalità sia quella di attribuzione, ma per spiegare l'unità del concetto di ente ricorre principalmente allanalogia di attribuzione, intesa estrinsecamente e non intrinsecamente. Per chiarire poi il concetto di analogia di attribuzione intrinseca ricorre al classico esempio usato da Aristotele: il termine ”sano" che si dice del bambino, della medicina, del colorito, del clima, dell'urina ecc., dove è evidente che primariamente e propriamente il concetto di sano è predicato del bambino, mentre delle altre cose Viene detto grazie a un loro rapporto con la salute del bambino. Questo, secondo Occam, e anche il caso del concetto di ente: esso viene detto di più cose di cui non si può dare la stessa definizione nominale. Questo tipo di analogia corrisponde a quella equivocità che Aristotele aveva chiamato equivocità non casuale ma intenzionale e deliberata (a consilio). La conclusione generale è che non ha senso parlare di analogia come qualche cosa di distinto dalla univocità e dall’equivocità, in quanto tra univocità ed equivocità non c'è una via di mezzo.”
KIDUZIONISMO ONTOLOGICO
È sul terreno della metafisica che il ”rasoi0 di Occam” miete le sue vittime principali. Da Occam la realtà viene ridotta a ciò che è empiricamente verificabile,precedendo così di molti secoli quello che sarà il quadro ontologico del Iìnctatus di Wittgenstein. Delle dieci categorie il maestro Occam salva soltanto la sostanza e la qualità: mentre tutti gli altri accidenti sono definiti come termini connotativi della sostanza. Così la quantità designa principalmente la sostanza o le qualità materiali e indirettamente indica Yesteriorità delle loro parti; lo spazio non è altro che la superficie stessa dei corpi; il moto consiste semplicemente nel fatto che un corpo si trova successivamente in luoghi diversi; a sua volta il tempo è la misura del movimento, anzi è il movimento stesso: «è il movimento con cui si misura un altro movimento e questo è tutto il significato di questo nome preso nella sua forma». Fra le dieci categorie aristoteliche, una delle più studiate e discusse nel secolo XIII è certamente quella della relazione, per la sua evidente connessione con la teologia trinitaria. Tutti i grandi scolastici concordano nel ritenere che la relazione possiede una realtà sui generis, distinta in 27)
Cf. In I Seni. d. 2, q. 9.
724
Parte seconda
qualche modo da quella del
suo fondamento. La paternità, ad es., aggiunge alla realtà di un uomo, che diventa padre, un qualche cosa che prima non possedeva. Fra padre e figlio si instaura Veramente un rap-
non esiste tra due uomini qualsiasi. Indipendentemente da ogni considerazione dell'intelletto sorge tra il padre e il figlio un fatto nuovo, per cui l'uno si riferisce all'altro in modo
porto di ordine metafisico, che
diverso da come si riferiscono l'uno all'altro due uomini estranei tra di loro. Comunque si intenda la distinzione fra la realtà del fondamento e quella della relazione, è certo che non si tratta né di una distinzione reale né di una distinzione puramente logica. Il Venerabilis Inceptor non è di questo parere, perché nel suo quadro metafisico non c'è spazio per una struttura intermedia tra il reale e il logico. Perciò la relazione non può essere che una categoria del pensiero. «La paternità non è altro che il padre, e la filiazione non è altro che il figlio, oppure la paternità è un termine che indica il padre direttamente e il figlio indirettamente, mentre la filiazione è un termine che indica il contrario». Se la relazione, per es. della paternità, fosse una realtà distinta da quella del fondamento (padre e figlio nel nostro caso) sarebbe anche separabile e perciò Dio potrebbe crearla ex novo, per conto suo, indipendentemente dall'atto generativo e conferirla a chi vuole: così non sarebbe più assurdo che un uomo sia padre senza generare figli.” Un altro argomento che dai tempi di Boezio era stato al centro di animate discussioni era la distinzione tra essenza ed esistenza negli enti finiti. Nessuno aveva considerato questa distinzione semplicemente logica ma o reale (Boezio, Avicenna, Tommaso) o formale (Scoto). Anche su questo punto il ”rasoio di Occam" fa pulizia. Poiché non si tratta di elementi fisicamente separabili, Occam esclude che tra essenza ed esistenza possa esserci una distinzione reale; per lui si tratta semplicemente di una distinzione nominale: l'essenza significa la cosa nominalmente, mentre l'esistenza (esse) la significa verbalmente, essendo un predicato verbale: «L'essenza e l'esistenza (existentia) non sono due cose. Queste due parole "cosa" (res) ed “essere” (esse) significano la stessa identica cosa, ma una nominalmente e l'altra verbalmente... Perciò non è pensabile che l'essenza sia indifferente ad essere oppure a non essere, più di quanto non sia indifferente all'essenza oppure alla non essenza stessaml‘? Per Occam essenza ed esistenza sono ovviamente non soltanto una unica cosa, ma la stessa identica realtà: non c'è nessuna distinzione reale e neppure concettuale, ma soltanto verbale!
23) 29)
Cf. in f Seni. d. 30, q. l; Tractaiusde principiis theologiae, c. 1. Summa logicae III, 2, 27.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
725
ESISTENZA E NATURA D[ D10
questa grande povertà ontologica, Occam cerca di effetugualmente la seconda navigazione. Ma con un impianto ontologico così ridotto le rotte che può battere sono pochissime e insìcure. Secondo Occam l'esistenza di Dio non può essere provata a priori, come pretendeva S. Anselmo, perché l'uomo ignora l'essenza di Dio. La Nonostante
tuare
può dimostrare soltanto a posteriori. Le prove a posteriori però, a suo giudizio, non hanno un valore assoluto, ma soltanto probabile, perché tale è il valore del principio di causalità al quale esse si richiamano. Alle si
varie prove della causalità proposte da Aristotele, Tommaso e Scoto, Occam preferisce sostituire quella della conservazione, dove è evidente che un regresso all'infinito è impossibile. Ecco il ragionamento di Occam: essendo contingente, il mondo ha bisogno di qualcuno che lo conservi. Ora, nella serie dei "conservatori" non si può procedere all'infinito; quindi Dio esiste. Occam ritiene che sia improponibileun processo all'infinitonell'ordine della conservazione: infatti, la causa che mantiene qualche cosa nell'essere direttamente o mediante cause seconde, coesiste attualmente con questo qualche cosa. Il processo all'infinito implicherebbe pertanto la coesistenza in atto di un numero infinito di cause conservanti: ma l'infinito in atto è assurdo: «non è possibile porre un processo all'infinito nella serie delle cause conservanti, poiché allora sarebbero infinite in atto, il che è impossibile(non est ponere processum in infinitunz in conservantibus, quia tunc aliqua infinita essent in actu, quod est i-mpossibilebflflE necessario perciò affermare l'esistenza di una causa che conserva
le cose nell'essere,
e
che non dipenda a
sua
volta da nessun'al-
causa. La novità dell'argomento di Occam rispetto a quelli degli scolastici precedenti sta tutta qui: Occam ritiene che la causa prima è necessaria non per togliere la contraddizionedi una realtà tratta dal nulla, ma per eliminare l'altra contraddizione che emerge dal fatto che una realtà si mantenga nell'essere, sebbene non abbia nessun diritto a essere, essendo stata tratta dal nulla. Della natura di Dio, secondo Occam, l'uomo non può formarsi concetti propri ma solo comuni (comuni alle creature e a Dio), che non rappresentano l'essenza divina (quid rei). Sono concetti che non hanno valore reale, bensì nominale (quid nominis): servono per indicare Dio non per
tra
rappresentarlo. Il punto più originale dell'insegnamento di Occam in questo campo riguarda il primato assoluto della volontà in Dio. La dottrina del primato assoluto della volontà c'era già in Scoto, ma questi conservava inalte-
la distinzione tra intelletto e Volontà, e attribuiva a Dio entrambe queste facoltà. Il primato della volontà in Occam assume un'ulteriore
rata
3°)
ln l Semi, d. 2, q. 10.
