Enrico Fenzi Armi e bagagli Un diario dalle Brigate Rosse Prefazione di Emanuele Trevi Il primo libro sulle BR profondamente diverso da tutti gli altri che sono stati poi pubblicati sullo stesso argomento. Non un pamphlet o una confessione, ma una testimonianza dall'interno sulla stagione del terrorismo, per rileggere a distanza di così tanto tempo quegli avvenimenti da parte di chi li ha vissuti, ma di particolare interesse anche per quanti ne hanno solo sentito, vagamente, parlare. I personaggi (Moretti, Curdo, Senzani, Micaletto, Savasta) visti da vicino, colti nel privato; la vita del clandestino scandita nel quotidiano, i luoghi (i covi, le carceri, i treni); le azioni terroristiche più
clamorose svelate nei loro retroscena; i rapporti personali tra i vari protagonisti degli anni di piombo. Una verità umana, prima che politica o ideologica, ma soprattutto un vero romanzo, o un romanzo vero, scritto in maniera sapiente da un protagonista di quegli avvenimenti. E a distanza di anni dai fatti narrati quello che alla fine risalta è soprattutto il valore della scrittura,davvero notevole, quel “timbro della soggettività, il timbro della letteratura” evocati da Emanuele Trevi nella prefazione che accompagna l'ennesima edizione del libro. Enrico Fenzi (Verona, 1939), già docente di Letteratura italiana all'Università di Genova, è stato arrestato due volte (nel 1979 e nel 1981) e condannato per la sua appartenenza alle Brigate Rosse. Dopo aver scontato dieci anni di carcere è tornato agli studi letterari, pubblicando tra l'altro le edizioni commentate del Secretum e del De ignorantia di Petrarca, il volume Saggi petrarcheschi e un libro su Cavalcanti. A cura della Società Dantesca Italiana sta preparando un volume che raccoglie i suoi studi su Dante. “L'ottimo libro dell'ex brigatista genovese” Giampiero Mughini A Isabella Prima edizione 1987 Seconda edizione 1998 In copertina: Cesare Viel, immagine da Viaggiatori-Viaggiatrici Galleria Paolo Vitolo, Milano, 1994
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Cause ed effetti di Emanuele Trevi Per introdurre Armi e bagagli di Enrico Fenzi mi sarà necessario condividere almeno in parte gli stessi rischi che l'autore ha affrontato scrivendo la sua opera. A farmi accettare questi rischi non basterebbe nemmeno la profonda amicizia che mi lega a Enrico: l'argomento decisivo, in questi casi e di fronte a una materia così spinosa, non è, non può essere che il grande valore di questo libro, non a caso arrivato alla sua terza edizione. Ma è proprio intorno e in conseguenza a questa nozione di “valore” che iniziano i guai. A primo impatto, infatti, potrebbe anche suscitare fastidio e addirittura ripugnanza l'elogio delle qualità letterarie di un libro che ha per sottotitolo Un diario dalle Brigate Rosse. È inutile negare che su un discorso che abbia questo tipo di intenzione pende come una spada di Damocle l'accusa di un cinismo sordo al male e al dolore reali evocati in Armi e bagagli. Ma questo rischio (l'accusa infamante di “fare della letteratura” di fronte a tragedie reali) è corso, in maniera molto più radicale, dall'autore in prima persona. Che al danno fatto avrebbe pure aggiunto la beffa di scriverci su un “bel libro”. Questa diffidenza per la letteratura e per il “fare della letteratura” ha radici antiche e profonde, e può vantare anche, non costa nulla ammetterlo, dei buoni argomenti. Scegliendo nonostante tutto la letteratura, a Enrico Fenzi non è rimasta che la più svantaggiosa delle scommesse: si è affidato alla sua opera, le ha delegato interamente il compito di parlare per lui. Il che significa, prima di tutto, rinunciare all'ombrello protettivo delle proprie intenzioni. Ci difendiamo meglio con le nostre intenzioni: perché sono malleabili, reversibili, plurali – tendenzialmente inesauribili. Il vecchio proverbio ha davvero ragione: è proprio perché sono così tante, che le intenzioni bastano a lastricare le strade dell'inferno! Continuano a darci maggiori possibilità, anche di fronte al male compiuto. Un'opera invece è un fatto singolare, e irrimediabile. Sta lì, non può tornarsene indietro. La sua legittimità dipende solo da se stessa, dal suo essere così com'è. Ma se deve rinunciare a proteggersi con tutto ciò che non è se stessa, in cambio ha qualcosa di unico da offrire. Che la si ami o meno, non si può negare alla letteratura una forma particolare di potenza cognitiva, che altri generi di discorso non conoscono. Non è vero, è solo una petizione ideologica dei nostri nonni, che la letteratura sappia per forza qualcosa di più del mondo; di certo, però, il mondo lo conosce in maniera diversa. Scrivendo Armi e bagagli, Enrico Fenzi si è voluto collocare in questa alterità. Proprio perché scrive di fatti reali, e lo fa anche con un certo scrupoloso spirito di esattezza, ci rendiamo ben presto conto, fin dalle prime battute del discorso, che quei fatti sono stati sottoposti a una specie di rotazione mentale, colorandosi di una luce insospettata, inedita. Riconosciamo subito, insomma, mentre il narratore guarda il suo riflesso sul vetro di un treno notturno che attraversa l'Italia, il timbro della soggettività, il timbro della letteratura. Intendiamoci su questa infida nozione di “letteratura” che un libro come Armi e bagagli quasi ci costringe ad evocare. Perché un testo scritto abbia caratteristiche e prerogative inconfondibilmente letterarie, non è necessario che sia composto in maniera bizzarra, o con abbondanza di figure retoriche, o in versi, o ancora che esprima una prospettiva sulla vita per forza fantastica o allucinata. Tutte queste e infinite altre sono componenti importanti della scrittura letteraria, ma non ci aiutano a definire davvero cosa sia, in profondo, la letteratura. Con una scelta che ha sicuramente a che fare sia con la gravità della materia che con il proprio temperamento umano, semmai Fenzi ha lavorato ad attenuare e smussare ogni superfluo orpello “letterario” della sua scrittura. L'eleganza, unita al fondamentale afflato razionale, della sua prosa autobiografica non è poi molto distante da quella che appare nei suoi lavori di studioso ed interprete di fama mondiale dei nostri classici, da Dante e Petrarca a Tasso e Leopardi. Mi ricordo di aver letto un'intervista, rilasciata quando era ancora detenuto in qualche carcere speciale, dove Fenzi
dichiarava che, se avesse scritto un romanzo, si sarebbe ispirato più a Tolstoj che ai modelli dell'avanguardia – e la cosa non mi stupisce affatto, come non stupirà i lettori di Armi e bagagli (per inciso, ricordo anche il terribile titolo dell'intervista: Da Petrarca al mitra). E invece, come si desume da molti punti del libro, l'attività di studioso e quella di dirigente clandestino delle Brigate Rosse arriveranno addirittura ad intrecciarsi, all'interno di un'esistenza sempre più sprofondata in un senso di assurdo. Difficilmente, del resto, chi “scrive bene” per inclinazione spontanea e per lunga abitudine scriverà “male” affrontando i nodi decisivi della sua vita. E mentre è forse inutile oltre che eccessivamente complesso definire che cos'è la letteratura, e si è costretti a rimanere sul vago, di sicuro ci si avvicina di più ad esperienze concrete e verificabili chiedendosi non più cos'è, ma a cosa serve la letteratura. A questo proposito Fenzi è molto sicuro, e la sua risposta, illuminante per il lettore, arriva proprio all'inizio del libro, al momento di accingersi ad affrontare la questione più spinosa di tutte. È la questione del perché. Perché lo hai fatto? Perché sei diventato un terrorista? Perché hai rovinato la vita altrui assieme alla tua stessa? Osserva sottilmente Fenzi in un altro punto dell'opera, che questa domanda non può che esprimere inimicizia. Se viene posta è proprio perché l'altro non sa rispondere. O meglio: può dare risposte parziali. Risposte politiche, psicologiche, strettamente giudiziarie che possono contenere tutte il loro grado di utilità e verità. Ma che in fin dei conti a sciogliere il nodo di quel «perché?» non possono mai arrivare. Perché nessuna di queste risposte parziali, per quanto onesta, potrà mai scavalcare l'abisso tra le cause e gli effetti. Questo è il punto decisivo, a mio parere. Il terrorismo non è stato solo un trauma per gli individui e le collettività che ne hanno patito la violenza, sostiene Fenzi, ma anche per coloro che vi hanno aderito e partecipato in prima persona. La prima conseguenza del trauma, di ogni tipo di trauma, è proprio questa: una totale rescissione dei legami che legano cause ed effetti. «Che esistano le cause -scrive Fenzi – è fuor di dubbio. Che esistano gli effetti è altrettanto certo. Ma che tra le une e gli altri ci sia un rapporto, beh, sarebbe azzardato dirlo. In ogni caso, occorre inventarselo ogni volta». Si noti bene: inventarselo, scritto in forma riflessiva, dunque anche più forte di “inventarlo”, più legato a una sfera di decisioni e fantasmi interiori, più intimo alla soggettività e alle sue responsabilità... Ecco, nel frattempo, una buona definizione pragmatica del concetto così astruso di “letteratura”: l'invenzione di un rapporto possibile tra cause ed effetti, quando tutti i vecchi rapporti appaiono infranti e ormai inutilizzabili. Per un paradosso fecondo di conseguenze, l'invenzione genera dunque un tipo particolare di verità, che nessun altro discorso su questi argomenti potrà mai generare. L'invenzione in altre parole accetta la sfida del nemico, la sfida del suo «perché?» e muove d'assalto alla zona d'ombra, tenta di colmare la voragine che si è spalancata tra le cause e gli effetti. E come il fuoco della candela rende visibile una scrittura tracciata con il succo di limone, così l'invenzione fa apparire qualcosa proprio là dove fino a un attimo prima non c'era davvero niente da vedere. Questo qualcosa non possiede nessuna rilevanza storica, giuridica, politica. Non è insomma fagocitabile da finalità estranee al suo stesso manifestarsi. Qualcuno lo potrà anche rifiutare come “inutile”, senza rendersi conto che si tratta, semmai, di tutt'altro ordine di senso. Vorrei servirmi per chiarire questo punto di un esempio storico più tranquillo, perché riferito a tempi lontanissimi da noi, tali da non turbare nessuna coscienza. Tutti a scuola abbiamo imparato che cos'è la Fronda, la grande rivolta sia aristocratica che borghese che a metà del Seicento turbò la Francia del vecchio Mazzarino e di un Luigi XIV ancora troppo giovane e sotto tutela. Non si trattò certamente di “terrorismo” come lo intendiamo oggi, ma di sicuro in quegli anni fu arrecato un gravissimo turbamento all'ordine pubblico e alle autorità costituite. Ci furono fazioni, complotti, vinti e vincitori, tradimenti e rivelazioni. Bene, noi possiamo sapere tutto della Fronda, leggendo i diari, gli epistolari, i resoconti storici, le relazioni diplomatiche del tempo. La nostra idea di questo evento storico può progredire e raffinarsi ad libitum, senza mai dover scomodare la letteratura e la sua capacità di invenzione. Ovviamente, però, studiando i documenti di quel periodo non ci si può, prima o poi, non imbattere nelle Memorie del cardinale di Retz. Retz era un sublime gaglioffo, un libertino impenitente, un grande artista dell'intrigo. Inoltre, non lo sapeva nemmeno lui, ma era un grande scrittore.
Acciuffato a un certo punto dagli ufficiali di Mazzarino, fu protagonista di una celebre evasione, destinata ad essere soppiantata solo da quella di Casanova dai Piombi. Una volta preso il potere, Luigi XIV gli risparmiò la galera o peggio, ma non volle più vederselo intorno, e lo spedì a vivere nel castello di famiglia, da qualche parte in provincia. Cosa sarebbe rimasto da fare fino alla morte al cardinale, nella gabbia dorata delle sue ricche proprietà, lontano per sempre dai salotti e dalle anticamere di Parigi? Retz inizia a scrivere le sue memorie, indirizzate a un'anonima, giovane amica all'oscuro di tutti i retroscena della Fronda. Non è né il primo né l'ultimo uomo d'azione che, costretto all'inerzia e alla meditazione sulla propria sconfitta, prende la penna in mano. Probabilmente non ha l'ambizione di comporre un capolavoro che sarà ricordato tra i grandi classici della letteratura francese; eppure, come dicevo, è un vero scrittore. Non ci rivela mai nulla di importante o sconosciuto sulla guerra civile di cui era stato protagonista, è molto spesso impreciso, si perde in dettagli insignificanti. Ma dopo aver letto queste Memorie, in apparenza simili a tantissime altre opere che parlano degli stessi fatti, la nostra idea della Fronda non sarà più la stessa. Storico inaffidabile e fazioso, Retz ci rivela un'intera antropologia dell'intrigo, del tradimento politico, del segreto come valore d'uso e valore di scambio. Gli eventi umani sono poliedri irregolari, e la faccia di questi poliedri illuminata dalla letteratura non assomiglia a nessun'altra, è il luogo di articolazione di un senso ulteriore, di un senso supplementare. Tra i tanti esempi che si possono trovare in Armi e bagagli di questo modo di procedere della letteratura, vorrei indicare una pagina che a mio parere è la più bella e toccante di un libro che di belle e toccanti ne contiene non poche. Fenzi parla di “Lucio” e “Valentino”, che sono i nomi di battaglia dei due militanti delle Brigate Rosse che lo accolgono nell'organizzazione e gli danno le prime istruzioni. Come è facile capire, la figura di questi due reclutatori è importantissima in relazione all'identità del protagonista e al suo tentativo di rispondere a quel «perché?» al quale è impossibile rispondere. Bene, evocando la vita di Lucio e Valentino, Fenzi ci ricorda che la scelta di entrare in un'organizzazione come le Brigate Rosse non può essere stata, per centinaia di persone di ogni condizione e cultura, un gesto puramente razionale, l'adesione a un'ideologia, la conseguenza di una diagnosi storica. Così come, commettendo l'errore opposto ma simmetrico, è inutile mettere tutto sul conto di un'ipotetica follia collettiva, facendo della lotta armata una specie di sintomo psicotico. Entrambe queste spiegazioni possono contenere anche del vero, ma peccano di astrazione. Fenzi invece, interrogandosi sul motivo per cui è entrato nelle Brigate Rosse, schizza il ritratto di questi due tragici Lucignoli, Lucio e Valentino. In tale modo, ci fa intravedere l'ingrediente più impalpabile, ma forse anche più decisivo, di ogni scelta di vita: il magnetismo che un'esistenza concreta, e solo lei, può esercitare su un'altra esistenza. Non è l'«organizzazione», il partito armato ad attrarre e infine cooptare il protagonista, ma due uomini che «ne impersonavano totalmente lo spirito, l'essenza». Così come il protagonista, a sua volta, incarnerà questa essenza e questo spirito agli occhi dei nuovi arruolati, in un fatale meccanismo di contagio dove i ruoli si invertono presto e davvero non si sa quale è il peggiore. Fenzi è magistrale nel descriverci il partito armato come uno spazio tragico – tecnicamente tragico, voglio dire, perché completamente assoggettato alla logica dello sguardo, al gioco di potere connesso al guardare e all'essere guardati. Dei brigatisti, ci arriva da questo libro un impressionante ritratto collettivo di uomini e donne totalmente assorbiti da un ideale di «velenosa perfezione dell'io» che corrode chi lo coltiva mentre conduce alla rovina chi ne subisce il fascino. È una storia terribile quella che ci racconta Enrico Fenzi. E prima di lasciare i nuovi lettori a tu per tu con Armi e bagagli, vorrei osservare che essa è tanto più terribile quanto più l'autore, scegliendo la verità inventata della letteratura, non può che farne una storia umana, integralmente umana. Così che il racconto di quell'errore, pur così individuale e irripetibile, somiglia almeno un poco, ma quanto basta per dolersene, al racconto di tutti gli errori, che purtroppo è il racconto di tutti.
L'irregolare Sovrapposizioni La stazione di Milano, le nove e mezza di sera. M'infilo nell'atrio tenendomi addosso a una comitiva familiare, sino alla biglietteria. Vorrei una cuccetta, ma mi sento più sicuro in uno scompartimento normale. Sotto quella luce velenosa s'aggirano due poliziotti, con le trasmittenti a tracolla. Non mi devo preoccupare di loro, ma semmai degli altri: giovani con i capelli lunghi e la barba scura mal rasata, soli o a coppie, che stanno vicini alla scala mobile; uomini di mezza età, incappottati, con le palpebre socchiuse sugli occhi pigri e sospettosi, presso l'edicola e attorno alla cabina del telefono. Salgo a piedi all'atrio superiore. A capo dei marciapiedi c'è sempre qualcuno, fermo, che frantuma il corso di chi va e di chi viene. Passo oltre, e piego per un marciapiede deserto, lungo una fila di vagoni vuoti. Salgo e ridiscendo subito dall'altra parte, e sono di nuovo tra la gente, davanti al mio treno. Di solito faccio così solo quando arrivo, per non passare sotto il controllo di chi aspetta in fondo. Ma stasera sono inquieto e stanco. Mi rode il pensiero che la stazione sia un punto pericoloso, per tutti noi. Milano, Torino, Bologna, Roma... dobbiamo passare di lì, non c'è altro. L'Italia è piccola, e dopo un po' par di conoscere i controllori di quei soliti due o tre treni che vanno su e giù, e i soliti pendolari di lungo corso. Del resto, Giovanni Ciucci, brigatista-controllore del compartimento di Firenze, s'imbatte ogni tanto nei capi dell'organizzazione, in treno, e ne approfitta per consigliare sul campo le pratiche mimetiche della clandestinità ferroviaria. Mi siedo nell'ultimo posto libero, vicino alla porta dello scompartimento di prima classe. Apro il giornale: per non essere guardati è meglio non guardare, almeno finché il treno non si muove. Ma ho una notte di viaggio davanti a me, e avverto la pressione di chi mi sta attorno, nello scompartimento, negli scompartimenti vicini, nel corridoio... un'intimità forzata e strana ma non sgradevole. Con il gomito destro sfioro ogni tanto l'impugnatura della pistola, badando che sia ben coperta dalla giacca. Ma è anche come toccare un bubbone: la peste, il colera... Sorrido a questa immagine, e mi guardo attorno di sfuggita. Gli uomini che credo di vedere laggiù, fermi, mi cercano. Questi, che passano per i corridoi e guardano, mi cercano. E il rigonfio della pistola è lì a ricordarmelo. La si deve portare non tanto per difesa, credo, perché se fosse necessario usarla sarebbe anche troppo tardi per farlo: no, non per difesa, ma piuttosto per sentirsi in ogni momento, e specialmente in mezzo agli altri, diversi. È come andare attorno con una palla di piombo al piede: non si può andare dove si vuole, non si può parlare con chi si vuole, e occorre invece seguire vie proprie, percorsi obbligati, incontri prestabiliti. Un mondo parallelo, un organizzazione del tempo e dello spazio parallela... non è neanche una palla di piombo ma una lunga catena, legata ad altre catene. Con la pistola addosso è un andare alla catena. Il treno si muove, lentamente, ed esce dalle nere volte della stazione verso l'alta oscurità del cielo di dicembre. Non riesco a distrarmi più d'un istante. La diversità, ecco... si tratta di sapere quel che si è. Non le chiacchiere sull'utilità o meno della pistola, che si possono sempre tirare là dove si vuole. Quella diversità che va cercata e cristallizzata per alcuni, e che va sfumata e quasi nascosta per altri. Sono due modi opposti che ormai saltano fuori nelle forme e nelle occasioni più disparate, sempre più spesso, e tutti ne siamo coinvolti e lacerati. E anche i legami e gli affetti più vecchi si corrompono. Mi stacco con fatica da questi pensieri e mi guardo intorno con attenzione. Il primo momento di impaccio che irrigidiva i viaggiatori si è sciolto nel caldo e negli odori dello scompartimento, al ritmo
monotono e pacificante del treno. Sono passate da poco le undici. Lodi, e poi Piacenza, e poi Parma... È ancora lunga. Mi alzo, per respirare l'aria fredda del corridoio. Vorrei parlare con qualcuno. Con chi? Mi vedo riflesso sul vetro del finestrino, contro lo sfondo nero della notte punteggiata dal veloce bagliore di qualche luce isolata. Sono io, quell'immagine trasparente e incerta? Quell'immagine attraversata dall'invisibile fuga della campagna, dall'istantanea apparizione di una strada, qualche casa e qualche lampione che ruotano velocissimi davanti agli occhi come le quinte di un teatrino esploso nel vuoto – attraversata dall'Italia? Mi guardo cercando tra le postille di quel cupo riflesso qualcosa che non ho visto alla luce degli specchi. Mi attira il mio fantasma. La mia inconsistenza, non la mia realtà. Faccio una smorfia a me stesso. Sono tentazioni notturne che non mi posso permettere. Il dondolio del treno, le luci basse e ipnotiche, la stanchezza che comincia a formicolarmi su per le gambe, tutto ciò mi riporta fastidiosamente alla labile figura sul vetro che inghiotte ogni domanda, se ne lascia attraversare e resta lì, incerta e incancellabile con i suoi pallori e le sue ombre. Avevo sempre avuto i baffi? No. Allora il viso era più liscio e chiaro, un po' infantile. Un viso disposto a diventare altri visi, a moltiplicarsi, proprio come quello in cui ora mi vedo. Rivedo oltre il vetro, oltre il buio, Alberto Franceschini, nella mezza luce della nostra cella, nel supercarcere di Palmi dove l'ho lasciato quasi un anno fa. La sua branda è nell'angolo opposto. Di fronte ho Bertolazzi, detto il Nero, e di fianco Curcio, il Cane. Ogni sera Alberto stende con cura un asciugamano sopra la coperta, prima di coricarsi diritto e composto: dice che gli dà il giusto rapporto peso-calore. E ogni mattina, alle sette e mezza, serve a tutti il caffè a letto. La scena è chiara ma lontana, sprofondata. Come se vedessi in fondo a un nero cunicolo quel piccolo scompartimento minacciato dal vuoto che è la cella: una capsula spaziale, una “cellula di miele / di una sfera lanciata nello spazio”. Specie la notte, specie quando piove, la cella è un piccolo mondo perduto che rotola via nel nulla. Appena oltre il muro si spalancano distanze irreali, fantastiche, e l'unica geografia è quella che il cuore continuamente disegna ai suoi movimenti. Mi inseguono da qualche tempo alcune parole che avevo isolato tra le prolisse chiacchiere del carcere, sulla prima rapina in banca compiuta da chi aveva allora fondato le Brigate Rosse. Mi avevano fatto capire l'emozione, la paura che attanagliava quei pochi che erano stati scelti, o che si erano scelti. Il problema dei soldi si era rivelato troppo importante, per le case, le armi, i documenti, e avevano infine concluso che non c'era altro modo. E l'avevano fatta: la prima di una lunga serie. Avevano scelto una piccola banca di provincia, e avevano preparato il colpo con perfezionismo persino eccessivo. Erano andati seri e decisi, senza guardarsi in faccia, il cuore stretto da un solo ossessivo pensiero. Non dobbiamo fallire. Non dobbiamo fallire... Non perché era la prima volta. Non perché il loro piccolo gruppo sarebbe stato distrutto. Non perché quella rapina aveva per ognuno un valore anche simbolico, di rottura definitiva, di salto. Non dovevano fallire per gli altri: per i loro padri – qualcuno era operaio, qualche altro contadino, quasi tutti erano del PCI e avevano combattuto nella Resistenza – ai quali non sarebbero mai riusciti a far capire quel che erano e quel che volevano. Per le mogli e le compagne, alle quali avevano spezzato la vita. Per gli amici di un tempo, che non li avevano seguiti e li condannavano. Per il movimento, che mormorava e li attaccava alle spalle... Non dovevano fallire perché non potevano ancora dimostrare nulla, e finire subito in galera per una rapina in banca li avrebbe cancellati. Sembrano, oggi, sentimenti irrecuperabili, quasi debolezze da adolescenti, affondate in quella stessa vaga e pungente nebbia autunnale della Bassa padana che allora, presumibilmente, li aveva avvolti e protetti. Un'immagine vecchia: poca gente tranquilla in piazza, una fila nera di biciclette, i piccoli ciottoli tondi e lustri del selciato. E quella paura di sbagliare, quel pugno doloroso alla bocca dello stomaco, reale com'erano reali le cose che lasciavano. Guardo, e penso ancora una volta che oggi è diverso. Perché? Non è una domanda semplice. Forse perché non c'è da dimostrare più niente a nessuno. Esistiamo e basta. Ma questa è la cosa veramente
tremenda. Esserci. Abbiamo rapinato e sequestrato e ucciso, abbiamo subito molti arresti, qualcuno di noi è stato ammazzato, siamo cresciuti di numero e godiamo persino di qualche simpatia. Allora? Allora, non può durare così. È un inferno. Non sono il solo che se ne accorga. Ci vorrebbe forse un'altra decisione radicale, il coraggio di tagliare la corda alla quale ci stiamo impiccando. Quello scrupolo verso gli altri, quella devozione, d'un tempo, non esiste più. È stata superata dai fatti, sepolta con i morti ammazzati. Oggi non siamo più noi a dover qualcosa agli altri, ma gli altri a noi. O si arruolano, o ci sono contro. Non si può fare la lotta armata se non si crede che non c'è proprio altro da fare. Ma se è così, come la si può fare stando in mezzo a tutti quelli che non ci credono, che non la fanno? Gli operai, per esempio... Non dobbiamo imparare più da niente e da nessuno? Attraverso un leggero velo di vertigine torno a rivedermi nel vetro buio del finestrino. Il treno dondola veloce nella notte e il corridoio è deserto. Mi colpisce un filo d'aria fredda. M'appoggio alla porta dello scompartimento e muovo la testa qua e là, per togliermi di dosso la stanchezza e l'intontimento. Nello scompartimento non riesco a vedere quasi nulla. Hanno lasciato accesa la luce blu, e dormono abbandonati alle scosse del treno. Dall'altra parte, appena delineata controluce, distinguo una donna, sveglia, che sembra guardare fuori con una sorta di rigida attenzione. Ha i capelli grigi, forse bianchi. Torno al mio finestrino. Mi pare di intravedere delle chiazze chiare, forse un po' di neve. Sono incerto se rientrare nel caldo dello scompartimento e dormire, oppure stare ancora in piedi, al fresco, aspettando la visita di pensieri limpidi nel buio e nel silenzio della notte. Fuori le luci sono più frequenti, e il treno sobbalza rallentando. Sento un leggero movimento dietro di me, e mi scosto. La vecchia signora ha fatto scorrere la porta, e cerca di afferrare la valigia, in alto, senza disturbare gli altri. M'infilo a mezzo nello scompartimento toccandole il braccio, con un sorriso d'intesa che lei ricambia. Ha un volto largo, segnato da tante piccole rughe, e strani occhi chiari pieni di cordialità. Esce rapidamente, ed io con un movimento rapido tiro giù la valigia e le faccio ancora cenno, senza aprire bocca, che si avvii pure, che l'avrei seguita verso l'uscita. La luce del corridoio la mostra più vecchia di quel che mi era sembrato, ma è diritta e robusta. La lascio accanto alla porta mentre s'annoda sotto il mento un grande fazzoletto azzurro, e torno nel corridoio: il treno sta entrando nella stazione di Bologna, gli orologi segnano l'una appena passata. Apro il finestrino e mi sporgo un poco. Dal marciapiede una coppia fa un segno di saluto, e l'uomo s'affretta alla porta della vettura, e allunga le mani per prendere la valigia: aspetta che scenda anche lei, e le porge il braccio, per sorreggerla. Suo figlio, di sicuro, con la moglie, che se ne sta un passo indietro, pallida nella gran sciarpa che le avvolge la testa. È un po' in imbarazzo. Almeno, a me vien fatto di immaginarla così. La madre che va a passare le vacanze di Natale dal figlio... forse hanno lasciato il bimbo addormentato, il tempo di correre in stazione a prendere la nonna... Sono già spariti tutti e tre, nel sottopassaggio. Sul marciapiede resta un brigadiere della polizia ferroviaria che va su e giù infreddolito, sbattendo i piedi. Ho ancora più di cinque ore di viaggio, e devo cercare di dormire. Mi accomodo nello scompartimento, vincendo l'istantanea repulsione per l'aria viziata, e chiudo gli occhi. “Signora, lei fa la lotta armata?”. Rido piano tra me. È la stanchezza che mi fa dire delle cazzate. Un rivoluzionario genovese Non mi riesce di andare molto indietro nel tempo in un colpo solo, ma piuttosto a tappe, per rinvii successivi. Nel caso di Gianfranco Faina per la verità le immagini si mescolano, forse perché non sono mai molto diverse tra loro: tra il Gianfranco che vedevo nei corridoi e nelle stanze dell'Istituto di Storia Moderna dell'Università di Genova, in via Balbi, e quello che si aggirava per il cortile del carcere con il mazzo di carte in tasca, in cerca di un socio qualsiasi con il quale accovacciarsi nell'angolo per la
briscola o la scopetta. Sempre, prima e poi, l'ho visto portare in giro l'aria dinoccolata e sorniona di chi ha in mente qualcosa d'altro: un prestigiatore miope e curioso, a caccia dell'occasione buona per tirar fuori il coniglio dal cappello. Nonostante la vicinanza degli Istituti — il mio era quello di Letteratura Italiana – si può dire che ho cominciato a conoscerlo solo nel '67-'68, nei momenti caldi della contestazione studentesca. Siamo diventati amici, ma in modo particolare, come due persone che camminano insieme lungo un fosso, ma sulle rive opposte, e opposti sono, alle loro spalle, i rispettivi territori. Nonostante tutto, il fosso non è mai stato colmato. Solo una volta, dopo anni, ci fu un'iniziativa sua, improvvisa, mentre scendevamo insieme per via Balbi, verso piazza della Nunziata e verso il caffè: “Enrico, non ti sei mai fidato di me, e ancora adesso non ti fidi... perché?”. Ho detto ridendo che nessuno poteva fidarsi di lui, e ho evitato di rispondere davvero. Ma perché non mi fidavo? (il verbo rende imperfettamente quell'essere così vicini eppur così distinti, quell'andar insieme senza vera unità, quell'inquieto sorvegliarci a vicenda). Appunto, perché aveva in testa qualcosa d'altro, che era tutto suo, e niente e nessuno poteva frenarlo dall'usare gli altri, con disarmante spudoratezza, per inseguire quello che gli interessava. E solo tardi, a poco a poco – ma non ne sono ancora del tutto sicuro — credo d'aver capito ciò che gli stava a cuore, dietro lo schermo delle parole politiche, dei progetti politici. Voleva rompere, voleva sovvertire. E spingeva questa sua volontà sin dentro i rapporti con gli altri, e considerava i gruppi che egli stesso via via fondava come cose da distruggere: come involucri da usare e fracassare appena possibile, prima che si rapprendessero in qualcosa di definitivo. Era il più spontaneo e minuzioso negatore di ogni cosa che assomigliasse a un partito, a una organizzazione, a una burocrazia, lui che veniva dal PCI... Odiava ogni etica burocratica, ogni principio d'ordine e di gerarchia, ogni autorità che durasse nel tempo, non solo in forza dell'ideologia che lo aveva portato a essere un comunista “consiliare”, ma soprattutto per un modo d'essere, per un intimo rovello, un fastidio, un dispetto... Sì che ne nascevano buffe contraddizioni pratiche: per esempio, la sua paura di essere licenziato, e i piccoli compromessi in Istituto. Ma era stupido attaccarlo per questo, e chi l'ha fatto è rimasto troppo sotto i suoi difetti e le sue qualità. Piuttosto, mi urtava allora, confusamente, una radice di amoralità che mi pareva di avvertire in lui. Una amoralità sottile che si nascondeva nel suo modo di guardare gli altri, di provocarli con la sua voce chioccia, di usarli, tutti, senza scrupoli. Anche la sua morale di gruppo era assai elastica. Ogni incontro, ogni occasione nuova, con chicchessia, cercava di volgerla ai suoi fini, dimenticando all'istante eventuali accordi presi con altri. Tentava di combinar subito qualcosa con tutti, e in ciò la sua furbizia si trasformava nell'ingenuità più clamorosa. Ed era in effetti, contro ogni evidenza, solo. Le Brigate Rosse, dopo il sequestro Sossi, lo andarono a cercare, nell'inverno '75-76, con lo scopo di fondare una colonna genovese. Si fece arruolare, da quel perfetto anarchico che era, ed ebbe a dirmi, quando più tardi me ne parlò: “Guarda, sono dei merdosi stalinisti, ma per un po' a noi tornano comodi, perché sono forti e perché sono gli unici che facciano qualcosa di concreto”. Con queste premesse, dopo qualche mese fu cacciato dalle BR, orripilate da quel che andava loro combinando. Per conto suo, aveva imbarcato vari studenti in una fantomatica “brigata universitaria” che riuscì a esistere solo nella sua testa: credo che ancora oggi ci sia a Genova qualcuno convinto di essere stato almeno per un po' brigatista, solo perché così gli aveva detto Gianfranco. Devo dire almeno un'altra cosa su di lui, forse l'essenziale. C'era nella sua amoralità, nel suo accidioso dispetto, qualcosa di cocciuto e irriducibile: una moralità, insomma, che faceva di lui, in maniera indiscutibile, un cosiddetto uomo di sinistra. So bene cosa voglio dire, e tutti quelli che l'hanno conosciuto lo sanno. Gianfranco ha versato i più violenti e dissacranti sarcasmi sul PCI, sui sindacati, sul movimento operaio e la sua storia, e sugli operai medesimi, e viveva realmente questo rapporto d'inimicizia. Ma ciò non l'ha mai portato fuori, in maniera misteriosa ma certa, dal suo patrimonio genetico. Da questo tipo di posizioni radicali, invece, alcuni suoi giovani seguaci sono approdati a destra, anche se una destra sofisticata e paradossale (sarei tentato di dire: da nouveaux philosophes). Per
lui, era un rischio inesistente. Ancora, Gianfranco ha fatto da padrino, in Genova, a molte novità, di cui sapeva esaltare l'aspetto provocatorio, antiistituzionale: dal luddismo al situazionismo... È stato un precursore, tanto generoso e distratto quanto misconosciuto, di molte delle cose che hanno fatto più tardi l'effimera fortuna del cosiddetto “movimento del '77”. Eppure nulla di tutto ciò l'ha veramente intaccato. Nessuna cultura poteva modificarlo. Ha fatto un'infinità di cose estranee alla tradizione e alla cultura della sinistra; ha fatto molte cose contro la sinistra, ma lui, personalmente, biologicamente, è rimasto tutt'intero uomo di sinistra. Dire che credeva unicamente alla lotta di classe – quale che fosse poi la classe di cui è andato vanamente in cerca — è ancora troppo poco. Era lui stesso, nelle sue ossa, nella sua pelle, nei suoi abiti, nella sua camminata, una natura di classe fatta persona, un irrimediabile proletario, un vecchio rivoluzionario che Conrad avrebbe dipinto con odio e ribrezzo, in Agente segreto, in Con gli occhi dell'Occidente. In fondo, la sua adesione alle BR ha dato forma estrema a questa contraddizione. Che è però tale solo a posteriori, nelle parole di chi prova a raccontare Gianfranco. In lui non c'era contraddizione. Era così, e basta. Mobilissimo eppure immobile (“Tant'è, resta sempre uno di Sampierdarena”, dicevano i suoi malevoli colleghi), e stanco, alla fine, di tanti disperati tentativi di inventarsi un'altra storia. Mi ha portato al primo appuntamento con le Brigate Rosse. Annunciandomelo in modo vago, allusivo, come s'usava allora, quando era tutto un insinuare, un far credere, un sottintendere. Effetto del sequestro Sossi. Le Brigate Rosse l'avevano fatto da sole, nel '74, quando ancora non esisteva alcun brigatista genovese, e senza appoggi locali. Erano venute ed erano andate via. Ma chi poteva saperlo, allora? Nei gruppi, nel movimento doveva pur esserci qualcosa, qualcuno, ma chi? L'estrema sinistra era in preda alla stessa ansiosa curiosità che presumibilmente regnava in Questura. Ci fu persino chi andò a controllare sopra non so quale Registro portuale se davvero Roberto Dura, il brigatista genovese che fu poi ucciso in via Fracchia, si fosse imbarcato come marittimo, secondo quanto aveva annunciato egli stesso prima di sparire dalla circolazione. Io ero però all'oscuro di questo lavorìo. Non facevo parte di alcun gruppo, ed ero tenuto fuori dai segreti del movimento, che aveva già, in ogni caso, un surplus di addetti. Questo era appunto il clima, quando mi portò all'appuntamento con un “compagno di fuori”, come disse affacciandosi in fretta, ammiccante, alla porta del mio studio, in Istituto: “Ripasso a prenderti questa sera, alle sette...”. Non ricordo il mese, ma alle sette, a Certosa, era buio. Siamo andati insieme sino in fondo a via Fillak, e poi, di là dalla ferrovia del Campasso, verso la galleria degli autobus per Dinegro. Il vento sollevava piccoli mulinelli di polvere, e il colore e il sapore del posto, tra quelle grandi e brutte case, era quello della limatura di ferro. Ci sono poche panchine, e su una di quelle ci siamo seduti, vicino al compagno che aspettava. Gianfranco era verboso e agitato, e i silenzi dell'altro lo innervosivano sempre più. Mi pare che parlasse del mio ruolo, nelle assemblee studentesche, e della mia disponibilità a seguire e informare. Ma l'altro ascoltava distrattamente, a quel che pareva (ma ho scoperto poi che non era vero), e si mostrava soprattutto preoccupato per la sua automobile, con la quale non se la sentiva di girare perché non conosceva per nulla la città. Nient'altro. L'appuntamento successivo, dopo qualche tempo, fu ancora di sera, nella piazzetta di Bogliasco, di fronte al mare. Ho preso il treno suburbano, come d'accordo, e ho trovato Gianfranco e l'altro davanti alla chiesa. Gianfranco aveva l'aria stravolta: “Scusa... devi aspettare un po'... Fatti un giro”. Alle loro spalle, dai piccoli portici della piazza, ho visto che stava arrivando qualcuno, qualcuno che non dovevo vedere. Me ne sono andato giù per la discesa che porta al vecchio ponte e alla spiaggia e sono stato lì un'ora, un'ora e mezza, seduto su una panchina a guardare il mare mentre il buio aumentava. Quando finalmente Gianfranco è ricomparso, era solo: “Andiamo. Ti porto a casa con la mia macchina”. Non gli domandai nulla, mentre guidava a tutta velocità per corso Europa, con una faccia che non gli avevo mai visto. Fu lui a parlare, invece, in modo spezzato e allusivo, dapprima quasi più per sé che per me, ma poi
con una foga e una rabbia che volevano coinvolgermi, tirarmi dalla sua parte. Aveva arruolato qualcuno senza aspettare l'approvazione dall'alto – questi burocrati di merda, che volevano dirigere tutto loro! Si era procurato alcune pistole a Milano, per conto suo – da amici fidati, da compagni! — e una o due le aveva date all'organizzazione, e voleva almeno quello che gli erano costate, e loro, invece, avevano fatto casino, e dicevano se era diventato matto, che le armi se le procuravano in tutt'altro modo, che non era affar suo e che non avrebbe dovuto neppure azzardarsi a prendere un'iniziativa tanto irresponsabile e pericolosa, e che doveva stare alla disciplina dell'organizzazione, e tagliare con tutti i suoi sputtanati rapporti — con tutti, capisci?! e dovrei vedere e parlare solo con quelli che mi dicono loro... Non ho aperto bocca. Lo guardavo con calma e ostilità: me ne sono reso conto in seguito. Poi, ci siamo incontrati ancora qualche volta, ma da estranei. Quella sera il nostro breve cammino comune era finito. E può darsi che non mi abbia perdonato il silenzio con il quale lo lasciavo. Nel cortile del carcere in cui ci siamo ritrovati anni dopo, a Palmi, è stata la stessa cosa. Due battute e pochi veloci ricordi genovesi, e poi più nulla. Era il momento delle brigate di campo, dell'organizzazione interna, e lì c'era lo stato maggiore detenuto delle Brigate Rosse che faceva e disfaceva, e io ero tutto con loro... e lui se ne stava per conto suo, non diceva nulla che sapesse anche lontanamente di politica, e giocava a carte. Molti lo credevano un detenuto comune, di quelli che non volevano avere niente a che fare con i politici. L'ho lasciato a Palmi, quando mi hanno trasferito a Genova per il processo, nella primavera dell'80. E a Genova, due mesi dopo, ho saputo che gli era improvvisamente scoppiato un cancro fulminante ai polmoni. I medici del carcere non ci avevano capito nulla, all'inizio, e credevano che i suoi malesseri fossero tutta una simulazione. L'hanno trasferito a Milano, a San Vittore, e di lì all'Istituto Tumori, e poi di nuovo a San Vittore e poi all'Istituto Tumori, ormai in coma. Non è tornato a San Vittore solo perché Maria Rosa, la moglie, stava per buttarsi dal balcone dell'Istituto. A metà del febbraio '81 è stato portato a casa, vicino a Pontremoli, e lì è morto, il giorno dopo. Cause ed effetti Che esistano le cause, è fuor di dubbio. Che esistano gli effetti è altrettanto certo. Ma che tra le une e gli altri ci sia un rapporto, beh, sarebbe azzardato dirlo. In ogni caso, occorre inventarselo ogni volta. Troppo spesso mi sono sentito domandare: “Perché? Perché l'hai fatto?” (curiosamente, mai dagli amici). E può darsi che questo sia pure il tema nascosto di queste pagine: un lento paziente giro attorno alle risposte possibili. C'è infatti qualcosa di fittizio nella risposta diretta, immediata, per me e, credo, anche per altri. Con appena un poco di buona volontà potrei elencare un discreto numero di cause ragionevoli, e un numero pressoché illimitato di cause irragionevoli, dotate di altrettanta verisimiglianza ed efficacia. Ma il castello delle spiegazioni crolla appena sento ripetere: “Sì, va bene, ma perché?”. Là dov'era appena costruito un minuzioso edificio di ragioni, con le sue fondamenta, le sue oscure cantine, i suoi ballatoi e gradini e saloni e passaggi, ecco che torna a esserci il vuoto. Occorre ricominciare da capo, davanti a un “Perché?” tutt'intero, rotondo, perfettamente nuovo. Guardavo Gianfranco, e gli ero ostile. Avevo già scelto le Brigate Rosse contro di lui, senza esitazioni. Eppure, allora, delle Brigate Rosse non sapevo niente di più di quel che poteva sapere qualsiasi altro, nonostante l'incontro con il compagno infagottato e preoccupato per la sua automobile. Penso, a volte, di non essere affatto diventato brigatista, ma di essermi semplicemente scoperto tale. O di essermi creduto tale... non fa poi molta differenza. Così, ho dato anch'io una certa forma e una certa direzione al mio passato. Ci sono infiniti invisibili fili, là dietro, e ogni scelta presente ne accende uno, e quello — solo e proprio quello — diventa il passato. Un filo di luce tra mille fili oscuri che forse
s'accenderanno, un giorno, o forse, com'è di gran lunga più probabile, non s'accenderanno mai. Ci sono perché per qualsiasi cosa, una volta che sia accaduta, ed è incessante il lavorìo degli effetti che continuamente creano, a ritroso, le loro proprie cause. Ci sono alcuni momenti nei quali si sente con forza che si sta scegliendo il proprio passato. Io li ho vissuti con particolare intensità nella camera di sicurezza della Questura di Milano, in via Fatebenefratelli, nell'aprile dell''81. Ero stato rinchiuso lì, dopo l'arresto, e ci sono rimasto poco più di un mese. Moretti, arrestato insieme a me, era invece nella caserma di polizia Sant'Ambrogio: poi ci hanno trasferiti nel carcere di Cuneo, ancora in regime di isolamento per un altro mese. La piccola cella era l'ultima, in fondo al corridoio, al pianterreno. Alta e stretta, senza finestre, era illuminata da una debole lampada in alto, sempre accesa. Lo spioncino della porta era sempre chiuso. Non c'era nulla, dentro, salvo un alto gradino di cemento, in leggera pendenza, sul quale dormire, e un uniforme strato di sporcizia su vecchi schizzi di sangue e di vomito. Anche le due coperte nelle quali mi avvolgevo la notte puzzavano in modo repellente. Il cesso era fuori, dall'altra parte del corridoio, e due volte al giorno, quando sentivo i passi della guardia che si avvicinavano, battevo forte il pugno sulla porta, per farmici portare. Quasi tutti i giorni passava il funzionario di polizia che credo avesse guidato l'arresto. Intelligente, magro, l'aspetto un po' zingaresco, si scusava del trattamento e mi portava qualche libro – Prisco, Sartre, Jung – che leggevo e rileggevo alla luce di quella lontana lampadina. Su quei libri appoggiavo anche la pagnotta che arrivava ogni mattina: i primi giorni, invece, la mangiavo subito, perché in quel nudo lerciume non avevo dove posarla. Parlava male dei pentiti (“Ricordano tutto, anche il colore dei calzini degli amici...”), e dichiarava di ammirare la forza d'animo e la rettitudine mia e di Moretti. A suo modo, era molto abile. Un giorno, tuttavia, andò più a fondo, e mi disse: “Avete davvero coraggio... e lei, poi, come fa a sopportare la prospettiva di morire in galera con quattro figli... a loro non ci pensa?”. Erano i giorni della Pasqua, e sentivo, attutito, il rumore incessante della pioggia. Fino all'arresto, invece, c'era stata una limpida precoce primavera, che aveva fatto di Milano una città in cui era delizioso vivere. Sigillato nel mio involucro di cemento, io ero altra cosa dalla pioggia d'aprile. La mia sorte era un'altra, sbocciata tanto tempo prima, chissà quando. Risposi il più semplicemente possibile che era anche per i miei figli che non potevo cambiare. Per loro, io ero tutto quel che ero stato, e solo preservando l'immagine di me che essi avevano avrei potuto continuare a farmi riconoscere e amare. Non era vero, naturalmente, ma funzionava: bastava solo decidere che fosse così. Ma non era vero. Come brigatista, ero per i figli un perfetto estraneo: avrei dovuto saperlo, e invece me ne sono accorto tardi, con qualche stupore. Circa nove mesi dopo, ho sentito come un'eco di quelle mie parole in un'altra bocca, quella di Moretti. Ero ancora nel carcere di Cuneo, nel dicembre-gennaio dell''82, e dalle Brigate Rosse ero già stato espulso, ma non è di questo che ora voglio parlare. Avevo già rinunciato, presso la Matricola, a comparire al processo d'Appello che ci sarebbe stato a Milano, in gennaio, per le pistole che io e Moretti portavamo addosso al momento dell'arresto. Una mattina il detenuto che quel mese distribuiva colazioni e pranzi, uno del terzo piano, mi sussurra, passando la ciotola del caffellatte: “Mario manda a dire da Nuoro che vorrebbe vederti, al processo”. Ho avuto un moto di sorpresa. Il mio distacco dalle Brigate Rosse era mal sopportato, e chi fosse solo in odore di future dissociazioni o pentimenti rischiava la pelle, specie dopo che al piano di sopra, il terzo appunto, erano stati strangolati Arnone e Soldati. Giusto una settimana prima, uscendo dalla sala-colloqui, Bruno Seghetti, il leader dei cosiddetti militaristi, mi aveva abbracciato sorridendomi con amicizia, e mi aveva detto: “Perché non ti fai trasferire su da noi? Vorremmo discutere un po' con te...”. “Volentieri” ho risposto “ne ho voglia anch'io... Mi dò subito da fare con il maresciallo”. Ma non desideravo affatto andare a farmi ammazzare tanto stupidamente, ed ero invece concentrato nell'attesa del prossimo trasferimento a Genova, in febbraio, per un altro processo. Allora avrei deciso che fare. Adesso, imprevisto, l'invito di Moretti, appena prima del trasferimento a Genova... Ero preoccupato, ma ha vinto la curiosità e l'orgoglio: non avevo niente da nascondere, e non
volevo farmi prendere negli ingranaggi della paura. Dopo aver ritirato appena in tempo la rinuncia, sono stato trasferito a Milano, a San Vittore. Il giorno successivo è arrivato Moretti da Nuoro, e siamo stati messi insieme, in una cella della sezione di massima sicurezza. Aveva la mano sinistra ingessata: gliel'avevano rotta le guardie, mentre tentava di riparare la testa dalle botte. Ma questa, almeno, era riuscito a non farsela fratturare. Il mio era un gioco pericoloso, ma ero attratto dalla possibilità di discutere, nel silenzio e nell'isolamento della cella, proprio con Moretti, e di porre a confronto i miei pensieri con i suoi. Non so: forse volevo metterli alla prova, con il brigatista che continuavo a stimare di più, e che più di altri sembrava vivere una crisi profonda. Come me, pensava che tutto fosse finito: meglio, che le Brigate Rosse, le sue Brigate Rosse, fossero finite. Diceva questo con calma e con disperazione, ma la passione che lo muoveva mentre analizzava gli aspetti materiali della sconfitta si bloccava e quasi si pietrificava dinanzi alle conclusioni ultime. Tutto quel che era successo ricavava, nelle sue parole, una particolare forma di legittimazione e quasi di salvezza dalla sua stessa fine. Non era più una vicenda reale fatta di colpe e illusioni, di uomini morti e feriti, di vittime innocenti, di madri e figli e parenti e amici... era, ormai, un capitolo di storia che lui, con altri, aveva scritto, e al quale era inchiodato per sempre. Un capitolo consegnato all'archivio della storia della rivoluzione proletaria. E lui, Moretti, chiudeva se stesso in quell'archivio: ne diventava il custode. Nel momento in cui denunciava la fine, senza infingimenti, cercava ancora la vittoria svuotandosi di sé e consegnandosi all'esemplarità del passato. Quando molte cose, invece, avrebbero dovuto crollare, e nessun artificio ideologico avrebbe più potuto legare insieme tanti frammenti, tante macerie; quando l'unica cosa vera e viva da fare sarebbe stata quella di accettare la sconfitta, di lasciarsene invadere e di distruggere in essa i propri miti e le proprie follie. In lui era invece totale la fedeltà a una storia che pretendeva tutta per sé, perché permeata del senso del suo agire trascorso. E poiché era una storia finita, egli esisteva perché era esistito, e perché poteva volgersi indietro e specchiarsi direttamente, senza ombre, in quello che era stato. Ma anche questa estrema sublimazione storica del suo ruolo non era vera. L'Italia avrebbe continuato per la sua strada senza saper nulla di Moretti. Suonava bene, però, e, di nuovo, poteva apparire persino verisimile, solo che si decidesse di crederci. E così forte, così radicale era in lui questa volontà, che ne ebbi per un attimo l'immagine dell'intera vicenda della lotta armata – e della mia vicenda in essa – come d'un ingorgo, d'uno stratificato accumulo di vecchie fedeltà, di linguaggi e culture e sentimenti e luoghi comuni e abitudini mentali e pratiche minacciate di morte da un mondo nuovo e incomprensibile, che si trasformava fuori e contro di esse. Un funebre atto di fedeltà al passato nel quale volevamo credere; una volontaria violenta immersione nella sconfìtta per negarla nel momento stesso in cui la si subiva. La mattina del processo rifiutammo entrambi di andare in aula. Poco più tardi, lo vennero a prendere perché la moglie l'aspettava in Tribunale, per il divorzio. Non vedeva né lei né il figlio da dieci anni, più o meno. I discorsi di quel pomeriggio, mentre stavamo stesi nelle brande, con le gambe accavallate, furono più personali e divaganti. Non sembrava che ci importasse più molto delle Brigate Rosse. Mi raccontò di sua madre, maestra di pianoforte, e di suo padre, e della loro estrema povertà: “Ho potuto studiare perché mia zia era portinaia, a Milano, di una famiglia di nobili, di marchesi, che per carità mi pagavano la retta al collegio... i marchesi Casati. Lui era un guardone, faceva scopare la moglie dagli altri e stava a vedere, ma non voleva che lei si innamorasse. È finita che ha ammazzato lei e l'amante, e si è ammazzato... l'hai letto di sicuro, sui giornali. Erano ricchissimi, avevano palazzi dappertutto, e persino un'isola, dove andavano una volta all'anno, a caccia”. “Li hai mai visti? Lei era una gran bella donna...”. “Ho accompagnato una volta o due mia zia fuori Milano, quando andava a far le pulizie nelle loro ville, di qua e di là... Una volta però ho visto lei, la marchesa. Avevo appena cominciato a lavorare alla Sit-Siemens, e stavo da mia zia, nella portineria, un buco piccolissimo. Un giorno lasciano una torta per i
padroni, e l'ho portata su io. Non so come, mi ha aperto lei, ma non me la ricordo. Ricordo invece che mi ha detto: 'Ne vuoi una fetta, caro?'. Con una voce, un tono, che ho giurato che quel caro gliel'avrei fatto pagare, un giorno, a lei e a tutti quelli come lei”. “Chissà, forse è per quello che sei diventato brigatista”. “Sicuro che è per quello...”. “Pensa invece se tu fossi diventato l'amante della marchesa. Lui t'ammazzava, e oggi ne staremmo meglio tutti”. “È andata così...”. Abbiamo riso, e abbiamo continuato a dire sciocchezze per un po'. Cominciava a far buio, e abbiamo preparato il caffè con la macchinetta e il fornellino che ci aveva prestato Attimonelli, dalla cella vicina. Mentre lo stavamo bevendo, si è aperto lo spioncino. Era il brigadiere, che ha detto in fretta: “Moretti, prepara la roba. Parti fra dieci minuti”. Mentre riempiva il sacco, e io l'aiutavo, era a disagio, tormentato da un pensiero, qualcosa che mi voleva dire. “Stamattina non sei voluto andare al processo, vero?”. Era una domanda assurda, non era andato neppure lui, l'avevamo deciso insieme. Sono stato zitto, aspettando il seguito. “Ma i tuoi avvocati ti hanno difeso, no? Non hai rinunciato, non li hai revocati?”. “No...”. Aveva finito, e stava tirando le cinghie, e già si sentivano arrivare le guardie nel corridoio. Mentre si apriva la porta, mi ha dato la mano, e ha detto ancora, uscendo: “Se ti vuoi difendere, fallo pure, ma non così. Non ti puoi fermare a metà, far parlare gli avvocati e non andare ai processi. Non serve a nulla, è idiota se non vai fino in fondo. Solo, questa è la strada che porta al tradimento”. Su e giù per la riviera L'8 giugno '76 era una giornata limpida e calda. All'una e mezza gli esami andavano ormai avanti con fatica, nell'aula al pianterreno dell'Università, in via Balbi. Un'occhiata all'assistente: “Ancora uno, e andiamo a mangiare”. La porta era aperta sull'atrio. Anche il portone sulla strada era spalancato. Non ci siamo accorti della pausa di silenzio, fuori, nel traffico, finché non è stata rotta di colpo dal sibilo assordante di tre, quattro, cinque sirene. Qualcuno ha detto: “È successo qualcosa di grosso”. Siamo usciti e ci siamo accalcati sul portone e sullo stretto marciapiede, con altri due colleghi usciti dall'aula vicina e con gli studenti. La strada, infossata tra i palazzi segnati da forti liste di luce e ombra, aveva una strana aria vuota. Giù, da piazza della Nunziata, arrivava a tutta velocità un'automobile: una delle portiere, dietro, era semiaperta, e ne sporgeva un uomo, in piedi, con i capelli al vento. Subito dopo ne spuntò un'altra, e anche da questa pencolava fuori un uomo che teneva un mitra ritto sulla spalla, puntato verso il cielo. Ci sono passate davanti, e le abbiamo seguite con lo sguardo. Cento metri avanti, su verso Principe, la strada era bloccata, e in quel blocco le automobili precipitavano, come in un imbuto. Là, il sibilo acuto delle sirene calava in un ronzìo sommesso e continuo, e molta gente era già attorno alle automobili ferme. Siamo andati anche noi risalendo lungo il lato sinistro della via, che si apre, dopo Palazzo Reale, nella piccola piazzetta di San Carlo. La siepe d'auto e di persone era dieci, venti metri avanti, sul lato opposto, a chiudere l'ingresso al largo ammattonato di salita Santa Brigida: “Hanno ammazzato il Procuratore Coco, e il poliziotto...”. Ma un'altra voce diceva che i morti erano tre: c'era un ragazzo che pareva dormisse, altri cento metri
avanti, sull'automobile parcheggiata dove la via s'allarga, in vista della piazza della stazione. Era al posto di guida, la testa appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi: non aveva certo immaginato di poter finire così. Né l'aveva immaginato l'altro, l'agente di scorta, che si era avviato a piedi su per la salita con le mani occupate da borse e pacchetti, e ora giaceva a faccia in giù, a pochi passi dal cadavere del magistrato. “Era come se dormisse”, continuava a ripetere Faina, il pomeriggio, nell'aula dell'Istituto dove dovevamo seguire insieme un seminario studentesco: “Ci sono passato vicino, non si vedeva neppure la ferita...”. Era impressionato, e non diceva molto di più: mi guardava a tratti, con imbarazzo. Era stato cacciato dalle Brigate Rosse, e ci vedevamo pochissimo: forse voleva chiedermi qualcosa, ma era anche impaurito, e si tratteneva. Io non avevo niente da dirgli: di nuovo, tuttavia, il mio silenzio si contrapponeva a lui e lo escludeva da ciò che neppure io sapevo ma che, in ogni caso, aveva finito di appartenergli. Può anche darsi che nel mio atteggiamento ci fosse una punta di rivincita nei confronti del vecchio leader. Non saprei dirlo con certezza. Ho visto però come sia facile cedere alla sensazione di onnipotenza e restarne intimamente deformati, quando ci si immagina parte d'uno di quei segreti che toccano e sgomentano la vita di tutti. Per una forma di rimozione nei confronti dell'enormità del fatto compiuto, quel pomeriggio, sotto gli occhi degli studenti, non si parlò quasi di Coco, ma del giovane autista, e della pietà che suscitava. Perché ucciderlo, quando non costituiva alcun pericolo, quando era andato a fermarsi con l'automobile tanto avanti da non poter accorgersi di nulla? Nessuno lo sapeva, anche se ognuno andava elaborando per conto proprio una confusa idea di geometrico e spietato perfezionismo delle Brigate Rosse, quell'idea che tanti in seguito contribuirono ad alimentare. E mentre si discuteva sull'uccisione del giovane, e ci si sforzava di mettersi dal punto di vista di chi l'aveva ucciso, finivamo per dare per scontato l'omicidio stesso e, oltre l'omicidio, l'azione nel suo complesso. La si accettava come cosa che avesse in sé le sue proprie ragioni, e imponesse un suo proprio metro di giudizio. L'uccidere diventava ineluttabile, indiscutibile, e la ricerca del perché si riduceva a quella del come. Questa accettazione di fondo divenne possibile, per me e per altri che pure non si sognarono mai di diventare brigatisti, perché l'idea dell'omicidio politico era già penetrata nelle nostre coscienze: mancava solo che lo si vedesse realizzato con tutto il corteo delle sue motivazioni ideologiche, dopo tanti programmi e minacce e preparativi. E, soprattutto, dopo tutti i morti ammazzati di quegli anni. La voce lenta e un po' strascicata che cercò di me, al telefono dell'Istituto: “Pronto. Ti ricordi?”, pareva ribadire questa naturale e quasi indifferente continuità tra il prima e il dopo, questa inesorabile progressione. Era il compagno che avevo visto mesi prima a Rivarolo e poi a Bogliasco. Ora si rifaceva vivo, di sua iniziativa, forse quando era apparso chiaro che non ero affatto un fedele di Faina, e che non l'avevo seguito nel piccolo gruppo che egli aveva cercato di stringere attorno a sé, dopo che era stato allontanato dall'organizzazione. Questa telefonata mi emozionò. Cadeva in un momento particolare. Persino molti sinistri per bene (i sinistri, certo, uno per uno, non la sinistra) sotto sotto gongolavano per l'uccisione di Coco. E quel che si diceva di lui suonava spesso come un'indiretta copertura dell'omicidio: Coco insabbiatore; Coco che si vantava pubblicamente di tutti gli ergastoli – un record! – che era riuscito a far infliggere durante la sua carriera; Coco che i sardi paragonavano al mitico Bogino, ferocissimo proconsole sabaudo dei tempi andati... L'esecrazione e l'allarme pubblici per il delitto erano naturalmente alti, ma andavano incongruamente insieme all'idea corrente, pur se sottintesa, che in fondo lui, Coco, se l'era andata a cercare. E se questo era l'atteggiamento prevalente, figurarsi poi la sinistra radicale, gli extraparlamentari, il movimento! Era un gran parlare, riunirsi, ammiccare, alludere: era un gran girare a vuoto che io detestavo. Nella mia grossolanità, trovavo la doppiezza dei compagni più sgradevole di quella dei benpensanti. Tutto quel compiacimento mi pareva impastato di paura, di opportunismo: una
moda dietro la quale non c'era niente, un tifo tanto sciocco quanto inutile. Contro la fatuità dell'estrema sinistra, cominciavo a preferire la lotta armata. E mi erano infinitamente più simpatici quei pochi, pochissimi amici che erano profondamente angosciati dalla piega che le cose stavano prendendo, e lo dicevano. Quanto a me, non mi ponevo il problema se essere o no d'accordo con loro. Pensavo solo che, bene o male, quelli fossero ormai i termini della questione, quella l'unica scommessa di fronte alla quale occorreva prendere partito, magari anche così, a occhi chiusi... prendere o lasciare. E io, a differenza di quelli che vedevo scambiarsi sorrisi e ammicchi su Coco, non volevo affatto lasciare. Ci siamo rivisti a Sampierdarena. Ormai il compagno era abbastanza pratico di quelle strade, la centoventisette rossa l'aveva parcheggiata poco distante. “La conosco bene. Ho fatto qui i cinque anni di liceo, al Mazzini, in via Cantore. E qui” segnavo la vecchia libreria Roncallo, che oggi non c'è più, in piazzetta Settembrini, sotto la ferrovia “comperavo i libri, e aspettavo mio padre, la sera, quando usciva dall'Ansaldo”. Mi guardò preoccupato: “Allora, da queste parti ti conoscono?”. “Sì...”. Era perplesso, e mi ascoltava mentre parlavo di corsi, lezioni e studenti come di faccende strane, probabilmente disprezzabili e pericolose. Crollava la testa e sorrideva, ma era un sorriso cocciuto. Era più o meno della mia statura, ma più pesante, con le spalle spioventi, quasi tirate giù dalle grosse braccia. Aveva qualcosa dell'orso. Buttava lì, ogni tanto, qualche battuta sarcastica sui sindacati: “Hai visto? Pajetta e i sindacalisti dicono che siamo fascisti, pagati dalla CIA. Sono matti...”. Continuava a sorridere, però, ed era curioso dei fatti miei. E voleva sapere della contestazione studentesca, dei gruppi che agivano nell'Università. “Guarda che, dentro l'Università, per quanto ne so, i gruppi non ci sono più. A parte quelli degli studenti che vogliono prendere trenta all'esame senza studiare, o magari portando corsi che si fanno loro, su argomenti liberi, di ogni genere...”. “Vuoi dire che possono passare l'esame di Latino o di Italiano senza studiarlo? Studiando dell'altro?”. “Più o meno. Lo passano organizzando seminari su argomenti che scelgono loro... almeno, ci provano”. Era sinceramente sbalordito. Ci pensò un po' su, e disse, con la vecchia diffidenza dell'operaio che ha nel sangue l'immagine dei movimenti degli studenti come movimenti di tipo nazionalista o addirittura fascista: “Aspetta che vinciamo, e vedrai se non li mandiamo a studiare sul serio, questi buffoni!”. Era una cosa curiosa. Questa uscita, inaspettata nella sua durezza, confermava una parte del mio modo di sentire, quello dello “studioso d'ordine” intimamente infastidito dal disordine e dagli aspetti più beceri della contestazione studentesca. In passato mi ero anche trovato nei guai, per questo. Durante un'occupazione alla quale partecipavo attivamente, vedendo che la biblioteca e le attrezzature dell'Istituto correvano qualche rischio, avevo chiuso tutto per bene – quasi una serrata – e m'ero portato via le chiavi. E questo mi aveva messo in difficoltà sia verso il direttore, sia verso gli occupanti. Ora, la mia contraddizione era troncata di netto. Non dovevo più sentirmi in colpa se cercavo di salvare i libri della biblioteca e se continuavo a preferire in cuor mio un esame fatto bene a uno fatto male. Il compagno brigatista, li davanti a me, me ne assicurava senza equivoci. Ma la conferma era tuttavia sin troppo perentoria. Le cose erano più complicate. L'altra parte di me, quella contestataria, si ribellava a un giudizio così sommario. Quando, nel '57, mi ero iscritto alla Facoltà di Lettere, eravamo in tutto cinque o sei ragazzi e una sessantina di ragazze. Ora, gli iscritti al primo anno erano più di tremila. La vecchia Università era stata sommersa da questa alluvione, e sopravviveva in qualche angolo oscuro, appena lambito dalla corrente. Per il resto, si era trasformata in una grande macchina di esami troppo facili – a cominciare dal mio – che dovevano scaricare altrove, fuori, oltre l'Università, l'ingorgo che la minacciava.
Fermarsi agli studenti che non studiavano era ridicolo. Tanto per dirne una, con migliaia di studenti, la Facoltà non aveva aule. Bocciarli tutti era assurdo, quello che stava succedendo non era colpa loro. Forse, era meglio promuoverli e sperare nello stesso tempo che vivessero il più criticamente possibile questa schizofrenica condizione... Il compagno non mi seguiva più, aveva perso interesse all'argomento. Eppure, con le sue domande e i suoi silenzi curiosi, era stato lui a cacciarmici. Camminavamo intenti, un giorno, sul sentiero che porta da Sant'Apollinare alla trattoria della Relia, a picco sul mare, sulle alture di Sori. Uno dei posti più belli e intatti della riviera. La giornata era splendida e laggiù, sul mare, dietro l'alta sagoma della chiesa, si vedeva pulita la linea della costa, e Genova sullo sfondo. Con enfasi, dissi: “Che paesaggio meraviglioso, non è vero?”. Ma già guardava a terra con un'aria distante, seccata: “Boh, se lo dici... sei tu l'esperto di queste cose. Io non ne so niente”. I nostri incontri, uno o due al mese, si erano spostati sulla riviera, perché non voleva che qualcuno ci vedesse insieme. Era prudentissimo. Sbucava fuori da dove non me l'aspettavo, e credo che mi girasse un po' attorno, prima di farsi vedere. Era sempre evasivo, e a volte non era ben chiaro di che cosa si dovesse parlare: io gli raccontavo quel che sapevo della situazione genovese, con giudizi e commenti molto marcati, quasi a sfidarne l'imperturbabilità, e lui taceva, e ripeteva incrollabile: “Le Brigate Rosse prendono solo, non danno nulla a nessuno”. Una volta ch'ero più pressante del solito nel cercare di farlo parlare, nel voler chiarire meglio la natura del nostro rapporto, si mise a canticchiare, battendo il tempo con la mano aperta: “È inutile che bussi qui, non ti risponderà nessuno...”. Era esasperante, riusciva sempre a mettermi in minoranza e, forse proprio per questo, mi piaceva. E pian piano imparavo ad adattarmi al suo stile, a essere in sintonia con lui. Ma anche questa era a suo modo un'apparenza, una crosta leggera stesa sopra una realtà di sangue. Le passeggiate in riviera, i pranzi a Recco, le parole divaganti la nascondevano appena, e solo con un grosso sforzo d'ipocrisia potevo far finta che non mi riguardasse, o mi riguardasse alla lontana, attraverso lo schermo rassicurante di quegli incontri. Un giorno mi aspettò fuori dalla stazione di Recco. Poco lontano aveva l'automobile, la centoventisette rossa, che guidava piano, con mille attenzioni. Volle tornare a Sori e, lasciando l'Aurelia, s'imbucò sotto il viadotto, verso il piccolo centro. La sua stessa cautela fu la causa dell'incidente. Un malinteso nella manovra di posteggio, e ci fu l'urto leggero contro un furgone che stava manovrando per andarsene. Siamo scesi entrambi e, verso di noi, è sceso anche il conducente del furgone. Il danno era minimo, un fanalino di coda del furgone appena incrinato. Lo guardammo ben bene. “Non è quasi niente”, disse il compagno. L'altro confermò, conciliante: “Meno male, è una cazzata”. Due o tre persone si erano fermate a curiosare. Una fece un commento sulla frequenza di simili incidenti proprio lì, in quel punto preciso. Il conducente stava per voltarsi e andarsene. Ma esitò: “Forse è meglio fare la denuncia”. Il compagno, calmo, ribatté: “Non ne vale la pena. Mi dica quanto vuole per il fanalino”. Tirò subito fuori il portafoglio. Non fu un gesto indovinato. Il conducente si irrigidì, si guardò attorno con aria di sfida: “È meglio fare la denuncia”. Il compagno aveva una faccia ottusa, impenetrabile. Ripetè: “No. Mi dica quant'è, e aggiustiamo subito tutto”. Mentre diceva così, vide qualcosa dietro le mie spalle. In maniera casuale sussurrò un: “Tu vai pure”, al quale nessuno fece caso. Mi spostai appena un po', giusto quel che ci voleva per veder arrivare,
dall'angolo in fondo, un vigile. Cominciavo a capire. Il compagno non parlava più, e ascoltava distrattamente, ora. Lentamente ripose il portafoglio e sbottonò la giacca. Portò la mano sul fianco, tra il golf e i pantaloni: non scoprì la pistola, ma mi parve di sentirne il peso, alla cintura, sotto le sue dita pronte. Il vigile era arrivato. Si guardò attorno e guardò con aria svogliata il piccolo danno. Il silenzio del compagno aveva contagiato tutti. Era impossibile stabilire chi avesse torto. Alzò di nuovo gli occhi, incerto. Il compagno si era spostato un poco anche lui. Ora aveva le spalle coperte, e stava immobile, attento. Fu il conducente a cedere. Arrossì, bestemmiò piano, e disse a tutti e a nessuno: “Non è niente. Non è niente!”. Mentre saliva sul furgone e metteva in moto, il vigile disse qualcosa. Il compagno lasciò ricadere il braccio, fece un mezzo inchino cortese e sorrise. Se ne stavano andando tutti. Era finita. Quando risalì in macchina, gli vidi le piccole gocce di sudore alla radice dei capelli, sulla fronte. Non pareva affatto scontento, nonostante la tensione. Sembrava che fosse riuscito a dimostrare qualcosa. Guidò per un poco prima di dirmi: “Vedi cosa rischi, a venire con me?”. Aggiunse ancora: “Come saresti tornato a casa, se avessi dovuto ammazzare il vigile?”. Ora guardavo fuori dal finestrino la costa ligure. Stava facendo scuro. Rivedevo le fotografìe dei morti stesi sui mattoni di salita Santa Brigida, rivedevo altri cadaveri. E rivedevo il gesto noncurante – la mano che risaliva piano lungo il fianco – che avrebbe scatenato, quasi per nulla, per un fanalino incrinato, un'altra tragedia. Altri morti, altro sangue, nella cornice assurda del borgo rivierasco. Le nostre chiacchiere erano piacevoli, tutto andava per il verso giusto. Ma era una commedia, e non sarebbe durata molto. Fu l'ultima volta che lo vidi con l'automobile. “È troppo pericoloso” spiegò “nessuno di noi deve usarla più. Se succede qualcosa, non ci vuol niente a scoprire che abbiamo i documenti falsi. Cammineremo un po' di più... ti spiace?”. Vecchi e giovani Non abbiamo mai camminato molto, e le nostre monotone passeggiate hanno finito per limitarsi al lungomare di Recco (“Lo sai” disse una volta “che ci sono due o tre fascisti che vanno continuamente avanti e indietro per il paese, e vigilano... magari guardando che non ci siano brigatisti”. E la cosa lo divertiva molto). Sempre più rare, però, perché avevo presto esaurito la scorta delle notizie da raccontargli, e all'Università non succedeva più niente da tempo. C'era invece un “coordinamento operaio” autonomo, che si riuniva in un vecchio palazzo in fondo a via San Lorenzo. Sono andato due o tre volte, senza costrutto, ma ho conosciuto lì Francesco Lo Bianco, uno dei giovani arrabbiati dell'Ansaldo Meccanico Nucleare. Scoprii che anche il compagno sapeva chi era: me lo descrisse, un giorno, e mi incaricò di portarglielo, in corso Magenta, nel giardino del bareno che c'è all'arrivo della funicolare ad acqua di Portello. Non ho mai saputo se sono stato io o no a reclutare Lo Bianco: quando mi sono avvicinato a lui, alla fine della riunione, e gli ho detto piano: “Usciamo insieme, c'è un amico che ti vuole parlare”, mi ha seguito subito – quasi una cosa in stile mafioso — come fosse già informato di tutto. Abitava saltuariamente, da solo, in due stanze di una vecchia casetta vicina al cinema-teatro Alcione, all'inizio di via Canevari. Era il suo studio. Dipingeva grandi tele tristi e iettatorie: contadini scheletrici e bitorzoluti, gobbi sotto il peso di zappe e badili... e interni d'osteria popolati di corpi lunghi e disperati, abbandonati sulle sedie. A me non sembravano brutte, perché c'era dentro una cupa elegia per un mondo
contadino abitato da morti viventi, morto nella realtà, morto nel ricordo – lui, operaio di origine calabrese, non dipingeva operai, né fabbriche. Parlava in modo compresso, ellittico, e non era facile capirlo. Le parole uscivano dalle crepe d'una dura crosta di lava: dentro, bruciava. S'interruppe, una volta, mentre stava spiegando qualcosa sul contratto dei metalmeccanici, e mi appoggiò la mano sulla spalla: “Enrico” disse “c'è qualcosa che non potrete mai capire. Non siete stati in fabbrica... non sarete mai feroci”. C'era enfasi, ma neppure un filo di retorica in quel che diceva, e questo fuoco che si portava dentro segnava i suoi rapporti con gli altri, ch'egli attirava con la sua intelligenza e sconcertava con la sua disperazione. Ma non erano cose diverse, perché la sua intelligenza era la sua disperazione. Micaletto (sapevo ormai il nome del compagno, dopo averne riconosciuto il volto nelle fotografie che i giornali avevano pubblicato) non era così. La sua era una religione positiva, dispensatrice di certezze, che ruotavano attorno a un centro altrettanto positivo e certo: l'organizzazione delle Brigate Rosse, ch'egli sapeva totalizzare in sé in maniera pressoché perfetta. E in virtù di una diversissima eppur comune devozione a questo centro, andava d'accordo con Lo Bianco anche se non erano d'accordo su nulla, perché l'ottimismo dell'uno era l'esatto rovescio del pessimismo dell'altro. Ma, operai entrambi, avevano la stessa sensibilità nei confronti della vita di fabbrica, la stessa immediata, quasi animale reattività. Ero così abituato alla superficiale calma degli appuntamenti in riviera, che mi meravigliai quando Micaletto mi propose di andare la mattina seguente, con lui, a distribuire volantini attorno all'Italsider di Cornigliano. Lo fece con il suo consueto modo distaccato e sornione, ma, come al solito, era curioso: “Te la senti? Decidi liberamente, come vuoi...”. Non solo me la sentivo, ma ne ero contento. Finalmente avrei fatto qualcosa di concreto e, per quanto potevo immaginare, di abbastanza pericoloso. E così, forse, avrei visto più chiaro nei miei rapporti sia con l'organizzazione che con lui, dissipando quella strana atmosfera di sospensione, quell'indefinita cautela in cui – mi pareva – eravamo immersi. La mattina dopo faceva freddo, a Sampierdarena, e tirava un vento infame. Ho guardato l'orologio: le cinque e tre quarti. Ero all'uscita del sottopassaggio della stazione, là dove si sale per i treni del ponente, e guardavo su e giù per la strada che corre lungo il terrapieno della ferrovia, verso la piazza, da una parte, e verso l'Ansaldo dall'altra. Le lampade oscillavano sotto le raffiche e creavano misteriose prospettive nel buio, e nel fracasso del vento si sentiva il pesante rumore degli autobus che arrivavano da via Buranello e svoltavano per la piazza. Apparivano a tratti piccoli gruppi d'operai — due, tre per volta — che camminavano piegati in avanti, contro il vento, con i volti affondati nelle sciarpe e nei baveri, e con la borsa con il baracchino della colazione sotto il braccio. Passavano davanti alle luci del sottopassaggio e sparivano in fondo, verso la fabbrica. Entravano a migliaia, così, ma era quasi impossibile crederci. Parevano pochissimi: degli stanchi ritardatari che rientravano a casa, nella notte. Mi toccò il braccio dicendo: “Ehi, sveglia!”. Credevo d'essere attentissimo, e non l'avevo visto arrivare. “Su, andiamo, abbiamo un bel pezzo a piedi”. “Non era meglio vederci direttamente a Cornigliano?”. “Ma no, e poi non siamo soli a farci questa camminata”. Ci siamo avviati in silenzio, a testa avanti, come gli altri. In fondo alla strada abbiamo girato a destra, verso l'incrocio che porta al ponte di Cornigliano, infilandoci in un andito oscuro, una specie di piccolo porticato ostruito dalla massa rugginosa di alcuni cassoni metallici. Non ce lo dicevamo, ma la nostra tensione stava crescendo. Rallentando, Micaletto sbottonò il cappotto, in alto, e tirò fuori un fascicolo di volantini, non molti, forse un centinaio: “Toh, infilali sotto...”.
Nella fretta me ne cadde uno. Non c'era nessuno in vista, in quell'istante. Gli sussurrai: “Perché non ne lasciamo qualcuno? Anche in terra si vedono bene, e quelli dell'Ansaldo passano di qui”. Lo raccolse e mi guardò duro, accelerando il passo: “Certo che passano, così dopo due minuti quelli del PCI e del sindacato sanno che stamattina ci sono i nostri volantini qui in giro, e dopo tre lo sanno i guardiani, e dopo quattro tutta la vigilanza e i carabinieri... e dopo cinque minuti giusti ci stai tu qua attorno, a distribuire gli altri!”. “Ma l'Italsider è grande! quando saremo là, sarà lo stesso... . “Sicuro che sarà lo stesso, e perciò dovremo fare in fretta... . Intanto avevamo passato il ponte sul Polcevera, il posto più freddo di Genova. Ingobbiti, le mani in tasca, c'erano altri che ci precedevano e ci seguivano, a distanza. Dei disgraziati come noi. Senza parere, stavo invece attento alle automobili, ai loro fari improvvisi, al loro rallentare e al loro accelerare. Guardavo il compagno, e sentivo, insieme a lui, il pericolo, senza sapere quale forma avrebbe potuto assumere. Era ancora molto buio. Giù per via San Giovanni d'Acri c'era più movimento. E tutti aumentavano il passo e sparivano oltre gli archivolti della ferrovia, di là dai quali cominciavamo a vedere le luci della portineria. “Tu lasciane qualcuno là sotto. Io vedo di metterli qua attorno. Fai presto, ci vediamo qui tra un minuto”. Mi trovai da solo. Camminavo piano, guardandomi alle spalle. Il flusso degli operai era rado ma continuo. Come s'avvicinavano, mi pareva che mi guardassero e indovinassero tutto. Mi sorpassavano, all'ingresso del breve e oscuro tunnel, e per i pochi scalini della portineria entravano nello stanzone occupato dalle grandi scaffalature dei cartellini che vedevo oltre i vetri appena appannati, sotto la luce del neon. Non sapevo come fare, aspettavo... Qualche automobile manovrava nel piazzale, e le nere sagome di chi s'avvicinava, in controluce, ritagliate contro il rapido movimento dei fari, diventavano enormi. Un gruppetto, e poi uno solo, e poi altri due... Il momento giusto non sarebbe mai arrivato, dovevo decidermi e basta. Davanti alla porta, alle spalle degli ultimi entrati, ho ruttato una decina di fogli, e sono tornato indietro, con il cuore che batteva forte. Mi pareva che ci fosse qualcosa di assurdo, di pazzesco nella totale indifferenza e nella totale consapevolezza di quelli che mi venivano incontro, a testa bassa, con l'aria stanca e ottusa di chi non ha voglia di accorgersi di nulla. Sul piazzale ho voltato rapidamente verso le case, sulla destra, protetto da una fila di automobili e camioncini. Il compagno m'aspettava più su, impaziente. “Ci sei stato troppo. Guarda che nessuno ti bada. Svelto e tranquillo...”. Ora camminavamo più svelti, quasi di corsa. Abbiamo risalito la via e, in cima, ci siamo infilati nella stretta strada a destra, via Muratori, quella che passa davanti al palazzo degli uffici e al circolo aziendale e porta, dopo il cavalcavia sulla fabbrica, all'ingresso della cokeria. In fondo, c'è la breve rampa che risale al ponte sul Polcevera. Micaletto s'è curvato una volta o due, lasciando a terra pochi volantini che il vento cacciava subito qua e là, tra immondizie e cartacce. Sul cavalcavia, li abbiamo buttati di sotto, e si sono subito allargati nell'aria e sono volati via... era una soddisfazione vederli andare così, dappertutto. Giù, ci siamo ancora divisi. Stavo per lasciar cadere gli ultimi rimasti quando dalla cancellata, dalla parte della portineria, ho visto sporgere un braccio, che mi faceva segno d'avvicinarmi. D'impulso glieli ho allungati tutti. Era un giovane, e dietro di lui ce n'era un altro. Li ha presi, mi ha fatto un silenzioso cenno di saluto, e tutti e due sono spariti dietro i mucchi di ferraglia, verso gli impianti. Ancora emozionato per quel che avevo fatto, mi sono fermato un attimo, guardandomi attorno. C'erano pochi operai che se ne venivano avanti piano, dal cavalcavia. Micaletto mi raggiunse e accennò con la testa dall'altra parte: c'era una macchina ferma, con le mezze luci, a metà della rampa per la quale dovevamo
salire per andarcene. Lampeggiò due volte, fece retromarcia e si piazzò in alto, all'incrocio con la strada principale. Non capivamo. “Ci passiamo davanti?”. “No... meglio di no”. “Allora, torniamo indietro?”. “Dove abbiamo seminato i volantini?”. Comparso anche lui da chissà dove, era vicino a noi un operaio. Basso, con il giaccone di panno scuro, il berretto con la visiera e i paraorecchie, dimostrava cinquantanni. Ci guardava. Con un marcato accento genovese disse: “Per di là”, e s'avviò per primo nel lungo nero passaggio sotto via Cornigliano, che s'apriva alla base della rampa. Sulla testa ci opprimeva il rumore del traffico. Non sapevo dove saremmo sbucati. Subito fuori, usciva un po' di luce dalle vetrine sporche di un bar pieno di fumo e di gente. Ma nello slargo, quasi tutto ostruito da enormi camion, non c'era nessuno. Si fermò, e prima di entrare nel bar accennò più avanti, all'angolo oltre il caseggiato. Mosse la mano come per spingerci via, e aggiunse in genovese: “Anè, anè, e lasciène quetà...”. Là, tra due alti muri, si apriva a sorpresa un passaggio male illuminato che girava attorno alla casa. Era stretto e, voltando ancora, finiva contro una scaletta di ferro. Sotto i piedi scricchiolava una polvere grossa, spessa, che faceva accapponare la pelle. In cima, di là dal parapetto, siamo emersi con cautela sulla strada. Era tutto come prima. Solo, una debolissima luce grigiastra cominciava a dare rilievo alle cose. Una gazzella dei carabinieri passò veloce, e ne seguimmo le lampeggianti luci blu che sparivano verso Sestri. Micaletto era sempre più silenzioso. Ma sui marciapiedi la gente sembrava già un po' diversa. Qualche negozio era aperto. Mi ha preso l'allegria, e la voglia di fare colazione: cappuccino e focaccia. Quindici giorni dopo, alle dieci di mattina, le vie del centro erano occupate dai cortei dei metalmeccanici in sciopero, che convergevano verso piazza De Ferrari per il comizio. In via Cairoli mi sono aggregato anch'io. Poco più in là ho visto Lo Bianco. Ci siamo abbracciati, e abbiamo continuato la strada insieme. Avevo in testa, dalla mattina del volantinaggio, un po' di confusione, un po' di cose che non riuscivo a sistemare. Il pericolo, per cominciare. Sotto certi aspetti distribuire volantini poteva essere più pericoloso di un'azione di ferimento, addirittura di un omicidio – dopo tre minuti ti eri già sganciato, eri chissà dove. Ma poiché nessun pericolo si era concretizzato, la faccenda era stata assurdamente facile, quasi irrilevante. In una nera mattina di vento avevamo lasciato dei volantini qua e là. E allora? Qualcuno li aveva presi, ma non sapevamo cosa ne avrebbe fatto. Qualche altro ci aveva detto: “Lasciateci in pace...”. Nei due casi, eravamo rimasti fuori, a vedere. Avevamo battuto il naso contro la nostra impotenza. Lo Bianco era avvolto dalle mie domande, dalla mia voglia di parlare. Ma rispondeva in modo curioso, quasi fosse sdoppiato, metà di là dalla cancellata, con i compagni insieme ai quali scioperava, e metà di qua, con me. E la metà di qua non pareva sapere molto di quella di là. “Al Meccanico stanno ristrutturando da cima a fondo, per il nucleare, e nessuno ci può far niente... ristrutturano e basta. Non c'è niente da fare”. Dei volantini non parlò affatto. Non se ne curava. “L'unica cosa è il sabotaggio. Spaccargli tutto. Devono fare i conti con noi operai, e tutti lo devono sapere”. Eravamo quasi arrivati a De Ferrari. Gli occhi di tutti erano rivolti alla piazza. Ho preso Lo Bianco sotto braccio e gli ho domandato: “Ma noi abbiamo sempre condannato il sabotaggio. Alla Lancia...”. “Sì, ma il sabotaggio della produzione, la distruzione della merce. Io dico invece dentro, sulle linee... un sabotaggio nuovo, una cosa nuova da studiare bene, fatta da noi, per avere più potere noi... Lo so che non siamo tutti d'accordo, ma fra un po' in fabbrica non c'è più niente di uguale a prima, e noi l'abbiamo
in culo. O spacchiamo tutto adesso, o chiudiamo”. Si cambia Nell'autunno del '77, a metà ottobre, Micaletto s'è congedato. C'erano state le vacanze: poi, un incontro rapido e vuoto. Ci siamo visti ancora, e bruscamente – eravamo a Chiavari, stavolta, nei giardini davanti alla stazione – mi ha comunicato che se ne sarebbe andato, che non l'avrei più visto. “Ma tu, te la senti di continuare?”. “Sì”. “Non sarà come con me. Cambierà tutto, dovrai darti da fare...”. Dieci giorni dopo, a Recco, mi ha presentato al nuovo compagno, Valentino. Molto più tardi, forse in prigione, ho saputo il nome vero, Luca Nicolotti. Era diverso da “Lucio” Micaletto: magro e gesticolante quanto l'altro era pesante e placido. Camminava con il busto piegato in avanti, a grandi passi, con aria perennemente affaccendata, zelante. E il suo modo di parlare corrispondeva ai suoi gesti. Non mostrò molta curiosità nei miei confronti. Piuttosto, come se continuasse un colloquio cominciato in mia assenza, si volgeva a Micaletto il quale assentiva e commentava brevemente, con distacco. Nessuno gliel'aveva certo insegnato, a quei due, eppure sapevano mettere perfettamente in scena, con minuziosa sincronia, davanti a me, l'importanza di quel che rappresentavano: l'organizzazione. La quale solo ora mi si presentava per così dire al plurale, non come individuo ma come organismo, e si faceva forte del suo proprio mistero, che non potevo non percepire attraverso le loro allusioni e le loro complicità. Ma a questa realtà in gran parte sconosciuta mi si chiedeva ora di rimettere tutto me stesso. Sino a quel punto non era stato così. E se il passaggio appariva scontato, specialmente nelle parole e negli atteggiamenti dei due che ormai disponevano con naturalezza di me, era vero invece che niente era di per sé scontato e naturale. C'era un salto, una foratura, e per motivi diversi sia io che loro facevamo fìnta di non vederlo. Questo angolo morto non era propriamente, ancora, una riserva mentale, ma avrebbe potuto diventarlo – era una sottile crepa, un'adesione non perfetta a se stessi, un vedersi agire. Ma c'era allora una parola magica che pareva assorbire ogni problema, far tacere ogni dubbio: clandestinità. Lucio e Valentino erano clandestini. Non avevano casa, famiglia, lavoro... abitavano le basi, invece, vivevano braccati, mantenevano rapporti con il mondo attraverso me e altri come me. Loro erano l'organizzazione, perché solo loro ne impersonavano totalmente lo spirito, l'essenza. E facevano pesare questa loro qualità, in ogni rapporto. Erano “regolari”, e io ero “irregolare”. Avevo lavoro, casa, famiglia, e a tutto questo tornavo appena staccavo dall'appuntamento. Essi no. Incontravano altri, secondo l'ordine scritto nelle loro misteriose agendine, nei bar, davanti alle stazioni, nelle passeggiate sul mare, nei parchi pubblici, alle fermate degli autobus, e quando avevano finito si ritiravano entro un guscio impenetrabile e provvisorio, una pura struttura di sopravvivenza. Lì passavano la notte, e il mattino seguente ricominciavano. Parlavano da una distanza infinita: avevano lasciato tutto, vedevano tutto, non potevano sbagliare. La folle vita che facevano garantiva per loro, e io sentivo la mia, sotto i loro occhi, come fosse sulla lastra del microscopio. Micaletto, quando ebbe i pantaloni troppo sporchi e scuciti, entrò nel primo supermercato, lasciò i vecchi e uscì con i nuovi. Fece lo stesso con le scarpe sfondate. Una cosa per volta, una dietro l'altra, in linea retta, senza anse, ingorghi, spessori... la sua giornata era così, una strada diritta, a senso unico. Era così anche per Valentino? Avrei giurato di sì. Beveva il caffè in modo concitato, e parlava di operai e fabbriche, del sindacato e del PCI. Nonostante la stagione la temperatura era ancora mite, ma ai tavolini del bar eravamo soli, nella brutta piazza circondata dagli edifìci color cemento costruiti in fretta nel dopoguerra. Due o tre volte sono stato per intervenire e dirgli: “Parla più piano”. Non l'ho fatto, preso non tanto dalle sue parole quanto dal loro strano effetto in quel luogo semideserto, attraversato ogni tanto da qualche passante. Non lui doveva adattarsi, infatti, perché
era la grigia e calma giornata che già s'adattava alle sue parole, e la piccola piazza e il porticato vuoto e la gente che svicolava silenziosa, lasciandoci soli al centro di tutto, risucchiati attorno all'orbita rotonda del tavolino di plastica. Valentino parlava, e avremmo potuto benissimo essere soli al mondo, lontanissimi. Io ascoltavo, e guardavo qua e là, di sfuggita, senza vedere niente di importante, e mi pareva inevitabile e persino giusto che fossero loro a decidere di me. Lui intanto sfogliava un quaderno fìtto d'appunti, e quel che diceva appariva verisimile e documentato. ”...l'Italsider di Cornigliano, che è in crisi e deve ammodernare gli impianti. Cominceranno con la colata continua, mettendo gli OBM al posto dei vecchi Martin-Siemens...”. Spiegava come il carattere strategico del settore nucleare comportasse la militarizzazione non solo della fabbrica, ma anche del territorio circostante, vigilato da servizi di sicurezza di tipo nuovo, niente a che fare con i vecchi guardioni di stabilimento: “Se li lasciamo fare, il proletariato avrà perso, nella fabbrica e nel quartiere. Dobbiamo rompere questo accerchiamento, difendere almeno la speranza della rivoluzione, visto che la rivoluzione non c'è ancora...”. Guardava anche lui Micaletto, ogni tanto, che stava seduto comodo, le mani intrecciate sul ventre, attento ma pure appena impaziente, in attesa. Parlava e io ascoltavo con attenzione. Ma una parte di me inseguiva un altro ordine di pensieri. È vero, c'era qualcosa di ridicolo e forzato in quel chiedere ogni tanto quale posto io avessi nell'organizzazione. E sapevo già, per conto mio, che l'avvocato Arnaldi, che un po' per volta era diventato il difensore di fiducia di tutte le Brigate Rosse in carcere, viveva con vera sofferenza questo stesso problema. “Enrico, quelli ci sfruttano e poi non ci considerano neppure dei loro”. Ma la domanda era un'altra, che stava diventando sempre più urgente, ineludibile: che ci sto a fare io, qui, e perché? Guardando Lucio e Valentino che con tanta serietà e determinazione facevano il loro lavoro, non potevo nascondermi né l'importanza anche formale dell'incontro – con due clandestini con le Brigate Rosse – né la rottura traumatica, lo sconquasso che esso avrebbe provocato nella mia vita. Ero affacciato su una voragine, mi ci stavo buttando dentro... Perché? Ma forse non era neppure questa la domanda giusta: la risposta tanto vera quanto scontata sarebbe stata che lo facevo perché volevo combattere per un mondo migliore, una società diversa perché credevo nella rivoluzione... Non sarebbe stato difficile continuare... ma no, tutto ciò era vero, ma ancora generico: valeva per me e per molti altri, non per me solo, lì, davanti a quei due, pronto a seguirli lungo una strada intrisa di sangue. Perché proprio con loro? Perché in quel modo? Perché con tanta spietatezza verso chi mi amava? Perché, prima di tutto, c'erano loro, in carne e ossa. Non esisteva, forse, altra spiegazione. Anche l'ideale più forte ha bisogno di incarnarsi per essere amato, per suscitare dedizione. Lo sentivo. E sentivo soprattutto questo: che volevo essere tutt'uno con la funzione che mi sarebbe stata assegnata. Era il mio modo di ribellarmi al ruolo dell'intellettuale? Non lo so, probabilmente no, ma era così. La lotta armata non l'avevo cominciata io; le Brigate Rosse non le avevo fondate io. Questo era il punto decisivo, per me. Ed erano lì, davanti a me, e mi pareva giusto e morale deporre ogni petulanza, ogni presunzione, e accettare e condividere, semplicemente. Lucio e Valentino non erano simboli, non erano modelli, ma persone reali, forse neppure particolarmente buone e intelligenti, chi lo sa? ma erano reali, appunto, e segnate dal destino che si erano scelto: un destino orribile, pieno di colpe – questo l'ho avvertito, sempre – ma un destino scritto con lettere di fuoco nella storia della loro classe. Chi ero io, per distinguere l'idealista dal criminale, l'innocente dal violento, il bene dal male, e per scegliere il meglio, e dunque per non scegliere, per ritirarmi, per lasciarli soli? Per me era fondamentale – politicamente e personalmente fondamentale — accettare tutto, perché già l'avevano accettato loro. Tutto qui. Questa era la forma concreta, possibile, del mio essere comunista. Ero pronto a qualsiasi cosa, se me l'avessero chiesta. Questo era il senso della mia adesione alle Brigate Rosse e per questo non ero mai riuscito a partecipare negli anni precedenti ad alcun gruppo, da Lotta
Continua ad Avanguardia Operaia, dal Manifesto a Lotta Comunista. Non riuscivo a concepirla diversamente. Fossi stato un operaio, avrei forse discusso di più, avrei preteso di più. Avrei anche avuto molti problemi in più. Non lo ero, e dunque dei miei problemi mi spogliavo, e deponevo le chiacchiere e le pretese. Mi facevo sordo e muto verso tutto ciò che non venisse da Lucio e Valentino, perché nel bene e nel male – ma soprattutto nel male, perché era solo lì che si sarebbe potuto misurare la mia solidarietà – volevo essere come loro e con loro. Glielo dovevo. Ascoltavo, e accettavo la gelida disumanità che quelle parole annunciavano, la freddezza ostentata, il pudore... accettavo e recitavo la mia parte, così come Lucio e Valentino, chiusi nella loro corazza, recitavano la loro. “Non possiamo girarci intorno. Se non riusciamo in qualche modo a mettere il PCI in crisi con la sua base operaia e a entrare nelle grandi fabbriche, qui possiamo pure chiudere bottega e andarcene. Questo scontro non possiamo evitarlo...”. Era Micaletto che s'era intromesso. Valentino ha esitato, prima di riprendere il filo del suo lungo discorso, come se aspettasse ancora qualcosa. Ma l'altro pareva ora concentrato sul sorso d'acqua che stava bevendo. Quando ha posato il bicchiere si è alzato pesantemente spostando indietro la sedia e curvandosi sul tavolo, verso di noi. Mi ha sorriso e ha detto: “Devo andare. Ti dirà lui il resto. Chissà se ci vedremo ancora... ciao”. C'era una nota nuova di imbarazzo nel suo saluto, un leggero disagio venato d'affetto. Siamo rimasti in silenzio finché non è scomparso dietro l'angolo. Ho capito che eravamo vicini alla fine, e che ci sarebbe stata qualche sorpresa. Ha allontanato da sé il piattino e la tazzina, ed è rimasto un attimo con gli occhi bassi. Quando li ha alzati su di me, aveva deciso. “Sei d'accordo con quel che dice Lucio?”. “Sì”. “Ma tu che faresti?”. “Non lo so... so però che un sacco di gente è tornata con il partito, anche se magari non vuole sentirselo dire”. “Già... lo sai che il partito, in fabbrica, sta facendo gli elenchi di quelli che potrebbero stare con noi? Anche dei vecchi partigiani... E chi lo aiuta, chi gli dà i nomi nuovi, se non quelli dei gruppi? Lo sapevi?”. “No, ma posso immaginarlo. Se vogliono far carriera nel sindacato, dovranno pure pagare qualcosa... noi gli possiamo tornare comodi”. “Non è solo questo. E che cominciano ad avere paura. Tutti hanno paura di noi...”. Rimase ancora un momento in silenzio. Poi continuò: “Il bello è che si preparano, e noi non ci siamo ancora. Hanno già messo le reti, per prenderci appena arriveremo. Che te ne pare?”. “Ma voi che fate?”. “Perché fate? Tu credi di non fare? Dobbiamo dare una bella scossa agli operai, che comincino a stare dalla nostra parte, finalmente. Che abbiano chiaro dove sta il partito e dove stiamo noi, dove sta il tradimento e dove la rivoluzione... . “Sono parole...”. “Infatti. Ma il cervello principale della ristrutturazione, all'Ansaldo, è anche un pezzo grosso del PCI. Gli spareremo alle gambe. L'inchiesta è già fatta, non te ne devi preoccupare. Già, perché ci sarai anche tu... l'avevi capito?”. “Non proprio”. “Saremo in quattro: il nucleo lo dirigerò io. Per ora non pensarci. Ci vediamo la prossima settimana, e allora ne discuteremo. Intanto vedi di rilassarti e di digerire la notizia. Non lo faccio sempre, di dirlo con tanto anticipo”. Sono andato a pagare con il cuore in gola. Non riuscivo a sentire più nulla, e del resto non c'era più
molto da dire. Ci siamo avviati verso il grande ponte della ferrovia, dov'è la fermata delle corriere. Il posto non m'era mai sembrato così astratto. Ma Valentino mi guardava in modo diverso, ora, più curioso, quasi amichevole: “Non prendertela, su, professore. A sentir Lucio sei dei nostri, e qualcosa la devi fare anche tu, come tutti... Un dirigente del PCI! Te l'immagini, che casino che succederà? Pensa in fabbrica, dove gli operai stanno scioperando contro la ristrutturazione... Senti, ora dobbiamo lasciarci. Martedì alle tre, al bar Marinella, sulla passeggiata di Nervi. Va bene? Stai tranquillo, mi raccomando. Devo correre, ciao, ciao...”. Un reclutamento: Francesco Berardi Sabato 19 novembre 1977 il quotidiano di Genova, il “Secolo XIX”, pubblicava in prima pagina il grande identikit di uno dei terroristi che due sere prima avevano gravemente ferito l'ingegner Castellano, davanti a casa sua, in via Corsica: era l'immagine d'un uomo quasi calvo, dall'apparente età di trentacinque, quarant'anni, senza barba e baffi. Mi assomigliava moltissimo. L'ho visto subito, esposto dal giornalaio in fondo a via Prè: ne ho comperato una copia e sono rientrato. Attraverso i vetri delle due grandi finestre della facciata ho guardato giù, nella piazzetta aperta tra le ferite dei vecchi palazzi del Cinquecento orlate di erbacce e di immondizie. In quel momento non c'era nessuno, nessuno davanti all'osteria, nessuno sotto casa, nel vicolo. Avevo la pelle del viso che bruciava, forse un po' di febbre. Non mi decidevo ad aprire il giornale, a guardarlo... C'era mio fratello, al telefono. Con voce spaventata mi diceva di aver visto l'identikit che mi assomigliava troppo, e d'aver nascosto il giornale, “per la mamma, sai, che non lo veda... oggi è a pranzo da noi”. Non sapeva nulla e non mi chiedeva nulla. Né mi chiedeva nulla Isabella che rientrava, pallida, proprio mentre mi staccavo dal telefono, con il giornale in mano. E dovevo correre via: Valentino m'aspettava. Sono tornato giù, nel vicolo, e poi verso la piazza. Mi pareva che tutti mi guardassero, e avevo la testa confusa. Non avevo paura, ma a ogni passo che facevo, gli occhi a terra, sulle connessioni del selciato, sentivo che non potevo pensare a nulla perché, a ogni istante, avrebbe potuto succedermi qualsiasi cosa. Verso la fermata dell'autobus ho incrociato un giovane collega, candido e appassionato. Aveva anche lui il giornale sottobraccio. Mi ha fermato, parlando piano: “Enrico, hai visto cosa ti hanno combinato? È una vergogna, uno scandalo... vogliono criminalizzare il movimento. Che cosa possiamo fare?”. D'impulso avrei gridato, gli avrei dato un pugno sul naso. Mi sono stretto nelle spalle, con un tirato sorriso di complicità. L'autobus mi ha salvato. Sono rimasto in piedi, quasi addosso al conducente, e guardavo avanti: avevo inclinato la testa contro il braccio destro, con il quale mi aggrappavo all'alto corrimano. Così mi sentivo al riparo. Nessuno poteva vedermi in faccia. Era una sensazione strana: di nuovo, priva di paura, ma segnata invece dal suo limite, dalla sua finitezza. Come se viaggiassi, sull'autobus affollato, dentro uno scafandro, o sotto una campana di vetro. Chiuso, autosufficiente. Ero sempre stato meticoloso: qui le chiavi, là la penna, e il taccuino, il portafoglio, il fazzoletto, gli spiccioli... e ora questa domestica e banale compiutezza definiva una situazione nuova: uscivo di casa e avevo tutto con me – me lo sentivo addosso, quel che mi serviva — ed ero pronto. A tornare come a partire. La mia vita era tutta con me, nella giacca, nelle tasche, nelle poche cose utili che mi portavo appresso. Avevo partecipato a un ferimento, un uomo era caduto sotto i colpi appena due sere prima, e già muovevo me stesso nello spazio e nel tempo con astratta freddezza, proprio come avevo visto fare a Micaletto. Come lui, portavo in giro, tra gli altri, la stessa velenosa perfezione dell'io. Al molo di Vernazzola, in fondo a via Chighizola, ero in anticipo. Non potevo star fermo, e sono
salito per la stradina che ridiscende, poi, verso la spiaggia di Sturla, tra alti muri e piccoli angoli segreti. Come tante viuzze di Genova, che stanno sempre dietro qualcosa: dietro le case, dietro i giardini, dietro il mare. Ho camminato avanti e indietro, in quel breve labirinto, per stancarmi. E ho visto allora due ragazzi – ma poco prima non c'erano, l'avrei giurato – in una piccola rientranza, quasi un cortile interno, presso un gran vaso di coccio dal quale usciva una pianta lunga e stenta. Uno, alto e magro, stava con la faccia al muro, le spalle curve e i capelli lunghi, sfilacciati sul collo d'una giacca di panno blu. L'altro, più piccolo, lo guardava e gli parlava con un'aria tenera e insistente, fìtto fìtto, agitando in continuazione le mani e la testa. Il magro non dava alcun segno di sentirlo: ma le sue lunghe braccia si alzarono lentamente contro il muro, con fatica infinita, e si puntellarono alla parete, in alto, quasi a impedire all'altissima facciata cieca della casa di rovinargli addosso, quasi ad aggrapparsi egli stesso per non precipitare nell'incubo di quel pozzo rovesciato, con il lontano riquadro grigio del cielo là in fondo. Piegò ancor più le spalle, la testa buttata avanti, e lo strazio lo scosse per tutto il lungo corpo. Vomitava. Dall'intestino, dallo stomaco, dalla pancia, dalle budella, dal cuore, dalla gola vomitava l'anima sua a singulti violenti e dolorosi. Tremava, e il piccoletto continuava ad avvolgerlo di parole tenere, a circondarlo di rapidi gesti senza osar di toccarlo. Andandosene, mi sono passati davanti senza vedermi, e ho sentito l'acido odore del vomito e ho visto le lacrime negli occhi del piccoletto che continuava a parlare e a gesticolare a niente e a nessuno. Ho mosso qualche passo nella loro direzione ma mi sono fermato subito. Ho appoggiato anch'io la testa al muro e ho sentito il freddo della pietra, e sono caduto giù, giù... Sono arrivato al molo di Vernazzola spossato, con gli occhi lucidi. Valentino m'aspettava con aria tetra. Si sarebbe dovuto parlare dell'azione compiuta, analizzandola con distacco e lucidità. Invece m'ha detto subito: “Hai visto il giornale?”. Era in difficoltà, e mi guardava storto. Il problema nudo e crudo era questo: in via Corsica, due sere prima, non c'era nessuno con quella faccia, proprio nessuno. Io ero super-truccato: parrucca scura con i capelli lunghi, e barba e baffi neri. Era impossibile in ogni caso riconoscermi, e per di più era buio. E lo stesso valeva per gli altri. Da dove era venuta fuori la faccia che il “Secolo XIX” pubblicava? E perché proprio quella? Che gli inquirenti sapessero qualcosa di me, e tentassero un esperimento, una provocazione? Non ci capivo niente, e Valentino, che mi pareva imbarazzato e reticente, non m'aiutava. La sua spiegazione era incredibile, ed era infatti evidente che lui per primo non ci credeva. L'identikit si sarebbe riferito a un brigatista noto, uno dei fondatori, Lauro Azzolini: “Non gli assomiglia, ma volevano fare lui. Sanno che è uno dei dirigenti, lo cercano dappertutto, e qualsiasi cosa succeda ormai gliela tirano...”. “Sei sicuro?”. “È così, non ti preoccupare, con gli identikit non hanno mai individuato nessuno. Per la gente sono tutti uguali, e domani chi se ne ricorda più?”. Era inutile discutere. A parte che qualcuno mi aveva riconosciuto, e bene, continuava a sembrarmi che l'unica ipotesi possibile fosse quella di un tentativo alla cieca di polizia e carabinieri, convinti comunque di colpire giusto. E Valentino invece la eludeva, e dava risposte vaghe, per niente convincenti. Ma quel che mi toccava nell'intimo era che neppure lui poteva pensarla diversamente. Perché sennò sarebbe stato così turbato e quasi irritato di vedermi? Aveva qualcosa per la testa, e non sapevo cosa: forse aveva dei guai perché l'azione che aveva diretto era stata segnata da una serie di confusioni ed errori? Aveva forse paura? Nella mia vicenda, questo è rimasto un particolare irrisolto. Non solo per Valentino. Non ho mai saputo, neppure in seguito, come si fosse arrivati a quell'identikit. La mia ipotesi non ha avuto che smentite: a quella data nessuno sospettava di me, e in ogni caso un'iniziativa simile sarebbe stata per troppi versi macchinosa e sproporzionata. Allora? Ripeto che non lo so. Forse si è trattato davvero di un caso, ma resta che questo mio piccolo personale mistero non ho mai potuto risolvere.