726
Parte seconda
accentuazione, in quanto egli fa scomparire totalmente qualsiasi distinzione tra intelletto e volontà e riconduce tutto alla volontà: in Dio c'è perfetta coincidenza tra conoscere e volere e il suo conoscere coincide sempre col suo volere; non ci sono perciò cose conosciute che non siano anche volute. Non esiste un ordine delle cose preconcepito dalla mente divina e successivamente chiamato all'essere dalla volontà di Dio: «la volontà di Dio come anche l'essenza di Dio è la causa immediata di tutte quelle cose che avvengono (tioluntas Dei sicut et essentia Dei est causa immediata earum omnium quae fiunt)».31 Tolta ogni distinzione tra conoscere o Volere, Occam elimina qualsiasi distinzione tra il possibilee l'impossibile, tra il razionale e Yirrazionale che sia anteriore e indipendente dalla Volontà divina. Così il discrimine che separa gli atti logici da quelli assurdi viene posto definitivamente solo nella potenza imperscrutabile di Dio e affidato al segreto ignoto di una volontà sconfinata: «Non spetta maggiormente a Dio di non poter fare di quanto non spetti all'impossibiledi non poter esser fatto; né compete maggiormente all'impossibile di non poter essere fatto di quanto non competa a Dio di non poter fare l'impossibile (Non prius corrzpetit D90 non passe facere quam non competat
impossibili non posse fieri; nec prius Competit inzpossibîli non passe fieri quam Deo non passe facere inzpossibiliabfiîSe Dio volesse dare realtà alla Chimera o se volesse attuare nel mondo le individualità più irrazionali e assurde, egli potrebbe certamente farlo, usando liberamente della sua potenza che è l'unica regola dell'essere e del non essere. Secondo Occam, persino la trasformazione immediata e violenta o il sovvertimento dei criteri di semplicità e di economia che dominano la sua creazione non sarebbero nella mente divina un proposito scandaloso e assurdo. Né certo si potrebbero considerare nocivi o irrazionali quegli atti che la nostra ragione vuole evitare, ma che Dio ha scelto come criterio e che egli ci ordina di compiere. «E0 ipso quod ipse vult, bene et justunzfactam est (Per il fatto stesso che egli vuole, ciò che è fatto è buono e giusto)». Le stesse leggi del decalogo, secondo Occam, obbligano soltanto
perché Dio ha voluto così, non perché siano richieste dall'ordine universale e dalla natura umana o dalla convivenza sociale. LA POTENZA ASSOLUTA E
pari di
LA POTENZA ORDINATA
Duns Scoto, Occam pone una netta distinzione tra la Dei absoluta c la potentia Dei ordinata. Dio, infatti, una volta potentia decretati i suoi ordini vi si attiene e così essi assumono per l'uomo carattere assolutamente vincolante. Ciò che di per sé Dio può, non lo può in seguito all'ordinamento da lui stesso stabilito; ciò che egli può de potenAlla
31) Ibfd, 45, 1. 32) Ibid, 43, 2.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
727
tria sua absoluta, non lo può de potentia sua ordinata. «Per chiarire la contingenza dell'ordinamento concreto, Occam mette volentieri in evidenza le possibilità esistenti in base alla potentirz absoluta, e da queste ne deduce altre. Nel corso di queste speculazioni sulla potentia Dei absoluta, che spesso superano il limite dell’ammissibile,egli sviluppa una teologia del "come se", perdendo praticamente di vista la via della salvezza adottata da Dio. Tanto meno egli cerca di darle un fondamento, cioè di riflettere con rispetto sulla sapienza delle vie di Dio. L'esposizione della storia della salvezza cede il passo di fronte alla discussione delle pure possibilità, e la teologia diventa un campo di esercitazione dell'abilità logicodialettica. Occam si muove esattamente su questa linea quando prende preferibilmentein considerazione casi limite o eccezionali e ne deduce ulteriori possibilità. Poiché tutto ciò che Dio opera per mezzo delle cause seconde può produrlo anche direttamente per se stesso, non si può per ‘esempio dimostrare che qualcosa è stato prodotto da una causa seconda attuale. Perciò si può stabilire soltanto un post hoc e non un propter hoc».33 Le conseguenze più gravi di questo modo di procedere occasionalistico Occam le trae nella sua dottrina sacramentariu: la causalità strumentale dei sacramenti viene totalmente eliminata. l sacramenti sono segni posti da Dio del tutto arbitrariamente. Dio potrebbe infatti legare la grazia del sacramento al semplice contatto con un pezzo di legno e stabilire che con l'acqua battesimale venga amministrata anche la cresima.34 Nel sacramento delYeucaristiaegli si attiene al dogma della transustanziazione, ma con molte riserve. Di per sé egli preferirebbe la dottrina della coesistenza del pane e del corpo di Cristo. Una simile dottrina non è, secondo lui, in contrasto con la ragione, né con la Sacra Scrittura; anzi è ratiorzabiliore più conciliabilecol principio di economia divina che suggerisce di ammettere il minor numero di miracoli possibile. In questo caso infatti cadrebbe la più grossa difficoltà, e cioè l'esistenza di accidenti senza un soggetto che li sostengafiî Tuttavia, poiché la dottrina della Chiesa lo esige, Occam resta fedele alla dottrina della transustanziazione. Il miracolo in essa implicito del perdurare degli accidenti anche dopo la distruzione della sostanza, diventa per lui la prova migliore che la sostanza corporale ‘e di per sé estesa e non ha bisogno dell’accidente della quantità realmente distinto. Se infatti, prosegue Occam, Dio può far esistere gli accidenti da soli, egli può senz'altro anche distruggerli e Conservare la sostanza senza muovere le sue parti nello spazio. In tal caso la sostanza sarebbe estesa senza qualitàfié Se inoltre Dio può di-
-
33) 34) 35) 35)
H. IEDIN (ed.), Storia della Chiesa, V-Z, Cit., pp. 69-70.
Cf. IV Sent. q. 1. Cf. ibid. q. 6.
Cf. De sacramento altaris c. 25.
728
Parte seconda
struggere gli accidenti del pane e Conservare il corpo di Cristo, questo deve essere presente sul posto direttamente e non per mezzo delle forme.”
Il volontarismo e l'occasionalismoconducono Occam anche a svuotala dottrina della grazia. Per Occam la grazia non è una forza che viene comunicata all'uomo, rinnovandolo e rendendolo capace di azioni meritevoli, ma un favore divino con cui il Signore accetta o meno l'uomo, secondo la propria volontà.
re
IL Dio DEI FILOSOFI NoN i3 IL DIO CRISTIANO Come abbiamo già avuto modo di rilevarein precedenza, Guglielmo di Occam con il suo minimalismo metafisico scava un solco ancora più largo e più profondo di quello che aveva tracciato Scoto tra ciò che l'uomo può pensare di Dio con la ragione e ciò che può conoscere di Lui mediante la rivelazione. Il Dio che il filosofo raggiunge con la seconda navigazione è un Dio che ha ben poco in Comune col "Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” e con il ”Dio di Cristo". Mentre il Dio della rivelazione è un essere infinitamente perfetto, dalla bontà e dalla perfezione insuperabili,il Dio dei filosofi è solo l'essere che supera ogni altro essere possibile in perfezione e in valore. Solo dalla rivelazione noi sappiamo che Dio è l'essere che non solo non ammette d'essere superato da nessun altro essere, ma non tollera nemmeno che qualcuno lo eguagli in perfezione e in valore. E questo il Dio della Bibbia, sovranamente trascendente su tutto e su tutti, infinito e onnipotente. Il punto su cui Occam insiste giustamente è che quando il filosofo elabora un discorso di teologia razionale, deve stare attento a non confondere quello che è il Dio della rivelazione con il Dio cui si giunge per via dimostrativa; per via di dimostrazione, rigorosamente si può provare solo l'esistenza di una natura che non è superata da nessun'altra in perfezione, mentre non si può dimostrare che di tali nature ne esista una sola. Il fatto che sia prima e perfettissima non implica necessariamente la sua unicità: può essere la natura suprema relativamente a un ordine naturale. La teologia razionale elabora un discorso minimale e imperfetto su Dio, un discorso limitato alle possibilità conoscitive del viatore che per forza di cose deve fare i conti con questo mondo attuale, che è l'unico mondo di cui l'uomo possa parlare in termini di evidenza. I limiti di questo discorso risaltano non appena si pensi come il nostro mondo non sia che uno dei tanti mondi possibili:l'apertura dell'orizzonte della possibilitàporta la ragione umana a dichiarare la sua incapacità a risolvere in maniera definitiva i problemi, soprattutto quelli di natura
37)
teologica.
Cf. IV Sent. q. 5.
La crisi della
metafisica cristiana nel Xl V secolo
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Ghisalberti nota opportunamente che la teologia razionale di Occam,
che è
una teologia minima e minimalistica alla pari della sua metafisica, «vuole levare un monito alla ragione, perché non vada oltre le sue possibilità nel discorso teologico; quello che essa scopre di Dio è ben poca cosa rispetto a quello che Dio le rivela di se stesso».38
ÎJINFLUSSO DI OccAM Uinflusso che Occam esercitò sul pensiero filosofico e teologico alla fine del medioevo e agli inizi dell'epoca moderna fu enorme e contribuì in modo decisivo allo sfaldamento e alla dissoluzione di quel grandioso e compatto edificio culturale delle Summae in cui filosofia e teologia si integravano felicemente. Le dottrine filosofiche e teologiche di Occam si diffusero rapidamente, dapprima all'università di Parigi e poi in numerose altre università europee, ove i maestri ritenevano legittimo far riferimento al sistema di Occam, considerandolo non meno valido di quelli di Tommaso o di Scoto. Molte di queste università fondarono cattedre in cui si insegnava filosofia e teologia, da una parte secondo la m'a antiqua sancti Tizomae e dall'altra secondo la via moderna di Occam e dei suoi sostenitori. Nomi importanti e universalmente rispettati aderirono ai principi proposti dal restauratore del nominalismo: il cardinale Pietro d’Ailly e il cancelliere Giovanni Gerson, per non citare altri, si riferivano apertamente a quella dottrina, in armonia col segreto misticismo del loro pensiero. Il successo di Occam si spiega soprattutto per la combinazione assai difficile ad attuarsi che egli era riuscito a effettuare tra l'ideale scientifico di Oxford da una parte e l'ideale religioso del suo Ordine dall'altra. Occam li aveva professati entrambi con rigore intransigente. Sul terreno delle scienze, egli conservava l'ideale della conoscenza matematica, sperimentale e intuitiva preconizzata da Ruggero Bacone; e per questo mondo della scienza Occam aveva rivendicato la più completa autonomia: «Le dottrine di fisica, che non si riferiscono alla teologia, non devono essere solennemente condannate o proibite da nessuno; in queste materie ciascuno deve essere libero di decidere ciò che più gli aggrada». Ma con non minor fermezza Occam si era battuto per la purezza dell’ideale francescano. Per questo motivo egli aveva cercato di assicurare alla fede autonomia e piena indipendenza da ogni insidia mondana, incluse quelle della ragione e della filosofia. Per questo aspetto del suo pensiero, Guglielmo di Occam seduce le grandi anime di un Pietro d’Ailly o di un Gerson: stanchi di tante vane grandi dispute e di incessanti lacerazioni tra opposte scuole, questi uomini se-
38)
A.
GHISALBERTI, 0p. ciL, p. 146.
-
730
Parte seconda
guirono la corrente che avrebbe finito per fondare una scienza positiva da un lato e una teologia positiva dall'altro. Per quante lacune 0 insufficienze vi siano nell'opera di Oceani, non si potrà negare, senza peccare di ingiustizia, che contenesse germi fecondi. Nicola d’Autrecourt detto della grande diffusione e influsso che ebbe il pensiero Guglielmo d’Occam subito dopo la sua morte. Esso fu accolto con entusiasmo non solo ad Oxford ma anche a Parigi e in molte altre università. Per un paio di secoli la scuola occamista è la più seguita e la più influente della cristianità. Nel giro di pochi decenni la via moderna oltre che un metodo diviene anche un insieme ben strutturato di posizioni filosofiche, teologiche, morali e politiche caratterizzanti la scuola di Occam e dei suoi adepti. Più che sul terreno filosoficol’occamismo si afferma in quello teologico, dove può vantare il sostegno di importanti personalità come Marsilio d’lnghen, Pietro d’Ai1ly, Gabriele Biel. Ma nel secolo XIV all’occamismo aderiscono anche alcuni eminenti filosofi, in particolare Nicola d’Autrecourt e Giovanni Buridano. Nato verso il 1300 a Autrecourt, presso Verdun, Nicola studiò a Parigi, dove divenne nzagister in artibus e successivamente baccelliere e magister theologiae. Nel 1333 è nominato priore del Collegio della Sorbona. Nel 1340 Benedetto XII lo convoca insieme ad altri docenti per rispondere del loro insegnamento; il processo, proseguito sotto Clemente VI, si conclude nel 1346 con la condanna di 65 tesi. Il 25 novembre 1347 ha luogo la solenne abiura: Nicola è destituito dai suoi gradi accademici, è dichiarato inabile all'insegnamento in teologia e tutti i suoi scritti sospetti vengono bruciati. Ciò non gli proibisce di ottenere una prebenda presso la cattedrale di Metz e di divenire decano del capitolo nel 1350. La sua morte avvenne poco dopo. Della vasta produzione letteraria di Nicola d’Autrecourt c’è rimasto piuttosto poco: la questione Utrum visio creaturae possit naturaliter intendi, il trattato Exigit orde (detto anche Satis exigit orde), il commento alla P0litica di Aristotele, il commento al primo libro delle Sentenze di Pier Lombardo e le Lettere a Bernardo di Arezzo. Audace assertore della via moderna, Nicola fa sue tutte le tesi basilari delfoccamismo: rottura dell'armonia tra fede e ragione, primato della fede, funzione critica della ragione (con l'applicazione del famoso "rasoio di Occam"), decostruzione della metafisica, empirismo (di stampo Si è
di
già
atomistico).