Non avevamo ancora parlato veramente di nulla e già ci lasciavamo. Siamo risaliti verso Sturla e verso gli autobus. Lui camminava nel suo solito modo, con il busto in avanti, a passi lunghi. E io gli tenevo dietro e pensavo: “Ha fretta di liberarsi di me, ha paura... e non può ammettere che sia così, altrimenti dovrebbero prendersi, lui e le Brigate Rosse, le loro responsabilità. Dovrebbero aiutarmi, se davvero sono sospettato, farmi scappare, darmi dei soldi, i documenti... Ha paura. Ha paura”. Stringevo le labbra e camminavo dietro al compagno che non aveva niente da dirmi: “La verità è che di colpo gli sono di peso, non sanno bene come metterla, con me. Scommetto che si farà vedere molto meno, d'ora in poi”. Ma era da lui cambiare, al momento dei saluti, e assumere un tono cordiale e spicciativo. “Ma ci stai ancora pensando? Piantala... non è niente, vedrai”. “Non ci penso, non ci penso. Ma non vedo l'ora che sia domani, che quella maledetta faccia sia sparita dai giornali”. Il giorno dopo ho fatto lezione. A mezzogiorno sono uscito dall'aula, nell'atrio oscuro di palazzo Raggio. C'era l'ingegner Zanelli, il marito di una collega. L'aspettava, e parlava con uno che non conoscevo. Si sono salutati e si è rivolto a me. Ci eravamo incontrati una volta o due: forse pensava che avessi sentito le loro ultime parole. Alto e gentile, si è rivolto a me con una lieve ombra di esitazione, un nobile impaccio: “Dicevamo di Carlo... di Carlo Castellano. Lo conosco, ho sofferto molto per quello che gli è successo. È terribile... per me, per altri amici, è un modello, un esempio. Quello che sta facendo con successo all'Ansaldo, darei non so cosa per poterlo fare all'Italsider... ma è impossibile, ci sono troppe resistenze, troppe incrostazioni. Finirà che me ne andrò... è molto bravo, se l'industria di Stato si salverà, sarà per persone come lui... sì, io lavoro nella società dell'Italsider che commercializza i prodotti siderurgici, sono sempre in giro per il mondo. Sono soprattutto un esperto di tubi, lei lo sapeva?”. Scuoteva la testa, e tornava al punto: “Carlo è davvero un uomo di valore, sta facendo cose importanti...”. Era la testimonianza accorata e sincera di un professionista serio, e di una persona integra. Questo riuscivo a capirlo, e mi feriva la semplice umanità delle sue parole, le più intense, nel ricordo, che abbia sentito pronunciare su Carlo Castellano. Ma mentre scendevo da solo per via Balbi non potevo nascondermi che tra noi si era spalancato un abisso, e che la momentanea schizofrenica solidarietà con l'ingegnere non bastava a colmarlo. Chi c'era con me, dalla parte mia? Le Brigate Rosse, e chi altro? Ma anche le Brigate Rosse... rivedevo Valentino irritato e sfuggente, e però riuscivo immediatamente a cancellare la spietata doppiezza dell'organizzazione. E prendevo la via opposta. Il groppo delle mie contraddizioni, quelle che conoscevo e quelle che non conoscevo, non faceva che incarognirmi sempre di più. Non avevo conosciuto e non avevo odiato l'ingegner Castellano ma ora, dopo aver appena intravisto qualcosa di lui, la mia falsa coscienza inventava l'odio che non aveva avuto. Il male che avevo fatto mi corrompeva, e ritorcevo sulla vittima la mia rancorosa insufficienza, il dispetto... L'azione non era più un teorema politico e diventava, oscuramente, un'irrazionale volontà di ferire, di distruggere. Una reazione viscerale, un modo degenerato di perpetuare il linguaggio e la morale di quella sinistra che non poteva tollerare che si sovvertissero le sue canoniche opposizioni tra valori e disvalori, tra amici e nemici, perché non ne uscisse sfigurato il senso della sua lotta e il suo stesso significato storico. M'incarognivo, perché non sapevo come difendere altrimenti la mia presunzione d'onniscienza. Io e le Brigate Rosse sapevamo tutto, capivamo tutto. La nostra pratica era la semplice estensione della nostra capacità di comprendere il movimento delle cose, la loro direzione. Gli altri, gli ingegneri, erano delle merde, dei traditori, dei venduti. Ma questa fredda esaltazione non mi dava gioia: era una febbre, una malattia. E per di più ero solo. Come avevo previsto, gli appuntamenti diventarono più rari, quasi che aver partecipato al ferimento avesse segnato un punto di arrivo, oltre il quale c'era il vuoto di una lunga caduta.
“Qui sei troppo conosciuto” disse una volta il compagno “e farti diventare clandestino è difficile, per te e per noi. Te ne rendi conto, no?”. Ed era anche vero che tra le Brigate Rosse e la gente: erano ormai troppi morti. Quando si è ammazzato, non si possono avere che strani rapporti con i complici: a tutti gli altri ci si deve nascondere. Che serviva dunque che io incontrassi Valentino, quando non restava più nulla che tenesse insieme la mia vita normale con quella segreta? Le chiacchiere sull'Università avevano perso da tempo ogni interesse; i giovani dell'autonomia, nella scolorita versione genovese, erano paralizzati dal timore di avere un brigatista nelle loro file e sopravvivevano con angoscia di riunione in riunione; nelle fabbriche... ecco, che avveniva nelle fabbriche? Quello era il grande continente sconosciuto, e la meta finale di tutti i nostri andirivieni. Con Valentino si finiva sempre lì, e toccava a me starlo a sentire mentre tirava fuori i suoi dati sulla ristrutturazione e tormentosamente cercava di mettere a fuoco un programma che gli permettesse d'entrarci, in quel continente desiderato e irraggiungibile. Nelle sue parole l'attentato a Carlo Castellano sembrava aver assunto un valore esemplare: “Abbiamo fatto vedere a tutti come si fa a colpire il PCI”, ma di sicuro non aveva aperto alle Brigate Rosse le porte della fabbrica. Al contrario. All'Ansaldo non c'era più niente da fare, era terra bruciata. I giovani operai arrabbiati di qualche anno prima erano spariti, e attraverso le parole di Valentino potevo solo cogliere la lontana eco della disperazione di Lo Bianco, la sua feroce dedizione alla sconfìtta. La ristrutturazione andava avanti, e il compagno ne parlava con rispetto, talvolta con inconsapevole ammirazione. Ascoltandolo mi veniva in mente Faina, quando ripeteva acido che l'uomo che più di ogni altro aveva ammirato e amato la grande fabbrica era stato appunto Marx... C'era un fondo frustrato di positivismo ingegneresco nei brigatisti che ho conosciuto a Genova, che li rendeva assolutamente diversi dagli altri esponenti del movimento e li faceva seri e pedanti, adatti forse a cogliere meglio alcuni nodi della ristrutturazione in atto, ma ciechi e sordi alla dimensione complessiva del mutamento, alla vita vera che vi correva dentro, ai colori nuovi del dramma sociale. Sto usando la terza persona: loro, non noi. C'è una ragione: su questi punti non sono mai stato in sintonia. Non avevo niente di meglio da opporre, ma davanti ai suoi dati la mia partecipazione perdeva quelli che Valentino avrebbe definito i caratteri di classe, e assumeva invece una natura più esistenziale, fondata sul disagio personale, sull'insofferenza, e persino su forme elementari di rivalsa: “Non si vive di solo pane. Ed è una soddisfazione sapere che chi comanda e ruba e sfrutta oggi ha paura, anche lui... Che non gli vada proprio tutto per il verso giusto, che paghi almeno questo, la paura...”. Non solo questo, naturalmente, perché tutte le mie idiosincrasie e tensioni andavano a stagliarsi contro lo schermo gigantesco d'un processo di agonia e di morte: il mondo capitalistico era un dinosauro morente che vibrava all'impazzata i suoi colpi di coda, distruggendo vite e ricchezze, minacciando guerre e cataclismi. Lo si poteva uccidere più in fretta? Non so ancora se questa immaginosa metafora fosse irrimediabilmente falsa: probabilmente lo si potrà dire a cose fatte, alla fine d'un percorso che sovrasta di troppo la nostra debole percezione. Ma quando questo percorso sarà compiuto, forse non ci saranno più uomini per raccontarlo. Intanto, deducevo da questa apocalittica campitura la necessità minuziosa e concreta della lotta armata, ed era – l'idea di questa necessità – un altro di quegli inverosimili fantasmi dei quali ci si innamora, quasi fossero persone. Vedevo poco Valentino, e credevo di sentir crescere il sospetto attorno a me. Il 18 gennaio '78 era ferito nel suo studio il professor Filippo Peschiera, esponente della DC genovese; il 7 aprile Felice Schiavetti, presidente degli industriali della Liguria; il 4 maggio il funzionario dell'Italsider, Alfredo Lamberti; il 21 giugno era ucciso Antonio Esposito, dirigente del nucleo antiterrorismo della Questura; il 7 luglio era ferito Fausto Gasparino, vicedirettore dell'Intersind. La colonna genovese aveva la sua implacabile routine, e non sembrava particolarmente scossa da quel che avveniva fuori: soprattutto, dal sequestro e dall'uccisione di Aldo Moro. Il chiodo era sempre lo stesso: la fabbrica e la ristrutturazione, il PCI e il sindacato... la politica, a Genova, era per le Brigate Rosse la politica industriale. Non ero
ormai che uno spettatore, e pian piano mi ci stavo adattando. I miei studi avevano ripreso un ritmo normale, e di nuovo sembrava che nulla dovesse mai cambiare. La mia febbre me la portavo con me, ben sigillata, e aspettavo. Ero ai margini dell'organizzazione, ma rimanevo a disposizione, pronto a ogni chiamata. Arrivò, un giorno, ma non da Valentino. Mi telefonò Arnaldi, e mi fece andare a casa sua. Era una cosa importante, e se ne mostrava consapevole. Stavamo seduti nel salottino e la finestra era aperta su via Palestro, in quel caldo pomeriggio di giugno. Di solito mi raccontava qualcosa sulle carceri, e io partecipavo rassegnato a quegli incontri fervidi e vuoti. Quel giorno era diverso. “C'è un operaio dell'Italsider che vuole conoscere i compagni. È venuto lui a cercarmi...”. Avrei voluto sapere subito tutto. Chi era? Lo conosceva? Quali porte ci avrebbe aperto? “Lo conosco un po', dai tempi di Lotta Continua e del Soccorso Rosso, ma poi l'ho perso di vista. Ti puoi fidare, è un compagno, sta a Pra. Ho conosciuto anche la figlia... una ragazza bellissima. È una famiglia tutta di comunisti”. “E lavora all'Italsider?”. “Sì, ma non ne so di più... Senti, forse ti ricordi qualche anno fa, il '74 o il '75, mi pare, quando sui giornali è venuta fuori una storia di violenze sull'Orient-Express, donne aggredite di notte, coltelli... queste cose le aveva denunciate una coppia di genovesi che ci si era trovata in mezzo, in vacanza: li hanno anche intervistati, ma alla fine li hanno trattati un po' da matti, da mitomani... beh! era lui e la moglie. E ancora adesso giura che era tutto vero”. “Non me lo ricordo... ma perché ci vuole conoscere? Tu, cosa gli hai detto? cosa gli hai fatto capire?”. Arnaldi era serio e nervoso. Adesso, di colpo, esitava. Il nome dell'operaio non l'aveva ancora fatto, anche se mi aveva dato il modo di trovarlo da me, e questa inutile reticenza era però significativa. Sapeva fin troppo bene, lui così disponibile, così ansioso di partecipare, che da quel momento un'altra vita sarebbe stata travolta, probabilmente distrutta. E dunque soffriva per gli altri, non per sé, perché c'era nella sua natura qualcosa che aderiva intimamente ai principi dell'etica professionale: al dovere, cioè, di proteggere chi s'affidava a lui, non di rovinarlo. Lo guardavo fisso, e capivo meglio il senso di tante nostre passate conversazioni. Per quanto riguardava la sua vita, le sue scelte personali, Arnaldi riusciva a prendere in considerazione solo le Brigate Rosse, ma quando andava come avvocato per le carceri i detenuti erano tutti uguali ai suoi occhi, e niente l'offendeva come le divisioni interne, le rivalità, le discriminazioni. Non era per niente paternalista: semmai, con discrezione estrema, con burbera timidezza da genovese, era paterno. Tutti erano da difendere allo stesso modo, da proteggere. Cosi come ora sentiva con confusa angoscia di dover fare con l'operaio che si era affidato a lui, nel momento stesso che me lo consegnava. “Non gli ho detto più di tanto, non mi sembrava opportuno... che era difficile mettersi in contatto con i compagni, ma che ci avrei provato. Ha insistito molto, ti assicuro. Mi sembra convinto... ma dovete decidere voi. Ai compagni, digli che ha famiglia, e che non deve stare troppo bene di salute... forse non può far molto”. “Non c'è fretta, vedrai che andranno con i piedi di piombo...”. Non valevano nulla, queste parole, e lo sapevamo entrambi, a fronte dell'inevitabile crudeltà delle cose. Era un'altra vita che precipitava nell'ignoto. Far previsioni era tempo perso: ci si poteva anche ammattire. “Mi raccomando, pensateci bene. Si chiama Francesco Berardi. Quando mi dai il via, gli faccio sapere io che riceverà una telefonata... si farà vivo con me fra quattro o cinque giorni”. Sono uscito con il cuore piccolo piccolo, pieno di tristi pensieri. Né mi consolava l'idea che avrei avuto qualcosa da dire, finalmente, a Valentino.
La trappola L'ho aspettato come d'accordo, seduto a un tavolino all'aperto in una piazzetta della vecchia Sestri. È arrivato diritto verso di me, in maglietta e blue-jeans, su un piccolo ciclomotore. Era come me l'aveva descritto Arnaldi: i capelli scuri e ricciuti, abbronzato e con un aspetto giovanile nonostante i cinquantanni. Aveva appena finito il turno a Cornigliano. Esitò un momento, guardando bene il giornale che tenevo aperto sul tavolo, e poi mi si sedette davanti con un “ciao” molto brusco. Ho cominciato a dire qualche parola, per presentarmi, ma il suo fare rigido e imbarazzato non giovava a nessuno dei due. Ripetè più d'una volta: “Non so chi sei, ma io mi fido del compagno Arnaldi, se garantisce lui...”. Voleva forse mostrarsi duro ed esperto, ma metteva piuttosto in risalto la sua timidezza: sembrava che non gli riuscisse di sentir nulla di quel che cercavo di dirgli, per avviare la conversazione. Non aveva tempo – disse a un tratto – l'aspettavano a casa: intanto ci eravamo conosciuti, visti in faccia, e ci saremmo incontrati di nuovo in un'altra parte di Sestri, tre giorni dopo. Non capivo perché scappasse così, dopo due minuti. O meglio, c'erano troppi perché... che non volesse più saperne? Che non gli fossi andato bene io? Me ne sono tornato via convinto che non l'avrei più rivisto, con l'idea di aver mancato in qualcosa. All'appuntamento successivo è arrivato puntuale. Mi ha guidato verso l'interno, su per via Priano, dietro il Santuario. Una discreta camminata. Ci siamo seduti ai tavoli di pietra nel giardino della trattoria della Vaccamorta, e abbiamo ordinato caffè e vino bianco. Intanto, mi aveva già raccontato molte cose. Il suo lavoro, per cominciare: “Ero al laminatoio, facevo il caposquadra. Mi hanno mandato anche in America, per vedere come lavorano là”. Rispetto alla prima volta che l'avevo visto era cambiato, e la sua timidezza si era risolta in una gran voglia di parlare. Ma le mie rare domande lo incupivano, e con nervosa volubilità cercava di nascondere qualcosa: qualcosa che era al fondo dei suoi pensieri e che aveva voglia di dirmi. Aveva una spina nel cuore. “No. Non sono più al laminatoio. Ho sempre la mia qualifica... ora giro per i reparti”. A poco a poco, per frammenti, la verità era venuta fuori. Era stato male, un infarto. Poi, un principio d'esaurimento nervoso. Nel frattempo l'avevano tolto dal laminatoio, non aveva più responsabilità, e ormai andava da un reparto all'altro in bicicletta, portando bolle di carico e altre scartoffie. Una specie di fattorino. Era avvilito, e si vergognava del suo avvilimento: “Mi hanno messo da parte, come un ferro vecchio. Sono dei cani... Adesso ho anche l'ulcera”. Ma si ritraeva dai suoi guai, comprimendo la rabbia e lo sconforto. Esaltava il compagno Arnaldi, invece, verso il quale aveva una vera e propria devozione, e le Brigate Rosse. Bisognava fare, fare... quand'è che prenderemo tutti il mitra? Ma oltre i suoi continui scatti d'umore, la sua imprevedibile ombrosità mescolata all'ingenuità più clamorosa, veniva fuori una personalità calda e vivace, che mi conquistava. Sapeva anche essere divertente: “Ma guarda te! Siamo qui, all'osteria, davanti a un bicchiere di vino bianco, a parlar male dei padroni. Come due vecchi rincoglioniti”. Non era molto informato di quel che riguardava i piani di ristrutturazione, il rinnovo degli impianti e le intenzioni dell'azienda sulla riduzione del personale. Pareva saperne meno di quel che ne riferivano i giornali, e in ogni caso non ne voleva sentir parlare, tanto si trattava di una losca congiura, partecipi PCI e sindacati, per fregare loro, gli operai. La sua sorte era, nel migliore dei casi, la sorte di tutti. Gli piaceva restare nell'immediato, e ritrovava allora una sorta di fanciullesca esaltazione, e raccontava
bene, con gusto: “Sai, il nostro vero incontro è oggi, e io avevo in mente di festeggiarlo... così stamattina passavo in alto, sull'altoforno, e ho visto sotto la macchina nuova dell'ingegnere, un'Alfetta. Non c'era nessuno. Ho preso un pezzo di loppa, bello grosso e pesante, e l'ho buttato giù, proprio preciso... .. vetro del parabrezza è andato in mille pezzi, avresti dovuto vedere!”. Rideva con tutta la faccia, una faccia mediterranea, algerina, marocchina, il bianco degli occhi iniettato di sangue. Non gli credevo ma mi piaceva lo stesso, era come se fosse tutto vero. E magari lo era. Ma aveva le sue improvvise cupezze, attimi d'ombra che passavano come nuvole veloci, e però incrinavano la sua allegria, la coloravano d'irrealtà. Solo un momento smorzò toni e riuscì a parlare con calma, con rimpianto. La giornata era calda e sotto la pergola, all'ombra, si stava bene. Si sentiva solo un filo d'aria tra le foglie della vite; il lento gocciolio dell'acqua nell'angolo, tra le grosse pietre verdastre d'umidità, dove s'attorcigliava il tubo per innaffiare, e a tratti l'urto acuto dei bicchieri e delle tazzine, attraverso la porta aperta del bar. “Si stava meglio una volta” diceva. “C'erano meno cose, si capisce, ma si stava meglio. Al tempo dei nostri padri la gente era più allegra, si voleva più bene... si divertiva di più. Gli operai venivano in comitiva con le famiglie su per queste trattorie, e suonavano e cantavano e bevevano tutti insieme... le feste erano proprio feste. Ce l'hai presenti quelle fotografie di una volta, tutti insieme, gli uomini con i panciotti e i baffi, in venti, trenta, sotto le pergole, sulle panche con i fiaschi e i ragazzini che spuntano da tutte le parti... era tutto un altro vivere, credimi, anche a fare l'operaio o lo scaricatore in porto”. Mi aveva colpito. Una vecchia fotografia così, con gli sbiaditi toni di seppia, era appesa da pochi giorni in casa mia, in cucina. Ce l'aveva regalata la Rosetta, la vecchia signorina che abitava sotto di noi – è morta tre anni fa, quand'ero in carcere. Viveva sola e non si occupava che dei gatti del vicolo: ogni tanto chiamava Isabella, che ha una certa pratica di veterinaria, per curarne qualcuno, e per aiutare le femmine a partorire. Quella foto ce l'ho ancora, e ora me la sono messa qui davanti, sul tavolo, per vederla meglio. Ci sono una quindicina di uomini, su tre file, tutti con cappello e panciotto. Due o tre hanno grossi fazzoletti al collo, e uno, di lato, tiene una chitarra. Da una parte ci sono dei ragazzini che guardano curiosi. Gli uomini della prima fila sono seduti per terra, con le ginocchia incrociate: in mezzo a loro, seduto su un tozzo barilotto, c'è l'unico che abbia il vestito chiaro. È robusto, molto più degli altri. È il solo a non avere la camicia, ma una maglietta bianca. I baffi sono rivolti in su, e lo sguardo è fiero e un po' spiritato. Le mani sono appoggiate sulle ginocchia aperte. La fotografia è incollata su un largo cartone color avorio, con un piccolo fregio dorato. Sotto di essa, in vecchio corsivo, è scritto a penna: Scommessa fatta dal Facc.o Chetti partendosi dal ponte Morosini al monte Figogna all'osteria detta del Calzolajo con un terzarolo del p.o 70 ch.mi 14.4.1901 Nella foto, tra le gambe del facchino Chetti, c'è un riquadro bianco che copre parte del barilotto, forse un pezzo di carta, forse un tovagliolo. Con un inchiostro più scuro, e in stampatello, una mano ha scritto: “Ho vinto!”. Non so bene le distanze, ma dal porto di Genova al monte Figogna, in cima al quale c'è il Santuario della Madonna della guardia, sopra Pontedecimo, il facchino s'è fatto certo più di dieci chilometri, con un barile di settanta chili sulle spalle. Dal porto a Sampierdarena, a Certosa, a Rivarolo, a Teglia, a Bolzaneto, e poi forse su per Murta: tutta la Val Polcevera : operaia dai moli alle fonderie alla vecchia Ansaldo, su su fino alle ferriere Bruzzo, tutta se l'è fatta con quei settanta chili al dosso. Ma non è stato lui a scrivere “Ho vinto!”. Era il padre della Rosetta, e aveva venticinque, ventisei anni, anche se nella foto dimostra un po' di più. Ed era famoso in tutta Genova per la sua forza: ma, distrutto dalla fatica, gli
era doppiato il cuore il giorno dopo aver vinto la scommessa, il 15 aprile del 1901. Dal Calendario perpetuo, ho visto che il 14 aprile di quell'anno cadeva la prima domenica dopo Pasqua, lasciava la Rosetta piccolissima, aveva due anni, allora: mentre il fratellino, che vive ancora oggi vecchissimo in un ospizio, ne aveva tre. Gli ultimi tempi, finché la sorella era viva, una domenica ogni tanto si facevano portare tutti e due in macchina da Isabella su al Santuario, in cima al monte Figogna, e mangiavano in una delle trattorie che ci sono sul piazzale, di fianco alla chiesa. Allora, vagamente, ricordavano il padre attraverso i racconti della madre, che fino alla fine aveva fatto la donna delle pulizie, nel quartiere di Carignano. Non ricordavo perfettamente, davanti a Berardi, le parole scritte, ma la storia era fresca e gliel'ho raccontata, in modo sommario all'inizio e poi sempre più particolareggiato, tutto preso dall'immagine della Rosetta che veniva a portarci la fotografia e ce la spiegava. Mi parve impressionato, ma non disse nulla. Dopo un breve silenzio, cominciò a parlarmi del nipotino. Non sapevo ancora che ne avesse uno. “Si può dire che Massimiliano l'abbiamo allevato noi, io e mia moglie...”. Tutti i giorni, verso sera, lo portava fuori, nel cortile sotto casa, e ci giocava insieme: “Neanche dovessi timbrare il cartellino. Non manco mai, e sapessi come ci tiene Max, a stare fuori col nonno!”. Lo adorava, ma anche parlando di Max s'oscurava e cambiava discorso, alzando i toni. “Allora, ragazzi, che facciamo? Mi pare che battete un po' la fiacca, o sbaglio?”. Ma poi ci tornava, senza aspettare risposta. Quando gli ho detto che due giorni dopo ci saremmo visti a Rivarolo, davanti al Municipio, che gli avrei presentato Valentino, “uno delle bierre, un clandestino...”, pareva che non mi ascoltasse. Ma aumentò il suo modo concitato di tacere e di parlare, a strappi. Ora, scendendo verso Sestri, tornava a dire a voce alta: “Ragazzi, bisogna far qualcosa subito... siete un po' troppo politicanti per i miei gusti, ci vorrebbero i partigiani...” . A Rivarolo, di nuovo, era puntualissimo. Dopo pochi minuti arrivò Valentino con la sua eterna aria affaccendata e distratta, come quei cani che non hanno mai pace e vanno intorno annusando dappertutto. Io ero in pena per Berardi. Temevo per lui, per le sue ingenuità davanti al compagno, le sue intemperanze verbali sempre fuori posto: nello stesso tempo mi riconoscevo nella sua ansia, nella sua nevrosi. Ma sembrava che mi sbagliassi. Stavolta Berardi aveva un atteggiamento secco, da professionista. Molto affidabile e discreto. Parlarono poco, si sarebbero rivisti con calma senza di me. In sostanza si trattava di mettersi d'accordo per fargli portare dentro volantini e documenti, quando ce ne fossero stati, e perché raccogliesse quante più informazioni poteva sulla ristrutturazione, sull'organizzazione del lavoro, sui capi, sui guardiani. In particolare, doveva cercare di trascrivere qualche targa importante, la macchina di qualche dirigente. Poi, dal registro dell'ACI si poteva risalire al proprietario e al suo indirizzo, nel caso non ci fosse nell'elenco del telefono (e, a sentire Valentino, dirigenti appena un po' importanti sull'elenco ormai non ce n'erano più). Ci stavamo salutando, ed eravamo ancora seduti sul basso muricciolo che chiude sul davanti la piazza del municipio. Poco più in là c'è un negozietto di scarpe. Il padrone, un signore grigio di mezz'età, s'è affacciato sulla porta guardandosi intorno: improvvisamente ha salutato verso di noi, con un largo caloroso sorriso. Berardi è arrossito e ha risposto imbarazzato al saluto. Poi, quasi scusandosi con noi, ha detto: 'Non preoccupatevi... lo conoscevo bene una volta, lavorava con me. È un amico”. Ma era tutto contento, e si vedeva. Allora non lo sapevo, ma l'avrei rivisto solo dopo quindici mesi, nell'autunno del '79, nel supercarcere di Cuneo. L'ho salutato e l'ho lasciato a Valentino. Arrivava l'estate e le vacanze. Su di me pesava ancora quell'identikit, come una minaccia vaga ma paurosa. Facevo esami su esami, e avevo ripreso a studiare e a scrivere. Poco per volta mi ero così reimmerso nel mio lavoro che, nel settembre,
ho accettato volentieri l'invito a partecipare con una relazione a un convegno sulla poesia pastorale del Rinascimento, in Francia, presso l'Università di St.Etienne. Dopo la separazione dalla prima moglie vedevo poco i figli e me ne facevo una colpa. Desideravo stare un po' con loro, a tu per tu, senza intermediari. Non che avessi qualcosa di particolare da dire, tutt'altro, ma solo così, per spartire un pezzetto di vita quotidiana insieme. Sono partito in macchina con la più grande, Lorenza, di dodici anni. Da Nizza abbiamo piegato verso l'alto, asteggiando le montagne: Puget-Théniers, Entrevaux, Digne, Sisteron, Grenoble... Dopo le tre o quattro giornate del convegno siamo tornati scendendo per la valle del Rodano, fermandoci a Orange, dove siamo finiti in un bar pieno di legionari dall'aria enorme e cattiva, e poi ad Avignone. Una bellissima mattina piena di vento, di buon'ora, siamo andati a Chateauneuf-duPape, sino al castello, in alto, sotto un cielo incredibilmente terso e profondo. Nelle colline intorno era in corso la vendemmia. Siamo entrati nel grande cortile di una cave: non si vedeva nessuno. Scesi dalla macchina, ci ha presi in mezzo un vortice fischiante di vento e di polvere. Di corsa, ci siamo precipitati verso una porticina e siamo scesi giù, sottoterra, per una scala di pietra ripida e stretta, storditi dall'improvviso silenzio e dal lontano rombo che : era rimasto in fondo alle orecchie. Giù, dietro un lungo banco, una ragazza sembrava aspettare solo noi. Più in là si aprivano oscure volte, e una modernissima macchina imbottigliatrice faceva tutto da sola. Abbiamo bevuto, e ho comperato un cartone di tre bottiglie. Due o tre settimane dopo, a Genova, le ho portate a Valentino, che mi aveva ripescato nel solito modo, per telefono, in Istituto, spacciandosi per uno studente. Le ha prese volentieri, ma era fuori di sé per la rabbia, tanto che non gli riusciva di dirmi le cose con ordine. “Berardi, quell'idiota, sta facendo una cazzata dietro l'altra... ci farà prendere tutti”. “Perché? Cosa ha combinato?”. “Ma non li leggi i giornali?”. “I giornali? Parlano di lui? Non ho...”. Mi ha interrotto quasi gridando. “Sei diventato scemo anche tu? Il Consiglio di Fabbrica ha deciso di impegnarsi in prima persona contro il terrorismo, così dicono, vogliono scovarci a ogni costo e far vedere che sono loro, la classe operaia che elimina da sola le sue mele marce... e quella di Berardi è ormai una barzelletta, gli fanno una trappola al giorno e lui ci casca sempre, se lo stanno legando come un salame”. “Ma come?”. “Come, come... Un delegato gli è andato a dire in gran segreto che aveva l'elenco dei carabinieri infiltrati nei reparti – figurati! – se lo voleva, per passarlo ai suoi amici, e lui gli è saltato addosso per la gioia e ha detto che sì, certo che lo voleva, gli serviva subito... Elenchi non ne ha avuti nemmeno uno, ma pochi giorni dopo un altro gli ha detto: 'Francesco, ma lo sai che sei proprio bravo a fare le stelle delle Brigate Rosse sui muri? Come ci riesci?'. E lui ha tirato subito fuori la bomboletta e gliel'ha fatto vedere, e s'è vantato di averne disegnate un mucchio, anche nella vecchia fonderia”. “Ma te le ha raccontate lui, queste cose?”. “Sì, ed era anche contento, gli sembrava di portarmi delle belle notizie... quello è convinto che tutti gli operai siano dei brigatisti, e neppure s'accorge del pacco che gli stanno tirando. Gli ho detto di tutto, ha giurato che aveva capito e che sarebbe stato più attento... tu ci credi?”. “È intelligente ma ingenuo. Però la fabbrica dovrebbe conoscerla bene, dagli un po' di credito. Imparerà”. “Speriamo che faccia in tempo...”. Qualche sera più tardi – era il 26 ottobre – verso mezzanotte il telefono di casa mia ha squillato a lungo. Eravamo già a letto, e dormivamo. Ho risposto io, e ho sentito dall'altra parte la voce bassa e preoccupata di Arnaldi che mi diceva: “Enrico, sono in piazza De Ferrari. Vengo verso casa tua, posteggio davanti al giornalaio, alla Nunziata. T'aspetto lì, per fare due chiacchiere”.
Mi sono vestito in fretta e sono sceso in strada. Nella piazza ho visto subito la sua Volkswagen rossa. Era agitato e gli tremava la voce, ma questa non era di per sé una novità: “Hanno arrestato Berardi”. “Quando?”. “Non lo so, non si sa niente, tengono ancora nascosta la notizia. Forse ieri... la cosa è filtrata per caso a Palazzo di Giustizia, e io l'ho saputa solo poco fa”. Abbiamo parlato a lungo, nella macchina ferma, rivoltando la notizia per tutti i versi, ma non c'era in verità niente la dire. Quello che si sapeva era tutto lì. Ma l'imprendibile, ipercompartimentata colonna genovese delle Brigate Rosse era stata violata, e nessuno poteva ancora misurarne le conseguenze. Arnaldi era affranto, vedeva nero. Io minimizzavo, e avevo l'odiosa sensazione di comportarmi con lui come Valentino s'era comportato con me: l'importante era salvare la facciata, rispettare le forme e la gerarchia, non far nulla che non fosse esplicitamente ordinato. I giorni successivi i giornali raccontavano cose verisimili e prevedibili. Il “postino delle BR” era stato colto sul fatto, mentre distribuiva volantini all'interno della fabbrica. Colto dai carabinieri, però, non da qualche compagno di lavoro. Ma il compagno, o i compagni, c'entravano, perché avevano chiamato loro i carabinieri... Il processo s'è svolto per direttissima, il 30 e il 31, dunque pochissimi giorni dopo l'arresto. Sin troppo presto, ma allora nessuno ha fatto caso a questo particolare. Ho visto le foto di Berardi con i ferri ai polsi, mentre si piegava a baciare la moglie, e mentre alzava i pugni chiusi, nel saluto comunista. Contro di lui era andato a testimoniare un operaio dell'Italsider, da solo, Guido Rossa. Guido Rossa Berardi è stato condannato a quattro anni e mezzo. L'ha difeso Arnaldi. Il Pm Di Noto ne aveva chiesti cinque, e aveva detto, nella sua requisitoria: “Io ritengo che il Berardi sia stato trascinato in un gioco più grande di lui. La sua ansia è stata quella di poter vedere un'umanità migliore. La sua attività era limitata, in fondo, a un ambito marginale. Egli credeva nella contestazione delle Brigate Rosse, nella speranza che fosse mutata questa società...”. Non ricordo di aver fatto caso, allora, a queste parole. Né posso ricordare molto di Rossa. Il “Secolo XIX” accennava alla sua veloce testimonianza, e a un improbabile gesto che Berardi avrebbe fatto verso di lui, quasi a indicarlo a uno del pubblico. Ma fotografie non ce n'erano e, nel complesso, il tono era abbastanza neutro ed evasivo. C'erano immediatamente altre cose, invece, che mi toccavano più da vicino. Un mattino o due dopo il processo, dunque i primissimi giorni di novembre, scendevo le scale di casa. Al piano di sotto la porta della Rosetta era aperta. Lei era lì, nell'ingresso, e le ho fatto un cenno di saluto. Non si era sposata e aveva fatto per tutta la vita la commessa in un famoso negozio d'abbigliamento. Ne aveva ricavato una devozione profonda verso i “signori” e un senso molto rigido del decoro personale: le sue camicette con la chiusura alta, sul collo, e la spilla d'argento a chiudere lo scialle, e le scarpette... La porta era aperta, e rimestava in un grosso catino il cibo per i gatti. Ero appena passato che mi sono sentito chiamare, dietro le spalle, dalla sua voce esitante: “Professore, professore...”. Teneva gli occhi bassi e sembrava confusa. “Professore, ha visto che strano, le finestre di fronte alle vostre, dall'altra parte della piazzetta? Le hanno chiuse ieri sera, c'è gente dentro... chi saranno?”. Non ha aspettato che rispondessi e si è subito ritirata mormorando ancora tra sé, quasi per velare in
un chiacchiericcio tutto suo il senso di quello che mi aveva detto. Non sapevo che pensare. Fuori, nella piazzetta, ho alzato gli occhi verso il vecchio palazzo. A parte l'osteria, sull'angolo di Vico Nuovo, era ed è ancora disabitato e quasi in rovina. Le grandi finestre del secondo piano me le ricordavo sfondate da sempre, senza persiane e senza vetri, mentre più in alto, sopra i vecchi mattoni e i grossi brandelli d'intonaco grigio, il sistema di cornicioni e tetti e terrazze piene di ferri rugginosi e contorti sembrava appena uscito da un bombardamento. Ma una di quelle finestre, che corrispondevano esattamente a quelle delle due stanze migliori di casa mia, era stata chiusa con delle assi messe per traverso. Non perfettamente, però, perché ai lati restavano alcune larghe e buie fessure. Se la Rosetta non me l'avesse detto, non mi sarei accorto di nulla. Ma che significava? Qualcuno mi stava spiando? Subito, sono riuscito a dimenticarmene, ma quando sono tornato dall'Università, verso l'una, ho guardato ancora su, a quella finestra. Dalla porta dell'osteria i soliti clienti, Giuffra, Aldo, Sempieri, e Mario, l'oste, mi guardavano, e nel loro saluto c'era una mistura nuova di timore e di confidenza. Sul portone di casa era ferma Isabella. Mi ha fatto segno di andare avanti, su per le scale, e non ha parlato sinché non ha sentito il tonfo del portone che si richiudeva dietro di noi. “Qui lo sanno già tutti... c'è un mucchio di gente che ti sorveglia. Hanno preso le stanze sopra Mario, e dicono che hanno portato delle macchine, macchine fotografiche, registratori, chi lo sa... sono tanti, dieci, venti. Entrano dall'altra parte, dalla Nunziata, e fanno i turni”. Era ancora la Rosetta, che era nata lì più di ottantanni prima, nella casa di suo padre e di suo nonno garibaldino, e non si era mai mossa, a raccogliere le chiacchiere che si facevano giù, nei magazzini, dal fabbro, dal falegname, dall'Assassino, proprio sotto casa nostra, a dieci metri da via Prè (allora, alla fine del '78, un pasto completo dal primo alla frutta costava intorno alle millecinquecento lire: più d'una volta mi hanno fermato dei tipi malandati per domandarmi dov'era la trattoria che costava poco... ci andavamo anche noi, ogni tanto, a mangiare il minestrone, che era buono). Ma a me non diceva più nulla. Confidava tutto a Isabella: e quelli che parlavano con lei lo facevano proprio perché sapevano che sarebbe venuta a raccontarcelo. Detta così, tutta la faccenda ha un sapore da vecchia commedia popolare, con le quinte delle case alte e strette, la roba stesa tra l'una e l'altra, e la piazzetta o il campiello per palcoscenico, e i portoni e le botteghe artigiane e l'osteria, da un lato, dove i personaggi entrano ed escono in continuazione. Beh, in certo modo non è un'immagine sbagliata. A ripensarci oggi, forse è proprio questa rassicurante dimensione da teatrino che ha attutito il colpo, quasi fosse tutta una recita, non una cosa vera. Una commedia, non un dramma. Tanto più che al momento non avevo molto da temere, così radi e inconsistenti s'erano fatti i miei rapporti con le Brigate Rosse. Sì che quella dimensione poteva effettivamente apparire come l'unica reale, partecipata coralmente da persone reali. In casa, c'eravamo messi a eliminare ogni traccia anche vagamente sospetta, in vista di probabili perquisizioni: volantini, documenti dell'ultrasinistra, giornaletti, ritagli vari... ma avevo avuto sempre pochissimo di questa roba, sì che tutto si è risolto in una gran pulizia e, finalmente, in un po' d'ordine nelle mie cartelle e nei miei appunti di lavoro. Fuori non notavo quasi nulla. Ma non mi sforzavo troppo: non avevo niente da nascondere, e dunque che mi seguissero pure. Ho visto una Mini Innocenti color amaranto; altre volte mi sono ritrovato vicino una motoretta... la sorveglianza doveva però essere efficiente e continua, e così infatti garantiva la voce popolare che ci arrivava attraverso la Rosetta. Ad Arnaldi ho detto poco. Non volevo né turbarlo né paralizzarlo, generoso e apprensivo com'era. Ma non ho potuto fare a meno di accennare che probabilmente ero pedinato, e che avevo l'impressione che anche casa mia fosse sorvegliata. Sì, era quasi tutta la verità, ma così come la raccontavo sembrava una verità scontata, forse neppure nuova. E invece non era scontata, e la sua qualità era assai diversa dal solito. La repressione, e tutto quello che la parola importava nelle mitologie dell'estrema sinistra, non c'entrava per nulla. Arnaldi l'ha presa così come mi aspettavo, come una doverosa conferma che eravamo dei rivoluzionari seri. Ma aggiunse inaspettatamente alcune parole che più tardi ho ricordato con assoluta
precisione: “Non è che Berardi se la sia cantata? Non so... nessuno lo dice, nell'ambiente del Tribunale, eppure c'è qualcosa che non torna”. L'idea non era venuta a Valentino (oppure gli è venuta, a lui e agli altri, ma hanno preferito far finta di nulla?), e non era venuta a me: in ogni modo, non l'ho neppure presa in considerazione, non so poi bene perché. Allora, nel '78, era un'ipotesi prematura e sconvolgente. Arnaldi stesso, dopo averla buttata lì, parve ritirarla, e non ne parlò più. E rimase, sino alla fine, l'avvocato di fiducia di Berardi. Gli studi continuavano a buon ritmo: s'era aperta questa grossa bolla, nella mia vita, e io ci stavo dentro e viaggiavo con essa. Sapevo che sarebbe scoppiata. I primi giorni del gennaio '79 sono ripartito, questa volta insieme a Claudio, il secondo figlio, che allora frequentava la quinta elementare. Come già con Lorenza, così ora desideravo stare con lui, con lui solo. Il Dipartimento di Lingue Romanze dell'Università di Würzburg, in Germania, mi aveva invitato a tenere una conferenza di argomento dantesco: avevo scelto quello di cui mi stavo occupando da tempo, le rime dottrinali. Siamo partiti la sera, in cuccetta, per Francoforte. Mi guardavo attorno, in stazione e sul treno, per cogliere una figura, un volto, un movimento... possibile che mi lasciassero espatriare così? A quanto pare era possibile: almeno, io non mi sono mai accorto di nulla. La gita è stata splendida, anche per merito del paziente ed eruditissimo professore tedesco che per una settimana ci ha fatto da guida. Bella Würzburg e la Residenza del principe-vescovo; belle le anse del fiume tra le tonde colline coperte di vigneti; belle le “città del vino”, contrapposte alle “città del grano” (ma il nostro accompagnatore diceva, simpaticamente, “città del trigo”), e bellissima e inattesa, infine, Bamberg, la città medioevale che i bombardamenti della seconda guerra mondiale non hanno neppure sfiorato. Per me, c'è stata la sorpresa di un emozionante riconoscimento: da piccolo avevo sfogliato mille volte un grosso libro illustrato di storia tedesca, e ora quelle figure erano lì, vere, proprio come le conservavo nella memoria. In macchina, tentavo qualche cauta domanda politica. Il professore rispondeva spiegandomi quanto guadagnava e in quale nuova villetta si sarebbe trasferito, e aggiungeva sospirando: “La vita è piena di problemi, ma il denaro, sa? consola di molte cose”. Le giornate tedesche erano state aperte e limpide. Tornato a Genova, mi aveva di nuovo inghiottito l'oscurità del vicolo, la piazzetta. I miei occulti guardiani erano sempre lì, al loro posto dietro la finestra sbarrata, in attesa. La mattina del 24 gennaio non sono andato subito all'Università. Dovevo vedere se mi era arrivato un libro, alla Feltrinelli. Oltre l'edicola del giornalaio ho incrociato due vecchie amiche. Avevano l'aria imbambolata e gli occhi rossi. Una s'è voltata dall'altra parte, nascondendo la faccia. L'altra è riuscita a dirmi, con voce incrinata: “Stamattina i brigatisti hanno ammazzato Rossa, l'operaio dell'Italsider...”. Forse ha aggiunto ancora qualcosa, ma non l'ho ascoltata. Stavo già tornando a casa. So di essermi mosso con precisione. Ho riordinato la cucina, perfettamente, come se un'invisibile telecamera mi seguisse passo passo e io dovessi recitare minuziosamente me stesso. Non era per i poliziotti appostati fuori. Quelli, non esistevano più. Era la prigione che mi ero costruito io, invece, la gabbia mia e solo mia, dentro tante altre gabbie, che mi chiudeva nel ritmo di quei gesti inutili, gli unici che in quel momento riuscissi a fare. Erano piccoli gesti rituali, certezze minime. Spostavo piccole cose, sempre più lentamente, con cura sempre maggiore... Improvvisamente s'è aperta la porta d'ingresso. Sono sceso dalla cucina. Isabella era ferma in mezzo alla stanza, in piedi, con le braccia abbandonate lungo il corpo, i pugni stretti. L'ho abbracciata, ma non si è mossa. È rimasta rigida: “Lo sai già?”. “Sì, me l'ha detto Roberta poco fa, dal giornalaio”. Ha avuto un brivido di sgomento, e di colpo è esplosa, battendomi i pugni sulla spalla, con disperazione: “Stamattina li ho visti io gli operai, anche quelli che piangevano, i vecchi e i giovani. Vai, vai, sono
per la strada, stanno arrivando... vai a De Ferrari. Sono usciti tutti...”. L'ho presa per un braccio. “Vieni. Andiamo insieme...”. Si è liberata, con decisione: “No. Adesso non vengo in nessun posto... Ma tu corri, sono tutti per strada, ti dico!”. E poiché esitavo ancora, ha aggiunto fissandomi bene: “Ma cosa sta succedendo? Dimmelo, cosa? Non puoi continuare a star zitto con me, a far finta di niente... Non puoi essere pazzo sino a questo punto...”. Mi ha quasi spinto fuori. Via Cairoli l'avevo fatta tante altre volte, con i cortei dei metalmeccanici che arrivavano dal Ponente, da Sampierdarena, da Rivarolo, da Cornigliano, da Sestri. E mi sentivo forte delle mie posizioni estreme, contro gli obiettivi sindacali, e consideravo con distacco il contrasto tra le grida e i fischi degli operai che sfilavano e la sostanza cauta e riflessiva del loro atteggiamento politico. Ora tutto era rovesciato. Non ero più io contro di loro, ma loro contro di me. Camminavo tra i piccoli gruppi sciolti che salivano dai vicoli del centro storico e s'andavano ingrossando verso la piazza, e il nemico ero io. Non avevo mai provato niente di simile. Mi vergognavo, e avevo paura. In piazza, non sono riuscito ad ascoltare i discorsi degli oratori. Credo che pochi li seguissero veramente, anche se erano discorsi non preparati, commossi: ognuno era troppo pieno delle proprie emozioni, troppo teso e reattivo per dimenticarsi nelle parole altrui. Mi guardavo attorno, e vedevo facce sbigottite e piene di rabbia malamente compressa. Non sapevo nulla del morto, e non ne sapevano nulla quasi tutti quelli che erano lì, ma ho visto qualche vecchio delegato di fabbrica con le lacrime agli occhi... la rabbia era tutta contro le Brigate Rosse, ed era doppia, era per quello che avevano fatto e per quello che non avevano fatto. Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell'idea rivoluzionaria, si era spenta. E gli operai, in quella piazza, quella mattina, piangevano la morte di uno di loro, una parte viva del loro essere, e insieme piangevano in quella morte la fine di un equivoco al quale s'erano tenuti stretti per tanto tempo: la fine di un segreto sepolto profondamente nella loro fatica di ogni giorno, nel loro linguaggio, nella loro cultura. C'era qualcosa che continuava a finire, per loro, e nulla che cominciava. Ma non poteva essere che così, e tutti parevano saperlo. Un suicidio La notte del 18 maggio io e Isabella – e con noi un'altra quindicina di persone – siamo stati arrestati nel corso del cosiddetto blitz genovese, voluto e attuato dagli uomini del generale Dalla Chiesa. L'arresto è scattato materialmente alla fine della seconda o terza perquisizione che avevamo subito, dopo l'omicidio di Guido Rossa. I particolari non contano. Basti che quei mesi, dal 24 gennaio al 18 maggio, sono stati i più stupidi e deprimenti della mia vita. Le perquisizioni dure, certo, e la sorveglianza di colpo più oppressiva, e le voci sull'imminente arresto, e le paure, e il dormir fuori, in casa di amici, per due o tre notti, magari con la scusa di violenti litigi con Isabella, e i litigi che, d'altra parte, c'erano davvero, perché io mi comportavo ormai come una specie di kamikaze accecato, e lei mi opponeva le ragioni di un impegno politico meno chiuso, meno allucinato, e voleva a tutti i costi quel figlio che io le negavo... Mesi che si potrebbero raccontare, ma altrove, con altra attenzione. Siamo stati arrestati, e io sono finito prima a Fossano, poi a Parma, dove ho passato l'estate e poi, dalla prima settimana d'ottobre, a Cuneo. Isabella intanto passava da Pisa a Lamezia Terme a Perugia e infine a Potenza. Quello di Parma era un normale carcere giudiziario, e c'erano detenuti di ogni tipo, da
qualche piccolo boss ai rapinatori ai borsaioli ai tossicomani ai vecchietti che chissà mai per quale motivo stavano lì. A Cuneo ho aspettato un giorno e una notte in isolamento. Finalmente, la mattina dopo, con il sacco in spalla, sono entrato nel lungo corridoio della sezione, al primo piano (si chiama così, ma in realtà è il pianterreno: sopra, ce ne sono altri tre). La maggioranza dei politici stava lì, mi diceva il maresciallo accompagnandomi, mi sarei trovato bene, tra amici. Io ero ancora troppo inesperto, per cogliere tutte le allusioni, le finezze e le implicite minacce che ci sono sempre, nelle parole di un secondino di razza. Il largo corridoio passa in mezzo alle due file di celle singole che, a Cuneo – e, per quel che ho visto, solo a Cuneo – durante il giorno stanno con il blindato aperto. Mentre avanzavo, qualche detenuto che s'era accorto del trambusto mi salutava, premendo la faccia contro le sbarre della porta-cancello. In fondo, dietro di loro, spiccava il riquadro luminoso della finestra, e io non riuscivo a distinguerli bene, così in fretta, in controluce. Alla quarta, quinta cella, s'è sporto un braccio, e ho sentito un: “Anche tu qua? Ciao, compagno!” dal forte accento genovese. Mi sono fermato e l'ho fissato bene. Sempre uguale, la faccia marocchina, i riccioli scuri, i denti bianchi. Era lui, Berardi. Ho avuto una breve scossa. Ai giudici avevo sempre detto di non averlo mai conosciuto; lo stesso aveva detto lui... ma no, a quel punto era uno scrupolo eccessivo. Quel saluto non provava niente, le guardie erano occupate solo a farmi far presto, a strattonarmi, il maresciallo due o tre passi avanti pareva distratto. Gli ho sfiorato velocemente la mano, e l'ho salutato: “Ciao. Ciao...”, mentre sentivo ancora le sue parole: “Ci vediamo fra poco, fuori, all'aria”. Mi hanno sistemato quattro celle avanti, ma dalla parte opposta, verso il prato interno e l'ala del giudiziario. Ho buttato il sacco e sono andato subito alla finestra. Lontano, sopra il muro di cinta, spuntava netta e precisa la sagoma del Monviso. A Parma vedevo solo un muraglione altissimo, tanto alto che non capivo come potesse star su. In confronto a quel vecchio carcere, con i suoi pavimenti di mattoni sconnessi, gli scrostati soffitti a volta e gli antichi catenacci, questo sembrava una clinica, sterile e funzionale. Colpiva subito la differenza tra quelle celle disordinate e zeppe di roba, con il cesso in un angolo, in bella vista, e queste, uguali una all'altra: il tavolino di plastica fissato al muro, uno sgabello, tre stipetti e la branda. Una porta interna dava nel piccolo vano dov'era il cesso e il lavabo. Mi guardavo attorno, e tutto sommato non mi dispiaceva di essere solo. Ero contento, dunque, ma pure mi sgomentava aver trovato Berardi. Come avremmo ripreso le nostre chiacchiere? Ma le avremmo riprese, poi? Era un ricominciare daccapo, infinitamente più diffìcile, adesso: ero curioso della sua storia, che i giornali avevano raccontato a modo loro, ma mi accorgevo, mentre tentavo di ripercorrerla, che era impossibile riandare tanto indietro. La strada del ritorno era sbarrata: in mezzo, ormai, c'era Rossa. Le nostre battute all'osteria, le nostre memorie, la nostra leggerezza sciocca e piacevole, quasi dimentica di quel che ci aspettava: niente poteva resistere e riprodursi così com'era stato. Tutto aveva un altro colore, un altro senso, ed era uno sforzo troppo doloroso anche il solo pensare a quel che, per poco, eravamo stati uno per l'altro. Sono tornato anch'io verso il cancello, e ho cercato di guardar fuori. La sua cella era là in fondo, a destra, ma riuscivo a vederla con fatica, torcendo il collo e infilando la testa nell'apertura orizzontale tra le sbarre, quella che permette il passaggio dei piatti. Stavo così e guardavo la lunga corsia con le liste luminose del neon, in alto, e le tre guardie che andavano su e giù, senza fermarsi mai, e il carcere sembrava disabitato, un enorme morto alveare. Eppure non era così. Dietro ognuno di quei cancelli avevo visto qualcuno. Tanti cancelli, tante sagome oscure che accennavano un saluto o stavano curve sul tavolino, con il fornelletto e la pentola, i libri, le due o tre foto infilate nelle fessure degli stipi. Tutti uguali e tutti diversi. E là – uno, due, tre, quattro riquadri di metallo blu – c'era Berardi. Con la foto di Max lì davanti, di sicuro. Non mi restava che mettere a posto i pochi indumenti, disporre i libri e le carte sul tavolo, così, proprio come fosse un tavolo da studio – essere trasferiti, ed entrare in una cella vuota, e cominciare ad abitarla, rende un'immagine abbastanza triste della vita e dei suoi pochi amuleti. Un gesto brusco della guardia del magazzino che rovista con mani pesanti tra la tua roba, un: “Non si può tenere”,
e scopri di quante cose si può fare a meno, per tirare avanti. Un'altra voce mi chiamava ansiosa, impaziente. Ho lasciato di nuovo il mucchietto delle mutande e delle magliette e sono tornato al cancello. Dalla parte opposta rispetto a Berardi, ma più vicino, spuntava la faccia scavata – un po' alla Woody Allen — e i lunghi lisci capelli di Luigi Grasso. Avevano arrestato anche lui, nel corso del blitz genovese. Ci conoscevamo bene, dalle prime occupazioni universitarie, nel '67. Amico di Faina, era come lui un anarchico irriducibile e come lui nemico, ma assai più limpido, più coerente, di cose quali il partito, l'organizzazione, lo stalinismo più o meno mascherato, la “centralità operaia”: un avversario delle Brigate Rosse, insomma, con le quali, infatti, non aveva mai voluto avere rapporti, forse anche per qualcosa di più profondo di ogni ideologia: la sua grande bontà. E ora, per uno scherzo della sorte di cui non riusciva a darsi pace, stava in galera con l'accusa di essere un brigatista. Ma allora i giudici non erano sensibili alle distinzioni, o meglio, non ci capivano niente e allora le cancellavano, non ci credevano. I sovversivi dovevano pur essere tutti della stessa razza e della stessa parrocchia, il resto erano minchiate... riuscivo a ridere immaginando Luigi davanti al giudice che gli contestava di essere un brigatista: un brigatista, lui?! non riusciva a farsi capire, e gli pareva d'impazzire, e ricordava Kronstadt e il “comunismo dei consigli” e il luddismo e i situazionisti... Ed era anche lui a Cuneo, colpevole di nulla, per quanto ne sapevo, ed era una cosa curiosa ma verissima che in quello stesso corridoio io avessi, a sinistra, con Luigi, il movimento, e dunque le occupazioni, i cortei, le assemblee, i sogni e gli entusiasmi, le notti spese in discussioni senza fine, i pomeriggi in casa a litigare e a bere grandi tazze di tè; e dall'altra parte, a destra, il partito armato, e dunque la politica come professione clandestina, come agguato, come rischio, come morte. C'era Berardi e inevitabilmente, con lui, anche Rossa. Mi hanno aperto per l'aria all'una e mezza. Dalla sezione siamo usciti a due per volta, in uno stretto passaggio ghiaioso; dopo la perquisizione, siamo entrati nel cortile grande, a sinistra, quello con il fondo di cemento pieno di buche e lo stretto marciapiede tutt'intorno. Sono rimasto nella piccola parte coperta, che serve nei giorni di pioggia, per conoscere e salutare quelli che via via entravano: Sanguineti, Attimonelli, Scalzone, Klun, Pinto, Chiorlin, Dalla Longa: e Luigi, e Berardi. Ma la schizofrenia continuava a riprodursi, e io ero diviso tra i due e deludevo entrambi. Ho subito irritato Luigi che voleva rovesciarmi addosso ogni piega della nostra istruttoria e tutti i retroscena che dividevano gli extraparlamentari genovesi: non ne sapevo niente e, quel ch'era peggio, ero ben deciso a non saperne niente. E non volevo mescolare le faccende mie con quelle, tutt'affatto diverse, di altri. Avevo fretta, invece, di parlare con Berardi. Durante le presentazioni e i saluti era rimasto da parte: sempre presente, ma sempre dietro qualcuno, in seconda fila, zelante ma evasivo. I nostri sguardi continuavano a incrociarsi. Nei cortili delle carceri si crea naturalmente il vuoto, senza bisogno di parole, attorno ai due che devono parlare a quattr'occhi. È un istinto, un odore, non so. Anche allora è successo così. A un tratto, gli altri attorno passeggiavano indifferenti, a piccoli gruppi: noi due ci siamo ritrovati di fronte, da soli, è stato appena un attimo. “Enrico, Enrico...”. Non avevo ancora aperto bocca, e mi stava addosso tenendomi forte il braccio e parlandomi in tono eccitato, senza darmi scampo. Non capivo cosa volesse dire, mentre mi trascinava su e giù per il cortile. “Enrico, non me lo sarei mai immaginato, roba da non crederci! Tra compagni... ma possibile, dico io, siamo tutti rivoluzionari, e i nostri nemici sono i padroni, giusto? che ci tengono in galera, e invece... uno schifo! uno schifo!”. “Spiegati meglio...”. Ha abbassato ancor più la voce. Aveva la faccia spaventata: “C'è guerra, Enrico, c'è guerra tra i compagni... tra le Brigate Rosse e Prima Linea”. Ero sbalordito non tanto per quello che mi diceva – non riuscivo ancora a prenderlo sul serio – ma per il modo, e per la piega strana che il discorso tra noi stava prendendo, e perché quelle frasi in bocca proprio a lui, a Berardi, suonavano recitate, inverosimili. E non capivo l'angoscia, la paura.
Tornava ad abbassare la voce, la riduceva a un soffio: “E qui è guerra, ormai, un disastro...”. Mi guardavo attorno, e non vedevo nulla di quel che lui mi sussurrava con spavento all'orecchio. C'erano i vari gruppi che parlottavano qua e là; due, accoccolati in un angolo, giocavano a scacchi, e qualche altro stava a guardare. Ero nuovo, e qualcuno ancora mi guardava, ogni tanto, e sorrideva, e poi ripigliava a chiacchierare con il vicino... “Non mi sembra... ma poi, è successo qualcosa?”. “Non vedi ancora niente perché sei appena arrivato. Ma te ne accorgerai presto che è come dico io”. Camminando avanti e indietro guardavo un detenuto che scherzava con altri, in fondo, verso l'inferriata dell'intercinta. Alto, la faccia intelligente, fumava la pipa e sorrideva. Si chiamava Gianni Maggi, e mi avevano già velocemente accennato che era un piellino della Val di Susa, molto stimato dai suoi compagni. Berardi se n'è accorto: “Sì, è Gianni. Ecco, vedi, lui è di quelli che vorrebbe andare d'accordo” ha esitato un momento, come se gli costasse dirmelo. “Sai, io con lui e con gli altri mi ci trovo bene, mi vedo con loro in refettorio, stiamo facendo un documento...”. Adesso era davvero imbarazzato, e più mi dava spiegazioni più diventava vago. Non mi sono potuto tenere: “Senti un po', qui che rapporti hai con gli altri?”. “Io? Buonissimi. Guarda che tutti mi vogliono bene”. “Allora tu, che sei considerato un brigatista, ora stai con PL, più o meno... è così?”. “No, non proprio, non è che sto con PL, capisci? Per me i compagni sono tutti uguali, non faccio differenze... e poi, te l'ho detto, con loro mi trovo bene, sono simpatici. Con quello, invece” accennava a un tipo basso e robusto, con baffetti sottili “non riesco a dire neanche due parole. Non ci capiamo proprio, eppure è dei nostri”. “Va bene, ma allora dove sono le guerre che dici? Proprio tu sei l'esempio del contrario, stai con chi ti pare e tutti ti rispettano no?”. Non era solo spaventato, adesso, ma anche diffidente. E però, a tratti, sinceramente affettuoso, con quella rapida incostanza che già gli conoscevo. Scuoteva il capo e ripeteva cocciuto che me ne sarei accorto presto, come stavano veramente le cose. Volevo tirarlo a parlare del suo arresto, ma pareva che in qualche modo avessimo finito e non desiderasse aggiungere molto a quel che sapevo o potevo immaginare. Alzava gli occhi al cielo e allargava le braccia: “Lo sappiamo, no? come vanno queste cose... che ci vuoi fare? Quel ch'è stato è stato, lasciamo perdere...”. Rossa non lo voleva neppur sentir nominare: girava la testa dall'altra parte, con una faccia che voleva dire tutto e niente. Mancava poco al rientro. L'ho lasciato e sono andato a far due parole con il ragazzo robusto, con i baffetti, al quale Berardi aveva cupamente accennato. Era Valerio De Ponti, un clandestino milanese della colonna “Walter Alasia”: l'unico brigatista dichiarato allora presente in sezione, e quindi il nostro interlocutore, il nostro capo segreto. Io però mi proclamavo innocente, e non solo non gli dovevo nulla ma immaginavo anche di dover usare molte cautele. Anche lui doveva pensarla così, perché non ci fu bisogno di stare molto a discutere. “Sì, Berardi è un brav'uomo, ma sbatte un po' di qua e un po' di là. Ha girato già tante carceri e si è comportato bene, ma non come uno dei nostri, un militante dell'organizzazione, voglio dire... per noi è libero di fare quello che vuole. Sai, in galera si riparte da zero, per tutti: sta a lui decidere. Noi siamo sempre disponibili al confronto politico, lo consideriamo un contatto: non certo un regolare, ma nemmeno un candidato... con PL, nelle carceri, è in corso uno scontro di linea politica, loro sono contro i Comitati di lotta, dicono che li egemonizziamo noi...”. Berardi era proprio cascato male! Sul tipico brigatista pieno di categorie e di distinguo, e il suo confuso bisogno di entusiasmarsi e di cercare solidarietà pratica e amicizia era stato subito frustrato
dall'impersonalità e dall'efficienza burocratica di un simile “uomo dell'organizzazione”. Pensavo che non poteva andare altrimenti, mentre mi riaccostavo a lui e le due ore d'aria stavano per finire. Mi aveva visto parlare con De Ponti, ed era nervoso: “Quello non capisce niente, non è umano, ti dico... gli interessa solo il suo partito, gli altri sono merde, non vuole andare d'accordo con nessuno”. Ma ci siamo lasciati meglio di così. Di colpo s'era rischiarato e aveva cominciato a parlarmi di Max, il nipotino. Aveva le sue foto sopra il tavolo e le guardava ogni giorno per ore, e sognava i lunghi pazienti giochi che per tanto tempo aveva fatto con lui, e dimenticava ogni altra cosa. Si era subito commosso, e aveva gli occhi lustri. Siamo rientrati insieme, e davanti alla mia cella, prima di proseguire, mi ha abbracciato con effusione, come ci fossimo rivisti solo allora. Mi pareva che tremasse. I giorni successivi sono andati via veloci. I trasferimenti continuavano: quasi ogni giorno partiva e arrivava qualcuno. All'aria chiacchieravo con Luigi, con Scalzone, con Enzo Fontana che mi sceneggiava i capitoli del romanzo che aveva in mente di scrivere, e con Berardi: era vero, tutti gli si erano affezionati e ridevano delle sue battute così genovesi, alla Govi, o alla Beppe Grillo. Sulle sue paure sembrava aver messo la sordina. Una mattina ci fu un po' più di trambusto. Erano arrivati Lintrami e Basone, che prendevano il posto di De Ponti e Cristofoli. Soprattutto Lintrami dette una scossa alla sezione. Voleva mettere insieme un Comitato di lotta, e voleva che ci partecipassero anche quelli di PL. All'aria, ci si sedeva in cerchio, in terra, e si discuteva. Ma non fu subito il Comitato a far discutere. In settembre, nel cortile delle Nuove, a Torino, Salvatore Cinieri, un membro di Azione Rivoluzionaria, l'organizzazione anarchica, era stato accoltellato a morte da Farre Figueras, un detenuto comune mezzo siciliano e mezzo spagnolo. In quei giorni se ne riparlò molto, forse perché a Torino, durante il processo a loro carico, i militanti di Azione Rivoluzionaria, tra i quali era Gianfranco Faina, avevano esaltato la figura dell'ucciso, e si erano scagliati contro la logica mafiosa dell'omicidio. I detenuti comuni, in genere, sembravano stare dalla parte di Figueras, che godeva di grande reputazione di “bravo ragazzo” e “uomo d'onore”. Nel carcere di Pianosa, la primavera precedente, era andato a monte un grosso tentativo di fuga. Qualcuno aveva fatto la spia, e si diceva fosse un amico di Cinieri, Paghera. E si diceva pure che lo stesso Cinieri avrebbe salvato Paghera dalla vendetta dei compagni avvertendolo del pericolo che correva e facendolo trasferire: in questo modo lui, personalmente innocente, si era messo sullo stesso piano del traditore... Tuttavia, secondo versioni successive, non sarebbe stato Paghera a parlare, ma un altro, un calabrese: in galera circolano in continuazione verità segrete e minuziosissime ma del tutto effìmere, perché non rappresentano altro che la forza di chi in quel momento ha interesse a sostenerle. Curiosamente, tutti sanno assai bene che la verità è solo la legge del più forte, ma la loro fede in essa ne riesce, se possibile, ancora più assoluta e intollerante. Le Brigate Rosse si erano cacciate in questa spirale. Non c'entravano per nulla, ma si sentivano in dovere di mettere il loro cappello su tutto quello che succedeva, e già, un po' per convinzione, e un po' per opportunismo, avevano cominciato a reclutare molti detenuti comuni, specie quelli considerati più pericolosi e determinati, e dunque ne assumevano le posizioni e il modo di ragionare. Luigi, una mattina, quasi mi saltava addosso, stravolto, con le lacrime agli occhi: “Lo sai cosa hanno detto i tuoi amici brigatisti? cosa ha detto De Ponti? Che dietro Figueras c'è il lungo braccio dei Comitati di lotta... Bastardi! Bastardi!”. Quella frase, in realtà, De Ponti non l'aveva detta: del resto, sarebbe stata una inverosimile cazzata. Ma circolava, e Lintrami, all'aria, pontificava su quel che noi politici sprovveduti avremmo dovuto imparare dai malavitosi, dalle loro brutali semplificazioni. Frasi e situazioni, quelle, che ho ricordato fin troppo bene più tardi, nel luglio dell“81, nel pieno della stagione dei morti ammazzati in galera, quando ancora Figueras, nel cortile del carcere di Cuneo, ferì a coltellate Moretti e me. Allora, davanti a quello che stava succedendo, fu proprio Moretti a dire, lui che di galera sapeva poco o niente: “Paghiamo adesso quel che non abbiamo fatto al tempo di Cinieri. Abbiamo avallato quell'omicidio
invece di condannarlo, e da allora ce ne sono stati altri, e ci hanno travolto. Non controlliamo più niente... abbiamo fatto nostra la logica della malavita, e abbiamo perso”. Ma questo è un capitolo a venire. Allora, in quel mese di ottobre, si discuteva, e ognuno dei vecchi esperti portava il suo presunto pezzetto di verità vera, e noi brigatisti eravamo sedotti dall'apparente semplicità dei malavitosi. C'erano molte ragioni, per questo. Forse, nonostante l'apparenza, eravamo più fragili di loro. Non ne avevamo la morale concreta, frutto animale e culturale di un secolare processo di adattamento, ma avevamo una morale ideologica, e dunque fittizia. Eravamo costretti a riconoscere nel loro modo di essere la complessità di un prodotto sociale, quella complessità e quello spessore che avremmo voluto possedere anche noi. E non eravamo più così sicuri che la nostra ideologia valesse altrettanto, ed eravamo sedotti da altri miti. Berardi ascoltava. Non era tra quelli che si sedevano in circolo, ma neppure tra quelli che si facevano i fatti loro e giravano al largo. Passava e ripassava. Avanti e indietro. Diceva le sue battute, e si guardava attorno con sospetto. A volte interrompeva malamente (“Compagni, ma quand'è che cacciamo giù il muro e torniamo a casa, eh?!”), altre volte s'impegnava a dire la sua. Ma non reggeva. Si vedeva che soffriva come un cane: nei giorni in cui si parlava di Cinieri era terrorizzato, sudava. Lintrami era arrivato da poco, e già mi prendeva da parte per dirmi: “Berardi sta proprio male. Vedi cos'ha, tu che hai più confidenza. In cella, dicono che sta ore intere a guardare la fotografia del nipotino: a far così, in galera, diventa matto chiunque. Anch'io, anche tu. Diglielo, fagli un po' di compagnia”. Ci provavo, ma c'era il muro di questa paura che gli stravolgeva la faccia (“Enrico, ormai i compagni s'ammazzano tra di loro”) e, in più, del suo modo avventato di parlare, di nascondersi dietro le sue frasi. A dirlo oggi, pare incredibile: nessuno di noi aveva capito nulla. La mattina del 20 ottobre, un sabato, è arrivato Arnaldi. Eravamo in cortile: hanno chiamato in parlatorio prima lui, poi me. Quando sono tornato abbiamo ripreso a chiacchierare. Mi ha chiesto: “Novità dall'avvocato?”. “No, è venuto solo a dirmi che ce ne saranno presto. Fra una settimana il giudice depositerà l'istruttoria, e allora finalmente vedremo quali prove hanno contro di me. Fino a questo momento non le hanno volute dire, è un segreto, pensa te!”. Non ha detto niente, e non ho ricordi speciali al proposito. Forse, era più calmo del solito. La domenica non si è visto all'aria, ma nessuno ci ha fatto caso. Non si è visto neppure il lunedi, ma si è detto che aveva avuto un attacco d'ulcera, e che l'avevano portato all'ospedale per gli esami. Martedì mattina è ricomparso. Il tempo era grigio e freddo. È entrato dal cancelletto del cortile con il bavero alzato e le mani nelle tasche del giubbotto. Si è avvicinato al nostro gruppetto senza dir nulla. Abbiamo continuato a chiacchierare, così, con poco interesse. Sentivo uno strano odore: dolciastro, nauseabondo. L'avevo già sentito altre volte, mi pareva, ma non ricordavo dove. Qualcuno si è allontanato per passeggiare. Qualche altro si è aggregato al gruppetto, tra questi Lintrami. È stato allora che Berardi ha tirato fuori le mani dalle tasche. Abbiamo visto subito, tutti, i polsi fasciati, le bende macchiate. L'odore del sangue era così forte, adesso, che ho voltato la faccia e ho chiuso per un attimo gli occhi. Non ha detto niente, e ci ha guardato. Aveva la pelle del viso grossa e lucida, e la barba lunga. Sudava, ed era quel fetore penetrante di sudore e sangue che dava alla testa. Ci siamo stretti attorno a lui. L'abbiamo abbracciato, abbiamo detto: “Francesco, che ti succede?”. Ha parlato piano ma con sicurezza, senza balbettare. “Compagni, scusate, ho avuto una crisi... scusatemi, non succederà più”. Ci ha guardato, e ha continuato: “Mia figlia è venuta a colloquio sabato, e mi ha detto che aveva avuto un incidente, in macchina, e c'era anche Max... mi ha detto che non si era fatto niente ma non l'ho creduta. Ho pianto tutta la notte,
guardavo le foto. Poi...” ha alzato lentamente i polsi “poi non ce l'ho più fatta, mi sono tagliato.” È riuscito a sorridere appena: “Max non si è fatto male. Davvero. Mi hanno portato in ospedale e gli ho potuto telefonare. Era allegro, stava bene e voleva che tornassi da lui... ai miei non ho detto niente” Che si poteva dire? Che ognuno di noi pensava ai propri figli, ai propri nipoti, alle facce che avevamo davanti tutti i giorni, incollate sugli stipetti? Che quello che era successo a lui era sempre lì lì per succedere, a tutti, e spesso succedeva, infatti, e solo per chissà quale miracolo la gente non si tagliava in massa, ogni giorno? Lo capivamo bene, ma era una comprensione crudele, forse l'unica possibile, in galera. Ognuno non è che lo specchio dell'altro; ognuno vede nei casi altrui i suoi stessi rischi, i suoi stessi dolori, le sue stesse malattie, il suo stesso destino... Goffamente, gli abbiamo fatto coraggio. Sembrava rinfrancato, e ha passeggiato con noi, mentre venivano rievocati episodi di tagli clamorosi – Matrone, per esempio, che proprio lì a Cuneo si era tagliato il dito di un piede e aveva dato alla guardia su un piatto, e poi lo rivoleva per mangiarselo, perché gli spuntasse di nuovo. Ma lui andava in cerca della seminfermità mentale, fors'anche della totale... Ha aspettato con pazienza che fosse l'ora del rientro. Allora mi ha detto piano: “Enrico, vieni. Ti devo parlare”. In un angolo, da soli, mi ha preso la mano con la sua, debolissima. Mi accorgevo, di nuovo, che sudava e tremava. “Enrico, quel che ho detto prima non è vero... sono stato io a fare il tuo nome ai carabinieri. Per questo, quando mi dai detto di Arnaldi, volevo morire”. Ora tremavo anch'io. Le guardie cominciavano a farci uscire, a due per due. Mi ha preso l'affanno, il panico di non farcela: non so bene cosa. “Senti, non dire niente a nessuno, per carità... e giura di non fare più cazzate, non fare niente, capito? Giura, subito... e stai calmo, mi raccomando, stai calmo... Vieni. Vieni...”. Verso l'uscita abbiamo raggiunto Lintrami. Sono bastate due parole, a lui solo. È diventato pallido, e si è appoggiato al muro fulminato dal terrore – che si sia visto, per un istante, come l'uomo che avrebbe ucciso Berardi? Berardi stava zitto, si lasciava trascinare. Le guardie chiamavano impazienti. Ci ha guardato disperato: “Non so... domattina non venite all'aria. Con la scusa della roba da lavare andate in refettorio, parlate... Tu, Enrico, fatti raccontare come sono andate veramente le cose, per bene... almeno questo. Poi vedremo, ne discuteremo. Abbiamo due o tre giorni di tempo: l'importante è che non faccia niente...”. La mattina dopo – era mercoledì 24 ottobre – ho chiamato presto il brigadiere e gli ho detto che sarei andato in refettorio, a risciacquare i panni. Quando si è allontanato dalla cella, ho sentito che anche Berardi lo chiamava. Camminavo avanti e indietro in quei pochi metri, tra il muro e la branda, aspettando. Ho ripiegato due fogli di carta e me li sono messi in tasca, con la penna, come quando andavo a giocare a scala quaranta: volevo immedesimarmi nella parte, ma non mi pareva di riuscirci. Nel refettorio faceva freddo, e lui era già lì, da solo. Abbiamo messo i mastelli di plastica sotto i rubinetti e abbiamo lasciato correre l'acqua: la roba a mollo gonfiava e buttava schiuma. “Fammi vedere... adesso come stai?”. Era sempre pallido, con gli occhi infossati, molto stanco. Come me, doveva aver dormito pochissimo. Si è tirato su le maniche lungo il braccio, e mi ha fatto vedere. Era tutto bendato, fin quasi al gomito: “Lo sapevi? Chi si taglia attorno al polso è uno che non vuole morire... i tagli si fanno così, come ho fatto io, per lungo, seguendo le vene”. Ci siamo seduti. Il rumore dell'acqua corrente ci rimbombava nelle orecchie, come fosse una cascata. Ha continuato: “Sono svenuto subito, e la guardia se n'è accorta, sennò addio! Mi hanno tenuto un giorno all'ospedale... i miei non sanno niente. Sabato che faccia avrò, quando vengono a colloquio? Così faccio
schifo”. “E ti hanno rimandato subito in sezione? In questo stato? Non ti hanno dato niente?”. “No. Adesso il dottore mi manda delle pillole, per dormire, ma io le butto via”. Parlavamo della sua vita, e sembrava un diversivo, un argomento come un altro per non affrontare la questione vera. “Dimmi, dai giornali non ho capito molto, come è andata, quando ti hanno arrestato?”. La sua versione era molto sommaria. I carabinieri l'avevano bloccato alla fine del turno, addosso non aveva nulla, e avevano invece trovato un solo volantino nell'armadietto. Da come la raccontava, quel volantino poteva benissimo essere stato raccolto in giro, e avrebbe potuto cavarsela. Ma avevano saputo approfittare al volo della sua debolezza e della sua ingenuità, e poi andavano a colpo sicuro: gli dicevano di poterlo incriminare per un grosso attentato e insieme gli parlavano della famiglia... poche ore dopo, nella caserma di Sampierdarena, in via Martinetti, faceva il mio nome. Questo, almeno, è quello che ho capito. Non era più così facile seguirlo. Di sicuro, aveva parlato fuori verbale; di sicuro aveva mescolato mezze verità e mezze bugie per salvare se stesso, per salvare me, per accontentare gli investigatori: i quali in questo solito patetico guazzabuglio ci si trovano sempre benissimo, addirittura meglio che se uno dicesse la verità chiara e semplice. Ufficialmente ne era venuto fuori qualcosa che rispecchiava quella confusione. Aveva messo la firma sotto una descrizione che mi corrispondeva ma che non aveva fatto lui (io sarei stato solito indossare mocassini “tubolari”); avrebbe poi dichiarato ai magistrati che non era assolutamente in grado di riconoscermi, avrebbe privatamente riconosciuto la mia fotografia con un ufficiale dei carabinieri. Per la difesa, insomma, c'era spazio. “Guarda che, se è come dici, se ho capito bene, ci si può mettere rimedio. Non c'è niente di compromesso, mi pare”. Fino a quel punto era rimasto calmo, anche se i momenti e i particolari della sua mezza confessione avevano cominciato ad accavallarsi e a confondersi, e io non sarei stato capace di ricostruirli con chiarezza. Ma adesso stava di nuovo crollando. Di colpo, le crepe correvano e s'allargavano, e stava per venire giù tutto. E io guardavo, impotente e spaventato. “Enrico, ho pensato... ti prego, dettami tu quel che devo dire. Faccio una ritrattazione, subito, e la mando al giudice... . Ho riflettuto appena un attimo. “No. No. È un rimedio peggiore del male, ti rendi conto? Magari ci hanno messi insieme apposta, sarebbe persino una prova in più, un casino... e poi, cosa dovresti ritrattare? La descrizione di uno che non sapresti riconoscere? Basta che non mi riconosci al processo. Lascia perdere, per carità, e promettimi di non farla tu, da solo”. Non era convinto, e gli sono venute le lacrime agli occhi. Gli sembrava di dover fare qualcosa, di agire. Mi guardava e insisteva. Penso ancora che la ritrattazione fosse un'inutile sciocchezza, ma vedo meglio di allora che sarebbe forse servita ad aiutare lui, a restituirgli un minimo di iniziativa, chissà. Abbiamo sentito gli scatti della serratura. Si è aperto il cancello ed è entrato un altro, un detenuto comune, anche lui con il secchio della roba da risciacquare. Dietro le sbarre la guardia ci osservava. Ha fatto un segno, come a dire di sbrigarci. Ho guardato l'orologio: era un'ora e mezza che eravamo lì dentro. Non me n'ero reso conto. Ma non c'era troppa fretta, potevamo tirarla ancora per venti minuti. Ho riportato gli occhi su Berardi. Era di nuovo cambiato qualcosa. S'era afferrato con le mani al bordo del tavolino. E diceva pianissimo, in un soffio: “Dovete uccidermi, ho disonorato le Brigate Rosse. Vi supplico, uccidetemi, uccidetemi...”. L'altro ci dava la schiena. Strofinava rumorosamente le sue magliette e le sue tute sotto il getto d'acqua fredda, e non sembrava badare a noi. Ma non si poteva esserne sicuri: Cuneo, da questo punto di vista, è sempre stato un carcere molto, molto speciale. Più di qualsiasi altro. Ho allungato una mano verso Berardi, ho cercato di appoggiargliela sulle spalle. Ma si è ritratto, senza guardarmi, ipnotizzato
dal vuoto che gli si spalancava davanti agli occhi. Ha ripetuto ancora una volta, torcendo la bocca nello sforzo: “Uccidetemi, vi prego... sono la vergogna delle Brigate Rosse”. Proprio così. Aveva gli occhi persi, non scherzava. Mi sono voltato intorno. Uno scoppio, un urlo, uno squarcio improvviso: cosa ci voleva per rompere l'incubo? per tornare con i piedi per terra? L'altro detenuto continuava a torcere con esasperante lentezza le sue magliette, che poi buttava in un secchio asciutto. Non potevo gridare, non potevo chiamare nessuno. Fuori, nel corridoio, intravvedevo la sagoma della guardia che, senza parere, non ci perdeva di vista. Ho perso ogni ritegno, e a voce bassa, velocemente, ho rovesciato su Berardi tutte le frasi fatte, tutti i luoghi comuni che mi venivano in mente, la famiglia, vedrai che tutto si aggiusterà, stai calmo, il nipotino, tutti ti vogliono bene, non darti per vinto, nessuno ti torcerà un capello, cerca di dormire, finché c'è vita c'è speranza... Se non la qualità, ha fatto un certo effetto la quantità. I minuti passavano. È il punto alto della crisi, con la sua intollerabile tensione, era superato, e ora pian piano perdeva la sua allucinata fissità e tornava debole, smarrito, distratto. E di nuovo sudava, sudava, con un odore acre e violento, quasi si liberasse di tutti i veleni. Ero sfinito anch'io, mi sentivo male. Ricordo bene, in quella vertigine, di avergli sorriso, prendendogli la mano, e di avergli detto: “Per i carabinieri ti perdono, te lo giuro. Ma guarda che giornate mi fai passare, accidenti a te! Mi hai ridotto come uno straccio... la vuoi smettere? Altrimenti ti rompo la faccia. Stavolta ha sorriso anche lui, e non si è sottratto alla mia stretta, mentre con la punta delle dita della sinistra si toccava gli angoli degli occhi, per toglierne le lacrime: “Sono un gran rompicoglioni, eh? Me l'hanno sempre detto, anche in fabbrica...”. Eravamo sempre lì, al punto di prima, e aspettava che concludessi qualcosa. Ma cosa, non lo sapeva lui e non lo sapevo io. “Senti, domani parliamo con calma insieme a Lintrami. Non aver paura di niente... piuttosto, ecco, se la prossima settimana esce sui giornali che sei stato tu a fare il mio nome, qui diventa difficile, per te, per me, per tutti. Ma c'è tempo per parlarne. Il tuo trasferimento. Non vedo altro... Oggi non fare niente, riposa. Domani, dopo che ne avremo parlato, forse dovrai andare dal maresciallo, per farti trasferire. Non so come, potremo chiederlo anche noi, per te. Ci penseremo, e vedrai che una soluzione si troverà, ne sono sicuro”. Questa volta pareva convinto. Annuiva, e diceva: “Sì. Sì”. Ho aggiunto: “Ci vediamo domattina all'aria, va bene?”. Mi ha guardato in modo curioso – me ne sono dovuto ricordare, più tardi – e ha detto: “Sì, domattina... e poi io ai trasferimenti ci sono abituato, sai...” Appena tornato in cella mi sono buttato sulla branda. Poco più tardi, al portapranzi che mi chiamava, oltre le sbarre, perché gli passassi il piatto, ho fatto segno che non volevo niente. Mi sentivo lo stomaco chiuso. Ho faticosamente cercato di dormire, e ho fatto sogni cattivi. Quando mi sono sentito chiamare di nuovo – “Enrico! Enrico!” -eravamo già avanti nel pomeriggio. Ho fatto fatica a tirarmi su, ero intirizzito e avevo mal di testa. Dal corridoio Chiorlin, il lavorante, mi diceva: “Te lo manda il tuo amico, là”. Ho bevuto d'un fiato il bicchierone pieno di roba calda (era davvero pessimo il tè che ci passava l'amministrazione) e mi sono sporto per salutare Luigi. Un giorno per uno, alle quattro e mezza, facevamo il tè, e ce lo mandavamo: era diventato un rito quotidiano che ci ricordava le ore passate insieme, a casa mia, a Genova. Anche lui stava in pena per Berardi. Con la mano ha accennato verso la sua cella, e senza alzare la voce ha domandato: “Come sta?”. Di sicuro sapeva che la mattina gli avevo parlato: queste cose non sfuggono mai, in galera. Gli ho fatto un segno con il palmo della mano – così così – e me ne sono tornato sulla branda. Dopo la conta delle cinque cominciavano le ore che preferivo. Le televisioni erano spente e tutti si dedicavano ai fatti loro. Chi leggeva, chi scriveva, chi metteva la pentola sul fornelletto e
cominciava a cucinare qualcosa. C'era un sommesso ronzio, un rumore sottile di pagine voltate, di penne che premevano sui fogli, di radioline tenute al minimo, di mestoli mossi con cura... Scalzone come al solito batteva a macchina. Sentivo il ticchettìo, là in fondo. Erano le uniche ore in cui una segreta concorde animazione facesse vibrare l'atmosfera, in quello strano alveare. Nella cella di fronte alla mia Malagoli – un genovese, anche lui, della “XII Ottobre” – aveva steso sul letto il cartone del suo puzzle da cinquemila pezzi, e ci stava lavorando. Mi aveva contagiato, e me n'ero fatto portare uno anch'io. Me lo riservavo per la calma, il silenzio della notte. Sono riuscito a leggere qualche pagina di Nostromo, anche se ogni tanto mi appoggiavo il libro aperto sullo stomaco, e andavo via con la testa. Sono passate due ore, o poco più. Era quasi ora di cena. C'è stato un urlo, in corridoio, un ululato lungo e basso, finito in un rantolo. Ho buttato il libro e sono corso al cancello, mi sono attaccato alle sbarre. Malagoli aveva fatto lo stesso e guardava spaventato, dalla mia parte. Mi è balzato davanti Chiorlin. Aveva gli occhi rovesciati e la bava alla bocca, contratta in un singulto muto e doloroso. Dall'esterno, s'è afferrato anche lui alle sbarre, mi ha toccato le mani senza vedermi ed è caduto giù. A terra ancora si contorceva, e teneva le braccia magre in alto, rigide, che cercavano di artigliare le sbarre. Non ho fatto in tempo a piegarmi verso di lui che già gli era sopra Angelo Dalla Longa, l'altro lavorante della sezione. Era bianco come uno straccio e tremava sbattendo forte i denti. S'è seduto a terra, vicino a Chiorlin. Ha fatto segno di là, a destra: “Berardi s'è impiccato... l'ha visto appeso, ha gridato...”. L'ha gridato a mezza voce, con un suono rauco, abortito, e non ha detto altro ed è rimasto lì, accoccolato addosso a Chiorlin che mugolava sempre più piano. Malagoli mi guardava, e io guardavo lui. La sezione era piombata di colpo in un silenzio assurdo. Ma non è durato più d'un attimo. Con improvviso stridore di ferraglia si è aperto il cancello grande, in fondo, e le guardie hanno fatto irruzione, con il rumore dei loro passi pesanti e le urla dei brigadieri. Abbiamo allungato il collo. Si sono ammucchiate davanti alla cella di Berardi: non si riusciva a vedere nulla. Tutto è stato rapido. Strette spalla a spalla, come giocatori di rugby, le guardie se ne sono andate di corsa così com'erano venute. Il brigadiere rimasto per ultimo ha chiuso il cancello della cella, ha chiuso la porta blindata – tutti quegli scatti secchi parevano tanti chiodi che la sigillassero per sempre. È sparito anche lui. Nel corridoio le guardie di turno erano raddoppiate: non più tre ma sei, e andavano su e giù svelte, senza fermarsi, e guardavano tutti noi ritti in piedi, in fila, schiacciati contro le sbarre dei nostri cubicoli, con occhi spaventati e incattiviti. Avevano trascinato Chiorlin nella sua cella, vicina a quella di Luigi, e avevano chiuso lui e Dalla Longa prima dell'orario. Era tornato il silenzio. Nessuno apriva bocca. Le guardie ora si tenevano al centro del largo corridoio, erano pallide e avevano paura. Il tempo passava, così. In una cella in fondo a sinistra qualcuno ha bestemmiato forte, e abbiamo sentito il fracasso degli stipetti divelti. Dall'altra parte, il capoposto ha telefonato. Poche parole lontane, incomprensibili. Io ero ancora lì, attaccato alle sbarre; di fronte, Malagoli camminava, tre passi avanti e tre passi indietro, con le mani dietro la schiena e gli occhi a terra. Anche nella cella alla mia destra sentivo che qualcuno si muoveva, ossessivamente. Le mani facevano forza sulle sbarre del cancello, riuscivano a imprimere loro una leggera vibrazione, una corrente che si propagava, bruciavano sempre di più, sempre di più... Intravedevo di sbieco Fontana, anche lui aggrappato alle sbarre. Lo sentivo tremare. Attimonelli, invisibile più giù, ha gridato nel silenzio: “Cristo! Che facciamo...?”. Improvvisamente si sono aperte le porte della sezione. È comparso il maresciallo, alto, robusto, con l'uniforme della festa, perfetta, il colletto della camicia bianchissimo, i guanti di pelle nera nella mano sinistra. Dietro, i due marescialli in seconda, e poi tutti i brigadieri e una trentina di guardie. Il maresciallo veniva avanti piano, sicuro di sé, attento. Parlava a voce alta, che tutti lo sentissero, e si rivolgeva ai suoi uomini, e a tutti noi dietro le sbarre.
“Povero Berardi, un così brav'uomo... chissà perché l'ha fatto, mi dispiace davvero... È morto, si... Siamo stati bravi, in tre minuti, dico tre minuti, era all'ospedale di Cuneo, non un secondo di più. Tutto quello che potevamo fare l'abbiamo fatto... Chissà perché, dico io... aveva famiglia, gli volevano bene, lo so perché con i suoi ho parlato, era gente per bene... Ma era inutile, queste cose le conosco per esperienza, purtroppo... ho visto subito che aveva i pantaloni bagnati, aveva buttato un po' di sperma, e quand'è così nessuno si salva più... eppure in tre minuti l'abbiamo portato all'ospedale, e ora sono qui io, tocca a me dirvi che non c'è stato niente da fare... ma perché? perché? Ragazzi, fra poco arriva il Procuratore Generale per l'inchiesta... viene subito... ma cosa gli posso dire lo? Chiamerà anche voi, di sicuro... ne sapete più di me... L'unica è restare calmi, calmi...” . Il corridoio è lungo. L'ha fatto tutto, lentamente, parlando sempre, mentre i suoi lo seguivano passo passo guardandosi intorno senza fiatare. E ha parlato ancora, da solo, tornando indietro. Un gran maresciallo, davvero: uno che sapeva il suo mestiere. Hanno riaperto, e se ne sono andati. Quando la porta si è chiusa alle spalle dell'ultima guardia non ce l'ho più fatta e mi sono seduto sul letto, con la testa tra le mani. Mi pareva d'avere la sabbia negli occhi, la pelle della faccia arida, bruciata. Avrei voluto piangere, ma non ci riuscivo. Ho sentito ancora, dall'altra parte del corridoio: “Enrico! Enrico!”. Era la voce di Luigi. Dalla Longa era davanti alla mia cella, e diceva: “Luigi vuole sapere se hai voglia di una tazza di tè. Lo sta già facendo”. “Ti hanno riaperto?”. “Si, per mezz'ora. Ma faccio tutto io, Chiorlin sta ancora male... stasera in terra non ci lavo, lo faremo domani”. Vedevo dietro di lui Malagoli, nella sua cella, che riponeva il cartone del puzzle sotto il letto Ho risposto che sì, avrei bevuto volentieri il tè. Anche nelle altre celle tornava un po' di movimento, e il lavorante andava di qua e di là, portando tazzine di caffè da una parte all'altra. Il turno era di nuovo normale, di tre guardie. Hanno chiuso il blindato prima del solito, alle nove, nove e mezza. Cominciava la notte, nella piccola cella sigillata. Ho fatto tante piccole cose, per perdere tempo, ma non sono riuscito a scrivere. Mi sono messo a letto tardi, e non ho chiuso occhio. Seguivo tutti i rumori che arrivavano dall'altra parte della porta di ferro, li interpretavo, li soffrivo, e sentivo che tutti erano lì, a letto, con le orecchie tese, gli occhi aperti. Le guardie sono andate avanti e indietro per tutta la notte. Ogni mezz'ora lo spioncino s'apriva e si richiudeva con un colpo secco, dopo che il veloce raggio della pila aveva esplorato la cella da cima a fondo. Saranno state le due, le tre: dalla parte di Luigi uno ha gridato, a lungo, e ha rotto qualcosa. L'ha rifatto più volte, sino all'alba, battendo contro le sbarre i pezzi dello sgabello che aveva fracassato. Era Chiorlin. Anche un altro ha gridato forte, dall'altra parte. I passi delle guardie non smettevano mai. Si poteva solo soffrire, farsi del male, tagliarsi con la lametta Bic, con il coperchio della scatoletta di tonno sottratto di nascosto al portapranzi. Si poteva battere la testa contro le sbarre, sino a cadere per terra... oppure si poteva stare distesi nel buio, diritti e fermi, come in una bara, con gli occhi aperti. La mattina dopo, all'aria, nessuno ha chiesto nulla, ha fatto parole inutili. Uno per uno, tutti avevano visto dilatate, nel buio, per la notte intera, le ragioni che avevano per ammazzarsi: Berardi ne aveva certo condiviso qualcuna. Lintrami ha messo giù un breve comunicato: esaltavamo la figura di Berardi, e davamo la colpa della sua morte allo Stato, alle sue carceri e ai suoi uomini. Non l'ho conservato. Ho invece qui, davanti a me, una lunga lettera che Luigi ha scritto a Isabella, da Cuneo, il 6 novembre. E Isabella l'ha tirata fuori proprio adesso: non l'avevo mai vista prima. Ho letto qualcosa che non sapevo. Quella sera Berardi era al buio. L'unica luce gli veniva dal corridoio: “...quella resa improvvisa alla chiamata del dissolvimento è maturata probabilmente nel buio e per quel buio che dovette apparirgli un segno del destino (pare che
avesse chiesto alle 18.30 che gli cambiassero la lampadina bruciata, voleva la luce, forse non voleva ancora morire, ma lo hanno lasciato al buio...)”. Così Luigi, che in quelle settimane a Berardi aveva voluto davvero bene. Come tutti gli altri. Palmi Il Procuratore della Repubblica di Cuneo non è venuto la sera, come aveva detto il maresciallo per i suoi buoni motivi, ma la mattina seguente. Ha interrogato brevemente sei o sette persone. Più che altro, erano formalità dovute. Qualche giorno più tardi sono stato chiamato di nuovo nell'ufficio del maresciallo. C'era un signore alto e gentile, l'onorevole Costa, allora sottosegretario alla Giustizia, che seguiva in particolare le questioni relative al carcere. Come le guardie mi hanno fatto entrare, ha alzato la testa da un foglio che teneva in mano e mi ha detto: “Lei non ci crederà, ma è la prima volta che riesco a vedere un foglio simile. Vede...” e si avvicinò, “qui sono segnati tutti i trasferimenti di Berardi, ecco...”. Li segnava col dito: Trani, Novara, Cuneo, Novara, ancora Cuneo... Sono rimasto sorpreso, perché non immaginavo che avesse girato tanto, in così poco tempo. C'era anche qualche trasferimento brevissimo, di un giorno o due. Ha voluto sapere qualcosa sulle condizioni generali di carcerazione, e io ho fatto una breve sparata contro il carcere speciale: in fondo, seppur con maggior vernice di civiltà, erano formalità anche queste. Ma ero turbato da quelle poche parole sui trasferimenti, e ci ripensavo con tormento mentre percorrevo i lunghi corridoi che mi riportavano in cella. Era come avessi trovato il collante per tante piccole sensazioni che non erano ancora andate al loro giusto posto: tante dolorose reticenze, tante impercettibili ferite, tante improvvise oscurità che segnavano il comportamento di Berardi, lo rendevano così straziante ed eccessivo. I trasferimenti così brevi vogliono dire una cosa sola, in genere: il “topo” della traduzione si ferma per strada, il detenuto è appoggiato per qualche ora in una stazione dei carabinieri, e compare un ufficiale che in modo più o meno rude, più o meno blando, fa proposte di collaborazione, chiede informazioni, minaccia, promette... Ne ho sentite, di storie simili, ma ne sono capitate molte di più di quante ne siano state raccontate, perché nessuno, quale che sia stato il suo comportamento, ama andarlo a dire: le voci corrono e non si sa che direzione prenderanno. Credo, infine, che Berardi sia stato tre volte prigioniero: prigioniero del carcere, prigioniero delle Brigate Rosse con le quali condivideva il carcere, prigioniero di chi, marginalmente al carcere, intendeva continuare a sfruttare quel suo primo cedimento, magari con la forza del ricatto e dell'intimidazione. Era preso in mezzo, senza scampo, e da questa tenaglia che lo schiacciava e che faceva delle sue giornate un inferno e gli aveva avvelenato la sua unica forza: l'ingenuità fiduciosa, la confidenza, la semplicità umana: da questa tenaglia che lo uccideva, da tutti noi che da una parte e dall'altra lo stavamo uccidendo, si è liberato con la morte. Sono rimasto nel carcere di Cuneo sino al 12 dicembre. Ricordo quelle settimane convulse e ostinate, molto diverse dalle precedenti. Lintrami combinava qualcosa, con il suo Comitato di lotta: abbiamo organizzato una protesta e c'è stato un rapido scontro con le guardie, in refettorio. Io mi ci ero buttato a corpo morto, rivestendomi di tutte le durezze e le schizofrenie brigatiste. Luigi non era dei nostri, e perciò lo tenevo a distanza; Scalzone non era dei nostri, e allora mi associavo alle polemiche e alle battute pesanti nei suoi confronti... Ero diventato molto antipatico. Eppure, prima, c'erano stati alcuni momenti più distesi, più cordiali. Con Luigi parlavo a lungo di Isabella, ed entrambi eravamo in pena per lei, che a Pisa, nel corso di una protesta, aveva preso un brutto colpo alla schiena e che era finita, per punizione, nell'orrido buco di Lamezia Terme. Poi a Perugia, per poco, e infine a Potenza, dove per mesi e mesi è stata sola, l'unica donna della sezione femminile. Luigi le scriveva; io le scrivevo, e lei scriveva
a me e a lui. Era una bella cosa, ma ora avevo rotto questa sorta di solidarietà corale che aggiungeva all'amore i colori dell'amicizia e della sollecitudine, e scrivevo, scrivevo lunghissime lettere nelle quali rovesciavo addosso a Isabella il mio nevrotico fervore e le mie intolleranze. E il suo impegno più chiaro, senza steccati e immediatamente commisurato, invece, al senso comune, vero, della nostra condizione, ne soffriva. Per fortuna c'erano anche occasioni che riuscivano a farci parlare in toni meno risentiti, piccole pause di riposo nella tensione che, in modi diversi, ci pervadeva. Isabella ha conservato le lettere che le scrivevo, in un grosso fascicolo che ogni tanto riprendo in mano, con mille pudori. Riconosco con emozione i piccoli fogli che ho sempre usato – la metà del foglio normale, che piegavo in due e tagliavo con cura, e ne tenevo sempre un mucchietto sul tavolino – e i caratteri piccoli della mia scrittura, fitti e ordinati come in un vecchio codice. Ci sono tante cose, in quelle lettere, che riguardano la vita del carcere, tante che rispecchiano i problemi e i dolori del momento. Dicevo che sono rimasto a Cuneo sino al 12 dicembre. Forse mi ero messo troppo in luce col mio attivismo nel Comitato di lotta; forse pesava su di me la Fine di Berardi e, dietro, le altre tragiche storie genovesi: fatto sta che quella mattina, alle sei, quando la sezione si è riempita di colpo di carabinieri in assetto di guerra per una delle tante perquisizioni generali, sono stato portato in Matricola. “Si parte” hanno detto, “bagaglio permesso, quasi niente”. E lì, mentre aspettavo, sono arrivati Scalzone e Massimo Battini, il rapinatore protagonista della cosiddetta “strage di Querceta”, allora simpatizzante delle Brigate Rosse. Ci hanno messo i ferri, ci siamo stretti nella minuscola gabbia del “topo” e siamo partiti. Abbiamo capito dove eravamo diretti solo alla fine, verso l'arrivo, dopo ventidue ore di viaggio senza soste: a Palmi, vicino a Gioia Tauro, nel nuovissimo supercarcere che abbiamo contribuito a inaugurare. Il giorno 14, dopo aver inutilmente cercato di far partire un telegramma, sono riuscito a fare una breve cronaca a Isabella. ”...Il viaggio è stato lungo, tanto più che il 'topo' ha avuto un guasto. Siamo scesi una volta sola, per pisciare ai bordi dell'autostrada, con cinque mitra puntati addosso e i ferri, che non ci hanno mai tolto (tanto che Battini, che pure scoppiava, non c'è riuscito, e alla fine del viaggio stava proprio male). Siamo arrivati a Palmi alle sei del mattino del giovedì. È stato tremendo, ma non del tutto spiacevole: ci siamo fatti buona compagnia (per forza! come essere in tre in una cabina telefonica), molte risate, e c'è stato un divertente tentativo congiunto, mio e di Battini, di catechizzare Oreste – al credo brigatista, s'intende. Senza alcun risultato. È il più mite e il più cocciuto degli uomini. A Palmi, abbiamo trovato che stavano concentrando lì un mucchio di prigionieri. Hanno inaugurato il carcere portandoci gente scelta da tutte le carceri speciali, compreso il nucleo storico delle Brigate Rosse reduce dal processo di Torino. Si è trattato di una operazione militare segreta e in grande stile, che ha coperto tutto il territorio nazionale con un grande dispiegamento di forze. In breve. Qui ci sono settanta posti. Ieri sera eravamo in trentacinque, perché nel pomeriggio, in elicottero (i grossi chinook) erano arrivati tutti quelli di Torino, meno Gallinari e Nadia Mantovani, che dopo una sosta qui di poche ore è ripartita per Trapani, più altri da Fossombrone e da Trani, tra i quali Toni Negri. Oggi sono arrivati altri elicotteri dalla Favignana, con un altro carico scelto, e forse dalla Pianosa. Atterrano nel campo sportivo, tra nidi di mitragliatrici. Adesso siamo circa cinquanta. Domani saremo forse al completo. Che dire? Tutti sono perplessi. Non c'è mai stata una simile concentrazione, ed è strano che la notizia non sia uscita, con l'eco che merita. Interpretazioni? Chi dice: ci affogano tutti in un colpo solo. Oppure: ci sganciano in testa una piccola atomica, e non se ne parla più... Insomma, battute. Vedremo (parentesi tutta mia: non è troppo bello, giuridicamente, che io sia finito qui! O no? Tu che ne pensi?). Il carcere. Il carcere è quello che ci si può aspettare. I passeggi sono alte gabbie metalliche di fronte alle celle, e le reti, le putrelle, le sbarre formano un intreccio così fitto che il sole quasi non passa. Alt! Novità. Sento gridare dal piano di sopra... È arrivata l'Asinara, e Nuoro. Prima volevo dirti: manca Alunni, i fratelli De Laurentiis, Mimmo Delli Veneri, Panizzari... beh! ora sono qui, da pochi minuti. C'è ancora fermento e attesa. Domani vedremo di capire meglio. Allora, il carcere. È un gran casino, per il semplice fatto che non funziona ancora niente.
Non ci sono lavoranti; non ci sono ancora ruoli precisi tra le guardie – la posta, la spesa, i giornali, gli infermieri... è tutta una gran confusione (altra voce dall'alto: saremmo al completo. Questo spero che significhi che le cose si mettano in moto). Tutti siamo arrivati con pochissima roba, per evidenti esigenze di controllo. Ieri ero stanchissimo, perché non avevo dormito, e perché sono stato all'aria a salutare questo e quello e a fare le prime chiacchiere. Ho ritrovato Pinto, che era partito da Cuneo per Trani due giorni prima di me. Ti scriverò con più calma: ora, per farlo, ho dovuto farmi dare carta, penna e francobollo da Piancone, che pare sia l'unico fornito di tutto. Oggi, più di ogni altra cosa è stato interessante l'incontro-scontro, nel passeggio, tra Renato Curcio e Toni Negri. Eravamo in uno dei tre cortiletti in dieci, undici, e si parlava un po' tutti: ma molto presto, com'era inevitabile, s'è fatto cerchio e, mentre noi ci tacevamo, i due hanno cominciato a scontrarsi, molto correttamente, sin troppo. Sembrava camminassero sulle uova. In maggior difficoltà era evidentemente Negri (gli hanno fatto un bello scherzo, a cacciarlo in questa fossa di brigatisti!), ma ha saputo mascherarlo con molta intelligenza. È stata una partita di fioretto, che io non ho potuto seguire nelle sue sfumature, tant'è che se dovessi sintetizzare i termini della discussione non mi verrebbe in mente nulla. Forse perché Negri è riuscito a tenere tutto su un piano molto accademico. In effetti non si è compromesso neanche per un capello, e che di tante parole non sia rimasto niente è probabilmente proprio quello che voleva. Ma qui è in una situazione difficile – davvero diabolici, al Ministero! – e non è affatto detto che ai colpi di fioretto non seguano le sciabolate. Beh! non riesco a dire molto di più perché le cose sono ancora in progress: vedremo i prossimi giorni. Così contribuirò anch'io al fatto che Palmi dovrà raddoppiare il suo ufficio postale. E mi sa che il carcere, qui in questo paese, stia un po' per l'Italsider di Gioia Tauro. Intanto ho saputo che l'hanno fatto, buttato giù e rifatto, e ci lavoreranno ancora per chissà quanto. Vedi? per qualcuno, finalmente, siamo una benedizione, una manna, come da qualche parte spiegava già Marx”. M'accorgo che in questo resoconto manca un particolare al quale sono sempre rimasto affezionato, non so bene perché, quasi fosse stata quella la vera “marca” del viaggio verso Palmi. Quando siamo partiti da Cuneo faceva freddo, ma la giornata s'annunciava limpida. Per non soffrire lungo la strada, ci siamo tolti i giacconi prima che ci mettessero i ferri, ed è srara un ottima idea. Già verso Savona la temperatura nella gabbia era normale e normalmente puzzolente, certo. E allora Oreste, con i suoi modi miti e squisiti, ha pregato me e Battini di sfilargli il maglione. Con molta fatica, impacciati da ferri e catene e dall'angustia dello spazio in cui potevamo muoverci, glielo abbiamo fatto passare sopra la testa, e l'ha tenuto così, ammucchiato attorno ai polsi stretti negli schiavettoni. A Genova, con altrettanta gentilezza ci ha chiesto di sfilargli anche il maglione che aveva sotto – per noi era ormai caldo. L'abbiamo fatto, naturalmente. Ma a Sestri Levante è toccato al terzo; a Levanto al quarto; a La Spezia al quinto... e l'aria era sempre più soffocante. A un certo punto — e io e Battini eravamo ormai stremati dal ridere – abbiamo seriamente temuto che di Scalzone non rimanesse più niente. Il cavaliere inesistente! Gli abbiamo tolto di dosso undici o dodici maglie, di vario spessore e colore, che hanno finito per ingolfarsi mostruosamente sulle sue braccia. Ma appena tolta l'ultima, dopo mezz'ora, in modo lento e inesorabile abbiamo dovuto far fare alle maglie il cammino inverso, e finalmente, mentre il “topo” filava nella notte, oltrepassata Lamezia, Scalzone era tornato quello di prima... Sfila e infila, abbiamo lavorato per tutto il viaggio, e non è stata, a ripensarci, un'impresa facile. Le serie ragioni di questa estrema sensibilità alle variazioni di temperatura, Scalzone stesso ci ha spiegato che gli venivano tutte dalla distorsione della quale soffriva alla spina dorsale, da quando i fascisti gli avevano buttato una panca sulla schiena, dal tetto dell'Università di Roma, mentre lui tentava d'entrarci, durante i tumulti del '68. La scena è famosa, e la si è vista e rivista molte volte in televisione. La lettera al limone
Toni Negri era molto nervoso, sempre, e il caratteristico ghigno che gli storceva la bocca non faceva che accentuare la sua perenne concitazione. Non era facile parlargli perché non stava a sentire, interrompeva e partiva rapidamente per conto suo. Gli si poteva tener dietro, invece, e se ne ricavava sempre qualcosa di interessante. “È l'unico qua dentro che sia davvero aggiornato – ripeteva spesso Franceschini – e che riesce a orecchiare subito l'ultima teoria di moda all'estero. Questa è la base del potere che ha sui suoi”.