«Nicola svolge tutto il suo pensiero intorno a un problema centrale: quale certezza si possa avere da parte degli uomini intorno alla verità»?!
39)
M. DAL FRA, Nicola di Atitrecoitrt, Milano 1951, p. 34.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
731
Però, precisa Nicola di Autrecourt, con la ricerca egli non intende assolutamente mettere in dubbio alcuna verità di fede, anzi il suo obiettivo è esattamente
quello opposto:
mostrare la debolezza della
ragione onde
rafforzare l’autorit‘a della fede: «Affermo che né in questo trattato né in altri voglio dire qualcosa che sia contrario agli articoli di fede o contro la determinazione della Chiesa o contro gli articoli i cui contrari sono stati condannati a Parigi ecc; ma voglio solamente cercare, circoscritta ogni legge positiva, quale certezza si possa avere sulle cose e se gli argomenti di Aristotele fossero dimostrativi>>fl0Nicola sostiene, anche di fronte ai prelati che lo giudicano, la netta distinzione da lui introdotta fra verità di fede e indagine naturale; per questo anzi egli rifiuta di accettare come proprie alcune delle proposizioni che gli vengono contestate; ed eccepisce contro la forma con la quale esse vengono presentate. Non si tratta dunque di muovere delle riserve nei confronti del mondo della fede. Il mondo della fede comporta poi oltre a un complesso di verità da credere, anche un insieme di ordinamenti pratici da seguire; a questi Nicola dà una particolare importanza e con motivazione esplicita intende porli fuori da ogni indagine intorno alla certezza. Il suo studio intende proporsi, circumscripta omni lege positiva, cioè una volta che è stata determinata la legge positiva; l'ordinamento etico-religioso oltre, ovviamente, a quello teologico non è dunque in discussione. Anzi, è a difesa di questo che Nicola dichiara di muovere contro il logicismo degli aristotelici. Egli si schiera, per questo lato, con la tradizione del movimento antidialettico, di coloro appunto che, nell'ambito del cristianesimo, si erano mostrati preoccupati del fatto che si desse eccessivo peso all'indagine logica, dimenticando d'altra parte l'importanza sia dell'indagine etica sia, soprattutto, dell'azione concretamente inserita nell'ordinamento eticoreligioso cristiano. «Qui si chiarisce il compito che il pensatore di Autrccourt si propone di conseguire: chiarire i limiti della conoscenza naturale del mondo per persuadere gli uomini a dedicare ad essa soltanto quanto di tempo risulti allo scopo strettamente necessario, persuadere tutti a riservare il maggior tempo dell'esistenza al perfezionamento della azione e della vita, al progresso morale e religioso dell'individuo e della collettività».41 In gnoseologia Nicola professa una teoria empiristica, basata esclusivamente sulla conoscenza sensitiva, che pretende tuttavia di essere obiettiva e realistica. Lungi dall’assumere una posizione scettica, egli afferma contro gli ”accade1nici” la ”certezza evidente" degli ”oggetti dei cinque sensi” e degli ”atti interiori” immediatamente avvertiti come tali.
4°) Exigitordo, 182. 41) M. DAL PRA, 0p. ciL, p. 39.
Parte seconda
732
Ma dal fatto di coscienza egli si rifiuta di inferire l'esistenza di una sostanza esterna, sostrato dei suoi accidenti visibilie quella di un ‘soggetto” capace di avvertirsi come substantiu spiritualis. Inoltre, giacché gli esseri e le loro proprietà sono conosciuti solo da atti sensoriali distinti, non e possibile pensare tra essi né gerarchia di valore, né processo di mutamento, né causalità necessaria. Anticipando Hume di molti secoli,“ il filosofo d’Autrecourt, sostiene che non esistono rapporti necessari tra causa ed effetto 0 viceversa. L0 stesso sostiene riguardo alla finalità e all'idea di gerarchia tra gli esseri: non si può passare da una cosa all'altra: ciascuna è perfetta nel suo ordine; non ce n'è una inferiore e un'altra superiore. Il mondo è eterno: rifacendosi all'atomismo di Democrito, Nicola sostiene che le particelle (gli atomi) di cui il mondo è composto sono eterne e incorruttibili; ciò che cambia sono le loro combinazioni e disgregazioni. A chi gli obietta che si tratta di una teoria atea e materialistica, Nicola replica che il suo unico obiettivo è semplicemente di renderla dialetticamente più compatibilecol dogma cristiano di quanto non lo sia l’aristotelism0 da cui Alessandro di Afrodisia e Averroè hanno dedotto a buon diritto le empie conclusioni in esso racchiuse. «Per sostenere il suo "gioco", Autrecourt è costretto a integrare il suo atomismo ipotetico con elementi non epicurei, come l'esistenza nell'uomo di due spiritus (intelligenza e senso), i quali staccati dall’aggregato corporeo degli atomi, potrebbero ritrovare le condizioni necessarie al loro perfetto esercizio. Ma la logica del sistema porta Autrecourt a concepire tosto una riaggregazione degli stessi atomi e il nuovo imprigionamento dei medesimi spiritus, il che non è affatto compatibilecol dogma>>fi3 \
Giovanni Buridano
Originario di Béthune, Giovanni Buridano nacque intorno al 1300. Conseguì il grado di magister in artibus a Parigi prima del 1328, data in cui è già rettore dell'università. Carica che gli venne assegnata una seconda volta nel 1340. Trascorse tutta la sua vita nella facoltà delle Arti, dove per oltre trent'anni insegnò filosofia (vale a dire logica, fisica, psicologia, morale, retorica, politica), servendosi dei testi di Aristotele che spiegava sia col metodo della expositio sia col metodo della quaestìo. E. tutto questo lo fece a più riprese. Così, per es., commentò la Fisica almeno quattro volte.
43) 43)
Cf. H. RASHDALL, Nicolas de Ultricztrìa, a Medioevali Hume, in «Proceedings of the Aristotelian Society» 8 (1907), pp. 1-27. F. VAN SrEENBERcHrN-A. FoREsT- M. DF, GANDILLAC, I ntovimento dottrinali‘... cit., p. 63}, nota 218.
La crisi della metafisica cristiana nel XIV secolo
733
Buridano si guadagnò una grandissima riputazione e divenne un autentico capo-scuola. Gli furono assegnati numerosi beneficiecclesiastici, tra cui il canonicato di Arras nel 1342 e la cappellania di S. André-desArcs. In questa chiesa egli venne sepolto al momento della sua morte, della quale ignoriamo la data esatta (sicuramente successiva al 1358). Dell'insegnamento di Buridano esistono molte testimonianze mano-
scritte, sparse un p0’ ovunque, in particolare a Vienna, Erfurt, Praga, Cracovia, ossia in tutti i nuovi centri universitari, in cui il suo influsso
nell'ambito scientifico si fece subito sentire. Tra le opere pubblicate le più importanti sono: Sunzmulae logicae, Quaestiones super octo Physicormn libros, i commenti al De anima, ai Parva naturalia e alla Politica. Buridano è un ”occamista" moderato «che tanto più si concilia coi teologi quanto meno sconfina nel loro campo (...); malgrado la sua fama, non è originale né in logica né in psicologia».44 La sua originalità, come pure il suo influsso, si trovano nel campo della fisica, in particolare grazie alla sua teoria dellfimpetus (forza) per spiegare l'accelerazionenella caduta dei gravi e la rotazione ne] movimento della terra. «Inizialmente scrive Buridano nel suo commento alla Fisica il solo peso muove il grave; ma, muovendolo, gli imprime un impetus che aggiunge il suo effetto motore al peso, in modo che il movimento diventa più rapido e, mano mano che si accelera, lfiimpetus aumenta di intensità, per cui il movimento risulta continuamente accelerato -
-
734
Parte seconda
VITA E OPERE
Giovanni di jandun nacque nel piccolo villaggio di Iandun, nella vallata dell’Oise, tra il 1285 e il 1289. Studiò nella facoltà delle Arti dell'università di Parigi, probabilmentesotto la guida del medico c filosofo Pietro d'Abano. Conseguito il magistcr artium a partire dal 1310 Giovanni insegnò per alcuni anni in quella facoltà, mentre nel 1315 divenne maestro delle Arti al Collegio di Navarra di Parigi. Nel 1324 collaborò con Marsilio da Padova alla stesura del Defensor pacis; con Marsilio abbandonò Parigi (1326), venne raggiunto dalla scomunica papale (1327), e si rifugio da Ludovico il Bavaro, al cui seguito compì il viaggio in Italia del 1327-28, dove morì, nei pressi di Pisa tra il 10 e il 15 settembre 1328. Durante gli anni del suo magistero parigino, Giovanni aveva composto dei commenti a numerose opere di Aristotele (Fisica, Metafisica, De coelo et mando, De anima, Parva naturalia, Retorica) e al De substantia orbis di Averroè.