I suoi seguaci – almeno quelli che erano con lui, quattro o cinque — si comportavano in modo curioso. Uno per volta, in segreto, con vari ammicchi, si erano preoccupati di far sapere che loro, per carità! non erano mai stati d'accordo con lui; che se ne dissociavano completamente, da quel che diceva o faceva. Ma era invece evidente, palpabile, che in qualche strana maniera erano legatissimi a lui, e che l'odiosamato maestro era a tutti loro indispensabile. Chissà cosa mai li tiene assieme così, commentavamo tra noi, sembra una massoneria... Io, per conto mio, avevo scoperto un'altra cosa che mi aveva dato da pensare. Negri sembrava sapere tutto di tutti. Un giorno, all'aria, abbiamo chiacchierato a lungo di Genova: dell'Università e del movimento. Per quanto ne potevo capire, aveva sempre avuto informazioni dirette e continue, sapeva benissimo cosa facevano o non facevano gli autonomi, e sapeva da tempo di me, della mia appartenenza alle Brigate Rosse. Lo ascoltavo, e volevo credere che fosse tutto un bluff, un abile gioco: e lui era certamente inarrivabile nel mostrar di sapere tutto e nel farlo pesare, per accenni, insinuazioni, sfumature, reticenze calcolate. Ma con tutto ciò non riuscivo a coglierlo in fallo. I conti tornavano, e insomma la sapeva davvero lunga, anche su una città così defilata, nel complesso, dalla sua influenza, e dove così debole era sempre stata la presenza dell'autonomia. Abbinava, con loquacità e malignità tutte venete, il gusto sfrenato del pettegolezzo accademico con quello del pettegolezzo politico, e io lo stavo a sentire travolto e divertito. Più che le novità della sociologia anglosassone, pensavo, è il fatto di padroneggiare questa massa di informazioni, e dunque di tenere in mano i capi di una fìtta rete di rapporti personali, che gli dà tanto prestigio pratico, tanta autorevolezza. L'ostilità nei suoi confronti stava in ogni caso montando rapidamente a livelli allarmanti, e le opportunistiche dissociazioni dei suoi amici, che ne erano solo marginalmente sfiorati, ne costituivano solo uno dei segnali più evidenti. In un ambiente dominato dalla logica della rivendicazione e della contrapposizione frontale l'innocentismo a oltranza e gli interminabili colloqui con i giudici, che ne parevano il corollario, suscitavano mille problemi. Molti erano sbalorditi, increduli: “Ieri Negri è stato dodici ore col magistrato che l'interrogava! Che cosa gli avrà detto?”. “E la settimana scorsa otto ore, per due giorni di fila... e ha fatto ormai migliaia di pagine di verbale”. Di più, ogni protesta d'innocenza aveva un significato chiarissimo e non eludibile di contrapposizione: “Non avete capito nulla. Non sono io: sono loro!”. Loro-, i brigatisti, i nappisti, i piellini... Questo tipo di contrapposizione, più o meno esplicita, ha costituito l'asse portante di ogni presa di posizione in difesa del cosiddetto “7 aprile”, per gli anni seguenti. Una difesa che tagliava di netto tra movimento e lotta armata, anche nelle sue espressioni minime, e condannava dunque quest'ultima, almeno nelle intenzioni, al limbo di un'esistenza marginale ch'era meglio dimenticare al più presto, o tutt'al più regalarla al settore “dietrologia e complotti”. L'innocenza degli uni doveva essere pagata sottobanco con i secoli di galera tacitamente inflitti agli altri. La storia vera degli anni passati, insomma, sarebbe stata quella scritta da chi si proclamava estraneo a tutto quello che era successo. Il che spiega sin troppo bene perché quelle forze della sinistra che si facevano portatrici di questa bizzarra operazione chirurgica che risecava in due la realtà e la rovesciava, non abbiano mai né voluto né potuto contribuire seriamente alla ricostruzione e all'analisi degli “anni di piombo”: e infatti come avrebbero potuto farlo, se a protagonisti degli anni di piombo venivano promossi solo quelli che con il piombo garantivano di non aver avuto niente a che fare? Una siffatta operazione era ovviamente legittima per quanto riguardasse i diritti della difesa, cioè l'eventuale non colpevolezza personale di una serie di imputati: nel momento in cui, invece, prendeva forma come operazione politica che implicava tagli radicali nel campo dell'ultrasinistra, e che partiva proprio di li, da Palmi – da questa concentrazione di stati maggiori (tra l'altro, c'era anche Faina, per Azione Rivoluzionaria) – non poteva sicuramente andare senza contraccolpi. E chi, dall'esterno, pubblicamente, si chiedeva come mai Negri fosse stato buttato cosi, nella fossa dei leoni, tra i terroristi veri, non faceva che buttare benzina sul fuoco. I brigatisti, poi, si ponevano la stessa domanda. Come
mai? Non poteva essere stata, infatti, una scelta meramente amministrativa quella che aveva messo insieme un gruppo come quello del “7 aprile”, che si proclamava in toto innocente e che da questa innocenza partiva per una ricostruzione tutta propria degli anni '70, e l'insieme più largo che raccoglieva militanti delle più grosse organizzazioni armate, che rivendicava a sé ogni azione di guerriglia passata, presente e futura, e teorizzava e cercava di praticare il processo-guerriglia. La divaricazione era troppo forte. Ma che non fosse stata proprio questa la ragione delle direttive ministeriali? Un ricatto, una provocazione diretta sia contro gli uni che contro gli altri? mettiamoli nei guai e vediamo che succede. Ma allora: chi, come Negri, organizzava una così grossa operazione di sganciamento non collaborava forse, di fatto, con il Ministero? Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri e i discorsi che allora facevamo tra noi. E la tensione cresceva. I detenuti comuni che simpatizzavano per le Brigate Rosse, abituati ad andare per le spicce, già cominciavano a meravigliarsi di tanta tolleranza. Ci fu chi propose, in perfetta buona fede: “Se vi fa troppi problemi dargli una coltellata, ci pensiamo noi più che volentieri”. Qualche altro tornava ad alludere a vecchie polemiche contro i politici, che non sarebbero stati capaci di arrivare a uccidere, in carcere, per imporre le loro regole e il loro potere: avevo già sentito affiorare cose del genere mesi prima, a Cuneo, quando si discuteva di Cinieri. Negri, insomma, rischiava sul serio, anche se, abbastanza sventatamente, pareva non rendersene conto. Mancava ancora, tuttavia, l'elemento decisivo, l'occasione che avrebbe potuto far precipitare di colpo la situazione. Io ero ormai passato dal cubicolo a un cameroncino a quattro posti, al primo piano, insieme a Curcio, Franceschini e Bertolazzi. E fu proprio Franceschini a tornare dall'aria, un giorno, con un giornale sotto braccio. Era una copia del quotidiano genovese “Il Lavoro”. Lo buttò sul tavolo e disse: “Ecco qua. C'è una lunga intervista di Negri. Volevano tenercela nascosta, se ne sono ben guardati dal parlarne”. L'abbiamo letta. Si rivolgeva a quello Stato che lo teneva in carcere, e diceva più o meno di essere, lui, un uomo di confine, uno che guardava oltre, e che poteva, sì, aver avuto rapporti con parte delle forze che confusamente aggredivano la società, ma solo per controllarle meglio e domarne la capacità distruttiva, riconducendo a un ruolo paraistituzionale quell'energia sociale che per così dire sovrabbondava in periodi di rapide trasformazioni e di crisi, e che per sua stessa natura non poteva trovare sfogo lungo i tradizionali canali della rappresentanza politica. Vaneggiava anche lui, evidentemente. Ma le sue formulazioni erano a loro modo efficaci e riproducibili: non è stato di sicuro l'unico che abbia chiesto allo Stato un patentino per la sua guerra di corsa. Non ho mai più visto quell'articolo, e può darsi ch'io l'abbia qui riassunto in modo inesatto: allora, però, l'abbiamo tutti interpretato in maniera molto grossolana e perentoria. Era, semplicemente, la prova che il nemico l'avevamo lì, tra noi. “E poi – aggiungeva Franceschini furibondo – lo sapete cosa mi ha detto l'altro giorno? Che noi brigatisti abbiamo tutti un cervello poco articolato!”. Il pretesto era dunque arrivato. L'aria attorno all'ignaro Negri era elettrica. Per il carcere girava una sola parola d'ordine: lo si era finalmente scoperto; bisognava fargliela pagare. Ma a quel punto era anche diventato chiaro che nessun brigatista voleva che una cosa simile accadesse davvero: era inaccettabile, rischioso, incomprensibile fuori dalle mura del carcere, da quell'ambiente... era precisamente un modo di cadere nella trappola che pensavamo fosse stata preparata. Come si sarebbe potuta giustificare una tale enormità? E quali ripercussioni, quali conseguenze avrebbe avuto? Si era lasciato, con troppa leggerezza, che circolassero battute e propositi tanto feroci quanto assurdi, e ora che l'eccitazione era andata troppo oltre bisognava metterci rimedio, salvaguardando sia la sostanza interna dell'atteggiamento brigatista e la sua pratica egemonia nel carcere, sia l'equilibrio, la razionalità, l'immagine di sé. E infine, il più normale buon senso. Dopo tutto, a parte gli odi personali e l'intreccio dei motivi politico-ideologici che solo gli addetti sarebbero riusciti a capire, non si poteva ammazzare uno perché voleva mettere la maggior
distanza possibile tra sé e le Brigate Rosse, e perché aveva riempito, è vero, pagine e pagine di verbale, ma solo di chiacchiere innocue. Tanto più, trattandosi di uno che nelle Brigate Rosse non c'era mai stato. A queste ragioni se ne aggiungeva un'altra, affatto speciale, che ha qualche interesse per lo studio della mentalità corrente dei detenuti politici e del carattere mitico-ingenuo che aveva la loro visione della realtà. A Palmi non si stava male. E nella testa dei leader delle Brigate Rosse aveva preso forma un'idea: che quel carcere potesse diventare qualcosa che stava tra l'Università e il Quartier generale della lotta armata. Dunque, per garantire tutto questo, si dovevano assolutamente impedire gli omicidi. “A Palmi si studia, non si lotta!”, hanno detto per anni i detenuti delle altre carceri speciali, in tono di rabbia e di accusa, e con una punta di invidia: e il modello positivo, dove si lottava, che venne contrapposto a Palmi fu, per molto tempo, Nuoro. C'era un detenuto comune che tutti chiamavano Bosco (ma era d'origine slava, e il suo cognome vero era Boscovich, mi pare) che scendeva qualche volta all'aria e cercava di parlare con questo e con quello. Nessuno gli dava retta. Mi hanno spiegato: “È un morto che cammina. È condannato...”. Sembra che avesse strappato, un anno o due prima, la catenina d'oro dal collo di un altro detenuto gravemente ferito (o, secondo altre versioni, l'aveva pretesa in cambio di una bottiglia d'acqua). Quest'altro era uno dei “bravi ragazzi” più conosciuti, Vincenzo Andraous, uno dei futuri uccisori di Turatello, a Nuoro, del quale si è parlato anche per la sua iscrizione al Partito Radicale. Tutti avevano dunque il diritto-dovere di ucciderlo, e lui lo sapeva. Ma a Palmi una cosa simile non doveva succedere. Hanno risolto il problema dicendogli: “Resta chiuso nel tuo cubicolo e non farti più vedere, altrimenti ti ammazziamo”. L'ha fatto, e giù in cortile non s'è più visto. Ma la sua cella, al primo piano, dava sui reticolati dei passeggi, due metri appena più in là, e ogni tanto, senza che nessuno mostrasse di farci caso o spendesse anche solo mezza parola, abbiamo passeggiato e chiacchierato su e giù mentre lui, chiuso, urlava per ore e ore, in maniera bestiale, pazzo di disperazione e di paura. Molti mesi dopo è stato trasferito a Novara, e là il suo destino si è compiuto: gli hanno tagliato la testa, l'hanno presa a calci e l'hanno ficcata a forza nel cesso. Ma questo epilogo, quando me l'hanno raccontato, mi ha colpito meno di quel che mi avessero colpito le sue urla, quando io e gli altri facevamo fìnta di non sentirle, e in qualche modo non le sentivamo davvero perché lui, ormai, era già morto. Ma erano urla vere, che dicevano quel che l'Università o il Quartier generale erano veramente. Impregnavano l'aria, diventavano una cosa sola con quei muri, con quei ferri, mentre il fiume in piena delle nostre parole politiche passava, passava, e non lasciava traccia. Una mattina ci siamo trovati meno numerosi del solito, al passeggio. Una quindicina. C'era anche Negri, e c'era Franceschini. Era l'occasione buona. Hanno cominciato a discutere, di chissà cosa. Il tono è salito di colpo, e già Negri stava nell'angolo, le spalle al muro, terreo. Franceschini lo chiudeva puntandogli il dito addosso, e lo insultava. Freddamente, con determinazione. Ci siamo stretti attorno a loro, per non perdere niente della rissa improvvisa, ma era una rissa strana, a senso unico. Franceschini si muoveva come fosse sulla pedana di un piccolo palcoscenico: partiva all'assalto col braccio teso, la bava alla bocca, e gli piantava addosso i suoi insulti come coltellate. Si ritirava, poi, di un passo o due, gli voltava la schiena, lo guardava di traverso, sopra la spalla, senza minimamente curarsi di ascoltare quello che l'altro gli diceva, e ripartiva implacabile all'attacco. Avanti e indietro, come una grossa mazza, una ruspa che avesse da sbancare un monte, da tirar giù un muro... Negri era inchiodato nel suo angolo, con la faccia di uno che sta annegando. Ribatteva affannosamente qualcosa, per sé, non per gli altri — nessuno di quelli che gli puntavano gli occhi addosso lo stava a sentire. Era solo per prendere fiato, per respirare, nel breve intervallo tra le ondate successive che lo incalzavano, che si abbattevano su di lui. “Io t'ho capito... tutti ormai t'hanno capito: tu vuoi fare il Malher della situazione, buttarti con lo Stato, venderti il movimento per i tuoi sporchi interessi... ma se tu sei Malher” e qui Franceschini urlava, che
tutti lo sentissero, dai passeggi vicini, dalle celle, e faceva paura a vederlo “...se tu sei Malher, ti giuro, ti giuro che io non sarò Baader... e prima che mi facciano fuori ti scanno io, con le mie mani!”. Negri, insomma, era salvo. E in fondo agli occhi di Franceschini che concludeva con grandi gesti la sua furente sceneggiata era nascosto un filo d'allegria. Tutti ora sapevano come stavano le cose, e il carcere intero aveva avuto la sua soddisfazione, e le Brigate Rosse più di tutti: se ne sarebbe parlato a lungo e sarebbero fioriti aneddoti e interpretazioni varie, ma intanto il problema era stato risolto. Da quella mattina Negri ha cominciato a scendere pochissimo all'aria, e a starsene per conto suo: lì, la sua storia e le sue faccende avevano finito di significare qualcosa. Mi pare che più tardi egli abbia molto insistito, anche in tribunale, sulle minacce di morte che gli sono state rivolte in quell'occasione: ma se è vero che a Palmi ha corso qualche brutto rischio, non è stato certo allora, e mi pare inverosimile che non abbia capito come quella pubblica doccia di insulti e minacce sia servita a scrollargli di dosso guai peggiori. Ma l'angoscia vera di quei mesi era un'altra. Non l'avrei mai sospettato. Erano passati dieci giorni dal mio arrivo a Palmi, e ne mancavano ancora due o tre a Natale. Una mattina lo stesso Curcio mi propose di lasciare il cubicolo e di raggiungere lui e gli altri due nel cameroncino (il piano era diviso in due: da una parte una decina di celle singole, piuttosto buie, e dall'altra sei cameroncini a quattro posti). Non m'aspettavo un invito simile, e ne fui contento: avrei passato le feste in compagnia, in modo più allegro. E dopo le tremende giornate di Cuneo ero stanco e frastornato, e l'esplosione di zelo brigatista che aveva seguito la morte di Berardi mi si stava spegnendo dentro. Questa chiamata arrivava dunque nel momento giusto. Mi ributtava in mezzo alle cose, ai compagni, e mi ridava un po' di carica. Sul libretto avevo qualche soldo. Ho subito ordinato allo spesino fichi secchi, noci, datteri e del cioccolato. In Direzione hanno tagliato quasi tutto, come al solito, e mi è arrivata pochissima roba, una miseria, ma sufficiente, insieme a quella degli altri, per un discreto Natale. In più, è passato per le celle il cappellano del carcere, don Misiti, e ha portato a ognuno di noi un pacco di dolci tipici calabresi, sorprendentemente buoni. Ma la novità e l'artificiale eccitazione di quei giorni non hanno mascherato a lungo il dramma che si respirava in quella cella, con una intensità tutta particolare, e che condizionava ogni pensiero e ogni atteggiamento. Si trattava delle Brigate Rosse. Né più né meno. “Allora, su, spiegaci...”. Eravamo seduti intorno al tavolo, cioè alla porta del cesso tolta dai cardini e appoggiata ai ferri di due brande contrapposte, a far da tavolo. Mi fissavano, e volevano sapere. Volevano sapere tutto. Quello che le Brigate Rosse erano diventate, i loro programmi, la loro organizzazione, cosa intendevano fare nei confronti dei compagni prigionieri: “Allora, su... e non venirci a raccontare anche tu che fuori il problema più grosso che avete è quello della casa! Ormai non sapete dire altro: le case, le case! Non riusciamo a far niente perché non abbiamo case... siete tutti rincretiniti, là fuori?”. Era Bertolazzi, il Nero. Aveva qualcosa dello Stalin giovane, l'aria sorniona di quello che aspetta, e pensa che prima o poi dovrà ammazzare i compagni che gli stanno attorno, quando sarà il momento di fare sul serio. Gli altri due erano d'accordo con lui: “Le case... è un incubo! A sentire quelli che sono arrivati in galera in questi anni sembra che noi abbiamo fondato un'immobiliare, non un'organizzazione rivoluzionaria: ma anche come immobiliare c'è chi la sta portando al fallimento”. La verità veniva fuori senza ritegno, prima ancora che io potessi aprire bocca. Avevano fondato le Brigate Rosse e non le capivano più, non ne sapevano nulla, non sapevano che parte toccasse a loro, ammesso che gliene toccasse una: “Io – era Franceschini – non riesco più a considerarmi brigatista dal '76”. “Lo sai che di Moro non abbiamo mai saputo niente, e che sei mesi dopo che l'hanno ammazzato hanno chiesto a noi, a noi prigionieri, di scrivergli un documento che spiegasse perché l'avevano fatto...
loro ancora non lo sapevano! glielo abbiamo dovuto dire noi”. “Lo sai che da tre anni non abbiamo avuto da fuori nemmeno un volantino?”. Odiavano Moretti. Deridevano pesantemente Micaletto, che chiamavano Minchia-Minchia: “Stiamo freschi, se uno come Minchia-Minchia è di quelli che adesso comandano: ma se si preoccupava solo della sua macchina?!”. “Ci avessero messo appena un po' d'impegno, l'avessero voluto veramente fare, lo sai che dall'Asinara un anno fa potevamo andarcene tutti? Te l'hanno mai spiegato questo?”. Il grumo dei rancori era spaventoso. Andava oltre i fatti, e viveva ormai d'una sua autonoma ipertrofica realtà. Di quella fantastica fuga in massa dall'Asinara ho sentito parlare all'infinito: era un'irrealizzabile pazzia, una di quelle imprese minuziosamente verosimili, perfettamente circostanziate, che mai si avvereranno. Ma ciò non significava nulla. Era diventata ormai un gigantesco emblema, un monumento all'abbandono: le Brigate Rosse se ne fottevano dei compagni in galera, li avevano mollati alla loro sorte, era più che probabile che i nuovi capi non volessero affatto tirar fuori i vecchi, boicottavano sistematicamente ogni piano di evasione... “Lo sai che Mara è andata a Casale, a liberare Renato, contro la volontà degli altri, Moretti in testa? Che per questo è successo il finimondo, nell'organizzazione, quasi si sparavano”. Ero sorpreso, e non capivo bene. Molte cose, poi, non le sapevo. Ma mi ferivano gli insulti, i giudizi sprezzanti, i sospetti verso i compagni, sia quelli che avevo conosciuto, come Micaletto, sia quelli che non conoscevo ancora, come Moretti. Non pensavo che fosse una buona cosa. L'ho anche detto, con forza. E da allora mi sono attirato i sarcasmi di Franceschini, che giocava a provocarmi. Quando hanno arrestato Micaletto e Peci, a Torino, s'è messo a saltare sul letto gridando: “Evviva! Evviva! Li mettano tutti dentro, questi caproni. Solo così le Brigate Rosse si salveranno!”. Mi guardava e rideva, e più mi arrabbiavo più si divertiva: “Su, non fare quella faccia da funerale! Prendi le cose alla grande... non vorrai dar ragione a Negri, che abbiamo un cervello poco articolato?!”. Sfotteva spesso anche Curcio, però, per i suoi atteggiamenti un po' didattici, un po' pedanti, ma ciò faceva parte del legame che li univa: erano diversi ma, per vari aspetti, complementari. E fu Curcio a farmi un essenziale quadro della situazione. Mesi prima, mi pare in settembre, in occasione di un processo a Firenze, il cosiddetto “nucleo storico” aveva fatto arrivare all'esecutivo, fuori, un documento con il quale si dichiarava la più totale sfiducia negli attuali dirigenti dell'organizzazione, e si chiedevano formalmente le loro dimissioni per manifesta incapacità. Pareva che, tolti di mezzo loro, ci fossero idee e forze in abbondanza che avrebbero fatto rifiorire le Brigate Rosse: migliaia di “fazzoletti rossi” alla FIAT non aspettavano altro; interi quartieri, a Milano, si sarebbero coperti all'istante di striscioni e bandiere con la stella a cinque punte. Era solo, come sempre, una questione di linea politica: quella giusta, naturalmente, come spiegava nei dettagli il documento che Curcio e Franceschini andavano componendo a quattro mani, Soggettivismo e militarismo (dove, in sostanza, soggettivisti erano quelli di Prima Linea e delle frange armate dell'Autonomia, e militaristi quelli delle Brigate Rosse). Io invece banalizzavo diversamente, e un po per ridere e un po' sul serio andavo dicendo che il modello di Prima Linea era l'America – non per nulla II mucchio selvaggio era il loro cult movie – e quello delle Brigate Rosse la Russia. A che punto, dunque, erano le cose? Ancora non si sapeva: “Aspettiamo la risposta da quelli di fuori. Ogni settimana è buona, ormai... intanto, è positivo che si apra una fase di confronto, dopo tanto tempo. Tutta l'organizzazione dovrà essere messa in grado di discutere”. Sembrava una cosa già fatta. E ne nasceva un preciso organigramma anche per noi che stavamo dentro: proprio noi quattro, in quella cella, per esempio, avremmo dovuto dar forma a una sorta di centro interno, che raccogliesse analisi e notizie dalle altre carceri e le rielaborasse per l'organizzazione esterna. Ma come ho capito meglio solo più tardi, di là da tante parole c'era un punto solo attorno al quale
tutto ruotava: la direzione effettiva di tutto ciò che riguardava il carcere spettava ai carcerati. In qualche modo, rovesciando la linea seguita rigidamente sino a quel momento, ci sarebbero state due Brigate Rosse, quelle fuori e quelle dentro. E quelle dentro, per ciò che le riguardava, avrebbero dovuto dirigere quelle fuori. È curiosa, a ripensarci ora, la facilità con la quale il gruppo storico detenuto a Palmi si era convinto di vincere senza troppa fatica: non aveva che l'arma della scomunica, ma immaginava che fosse, quest'arma, la più potente di tutte. Quelli fuori, che non parevano in grado di capire quello che facevano e di scrivere uno straccio di documento, non potevano che cedere. Non c'era che da aspettare la loro risposta. E la risposta arrivò. Ci furono dei bisbigli, una sotterranea animazione. Era arrivato un libro, per posta, non so a chi né da dove: ora ce l'aveva Franceschini, l'aveva portato in cella. Ce lo indicava con gli occhi, sul mobiletto insieme agli altri, mentre mangiavamo: “La risposta è là dentro. Ci mettiamo al lavoro stasera, dopo che ci hanno chiuso”. Erano tutti elettrizzati: stava per aprirsi, finalmente, la discussione politica tanto invocata, che avrebbe ridato senso e fondamento a ogni cosa, e dalla quale ognuno avrebbe avuto ridefinita la propria identità politica e organizzativa. Io non la vedevo così bene, e mi era soprattutto estranea questa altalena di linguaggi e di stati d'animo, dai livori e gli insulti del giorno prima alle fervide e confuse speranze del presente. Abbiamo cenato alle otto, come sempre, e abbiamo aspettato l'ultimo giro delle guardie che chiudevano gli spioncini e davano due mandate in più ai blindati. Era arrivato il momento. Ho infilato il foglio nella piccola portatile, la Underwood che mi avevano regalato i colleghi genovesi, mentre Franceschini e Bertolazzi accendevano il fornelletto a gas e lo mettevano al minimo. Tutto era pronto. Il messaggio era scritto con il sugo di limone, invisibile tra una riga e l'altra del libro: si dovevano tenere le pagine sopra la fiamma, con attenzione, e il sottile ghirigoro bruno della scrittura sarebbe ricomparso. Nelle prime pagine non apparve nulla. Poi, sul foglio che cominciava ad accartocciarsi, un numero. Stupidamente, ci siamo guardati. Rinviava alla pagina, di sicuro. Così, lentamente, compitando ogni parola, Renato ha cominciato a dettarmi quel che leggeva sui fogli tostati che gli ammucchiavano davanti, strappati via via dal libro. Ero preso da questa faticosa trasmigrazione e metamorfosi di segni. Fissavo le nere lettere a stampa ormai incatenate a quelle infantili e brunastre che riempivano fittamente gli spazi e stravolgevano misteriosamente il senso della pagina: e Renato leggeva piano, e quei segni diventavano suoni lenti e pesanti, sillabe che ricomparivano ancora una volta diverse, dure e martellate sotto i tasti della macchina, allineate sopra il freddo candore del foglio. Guardavo la carta arrossata dalla fiamma, gli orli neri e corrosi, e guardavo i tasti e la loro impronta netta sul foglio bianco. Non avevo pensieri. Era una cosa troppo bella per avere un senso. Renato taceva. Teneva i pugni stretti, appoggiati sul tavolo, e guardava gli altri due che avevano ancora il libro a mezz'aria. Il messaggio non era finito. Bertolazzi ha cominciato a imprecare, con odio: “Figli di puttana! Bastardi! Arriveranno qui, prima o poi... li scanniamo come capretti, uno per uno. Pezzi di merda!”. Franceschini era rosso in faccia. Erano rosse anche le punte delle orecchie. I suoi occhi rispondevano allo sguardo interrogativo di Renato con rabbia e preoccupazione. Era tanto serio da parer quasi spaventato. Quasi tra sé, diceva: “Voglio proprio sapere chi ha scritto questa roba. Vedrai che verrà fuori. Dalle espressioni che usa deve essere uno che passa un sacco di tempo al bar... senti qui... e qui”. Il messaggio non era finito, ma avremmo potuto risparmiarci di trascriverlo tutto. Quel che voleva dire, era già chiaro. Era una bella bastonata in testa al “nucleo storico”: una bastonata storica. Diceva, in breve: siete in carcere, godetevela e fate i carcerati; alla lotta armata ci pensiamo noi; rispetto a quel che succede fuori voi non capite niente e contate meno di niente; tutto quel che di buono potete fare, è non romperci le scatole. Respingeva ogni accusa circa il piano di fuga dall'Asinara e chiedeva
sarcasticamente: “diteci voi quanti morti dobbiamo fare ogni mattina, prima che vi prendiate il caffè, per sapervi contenti: dieci, venti, cento...”. In effetti, l'accusa di far poco, cioè di non ammazzare abbastanza, era quella più insistente, e se le Brigate Rosse, fuori, avessero dovuto dar retta agli ordini che venivano dal carcere, avrebbero fatto vere stragi. Curiosamente, questo è un particolare che non vedo mai ricordato: eppure i futuri programmi di Giovanni Senzani, dei quali s'è tanto parlato, sarebbero stati una volta tanto esemplati sui deliri carcerari. Io mi sentivo diviso. Mi pareva di capire non solo la rabbia e il senso di sconfitta dei fondatori delle Brigate Rosse, ma anche il trauma, la lacerazione che si apriva profonda in loro, nel momento in cui, come detenuti, tutto il senso delle loro esistenze presenti, tutta la loro forza sia psicologica che materiale (quanto importante, questa, nei rapporti di galera!) stava appunto in quel cordone ombelicale che ora pareva così brutalmente reciso. Erano vivi dentro perché le Brigate Rosse erano vive fuori: i giornali, la televisione, i bollettini radiofonici ascoltati con ansia sin dalle sei di mattina, tutti i giorni, lo confermavano. Quella era la vita. Non ce n'erano altre. E quando il messaggio è stato trascritto ed è andato per le celle e tutti l'hanno letto, ho visto, a Palmi, la disperazione. Ma c'era pure qualcosa in me che dava ragione a quelli fuori. Credevo di capire anche loro, la necessaria logica della loro risposta. Mi pareva di scoprire che l'avevo sempre saputo, che avrebbero risposto proprio così. I pochi che avevo conosciuto avrebbero usato le stesse parole. Non poteva essere diversamente. Avevano ragione entrambi. Avevano torto entrambi. Oppure, più semplicemente, sia quelli dentro che quelli fuori interpretavano con coerenza la loro parte. Che per troppi motivi non era più la stessa, né lo sarebbe più stata. A Genova Tout se passa très vite. Jean-Paul avait stoppé. J'avais sauté de la voiture l'arme à la main et déjà je visais la voiture de police qui m'arrivait de face. Et ce fut le début d'un enfer de feu. Mes balles atteignirent le pare-brise et la portière droite. La voiture quitta la route, se souleva pour retomber dans le fossé. Les deux policiers furent éjectés. Au moment où j'allais tirer la voiture des gardes, elle stoppa et tous les gardes se jetèrent dans le fossé. De son coté, Jean-Paul avait ouvert le feu sur les gardes protégeant les clótures. Les miradors nous tiraient dessus. Les balles nous sifflaient aux oreilles de partout. Mon arme étant vide, et ne prenant pas le temps de recharger, je la jetai sur le sol et en pris une autre. A ce moment là, une décharge de chevrounes fut voler en éclats la vitre arnère de la voiture et les éclats de verre me frappèrent le visage. M'éjectant sur le coté, je me mis à tirer le mirador droit. Jean-Paul était complètement à découvert, tirant à la hanche. Les balles traversaient la carrosserie. Une toucha... . “Era matto! matto! Che coraggio, ragazzi... assaltare in due un carcere speciale!”. L'entusiasmo lo travolgeva, continuava a interrompermi. Ero a Genova, nel carcere di Marassi, e come tutte le sere traducevo a voce alta, un capitolo per volta, le memorie di Jacques Mesrine per Cesare Chiti, che non sapeva il francese. Il libro dal quale ho trascritto una delle parti che lo appassionavano di più è quello che mi ha dato lui, allora. Stavamo nelle nostre brande, ben coperti perché tenevamo la finestra aperta, giorno e notte, e faceva ancora freddo, alla fine di aprile – io dormivo con il maglione, e un berrettino di lana tirato fin sotto le orecchie. Mi fermavo, quando inciampavo sopra parole sconosciute. Chevrotines, per esempio. Erano i pallettoni, le cartucce a pallettoni, questo sì: “Non la sapevo, questa parola... ma chèvre è la capra, e allora sta a vedere che si chiamano così perché assomigliano alle cacche di capra... Lo sai che in gergo, dalle parti di Lione, il mitra lo chiamano la sulfateuse. E quell'arnese che i contadini portano in spalla, e pompano, per dar lo zolfo alle vigne... come si chiama in italiano? A Marsiglia invece è la peteuse, la scorreggiona...”.
In questo modo, la sera, riuscivamo anche a dimenticare gli scarafaggi, centinaia, migliaia di vecchi e neri scarafaggi che uscivano da tutti i buchi e si infilavano negli stipetti, tra le lenzuola, persino nelle tasche dei pantaloni. Scarafaggi ammattiti, che non avevano paura di nulla. Ero lì, nella sordida sezione d'isolamento di Marassi, la peggiore che abbia mai visto, dalla prima settimana d'aprile: il 14 era cominciato il processo. Nella cella vicina ci stava Luigi con altri tre imputati “differenziati” o speciali: Massimo Selis, un giovane extraparlamentare genovese che conoscevo appena, e due ragazzi dei quali non sapevo niente, un pisano e un milanese: Marconcini e Pezzoli. Secondo l'assurda ipotesi dell'accusa, noi tutti insieme avremmo costituito la colonna genovese delle Brigate Rosse. Noi e altri sei o sette che erano però rimasti entro il circuito carcerario normale, e adesso stavano di là, nei grandi bracci del giudiziario, con tutti gli altri detenuti. Più Isabella, che era arrivata di Potenza una settimana prima di me ed era al femminile, di fronte alla nostra sezione, in alto, oltre i cortili e le lavanderie. Dalla bocca di lupo riuscivo a vedere qualcosa dell'edificio, ma nulla di più. Era passato quasi un anno dalla notte del nostro arresto. Ed erano successe molte cose, da allora, a noi e intorno a noi. Avevamo già i permessi per i colloquio interno: la ricordo, appoggiata al bancone, magra e pallida, molto bella, con un gran scialle nero. Non potevamo non aspettarci un folgorante momento di felicità. E so che c'è stato, ma talmente aggrovigliato e confuse da riuscirci indecifrabile... Avevo sognato il colloquio come una vertiginosa fuga dal presente, dal passato, dal futuro. Un altro tempo, vuoto, tutto nostro. Era un sogno impossibile che sopravviveva tenacemente a se stesso, e continuava a contorcersi dentro di me. Nello stanzone diviso in due dal bancone, larghissimo, eravamo soli, io, Isabella e la guardia che dall'altra estremità ci spiava attenta. Eravamo soli, ma mai incontro fu più gremito, più intollerabilmente invaso. Che si parlasse o che – peggio — si stesse zitti. Lentamente, Isabella mi ha chiesto qualcosa di Berardi. Con terrore mi sono reso conto che non poteva sapere altro che quello che avevano riferito i giornali. Le mie lettere, da sempre censurate, non le avevano detto quasi nulla. Ma era così per ogni cosa. Non trovavamo parole in comune, oltre il cattivo esperanto degli innamorati e quello, pessimo, dei politici. E sin dentro le celle e il parlatorio e il cortile si respirava la stessa aria avvelenata che si respirava in Genova: non era ancora passato un mese dal 28 marzo, quande in via Fracchia erano stati uccisi quattro brigatisti, Betassa, Panciarelli, Dura e Anna Maria Ludman. In un colpo soleo i carabinieri avevano pareggiato i conti aperti con Battaglin e Tosa e con Tuttobene e Casu, uccisi dalle Brigate Rosse tra il novembre '79 e il gennaio '80. Ero ancora a Palmi quando la televisione ha dato la notizia, e aspettavo il trasferimento a Genova. Per giorni, sullo schermo e sui giornali abbiamo visto un volto lacerato dalle pallottole. Chi era, quel brigatista? Non so perché: ero convinto che fosse Valentino. Tenevo stretto il mio segreto, non ne parlavo con nessuno: era una cosa che cominciava e finiva in me, tutta mia. La notte, con gli occhi fissi sulle geometrie delle sbarre, sulle ombre della cella illuminata dalla luce gialla dei fari e dall'intermittente fascio di luce bianca del riflettore che girava e girava fino all'alba, non sapevo più dov'ero e non mi importava. A Cuneo, visitato dal fantasma di Berardi? A Palmi? Sarebbe stato diverso, se fossi stato a Novara? a Nuoro? a Pianosa? No, non sarebbe stato diverso. Le celle di Novara, di Nuoro, di Pianosa avrebbero potuto essere lì, nel corridoio, ad aspettarmi, una dopo l'altra – e forse c'erano, chissà – con le stesse sbarre, le stesse luci, le stesse brande inchiodate nel cemento. Le distanze erano irreali, fittizie: la morte, dovunque fosse, era vicina. Di giorno, Curcio si era messo in mente di dover combattere lo scoramento, la disperazione degli altri, e andava banfando di tremende vendette, di stragi imminenti. Diceva, sicuro: “C'è Pol-Pot a Genova: vedrete che ora ci pensa lui!”. Finché le stesse Brigate Rosse non hanno dato il nome del morto sconosciuto: Riccardo Dura, detto, nell'organizzazione, Pol-Pot. Ero arrivato a Genova così, e adesso Isabella mi prendeva le mani e mi diceva commossa e decisa: “Enrico, al processo ci staranno a sentire... dobbiamo dire qualcosa, tocca a noi...”.
Era vero, com'era altrettanto vero che i nostri colloqui rischiavano di non appartenerci più. E questo ci faceva molto soffrire. Abbiamo parlato di Arnaldi, che era subito venuto a trovarci. C'erano state alcune incomprensioni, nei mesi precedenti, aggravate dalla lontananza. Per le sue cattive condizioni di salute non era mai venuto né a Potenza né a Palmi. Non riuscivamo a capire cosa comportasse per lui l'essere tanto isolato dai suoi colleghi e così ammalato: orgoglioso com'era, reagiva isolandosi a sua volta, rifiutando ogni mediazione, e ne nascevano contrasti e durezze che incrinavano il già delicato equilibrio tra gli avvocati e tra gli imputati. Era ormai certo che non ci sarebbe stato alcun collegio difensivo, e che ci saremmo presentati all'appuntamento de processo in ordine sparso. A me non importava: mi sembrava più che ovvio che ci fossero posizioni e atteggiamenti diversi, e tanta paura. Altri ne erano addirittura felici. Io e Arnaldi, e dunque anche Isabella, puzzavamo abbastanza di brigatismo per essere malvisti e tenuti ben alla larga – anche se nessuno lo diceva apertamente. Sicché alcuni imputati che non volevano affondare con noi erano costretti a oblique manovre di sganciamento: una piccola brutta copia di quelle che Negri insegnava a fare, complicata dal fatto che anche noi, fino a prova contraria, ci proclamavamo innocenti. Da lontano non eravamo riusciti a prestare attenzione s queste beghe locali, dalle quali invece Arnaldi, che le pativa su di sé, si lasciava catturare. Ma ora che ce ne rendevamo meglio conto, esse rimpicciolivano fino a sparire. E una nuvola nera ingigantiva veloce all'orizzonte. Era venuto di nuovo a trovarmi a Marassi. Salendo la breve rampa di scale che porta alla saletta degli avvocati immaginavo di dovei affrontare ancora una volta le sue stizzose lamentele nei confronti di altri imputati, di altri avvocati. Invece era serio e calmo, come da tempo non riuscivo più a ricordarlo. M ha detto subito: “Enrico, abbiamo un grosso problema, io e te. A Torino sembra che Peci stia parlando”. Chi parlava era il mio avvocato, lo stesso che più di un anno prima aveva detto una frase simile su Berardi. Ho avuto una stretta al cuore, per tutto quello che era già successo. Ho chiesto: “Sei sicuro?”. “No. Aspetto una conferma... ma purtroppo sembra chi sia così”. “E noi, che c'entriamo?”. “Intanto può sapere di te... gli può aver detto qualcosa Micaletto, o altri. Che ne sappiamo? Oppure, attraverso il carcere”. “Speriamo di no... no, non credo”. Gli ho raccontato della lettera al limone: i brigatisti di Palmi avevano risposto a quelli fuori dichiarando che avrebbero sciolto le brigate di campo, non avrebbero fatto più nulla e avrebbero aspettato ordini... e avevano firmato, tutti. Ma io no, perché erano in ballo questioni nelle quali non avevo avuto parte (“È una faccenda tra noi e loro”, aveva detto Curcio), e perché il documento, quando fosse stato scoperto, mi avrebbe compromesso. In attesa del processo godevo, insomma, di una certa tutela. “Ma tu piuttosto, cosa rischi?”. “Rischio, rischio... a Torino, al processo, sono riuscito a parlare un attimo con Micaletto, doveva far sapere delle cose urgenti fuori, me l'ha dette... e Peci era lì anche lui, tutti e tre insieme in mezzo a una stanzetta piena di carabinieri, prima di entrare in aula, per la direttissima. Ha sentito tutto”. Ma era tranquillo, quasi che il rischio che correva gli avesse dato un po' di pace. Non ha voluto aggiungere altro, ma con la stessa ragionevolezza è passato a parlarmi della sua salute. Sapevamo che era cattiva, e già ai tempi di Cuneo Luigi era preoccupatissimo per lui. Ora andava proprio male. L'occlusione alle arterie gli dava tremendi dolori alle gambe: non poteva fare più di dieci passi di fila, quasi un invalido. E aveva tante altre cose che non funzionavano più. E gli occhi: “Non voglio che tu lo dica a nessuno, ma la vista se ne va... per una questione di circolazione”. Gli ho detto, come sempre, di curarsi, ma sapevo bene che non l'avrebbe fatto. Sia perché ci volevano molti soldi, e soprattutto perché detestava consegnarsi a un medico, sottoporsi a visite, farsi mettere le mani, i ferri addosso. Quante volte gli avevamo detto, tutti, di andare dal dentista, di non rovinarsi e di
non soffrire così. E non c'era mai stato niente da fare. Era più forte di lui, da quando – raccontava – verso la fine della guerra, durante un breve periodo di prigionia, alcuni tedeschi si erano esercitati sadicamente proprio sui suoi denti. Anche solo rinnovare l'idea di una tale dipendenza, di un tale dominio fisico e psicologico su di sé, era un'insopportabile tortura. L'unica dipendenza che riconosceva e che cercava era quella che lo legava alla moglie, amatissima, dalla quale era inseparabile. Senza di lei non poteva vivere. L'ho rivisto alla prima udienza del processo, lunedì 14 aprile. Furgoni, sirene, ferri ai polsi, carabinieri dappertutto, fotografi, familiari e amici, e saluti col pugno chiuso – ma tutto ancora con una certa incredibile aria domestica, di parata, e un'assurda e fittizia rimozione del dramma. C'è stato un rinvio di qualche giorno. Quando siamo tornati in aula, appena gli è stato possibile, mi si è avvicinato bisbigliando: “Vedi laggiù quel tipo con i capelli grigi? È un giornalista della Stampa, venuto apposta da Torino: è vero, Peci sta parlando. E io sono rovinato”. Non ha potuto dire di più. Quando è tornato a parlarmi in carcere, venerdì, non si è trattenuto molto. Voleva soprattutto stare un po' con me: in quel momento i fili della nostra vita ci erano scappati di mano, e potevamo solo chiacchierare e aspettare. Pareva lucido e distaccato dalle cose che in passato lo avevano fatto soffrire, ma non perdonava alla sinistra genovese d'averlo lasciato solo. Ora, questa solitudine riusciva a misurarla tutta. Sabato, nel primo pomeriggio abbiamo sentito alla radio che quella stessa mattina si era ucciso, mentre i carabinieri gli perquisivano la casa dopo avergli notificato un mandato di cattura firmato dai giudici di Torino. Aveva il porto d'armi e possedeva una pistola, una Mauser 7,65, che portava sempre con sé. Per difendersi da eventuali aggressioni fasciste, che gli erano state ripetutamente minacciate. Ha chiesto di andare un momento in bagno, e lì si è cacciato la canna della pistola in bocca, verso l'alto, e si è sparato. Due giorni dopo c'è stato il funerale. Il corteo è passato davanti al carcere, verso il cimitero di Staglieno. Abbiamo sentito il rombo lontano e confuso, poi le grida, gli slogan. Isabella, da una finestrella del lato nord, in alto, è riuscita ad agitare un drappo rosso. Forse è stato visto, non so. Era un gran corteo, e per un po' se ne è parlato, e forse ancora oggi lo si ricorda. Io ero molto triste. Per Arnaldi soprattutto. In quel corteo che sfilava e che sentivamo oltre i muri — quel cupo rumore della libertà, per noi chiusi lì dentro, come il rumore lontano del tuono, dell'acqua per chi sta morendo di sete – non mi dava alcun conforto. Mi deprimeva, invece. Forse sbagliavo, ma lo sentivo come una farsa, una inutile messa in scena. Era la parata di quelli che urlavano le loro parole guerrigliere dopo che da tempo avevano abbandonato Arnaldi perché avevano intuito che con la guerriglia aveva qualcosa a che fare. Nel gioco dei livori e delle invidie e delle paure di gruppo, nascosto nell'intimo di molti che gridavano e alzavano il pugno chiuso c'era stato, per Arnaldi, solo odio – lo sapevo bene. S'appropriavano di un morto con il quale non avevano voluto spartire nulla. Era solo un funerale. Ma urlavano in molti, allora, per far credere che non lo fosse. Invece era un funerale, solo un funerale, niente altro che un funerale. Nessuno l'avrebbe ammesso: non lo permetteva la solita ambigua cialtroneria di sinistra. La storiella del bambino che grida: “Il re è nudo!” è una delle più interessanti che io conosca, ed è certamente censurata nel finale: quel bambino è stato subito linciato dalla folla inferocita. So che eccedevo, ch'ero in parte ingiusto, ma non ci potevo far niente. Ribollivano dentro di me le vecchie insofferenze, i giudizi drastici che avevo dato dopo l'uccisione di Coco e della sua scorta. Quella era una sinistra che non tolleravo, alla quale avrei persino voluto far del male, comprometterla, inguaiarla... La sinistra funeraria, che sta ben riparata – difficilissimo stanarli, uno per uno, quelli! impossibile comprometterli, inguaiarli davvero — e sbuca fuori quand'è ben certa che chi le creava imbarazzi è morto, e riesce a fare le sue battaglie solo quando si tratta di dimostrare che non ha fatto qualcosa. Per anni, dopo, ho ancora visto spuntare le sue testoline furbe, che si guardavano attorno, che non ci fosse nulla in vista, e gonfiavano la voce e borbottavano... Avessero avuto anche il lontano
sospetto d'essere obbligati a scegliere davvero qualcosa, qualcosa che toccasse i loro affari e le loro carriere e i loro affetti, chi sarebbe mai riuscito a vederli o a sentirli?
La clandestinità Un altro treno. Stavolta è il rapido Venezia-Roma. Seduto davanti a me c'è Savasta. In fondo alla vetturapullman Nadia Ponti e Guagliardo. Fa caldo. Stamattina presto l'aria era già afosa e pesante, lungo la laguna, e nella corriera non si respirava. Siamo arrivati a Jesolo dopo la mezzanotte, scappando da Treviso: nel buio della prima sera avevamo visto strane macchine intorno alla casa, e l'abbiamo abbandonata all'istante. Non ho quasi chiuso occhio. Il treno va veloce. Addentiamo il panino comperato in stazione e ci scambiamo poche parole, con reticente curiosità. Non ci conosciamo ancora. Mi addormento due o tre volte, leggo il giornale. Il rempo passa. Quando manca poco a Roma, Guagliardo e la sua compagna si alzano, ci guardano svelti e spariscono oltre la porta che dà nella vettura successiva. Un tipo alto e grosso dietro di noi li segue. In fondo fa un cenno a un altro, salito con noi a Venezia. Savasta ha visto il movimento, è preoccupato. Il tizio ricompare, si piega verso l'amico e gli sussurra qualcosa. Sparisce di nuovo. Savasta mi dice, piano: “Appena il treno si ferma stammi dietro, mi raccomando”. Devo fare così per forza, non so dove siamo diretti. Adesso i minuti passano lenti. Il treno, ch'è sempre andato sparato, non arriva più: rallenta, si ferma, riparte pianissimo, si rerma di nuovo. Oltre il fiume, guardo le sagome degli edifici dell'EUR. Mi asciugo il sudore. Finalmente siamo in mezzo alle case, e ad alti muraglioni rossastri. Savasta mi fa segno, si alza e va diritto verso la porta. Alla cintura porta una grossa Browning, appena coperta dalla sahariana color sabbia. Tutti si muovono, spingono, ma noi siamo i primi: gli salto dietro, sul marciapiede, mentre il treno si sta fermando. Sguscia di corsa tra la gente, s'imbuca in un sottopassaggio. Torniamo su, ci sono grandi vetrate, un atrio vuoto, forse una sala d'aspetto. Di là, la strada. La attraversiamo di corsa, e giriamo attorno a un isolato, e lo seguo con affanno su un autobus che sta partendo. È pieno di gente, non ci diciamo nulla. Mi passa sotto gli occhi Roma, sudicia e puzzolente nel caldo di metà luglio. Scendiamo dopo il Colosseo. Mi fa vedere i gatti che calano dalle rovine, tra i cespugli, e frugano nei cartocci: “Vedi, i gatti di Roma...”. Saliamo su un altro autobus che fa un lungo giro, non so in che direzione. Quando scendiamo mi dice con allegria: “Siamo alla Garbatella”. Sono viuzze tranquille che salgono e scendono: tanti alberelli e tante casette e tanti piccoli giardini e cancelli e passaggi interni: “Va bene per scappare. Se conosci il posto ti infili qua dentro e non ti beccano più, perché questi cortiletti comunicano tutti uno con l'altro”. È nel suo, si sente a casa. Sorride con piacere e arrossisce facilmente, e con me è sollecito e persino affettuoso — scoprirò presto che è molto amato. Perché è simpatico, perché non c'è cosa che non sia disposto a fare per l'organizzazione, e perché quasi senza volerlo, senza derivarne atteggiamenti particolari, esercita una sorta di autorità naturale. Lo immagino un po' come la versione romana, e dunque più calda ed espansiva, di Micaletto: come lui, comunica il senso di una inattaccabile salute mentale. Insomma, niente a che fare con l'immagine che ne è stata data dopo, dai giornali. Andiamo di buon passo, io con una borsa di pelle tipo valigetta del dottore, lui con una sacca di tela che gli pende dalla spalla. Facciamo un tratto in salita e finiamo, sbuffando per il caldo e la fatica, ai confini del quartiere, su un grosso stradone pieno di traffico. In fondo mi pare di vedere la gran ruota di un Luna-Park. Sorride, e mi dice:
“Coraggio, è l'ultimo autobus, te lo giuro”. Ci restiamo poco. Ora lasciamo la via principale. Le strade sono larghe e deserte, bordate da alte siepi. Un posto stranissimo. Mi guardo attorno, e in alto. Non sono case, non sono uffici, non sono negozi: sono facciate. Grandi facciate piene di archi vuoti che non hanno altro scopo oltre quello di essere lì, inverosimili apparenze. Riconosco le sagome che vedevo dal treno: mi piacciono. Il caldo è terribile e ci schiaccia senza pietà in quella piazza abbandonata, con le nostre assurde borse. Siamo caduti in un quadro di De Chirico, Piazza d'Italia con brigatisti. Peggio. Soli, lì in mezzo, siamo due mosche nel piatto. Lo sfotto: “Tanti giri per finire qua... la prima volante che passa, ci saltano addosso. Ce l'abbiamo scritto in faccia, se la dà anche il poliziotto più stupido!”. Ribatte che siamo arrivati, ma è di nuovo nervoso. Adesso, sotto l'enorme facciata di un palazzo di vetro c'è un baretto con due o tre tavolini all'aperto. Più sotto ancora c'è gente, buttata attorno a un laghetto scavalcato da un ponte: ne arriva in continuazione, dall'uscita della metropolitana, verso la fila delle corriere suburbane che aspettano. A un tavolino ci sono Nadia Ponti e Guagliardo, che ci investono malamente: pare che ci stiano aspettando da un'ora, e vogliono sapere perché, in stazione, siamo spariti. Non facciamo a tempo a spiegarci che spunta Sara. L'appuntamento è con lei: ci porterà là dove dobbiamo andare. Ha una faccia simpatica, ed è molto abbronzata. Mi colpisce il vestito: bianco, con ampi pantaloni chiusi alla caviglia, un po' come un'odalisca. Bianco e leggero. Sarebbe molto bello se fosse stato indossato un minuto prima, se lei fosse scesa da una macchina di lusso, con l'aria condizionata. Invece è appassito, spiegazzato, sa di corriera, di treno, di covo... sa di quelle case di compagni dove ogni cosa è quasi quello che deve essere: i piatti sono quasi puliti, il pavimento quasi scopato, il caffè quasi buono, la biancheria quasi lavata. Questo perché i brigatisti sono notoriamente scrupolosi e ordinati, e fanno sforzi eroici per apparire, ai vicini di pianerottolo e ai portinai, quasi normali. Con Savasta, si fanno grandi feste. Guagliardo mi dice piano, con l'aria di compatirli: “I romani sono fatti così, vedrai. Tra di loro si baciano, s'abbracciano, si fanno regalini, orsacchiotti, pupazzetti, maglioni... sono così, ma poi ci si abitua”. “E parlano romano!”. A me, a cui piace il milanese, è una cosa che non va giù. Come si fa a prendere sul serio un brigatista che parla in romanesco? Che parla come Alberto Sordi? Alla ragazza non trovo altri difetti, ma questo, nel quale trascina anche Savasta, non lo sopporto. Strascica le vocali, le calca, le deforma, come se avesse indovinato che mi dà fastidio: così, per dispetto, per ostentazione plebea. Non lo fa sempre, infatti. Per fortuna. Ma quei suoni antipatici ora me li sento addosso, da tutte le parti, sulla corriera stipata sulla quale siamo saliti, tutti insieme. Ho voglia di urlare, non ne posso più. Faccio il conto di quante volte, in due giorni, sono salito e sceso, salito e sceso: treni, corriere, autobus... e fuori il paesaggio fa schifo. Un'infinita lebbrosa periferia nella quale non vedo nulla su cui l'occhio possa consolarsi. Passa veloce l'insegna di un ristorante-pizzeria: Me ce porti. Sono in piedi, sulla corriera che sobbalza, pressato da gomiti, culi, schiene sudate: Me ce porti. Solo un dialetto simile poteva partorire l'idea di un simile nome. E quello che se l'è pensato, mi par di vederlo. Presentazioni non se ne fanno. Per il momento, io mi chiamo Marco. Ho dormito male, su una piccola brandina cigolante, e sono tutto indolenzito. La mattina presto è arrivato da Genova Lo Bianco, con Angela e un altro che non ho mai visto. Angela è una ragazza minuta, carina, che fa l'operaia nella mensa di un'impresa di costruzioni navali, nel porto. La conosco un po', immaginavo le sue simpatie, ma non avrei mai creduto di trovarla qui. Ci salutiamo timidamente, siamo contenti di vederci ma stiamo sulle nostre. L'altro è un operaio dell'Italsider. Me lo dice Lo Bianco, e aggiunge che quello di portarseli dietro è un esperimento: sono giovani ma bravi, ed è il momento che si facciano le ossa. Non c'è molto tempo per chiacchierare. Devono tutti ripartire in fretta. Ci si mette attorno al tavolo. Nessuno mi ha detto di cosa si deve parlare: m'aspetto che mi chiedano qualcosa della galera, di Palmi, di Curcio e
Franceschini, delle loro posizioni... Invece no. Non capisco come, ma è subito rissa. Ci sono tre compagni di Milano, due uomini e una donna, che aggrediscono Sara – capisco che è la Balzerani – e Moretti. Aggrediscono loro e, curiosamente, tutte le Brigate Rosse. Sembrano convinti di esistere solo loro, rimproverano a Sara d'essere venuta a dirigerli nei mesi passati senza sapere nulla della fabbrica e della città, dichiarano che non hanno bisogno di un'organizzazione isolata dalle masse operaie e sfasciata per andare avanti. Da soli sarebbero riusciti infinitamente meglio: loro sono forti, sono in tutte le fabbriche, sono operai tra gli operai. A me, non mi considerano nemmeno, ma ho la buffa idea che mi mettano nel mucchio, quando dicono di non voler più subire la direzione di un pugno di burocrati e di intellettuali. Dei tre, uno è rognoso e assillante, mentre gli altri due sono più perfidi, specie la ragazza. Sara e Nadia la guardano senza aprire bocca, ma si capisce che vorrebbero mangiarsela. Sta zitto Lo Bianco, ma anche lui li guarda torvo. Sta zittissima Angela, che sembra stupita quanto me. L'altro genovese dice qualcosa, con quel tono presuntuoso, da foca sapiente, che è così tipicamente e inestricabilmente operaio e genovese insieme -una forma speciale del modo di essere di una speciale aristocrazia operaia che non riesce a farsi troppo amare. Moretti borbotta distintamente: “Questo stupido, chi ce l'ha portato qui?”. Ma incassa bene, e chiaramente non vuole rompere e cerca di prendere tempo. Facciamo una sosta. Qualcuno si preoccupa di cuocere gli spaghetti. Esco dalla grande porta-finestra e mi guardo attorno. C'è un terrazzo, e una breve rampa di scale porta direttamente sulla spiaggia. A venti metri c'è il mare, una riga riga diritta a destra e a sinistra, a perdita d'occhio, piena di gente. Ce n'è anche davanti a casa nostra. A intervalli regolari passa, molto basso, un elicottero della polizia, che segue perfettamente la linea del bagnasciuga. La casa è del tipo moderno decrepito, gli spigoli di cemento sono corrosi, slabbrati, qua e là c'è qualche spunzone di ferro arrugginito, le serrande hanno perso la vernice. A venti metri dal mare, da ogni parte, c'è una fila ininterrotta di simili miserande villette, attraversata, ogni tanto, dalle chiazze nere dei canaletti di scolo che finiscono in mare, un mare piatto e scuro che muore sulla sabbia grossa e scura, impastata di nere alghe triturate. Mi si avvicina Sara, e dice: “Più tardi potremmo fare il bagno. In casa ci deve essere qualche costume”. Mi chiede qualcosa sul carcere. È curiosa e interessata, ma è chiaro che non ha molta simpatia per quelli del nucleo storico. Mentre rispondo, cerco con gli occhi Moretti. Capisco che la rissa di poco prima ruota attorno a lui, al suo ruolo, alle sue responsabilità: ho apprezzato la sua calma, ma vorrei sentire da lui stesso qual è la sua posizione. E poi, ho bisogno di tirarmi su, di vedere qualcosa di meglio di quello che ho visto e sto vedendo in questi giorni, di sentire un discorso sensato. Le Brigate Rosse non possono essere quello che siamo noi lì – non solo quello, almeno. Oltre il rituale dei rancori, so che ci deve essere una volontà comune che ci riscatta... Torno a sedermi con lui al tavolo. Gli altri girano qua e là, prendono il sole sul terrazzo. Si avvicina a noi Lo Bianco: ce l'ha a morte con i milanesi, li vorrebbe sbattere fuori. Moretti non è d'accordo: “Dobbiamo aver pazienza. Sono dei bravi ragazzi, operai che conoscono bene la fabbrica. A Milano ci sono solo loro, non possiamo pensare di scavalcarli... prima o poi capiranno”. Sui motivi concreti, magari anche personali, della lite non vuol dire nulla. La prende alla larga, invece: “La questione è quella dell'autonomia... i compagni di Milano non riescono a capire cos'è, non la vedono neppure. È l'autonomia della classe, degli operai, dei giovani, che non hanno niente a che fare con questo sistema, con questi partiti, con questi sindacati, con questa politica... La storia vera di tutti questi anni, la nostra speranza e la nostra scommessa è questa autonomia finalmente reale, combattuta, affermata nei fatti da un intero movimento. Per noi è tutto. E loro non vogliono capire, ragionano sempre in termini politici vecchi, si vedono dentro il sistema del PCI, del sindacato. Come una parte del PCI, del sindacato... sono ciechi. E così non possiamo andare d'accordo”. Sull'autonomia la penso allo stesso modo. Non so ancora, invece, quanto funzioni il discorso sui milanesi. Di sicuro la loro aggressività, il loro livore deve avere radici in una incompatibilità profonda:
in superficie, i motivi espliciti della loro rabbia suonano alquanto pretestuosi, inadeguati. Insomma, li sto a sentire, per tutto il pomeriggio, mentre continuano i loro attacchi, e ancora non capisco perché ce l'abbiano tanto. Non vedo niente che non si possa aggiustare con un po' di buon senso e di buona volontà. Salvo il potere: probabilmente sono venuti sin qui convinti di prendere in mano tutta l'organizzazione, e si ritrovano soli. La loro, in fondo, è una mozione di sfiducia contro i vecchi dirigenti, del tutto analoga alla sfiducia già decretata un anno fa dal nucleo storico. I milanesi si richiamano infatti, più volte, alle posizioni dei compagni detenuti. In maniera molto maldestra, però, anche perché quelli dentro pare che abbiano abbandonato ogni posizione di rottura, e facciano uscire appelli all'unità. A questo punto devo intervenire io, e lo faccio schierandomi con Moretti. In modo molto duro, anche perché è sera, non si è concluso nulla e la rissa va avanti a vuoto, nel fastidio generale. Da ore non si parla: si abbaia. I milanesi mi guardano schifati, con l'aria di chi se l'aspettava, insultano ancora un po' e se ne vanno. Dicono che sono perfettamente in grado di pensare a se stessi, e che continueranno per la loro strada. La riunione di Tor San Lorenzo è finita. Mi dicono che doveva essere una Direzione Strategica di tipo nuovo, con un tentativo di allargamento, e invece non è stata nulla. Si decide solo, in fretta, che se ne dovrà fare un'altra, in autunno. Se ne vanno tutti alla spicciolata, dopo aver preso l'impegno di dedicare i mesi successivi alla preparazione del prossimo appuntamento. Tutte le colonne dovranno mandare documenti scritti, discussi e approvati da ogni militante, dai quali dovrà venir fuori la nuova linea. Io non appartengo a nessuna colonna, e voglio tornare a Genova a tutti i costi. Devo dirlo a Moretti, che per ognuno ha istruzioni particolari e segrete. Dapprincipio si oppone con forza. Dice che è troppo pericoloso: sono stato in Veneto, sono stato qui con tutti loro, non dovrei più farmi vedere in giro, dopo la scarcerazione ho addosso legioni di carabinieri e poliziotti. Lo convinco a fatica, e parto di corsa con Lo Bianco. Gli altri due genovesi sono già andati via da un paio d'ore. A Genova, sulla collina di Apparizione, sopra Sturla, Isabella ha preso in affitto, per pochi soldi, una casetta. L'ha fatto dieci giorni fa, mentre ero via, per portarmici al mio ritorno. Per dirmi qualcosa. Ci si arriva a piedi, salendo per un ammattonato tra gli orti: un ingresso e una cucina al pianterreno, due camerette sopra. Davanti c'è un piccolo giardino; dietro, una grande fascia di ulivi. Attorno, ancora orti e alberi, e altre due vecchie casette in fila. È uno splendido angolo di vecchia Liguria. Dal giardino, oltre lo schermo verde, si vede il lontano grigio luminoso dei tetti di Sturla, e il mare. Sul tavolo di pietra ho aperto i pacchetti. Prosciutto, formaggio, un pezzo di pane, e lo yogurt. Guardo il vecchio intonaco rosa della casa, da una parte, e il mare laggiù, dall'altra. C'è una gran cappa di caldo, attorno, che fa vibrare l'aria, ma lì è fresco. E c'è silenzio. Isabella mi guarda, sorride, abbassa gli occhi: “Enrico, è vero, sono incinta”. Sposto goffamente i pacchetti, mi allungo attraverso il tavolo. Ci baciamo. Mi tiene la mano sulla nuca. Dice, piano: “Come finirà?”. “Benissimo, naturalmente”. Ridiamo assieme, con gli occhi velati. Ho la testa che sembra un nido d'api ronzanti. Mille andirivieni fruscianti, sensazioni leggere, e incroci e correnti che si formano e che si disfano veloci... un gran solletico, un prurito di pensieri. Non un vero pensiero. Non ci riesco e non ci voglio neppure provare. La bacio di nuovo, e restiamo un po' così, abbracciati, sopra i cartocci aperti della colazione. Eravamo stati scarcerati, noi e tutti gli altri, il 2 giugno, alle nove di sera. Assolti con formula piena. Il movimento ha festeggiato, quella sera, e noi abbiamo festeggiato con due cene in collina, nei giorni successivi. Poi, niente altro. Il documento che io, Isabella e un ragazzo di Milano imputato con noi, Walter Pezzoli, avevamo letto in Tribunale dopo l'arresto all'avvocato Fuga – quello che aveva sostituito Arnaldi – era stato esplicito. Ci eravamo schierati, moralmente e politicamente, con le Brigate Rosse. Non c'era niente che permettesse di incriminarci in quelle frasi, ma il comunicato aveva segnato il vero spartiacque, nell'ambiente genovese. Al confronto l'assoluzione, contestata ma formalmente ineccepibile
– “l'ingiustizia che assolve” del generale Dalla Chiesa – non valeva nulla. Se ripenso oggi, con puntiglio, a quel mese di giugno dell“80, lo vedo, dopo quelle due cene, vuoto. Attorno a me e a Isabella si era fatto il vuoto. Qualcuno avrebbe forse amato, timidamente, con trepidazione, fregiarsi dell'amico brigatista in galera. Non certo, con ottimi motivi, in verità, del brigatista libero. Sugli amici della sinistra non avevo mai fatto alcun conto, né mi ero mai azzardato a parlare dei fatti miei: tuttavia quell'abbandono, attraverso il quale partecipavamo anche del clima di paura che si era instaurato in città dopo via Fracchia, ci aveva colpito. Poi, le cose sono andate veloci, troppo veloci. Bertulazzi, un giovane operaio che si era già fatto due anni di carcere per detenzione di esplosivo, mi ha cercato, per farmi sapere che le Brigate Rosse volevano vedermi, al più presto. Erano i primi di luglio, neppure un mese che eravamo usciti. Mentre mi riferiva il messaggio, a Castelletto, sembrava emozionato. “Dimmi un po', tu te la senti di continuare?”. “Non lo so. Perché me lo chiedi?”. “Perché io non ce la faccio... mia moglie non sta bene, e abbiamo una bambina piccola. Ma se sto qui, mi ritrovo presto nei guai. Voglio andar via, sai? Non so quando. Ora mantengo qualche rapporto con i compagni, così, ma non posso tirare troppo la corda... tu, pensi d'andarci, all'appuntamento?”. “Sì, credo di sì. Ma ti capisco”. Lo conoscevano tutti, dai tempi in cui era nel servizio d'ordine di Lotta Continua, ed era molto amato. Anche Arnaldi stravedeva per lui. Immaginavo quanto gli pesasse quello che mi stava dicendo, con un pudore così reticente: tutta la sua vita passata era arrivata a quel nodo, a quella decisione, ed era evidente che ne soffriva. Mi ha detto il luogo e l'ora dell'appuntamento – davanti alla chiesa di Arenzano, alle cinque del pomeriggio di qualche giorno dopo – e ci siamo salutati con reciproco impaccio, ma anche con un grande strano affetto. Non l'ho più visto: so che nel settembre successivo è sfuggito a un nuovo arresto, e che poi è riuscito a espatriare con la famiglia. Ad Arenzano mi aspettavano Lo Bianco e Guagliardo, ma dei due ha parlato quasi solo il secondo. Ci sarebbe stata, nel giro di una settimana o due, una riunione importante, nella quale avrei dovuto dare il mio contributo per quel che riguardava le posizioni del nucleo storico. Ero disposto ad andarci? Naturalmente, a quel punto il mio ritorno a casa avrebbe potuto diventare assai dubbio, e Guagliardo me lo spiegò con argomenti che ero in grado di conoscere e di valutare anche per conto mio. Sì, avrei partecipato... Allora, noi due saremmo partiti la mattina dopo, alle sei, diretti a Treviso, per il momento. Di lì saremmo poi ripartiti, dopo qualche giorno, per il luogo della riunione. Non serve che mi nasconda. Ero stato afferrato da un ingranaggio, ma quell'ingranaggio l'avevo scelto io. Stavo male salendo le scale di casa, quella sera, ma sapevo bene che la mattina seguente, alle sei, volevo partire. Quel giorno avevamo comperato una serie di pentole cinesi: in pratica, dei setacci in bambù dove i cibi sarebbero stati cotti a vapore. Erano sul tavolo, in cucina, quando sono entrato. Isabella mi aspettava per provarli. Non l'abbiamo fatto né allora né poi, e non so dove siano finiti. Le ho detto subito che sarei andato via, e mentre parlavo sentivo tutta l'inaudita crudeltà della cosa. Ma non ci potevo far nulla. Mi pareva che tutto fosse in gioco. Tutto, voglio dire, quello che ero stato e quello che ero. Per vincere alla roulette dicono che si debba raddoppiare ogni volta la posta: per me era in qualche modo così. In quel momento, decidevo nel merito delle mie scelte passate, del loro senso. Decidevo del senso della morte di Berardi, di Arnaldi, dei quattro compagni di via Fracchia... Ma non solo delle loro morti, anche di quelle di tutti gli altri, da una parte e dall'altra. Decidevo del significato dell'ideologia che mi muoveva, della morale che mi ero data e che presumevo di servire. Era in questo modo che affrontavo la questione, e non vedevo altre vie d'uscita. Bertulazzi aveva fatto altrimenti. Non lo disprezzavo davvero, per questo, ma per quanto mi riguardava trovavo assurdo aver fatto tanto per poi mancare all'appuntamento decisivo, alla verifica ultima. Come si faceva a sottrarsene, proprio un attimo prima? Non riuscivo a concepirlo. E se ora mi fermo a ripensare a quei momenti, alla loro scansione,
risento ancora una parte importante di quello che sentivo allora. Non la parte politica o ideologica — no, quella no. Piuttosto, come chiamarla? quella che aveva a che fare con la fatalità, con il corso delle cose. Con il destino che va secondo le sue linee di forza, che cresce e grava con il suo stesso peso, e spinge in avanti. Quel destino o quella porzione di destino che è così potente finché non ha compiuto il suo ciclo, non ha esaurito le sue ragioni. Era possibile fuggirne, ma sarebbe stata, appunto, una fuga. Ecco, in breve: se mi fossi ritirato allora, a quel punto della parabola, impastato com'ero di tutto quello che ero stato per me e per gli altri, mi sarei sentito un pagliaccio. Un buffone. Se ci pensavo, mi vedevo condannato a fare l'eterno tifoso della lotta armata, il simpatizzante perenne, il rivoluzionario da salotto e d'accademia segretamente frustrato... una fine grottesca. Non potevo ritirarmi perché le ragioni di quel destino le avevo ancora ben vive dentro, ci credevo e non riuscivo a rinnegarle. Ragionavo così. Sentivo così. Ero stato legato da troppi fili, l'ultimo anno. Molto più tardi ho deciso diversamente, tra mille problemi e affanni, ma questo particolare problema non l'ho avuto. La parabola, per quanto mi riguardava, si era compiuta, le sue ragioni si erano spente, altre più forti erano sopraggiunte. Vorrei essere capito, quando dico che la mia malattia – o il mio destino, ch'è lo stesso — ha sempre avuto un decorso naturale, una certa logica. Nel profondo, non ci sono state interruzioni o salti immotivati, incongrui, ma una sequenza che è stata la mia e che non posso non riconoscere come tale, anche nei suoi eccessi di compiutezza, per chiamarli così. “Ma perché ti sei rovinato? Perché fare dopo quello che potevi fare prima, senza danni? Brigatista lo eri già stato, in carcere con i capi anche, e se stavi tranquillo non ci saresti più tornato. Eri all'onore del mondo, avresti potuto vivere di rendita, nella sinistra, per una vita intera, amministrandoti bene...”. Questo, qualcuno oggi continua a ripetermelo. Bene, quello che ho fatto era già un'anticipata risposta a un simile programma, data con la violenza e la crudeltà che erano, allora, nelle cose stesse. Sapevo, infatti, che da quel momento avrei vissuto nel rischio continuo di essere ammazzato: poteva anche andarmi bene, ma il conto che dovevo farmi giorno per giorno, e dentro il quale dovevano tornare tutti gli altri conti minori, era ben questo. Nessuno poteva darmi garanzie diverse: chi poteva più dire, per esempio, che i carabinieri e i poliziotti arrestavano solo? E chi si porta questo chiodo in testa, e se ne fa una ragione contro tutto e contro tutti, può diventare facilmente egoista e crudele. Isabella non voleva che partissi. Capiva il peso delle mie ragioni e in qualche modo le condivideva e ne era intimamente lacerata, ma ne opponeva altre: le sue, le nostre, quelle del figlio che sarebbe nato. Quando, sopra, ho cercato di spiegare la mia scelta, forse non ho fatto altro che tentare ancora una volta di giustificarmi ai suoi occhi per quello che le ho inflitto, per il dolore e lo strazio di quella sera. Una ferita, tra noi, che non si è ancora rimarginata, anche se allora, nei mesi successivi, quello scontro non si è più ripetuto, e c'è stata al contrario una tenerezza, una calma sospesa fuori dallo spazio e dal tempo. Quasi si trattasse di isolare il nostro amore, di imprigionarlo sotto vuoto e di ricordarcelo così, salvo, per tempi migliori. La casa è luminosa e ben disposta. Un ingresso, una cucina, due grandi camere, e i doppi servizi, con una bella cabina-doccia. Siamo all'ultimo piano: intorno corre un grande balcone che dà sul verde della montagna, dietro, e sulle case e la costa lontana, verso Minturno. Sotto c'è la ferrovia, e dall'altra parte dei binari la stazione di Formia. Il capostazione pare che abiti sul nostro stesso piano: il suo appartamento dà sulla ferrovia, e verso il mare. Oggi sono solo. Guagliardo è partito ieri, se n'è tornato in Veneto con la bozza della nuova Direzione Strategica; Moretti è per i fatti suoi, chissà dove, e Giovanni Senzani, mio cognato — ha sposato mia sorella Anna nel '70 – è con tutta probabilità a Roma. La settimana scorsa abbiamo lavorato sodo per cucire e amalgamare i vari contributi che hanno formato la bozza dell'opuscolo: questa ora girerà presso tutte le colonne, e infine diventerà definitiva, con le modifiche del caso, quando ci sarà la prossima riunione. Più o meno, dovrebbe essere la fine del mese. È andato tutto liscio, non ci sono state grosse divergenze. Il più difficile è stato Guagliardo. Pretendeva che non si tenessero in alcun conto i documenti prodotti dai compagni del nucleo storico, cominciando da
soggettivismo e militarismo per finire con un grosso fascicolo, il cosiddetto documentone, frutto dei seminari organizzati negli anni passati all'Asinara. Questo documentone ha già un titolo, L'ape e il comunista, e pare che i compagni se lo vogliano far stampare, in ogni caso, per conto loro. Riesco appena a sfogliarlo: la scrittura è del tipo truculento-ampolloso che già conosco, e non mi piace affatto. Moretti legge l'introduzione, e va in bestia quando trova vistose concessioni alla moda già stantìa del linguaggio desiderante: “Guardate! I sogni... il comunismo diventa un sogno! Facciamo la lotta armata perché abbiamo voglia di sognare! Si sono rincoglioniti anche loro”. Ho purtroppo una mentalità bassa, prosaica. Dovessi eccedere, lo farei nel senso opposto: ho in uggia Radio Alice e i linguaggi trasversali, e sono dunque istintivamente d'accordo con lui. E poi, è vero che quel documentone mescola un pedestre e plumbeo determinismo stalinista con improvvise ventate di irrazionalismo esistenziale, di anarchia desiderante. Il piano quinquennale e lo sballo. Il risultato è ridicolo e lo stile ne è specchio fedele. O meglio, la mancanza di ogni stile: stile di pensiero, voglio dire. Non è che noi fuori riusciamo a fare molto meglio, per la verità. Il linguaggio e gli schemi mentali che riusciamo a utilizzare sono scarsi e rigidi. Sono quello che sono, e li sappiamo a memoria. Il massimo che si può pensare di fare, è tagliar via alle estremità, ridurre le note stridule e i rantoli più cupi, e mimare il più possibile un tono medio, ragionativo e credibile. Ma è impossibile, naturalmente. Quello che facciamo resta abbastanza incredibile per essere ragionevole e la retorica brigatista, per quanto la si depuri, non può che rimanere essenzialmente tale: una retorica, appunto. Su questo nodo mi arrovello, senza risultati. E dunque accetto di subire la retorica come un male necessario. D'altra parte, mi basta che ci siano le cose che mi stanno a cuore, non importa in quale forma. Credo anch'io al discorso sull'autonomia che Moretti ripete spesso. Mi pare che sia la chiave di tutto e sopravvaluto, come molti, il peso politico di un fenomeno che invece ne avrà, a conti fatti, pochissimo, quasi niente – il fenomeno e la sua nozione astratta, ipostatizzata, l'autonomia possibile. Ed è curioso, quasi una vendetta della storia, che proprio l'autonomia ci darà torto e finirà di rovinarci, noi brigatisti: ma è un'altra autonomia, imprevista, che sbaraglierà le nostre diagnosi apocalittiche e manderà a vuoto le attese di imminenti sconvolgimenti. Sarà l'autonomia della gente che lavora e s'arrangia e addirittura arricchisce, e quella della tecnologia, e quella del “sommerso”, per dirla con i giornali... l'autonomia insomma di tutte le infinite cose che sono, prima di tutto, autonome da noi e con le quali non riusciamo ad aver niente a che fare, a dispetto di tutte le nostre analisi. Mi capiterà di pensare, in seguito, che noi brigatisti ci siamo comportati come quel lupo che aveva sentito la mamma minacciare il bimbo che frignava: “Stai buono, sennò ti dò al lupo!”, e s'era dunque messo ad aspettare sotto la finestra che gli buttasse davvero il bimbo. Sembrava anche a noi che ci fossero in giro grandi rivendicazioni di autonomia pronte a esplodere e, travisando tutto, stavamo scioccamente aspettandone i frutti, come se proprio a noi avesse dovuto venirne qualcosa. Invece, era tutta un'altra faccenda. Non esistevano due società, e noi non rappresentavamo le esigenze di potere della “seconda” società, come qualcuno tra noi credeva. C'era una società sola e chi era fuori e contro non partecipava di nessun'altra. Era fuori e contro, e basta. E avrebbe perso. E se in un futuro più o meno lontano tutto dovesse andare in malora per tutti, beh! in quel caso sarà un altro discorso, completamente diverso. Il documento che abbiamo messo insieme, la DS 80, dipinge appunto questo nostro immaginarci lì, sotto ogni finestra, nelle fabbriche, nelle carceri, nei quartieri. Siamo dappertutto e come il lupo aspettiamo a bocca aperta: tocca a noi, è arrivata la nostra “congiuntura”. E a molti promettiamo di prenderci cura di loro: a questo fine elaboreremo al più presto i “programmi immediati” più adatti. Guagliardo è l'unico perplesso. Ha un'idea molto difensiva, molto arroccata delle Brigate Rosse. Osteggia queste aperture, queste attese. Le giudica pericolose, e ipotizza invece una lunga ermetica sopravvivenza. Gli diamo tutti addosso, e sarà invece profeta migliore di ogni altro: non a caso in questi anni, mi sto accorgendo, è stato lui l'ideologo dell'organizzazione, nei limiti strettissimi in cui un simile
ruolo è pensabile. Ma non si contrappone mai. Non direttamente, almeno. È sempre subdolo, cauteloso, e se vuole andare da una parte si può stare certi che per arrivarci prenderà ogni altra direzione possibile. Stiamo mangiando, nella cucina dell'appartamento di Formia: io, lui, Moretti e Giovanni. Con fare casuale tira fuori di tasca due o tre foglietti ripiegati, scritti fittamente a mano. Sospira e alza gli occhi al cielo: “Guardate qui che guaio. C'è un compagno veneto che non è d'accordo con il documento, per lui è movimentista, che ne so... così ha scritto queste paginette. Sono cazzate, ma che ci possiamo fare? Purtroppo dobbiamo perdere del tempo, e discuterne”. Moretti interviene deciso: “Ma sono cazzate sì o no?”. “Sì...”. “Allora ci fidiamo di te”. Allunga le mani, prende i foglietti e li strappa, e butta i frammenti di carta dietro di sé, nel sacchetto delle immondizie. Non aggiunge altro. Giovanni sogghigna, curvo sul piatto. Guagliardo incassa senza fiatare. Gli è andata male, ma sorride, ora, ed elogia la bontà dei pomodori e la freschezza della mozzarella. E cambia discorso, con soave perfidia. “Non ci crederete, ma sapeste quanti compagni rischiano di farsi arrestare e di far arrestare gli altri per voler mantenere a tutti i costi i loro rapporti con la famiglia, o con le loro donne... tua moglie e tuo figlio” si rivolge a Moretti “non li hai più visti, no? in tanti anni. Ma quanti credi che siano capaci di fare lo stesso? Lo sai che in Veneto abbiamo dovuto sospenderne due o tre, per queste storie? Con noi facevano fìnta di aver tagliato, e invece continuavano a vedersi di nascosto. Anche a Roma, lo sappiamo... Vi rendete conto? Roba da farci prendere tutti, senza neanche sapere il perché”. Io e Giovanni ci guardiamo. Questa è per noi. Il mese d'agosto l'ho passato in Calabria, con Isabella, in un posto vicino a Soverato, insieme all'avvocato Cavaliere e alla sua famiglia. Guagliardo non lo sa, e non lo sanno nemmeno gli altri. Ho detto che sarei andato in Sicilia, in casa di un amico fidato, ma non mi ha creduto, e sospetta la verità. Di sicuro la sospetta anche Moretti, ma fa fìnta di niente e, date le circostanze, gli va bene così. Quanto a Giovanni, ho capito che in passato ha avuto scontri duri su questo, visto che anche lui deve essere stato per parecchio tempo, come me, una strana specie di semiclandestino. “Sono dei pazzi incoscienti, degli irresponsabili che non hanno ancora capito cosa vuol dire far parte di un'organizzazione come la nostra”. Rincara la dose, non molla. Cerco di deviare il discorso. “Allora non si dovrebbero aver rapporti con nessuno che non faccia parte dell'organizzazione, con nessuna persona normale? E i clandestini dovrebbero fare coppia solo tra loro?”. “Certo! Questo sarebbe l'ideale... e poi, noi siamo diversi dagli altri, e solo tra noi possiamo capirci davvero. Io non ci troverei nessun gusto, ormai, ad andare con una ragazza che non sia dei nostri. Mi sembrerebbe per forza una persona mediocre, stupida... noi non ce ne potremmo accontentare, vero? Forse non è del tutto giusto, ma un po' per volta diventa inevitabile. Vedrete, vedrete anche voi se non è così”. Ce la vuol far pagare, per poco prima. Anche a Moretti. È un maledetto serpente. Ma proprio Moretti ci aiuta: “A proposito. Hai fatto la telefonata?”. “No, non ancora... domattina, senz'altro”. “Cristo! Cosa aspetti? Tra dieci giorni ci dobbiamo riunire... . Non fa fìnta, è arrabbiato davvero. Guagliardo borbotta qualcosa sui gettoni che non è riuscito a trovare. “I gettoni, figurarsi! È che sei un imbranato, per te è troppo diffìcile fare un'interurbana. Ecco cos'è!”.
Si calma e si rivolge a noi due, ancora stizzito ma senza malevolenza, e prende via via gusto a quello che dice, e ci fa ridere tutti: “Questo qua” e indica Guagliardo “non per niente è nato in Tunisia: è un beduino. Odia come non si può odiare di più la civiltà, le macchine, la città, le fabbriche, i tram, i telefoni, le scale mobili, gli orologi, le pentole a pressione... odia tutto l'universo civilizzato, lo fa star male, vorrebbe vederlo a pezzi. È un beduino, il suo ideale sarebbe quello di stare tutto il giorno a dormire sotto una palma, e più in là la donna e il mulo magari lavorano la terra, ma poca... fa il brigatista per questo! Per tornare a dormire sotto le palme, con le mosche che gli volano intorno”. Rido, ma è un ritratto perfetto. Mi sono già accorto che la grande città gli dà un'angoscia insuperabile, non la tollera proprio. In casa, non apre neppure le persiane, si butta in mutande sul letto sfatto e fuma. Fuma e parla con un ironico e lento birignao, e fuma ancora e insegue i suoi sottili e tortuosi ragionamenti che coprono le strane indecifrabili cose che ha in mente, il suo lontano invisibile pigro obiettivo di arabo in esilio nel mondo moderno. Nell'appartamento di Formia ora sono solo. La settimana scorsa c'è stata la riunione della Direzione Strategica a Santa Marinella, verso Civitavecchia, in una villetta sul mare simile a quella di Tor San Lorenzo. Ma la costa, attorno, è più decente. Non ci sono state questioni, tutto è andato liscio. Giovanni ha avuto l'incarico di formare e dirigere il Fronte Carceri. Guagliardo si è incaponito per un pomeriggio intero su un passo che riguardava le fabbriche. Voleva a tutti i costi che fosse tolto un esempio preso dall'Alfa Romeo, forse perché citare direttamente l'Alfa avrebbe significato un implicito riconoscimento ai milanesi e al tipo di attività che svolgono in fabbrica. I quali stavolta hanno mandato solo il più rognoso dei tre, Vittorio Alfieri, che sembra fare più da osservatore che da partecipante. C'erano anche due napoletani, nuovi. Uno dei due, alto e con una faccia molto simpatica, ha fatto un'interminabile relazione sulla sua città, partendo dal colera e dalla guerra delle cozze, prima avvisaglia di un generale attacco imperialistico al proletariato napoletano. Qualcuno si è addormentato. Da Genova Lo Bianco è arrivato solo. L'ho visto confabulare più volte con Moretti. E Moretti, a riunione quasi finita, in una pausa, mi si è avvicinato e mi ha detto, sottovoce: “A Genova hanno fatto degli arresti. La cosa è grave. Non ne siamo ancora sicuri, ma sembra che il responsabile del logistico, Federico, stia parlando. Ci sono alcune cose che non si spiegano altrimenti”. Anche per questo, finita la riunione, mentre ognuno è andato per le proprie destinazioni, io sono tornato qui. Di ripartirmene anche per poco per Genova non se ne parla nemmeno, naturalmente. C'è la confusa percezione che anche altri stiano parlando: forse persino Angela, la ragazza che era con noi in luglio. Non ho nulla da fare, se non andare ogni tanto al mercato a comperarmi un bel pesce fresco. Il pescivendolo ormai mi conosce, e mi fa grandi feste. Ho ripreso in mano Dante: devo scrivere un'introduzione al Convivio — un vecchio contratto. Con me ho un volumetto già appartenuto a mio padre, con le sue note nei margini. Due volte prendo il treno, la mattina presto, e vado a Napoli, nella biblioteca della Facoltà di Lettere, per raccogliere almeno un po' di materiale e per ricavare le citazioni da un testo corretto. Vedo lì un professore che avevo conosciuto tanti anni fa, durante un congresso leopardiano, a Recanati. Non mi riconosce né io desidero che lo faccia, e me ne sto defilato, in fondo alla sala di lettura. È buffa e triste, questa cosa di studiare Dante clandestinamente. La sera me ne torno a Formia. Moretti si fa vedere ogni tanto, di passaggio. Aspetto di sapere da lui quale sarà la mia destinazione, e intanto non gli dico nulla della mia attività. Forse per evitare rimproveri e accuse d'imprudenza, o forse perché mi direbbe, semplicemente, che mi aggrappo a un'illusione, e che non sono capace, in realtà, di farla finita con il mondo che ho abbandonato e che non mi appartiene più. L'Esecutivo ha deciso: vado a Milano. Me lo comunica proprio Moretti, che non mi spiega, però, per quali vie siano arrivati a questa scelta, che mi stupisce. Nell'occasione, mi consegna la pistola che d'ora in poi dovrei sempre portare con me, come fa ogni clandestino: è la piccola automatica che per tutta l'estate ha portato lui, una Mauser 7,65.
Non ho alcuna istruzione particolare. Devo solo cercare di ricucire i rapporti con quelli della “Walter Alasia”, e di convincerli a non rompere con l'organizzazione: nell'immediato, è importante impedire che la frattura, che già esiste di fatto, diventi ufficiale e definitiva. Arrivo in città intorno alla metà di ottobre. Ho già trovato casa in centro, presso due candidi coniugi di mezza età che mi credono ingiustamente perseguitato, e che sono per il momento disposti a ospitarmi senza fare tante domande. Gli incontri con i milanesi sono subito diffìcili, marcati da insuperabili ostilità: non so come trovarli, sono loro che stabiliscono gli appuntamenti, di volta in volta, e mi fanno capire che non hanno affatto voglia di vedermi. Dovrebbe aiutarmi Guagliardo, che va e viene in giornata dal Veneto – presumo – ma lui è ancora meno gradito di me. A tratti affiora il disprezzo, l'insulto: saremmo gli ispettori, i tirapiedi di Moretti, da Milano è meglio che ce ne andiamo. Di fronte abbiamo ancora Alfieri e la ragazza che ho già visto a Tor San Lorenzo, Pasqua Aurora Betti, e uno nuovo, giovane e pallido, con la faccia piena di punti neri, Giorgio Adamoli – nulla a che fare con l'Adamoli genovese, anche se sui giornali si sono spesso fatte grandi confusioni. E proprio Adamoli sembra sia incaricato di incontrarmi ogni tanto, e di tenermi a distanza, mentre io in modo ossessivo e alla fin fine patetico insisto per entrare in qualche modo nella vita della colonna. Mi andrebbe bene qualsiasi cosa, pur di cominciare a farne parte. Ma le poche illusioni che posso ancora avere svaniscono presto. Io e Guagliardo e tutti gli altri delle Brigate Rosse siamo ormai considerati altra cosa da loro, e si rivela soprattutto sbagliata la nostra ipotesi, secondo la quale oltre i dirigenti della colonna milanese ci sarebbe una “base” poco informata sui motivi della rottura – e forse sulla rottura medesima — che vorrebbe continuare a riconoscersi nelle Brigate Rosse. È falsissimo. La colonna è irraggiungibile e compatta. La mia esperienza milanese conosce così una divaricazione progressiva. Da una parte sono solo ed emarginato, e divento una sorta di ambasciatore che nessuno vuole ricevere; dall'altra mi lascio catturare dalla città, mi immedesimo in essa. Mi innamoro di Milano. Il 12 novembre i brigatisti dell'“Alasia” uccidono l'ingegner Briano, della Magneti Marelli. Io e Guagliardo abbiamo un appuntamento con loro, pochi giorni dopo, all'incrocio tra via Tibaldi e via Meda. Siamo entrambi in anticipo, riusciamo a scambiare qualche opinione, e capisco che neppure lui sa che fare. Sospettiamo addirittura che, dopo quello che è successo, all'appuntamento non si presenti nessuno. È sprezzante, liquidatorio: “Hanno voluto partire a tutti i costi prima di noi, con una campagna sulle fabbriche... sono convinti che noi non siamo in grado di far niente, di essere ormai loro l'organizzazione... hanno voluto batterci sul tempo, per rompere da una posizione di forza: usano i morti così, per i loro giochi. Sono dei maiali, dei farabutti!”. Ma arrivano a sorpresa Alfieri e la Betti. Ci portano in silenzio giù per via Meda, oltre il viadotto della ferrovia, e poi in una viuzza interna. A caso entriamo in una trattoria semivuota: ordiniamo tutti bistecca e insalata. È difficile aprire bocca. Comincia Guagliardo, piano, con cautela. Insinua che non capisce le ragioni dell'azione, non ci sono lotte in corso alla Marelli... ma poi, quell'ingegnere, che ruolo, che responsabilità aveva? Su questo terreno non ci vogliono scendere. Ci guardano sfrontati, e ci buttano in faccia che ce l'avevano ben detto, che sarebbero andati avanti con i loro programmi, per conto loro. Quale sia la razionalità intrinseca, la necessità del loro gesto, non lo vogliono dire. Va bene, sospira Guagliardo, ma se considerano che una cosa così grave come un omicidio resta una questione tutta privata, interna alla colonna, e non è qualcosa che investe la responsabilità dell'intera organizzazione, allora non resta che l'espulsione. Lo dice con il suo solito tono delicato e cavilloso, ma alla parola espulsione Alfieri impallidisce e reagisce con violenza. La ragazza scoppia in singhiozzi. È incredibile, non ci capisco più nulla. Come potevano pensare che sarebbe andata diversamente? Non m'aspettavo una reazione simile: la quale – ed è il colmo – sembra proprio sincera! Chissà cosa gli passa per la testa, a quei due... nelle lacrime della Betti c'è impotenza e dispetto, ma anche autocompiacimento, esaltazione.
Recita la parte dell'eroina infelice, e questo mi disturba. Guagliardo continua a parlare. Guardatevi bene – dice – dal firmare quello che avete fatto con il nome delle Brigate Rosse, ma forse è inutile ricordarvelo, non ne avete alcuna intenzione, vero? Ha colto il momento giusto per spostare la questione: non sembra che sia più in gioco l'espulsione, ora, ma la firma. C'è uno spiraglio. Non rivendicate, aspettate, prendiamo un po' di tempo prima di rompere... Sembrano d'accordo sull'aspettare, per il momento non rivendicheranno niente – e un omicidio non rivendicato non esiste proprio, è come non fosse morto nessuno. La politica, qualsiasi politica, è tutto: la realtà non ne è che una occasionale emanazione. Usciamo dalla trattoria e ci lasciamo fissando un nuovo appuntamento, dopo cinque o sei giorni. Evidentemente Guagliardo non ha alcun mandato dall'Esecutivo, e deve prendere tempo anche lui. È tutta una storia allucinante, con quel morto ignaro sullo sfondo e noi che ci azzuffiamo su faccende di copyright, quasi che ci fosse ancora spazio per simili manovre. Ma poi, con tutto il cinismo possibile, su che base potremmo mai metterci d'accordo? Lo chiedo a Guagliardo, appena siamo soli, e lui divaga. Sa che i giorni in più non risolveranno niente e i milanesi, se potesse, li ammazzerebbe addirittura, ma ama rispettare i tempi dell'inevitabile, lasciare che le cose si compiano. A lui basta tenersi il suo odio, e passare la patata bollente. Non alzerà un dito e la frattura ci sarà perché, su questo, i milanesi sono i suoi migliori alleati, e perché ormai proprio lui l'ha messa all'ordine del giorno, e ne ha fatto l'unica vera questione in ballo. Io non ho alcun margine di manovra, e non si capisce bene, a questo punto, cosa ci stia a fare. L'appuntamento successivo non porta novità. Sento che Guagliardo dice: “Avremmo anche pensato di rivendicare noi direttamente l'azione, ma non è proprio possibile. Non siamo d'accordo, e non ne sappiamo niente...”. I due milanesi fanno fìnta di prenderlo sul serio, e si mostrano più concilianti nei miei riguardi: stanno pensando in che modo farmi partecipare alla discussione che c'è nella colonna, e come mettermi in contatto con qualcuno, affinché anch'io possa fare qualcosa... Qualcuno. Qualcosa. È tutto vago, e bisogna aspettare ancora. Ci prendiamo un'altra settimana di tempo. L'appuntamento stavolta sarà in fondo alla Ripamonti, dove c'è il capolinea del tram, sotto i portici di un gran casamento nuovo. La mattina del 28 novembre, sedici giorni dopo l'omicidio dell'ingegner Briano, il direttore tecnico della Falck Manfredo Mazzanti viene ucciso: sulla metropolitana, in mezzo alla gente, con un colpo di pistola alla testa. Vado a prendere Guagliardo in stazione, due giorni dopo: eravamo d'accordo così, per avere il tempo di discutere tra noi. Arriva, alto, un po' curvo, con la sua elegante figura da intellettuale. È impenetrabile, ma io me l'immagino sotto sotto soddisfatto della piega che hanno preso le cose. È chiaro che non c'è più niente da fare. Me lo dice subito, infatti: “I compagni sono furibondi, dicono che abbiamo avuto anche troppa pazienza, che finora ci siamo fatti menare per il naso. Ora basta. Siamo noi che li cacciamo”. Ma non viene con me: “Ci vediamo fra due ore qui, al bar. Digli che non li vogliamo più vedere, che l'Esecutivo li ha espulsi dalle Brigate Rosse. E basta. Non dire niente di più”. Non potrei dire molto di più in ogni caso: due ore sono poche, per andare e venire. Piove e tira vento. Il tram è freddo e umido, e oltre i vetri appannati non si vede nulla. Scendo al capolinea e attraverso la strada, cercando di evitare le pozzanghere. Come alzo la testa me lo vedo davanti, Giorgio Adamoli. È solo: hanno fatto come Guagliardo, si sono fatti rappresentare. Anche lui avrà poco da riferire. Ci guardiamo un attimo in silenzio. Attacco io, e gli dico quanto devo con il minimo possibile di parole. Faccio anche l'atto di andarmene, ma resto lì, invece, a sentir lui. Reagisce violentemente, come avevano fatto la prima volta i suoi compagni, ma non è altrettanto efficace: siamo noi due soli, eppure parla come se un'invisibile platea o una corte di giurati ci ascoltasse, e lui dovesse convincerla delle sue ragioni. Tenta delle accuse, esalta l'unità tra i rivoluzionari, ci richiama alle nostre responsabilità, e io intanto mi
accorgo che sono ancora nella strada, sotto la pioggia, con il vento che mi rovescia l'ombrello e le automobili che mi inzaccherano, mentre lui è più in alto, sull'orlo del marciapiede, al limite del porticato. Gesticola, e in nome dell'unità e della solidarietà sta chiedendo delle cose, le pretende: “Ci servono settanta chili di esplosivo, dovete darceli voi... per liberare dei compagni!”. Questo è troppo, e non ne posso più, di sentirlo. Lo insulto anch'io, e allora fa un gesto con la destra, la porta alla cintura, in basso, appena sotto l'orlo del giaccone, e grida: “Fra poco qui fischiano le pallottole!”. Proprio così. Fra poco qui fischiano le pallottole. È così mal detto che mi viene da ridere, ma sono anche disgustato da questi dialoghi nei quali quasi tutto quello che si dice è fìnto — una recita d'infima categoria. Gli rispondo che se fischiano le pallottole è giusto il tempo che io me ne vada, di corsa, e che mi auguro di non vedere mai più lui e gli altri sciacalli come lui — sì, sciacalli, perché sono sicuro che tutto il loro atteggiamento, e persino i due che hanno ammazzato, si spieghi con il fatto che essi credono che le Brigate Rosse siano finite, impotenti. Credono di poter già venderne la pelle, e questo mi riempie di rabbia, e mi scopro fanatico. Guagliardo è tornato a Milano qualche giorno più tardi. Porta con sé un breve comunicato, con il quale le Brigate Rosse rendono pubblica la frattura con la “Walter Alasia” e rifiutano ogni responsabilità nei due omicidi. Ne telefono il testo io stesso a “La Repubblica”, da una cabina in Porta Ludovica, vicina al bar Gattullo: Costoro hanno messo in atto contro l'Organizzazione una inaudita provocazione, appropriandosi della sigla delle BR come di un marchio di fabbrica per fare alcune azioni decise e compiute autonomamente. Il fatto che costoro, pur essendo su una linea politica diversa e pur trovandosi in schiacciante minoranza, non abbiano dato vita a una nuova organizzazione, ma abbiano scelto la strada della mistificazione... La stessa mattina lascio questo testo, insieme all'opuscolo della DS 80, in un cestino dei rifiuti, in via della Spiga, e avverto qualche altro giornale. La tragedia va insieme alla commedia, le risse si mescolano ai pettegolezzi. Le voci girano, e ingigantiscono... A forza di insistere, un giorno Alfieri mi ha detto: “Vuoi davvero discutere con i nostri militanti? Va bene, ti faremo conoscere un operaio”. Mi portano in un bar, in periferia, lui e Adamoli. Dentro, in un angolo, c'è la Betti, con un tipo grande e grosso che sembra mi voglia schiacciare. Mi scortano sino a lui, gli si siedono attorno, in cerchio, e io gli resto di fronte. Mi siedo. Alfieri, con tono bellicoso, dice: “Ecco. Ci puoi discutere. Abbiamo mezzora di tempo”. Li guardo, mi sembrano matti. Mi scappa detto: “Discutere di che? in questo modo? È un'assurdità... cos'è? Vi siete degnati di portare il bambino allo zoo, a vedere le scimmie?”. Adamoli balza dalla sedia paonazzo: “Gli operai sono scimmie, per te! Ti ha sentito! Ti ha sentito...”. Gli altri fanno eco, c'è un po' di confusione. Più che una scimmia, ho paura che l'operaio mi diventi un orco. Ci insultiamo come al solito, in maniere faticose e contorte. Quando me ne vado, la mezz'ora non è ancora passata. Questa è stata l'unica occhiata che ho gettato sulla colonna milanese, oltre il filtro dei capi, e non è stato un successo. Da allora, è girata la voce che per me gli operai erano delle scimmie. Ma non solo per me: anche per quelli che io rappresentavo, per le Brigate Rosse in genere. Devo dire, purtroppo, che questo era lo stile dell'“Alasia”, e io un po' per ingenuità e un po' per dispetto continuavo a fornire materiali per chiacchiere di questo tipo. Allora riuscivo solo a immaginarlo. Poi, negli anni, sono venute fuori tutte, sino a costituire il piccolo dossier dei miei sfortunati rapporti con la colonna milanese. Una sera ho visto rapidamente Adamoli. Aveva un basco blu, in testa. Mi ha fatto un lungo racconto, sull'amico del cugino di un altro amico, che era riuscito a procurarglielo per tremila lire. Poi ha guardato il mio cappello, e mi ha chiesto: “È nuovo? Quanto costa?”.
Già detestavo cordialmente il poverismo di tutti loro, che manifestavano con insopportabili vezzi, come questo del basco. Io avevo un cappello nuovo, un feltro marrone. D'istinto, per puro sfregio, ho raddoppiato il prezzo: “Duecentomila lire”. Non ha detto nulla. Ma quel cappello è diventato mitico, nell'ambiente, e il suo prezzo è continuato a crescere, a crescere... È curioso il modo in cui l'ho scoperto. Sono stato interrogato, molto tempo dopo, dal giudice istruttore di Milano dottor Lombardi. Ha scorso il fascicolo che aveva davanti e tutto serio ha detto: “Allora, lei andava in giro con un cappello carissimo...”. L'ho guardato sbalordito. Ha aggiunto, cortesemente: “Abbiamo molte testimonianze su questo cappello, sa? E poi, è vero che lei frequentava abitualmente le sale da tè di San Babila?”. Le sale da tè! Anche lì, erano in tanti a inchiodarmi. Da dove veniva questa storia? In fondo, i miei incontri non erano stati molti, e mi sto accorgendo che, in un modo o nell'altro, stanno venendo fuori tutti. È successo, certamente, un giorno in cui ho mangiato con Alfieri e la Betti in una trattoria, forse anch'essa nella parte finale di via Ripamonti. Avevamo speso pochissimo, avevamo mangiato male, e per strada puzzavamo di frittura, di fogna e di chissà che altro, in maniera rivoltante. Timidamente, questa volta, e cercando di non urtare la loro suscettibilità poveristica, ho spiegato che avevo trovato una maniera per risparmiare: invece di fare un pranzo in trattoria e rovinarmi lo stomaco, preferivo un tè e una fetta di dolce. Stavo meglio e, sottolineavo ancora, risparmiavo... Ma non mi avevano creduto, evidentemente: avevo fallito anche in questo. E le parole del giudice non hanno fatto che mettermi sull'avviso: in seguito ho conosciuto almeno quattro o cinque persone, in carcere, per le quali io ero quello del cappello, o delle sale da tè. Una piccola coda polemica, e un riconoscimento. S'intende che sono sempre più convinto che quel poverismo, cioè quella ostentazione greve e moralistica di povertà che caratterizzava l'“Alasia” – almeno, quella che ho conosciuto io – non solo fosse una forma velleitaria, tutta ideologica, ma che fosse addirittura controproducente. Lo ispirava la sincera volontà di “andare verso il popolo” secondo i canoni della vecchia precettistica emme-elle, ma non ci andava affatto. Credo che il popolo, a cominciare da quella classe operaia che anch'essi inseguivano, non volesse più averci a che fare, né mai avrebbe potuto considerarlo un valore. Il comunismo della miseria non allettava nessuno. E dunque marciva su di sé, inutilmente, e io, a dispetto di tanti pettegolezzi, non ero tale idolo polemico che lo potesse rianimare. Telefono spesso a Isabella. Vado in Galleria, alla Sip, nella calca della prima sera, insieme agli immigrati che chiamano la famiglia. A Bari, a Reggio Calabria, a Catania. Faccio la fila con loro, per i gettoni, e ne ascolto le frasi rudimentali, gridate. Sempre le stesse – Concetta sta bene? e la mamma? Baci a Filippo... Riappendono poi il microfono, e sulla porta si fermano un attimo, e si aggiustano il cappotto e la sciarpa e si guardano ancora una volta attorno, prima di staccarsi da riva e abbandonare il caldo isolotto pieno di fumo e di gente e di voci, per buttarsi nel buio della città, verso le camere d'affìtto e le pensioni, là in fondo, oltre il livido acquario della Galleria. Anch'io faccio lo stesso. Non ho fretta, non mi spiace fare la coda. Chiamo e dico poche frasi, sempre le stesse — come stai? cosa ha detto il medico? ci sei stata? Sì... ti amo... richiamo fra cinque giorni, alla stessa ora. Indugio prima di uscire, e mi stacco con sforzo, come tutti, dall'isolotto — la piccola piattaforma spaziale che gira attorno alla terra lontana. A volte la telefonata cambia, di poco, ed è persino peggiore. “Enrico... ho sentito ieri di Pezzoli”. “Sì”. “Ma tu... tu te lo ricordi, a Marassi, al processo?”. “Sì, certo”. “Stava sempre zitto. Serio. Sembrava un buono...”. “Non sapevo niente di lui, non l'avevo più visto... è stata una sorpresa anche per me. Non me l'immaginavo”. “L'hanno ammazzato”.