PENSIERO METAFlSlCO Nelle Questioni sulla Metafisica, commentando Aristotele, Iandun assegna alla metafisica gli stessi obiettivi già definiti dallo Stagirita: è studio dell'ente in quanto ente, è studio delle cause per il fatto che l'ente è causa di tutte le cose, è studio della sostanza, dal momento che la sostanza è la parte principale dell'ente. Jandun afferma che la metafisica trova il suo culmine nell'indagine intorno a Dio, che è l'ente supremo, principio e fine ultimo di tutte le cose. Nel precisare le caratteristiche della causalità divina nei confronti di tutte le cose, si presentano alcuni interrogativi sollecitati dalla diversità fra l'insegnamento di Aristotele e la tradizione teologica. Anzitutto, come possono procedere molte cose da Dio, dal momento che uno stesso principio non può causare effetti diversi? Giovanni risponde dicendo, con Avicenna e Averroè, che Dio causa immediatamente la prima Intelligenza e solo mediante questa causa le altre; la causalità divina si esercita solo mediatamente nei confronti di effetti molteplici; mentre l'opinione dei teologi è che Dio può causare immediatamente molteplici effetti, secondo diverse perfezioniflò Ci si domanda poi come possano essere prodotte da Dio cose nuove, essendo egli immobileed eterno. Per Jandun la semplicità o la complessità degli effotti dipende dalla loro minore o maggiore lontananza da Dio, il quale peraltro non può causare nulla che non sia buono: il male perciò è da collegare alla complessità propria della materia, a sua Volta spiegabile a causa della estrema lontananza da Dio. Il movimento dei
46)
Cf.
Quaest. in Metaph. llI, q. l.
La crisi della
rrzetafisica cristiana nel XI V secolo
735
cieli è originato dal primo mobile, il quale è a sua volta mosso dall'amore e dal desiderio del primo motore immobile, che è Dio. ”Muovendo” come oggetto d'amore e fine desiderato di tutte le cose, Dio suscita il movimento dei cieli e tale movimento è eterno, poiché il moto circolare del cielo è senza interruzione; Dio quindi muove eternamente, stando alle conclusioni cui si giunge per via filosofica. Jandun però osserva che «secundum fidem et veritatenz» si deve concludere diversamente, perché dalla Rivelazione sappiamo che il mondo è stato creato e quindi che Dio, prima della creazione, non "muoveva”. Dio è immobile ed eterno e la sua eternità ben si addice alla totale irnmaterialità: ogni potenza e limitazione provengono dalla materia, mentre Dio, atto puro, si mantiene eternamente nella sua condizione di sommamente semplice e sommamente perfetto.
Per tutti gli interpreti di Aristotele uno dei punti più spinosi riguardava la conoscenza da parte di Dio degli enti diversi da Lui. Iandun in base alla considerazione che la nobiltà dellintendere deriva non dal soggetto che intende, bensì dalla nobiltà dellintelligibile,incomincia col proporre la tesi aristotelica, secondo cui Dio non può intendere altro da sé: essendo sommamente intelligente, egli deve intendere il sommamente intelligibile, cioè deve intendere se stesso. Tuttavia Dio conosce la natura dell'ente, in quanto è l’ens simpliciter, e perciò conosce se stesso come causa di tutti gli enti: si deve così concludere che Dio, conoscendo se stesso in quanto dotato della causalità di tutte le cose, non ignora le altre cose. Più avanti, sempre nelle Questioni sulla metafisica, Iandun si interroga se si possa parlare di libertà in Dio e risponde facendo ricorso alla nozione di libertà intesa come agire gratin sui, senza dipendere da altri. Libero non significa dunque contingente, nel senso di ciò che può essere o non essere; libero è colui che vuole ciò che la ragione giudica che debba essere voluto. Dio è libero non perché possa non causare, ma ché muove il primo ente, che sceglie e vuole muovere gratia sui, percon totale autodeterminazione." La particolare concezione della libertà adottata da Iandun gli consente di asserire contemporaneamente un certo determinismo nell'universo: in questo tutto accade necessariamente, anche gli eventi contingenti. Tale è il punto di vista della filosofia. Diversa è l'indicazione proveniente dalla fede, la quale ci attesta che Dio è libero nel creare e l'uomo è libero nellagire, secondo un’accezione precisa della libertà, quella per cui si può scegliere o non scegliere, compiere o non compiere una determinata azione. Questa posizione non può tuttavia essere dimostrata, in quanto eccede le possibilità dell'indagine razionale; va accolta fermamente per via di fede e così facendo, accettando cioè di credere a delle verità in forza della gloriosa potenza divina si acquistano dei meriti.
47)
Cf. ibîd. 1x. q. 5.
.
736
Parte seconda
Degli argomenti antropologici Iandun tratta occasionalmente anche nelle Questioni di Metafisica ma li affronta di proposito soprattutto nelle agente Quaestiones de anima. Sulla dibattutissima questione dell'intellettodell'indell'unità averroistica dottrina la fondamentalmente egli segue telletto, ma con alcuni correttivi che si richiamano alle posizioni degli ultimi scritti di Sigieri di Brabante: l'anima intellettiva è unica per tutti numericamente distinte nei gli uomini, mentre le anime cogitative sonosostanziale. Pur non inerendo vari individui e conferiscono loro l'essere secondo l'appropriaalla materia secondo l'essere sostanziale, ma solo zione, l'intelletto ha bisogno di unirsi all'uomo "secundum esse", attradel pensiero verso l'operazione intrinseca che suscita con lo sviluppo l'anima cogitativa, alla quale dell'uomo. Forma sostanziale dell'uomo è in intende: questo rapporto di si ricollega l'anima intellettiva quando di e corpo. reciproca dipendenza sta il legame nell'essere intelletto l'anima materia la e attua L'anima cogitativa in quanto forma inerente, essennon l'intellezione; intellettive necessita dell'uomo per sviluppare
do forma materiale, l'intelletto non è edotto dalla potenza della materia e per questo è separato da essa; perciò è incorruttibile. Secondo Iandun la pienezza del conoscere spetta all'anima intellettiintelletto va, la quale, a sua volta, si compone di una facoltà attiva o
è di conseagente, e di una facoltà passiva, o intelletto possibile; duplice l'intelletto agente guenza l'attività dell'intelletto: mediante Yastrazione, attualizza ciò che è intelligibilesolo in potenza; l'intelletto possibilericeve
in sé gli intelligibili,e realizza lîntelligere vero e proprio. L'azione dell'intelletto agente, preliminare ad ogni intellezione del-
l'intelletto possibile, ha bisogno dei "fantasmi", perché solo a partire dai fantasmi l'intelletto agente può astrarre le specie intelligibiliche danno all'intelletto passivo la possibilitàdi conoscere in atto. Uimprescindibilità dei fantasmi comporta che l'intelletto agente non sia sempre forma dell'intelletto passivo; questo può verificarsi solo nella disposizione ottimale, nella conoscenza assolutamente perfetta, ossia nel caso della conomateria e scenza di Dio e delle sostanze separate, che sono prive di sensibili. delle sostanze quindi ontologicamente più perfette La metafisica, che è il sapere più alto cui può giungere l'intelletto umano, è in grado di attingere sia Dio sia le sostanze separate, che, come si è visto, secondo Jandun, fanno parte del suo oggetto; ma non può ragche può elaborare giungere la certezza in rapporto alle dimostrazioni che fatto il può argomentare circa gli enti massimamente intelligibili,per solo con dimostrazioni quia, cioè dagli effetti alla causa. Non si potrà pertanto giudicare contrario alla natura dell'uomo l'intervento della fede, la un ordine di quale, appoggiandosi sulla Rivelazione, fornisce all'uomorazionale. dalla speculazione conoscenza circa Dio non raggiungibile Nonostante la sua aperta adesione all’averroismo, Iandun non condivide la posizione di certi averroisti latini che insegnavano la teoria della doppia verità. Piuttosto, egli riconosce i limiti della ragione su certi pro-
La crisi della metafisica cristiana nel XIV secolo
737
blemi fondamentali e la necessità della rivelazione per conoscere con certezza le verità più importanti intorno a Dio e all'uomo. La sua adesione alla fede appare ferma e senza riserve, anche se Gilson lo mette in dubbiofltî Così, per 03., a proposito della spiritualità e all’imm0rtalità dell’anima egli scrive: «Sebbene l'anima si trovi nella materia, tuttavia essa resta un atto di cui la materia corporea non è resa partecipe; questi attributi dell'anima le appartengono realmente, semplicemente e assolutamente, secondo la nostra fede. Credo inoltre che l'anima immateriale può soffrire a causa di un fuoco corporeo e che può essere riunita al corpo dopo la morte per ordine del Dio creatore. Non sono in grado di provare tutto questo, ma penso che queste cose Vanno credute con fede semplice, come pure molte altre che si devono credere solo in base all'autorità della Sacra Scrittura e dei miracoli, senza il bisogno di alcuna ragione dimostrativa. Inoltre, questo è il motivo per cui la nostra fede è meritoria, infatti i Dottori insegnano che non c'è nessun merito a credere ciò che la ragione può dimostrare». In conclusione, pur mantenendosi fuori della corrente occamistica, Iandun, sposando le tesi de11’averroismo, dava man forte a colui che riputava il suo principale avversario, Guglielmo di Occam.
Meister Eckhart Il secolo XIV, come s'è Visto, registra la crisi profonda, epocale non soltanto della Scolastica ma di tutto il grandioso e stupendo edificio della civiltà medioevale: vacillanole istituzioni politiche e religiose del papato e dell'impero, si spezza l'armonia tra fede e ragione, viene meno il primato dell'ordine spirituale rispetto a quello temporale, cessa il monopolio culturale del clero, viene contestata la teocrazia. Per quanto attiene la metafisica i periodi di crisi culturale sono caratterizzati da due atteggiamenti opposti, che abbiamo già incontrato nella fase conclusiva della metafisica classica: un atteggiamento di sfiducia nei poteri della ragione che porta alla decostruzione della metafisica: è il caso degli scettici e degli accademici; e un atteggiamento che rifugge dalla ragione speculativa per affidarsi alle risorse della mistica: ‘e il caso dei neoplatonici. Nel secolo XIV quando esplode la crisi della societa medioevale, il primo atteggiamento è espresso dal nominalismo di Occam e della sua scuola, di cui si è parlato fin qui; mentre il secondo atteggiamento è quello che ha nel grande mistico tedesco, Meister Eckhart, il suo più valido e più qualificato rappresentante.
43)
Cf. E. GILSON, History ofChristian Philosophyu cit., p. 524.