“Lui e l'altro, appena fuori dal ristorante...”. ”...fuori dal ristorante, sì... Enrico, ho paura”. “Anch'io. Ma sta tranquilla, sono al sicuro... pensa a te, invece. Non mi hai detto come stai. Tutto bene?”. “Sì... il dottore dice che va tutto bene”. Il vicino alza la voce. Per farsi sentire fin giù nel sud, urla. Anche lui chiede — e il dottore? che dice il dottore? la fa ricoverare? quando? Sì, verrò giù la prossima settimana... appena posso, sì, sì. Non voglio parlare di Walter Pezzoli, il ragazzo che aveva firmato con me e Isabella il documento letto al processo di Genova, il maggio scorso. Quanto aveva? Vent'anni? Non lo so. E l'altro che i carabinieri hanno ucciso con lui, Serafini? Ne ho già sentito il nome, ma niente di più. Di sera, all'uscita di una trattoria dalle parti di viale Certosa, in questa stessa Milano in cui sono io... Non riesco a capire se Isabella piange, dall'altra parte. La voce è remota, e ora tutti parlano più forte, e le voci si sovrappongono e si mescolano in un'aggrovigliata Babele di dottori e mamme e mogli e sorelle e cugini tutti sordi, malati, lontani, impegnati in strane faccende. Chiudo gli occhi, e mi sforzo. “E il pancione, come va?”. “È sempre più grosso, e sentissi come si muove... Enrico!” “Sì ... ti sento . “Fra poco è Natale”. “Sì”. “Oh... no, non è possibile”. “Non credo, no...”. “Davvero ti ricordi bene di Pezzoli? Da ieri ce l'ho davanti agli occhi. Non ho dormito, stanotte...”. È una vita di merda, su questo non c'è dubbio. E anche la morte, così, su un marciapiede, tra le macchine, alle dieci di sera. D'improvviso, nel buio. Quando esco mi stringo nel cappotto, contro il freddo pungente della notte milanese. Nei bar c'è poca gente. Nelle vetrine illuminate, dietro le grate, fioriscono le prime stagnole, e festoni di carta e stelline e batuffoli di cotone: Buon Natale, Buone Feste. Cammino piano e mi guardo attorno. A tratti abbasso gli occhi sul selciato, guardo i miei passi. Vedo insetti e foglie imprigionati così, in un blocco di vetro. L'attesa è assurda, definitiva: Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Un'automobile rallenta lungo il bordo dell'aiuola spartitraffico, e faticosamente s'arrampica sul gradino di cemento. Il motore trema ancora un istante, i fari si spengono, un'ombra armeggia attorno alle portiere. Un tonfo, e sparisce in fretta. Non può succedere nulla, ed è già successo tutto. Da lontano, dietro la nera barriera delle case, arriva il suono di una sirena. Il pensiero svolta di qua e di là, come una biscia tra i sassi, e sfiora appena dove fa male. Cammino, e percepisco con intensità i volumi oscuri della notte, le macchie di luce, i rumori... il tempo. Tanti anni fa – quanti? – ho visto un film. In un bosco, un pazzo ha assassinato una vecchia a colpi d'accetta. C'è anche un lago, o un fiume, tra gli alberi. Ha preso l'accetta, poi, e con tutta la sua forza l'ha scagliata in alto e la macchina da presa ne segue il volo tra i rami, al rallentatore, tutta la parabola, su in alto, e poi giù, giù, sino al lento lungo zampillo dell'acqua che l'accoglie. Un lento volo tra i rami del tempo e la lama ha perso il suo sangue – quanto tempo prima è sgorgato dalle ferite? Oh tempo le tue piramidi... Mormoro queste parole a mezza voce. È forse un verso? Che vuol dire? Le ho lette da qualche parte e ora le ricordo. Il tempo delle piramidi... le piramidi del tempo. Volumetriche immagini del vuoto. La strada corre diritta, con la riga lucida dei binari del tram in mezzo. Qualche gruppo parla e ride, e subito la porta del ristorante ne inghiotte le voci. Entro in un portone socchiuso e salgo per lustre scale di pietra, male illuminate. Dalle porte filtrano fessure di luce e odori, e il suono delle televisioni accese. Ieri sera sono morti Serafini e Pezzoli. Stasera – è il 12 dicembre – rapiscono a Roma un magistrato addetto alle carceri, Giovanni D'Urso. È stato il Fronte carceri, di sicuro: così, dopo più di sei mesi di sosta, le Brigate Rosse sono di nuovo in azione. Guagliardo ripassa velocemente da Milano, sembra
soddisfatto. Mi spiega che questa volta ce la metteremo tutta, per avere un pieno successo politico. Non lo dice, ma il tono è: gliela facciamo vedere noi a quelli dell'“Alasia” che ci davano per spacciati, come si fa a fare la lotta armata. Ma senza di lui, in ogni caso: lo arrestano, infatti, dieci giorni dopo, a Torino, in un bar, insieme a Nadia Ponti. A leggere le cronache non ci si mette molto a capire che un terzo, che sarebbe miracolosamente riuscito a scappare all'irruzione, è quello che ha portato sin li i poliziotti. È quasi Natale, e per un bel po' resto solo, a Milano, senza contatti. È libero, finché quelli dell'Esecutivo, che sanno dove sono, non troveranno il modo di rifarsi vivi. Guagliardo, ancora, mi aveva detto: “Le feste le passeremo insieme, nell'appartamento di Jesolo dove sei già stato per una notte”. E io ero rimasto raccapricciato all'idea. Non per lui e per Nadia, ma per la melanconia greve dei freddi giorni lagunari che ci avrebbero atteso nel condominio deserto, nel miniappartamento dentro il quale ci saremmo chiusi. Resto solo, invece, e allora continuo i miei giri solitari per le viuzze che stanno tra Sant'Ambrogio e il centro, in piazzetta Borromeo e in via San Maurilio, e lungo i Navigli e a Porta Genova e, dall'altra parte, in via Cerva e attorno al Conservatorio e oltre, nella quiete dei villini verso viale Romagna e piazzale Susa. E leggo i giornali seduto a un tavolo del nobile vinaio Provera, in corso Magenta, oppure nella gelateria Passerini, a un passo dalle parate gastronomiche di via Spadari e Speronati, e visito con cura il Castello, e il Poldi Pezzoli, e le mostre in Palazzo Reale – le ceramiche del Rinascimento, e gli acquerelli di Turner in via Sant'Andrea, ed entro da Parini – ora non c'è più – per chiedere il prezzo di un vino francese che ha in vetrina, e me ne esco imbarazzato, a mani vuote. Lorenza ha tredici anni, ormai, e riesco a farla venire su con Lisa, la più piccola, che ne ha nove. Le aspetto come d'accordo alla stazione di Pavia, in una mattina freddissima. E sono là, in fondo al marciapiede, imbacuccate, che si tengono per mano. Lorenza ha una piccola borsa a tracolla, con dei panini: Grazia, la mamma, aveva messo in conto che non riuscissero a incontrarmi. Prendiamo la prima corriera per Milano, e arriviamo a mezzogiorno al Castello. In terra c'è un velo di ghiaccio e neve, ma il cielo s'è fatto limpido e mette allegria. Mangiamo in una stretta e obliqua traversa di corso Garibaldi, alla Vittoria, e s'entusiasmano per la meringa con il cioccolato. Di solito vado invece lì vicino, alla Libera, in via Palermo, e prendo il “dietone”, piatto unico, e un gran bicchiere di birra rossa. Poco oltre, sull'altro marciapiede, c'è l'ingresso dello sferisterio dove si gioca alla pelota basca, e si scommette: ho sempre avuto voglia di andarci ma, chissà perché, non l'ho mai fatto. Poi passeggiamo per il centro, e andiamo alla Pinacoteca Ambrosiana, e ci commuoviamo tutti davanti al cesto di frutta di Caravaggio. Usciamo, e le porto di corsa al cinema, in corso Buenos Aires, al Tiffany, a vedere i Blues Brothers. Io l'ho già visto, in prima visione, ma è ancora una novità. Le riaccompagno al treno, alla Centrale, e ci accorgiamo che i panini sono ancora lì, dimenticati nella borsetta. Lorenza la apre, li guarda e mi guarda. Sta per salire in carrozza, mentre Lisa mi abbraccia. Mi sorride, e ha due grossi lucciconi agli angoli degli occhi, e quei lucciconi brillano ancora mentre agitano le mani e mi mandano baci dall'alto, dietro il vetro del finestrino, mentre il treno si stacca pian piano e le riporta via. Il treno porta via anche Isabella. Ci incontriamo tra Natale e Capodanno: ho scelto ancora Pavia, e ci vado con mille attenzioni. Ma è lei che deve stare attenta. Da tempo è pedinata, notte e giorno, e ci sembra impossibile che non se lo immaginino, che avremmo cercato di vederci. Diversamente dall'incontro con Lorenza e Lisa, questa è una grossa imprudenza, un caso da espulsione, se si risapesse. Ma riesce a sviare tutti partendo qualche giorno prima, e facendo un lungo giro per amici e parenti. Ha i capelli coperti da una larga sciarpa scura e indossa un giaccone imbottito che le copre anche la pancia: è alla fine del sesto mese, e non mi sembra che possa ingrossare più di così. C'è una nebbia fine, un vapore freddo che ci avvolge e ci accompagna mentre camminiamo lungo il fiume, e lo vediamo distendersi in lunghe lingue bianche sull'acqua che corre cupa. A guardarla, dà i brividi. Ci fermiamo un momento, dopo il ponte coperto – Rascel e il cappotto, tu forse non puoi ricordarlo, vero? non so più neanch'io quando l'ho visto... Oltre il parapetto corre il fiume, e di là, una fila di case basse lungo l'argine d'erba in bilico
tra l'acqua e la nebbia, una fila dolce e melanconica di case sul fiume, uno struggente orizzonte velato e silenzioso, oltre il nero impeto dei vortici. “Guarda che bello!”. La stringo a me: “Sì, ma pensa a starci, che freddo, e che umido!”. “Perché? Là per esempio...”. Segna col dito una casetta tra le altre, la indovino a fatica: una porta che si apre sul terrapieno, tra ciuffi d'erba nera e una finestrella, e tre belle finestre sopra, e un comignolo dal quale pare che esca un filo di fumo, bianco come la nebbia. “Tu là ci staresti benissimo, uno studio pieno di libri, e il camino acceso... ti ci vedo”. “Ma tu?”. “Beh, è vero, mi verrebbe una melanconia, una depressione da morire... vuoi mettere un rustico in riviera, tra gli ulivi? Magari adesso c'è il sole. A me quest'umido e questa nebbia mi ammazzano, e la pianura poi! Non la sopporto, non potrei mai viverci”. Ne parliamo un po' e le sciocchezze che diciamo ci intiepidiscono il cuore. Guardo ancora una volta quella remota fila di vecchie case, perfetta, troppo perfetta. La trovo inquietante, adesso. Nasconde un'oscura minaccia, un segreto sigillato dietro le finestre chiuse che galleggiano tra i vapori dell'inverno, un miraggio basso e lungo sull'acqua... un urlo sul fiume, tra la nebbia, e un barcone che aspetta, vuoto, e tutte le luci sono spente, non c'è nessuno... ed è sempre più freddo. S'è fatto tardi, ci sembra di non poter sopportare gli addii in stazione. In realtà non sopportiamo più nulla. In piazza ci abbracciamo forte e in fretta, e fuggiamo uno dall'altro con assurda ostinazione. Ho addosso una rabbia micidiale, e mi ci aggrappo per non voltarmi indietro. Il giorno 8 febbraio vado in centro come al solito, tutte le mattine, e in piazza della Scala, all'angolo con la Galleria, compero il giornale di Genova, “Il Secolo XIX”. In cronaca, un trafiletto: dice che Isabella Ravazzi, compagna del noto professore accusato di far parte delle Brigate Rosse, ha prematuramente dato alla luce una bambina, Marianna. Madre e figlia stanno bene. Solo il giorno dopo riesco a dire per telefono due parole strangolate. È Moretti che mi ripesca, in gennaio. Appena in tempo, sto per cambiare casa. Dopo l'intervista all'“Espresso” è venuto fuori il nome di Giovanni Senzani, con prepotenza, e in coda il mio. Vedo in televisione lui, e sento la voce di mia sorella che Marrazzo tenta inutilmente di intervistare nella sua casa di Firenze, e vedo anche me. I miei ospiti cominciano a capire: la barba non basta più a coprirmi, e la normalità delle mie giornate milanesi acquista di colpo un'aria sinistra. La signora piange e mi supplica di andarmene: il marito è fragile e malato di nervi, hanno paura e non sono neppure d'accordo, e poi... poi ha visto proprio ieri sera una macchina sotto casa, con la ricetrasmittente sul cruscotto, e tanti poliziotti in giro, in divisa e in borghese. Naturalmente non è vero, ma faccio finta di crederle e la rassicuro. Me ne andrò al più presto, un amico mi ha presentato alla sua ragazza che vive sola, in un appartamento di via Verga, vicino a corso Vercelli. Con lei, passo per un rappresentante di libri. Moretti sembra contento e pensa, come tanti, che il sequestro D'Urso sia stata una delle azioni più riuscite di tutta la storia delle Brigate Rosse, coronata dall'intervista sull'“Espresso” e dalla chiusura del braccio di massima sicurezza dell'Asinara: è la prima volta che un insieme così vario di cose si compone in un quadro unitario, e ci sembra che la lotta armata stia finalmente per conquistare una dimensione politica. Mi dice che i reclutamenti stanno riprendendo, che il successo ha riacceso gli entusiasmi. È convinto che persino a Milano si riuscirà a fare qualcosa, e vuole impegnarcisi lui stesso, riesumando vecchi rapporti. Non possiamo capire quello che diventerà chiaro solo più tardi: che il sequestro D'Urso è insieme l'inizio e la fine della ripresa. In realtà si è svolto una specie di gioco delle parti: i detenuti che hanno fatto da cassa di risonanza all'azione sono solo una piccola parte dei brigatisti prigionieri, e le carceri speciali più importanti – Palmi, Nuoro, Cuneo, Novara – non si sono mosse. Non parliamo poi
delle carceri normali: la loro ormai è tutta un'altra storia, definitivamente perduta. La larga portata sociale dell'azione è dunque una finzione, un artificiale effetto a specchio che offre un falso riscontro al tentativo di investire con la nostra azione interi “strati di classe”, come recita la teoria. Di più, non ci accorgiamo che anche i nuovi reclutamenti sono cosa vecchia. In quegli anni la parabola di tanti piccoli gruppi era stata spesso assai veloce, ed erano arrivati al punto inevitabile della crisi con una capacità di tenuta molto inferiore a quella delle Brigate Rosse. Sì che queste, pur nelle difficoltà in cui si trovano, appaiono ancora come un punto di riferimento. Non capiamo quello che sta succedendo: il fatto, cioè, che le potenzialità di crescita che vediamo attorno a noi, nel corso di questi mesi, sono in gran parte false, perché sono costituite da una somma di spezzoni in riflusso che aggiungono la loro debolezza alla debolezza dell'organizzazione più forte. Ne discutiamo, certo, ma è come se fossimo aggrappati mani e piedi a una parete di roccia: riusciamo a vedere solo quello che abbiamo davanti al naso. Passa due o tre volte, tra gennaio e febbraio, ma sparisce in fretta. Va in cerca, senza successo, di qualcuno dell'“Alasia”, per la quale si illude di trovare la via. Continua a essere convinto che sia possibile riconquistarla prendendola alle spalle. Non ottiene niente. Le settimane passano. Questo non venire a capo di nulla comincia a essere disperante: siamo cotti al punto giusto. Torna ancora a Milano, infatti, e mi dice: “Devi venire con me, ci aspetta Sara, in piazza Cinque Giornate, per presentarci un compagno di Milano, uno che ha già fatto qualcosa, credo, con un gruppetto suo... vogliono entrare con noi, chissà che non sia la volta buona. È già stato in galera, e sono quelli dentro che ce lo mandano e garantiscono per lui... e anche Sara, si capisce”. Andiamo subito, e sono già lì, per strada, davanti al Motta. Ci salutiamo rapidamente, e Sara lo lascia a noi e se ne va via per conto suo. Il ragazzo – Renato – è magro, biondo (forse tinto?), con la mascella molto segnata, le labbra sottili e gli occhi chiari. Ha un'aria intelligente. Camminiamo per viale Montenero ed entriamo in un bar. Stiamo molto sulle generali e vorremmo invece capire chi è lui e cosa fa, e con chi ha rapporti. In poche parole, ci interessa la fabbrica, gli operai. Lui però fa altrettanto. Si tiene sul vago, e vuole stare a sentir noi. Viene fuori, con un po' di fatica, che no, non ha alcun rapporto con il mondo della fabbrica né con particolari realtà sociali che ci possano interessare. Non ci sono che due ragazzi molto giovani con lui, e in ogni caso dovremmo incontrarci tutti insieme. Ha già in mente dove: in casa di un amico camionista che è sempre in giro per l'Italia e che gli lascia la chiave. Quando ci rivediamo arriva con altri tre. Non due, come aveva detto. Uno è giovane giovane, e sembra spaventato, mentre gli altri due sono più vispi: lei, Tiziana, è minuta e carina, lavora come impiegata in una casa di mode, e noto allora che veste in modo molto elegante; lui, Silvano, magro e abbronzato, con i baffetti neri, va in giro tutto il giorno a far consegne con un camioncino. Siamo agli antipodi dell'“Alasia”. Nel piccolo appartamento cominciamo a parlare seduti su due brande in quella che sembra essere l'unica stanza oltre il cucinino. Dopo cinque minuti il più giovane dei tre se la batte, con molta onestà: “Scusatemi, non me la sento, non voglio guai... me ne vado prima che voi andiate troppo avanti”. Sparisce prima che si abbia il tempo di dirgli qualcosa, e io guardo Moretti che si stringe nelle spalle con aria rassegnata – cominciamo bene! Ecco a cosa siamo ridotti! Ma gli altri lo ascoltano mentre spiega le linee generali della DS 80, della quale lascia alcune copie. Si direbbero interessati, ma a tratti mostrano di sopportare con una punta di noia quegli inevitabili preliminari. Il più attento è Renato, che chiede qualche chiarimento ogni tanto. Ma l'occhio gli corre alla pistola che Moretti porta alla cintura, e finisce per chiedere: “Me la fai vedere?”. Moretti annuisce, e la prende e ne fa scivolare via il caricatore e il proiettile che è in canna. Mette tutto in tasca, e gliela allunga così, aperta e inoffensiva, dopo questa piccola esibizione di professionalità. È stato il momento più emozionante dell'incontro. Quando ci lasciamo siamo più o meno
al punto di prima, ma ci diamo un altro appuntamento fra quindici giorni, direttamente davanti alla casa. Non ho più visto Giovanni Senzani, dopo Formia. Allora era stata una grossa sorpresa: sapevo che aveva a che fare con le Brigate Rosse, ma niente più di questo. E nel maggio, in carcere a Genova, avevo ricevuto in dono da lui, da Londra, un grosso volume-catalogo sull'opera di Salvador Dalì, ed ero convinto che fosse rimasto all'estero con la famiglia, al sicuro, dopo i sospetti e il fermo di polizia dell'anno prima. Non avendo niente da fare (scrivevo la mia introduzione al Convivio clandestinamente, nei giorni in cui rimanevo solo), l'avevo accompagnato due volte a Livorno. Non so chi vedesse, io l'aspettavo sul lungomare, verso i bagni Pancaldi. La seconda volta mi presentò un giovane alto, taciturno: Cattabiani, appena uscito dal carcere di Pianosa. Un carrarino, un apuano duro come il marmo. Giovanni me ne parlava con reverenza: “È un'avanguardia di lotta... Lo conoscono e lo rispettano tutti, dalle sue parti. Se verrà con noi sarà una gran cosa, vedrai”. Venne infatti, e un anno dopo fu riconosciuto da una volante, ancora a Livorno, e ci fu una sparatoria: riuscì a fuggire rubando una motoretta e superò sparando un nuovo sbarramento, e fu ucciso pochi chilometri più avanti da una pattuglia della polizia stradale. Accompagnavo Giovanni partendo la mattina prestissimo da Formia, con l'ultimo buio e i primi pendolari, e ritornando la notte, verso l'una, le due, dopo aver cambiato a Roma. Vedevo arrivare la grigia luce dell'alba come il treno saliva verso Roma, e i campi ormai violetti e qualche branco di bufale e i fiumicelli neri come scoli a pelo del terreno... Sì, è proprio Terra di lavoro di Pasolini, che da allora ogni tanto rileggo, e mi ritrovo in quel treno umido, la mattina presto, tra quella gente, e mi riperdo in questa luce che rade, con la pioggia, d'improvviso zolle di salvia rossa, case sudice. Ti perdi nel vecchio paradiso che qui fuori sui crinali di lava dà un celeste, benché umano, viso all'orizzonte dove nella bava grigia si perde Napoli, ai meridiani temporali, che il sereno invadono, uno sui monti del Lazio, già lontani, l'altro su questa terra abbandonata agli sporchi orti, ai pantani, ai villaggi grandi come città. Si confondono la pioggia e il sole in una gioia ch'è forse conservata – come una scheggia dell'altra storia, non più nostra — in fondo al cuore di questi poveri viaggiatori: vivi, soltanto vivi, nel calore che fa più grande della storia la vita. Tu ti perdi nel paradiso interiore, e anche la tua pietà gli è nemica. Mi riperdo, ma provo anche una curiosa repulsione, come se questi versi — e tutti i suoi altri versi — dicessero cose vere, e però anche false. Forse perché i “poveri viaggiatori” nel frattempo avevano smesso di essere contadini ed emigranti, e cosa fossero diventati era più difficile da dire, così come s'era fatto più difficile provarne pietà, o forse per quel tanto di fittizio e di viscerale che c'è nel suo populismo ricattatorio – qualcosa in cui io vedo il deformato riflesso di un'altrettanto patetica mitologia proletaria, che è stata anche la mia? Non lo so... anche se resta in ogni caso da rileggere quanto Pasolini scriveva nel '74-'75 sul tragico e “lungo urlo” europeo di addio alle speranze rivoluzionarie, soffocate da una omologazione borghese che non avrebbe lasciato ai giovani che una “follia pragmatica”, e l'estremismo che nasce dal conformismo e dalla nevrosi. Intanto, ogni volta, mi riperdo su quel treno e in quei campi violetti, che sono proprio così: Pasolini non ha inventato nulla, e ha invece scoperto l'anima di quel paesaggio per tutti noi, inquieti e insonnoliti viaggiatori di seconda classe, all'alba, tra Napoli e Roma. Dicevo che non ho più visto Giovanni, da allora. Lo rivedo adesso, tra febbraio e marzo, a Bologna. L'appuntamento me l'ha fissato Moretti, durante una delle sue rapide visite milanesi. “Gli interessa il tuo avvocato” mi ha detto “potrebbe diventare un contatto del Fronte carceri”. L'aspetto come d'accordo davanti all'Università americana John Hopkins, per mezzogiorno: alla mezza incontriamo l'avvocato Mario Cavaliere, per tutti Meo, davanti alla chiesa di Santo Stefano. Andiamo a mangiare in un buon ristorante lì vicino, sotto i portici: al tavolo di fronte al nostro sono
seduti quattro sindacalisti della FIOM genovese, li ho visti e sentiti qualche volta, ma non c'è alcuna ragione per la quale loro possano conoscere me. Meo è molto esigente nella scelta del vino, da quel grande intenditore che è: un intenditore senza snobismo e petulanza, amabile quanto la sua materia. Quel poco che ne so, lo devo a lui. I nostri discorsi sul vino sono sempre rilassati, rotondi, e occupano con naturalezza l'intera conversazione. Ora non è così, la scelta del vino è solo una battuta d'attesa, una formalità. Meo ha già visto Giovanni una volta, molto rapidamente a Pisa. Li ho presentati io, e tutto è rimasto nel vago. Adesso Giovanni è all'attacco, vuole la sua preda, non molla. Chiede quali spazi ci siano per una difesa tecnica dei compagni, e fa pesare il fatto che non ce ne sia in effetti alcuno. Allora l'avvocato che ci sta a fare, se ha sangue nelle vene e ha pure lui un certo tipo di idee? Meo si difende bene, ottiene di pensarci su, di poter addirittura abbozzare un testo scritto nel quale si considerino quali siano, realisticamente, le possibilità tecniche di difesa per chi non si vuole difendere e invece rivendica la propria appartenenza alle organizzazioni armate. È una schermaglia che nasconde ben altro, ed è chiaro che quel documento Meo non lo scriverà mai. Ma è anche chiaro che non cede, che non s'arrende al Fronte carceri, ed è in aggiunta una persona tanto intelligente e tanto fine da essere mitissimo e disponibile e curioso, ma inflessibile nel difendere la sua vaghezza esistenziale. Ci lasciamo così, e sono certo che per quante volte egli abbia poi rivisto Giovanni, e per quante siano state le cose che l'hanno sfiorato, è rimasto sempre così, un caro e ironico amico, dall'imprendibile innocenza. Resto con Giovanni deluso e sovreccitato: vede solo quello che vuole lui, si agita, trama... Mi chiede di Moretti, che dice, che pensa, e alle mie prevedibilissime, banali risposte aggiunge commenti allusivi e vaghe minacce: “Ah! è così, allora... già già, lo si capiva da un po' di tempo, ormai... ecco cos'ha in mente! Fa il furbo... che venga a Napoli, e vedrà”. Visto che gli parlo dei rapporti con l'“Alasia”, mi sfiora l'idea che simpatizzi, contro di noi, con i milanesi. O che non sia d'accordo sul modo con il quale sono stati trattati, ammesso che di trattamento si possa parlare. Cerco di capirci meglio, e gli chiedo qualcosa io, ma diventa di colpo reticente, evasivo. Sa che sono dalla parte di Moretti, e non si sbilancia. Allude, ma non dice nulla. Certo, dirigere il Fronte carceri gli dà una grande autonomia, può mettere il becco dappertutto, dentro tutte le colonne. Dove c'è un carcere, ha diritto di esserci anche lui, rompendo trasversalmente la compartimentazione: pare che diriga, inoltre, la colonna napoletana, o che sia, in ogni caso, l'ispiratore della sua politica. È frenetico, superattivo, ma in un modo tutto suo, quasi che lavori per se stesso. Tant'è, viene fuori che ce l'ha anche lui con l'Esecutivo, con il blocco costituito da Moretti e dai suoi fedeli che, guarda caso, sono tutti romani: Sara, Novelli e Savasta, che ha sostituito Iannelli, arrestato mesi fa. Per Novelli, veramente, è prodigo di complimenti, ma insinua pesanti dubbi sulle capacità degli altri due, e che Savasta sia stato cooptato così, non la manda giù. Non lo dice, ma si capisce bene. Lo rode di non essere stato chiamato lui, nell'Esecutivo. Non ha tutti i torti, del resto, se è vero che, con il Fronte carceri, dirige anche la colonna di Napoli: ha già un'organizzazione per conto suo. Me ne parto perplesso. Con la sua generosità e il suo entusiasmo ha fatto una delle cose più utili che si siano realizzate in Italia, alla fine degli anni '60: la famosa e supercopiata inchiesta sulle carceri minorili, che ha smosso davvero una valanga, negli anni seguenti. Ora, sembra il diavolo nella bottiglia, frenetico dentro, pericolosissimo se riesce a uscir fuori. La prima volta che ci rivedremo, dopo il nostro arresto, la prima cosa che Moretti mi dirà, sarà: “Speriamo che lo chiamino subito nell'Esecutivo, lo devono fare se sono furbi, sennò lui rompe tutto”. È un limpido sabato di primavera. Si sta benissimo. Alle due sono davanti alla Stazione Centrale di Milano. Compero il giornale e mi avvio piano all'appuntamento, godendomi la passeggiata. Risalgo la strada lungo il terrapieno della ferrovia. A un certo punto c'è uno slargo triangolare con una piccola aiuola, a destra. Oltre, appoggiato al muro, mi aspetta Moretti. Lo vedo da lontano e affretto il passo. Al bordo esterno dell'aiuola c'è un giovane seduto a gambe larghe sulla Vespa, e un altro, in piedi, chiacchiera con lui. Hanno giubbotti di jeans, i capelli lunghi e le scarpe da ginnastica. Dall'altra parte un
gruppo di giovani è fermo davanti al bar, qualcuno è seduto. Chi parla, chi legge il giornale. Sono ormai a una ventina di metri da Moretti, che non si è mosso. Quei tipi non mi piacciono: senza pensarci troppo svolto di colpo a destra, in una via deserta. Non so bene perché, e cosa può succedere. Un attimo, e sento dei passi dietro di me: “Ehi! ero lì, non mi hai visto?”. Forse speravo che capisse, che cercasse anche lui di prendere il largo. Ma ormai siamo insieme, è fatta. “Hai visto quelli là sulla piazzetta? sono troppi, non so, non mi vanno”. Riflette un momento, si guarda attorno: “Ma no... sono le due e mezza di sabato, è una bella giornata! Sono tutti lì che decidono come organizzarsi il pomeriggio e la serata”. È del tutto verosimile. Ma sono ancora incerto, mentre lo seguo. Torniamo indietro, andiamo proprio verso il bar. Di fianco c'è il portone della casa nella quale dobbiamo incontrare i tre ragazzi. Lì davanti ce ne sono due, Tiziana e Silvano, appena arrivati. Ma le chiavi ce l'ha Renato, che ancora non c'è. Ci scherziamo su e aspettiamo un minuto o due. Moretti, si vede che è appena sceso dal treno: ha il soprabito, la sciarpa e due borse, una normale e l'altra a tracolla. I giovani del bar continuano a muoversi. Vanno, vengono. Mi sento ancora a disagio, e sono proprio io a dire: “Sentite, è inutile stare qui tutti insieme. Facciamo ancora un giro, e ritroviamoci qui davanti fra un quarto d'ora. E speriamo che Renato arrivi”. Ci dividiamo. Prendo io la borsa di Moretti, e insieme continuiamo il giro dell'isolato. C'è un tipo che legge un giornale a fumetti, in piedi, proprio in mezzo al marciapiede, all'angolo opposto. Altri due attraversano la strada, più giù, e ci vengono incontro. Li incrociamo. In fondo, entriamo in un bar. È vecchio e polveroso, con grandi vetri sudici sulla strada. Non ci sono altri clienti. Mentre aspettiamo il caffè mi avvicino alla porta a vetri. Dall'altra parte è posteggiato un camioncino. Dietro, uno con la coppoletta marrone guarda verso di noi. Torno da Moretti che ha aperto la borsa e sta frugando in un pacco di carte, e gli dico: “Guarda che ci siamo... qualcuno ci sta addosso”. Non mi dà soddisfazione. Tira su la testa, ha un foglio in mano, e se lo infila in tasca. Il caffè è pronto. Versa lo zucchero, e dice: “Non possiamo star dietro a ogni impressione, diventeremmo matti, ti pare?”. Con l'occhio ai vetri, butto giù il caffè in un colpo. Scherzo, ma non troppo: “Non sarà che Renato ci ha venduti? invece di venire lui, ha mandato i poliziotti...”. Alza le spalle. Usciamo e ci guardiamo attorno. Adesso tutto pare tranquillo: con le mie paure, mi sento un po' ridicolo. Continuiamo il nostro giro. Riflette: “Sì. In ogni caso è davvero assurdo che ce ne stiamo qui a girare per due ragazzini che non ci servono a niente. È anche pericoloso. Lì dietro, vedi?” mi indica un isolato, a destra “abitava la Besuschio, e io ero spesso da queste parti... ai ragazzi, gli diciamo che ci prendiamo un po' di tempo. Lasciamo passare qualche mese, e intanto vedremo se sarà possibile arrivarci con uno che faccia da filtro. Che ne dici?”. Giriamo un altro angolo, e ci lasciamo alle spalle un altro bar. Siamo di nuovo nella strada dove ho deviato, prima, e lui mi ha raggiunto. Via Cavalcanti. Mette la mano in tasca e tira fuori il foglio che gli avevo già visto: “Ecco, è l'ultimo invito all'unità che mandano fuori quelli di Palmi. Si vede che non se la sentono ancora di stare con i milanesi, almeno per adesso”. Me lo porge aperto. Lo scorro velocemente... due ombre mi saettano davanti, schizzate dalle macchine posteggiate lungo il marciapiede, due ombre urlanti. “Fermi! Polizia!”. L'urlo fa tutt'uno con l'urto violento e doloroso della bocca della pistola contro il petto. E con una gran botta alle spalle. Non faccio in tempo a muovermi. Cado di traverso, con la faccia in alto, e batto malamente la testa: mi divincolo, istintivamente, ma è come se fossi legato dentro un sacco. Mi stanno
sopra in tre o quattro. Come in sogno, intravedo più in là la testa di Moretti, in un groviglio di braccia e gambe. Urlano ancora, mentre mi frugano: “Ha la pistola! Ha la pistola!”. E poi: “Senzani, ti abbiamo preso... Porco! Bastardo! Ora ti spariamo in bocca!”. Mi tengono la testa schiacciata sul marciapiede e mi infilano in bocca la canna della pistola. Non vedo più niente, sono sommerso. La apro più che posso. In galera i denti sono uno dei beni più preziosi, e io, sopra, ho la dentiera, una dentiera vecchia e fragile, e non voglio che il grosso ferro che mi arriva in gola e sta per farmi vomitare me ne faccia saltare un pezzo. Non voglio stare per anni senza denti. Allargo le mascelle fino a farmi male, e muovo come posso la testa per assecondarne il movimento. Non ho altri pensieri che questo. Ma sento che la pistola trema impazzita, in bocca, e chi mi sta sopra trema, trema forte, e in quel tremito rilascia la sua tensione, la sua paura. Risuonano altre grida, di là dai corpi che mi schiacciano, e si ripetono con violenza: “Basta! Basta!”. Ci sono spinte, strattonamenti, bestemmie, quasi che un nuovo branco sia arrivato e mi strappi al primo: “Basta! Via ora... via, via!”. Mi sollevano di peso e mi gettano in macchina. Ho le braccia ammanettate dietro la schiena. La strada è piena di gente che corre, di macchine con le portiere aperte, e le sirene sono al massimo. A tutta velocità rifacciamo la strada che ho fatto a piedi, mezz'ora fa. Entriamo come schegge nel cortile della Questura, in via Fatebenefratelli. Di corsa, mi portano di sopra. Infiliamo un corridoio, non tocco terra. A metà ci sono tre scalini che scendono: oltre, ai due lati, una fila di porte aperte. Precipitiamo giù a capofitto, e finiamo a terra aggrovigliati e ammaccati, io e quelli che mi trascinano. Ma siamo arrivati. Mi riprendono sotto le ascelle e mi tirano dentro un piccolo ufficio. Mi lasciano sul pavimento e mi calano i pantaloni. Mi frugano bene dappertutto e trovano subito, nella giacca, il mazzo di chiavi, il caricatore di riserva, l'agendina con le pagine strappate sino alla data di oggi, sabato 4 aprile. Non dicono più niente, uno si siede e sorride. Il peggio è passato. Se non altro, sono vivo e intero. È un pensiero inevitabile. Mi rimettono in piedi e mi fotografano, alla buona. Credono ancora che io sia Senzani, e non li contraddico. La poltroncina è scomoda e l'imbottitura di gommapiuma dei braccioli è piena di buchi. Le braccia, ammanettate dietro lo schienale, mi fanno male, e sento che i polsi mi si stanno gonfiando, dove le manette stringono. Ho il petto schiacciato contro un lungo tavolo che occupa tutta la parete della stanza, ricavata da uno stretto ammezzato. È piena di scatoloni, di scartoffie ammucchiate in disordine, e la bassa finestra ad arco, in fondo, che dà su chissà quale cortile interno, non lascia passare neanche un po' della luce primaverile che ho lasciato fuori. Riesco ad appoggiare la guancia sul piano del tavolo. Non sto troppo scomodo e mi pare che le fitte dolorose che mi attraversano la testa si vadano lentamente calmando. Cerco di non pensare a niente. Chiudo gli occhi e mi assopisco forse per mezz'ora, forse meno. Fuori dalla porta s'indovina un brusio affaccendato, un continuo andare e venire. Ogni tanto s'affaccia qualcuno — non si fa a tempo a vedere chi sia. Getta un'occhiata dentro la stanza, quasi ad accertarsi che sia tutto vero, e sparisce. Entra un anziano, piccolo e pelato, e sbraita: “Presto, presto, mettete i cappucci, che ora li portiamo di sotto... devono cagare sangue, questi bastardi assassini!”. Se ne va, e il poliziotto che sta lì con noi non lo guarda neppure. Sorride, invece, e si rivolge a Moretti, ammanettato come me, nell'altro angolo della stanza: “Mario, guarda il tuo amico! Riposati anche tu, non te la prendere, doveva finire così, no? Dài, che ti è andata bene!”. Vorrebbe attaccar discorso, ma Moretti tace, gli occhi sporgenti segnati da grandi borse scure, la
schiena diritta sulla sedia. Guarda fìsso in avanti, è disperato. Tanto calmo e tanto disperato che non ho cuore di guardarlo. Ha una piccola ferita sul labbro inferiore: un colpo durante la colluttazione, una botta sul selciato. Volta la testa verso di me, ma non parla. Da fuori, sentiamo improvvisamente la voce del giornale-radio. Poche parole: “Arrestati a Milano...”. Rumori, forse battimani, coprono il resto. Pare che di là si stia brindando. Non è il botto dei tappi che saltano, questo? Ora sorrido anch'io a Moretti, e mi stringo nelle spalle. Gli dico — sono le prime parole: “Festeggiano noi”. Scuote la testa, s'addolcisce un poco, forse. Ma gli occhi restano disperati. Chissà cosa stanno vedendo. Ha sbattuto contro un muro, la sua corsa si è fermata e la sua vita è tutta lì e non è più niente e non è ancora qualcosa, in questi attimi in cui il passato e il futuro si spalancano come precipizi senza fondo. È lì, legato a questa sedia, in questa stanza. E basta. È inconcepibile. Fuori, il vuoto e i moti lontani... l'ora che passa, goccia a goccia, e rimbomba nel cervello. Entrano altri due poliziotti, giovani, con l'aria da banditi. Si mettono davanti a Moretti: “Mario, come stai? È da anni che ti cerchiamo...”. Se lo guardano e se lo riguardano con curiosa ammirazione. Godono a chiamarlo: “Mario”, con familiarità. Sorridono contenti: “Mario, ci hai fatto sudare, accidenti a te! Ma come hai fatto?”. Non c'è rancore. Ci tengono a essere lì, a salutarlo, a complimentarsi con lui e con se stessi — è una faccenda di tipo sportivo. Vogliono significare che i cacciatori e la preda sono degni uno dell'altro, peccato che sia già finita, è stata dura ma ne valeva la pena: nemici sì, ma da una parte e dall'altra diversi da tutti gli altri, dalla massa... Anche nella caserma Sant'Ambrogio, dove è stato isolato un mese – mi dirà poi Moretti – è andata così. Per vederlo e chiacchierare con lui gli portavano un caffè dietro l'altro, lo trattavano bene, gli facevano domande: “Mario, ne avresti da raccontare, eh! Tanti anni...”. Ci fanno alzare, e per una piccola scala interna ci portano al piano di sotto, un antro piccolissimo nel quale stiamo stretti. Ci fotografano da tutte le parti e ci prendono le impronte, su tante schede diverse, per gli archivi delle polizie di mezzo mondo. Davanti a me, sento che dichiara le sue generalità lentamente, con precisione: “Moretti Mario, nato a Porto San Giorgio il sedici gennaio del quarantasei...”. Faccio anch'io altrettanto. Stanno già per scrivere “Senzani”, e si fermano stupiti. Fenzi. Fenzi chi? Si guardano uno con l'altro, c'è un po' di fermento. Uno o due escono di corsa. Ci riportano su. Incrocio una persona robusta, con corti riccioli scuri, vestita in modo sportivo. Mi guarda e dice, con voce dura: “Mi permetta di dirle che sono personalmente felice che vi abbiano presi. E prenderemo anche tutti gli altri, ne stia certo”. Mi fanno aspettare cinque minuti in piedi, nella stanza lunga e stretta di prima. Moretti non c'è più. Mi prendono e mi portano in un ufficio, proprio dall'altra parte del corridoio. Dietro il tavolo è seduto il signore che mi ha parlato poco fa. Si presenta: “Sono il giudice Spataro. Si accomodi”. Ripeto il mio nome. Aggiungo che non ho nulla da dichiarare, e che non risponderò ad alcuna domanda. Non torno in quella stanza. Mi fanno scendere giù, sino al pianterreno, e mi portano nelle camere di sicurezza. Saranno le sei, più o meno.
In carcere Ho trovato, da non molto, il mio personale “grande vecchio”, l'occulto ispiratore della lotta armata – occulto davvero, perché immagino che sia sconosciuto a buona parte di coloro che egli ha ispirato. È il Sartre della Critica della ragione dialettica: il Sartre che spiega come un'effettiva riappropriazione della totalità sia possibile solo attraverso la prassi del gruppo rivoluzionario in azione; il Sartre che spiega come solo possa chiamarsi vita quella che spezza con violenza l'inerzia delle strutture del dominio, la schiavitù che opprime materialmente l'uomo nel suo corpo e lo rende succube delle forze macchinate e degli apparati antisociali; il Sartre che spiega come il rivoluzionario sia colui che vuole cambiare il mondo che lo schiaccia, cioè vuole agire mediante la materia sull'ordine della materialità e quindi automutarsi: colui che ricerca in ogni istante un altro assetto dell'Universo con un altro statuto per l'uomo, e in base a questo ordine nuovo definisce se stesso come l'Altro che sarà: “l'uomo come avvenire dell'uomo è lo schema regolatore di ogni impresa, ma il fine è sempre un rifacimento dell'ordine materiale che, di per sé, renderà l'uomo possibile”. Nel mondo presente la libera iniziativa individuale può variare l'attuazione della sentenza ma non superarla, e dunque costituisce la mistificazione fondamentale: contro l'inganno borghese di una libertà siffatta si erge appunto il gruppo-in-fusione rivoluzionario. Per esso è possibile il passaggio che porta dalle dialettiche individuali, che hanno creato l'anti-umanità come regno della materialità disorganica sull'uomo, alla dialettica-cultura come meccanismo costruito per realizzare il regno umano, attraverso un'esperienza che si totalizza nell'impresa storica. Questa nuova struttura dell'esperienza “si dà come un rovesciamento del campo pratico-inerte: vale a dire che il nerbo dell'unità pratica è la libertà rivelatasi come necessità della necessità o, se si preferisce, come suo rovesciamento inflessibile. Nella misura, infatti, in cui gli individui di un ambiente sono direttamente messi in causa, nella necessità pratico-inerte, dall'impossibilità di vivere, la loro unità radicale (riappropriandosi di questa impossibilità medesima come possibilità di morire umanamente, ossia dell'affermazione dell'uomo da parte della sua morte) è negazione inflessibile di tale impossibilità (Vivere lavorando o morire combattendo'); così il gruppo si costituisce come impossibilità radicale dell'impossibilità di vivere...”. Come posso non ricordare, leggendo queste frasi, il grande striscione rosso che occupava tutta la parete di fondo dell'Aula Magna dell'Università, durante un'occupazione dei primi anni '70? Vi si leggeva, in grandi caratteri bianchi: “Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine”. Ecco. Ho toccato un nervo. Almeno, credo. Per dare ragione della lotta armata in Italia si è ricorsi a spiegazioni le più ragionevoli e circostanziate, di tipo insieme sociale, economico e politico, e alle loro diverse velocità di movimento e alle loro combinazioni congiunturali. È giusto, naturalmente. Ma anche così si arriva pur sempre al punto in cui ogni spiegazione deve lasciare il campo a qualcosa di radicale, a un residuo irriducibile – un residuo che proprio la sinistra stenta a riconoscere, e preferisce invece, per evidente istinto di autodifesa, esorcizzarlo e occultarlo dietro le varie teorie del complotto che hanno tenuto il campo in questi anni. In verità, oltre l'amplissimo limite toccato da quelle spiegazioni, s'accampa con un suo speciale margine d'autonomia questa innegabile essenza, questa volontà che il terrorismo italiano e soprattutto quello delle Brigate Rosse ha espresso, di fare della propria azione un modello che ricomponesse i frammenti del presente, per riappropriarsene alla luce di una totalità integralmente attualizzata (chi non ricorda la frase di Curcio, per cui l'uccisione dell'onorevole Moro sarebbe stata l'azione più umana di tutte, in un mondo diviso in classi?). Il brigatista, con più o meno di coscienza, ha voluto impersonare l'hegeliano “spirito assoluto”: ha voluto cioè che la sua azione
realizzasse qui e ora, nell'immediatezza delle sue determinazioni e della sua libertà, il progetto e la verità della Storia. Come a dire che l'appello di Sartre a rimettere l'uomo vivo al centro delle strutture totalizzanti della filosofia marxista si presta bene a definire il fondo della sua “follia pragmatica”, nella sua singolare mistura di esistenzialismo e di marxismo – non importa affatto se bene o male intesi: io penso abbastanza bene, in ogni caso. E non importa neppure che l'unica epifania possibile d'uno spirito siffatto diventasse la morte: “Tutto, ma non questo... creperò anch'io, ma prima ne ammazzo quanti più posso. E alla fine qualcuno la spunterà, anche per me”. Certo, questo non è un pensiero che a tutta prima colpisca per dignità filosofica: l'assume tutta, però, appena uno lo mette in pratica. Nessuno di quelli che la mattina del 10 dicembre '81 hanno strangolato nel refettorio del carcere di Cuneo Giorgio Soldati ha probabilmente letto questa pagina di Sartre, sugli insuperabili obblighi reciproci in cui vive la fratellanza del gruppo rivoluzionario, e sulla necessità che sia annientato chi attenta alla sua unità e alla sua permanenza: Il traditore non è eliminato dal gruppo; non è nemmeno riuscito a staccarsene da solo: resta membro del gruppo in quanto quest'ultimo – minacciato di tradimento – si ricostituisce annientando il colpevole, ossia scaricando su di lui tutta la sua violenza. Ma questa violenza di sterminio rimane rapporto di fratellanza fra i linciatori e il linciato, nel senso che la liquidazione del traditore si fonda sull'affermazione positiva che egli è uomo del gruppo-, fino alla fine, ci si accanisce su di lui in nome del suo stesso giuramento e del diritto che egli riconosce su di sé agli altri. Inversamente, però, il linciaggio è praxis di violenza comune per i linciatori, in quanto il suo obiettivo è l'annientamento del traditore. Esso è legame di fraternità risvegliato e accentuato tra i linciatori, in quanto è una riattuazione brutale del giuramento stesso, e in quanto ogni pietra scagliata, ogni colpo dato si produce come una nuova prestazione di giuramento: chi partecipa all'esecuzione del traditore riafferma l'insuperabilità dell'essere-di-gruppo come limite della sua libertà e come sua nuova nascita, la riafferma in un sacrifìcio sanguinoso che costituisce inoltre un riconoscimento esplicito del diritto coercitivo di tutti su ciascuno e una minaccia di ciascuno su tutti. Per di più, nella praxis in corso (cioè durante l'esecuzione), ciascuno si sente solidale a ciascuno e a tutti nella solidarietà pratica del pericolo corso e della violenza comune. Io sono fratello di violenza per tutti i miei vicini: si sa del resto che chi rifiutasse questa fratellanza sarebbe sospetto. In altri termini, la collera e la violenza sono in pari tempo vissute come Terrore esercitato sul traditore e (nel caso in cui le circostanze avessero prodotto questo sentimento) come legame pratico d'amore tra i linciatori. La violenza è la forza medesima di questa reciprocità collaterale d'amore. Il passo è impressionante. Lo è perché sposa l'astrattezza e il rigore dialettico alla tragedia, quasi succhiasse il sangue alla vittima di quei colpi. Lo è perché siamo al fondo di questo isolato microcosmo che è il gruppo e cogliamo i meccanismi ultimi della violenza che lo costituisce. Lo è anche perché non può sfuggire quell'inciso di agghiacciante ipocrisia: “si sa del resto che chi rifiutasse questa fratellanza sarebbe sospetto”, in base al quale non è più necessario il tradimento per giustificare il linciaggio, e il gruppo si aliena da sé, introiettando nei suoi membri il lugubre conformismo del Terrore, schiacciandoli nei disumani ingranaggi dei giochi di potere. Lo è ancora, infine, perché è una fotografìa dal vero, esatta fin nei più minuti particolari. Giorgio Soldati era stato arrestato nella stazione di Milano: c'era stato un conflitto a fuoco, e un poliziotto era morto. Sottoposto a un immediato e violento interrogatorio, aveva fatto alcune ammissioni: poca roba, in ogni caso. Trasferito nel carcere di Cuneo, in isolamento, chiese e ottenne di salire in sezione, tra i compagni dai quali voleva essere processato e giudicato per il suo momentaneo cedimento: “Voglio tornare tra voi, riconosco solo la giustizia rivoluzionaria”, scriveva in una lettera che aveva fatto arrivare, e che anch'io ho potuto leggere. E il processo ci fu, nel refettorio, e si concluse con la sentenza di morte – per strangolamento, dato che non c'era altro modo. “Fate presto. Non fatemi male”. Queste sono state le sue ultime parole. Il pensiero dialettico ha vinto, e la fratellanza e l'amore si sono estesi tanto da abbracciare insieme i linciatori e il linciato, nel momento in cui costui si è riconosciuto nel
gruppo che gli si stringeva attorno, nel piccolo cesso del refettorio, per ucciderlo. Oltre il vetro sporco dello spioncino, le guardie non si sono accorte di nulla. Allora, tutto bene? No, se è vero che davanti al corpo di Soldati, e a quello di altri uccisi come lui – Di Rocco a Trani, per esempio – la realtà appare come la stravolta parodia dello schema intellettuale del filosofo, e lo schema intellettuale rende un'immagine altrettanto stravolta di una realtà della quale il filosofo è solo lo sciacallo. C'è un inganno mostruoso, da qualche parte. Una sintesi impossibile: e l'abisso che divide le due immagini della rivoluzione — quella consegnata al programma razionalistico e dialettico della pagina scritta, e quella che sprofonda nella realtà vissuta qui, nel tempo che è il nostro tempo — non può essere colmato. Il 3 agosto, in una baracca fuori Roma, hanno ucciso Roberto Peci, e hanno fotografato l'attimo dell'esecuzione. La pagina di Sartre ne preannuncia, di nuovo, il carattere più feroce: la sua esemplarità, in rapporto al gruppo che due mesi prima l'aveva sequestrato e che ora lo uccideva. Si trattava di una morte statutaria, fondante. La natura del nuovo gruppo che doveva affermarsi contro il vecchio, dal quale s'era staccato, era contenuta per intero nell'atto che la rappresentava agli occhi di tutti. Attraverso le immagini dell'esecuzione il gruppo veniva a se stesso, e sanciva il vincolo del Terrore che avrebbe dovuto cementarne l'unità. E dava corpo all'idea che la lotta armata stesse vincendo, perché il paese era ormai sull'orlo della guerra civile: perché l'antagonismo sociale aveva già riempito tutti i pori della vita e nulla poteva impedire il collasso rivoluzionario. L'omicidio di Roberto Peci s'alimenta direttamente di questa follia. Le fotografìe scattate durante l'esecuzione sono foto a futura memoria, vogliono affiancarsi alle immagini più terribili delle guerre civili d'ogni tempo e d'ogni paese, quelle della guerra di Spagna, quelle della Resistenza... E la “morte del traditore”, non importa se vero o presunto, scimmiotta altre immagini, insegue altre morti. Obbedisce a uno schema. Traduce in pratica i discorsi sul linguaggio e sulla “comunicazione sociale” che uscivano in quei mesi da Palmi; rifa a modo suo i “caroselli” contro il fumo o sui pericoli della guida: è il Terrore fatto carosello, spot pubblicitario... Si sa quale fosse il clima nelle carceri italiane qualche anno fa, e in particolare in quell'estate dell“81. Le Brigate Rosse temevano le defezioni e s'illudevano di combatterle con ciò che precisamente le provocava. C'erano le uccisioni giustificate con supposti tradimenti (ma si trattava spesso di vendette a lungo covate), oppure con la necessità di prevenirli, e c'era il veleno e la degradazione che una simile pratica diffondeva. I rapporti tra le persone ne erano alterati, e il sospetto e la simulazione erano diventati regole di vita. Meglio: di sopravvivenza. E proprio quelli che cercavano di conservare il senso della loro passata militanza politica erano sospinti ai margini e svuotati di ogni identità e dignità dalla spietata selezione alla rovescia che avveniva naturalmente tra i detenuti. Il gruppo esisteva solo come minaccia, attraverso chi emergeva in esso per la sua capacità di uccidere e di far uccidere. Pochi inganni, nella storia del terrorismo, sono stati così profondi e vergognosi come quello che ha voluto far passare la stagione degli accoltellamenti e degli strangolamenti come un momento di giustizia e di potere proletario. Benazzi, Gatti, Arnone: ce ne sono state di corride, allora, nei cortili del carcere di Cuneo! E a Novara, a Nuoro, a Trani... La mattina del 2 luglio, alle nove, sono sceso all'aria. Ero uscito dall'isolamento da una ventina di giorni: da sotto terra su al terzo piano. Moretti mi aveva seguito dopo una settimana. Scendevamo le scale, tre per volta. Giù ci perquisivano con il metal-detector prima di farci entrare nel cortile: quella mattina ci toccava il piccolo, chiuso da alte griglie e lamiere di ferro verniciate di blu scuro. L'aria era ancora fresca, e mi sono subito messo ad andare avanti e indietro, chiacchierando con Angelino Morlacchi. Non ho badato agli altri che arrivavano via via: saremmo stati una quindicina, come al solito. Ero vicino all'angolo dell'ingresso quando abbiamo sentito un grido furente, rabbioso, e un rapido tramestìo di corpi. Moretti era a terra, raggomitolato su se stesso, le braccia chiuse in avanti, come quelle dei pugili, e le gambe che scalciavano, in alto. Su di lui incombeva Farre Figueras, che urlava con la faccia congestionata e cercava di aprirsi un varco verso il corpo, tra le gambe e le braccia che lo
respingevano. D'istinto mi sono buttato verso di loro, e Farre s'è drizzato di scatto rivoltandosi contro di me. Nella destra, che teneva bassa, all'altezza della vita, aveva un coltello – lungo, appuntito, a forma di trincetto. M'è venuto addosso urlando, tirando larghi fendenti. Veniva avanti e io saltavo indietro, senza levare gli occhi dalla punta che mi sfiorava veloce. Ho sentito una fìtta sul fianco sinistro, dietro, sopra le reni, e un'improvvisa macchia di calore. Davanti, sul ventre, la punta saettante ha tagliato la maglietta, mi ha punto leggera sul fegato. Guardavo la lama e mi contorcevo e arretravo, a salti. Ho urtato il muro ruvido di cemento, dietro. Ho allargato il braccio sinistro, verso la lamiera blu, mi sono abbassato sulle ginocchia: ero chiuso nell'angolo, e la faccia gigantesca di Farre mi era ormai sopra, e il coltello, per un attimo, non l'ho più visto. Ho pensato: “Sono morto”. Un pensiero semplice, definitivo. Non ho capito, subito. Pedrazzini aveva cercato di trattenere Farre alle spalle, ma ora correva indietro anche lui, dall'altra parte del cortile, il tavolo da ping-pong era abbattuto a terra, per il lungo: dietro s'accalcavano gli altri, terrorizzati. Non ho visto Moretti. Farre s'è voltato, ha portato la sinistra al collo, ha strappato via la retina con la quale Pedrazzini aveva cercato di accalappiarlo e s'è guardato attorno, curvo, il busto e le braccia avanti, il coltello che ruotava lentamente. Io ero già oltre gli altri, adesso, e mi premevo la mano sul fianco. Sentivo il sangue, ma non il dolore. Il tavolo del ping-pong s'è mosso in avanti, ora tutti gridavano: “Addosso! Addosso!”. Quelli del cortile di fronte erano schiacciati contro la grata, uno sull'altro, gridavano anche loro, facevano grandi gesti disperati. Come mi fossero saltati di colpo i tappi dalle orecchie, ero assordato dal frastuono che mi lacerava il cervello. Farre s'è visto troppo lontano dal cancelletto d'ingresso, in pericolo. Lentamente, continuando a ruotare il coltello intorno a sé, urlando: “Sbirri! Carabinieri! Vi scanno tutti, bastardi, bastardi!”, è tornato indietro, s'è appoggiato al cancello. Gli altri sono rimasti fermi, a distanza. Sono passati alcuni secondi. Era tutto finito. C'è stato ancora un attimo d'attesa, mentre tra le guardie ammassate fuori, nel camminamento tra i cortili, correva un rapido scambio di ordini. Il brigadiere ha detto qualcosa. Farre ha preso il coltello per la punta e l'ha passato in fretta, oltre le sbarre: il brigadiere l'ha preso e il cancello s'è subito aperto, ed è uscito scomparendo dietro le divise delle guardie che lo portavano via. Hanno preso anche me e Moretti e ci hanno portato di corsa in infermeria. Nel largo corridoio ho rivisto davanti a me Farre Figueras che s'avviava alle celle. Ci divideva una folla di guardie. Il dottore, un anziano signore alto e curvo, già aspettava. Mi ha fatto sdraiare e mi ha infilato un ferro sottile nella ferita: “Speriamo che non sia arrivato al polmone — ha detto — allora sarebbe una brutta cosa”. Non c'era arrivato, per fortuna. Moretti aveva dei tagli profondi sugli avambracci: abbiamo visto tutti che il pollice sinistro era come morto, gli era stato reciso il tendine. Gli ho detto: “Se mi voleva davvero ammazzare, non sarei qui...”. Il brigadiere, un giovane biondo molto militaresco, ha sorriso. Era d'accordo con me. Moretti no, invece. Mi parlava, mentre lo medicavano: “Sarà, ma anch'io non ero qui se non scansavo il primo colpo... è quello che gli è andato male! L'ha dato con tutta la sua forza, e la punta è finita contro il ferro della grata. E anche tu, se saltavi nel verso sbagliato, te lo saresti trovato tutto in pancia, altro che!”. Era vero. Il primo colpo era stato dato con molta forza, e Figueras era grande e grosso, un toro, con due braccia enormi. Il coltello, ricavato da una piatta sbarra di ferro, era spesso e pesante, e aveva una punta affìlatissima che si era piegata per la violenza dell'urto. Anche questo, probabilmente, ha contribuito a limitare i danni. Me l'ha fatto vedere il maresciallo, l'aveva sul tavolo, in ufficio, mentre svolgeva la rapida inchiesta di rito. “Perché ce l'aveva con voi? C'erano già stati scontri, minnacce? . “No. Non ci eravamo mai neppure rivolti la parola. Non c'era nessun motivo”. “Ma non vi voleva ammazzare. Uno come lui... “. Il pomeriggio, invece di andare all'aria, ci siamo visti nel refettorio, in quattro o cinque, e abbiamo scritto un breve comunicato: dicevamo che ad armare la mano di Figueras erano stati i carabinieri. Non
avevamo alcuna prova, naturalmente, e molti detenuti comuni, più avanti, ci hanno duramente criticato per quell'affermazione, che chi conosceva Figueras non riusciva a credere (“Potevate dirlo solo se l'aveste ammazzato, i morti hanno sempre torto. Ma così no...”). Ma non avevamo altra scelta. Non capivamo le ragioni di quello che era successo, e per quante spiegazioni più o meno esaurienti io abbia poi sentito – e ce ne sono state molte – devo dire che quella veramente risolutiva non l'ho trovata mai. E fuori le Brigate Rosse, ormai divise in varie branche, avevano in corso ben quattro sequestri contemporaneamente: l'ingegner Sandrucci a Milano e l'ingegner Taliercio a Venezia; Roberto Peci a Roma e Ciro Cirillo a Napoli. Che potevamo fare, in questa situazione? Lo Stato faceva sapere: “Voi avete quattro ostaggi, ma attenti! io in galera ne ho, dei vostri, molti di più, a cominciare dal capo...”. Non erano davvero tempi in cui ciò potesse apparire inverosimile. E, vero o falso che fosse, non potevamo dire se non quello che ogni militante, fuori, aspettava di sentirsi dire e su cui sarebbe stato pronto a giurare. Tuttavia, per strano che possa apparire, non era affatto questo il punto. Forse era vera l'opinione comune che Figueras volesse marcare in maniera indelebile la sua distanza dai politici, e magari che volesse essere velocemente trasferito da Cuneo, per faide tutte sue, senza avere dunque intenzione di uccidere. Ma che importava? L'angoscia che leggevo negli occhi di Moretti andava oltre ogni possibile perché. La cosa era avvenuta. Questo era l'incredibile. L'inaccettabile. Proprio nel cortile di un carcere speciale, appena arrivato, il capo delle Brigate Rosse era stato accoltellato. Tutta la sommaria mitologia di quegli anni andava in pezzi, si corrompeva. Nella polvere del cortile non era finito solo lui, ma anche un'immagine collettiva di superiorità e privilegio, con il piccolo ma prezioso gruzzolo di gratificazioni che ci avevano sempre aiutato a star su con il morale. Ed era avvenuto in una di quelle carceri in cui ogni proletario prigioniero avrebbe dovuto riconoscere e idoleggiare nei brigatisti un modello da amare e da riprodurre in se stesso: in una di quelle carceri che ci si era abituati a pensare come una sorta di “basi rosse”... Che poi Figueras l'avesse fatto per ragioni tutte sue, meramente strumentali, non migliorava le cose. Al contrario. La ragionevole banalità delle spiegazioni possibili e persino la calcolata intenzione di non uccidere seppellivano nella contorta e disperante normalità della vita carceraria proprio quelli che s'erano illusi di restarne fuori, più in alto. La dissacrazione era ancora più profonda. Dopo l'arresto, le coltellate. Per Moretti era davvero dura. Stringeva i denti, reagiva, ma era sempre più sfiduciato. Dal piano di sopra gli avevano subito proposto di organizzare una rivolta, la sera stessa: quello che bastava per occupare la sezione, sequestrare le guardie e farsi aprire sino alle celle dell'isolamento, per uccidere Figueras. Era una proposta vera, nell'eccitazione del momento, e forse persino realizzabile. Ma la respinse, senza esitazioni. Non capiva, non si fidava: “Voglio capire, prima. Voglio capire”. Era il suo chiuso ritornello. Aggiungeva, a parte: “Ho imparato a mie spese quante balle ci abbiano raccontato sul carcere, a noi fuori... e io che ci credevo!”. Quando, sei mesi dopo, a Nuoro, ha preso un sacco di botte dalle guardie, s'è convinto del tutto: “Pensavo che tutte le chiacchiere sulle brigate di campo, sui comitati di lotta, corrispondessero a qualcosa di vero, e invece no, sono tutte stronzate, roba fìnta, servono solo se decidiamo di scannarci tra di noi... la verità è che siamo in mano loro e che possono farci quello che vogliono, che non gliene frega niente a nessuno”. La delusione lo faceva esagerare, se ci si riferiva al passato, ma per il presente, in quel 1981, aveva ragione. Tanti trascorsi momenti di lotta e di ribellione — come alla Favignana, all'Asinara – e tante parole, tante febbrili esaltazioni, tanti assurdi convincimenti non avevano lasciato quasi nulla di sé, oltre le furibonde convulsioni di una crisi d'astinenza che non avrebbe più avuto fine. La gabbia era chiusa, da tutte le parti. E, dentro, il paesaggio era quello del greto arso di certi torrenti calabresi calcinati sotto la canicola, con poche pozze d'acqua marcia e rugginosi relitti d'automobili bruciate e radi branchi di cani inselvatichiti in caccia di una pecora malata o sperduta da dilaniare. Una sera, verso le undici, ho sentito trambusto in corridoio. La cella di Gammino, di fronte alla mia, era aperta. Lui era fuori, tra le guardie. Le aveva chiamate perché voleva buttarsi alle celle, in isolamento. Aveva paura di essere ammazzato – non so da chi e perché. Intorno, dagli spioncini aperti, altri cercavano di convincerlo a restare, gli dicevano che era
matto: con amicizia, prima, e infine con rabbia. Pareva indeciso. Soffriva. Sapeva che andare volontario alle celle avrebbe significato farsi il resto della galera, tanta o poca che fosse, in isolamento. C'era già gente che se la faceva così, per anni e anni, e le voci attorno, che uscivano da bocche invisibili dietro le porte blindate, glielo ripetevano, spietatamente. Infine s'è deciso, ha preso il brigadiere per la manica e s'è fatto portare via, a testa bassa. La sua roba l'aveva già messa tutta nel sacco. “Non viveva più, non dormiva...”. Era quello che stava nella cella alla sua sinistra che mi diceva così, la faccia premuta contro lo spioncino: “Il tuo tè lo cacciava sempre giù per il cesso, credeva che lo volessi avvelenare... non te l'eri mai data?”. No. Non avevo mai sospettato niente di simile, e avevo mantenuto l'abitudine, nata non so come, di mandargli una tazza di tè ogni pomeriggio, verso le cinque. Nel pentolino c'era acqua sufficiente per due, e a questo piccolo rito quotidiano, pur con uno di cui non sapevo nulla e che non conoscevo, mi ero affezionato. Era, nella sua perfetta gratuità, una delle piccole cose che mi tenevano compagnia, un momento della giornata; e poi mi ricordava la cara abitudine dell'anno prima, con Luigi. Ma lui era sicuro che lo volessi avvelenare, e allora mi chiamava sorridendo, puntuale, tutti i giorni, e mi diceva: “Enrico, è l'ora del tè”, e recitava con minuziosa applicazione la commedia, fino in fondo, per non insospettirmi, e faceva fìnta di sorseggiarlo, dietro le sbarre, e poi si allontanava, fuori dalla mia vista, e lo buttava... mi vengono i brividi, per me e per lui, se ci ripenso. Anche Tommaso Biamonte, una notte, s'è fatto portare in isolamento, ma lo si poteva prevedere: le ultime volte che era sceso all'aria stava contro il muro, pallido, gli occhi spiritati. Era sicuro anche lui che qualcuno lo volesse ammazzare. Alla mattina presto c'è andato invece Peppone Geraci, ma l'ha fatto da quel vecchio coatto che era: ha mandato su una lettera, il giorno dopo, nella quale diceva che aveva voluto abbandonare una sezione nella quale non si lottava abbastanza, “...io che sempre combattei e combatterò contro l'imperialismo”. Abbiamo riso tutti. Gli mancava poco, un anno o due, e voleva uscire a tutti i costi e qualche vecchia e nuova ruggine contro di lui c'era davvero, e non voleva correre rischi inutili. Ma c'era poco da ridere. La settimana dopo l'accoltellamento di Claudio Gatti (l'hanno portato fuori dal cortile per morto, ma poi s'è ripreso e quando finalmente, un mese dopo, è stato in grado di partire, l'hanno trasferito al centro clinico di Pisa, e lì, mezz'ora dopo essere arrivato, ha trovato uno che l'ha ammazzato per davvero), sono stati dieci o dodici quelli che sono scoppiati, e hanno scelto d'andarsene sotto terra. Tanti, su un totale di un'ottantina di detenuti. Non capivano più nulla, loro e altri, non sentivano più nulla. Ti guardavano con gli occhi sbarrati, e gli leggevi dentro un unico ossessivo pensiero: “Questo qui mi vorrà ammazzare? Devo ammazzarlo prima io?”, e facevano incetta di Plagin, per restare svegli e pronti, e impazzivano di paura... Allora, ci hanno tolto la possibilità di mescolarci nei cortili con quelli delle altre due sezioni -era stata una notevole concessione strappata nei mesi precedenti. In delegazione siamo andati dal maresciallo, per protestare e minacciare, ma non s'è scomposto più di tanto: “Fate quel che volete, ma la socialità tra i piani è abolita... e con l'aria che tira voi siete i primi a essere contenti, è prima di tutto una garanzia per voi se vi teniamo divisi. Sono i vostri stessi compagni che me lo fanno sapere, cosa credete? Andate, andate...”. Avevo già visto Marianna. Isabella me l'ha portata subito, appena ho avuto l'ora mensile di colloquio senza vetro. Era piccolissima, e l'ho tenuta un po' in braccio, piano, con la goffa trepidazione di un padre frastornato e inesperto. Si ripeteva, moltiplicata, una situazione già vissuta da entrambi. Eravamo, in qualche modo, soverchiati dai nostri ruoli, inchiodati a una parte eccessiva. Il padre galeotto, la moglie e madre di là dal bancone, e la bimba appena nata, vista la prima volta in carcere, e intorno neon e ferro e cemento e guardie ostili e curiose dietro le lastre di vetro infrangibile, e la nostra vita che appariva un insolubile intrico di problemi: tutti quelli che avrebbe potuto elencare qualsiasi persona di buon senso. E però anche il senso strano che tutti questi problemi fossero pur essi irreali, per eccesso. Troppi e troppo complicati per contare davvero. La nostra vita alla fin fine restava altra cosa. Come avremmo potuto parlare del mio futuro di padre, mentre m'aspettavano chissà quanti anni di galera? O del futuro di
Isabella? O di quello di Marianna? Il tempo non mi apparteneva, e perciò nulla mi apparteneva. Anche il presente, quello che stava oltre i muri della sala-colloqui, oltre il muro di cinta, era irraggiungibile — di una irraggiungibilità concentrata e imminente che non lasciava granché da dire, oltre la semplice e miracolosa evidenza del nostro essere proprio lì, proprio noi... tutto era ridotto all'osso, e tutto poteva finire, forse, con facilità estrema. Non è avvenuto. Forse ci ha tenuto insieme proprio ciò che allora ci divideva e ci faceva soffrire: il silenzio e la stessa chiusa ostinazione dell'ostrica che sta attaccata allo scoglio, nella tempesta, e ripara in sé una minuscola vita tutta sua. È la nostra capacità di straniamento, un principio di distacco, persino di ironia – un'imperfetta adesione all'eccesso in cui ci trovavamo immersi, e che non riusciva a riguardarci sino in fondo. L'amore era questo, allora, ed era dunque una gran cosa, quasi tutto. E Marianna era nuova e viva, e certamente chiudeva in sé la differenza, il margine della vita possibile, contro le sventure dell'altra, quella impossibile, che ci flagellava con le sue onde. Tanti erano i nodi da sciogliere. Un pomeriggio d'autunno, nel refettorio del secondo piano, a Cuneo, mi sono seduto al tavolo con Franceschini, Moretti, Semeria, Giancarlo Sanna e Domenico Giglio, detto Micio. C'era qualche altro, ma non ricordo chi fosse. L'argomento in discussione era uno solo: io, facevo ancora parte delle Brigate Rosse? In più occasioni avevo detto che nei processi che mi aspettavano mi sarei difeso normalmente, perché esisteva la possibilità che molte delle imputazioni che mi erano state accatastate addosso al momento dell'arresto cadessero. Non avrei dunque revocato gli avvocati di fiducia, come avevo invece fatto a Milano e come era la prassi di ogni brigatista dichiarato. Moretti aveva riassunto per tutti il problema. “Enrico,” aveva detto “ti hanno arrestato con me, armato e con i documenti falsi. Sei un brigatista, e tutti lo sanno. Perciò non puoi accettare il processo, perché significherebbe accettare giudici e tribunali e leggi e tutto il resto... insomma, sarebbe, di per sé, una vera e propria forma di dissociazione. Inevitabilmente. E del resto solo così ti servirebbe a qualcosa difenderti, e non sei tanto stupido da non saperlo”. Mi erano stati dati quindici giorni per pensarci sopra. Ora, tutti erano lì ad aspettare la mia risposta. Quei giorni li avevo persi. Non mi ero mai concentrato sul problema, sulla risposta che avrei dovuto dare. Ma adesso, in maniera inaspettata e però naturale, sapevo quel che avrei detto. Ed era la cosa più ovvia. Ha cominciato a parlare Moretti, in tono pacato, possibilista. Riconosceva come il cosiddetto processo-guerriglia non funzionasse più e come la vecchia ortodossia brigatista finisse ormai per appiattire ogni posizione giuridica a esclusivo vantaggio del potere che si vedeva spianata la via, nei tribunali, alle sue esecuzioni sommarie. E non era né giusto né opportuno che chi avesse una possibilità di difesa e intendesse usarla si trovasse, per questo, fuori dall'organizzazione, magari mal visto, ridotto a compagno di terza o quarta serie. Ma le soluzioni nuove dovevano essere il frutto di una ricerca e di un accordo comune: il risultato di un dibattito politico, e non un'iniziativa individuale. Avrei voluto rispondere che della questione non se ne poteva venire a capo, e che bisognava sopportarne tutte le contraddizioni, ma non era questo ciò che dovevo dire. Era un'altra cosa. “Non siamo qui per parlare di tecniche o guerriglie processuali, anche se sembra che tutto si riduca a questo... sì, finora è stato così, anche per colpa mia, ma la sostanza non sta nei problemi della difesa...”. Mi pareva che tutti lo sapessero, quello che stavo per dire, e ne fossero insieme rassegnati e sollevati. Incespicando un poco, senza guardare in faccia nessuno, ho continuato: “Insomma, la questione è che io non voglio più far parte della brigata... non me la sento più. Se poi vi dà tanto fastidio che io mi difenda, ci posso anche rinunciare. Ma non voglio entrare nella brigata. Io non mi difendo, va bene, ma voi mi lasciate perdere...”. C'è stato un momento di silenzio. Fino a quel punto io non avevo manifestato gravi divergenze nei confronti dell'organizzazione, e le mie parole suonavano in parte inattese: inattese e immotivate, quasi una provocazione. Ma in maniera tanto impalpabile quanto certa suonavano come le più naturali e vere.