738
Parte seconda
VITA E
OPERE
«Non esiste alcuna notizia su Eckhart che risalga antecedentemente trentesimo anno di vita>>fi9 Si sa per certo, comunque, che egli era nato verso il 1260 da una famiglia di cavalieri della Turingia a Hochheim, nei pressi di Gotha. Entrò assai giovane nel noviziato domenicano di Erfurt; fu poi inviato allo studium di Colonia, dove forse ascoltò le ultime lezioni dell'ottuagenario Alberto Magno e certamente lesse le sue opere, in particolare i suoi Commenti a Dionigi Areopagita (Pseudo-
al
suo
Dionigi). Prosegui gli studi a Parigi, nel convento di Saint-Iacques, dove conseguì il baccellierato in teologia. Venne quindi nominato priore di
Erfurt e vicario provinciale della provincia di Turingia (1298). Nel 1300 era di nuovo a Parigi in veste di magister regens e cominciò la polemica con Scoto sulla questione del primato tra intelletto e volontà nel processo della deificazione dell'uomo. Verosimilmente espulso dalla Francia nel 1303, insieme allo stesso Scoto, per aver ricusato di rispondere all'appello di Filippo il Bello in favore di un Concilio contro Bonifacio VIII, ritornò in Germania, dove venne nominato provinciale della nuova provincia di Sassonia. Nel 1311 venne inviato per la terza volta a Parigi, dove svolse un breve periodo di insegnamento. Una volta concluso, nell'estate del 1313, il magistero parigino, Eckhart fu nominato vicario generale di Berengario di Landora, ministro generale della Teufonia, e conservo questo titolo anche sotto il suo successore, Herveus Natalis (1318-1323). A Meister Eckhart furono affidati la cura e il controllo dei monasteri femminili dell'Ordine del sud della Germania, con sede a Strasburgo. La cura moniuliunz era diventato per l'Ordine un problema scottante e pressante dal momento in cui il ramo femminile aveva acquistato proporzioni vistose. Solo nella provincia della Germania meridionale, intorno al 1300, c'erano ben 65 conventi femminili.Nella Teutorzia l'assistenza era quindi diventata molto importante e l'Ordine Domenicano aveva emanato vari decreti che prescrivevano che la cura monialiizm fosse affidata a fratres docti. Il nuovo incarico era assai congeniale a Eckhart, che trovò nei conventi femminili una spiritualità fortemente intrisa di misticismo: «nei conventi che sottostavano alla sua cura e al suo controllo trovò non soltanto povertà evangelica e sequela Christi come base della vita conventuale, ma anche una disposizione particolare per la vita mistica di perfezione, ottenuta grazie all'ascesi e alla visione».5" Allo stesso tempo Eckhart si affermò come eccellente predicatore. Ma sia la sua predicazione sia alcuni suoi scritti suscitarono sospetti di eresia. Nel 1325 il capitolo di Venezia venne incaricato di svolgere un'inchiesta sulla dottrina del maestro. Uarcivescovo di Colonia affidò allora
49) K. RUI l, Meister Eckhart, teologo, predicatore, ittistico, Brescia 1989, p. 24. 5°) Ibid, p. 64.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
739
l'indagine a
due inquisitori, l'uno domenicano e l'altro canonico della cattedrale. Nel corso dell'estate del 1326, entrambi prepararono un elenco di 49 proposizioni estratte dalle opere e dai sermoni di Eckhart, che ritenevano condannabili.Eckhart rispose alle obiezioni il 26 settembre, rifiutando come non autentiche un certo numero di proposizioni e spiegando le altre in modo ortodosso. Poco tempo dopo gli inquisitori gli presentarono un nuovo elenco di 59 proposizioni parzialmente simili alle precedenti, alle quali egli diede la stessa risposta. Il 13 febbraio 1327 compì una professione di fede pubblica e solenne, ma allo stesso tempo si appello alla Santa Sede. Dopo avere ascoltati) l'accusa-ato, una commissione di Colonia inviò un suo rapporto al papa. La bolla In agro Domini del 27 marzo 1329 condannò 28 proposizioni come eretiche o sospette. A questa data Eckhart era però già morto. Vale la pena di conoscere sommariamenteil contenuto delle proposizioni condannate. Diciassette sono dette «contenere errori o essere infette di eresia». Le più importanti sono le seguenti: «Non appena Dio fu, creò il mondo. Egualmente, si può ammettere che il mondo è esistito da tutta l'eternità. Nel medesimo tempo in cui generò il Figlio suo, coeterno e coeguale in ogni cosa, Dio ha creato il mondo. In ogni opera, buona o cattiva, risplende ugualmente la gloria di Dio. Chi pecca e chi bestemmia loda Dio. Domandare questo o quello è domandare a Dio di negare se stesso. Dio è glorifìcato in quelli che non ricercano né la devozione né la santità né la ricompensa del regno. Se desiderassi di ricevere qualche cosa da Dio, sarei suo servitore o suo schiavo. Noi siamo totalmente trasformati in Dio come il pane è mutato nel corpo di Cristo. Tutto ciò che il Padre dà al suo unico Figlio lo dà pure a me. Tutto ciò che la Scrittura dice di Cristo vale per l'uomo buono e divinizzato. Poiché Dio vuole che io abbia peccato, io vorrei non aver peccato. Vi è qualche cosa nell'anima che non è né creata ne‘ creabile. Chiamare Dio buono, è parlare tanto male come chiamare bianco il nero».
Altre undici
proposizioni sono «malsonanti, temerarie e sospette di
eresia, sebbene mediante impegnative spiegazioni e integrazioni, possa-
significato cattolico». Queste affermano che, a rigor di trascendente a ogni pluralità; che l'amore non si compone di gradi; che
no assumere un
termini, Dio non comanda nessun atto esterno; che Dio è assolutamente la creatura, infine, è puro nulla.51 Gli scritti di Eckhart comprendono opere in lingua latina e tedesca. Tra le opere latine, le principali sono: Collatio in libros Sententiaruwz, Quaestiones parisienses e l’Opus tripartitunz. Gli scritti in lingua tedesca comprendono alcuni trattati e i Sermoni. In questi scritti Eckhart contri-
51)
Cf. il testo della bolla In agro Donrini in H. DENIFLE, Archives II, pp. 637-639.
Parte seconda
740
fissare il lessico filosofico e teologico della lingua tedesca, per cui guadagnato giustamente il titolo di «creatore della prosa tedesca». L'Opus tripartitum è l'opera maggiore di Meister Eckhart: «e una nuova Summa theologica, progettata in modo originale. Più precisamente: sta al posto di una Summa theologica. Questa, insieme ai Commenti alle Sentenze, costituiva la traccia essenziale dell'intero sapere concepito come sistema, e corrispondeva alla tendenza enciclopedica del tempo. È oltremodo significativo che Eckhart rinunci alla forma espressiva della Summa, rompendo con una tradizione consolidata, alla quale si sentivano obbligati proprio i teologi parigini>>.52 Come l'autore spiega nel
buì
a
si è
”Prologo generale", esponendo il progetto dell'opera, l’Opus tripartitum comprendere tre parti: 1. Opus propositionum; 2. Opus quaestionum; 3. Opus expositionum. Particolarmente ampio era previsto l’Opus propositionum che doveva comprendere più di mille tesi, divise in quattordici trattati. L’Opus quaestionum era pensato nella scia della Summa Theologica «dell'illustre dottore e venerabileconfratello Tommaso d'Aquino», e doveva Comunque affrontare solo poche questioni «a seconda dell'occasione». L’Opus expositionum doveva comprendere il commento di tutti i libri della Sacra Scrittura. Delle tre parti di questo vastissimo doveva
progetto solo la
terza è stata
portata abbastanza avanti. Mancano com-
pletamente l’Opus propositionum (a parte il ”Prologo”) e YOpus qaaestionum. Dell’Opus expositionum ci sono pervenuti i seguenti commenti: Commento alla Genesi, Commento aIl’Es0d0, un Liber paraliolarum Genesis, Commento alla Sapienza, Commento al Vangelo di Giovanni. E andato invece perduto il Commento a Matteo. METAFISICA E
ANALOGIA
Dagli storici della filosofia e della teologia il nome di Eckhart viene generalmente collegato con la spiritualità e la mistica. Di fatto, però, egli fu un grande e profondo speculativo e la sua originalità consiste principalmente nella speculazione metafisica di stampo marcatamente neoplatonico e dionisiano, a cui la componente mistica è sempre congenita. In passato molti studiosi, basandosi sugli scritti del primo insegnamento parigino, hanno fatto di Eckhart un idealista, un precursore di Fichte e di Hegel. In effetti nelle Quaestiones parisierzses Meister Eckhart assegna un primato assoluto al conoscere rispetto all'essere. Egli sostiene, con i neoplatonici, che «il pensiero è il fondamento dell'essere (est ipsum intelligere fundamentum ipsius esse)». Dio viene pertanto identificato col conoscere, mentre l'essere è una proprietà delle creature. Nella stessa opera leggiamo: «Dio opera al di sopra dell'essere, in quella ampiezza in cui può muoversi. Egli opera nel non essere. Dio operava 52) K. RUH, 0p. cit, p. 106.
La crisi della
metafisica cristiana nel XIV secolo
741
anche prima che vi fosse l'essere. Alcuni maestri dallo spirito rozzo diche Dio è un puro essere (esse purum), ma egli è così elevato al di
cono
sopra dell'essere quanto il più elevato degli angeli lo è al di sopra del moscerino. Se chiamassi Dio essere, parlerei tanto falsamente quanto se dicessi che il sole è pallido 0 nero. Dio non è né questo né quello (hoc vel hoc). Un Maestro dice: chi crede di aver conosciuto Dio, e con ciò di aver
conosciuto qualcosa, non lo Dio non era un essere e che
conosce
affatto. Ma
quando ho
detto che gli ho con
dell'essere, non questo negato l'essere, bensì, al contrario, gli ho attribuito un essere più elevato. Se mescolo del rame nell’oro, esso è là secondo un modo più elevato di quanto sia in se stesso>>. Per non intendere erroneamente queera
al di sopra
ste sorprendenti affermazioni occorre collocarle nel contesto della teologia apofatica, che il neoplatonico Eckhart predilige e di cui certamente si avvale in modo eccessivo, senza integrarla adeguatamente con la via eminenziale. Eckhart dice bene che Dio non è hoc et hoc (né questo né quello), ma non spiega in quale modo la perfezione limitata dell’hoc (la creatura) si trova in Dio stesso, dal quale essa necessariamente procede.
Ma per conoscere con esattezza quale sia stata la dottrina metafisica di Eckhart più che agli scritti giovanili del magistero parigino, occorre rivolgersi agli scritti più maturi, specialmente al suo Opus tripartitum. Qui la tesi della priorità del conoscere sull'essere viene abbandonata, ed Eckhart fa sue due tesi fondamentali della metafisica tomistica dell'essere: 1) che senza l'essere lo stesso pensiero è nulla; 2) che l'essere è Dio stesso: esse est Deus. Ma l'accordo di Eckhart con S. Tommaso finisce qui. I tentativi, a partire da Otto Karrer (1928) di conciliare la sua dottrina col tomismo, sono da considerarsi falliti.“ «Il fondamento e il fine del sistema di pensiero eckhartiano, compiutamente espresso (...) sono incompatibilicon la dottrina tomista in punti essenziali».54 E quali sono i punti essenziali? Sono tre: l'assoluta trascendenza di Dio, la nullità delle creature, l'immanenza delle creature in Dio. Immediatamente collegata con questi punti è la dottrina eckhartiana dell’analogia e dell’univocità che differiscono toto coelo dalla dottrina tomista.
La trascendenza assoluta di Dio Nel
Prologo dell'Opus tripartitunt Eckhart dichiara che l'essere in sé, e
l'uno, il vero e il bene, si addicono soltanto a Dio. Secondo la tradizione che discende da Giovanni Damasceno, e che qui viene citato, questa proposizione si rifà al celebre passo dellflEsodo 3, 14: «Io sono colui che sono (Ego sum qui sum)», che esprime il vero e proprio nome di Dio. Perciò, «tutte le Cose hanno soltanto da Dio l'essere, l'unità, la verità, il bene». «Come in effetti, qualche cosa sarebbe, se non fosse delcon esso
53) 54)
Cf. O. KARRER, Das gtittliche in der Scele bei Meister Eckhart, Wiirzburg 1928. K. RUH, 0p. ciL, p. 126.
Parte seconda
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l'essere; 0 come potrebbe essere una se non dall'uno, 0 grazie all'uno e all'unità; o come potrebbe essere buona se non grazie alla bontà, così come ad esempio, tutto ciò che è bianco lo è per la bianchezza?» (n. 9).
Ed Eckhart soggiunge poi: «Ogni e ciascun ente non solo ha da Dio tutto il suo essere, tutta la sua bontà e la sua verità, ma lo ha da lui immediatamente, assolutamente, senza alcuna mediazione» (n. 13).
Nullità della creatura Tutto procede da Dio,
tutto rimane sempre suo, di Dio. In quanto appartiene di fatto alla creatura. «Dunque quema
”questo 0 quel1o", o quell’ente, questo o quell’uno, questo o quel vero, questo o quel bene, in quanto sono questo o quello, non aggiungono né conferiscono affatto nulla di entità, di unità, di verità e di bontà» (n. 15). Questa affermazione ha molta importanza per la spiritualità eckhartiana: la nullità di tutto ciò che non è da Dio è un motivo conduttore della sua predicazione: «Tutte le creature (in quanto creature) sono un puro nulla». E nel Commento a Giovanni si legge: «In ogni creatura si avverte l'ombra del nulla». nulla
sto
Immanenza delle creature in Dio La ragione per cui la creatura in
che essa possiede appartiene a Dio,
stessa è una nullità è che tutto Ciò anzi è Dio stesso. La totale immede-
se
simazione della creatura con Dio è vigorosamente affermata da Eckhart nel famoso Liber benedictus 0 Libro della consolazione, che fu il testo più discusso dai suoi giudici di Colonia. «Occorre innanzitutto sapere scrive Eckhart che il sapiente e la Sapienza, l'uomo vero e la Verità, il giusto e la Giustizia, l'uomo buono e la Bontà sono in rapporto reciproco, e si rapportano reciprocamente così: la Bontà non è né creata, né fatta, né generata; e l'uomo buono in quanto buono non è ne’ fatto, né creato, e tuttavia è generato Figlio e Figlio della bontà. La Bontà genera se stessa, con tutto quel che essa ‘e, nell'uomo buono, e questo riceve tutto il suo essere, sapere, amore e agire dal cuore e dal1’intimo della bontà e solo da essa (...). L'uomo buono e la Bontà non sono che un'unica cosa, assolutamente una sola bontà, con la differenza che una genera e il fatto di essere generato per l'uomo buono, non costituiscono altro che un solo essere e una stessa vita. Tutto quel che appartiene all'uomo buono, egli lo riceve dalla bontà, nella Bontà. E in essa che egli è, vive e dim0ra».55 La chiave linguistica di cui Eckhart si avvale per leggere i rapporti tra Dio e la creatura è l’anal0gia di attribuzione estrinseca intesa univocamente e non come insegnava S. Tommaso Panalogia di attribuzione intrinseca oppure Fanalogia di proporzionalità propria, le quali darebbero alla -
-
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-
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55) ECKHARî, Opere tedesche, è mio,
—
a cura
di M. Vannini, Firenze 1982, pp. 3-4. Il corsivo
La crisi della
creatura
metafisica cristiana nel XIV secolo
743
quella consistenza ontologica che toglierebbe sia la sua
nullità identità (assoluta immanenza) in Dio. Per questa chiave linguistica Eckhart si ispira direttamente ed espressamente a Maimonide, che proprio su questo punto nella Summa Theologiae (I, 13, 5-6) l'Aquinate criticava severamente. Il passo fondamentale in cui Eckhart formula il suo concetto di analogia è nella seconda Lezione suZFEccIes-iastico (nn. 52-53), di cui ecco l’essenziale: sia la
sua
«Si devono notare le differenze tra questi tre, Vunivoco, Yequivoco e l'analogo. Mentre l'equivoco è distinguibiletramite le cose diverse da esso
contrassegnate, l'univoco dal diverso genere della
stessa cosa,
l'analogo non si può articolare né in base alle cose ne’ alle differenze tra le cose, bensì soltanto in base al modo di essere (per modus) di una
medesima cosa in assoluto. Un esempio: la medesima salute che è nell'essere animato e non un'altra è nel cibo e nell'urina, e tuttavia in modo tale che della salute propriamente non vi è nulla nel cibo e nell'urina, non più di quanto vi sia nella pietra. Piuttosto si chiama sana l'urina solo perché mostra quella salute che è nell'essere animato, proprio come il cerchio della botte (sulla porta dellosteria) indica il vino che non ha affatto in sé. Ma l'ente (ens) o l'essere (esse) e ogni -
—
perfezione, specialmente quelle generali come essere, uno, vero, bene,
luce, giustizia e simili, vengono asseriti in modo analogo di Dio e nelle creature. Ne consegue che bontà, giustizia e simili (nelle creature) hanno la loro bontà completamente da un essere al di fuori di loro, con
il quale stanno in
una
relazione analogica, cioè Dio».
Nella stessa opera prosegue citando Agostino: «La dimostrazione in breve si può riassumere così: gli analogati (analogata) (secondari) non hanno in sé alcun radicale fondamento per la forma con cui stanno in rapporti di analogia. Ma tutto quel che è creato (ens crcatum) sta, dal punto di vista dell'essere, della verità e della bontà, in un rapporto di analogia con Dio; dunque ogni ente creato ha essere, vita e pensiero veramente e radicalmente da Dio e in Dio, non in se stesso in quanto creato. E così vive sempre (di Dio), in quanto ne è prodotto e creato, e ne ha sempre fame, perché non è da se stesso ma sempre da un altro».
Come risulta dagli esempi addotti da Meister Eckhart, salute—cibo/urina e vino-cerchio, l'analogia a cui egli si riferisce è chiaramente quella di attribuzione estrinseca, la quale è esattamente quelfanalogia in cui la perfezione (qualità) predicata di più analogati appartiene esclusi-
vamente allanalogato principale e si dice
degli analogati secondari solo qualche nesso di ordine causale con il principale. Questo tipo di analogia, per un verso svuota le creature di tutto quanto attiene l'essere e ogni altra perfezione semplice, ma per un altro verso le riconduce e le riduce interamente all'essere e alle perfezioni del loro creatore, Dio. per
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Parte seconda
fa talvolta, l'analogia con Punivocità, perché il nome predicato possiede un medesimo e unico senso. Nel Commento a Giovanni (n. 23) Eckhart esprime la stessa idea ricorrendo all'esempio dello specchio. Come un oggetto si riflette nello nello specchio è specchio, così l'essere divino nel creato. L'immagine il tutto suo essere dall'og«riceve uguale al suo ”rnodello", l'oggetto, e si rapporcreaturale il Così essere le un proprio. getto» e non appartiene ta all'essere divino; come nel caso della salute e dell'urina, c'è una certa
A
questo punto Eckhart può sostituire
come
somiglianza, ma nessuna effettiva partecipazione.
Coerente con il discorso sull'essere delle creature e sull'analogia, è la teoria eckhartiana sul valore dei nomi divini e del linguaggio teologico in generale. Essi hanno un valore meramente apofatico, negativo: non ci possono far conoscere ciò che Dio è ma soltanto ciò che non è. Alla nullità ontologica corrisponde un’identica nullità semantica. La povertà infinita della creatura non può svelare l'infinita ricchezza di Dio. Nella sua semantica teologica come nell'ontologia Eckhart paga apertamente il suo tributo allo Pseudo-Dionigi. Commentando il versetto «Beatus homo qui invenit sapientiam» (Pr 13, 13), nel sermone 46 del Paradisus animale
intellìgentis, Eckhart scrive:
«Un Maestro dice: tutto quel che si può affermare di Dio, ‘e Dio. Un altro dice: tutto quello che si può affermare, non è Dio. Entrambi dicono il vero. Agostino dice: Dio è potenza, sapienza e bontà. Dionìgi dice: Dio è sovrasapienza e sovrabontà e sopra tutto quel che si può affermare. Perciò nella Scrittura si danno molti nomi a nostro Signore, e per due motivi: il primo ‘e che non si può cogliere la sua nobiltà con nessuna parola, perché egli è al di fuori e al di sopra di ogni natura e ha una nobiltà non naturale. Ora 1o si chiama potenza, ora lo si chiama luce, ma egli è al di sopra di tutte le luci. Perciò lo si chiama "questo e quello" (hoc et hoc), e ciò perché egli non è, in senso proprio, nessuna di queste cose. Se si potesse cogliere con qualche nome la sua nobiltà, egli manterrebbe sempre tali nomi. Può parlare maggiormente di Dio chi più lo nega come si può dimostrare con l'esempio della nave. Se io (in quanto armatore) volessi dare l'idea di una nave a uno che non ne ha mai viste, gli direi che non è né di pietra né di paglia, e così gli avrei comunicato qualche cosa di questa nave (...). Nostro Signore dice: "Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, non può divenire frutto". Tale morte l'anima deve avere nella conoscenza di Dio, per cui germini in se stessa e divengano per essa fetide tutte le cose che non sono Dio. Allora Dio si effonde graziosamente nell'anima ed essa si radica nella fede e diviene essenziale nell'amore». —
Tutte le teorie di Eckhart che siamo andati esponendo se prese alla lettera non sfuggono certo alle accuse di eresia che sono state sollevate contro di lui dai suoi stessi confratelli e dai commissari di Colonia. -
-
La crisi della metafisica cristiana nel XIV secolo
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L’apofatismo semantico, il nichilismo ontologico e Pimmanentismo teologico sfociano inevitabilmentein concezioni monistiche di stampo pan-
teistico. Ma
gli scritti
di Meister
Eckhart,
il quale si proponeva finalità
pratiche più speculative, obiettivi ascetici e mistici più che filosofici e teologici, vanno letti secondo la in tentìo auctoris. Il suo scopo principache
quello di ”radicare le anime nella fede" e di accendere in esse ”l’a-
le era more di
Dio”. Di fatto errori dottrinali in Eckhart esistono e sono piuttosto gravi e vistosi. Il primo errore è la sua esplicita identificazione di ens ed esse. Questo lo porta inevitabilmentea dissolvere Yens nell’esse. Un secondo errore non meno grave è la eliminazione della distinzione tra "natura” e "sovrannatura”. Egli lascia ai ”grandi chierici” l'incarico di far luce su questa come su altre distinzioni che egli giudica troppo sottili e mal rispondenti alla reale esperienza.
746
Parte seconda
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La crisi della
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Parte seconda
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zu
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seinen
CONCLUSIONE GENERALE
La metafisica cristiana non è certo un evento culturale esclusivo del medioevo: essa è esistita prima e continuerà anche dopo. Ma come fenomeno che investe tutta la cultura di una società e di un'epoca, la metafisica cristiana è un'espressione tipica della respublica chrìstiana medievale, il cui distintivo principale era, come sappiamo, una totale armonia tra
fede e ragione.
La filosofia è sempre la manifestazione dellhutocoscienza riflessa di una società, di un popolo, di una nazione. Tutte le società, tutti i popoli,
tutte
le nazioni fanno della
filosofia, ma non tutti fanno della metafisica.
Così, per es., oggi si fa molta filosofia, ma pochissima metafisica. La società medioevale che viveva
profondamente e
intensamente la
fede religiosa non poteva non avere una coscienza altamente metafisica. La dimensione metafisica dellhltraterreno, dell’immateriale, dello spirituale, del trascendente, dell'eterno, dell'infinito, dell’assoluto era già colta nella fede; ma man mano che la società medioevale Cresce anche culturalmente, essa avverte l'esigenza di esprimere in concetti le verità già accolte per fede. ”Cred0 ut intelligam" era il motto degli intellettuali della respublica christiana. Per elaborare una metafisica cristiana gli studiosi del medioevo si mettono alla scuola di Platone e Aristotele, di Plotino e Proclo, nonché dei musulmani Al-Farabi,Avicenna e Averroè e degli ebrei Avicebron e Maimonide, ma lo fanno senza mai tradire la “metafisica dell’Esodo" e la "metafisica dell'Amore”. C'è nella metafisica cristiana dei medioevali, come già in quella dei neoplatonici,uno sforzo incessante di operare una sintesi tra i due grandi metafisici dell’antichità, Platone e Aristotele. Nel secolo d'oro della metafisica cristiana, il sec. XIII, quando finalmente gli scolastici scoprono l'immenso tesoro del pensiero aristotelico, essi cercano di realizzare una sintesi tra Platone e Aristotele, e questo diviene il loro principale obiettivo. Per tutti l'edificio metafisico abbraccia elementi cristiani, platonici e aristotelici, che però non vengono utilizzatiallo stesso modo e in eguale misura, ma con dosaggi molto differenti. Lo specifico è sempre costituito dall’e1emento cristiano, ma poiché questo include sia una componente ontologica (la metafisica dell'essere) sia una componente agapica (la metafisica dell'amore) anche rispetto allo specifico cristiano si registrano delle divergenze. Così mentre Guglielmo d’Auvergne, Alsua
Parte seconda
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Magno, Tommaso d'Aquino pongono l'accento sulla componente ontologica, Bonaventura, Ruggero Bacone e Scoto sottolineano viceversa la componente agapica. L0 stesso accade nel ricorso a Platone e ad Aristotele. I metafisici che prendono in considerazione soprattutto la dimensione dell"'amore", danno più spazio a Platone; mentre coloro che mettono in evidenza l'importanza dell'essere, fanno più ampio rife-
berto
rimento ad Aristotele. Pur in modo diverso tutte le metafisiche cristiane elaborate in
questo
periodo sono metafisiche dell'essere, e come avrebbero potuto non esserlo se la metafisica è, per definizione, «scienza dell'ente in quanto ente»? Senonché l'ente può essere pensato in vari modi: essenzialisticamente (Agostino), attualisticamente (Tommaso), esemplaristicamcnte (Bonaventura) e minimalisticamente (Scoto). Come ha mostrato il grande me-
dioevalista Gilson, le divergenze tra i quattro massimi esponenti della metafisica cristiana: Agostino, Tommaso, Bonaventura, Scoto riguardano essenzialmente Yoggetto della metafisica. Con un concetto diverso dell'ente essi hanno costruito quattro metafisiche che sono tutte cristiane e tuttavia profondamente differenziate. E poiché hanno punti di partenza così differenti è anche difficile instaurare dei confronti tra loro, così come risulta difficile un confronto tra le metafisiche di Platone, Aristotele e Zenone. Uimproponibilitàdi un confronto tra le metafisiche di Tommaso e di Scoto, su cui insiste giustamente Gilson, vale anche per le altre metafisiche cristiane del medioevo. «A seconda che si accolga l'una o l'altra, si preferirà un punto di partenza metafisico per le prove dell'esistenza di Dio oppure, al contrario, si riterrà necessario appoggiarle su una base fisica. Se l'oggetto primo della conoscenza non è lo stesso nelle due dottrine, le loro gnoseologie saranno necessariamente differenti. In breve, diventerà ormai impossibile respingere un punto quaisiasi di una di queste dottrine a partire dal punto parallelo dell'altra dottrina; lo sfasamento iniziale dovuto alle ontologie differenti da cui muovono, impedisce loro di incontrarsi. Principiis obsta... È in ragione dei loro principi che si può e si deve scegliere tra le due; ma solo la filosofia può scegliere, non la storia, la cui unica funzione è quella di aiutare a comprendere, per consentire la sceltaw La montagna dell'essere è altissima. Uambizionedella metafisica è quella di conquistare la vetta più alta. La metafisica cristiana è meglio informata circa le caratteristiche della vetta (Dio) ma non dispone di un’attrezzatura migliore della metafisica classica per effettuare la scalata. Infatti, per tutte le metafisiche l'unica attrezzatura disponibileè quella fornita dalla pura ragione.
1)
E.
C1LSON,Ie'an Duns Scot... cit., pp. 114-115.
Conclusione generale
751
Alcune Vie verso la vetta erano già state aperte da Platone, Aristotele e Plotino. I grandi metafisici cristiani aprono altre vie. Ma l'ascesa è sempre difficile e faticosa per tutti, sia per i metafisici dell'antichità classica sia peri metafisici del medioevo cristiano, sia per i metafisici islamici sia per gli ebrei. Ma è una impresa che occorre affrontare, perché al suo buon esito è legato il destino dell'uomo, il senso della vita, il fondamento dei valori. Fare della metafisica, e possibilmentedella buona metafisica, è per ogni epoca e per ogni cultura, uno degli impegni primari e inderogabili. La grandezza di qualsiasi società e di qualsiasi cultura è sempre legata alla grandezza della sua metafisica.
INDICE
Introduzione Dalla metafisica classica alla metafisica cristiana Il potenziale filosofico e metafisico del cristianesimo Il concetto di creazione Il concetto di spirito Il valore assoluto dell'uomo e il concetto di persona Il concetto di libertà Il concetto di storia Un nuovo concetto di Dio Il concetto di carità (caritas, agape) Le caratteristiche della metafisica cristiana Divisione della storia della metafisica cristiana
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PARTE PRIMA
LA METAFISICA CRISTIANA NELL’EPOCA DEI PADRI Clemente e Origene: i creatori della metafisica cristiana La scuola di Alessandria Clemente Alessandrino Vita e opere Gli obiettivi apologetici e speculativi degli Stromati La legittimazione della filosofia Il platonismo di Clemente I/esegesi allegorica e l'influssodi Filone Divisione della filosofia Esistenza e natura di Dio Inconoscibilitàe inefiabilitàdi Dio
..p. 21
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21 23 23 24
25 27
29 30 31 34
754
II teorema della creazione Il Logos Il mondo L'uomo, icona ali Dio Conclusione Ori gene Vita
35 37 38 39 ..p. 41 ..p. 43 ..p. 43 ..p. 44 ..p. 46 ..p. 47 ..p. 49 ..p. 51 ..p. 52 ..p. 55 ..p. 57
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Opere
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Il genio di Origene Il sistema dei Principi Sapienza umana e divina: importanza della filosofia Una metafisica cristiana della libertà Dio e la Trinità La creazione
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Le creature razionali L'uomo ll metodo allegorico Origene e l brigenismo Idiscepoli di Origene: Gregorio il Taumaturgo e
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..p. 59 ..p. 62 ..p. 67
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Panfilo di Cesarea Suggerimenti bibliografici
..p. 7D ..p. 72
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Gli antimetafisici: Ireneo, Ippolito, Tertulliano
L0 gnosticismo Valentino Marcione Ireneo
..p. 75
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Opere
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Critica dello gnosticisnzo L'unità di Dio
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L'uomo
..p.
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Ippolito, discepolo di Ireneo
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75 78 79
81 82 83 86 88
755
I Padri Cappadoci e
il rilancio della filosofiacristiana
..p. 106
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L'incontro con il neoplatonismo
..p. 106
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Basilio Vita
..p. 109 ..p. 109 ..p. 110 ..p. 111 ..p. 111 ..p. 113 ..p. 113 ..p. 114 ..p. 115 ..p. 117 ..p. 118 ..p. 120 ..p. 121 ..p. 121
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Opere teologiche e pensierofilosofico Gregorio di Nissa
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Vita
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Opere Il pensiero in generale Trascendenza e inefiabilitàdi Dio
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La dottrina sulla Trinità
Ijuonzo, icona di Dio
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Caduta e restaumzione Conclusione Gregorio di Nazianzo Vita e opere
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Pensiero
Nemesio
..p. 121 ..p. 125 ..p. 131
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Suggerimenti bibliografici
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Il platonismo cristiano di Mario Vittorino, S. Agostino e Boezio Il contesto storico Mario Vittorino Vita e opere
..p. ..p. ..p. ..p. ..p.
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133
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134
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Speculazione metafisica sui misteri di Dio e della Trinità
Agostino di Ippona Vita
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134 135
..p. 14D ..p. 140
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Opere
133
756
Il problema di Dio e il mistero della Trinità Condizioni psicologiche per conoscere Dio Esistenza e natura Trascendenza e ineffabilitàdi Dio Trascrizionemetafisica del mistero trinitario
..p. 160 ..p. 161
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..p. ..p. ..p. ..p.
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Illustrazionepsicologica del mistero trinitario.
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Angeli e demoni Il problema del mondo: origine, durata, dinamismo, finalismo
164 174
177 184
..p. 189
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La creazione del mondo La natura del tempo Il divenire del cosmo L'ordine nretafisieo e il problema del male
.....
..p. 193 ..p. 194 ..p. 197 ..p. 201 ..p. 203 ..p. 206 ..p. 207 ..p. 208 ..p. 210 ..p. 213 ..p. 216 ..p. 218
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Il problema antropologico La natura dellhninza
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Origine dell'anima Proprietà dell'anima Nobiltàdell'anima Rapporti dell'anima col corpo Lîmmortalità dell'anima Le attività spirituali’ dellhnima e il suo ritorno a Dio
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757
La metafisica cristiana nel mondo bizantino: Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessare, Giovanni Damasceno, Michele Psello
..p. 247 Dionjgi lflàreopagìta ..p. 247 Vita e opere ........................................................................................... ..p. 248 Neoplatonisnzo cristiano ..p. 248 Dio: primato del Bene suil’Essere ..p. 249 La ripartizione gerarchica del mondo delle creature ..p. 252 Simbolismo, analogia, anagogia ..p. 255 Massimo il Confessore ........................................................................... ..p. 261 Vita ....................................................................................................... 262 p. Opere .................................................................................................... ..p. 262 La cosmovisione.................................................................................... 263 ..p. La dottrina su Dio ................................................................................ ..p. 264 La dottrina antropologica ..p. 265 La cristologia ........................................................................................ 266 ..............................................
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..p.
Giovanni Damasceno ..p. 267 Vita e opere ........................................................................................... ..p. 267 Pensiero ................................................................................................ ..p. 268 Esistenza e natura di Dio ..p. 268 La creazione, gli angeli e l ‘uomo ..p. 269 Michele Psello ......................................................................................... ..p. 272 Vita e opere ........................................................................................... 272 ..p. I programmi dell'accademia di Costantinopoli ..p. 273 L'opzione platonica ..p. 274 La metafisica ..p. 275 Suggerimenti bibliografici ..p. 278 .............................................................................
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758
PARTE SECONDA
LA METAFISICA CRISTIANA NELL’EPOCA DEGLI SCOLASTICI La metafisica cristiana nell'alto medioevo: Scoto Eriugena, Ansehno d'Aosta, GilbertoPorretano
..p. 283 Giovani Scoto Eriugena ..p. 284 Vita e opere ........................................................................................... ..p. 284 Fede e ragione: il razionalismo teologico di Scoto Eriugena ..p. 285 La natura e le sue divisioni ..p. 287 Dio: esistenza, natura, conoscibiiità ..p. 288 Le Idee divine ..p. 290 Creazione e partecipazione ..p. 291 l'uomo Le creature angeliche e ..p. 293 di Giudizi sul pensiero Seoto Eriugena ..p. 295 Anselmo d'Aosta ..p. 297 Vita ....................................................................................................... ..p. 297 ..p. 298 Opere ..p. 299 Verità, fede, ragione di Dio Lesistenza ..p. 303 di Dio Natura e attributi ..p. 308 La trascendenza divina ..p. 309 La creazione ..p. 312 La Trinità.............................................................................................. ..p. 314 L'anima................................................................................................. ..p. 316 Verità e sistema ..p. 317 Male e libertà ..p. 319 Conclusione.......................................................................................... ..p. 322 GilbertoPorretano ..p. 323 Vita e opere ........................................................................................... ..p. 324 La ripartizione delle scienze ..p. 324 ll metodo assioinatico ..p. 327 Essere ed enti, Essentia e subsisteptia ..p. 328 Creazione e partecipazione ..p. 331 La condanna di Gilberto e Pinflusso del suo pensiero ..p. 332 ..p. 334 Suggerimenti bibliografici ..........................
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759
La metafisica islamica del medioevo
Origini della filosofia islamica Al-Kindî Vita e opere
..p. 336 ..p. 336 ..p. 338
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760
La metafisica ebraica nel medioevo Origini e Caratteristiche della Scolastica ebraica Ibn Gabirol Vita e opere La teoria dclFllemorfismo Universale Dio e i suoi attributi: la volontà Maimonide Vita e opere Dio: esistenza Dio: attributi e significato dei nomi divini L'uomo e I ’universo La scuola di Maimonide La cabbala
..p. 395 ..p. 395 ..p. 396 ..p. 396 ..p. 397 ..p. 398 ..p. 401 ..p. 401 ..p. 403 ..p. 404 ..p. 406 ..p. 407 ..p. 407 ..p. 409
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Suggerimenti bibliografici
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Il secolo d'oro della metafisica cristiana La fondazione delle università
..p. 410 ..p. 410 ..p. 411
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Origine delle università
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Struttura della istituzione universitaria metodi di insegnamento ..p. 413 L'ingresso di Aristotele e dei filosofi arabi nel mondo latino415 Le recezioni di Aristotele nel XIII secolo ..p. 421 I nuovi Ordini religiosi di San Domenico e San Francesco ..p. 423 L0 sviluppo della teologia ..p. 425 I principali indirizzidella metafisica cristiana nel XIII secolo ..p. 426 Suggerimenti bibliografici ..p. 428 e
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primi albori della rinascita della metafisica cristiana: Guglielmo d’Auvergne
I
..p. 429 ..p. 429 ..p. 431 ..p. 442 ..p. 445
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Maestro Adamo
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Guglielmo d'Auvergne Filippo il Cancelliere Suggerimenti bibliografici
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Alberto Magno, commentatore di Aristotele Vita
..p. 446
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..p. 446 ..p. 449 ..p. 449 ..p. 451
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Opere La personalità
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Il programma
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76]
parafrasi aristoteliche Classificazionedelle scienze e oggetto della metafisica Le
..p. 455 ..p. 459
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l trascendentali
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762
..p. 564 ..p. 565 ..p. 569 ..p. 571
Tommaso d'Aquino: i trascendentali
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Unità Verità Bontà
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Tommaso d'Aquino: la creazione, la provvidenza e l'ordine dell'universo
La nozione di creazione
..p. 576 ..p. 576 ..p. 581 ..p. 582 ..p. 584 ..p. 587
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Libertà della Creazione La possibilità di una creazione eterna La divina provvidenza e il problema del male Dio, principio primo dell'ordine dell'universo
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Tommaso d'Aquino: gli angeli e l'uomo
Gli angeli
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..p. 591 ..p. 591 ..p. 592 ..p. 594
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Spiritualità Conzposizione ontologica
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Gerarchia Attività L'uomo Natura dell'anima Proprietà dell'anima Unione sostanziale dell'anima col Corpo lmmortalità dell'anima
..p. 594
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..p. 595 ..p. 596 ..p. 597 ..p. 598 ..p. 599 ..p. 600
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Suggerimenti bibliografici
..p. 603
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Sigieri di Brabante e la polemica antiaverroistica Sigieri di Brabante
..p. 604
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..p. 605 ..p. 605 ..p. 606 ..p. 607
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Vita
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Opere
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Pensiero
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La condanna del 1277
..p. 614 ..p. 618
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Suggerimenti bibliografici
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I metafisici francescani del XIII secolo
..p. 619
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I fondatori della metafisica francescana: Alessandro di l-Iales, Roberto Grossatcsta, Ruggero Bacone Alessandro di Hales Roberto Crossatesta
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..p. 620 ..p. 620 ..p. 623 ..p. 627
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Ruggero Bacone Suggerimenti bibliografici
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763
Bonaventura di Bagnoregìo
..p. 632 ..p. 633 ..p. 634
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Vita e opere Il pensiero di Bonaventura in generale subordinazione della filosofia alla teologia La Complessità della metafisica bonavcnturiana Metafisica dellesemplarità
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..p. 635 ..p. 638 ..p. 639 ..p. 642 ..p. 643
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Metafisica teologale
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Metafisica mistica Metafisica cristica ..p. 644 Esistenza e conoscibilitàdi Dio ..p. 646 L'esistenza di Dio nel "Commento alle Sentenze" ..p. 647 L'esistenza di Dio nella ‘Quaestio disputata" De mysterio Trinìtatis ...p. 648 L'esistenza di Dio nellltinerarìum mentis in Deum ..p. 649 Le operazioni divine: conoscenza e volontà ..p. 653 La creazione del mondo ..p. 656 L'uomo, icona di Dio ..p. 659 Conclusione ..p. 661 Suggerimenti bibliografici ..p. 663 ...................................................................................
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Giovanni Duns Scoto Vita
..p. 664 ..p. 665 ..p. 665 ..p. 666 ..p. 667 ..p. 669 ..p. 673 ..p. 676 p. 678 ..p. 681 ..p. 688 ..p. 691 ..p. 692 ..p. 692 ..p. 694 ..p. 695 ..p. 699
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Opere
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I1 momento storico Il metodo di Duns Scoto Fede e ragione, metafisica e teologia L'oggetto della metafisica: ens in quantum cns Uunivocità dell'ente I trascendentali e la distinzione formale La dimostrazione dell'esistenza di Dio e gli attributi divini L'origine del mondo: la dottrina della creazione L'uomo e il suo destino Che c0s’è Yuomo? Che cosa puòfare l'uomo? Che cosa può sperare Monza? Conclusione: grandezza e importanza di Duns Scoto
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Suggerimenti bibliografici
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764
La scuola agostiniana: Enrico di Gand e Enrico di Gand Egidio Romano
Egidio Romano
..p. 700 ..p. 700 ..p. 704 ..p. 706
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Suggerimentibibliografici
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La crisi della civiltà medioevale e il tramonto della metafisica cristiana nel XIV secolo
Le
Cause
del declino della Scolastica
Durando di San Porciano Pietro Aureolo
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Guglielmo di Occam (Ockham) Vita
..p. 707 ..p. 707 ..p. 709 ..p. 711 ..p. 714
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..p. 716 ..p. 717 ..p. 718 ..p. 718 ..p. 719
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Opere
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Il "rasoio di Occam Rottura dei rapporti tra fede e ”
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Metafisica e gnoseologia
ragione
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Dottrina della conoscenza
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