Era così, non di difese e processi si trattava, ma della sostanza vera che si nascondeva in esse: io non volevo più essere un brigatista. Franceschini ha detto: “Me l'aspettavo... è evidente che il problema è questo”, e Semeria ha annuito. Moretti mi guardava torvo, con un leggero tremito nelle mani. Per lui era stata una sorpresa. Franceschini continuava a parlare. Diceva che una cosa era essere brigatisti fuori, in libertà, e tutt'altra esserlo dentro, in galera. Cambiava tutto: “Cosa credi? la maggior parte dei nostri restano brigatisti solo di nome, sopravvivono come tali, ma smettono di fare qualsiasi cosa, non lottano più, fanno i carcerati e basta, leggono, scrivono a casa... in effetti non sono più niente... qui è tutta un'altra faccenda, o ci si è o non ci si è, e tu non ci sei, è chiaro... qui conta di più un Chiti o un Dongo che venti bravi compagni che non servono più a niente... è la logica della galera, e tu invece quando scannano qualcuno ci stai male... ti capisco, non ci sei proprio...”. Sentivo e non sentivo. Guardavo Semeria che continuava ad annuire e aggiungeva ogni tanto una parola o due, per rafforzare quello che diceva l'altro, e pensavo che no, non era tanto che se lo fossero aspettato. Piuttosto, erano contenti di arrivare a Moretti attraverso di me: era a lui che stavano dicendo che in galera cambiava tutto, e che non era più capo di niente. In quanto a me, sembravano contenti che mi togliessi di mezzo, non mostravano di volermi ostacolare, tutt'altro. Ed ero colpito dal fatto che non mi venissero rinfacciati i doveri di partito, di organizzazione, che non si entrasse nel merito dei fatti, delle cose che succedevano. Che non fossero in discussione le Brigate Rosse, la loro politica, la loro pratica. No. La questione era un'altra: era quello che si era o non si era. Loro lo erano, io no. La galera li aveva svelati a se stessi, come proclamava Ognibene – “io non mi arrenderò, mai. Mi ribellerò sempre, non perché sia un brigatista, ho smesso di considerarmi tale da anni, ma perché per questa società io sono e sarò un criminale. Il criminale assoluto”. Era più o meno quello che diceva anche Semeria, quando mi spiegava che dai tempi del Che fare? non era più stato scritto nulla di così importante come le Dodici (o tredici?) tesi sulla guerra di Giovanni Senzani. Era quello che diceva Franceschini, e avrebbe continuato a dire in seguito, quando avrebbe lanciato la parola d'ordine: “abbottizziamoci”. C'era qualcosa di tortuosamente intelligente e disperato, in tutto questo, e il libro di Abbot è riuscito a ferirmi come un caso estremo di intelligenza animale, quando poi l'ho letto. Moretti non li guardava. Non seguiva i loro discorsi. Guardava me, invece. Improvvisamente mi ha insultato, ha gridato: “Vigliacco! Ci lasci qui, nella merda, proprio ora... ti tiri indietro e ci lasci qui... sei un porco! un porco!”. Era fuori di sé, si controllava a fatica. Forse era il più umano di tutti, e certamente era solo. Gli altri l'hanno coperto con un profluvio di parole, nel loro subdolo modo mi hanno difeso: in quel momento io rappresentavo la sua sconfìtta, non la loro. Ho sentito una mano che si posava sul mio braccio. Era Micio, seduto alla mia sinistra. Ha fatto un cenno imbarazzato e infastidito verso gli altri, voleva parlare, e voleva tutta la mia attenzione: “Enrico, pensaci bene... pensaci, non lo puoi fare... sta a sentire almeno me, lascia i discorsi politici che non so fare e che non ci interessano, no? devi sentirlo dentro di te che non puoi fare cosi, andartene... non per loro ma per me. Sì, proprio per me... tu non lo sai quanto abbiamo parlato di te, fin da quando eri a Palmi e poi a Genova, al processo, e quando sei scappato e immaginavamo cosa stavi facendo... sei un professore, e sei importante per noi che abbiamo conosciuto le Brigate Rosse in carcere e ci abbiamo creduto e abbiamo creduto anche a te... tu non te lo immagini, forse, ma è così... Chiti, so che ti scrive e ti chiama fratello mio, e ha parlato a tutti di te, ti vuole bene, per te si butterebbe nel fuoco e anche tutti noi... ci fidiamo di te, ti abbiamo dato qualcosa di noi e non ci puoi mollare così, adesso... se non ti senti più impegnato con la tua organizzazione, se non sei d'accordo, lo capisco, succede, ma con noi sei impegnato in un altro modo, rappresenti una cosa importante... lo capisci questo? Non puoi decidere solo per te, non sei da solo... ci siamo anche noi...”.
Aveva alzato la voce, s'interrompeva, era commosso. Era Micio, che aveva fatto parte di una grossa banda di sequestratori, su nel bergamasco, e ancora il giorno prima mi diceva che impazziva dalla voglia di tornare alle grandi sniffate di cocaina e alle puttane più belle e più care... era lui, che da quel gran coatto che era cercava di toccare la corda giusta, e però dietro la sua retorica da malavitoso, dietro la sua efficace astuzia, era sincero – ha continuato a dimostrarlo in tutti gli anni seguenti, che credeva davvero a quello che diceva. Ero commosso anch'io. Toccato. Stavo per dire: “Va bene, non me ne vado, continuo a fare il brigatista, resto con voi”, e se l'avessi detto tutto sarebbe stato diverso, dopo. Franceschini ha approfittato dell'attimo di sospensione che ha seguito le parole di Micio. Si è alzato, mi ha detto: “Vieni, muoviamoci un po' “, e mi ha trascinato dall'altra parte del lungo refettorio. Mi ha preso sotto braccio, sorrideva partecipe. “Micio sì che ha capito... sono d'accordo con lui, certe cose oggi non si risolvono con i soliti vecchi discorsi politici, che lasciano il tempo che trovano... l'unico argomento che conta è il suo, non è vero? l'unico che ti può legare, che ti faccia effetto... lo so, lo so. Vedi...”. Eravamo nell'angolo, lontani dagli altri, e guardavamo oltre le sbarre, i prati e i filari degli alberi e le montagne e il Monviso, bellissimo, là in fondo, contro il cielo freddo e pulito. “Vedi, anche per me è così, perciò ti capisco. È dal '76, più o meno, che non mi sento più brigatista, ma che importa? Prima per loro, quei quattro operai di Reggio, poi per questi... noi veramente siamo quello che siamo per gli altri, non per noi. Sono gli altri il nostro destino, la nostra ombra: non possiamo staccarcene, saremmo maledetti per sempre. È così, sennò, dimmi, chi ne avrebbe voglia... ti pare? Ma tu...” ha cambiato tono, mi ha stretto più forte “tu puoi fare quello che vuoi, ed è meglio che ti ritiri se non te la senti, non c'è niente di male, la maggior parte dei nostri ha fatto così, anche se non lo dice. Basta che non ti metti contro l'organizzazione, che non dici niente, e magari che ti adegui un po' durante i processi... puoi startene tranquillo per conto tuo, te l'assicuro... guarda, è meglio se fai così, a questo punto. Ma sì...”. Mi faceva male la testa, ero stanco di cercar di capire. Io volevo smetterla e Franceschini, chissà perché, sembrava coprirmi. Ce n'era a sufficienza. Siamo tornati verso gli altri. La crisi era passata e le cose erano già state dette. Non occorreva aggiungere altro. Non ho più partecipato ad alcuna riunione. Ormai ero fuori. Allora non mi è stato detto nulla, ma anni dopo ho saputo che i giorni successivi erano partite varie comunicazioni interne, a quelli di Prima Linea, al primo piano, e ad altre brigate di campo: “Enrico Fenzi è stato espulso dalle Brigate Rosse”. I rapporti personali sono rimasti, in apparenza, quelli di prima, meno che con Moretti. Non ci siamo più rivolti la parola, sino a quando l'ho raggiunto a Milano, nell'inverno, dopo che lui stesso mi aveva fatto sapere che voleva incontrarmi — ne ho già parlato, del resto. Ma quella normalità era, appunto, un'apparenza. In realtà rischiavo molto. Ognibene mi avrebbe visto volentieri morto, e sono sicuro di doverlo a Franceschini, se non è successo nulla. Mi ha avvertito, anche. Andavo qualche volta a mangiare nella loro cella, il cameroncino a quattro posti, in fondo al corridoio: gli altri due erano Dongo e Marietto Rossi, genovesi. Un solo gesto di Franceschini per loro sarebbe bastato, allora. Ha ricordato Figueras; ha aggiunto, rivolto agli altri, con leggerezza: “È pazzesco che qualcuno possa pensare di accoltellare Enrico, no?”. Era un avvertimento e un'assicurazione, e io ho preso sul serio l'uno e l'altra. Me ne sono rimasto tranquillo, nei mesi successivi, ma ho pure cambiato atteggiamento. Ero convinto di non dover lasciar assolutamente nulla di nascosto, per la mia sicurezza. Tutto doveva essere alla luce del sole, e io dovevo farmi trasparente. Ho cominciato a criticare apertamente le Brigate Rosse, e andavo a discuterne proprio con loro, i brigatisti. Mangiavo in cella con loro e ci litigavo, e anche questo ha contribuito, credo, a salvarmi. Al piano di sopra, invece, dove sia Seghetti che Alfieri mi hanno invitato a salire, non ci sarei riuscito: di questo sono sicuro. Intanto, le cose si complicavano anche per gli altri. La scissione, fuori, si era ormai consumata, e anche dentro si formavano brigate contrapposte, quelle fedeli alle vecchie Brigate Rosse e quelle degli scissionisti, i “senzaniani”. Nel nostro piano questi ultimi erano in stragrande
maggioranza, e avevano in Semeria, Ognibene e Franceschini altrettanti capi entusiasti. Dall'altra parte non c'era che Guagliardo, e con lui Galati: il loro capo naturale era Moretti, ma era un fatto curioso e imbarazzante per tutti che proprio lui si chiamasse fuori, e rifiutasse di schierarsi con gli uni o con gli altri. I suoi due fedeli lo stringevano, gli stavano addosso, ma inutilmente. Guagliardo, per la verità, stava addosso anche a me, e veniva a dirmi: “Enrico, ripensaci, torna con noi!”. Finché un giorno non è venuto Galati nella mia cella, e mi ha fatto leggere una relazione che Guagliardo gli aveva affidato affinché la mandasse fuori, tramite il fratello. Parlava anche di me, e me ne diceva di tutti i colori: insomma, era sempre lui, Guagliardo, la solita lingua biforcuta. M'è venuto da ridere, mi era simpatico. Galati m'ha detto: “Senti, la devo trascrivere io, lui non la vede più, perché non la correggiamo?”. Non esisteva alcun vero motivo per farlo, ma tant'è, l'idea mi è piaciuta. E così abbiamo eliminato gli insulti, e mitigato le sue espressioni. Quale testo sia però davvero uscito non lo sapremo mai, né io né Guagliardo. In compenso, l'hanno saputo subito i carabinieri, visto che Galati già lavorava per loro. Si viveva di apparenze, e per sopravvivere bisognava prenderle per buone, e fermarsi lì: la saggezza spesso coincideva con la stupidità. Ero stupido anche con Isabella. Non poteva essere diversamente. Di quello che avveniva di qua dal vetro e assorbiva le mie energie non le dicevo nulla, e mi costava uno sforzo troppo grande il solo tentativo di percepire ciò che stava di là. Ma non era solo questione di sforzi e frustrazioni: piuttosto, ero sempre più sicuro di deformare tutto quello che lei cercava di porgermi, come se davvero il vetro che ci divideva durante il colloquio settimanale scomponesse le sue parole e me le rimandasse diverse. Io le inquinavo con la mia diffidenza e malignità di carcerato, e con il veleno stesso della situazione in cui vivevo. Ne soffrivo come di una menomazione vergognosa, e allora non volevo sentire quasi nulla, o il meno possibile. L'importante era salvare la pelle, e non impazzire. Saldare stupidità e furbizia, lasciare con calma che le cose andassero da sole per il loro verso, e non distrarsi mai, per farcele andare... Era tutto un lavoro di riduzione, di spolpamento. I nostri non erano colloqui, ma scheletri di colloqui, fossili di colloqui, echi di colloqui... era una fatica immane, e arrivavo su, in sezione, dopo, stremato, e mi buttavo sulla branda e per tutto quel giorno stavo come morto, vuoto come un sacco vuoto. Con Lorenza, Claudio e Lisa, invece, era diverso. Si parlava di poche cose, le più semplici e ovvie, senza tensioni e spasimi. Stavano crescendo senza di me, cambiavano in fretta. Il mio passato con loro s'allontanava, colloquio dopo colloquio, e me ne veniva una gran malinconia e un sentimento triste del tempo che me li faceva amare ogni volta di più. Marianna era troppo piccola, e ancora tutta sotto il segno del futuro, per me: quel futuro che in essi trascorreva e si consumava così velocemente. Ma era anche un sentimento che nascondeva una sorta di esaltazione, un ritmo tutto suo del quale proprio allora avevo bisogno. Pagavo, infatti, l'adattamento alle regole della sopravvivenza con una progressiva perdita di me stesso. Mi aggiravo nella gabbia che con tanta ostinazione e cecità ci eravamo costruiti per anni, io e gli altri – e poco importa che fosse stata una cecità generosa, un'ostinata illusione – e pativo la consapevolezza che le “grandi narrazioni” della sinistra si stavano affievolendo, e che la storia non era mai stata lì, pronta a prendere un'altra direzione, a rispettare i propri impegni dinanzi ai nostri progetti e ai modi nei quali volevamo cogliere in essa la nostra opportunità. Al sogno della rivoluzione seguiva dunque la moda dell'apocalisse – un adattamento al rifiuto d'adattarsi al tempo storico che ci aveva traditi. Se il tempo non poteva essere il nostro tempo, sarebbe stato in ogni caso una galera, dentro o fuori, e quello del criminale assoluto un possibile destino. Ma tutto questo mi appariva sciocco e freddo come una stella morta quando tornavo in sezione dopo il colloquio con i ragazzi, dopo le poche cose, il normale-quasinulla che ci eravamo detti con tanto reciproco affetto. Con una maggiore tensione elettrica, avveniva la stessa cosa anche dopo i colloqui con Isabella. Assurdamente continuavo a fare con lei il brigatista. O meglio, l'avvocato d'ufficio delle Brigate Rosse. Raccontavo poco, minimizzavo, accennavo una linea di difesa... ma ogni volta il suo ardore, la sua rinnovata capacità di indignarsi e commuoversi mi soverchiava. E mi ributtava davanti a quello che tutti eravamo diventati – a chi pensa di parlare? non lo
immagina, come siamo ridotti? La sua intatta passione politica era peggio di mille critiche. Feriva nel profondo, ed era lo specchio impietoso nel quale vedevo la mia alienazione. È arrivata sconvolta, un giorno di metà dicembre: “Hai visto a Milano? Hanno fatto trovare un volantino sull'uccisione di Soldati, dice che l'hanno strangolato con gioia, che è stata una festa... non ne sai niente? È una schifosa provocazione, una vergogna... dovete reagire, non potete sopportare tutto! Fatevi sentire, smentite in fretta...”. Una provocazione! Anche quando era venuta fuori la notizia che i compagni avevano filmato l'attimo dell'esecuzione di Roberto Peci avevamo concluso che era una provocazione. Eravamo in pochi, allora, e ne abbiamo discusso all'aria, nel cortile grande, e c'era qualcosa in noi che rifiutava di credere una cosa simile. Era un muro che non potevamo valicare. Ora, davanti a Isabella, ho detto: “Sì, hai ragione, non si possono tollerare queste cose... è una vergogna, e vedrai che qualcuno smentirà...”. So con che cuore, non con quale faccia ho detto così. Il volantino l'avevo letto anch'io, in carcere. Era stato scritto lì, a Cuneo. Era autentico, non c'era proprio nulla da smentire. In quei giorni la colonna veneta delle Brigate Rosse sequestrava a Verona il generale della NATO James L. Dozier: la stessa colonna che mesi prima aveva sequestrato e ucciso l'ingegner Taliercio ed era così riuscita nel quasi sovrumano intento di assolvere la Montedison di Porto Marghera e di farla passare dalla parte della ragione. Ma il cinque gennaio, a Roma, erano arrestati Di Rocco e Petrella mentre con Senzani facevano la posta — a quanto pare — a Cesare Romiti, e il giorno sei gli arresti proseguivano a Napoli e poi di nuovo a Roma, con Senzani e il suo partito-guerriglia, e il ventotto, a Padova, il generale era liberato, e il quattro febbraio solo lì gli arresti erano più di cento, e dal primo di marzo toccava alla colonna milanese, l'“Alasia”... Era la fine di quella storia. Poi ne sarebbero forse nate di peggiori, ma diverse. Allora mi hanno trasferito a Genova, per un processo. Ho riempito il sacco grande di tutta la mia roba. Dalla cella di fronte un calabrese tranquillo, dall'occhio lungo, mi guardava. Quando le guardie sono venute a prendermi, e mi hanno aperto, e ho messo fuori il sacco, ha detto: “Enrico, perché vi portate tutto? Lasciate pure un po' di roba, così quando tornate ritrovate la vostra cella...”. Ho risposto che non ero sicuro di tornare: dopo il processo chissà dove mi avrebbero mandato. Non potevo saperlo, infatti, ma me ne partivo con il mio sacco perché avevo deciso, in ogni caso, che proprio lì non ci sarei più tornato.
Vent'anni dopo Dalla cella d'isolamento mi hanno portato su, e mi hanno fatto entrare in un piccolo ufficio. Seduto dietro la scrivania mi aspettava un uomo di mezza età. Aveva alcuni fascicoli aperti davanti a sé, ha detto: “Si accomodi” e mi ha guardato in silenzio. Ha abbassato gli occhi sui fogli, li ha spostati un poco, ha sospirato ed è tornato a guardarmi. Non si decideva. Poi, tutto d'un fiato, con voce uguale, come versasse qualcosa in uno stampo: “Devo interrogarla a proposito delle dichiarazioni rese a verbale da Ali Agça il quale ha indicato in lei la persona che un mese prima dell'attentato al papa, in un incontro a Ginevra, gli ha fornito il passaporto falso e la pistola”. “Ha indicato in lei la persona...”. Non ho capito subito. E quando ho capito, ho avuto paura. Mi sono alzato, e ho sentito la mia voce che diceva: “Lei è matto... siete tutti matti... cosa state combinando?”. Non so cos'altro avrei potuto aggiungere. Non riuscivo a pensare con ordine, e ne ero paralizzato, e alla paura si stava velocemente mescolando l'umiliazione e la rabbia. Ma il giudice non mi ha lasciato andare avanti, ha alzato le mani: “Si calmi! Si calmi! La capisco... stia tranquillo, è una formalità... di questa questione lei non sentirà mai più parlare, glielo assicuro!”. Mi stava dicendo che l'interrogatorio, appena cominciato, era già finito. Mi sono seduto di nuovo, ho firmato due righe di verbale con le quali dichiaravo ch'erano tutte fandonie, e mi hanno riportato in isolamento. Non mi pare che tutta la faccenda sia durata più di dieci minuti. Perché oggi, mettendomi a scrivere queste pagine (è il 15 gennaio del '98: piove forte, fuori), m'è venuto in mente di cominciare proprio da un episodio che allora, dopo dieci minuti, è stato davvero sepolto e dimenticato? Potrei dire che non lo so, che da qualche parte occorreva pure cominciare, e sarebbe la verità. Ma già non è più così vero. Addirittura, a pensarci bene, non so neppure se riesco a correre dietro a tutti i motivi che via via vado trovando. Anche troppi. Intanto, l'episodio rende l'idea di quello che succedeva allora – a me, ma immagino anche a molti altri. Stavo nel buio di una lurida cella di sicurezza: una settimana, un mese, due mesi... e poi di colpo, ogni tanto, mi tiravano su, alla luce, mi chiamavano gentilmente “professore” e volevano sapere se la scuola di lingue Hyperion di Parigi era una dépéndance del KGB, se l'onorevole Mancini era un capomafia, se era stato Arafat in persona a dare le armi alle Brigate Rosse, quali erano i pezzi grossi della politica che avevano appaltato alle Brigate Rosse il rapimento e l'omicidio dell'onorevole Moro. Per un po', il tempo di dire e ridire che non ne sapevo nulla, mi ritrovavo tra le alte sfere e i grandi intrighi: poi, mi riportavano giù... Poi c'è, naturalmente, il senso concreto dell'episodio, che presumibilmente esiste anche se io non ho mai saputo quale fosse. Il mio nome non se l'è certo inventato Agça: se ha messo a verbale quella cosa, è perché qualcuno gli ha detto di farlo. E se lui ha avuto i suoi motivi per obbedire, quel qualcuno ha avuto i suoi per ordinare. Tutto sommato, la spiegazione è forse assai semplice. Uno dei doveri istituzionali di un buon servizio è produrre verità: non una o due, ma tante e diverse tra loro, possibilmente una per ogni circostanza, una per ogni necessità. Che un brigatista come me – con le mie caratteristiche, anche d'età, voglio dire – avesse fornito armi e documenti ad Agça, era da questo punto di vista un'ottima verità: avrebbe potuto essere giocata per dimostrare che le Brigate Rosse lavoravano per i servizi dell'Est, e che di là, dall'Est, l'attentato al papa era partito... Non era affatto male, insomma, come idea. Solo, non è servita, perché le cose sono poi andate da un'altra parte e altre verità, allora, saranno state tirate fuori dai
cassetti, a corroborare il nuovo corso. E quel giudice gentile è dunque arrivato sino a me a cose fatte, per mettere il timbro finale su una pratica già morta. E me l'ha detto. Di nuovo, il discorso ha molte piste aperte davanti a sé. Tuttavia, torno alla domanda iniziale, e però la cambio un po': perché solo ora, perché non prima? Perché non ho avuto l'occasione per farlo, e poi per pigrizia e distrazione, per dimenticanza... Sùbito, però, una ragione precisa del mio silenzio c'è stata. La ricordo bene, e penso persino che valga ancora. Non ho detto nulla perché solitamente questo speciale tipo di bugie ha successo, e se sono pochi quelli che lavorano a costruirle, sono invece molti quelli che decidono di crederci: così, basta solo che siano dette, una volta sola, e il gioco è fatto e non ci sono più smentite possibili, perché entrano definitivamente nel gran minestrone delle cose che “si sanno” e che in un articolo di giornale faranno sempre la loro figura (me li sono immaginati, allora, quegli articoli: “del resto, si sa bene che uno spezzone d'indagine, poi misteriosamente scomparso, riguardava i discussi rapporti tra le Brigate Rosse e Ali Agça...”, eccetera eccetera). Offrono infatti un vantaggio enorme: non affondano mai e non arrivano mai a terra, ma galleggiano così, indefinitivamente, ed è dunque roba di tutti, utilizzabile da tutti e per tutti gli scopi, res nullius non gravate da alcun vincolo, garantite dalla loro stessa irrealtà. Vere, insomma, perché irreali. Ma allora, di nuovo, perché? Ecco, per un motivo che va oltre eventuali calcoli d'opportunità, e che sta nascosto in quanto ho accennato sopra. Non posso non pensare, a volte: se quell'accusa fosse andata avanti? Se fosse diventata vera? Se ne fossi stato travolto? Il caso, o, che è lo stesso, l'infinita serie delle cose che erano e sono fuori dalla mia portata ha dunque deciso ogni cosa? E se le verità sono prodotti come gli altri, prodotti in concorrenza tra loro, e la realtà non esiste, e tutto è diverso solo perché è uguale, e una cosa vale l'altra, allora che resta della mia storia e di me stesso? Un catalogo di meccanismi, un incrocio di possibilità... se la realtà non esiste, perché mai dovrei esistere io? Mi guardo attorno, parlo e sento di altri che hanno vissuto le mie stesse esperienze, e cosa ne ricavo? La pura e semplice ideologia rivoluzionaria di allora non regge più, ed è addirittura diventata ridicola a fronte dell'alluvione delle infinite e diverse verità che l'hanno sommersa: eppure, qualcuno ancora vi si aggrappa proprio per non perdere se stesso e morire in questa alluvione. Dall'altra parte, la resa a tutte le verità, a quelle vere come a quelle false che diventano vere, equivale alla consegna di se stessi all'irrealtà, al dissolvimento... e poiché non c'è dubbio che questa appaia una scelta assai più intelligente della precedente, c'è chi la fa propria. Può darsi che così io non faccia che ricamare sulla solita dicotomia, variamente disposta attorno ai poli della semplicità e del cinismo, della fede e del disincanto, dove entrambi i termini dell'opposizione valgono per difetto, soffrono della perdita dell'altro. Può darsi. Ma il punto è che, vent'anni dopo, non posso tornare a ripensare alla mia vicenda senza almeno domandarmi cosa resta del senso che dovrebbe tenerla insieme: cosa resta del suo senso e di me stesso, infine, quando ogni cosa non è mai quella ma un'altra, e sembra che avrebbe potuto essere in qualsiasi altro modo. Sembra... ma non è proprio così. Per quanto il vertiginoso assalto dell'irrealtà sia inevitabile e spesso addirittura benefico, c'è sempre, al centro del vortice, qualcosa che sta lì, fermo, e l'occhio può anche perdersi tutt'attorno, ma le mani hanno dove tenere la presa. Certo, quell'accusa avrebbe anche potuto inghiottirmi, ma una cosa semplice e però fondamentale non potevo smettere di saperla: l'accusa era falsa, e io sapevo e so che non ho mai conosciuto né tanto meno ho dato qualcosa ad Ali Agça. Nessuna mal digerita vertigine esistenziale può farmelo dimenticare. Proprio come il fatto che Luigi era innocente... Di nuovo, non ricordo l'epoca esatta, e del resto non è importante. Luigi, l'amico arrestato con me, Isabella e altri, nel '79, e poi assolto, come tutti (di lui ho già parlato: era a Cuneo anche lui, quando Berardi si è ucciso), è stato arrestato una seconda volta, per un breve periodo, credo un mese, più o meno, nell''82 o nell''83. Non potevo leggere i giornali o guardare la televisione, allora, perché ero in isolamento nella sezione speciale del carcere di Marassi, ma, non so come, la notizia era filtrata. Nulla più di questo, tuttavia: non sapevo in quali circostanze, per quali accuse... Pochi giorni dopo, sono stato
portato a Torino, e così ho saputo. Nella stanza, eravamo in quattro: il giudice Caselli e il giudice Miletto, seduti di lato; io e Sanfilippo seduti uno di fronte all'altro. Sanfilippo era un malavitoso siciliano alto e snello, già condannato per aver ammazzato qualcuno su commissione proprio a Genova. E nel carcere di Genova, sempre nella sezione speciale, l'avevamo conosciuto sia io che Luigi, al tempo del nostro comune processo, e lì l'avevamo lasciato quando ci avevano messo fuori. La questione, ora, era diabolicamente semplice: Sanfilippo accusava Luigi di essere il killer della colonna genovese delle Brigate Rosse, dall'uccisione del giudice Coco in avanti. E come faceva, Sanfilippo, a sapere una cosa simile? Semplice: glielo avrei confidato io, in quei mesi della primavera '80. Ecco dunque perché eravamo lì. Era un confronto. Potevo io, Enrico Fenzi, confermare l'accusa? Ero tranquillo, all'inizio, e persino divertito. Ne stavo passando tante, in quel periodo, che al paragone mi aveva colpito il lato assurdo della faccenda. Non potevo che sorridere rievocando i passati furori di Luigi quando lo si sospettava semplice brigatista: adesso era addirittura diventato il killer delle Brigate Rosse! E immaginavo cosa si pensasse a Genova, tra chi avesse mantenuto un minimo di buon senso. Quanto a Sanfilippo, che dire? Lo ricordavo, sì, così come ricordavo tanti altri: due parole durante l'ora d'aria, forse una cena o due in comune, punteggiata dalle risate di quel simpatico gigante che era Rossano Cochis, della banda Vallanzasca... Niente di più. Ero tranquillo, perché, per parte mia, tutto era già risolto, e non poteva essere diversamente per gli altri. Con leggerezza, ho detto che Sanfilippo mentiva, e che era pazzesco tanto il pensare a Luigi come killer delle Brigate Rosse, quanto il credere che io avessi potuto confidare a qualcuno una cosa simile, e proprio a Sanfilippo, poi! Non ci ho messo molto a capire quanto fosse sciocco il mio atteggiamento liquidatorio. Con stupore, prima, poi con disperazione, ho visto come per i giudici ci fosse poco da ridere. Erano attaccati al loro osso come mastini, e questo altro non era che il loro mestiere, che in ogni caso facevano benissimo. Ma ciò appunto rendeva reale l'incredibile: sulla base dei loro dati il “teorema Sanfilippo” stava in piedi, eccome. Io, cosa potevo opporre? che loro non conoscevano Luigi? che io sapevo che era innocente? Ma come facevo a spiegarlo? Come si fa a spiegare il gusto delle fragole a chi non le ha mai assaggiate? Il vecchio proverbio stava diventando un incubo. Come potevo anche semplicemente dire quello che sapevo? E poi, Luigi non aveva fatto nulla, e come si fa a provare il nulla? Mi guardavano, e non mi credevano, e ciò era più che sufficiente ad annichilire la mia verità, a privarla della parola: la parola di Sanfilippo, quella era un fatto, e pesava infinitamente più di un'infinita montagna di non-fatti; l'accusa era un fatto e la difesa non lo era, e l'unica verità in cui rischiavo di precipitare era che non avevo nulla da dire. L'iniziale superficialità era diventata angoscia, e i miei “no” sempre più incrinati, sempre più sordi, non urtavano solo contro gli sguardi freddi e attenti dei giudici, ma erano ridicolizzati, cancellati dalla strepitosa recita di Sanfilippo. Il quale, dopo un'iniziale timidezza, si era trasformato in un istrione appassionato e convincente. Giurava, invocava, gesticolava: “Enrico, tu lo sai che dico la verità... Enrico, guardami negli occhi...”. E accumulava particolari esatti e insignificanti: abbiamo mangiato le lasagne al forno di Cochis, non te lo ricordi? e c'era freddo, in cella, e la televisione non funzionava bene... Sapeva tutto, ricordava tutto, ricostruiva tutto con la lucidità di un pazzo. E come la sua passione e la sua veemenza aumentavano e mi incalzavano, io non potevo fare a meno di ritrarmi, di chiudermi entro una corazza di ottusa monotonia: “Non è vero... non è vero...”. E come lui volgeva continuamente gli occhi da me ai giudici quasi fosse sul palco d'un teatro, anch'io, ma in modo rigido e silenzioso, li guardavo, ogni tanto, e mi sentivo lontano e sconfìtto, e pensavo: “Credono a lui, non a me...”, e mi sembrava che non potesse essere altrimenti, che anch'io avrei creduto a lui... e però continuavo: “Non è vero... non è vero...”. È durato ore, il confronto. Sempre uguale, sempre peggio. Ma dopo ore, Sanfilippo è crollato di colpo, senza preavviso, vinto dall'intollerabile realismo della recita, trascinato a fondo dal suo stesso slancio. “Enrico, ti supplico, anche se non è vero dammi una mano... aiutami... perché t'importa più di
Luigi che di me... ti prego, ti prego... io ho l'ergastolo, e solo se a questi gli do un politico posso uscire”. E piangeva, ora, e vedeva il suo sogno andare in pezzi. Caselli e Miletto si sono guardati: io ho guardato loro e ho visto il loro sguardo. Non ho detto assolutamente nulla. Il confronto è durato ancora poche battute, quelle necessarie per chiudere. Pochi giorni dopo Luigi è tornato libero. La sua storia giudiziaria è stata ancora lunga, ma debbo aggiungere, per la cronaca, che alla fine, qualche anno fa, è stato definitivamente assolto da qualsiasi imputazione, e ha ricevuto un indennizzo per il carcere ingiustamente sofferto. Mi fermo. Non ho ripreso a scrivere queste pagine per aggiungere altri episodi (del resto, ce ne sarebbero ancora troppi, e sicuramente di maggior effetto), e se ho ricordato questi due, è solo per l'affinità che li lega e il motivo che suggeriscono. In maniera diversa, nell'uno e nell'altro ho percepito in maniera diretta, fìsica, quale casuale intreccio di circostanze possa volta a volta deviare il corso di una vicenda personale verso esiti imprevedibili, e – questo è il punto delicato – come possa accadere che una simile percezione indebolisca il senso della realtà, a cominciare dalla propria. Quando ho detto che, durante il confronto con Sanfilippo, dopo ore di sceneggiata, trovavo più convincente lui di me, ho inteso anche questo: che non si può smettere di credere a quello che si sa, ma che insieme si può subire la tentazione di non credere più a se stessi. Come un lasciarsi andare, un dissolversi... la realtà è un delirio, e tutto può essere, e il sapere e il credere possono non coincidere, e dunque anche solo il difendersi si trasforma in una fatica inutile e disumana. Questo rischio l'ho intravvisto, e m'è sembrato così di capire qualcosa che forse non avrei altrimenti immaginato, qualcosa che ha a che fare, per esempio, con l'angosciante complessità psicologica di tanti crolli e autoaccuse, quasi sempre false, che hanno riempito le cronache dei processi staliniani. E anche se l'episodio non è stato granché, me ne sono dovuto spesso ricordare, in quegli anni, quando non era facile tenersi stretti al proprio io, non farselo scappare via. All'esterno troppe cose mi sommergevano, ogni giorno nuove, e mi trascinavano qua e là, e trasformavano la mia storia in un labirinto. All'interno le cose non andavano meglio, perché era ben un processo di dissolvimento interiore quello che affrontavo staccandomi non tanto da un'ideologia quanto dalla passione che aveva bruciato la mia vita: la passione che mi aveva portato nelle Brigate Rosse. Ora, ci sono dei momenti in cui non appartenere più a se stessi, né dentro né fuori, permette di guardarsi meglio, ma ne deve poi seguire una ricomposizione, prima che tutto questo si trasformi in una malattia mortale. La ricomposizione: non è facile, e non esistono ricette. Solo una cosa, mi sembra d'aver capito, è davvero decisiva: il silenzio. Non che occorra per forza tacere, questo no. Piuttosto, è bene sapere che là, al centro delle parole, tutte le parole che si possono e magari è anche bene che si dicano, c'è da difendere quella zona di silenzio nella quale batte il cuore muto del discorso. Questa non è affatto una teoria, ma solo un'osservazione empirica. È banale ma vero e sperimentalmente dimostrabile come sia molto diffìcile rispondere in maniera soddisfacente – per me e altri come me -a chi ancora oggi, vent'anni dopo, continua a chiedere: “Perché?”, e di fatto intende chiedere: “Chi sei?”, e in maniera spesso inconscia, vaghissima, vorrebbe magari significare: “Sei qualcuno?”. Anche perché, si badi, la domanda di solito viene rivolta proprio a chi non può rispondere, e non a chi sarebbe invece pronto a farlo. Non, cioè, al cosiddetto “irriducibile”, in immobile adorazione dei suoi perché, i quali non solo stanno sempre lì, bene in vista per chi li voglia sentire, ma soprattutto sono forniti di valore generale, e dovrebbero essere sempre buoni per spiegare le azioni passate tanto di chi ancora ci crede quanto di chi ci ha creduto un tempo e ora non ci crede più. Eppure no: a lui non lo si chiede, e si pretende invece una risposta da chi si sa bene che la chiave di tale risposta l'ha gettata via per sempre (e non importa affatto quanto gli sia costato farlo), e anche se volesse non saprebbe più ritrovarla. E se s'impegnasse tuttavia a rispondere, si sa dunque altrettanto bene che cadrebbe in una penosa contraddizione, visto che non potrebbe che ripetere tali e quali le ragioni di allora, quelle stesse dell'irriducibile alle quali egli però non crede più e che dunque riferirà indebolite, minate dalla sua stessa attuale falsa coscienza rispetto a esse, e addirittura
finirà per riferirle sottolineandone passo passo l'inconsistenza, la fallacia, e insomma distruggendole nell'atto stesso con il quale le porta alla luce. Con una contraddizione essenziale, dirompente – eccola, la ragione, che però, vedete? non è affatto tale... Ma allora, e con sempre maggior forza: “Perché?”. Perché quelle azioni sono pur state compiute, non è vero? La sproporzione non può che crescere, e su questa strada la distruzione sistematica delle proprie ragioni via via che le si mettono in mostra equivale alla distruzione di se stessi, perché il nesso tra quello che si è fatto e le ragioni per le quali lo si è fatto ne riesce disarticolato, e sono i pazzi che agiscono senza motivo, i pazzi pericolosi... Credo possa nascere di qui, allora, lo zelo autoaccusatorio, il desiderio di non essere se stessi ma altri: di essere quello che fa le domande, per esempio, e la voglia di compiacerlo, di prevenirlo, di annullarsi in lui. In lui che per parte sua non demorde e pretende la sua rivincita e insiste: “Perché?... Perché?”. All'inizio del capitolo Cause ed effetti, sopra, m'era capitato di osservare che nessun amico, mai, mi ha chiesto: “Perché?”: ora ho forse più chiaro che non è una domanda da amico. Da nemico, piuttosto, com'è del resto giusto e normale che sia. Ho volutamente esagerato, ma non troppo. E ho visto una rappresentazione perfetta di quanto ho cercato di dire in un bel film del 1995, La seconda volta, di Mimmo Calopresti, con Nanni Moretti e Valeria Bruni Tedeschi. A Torino, il professor Sajevo (Moretti) incrocia la terrorista che dodici anni prima gli ha sparato un colpo in testa. Si chiama Lisa Venturi, ed è in semilibertà: lavora in un ufficio, di giorno, e torna in carcere la sera. Lei non lo riconosce, e ciò, se possibile, aumenta in lui il desiderio di capire, di sapere... e il confronto ci sarà, ma non porterà a nulla, da una parte e dall'altra. Il blocco che divide i due personaggi non è neppure scalfìtto, e si ripropone, invece, nella sua insuperabile durezza. Le possibilità di lettura sono varie. La mia non è meno legittima di altre. Lei è chiaramente lontana da ciò che è stata e ha fatto: sconta la sua pena in silenzio, e non vuole altro. Lui vuole strapparle un “perché”. Vuole... cosa vuole, in effetti? La prima volta, lei ha cercato di distruggere lui; ora le parti sono capovolte, ed è lui che più o meno inconsciamente vuole distruggere lei. Solo, la sua arma non è la pistola, ma il suo: “Perché?”. E lei però non si fa distruggere, e oppone il silenzio. Che avrebbe dovuto dire? Sparandoti in testa ho sparato a uno dei cervelli della ristrutturazione industriale, ho sparato all'intelligenza dei padroni, ho sparato al servo del capitale, ho sparato al peggior nemico della classe operaia, quello che la sfrutta non con la brutalità diretta dei rapporti di forza ma con l'apparato sofisticato e inestricabile dell'organizzazione del lavoro, dell'organizzazione della vita? Questo avrebbe dovuto dire al mite intellettuale, professore universitario di sociologia del lavoro all'Università seduto dinanzi a lei, con quel viso sofferente e i pezzi di piombo ancora nel cervello? Proprio questo avrebbe dovuto dire, che in ogni caso più o meno così già era stato scritto nel volantino di rivendicazione che di sicuro allora ha seguito l'attentato, e che magari il professore ancora conserva tra le sue carte? E dirlo con la foga e la convinzione adeguati all'atto, sì da spiegarlo davvero, da renderlo di nuovo necessario? Avrebbe dovuto sparargli di nuovo, per spiegare perché aveva sparato? Non può, evidentemente, e però non può neppure involgarire e negare se stessa sino al punto di dire quelle cose terribili senza alcuna convinzione e addirittura staccandole da sé, e rifiutandone la follia e marcando con plateale pessimo gusto la propria attuale condizione di redenta, di illuminata. Non può che tacere, dunque, e invocare il suo diritto alla pena, e tornare al carcere come a un rifugio. E il professor Sajevo capisce, alla fine, che non ne caverà nulla: non otterrà di poter disprezzare chi gli ha sparato, e potrà solo odiare, se vorrà o non potrà farne a meno. Per annientare la nemica, il “Perché?” questa volta non funziona: per annientarla, la seconda volta dovrebbe semplicemente essere lui a sparare a lei. La mia lettura è forse tendenziosa. Ripeto però che è legittima, e me lo conferma lo stesso regista, Calopresti, rispondendo alle critiche mosse al film da Erri De Luca (il dibattito tra i due è nel numero 5 “MicroMega” del 1995). Il quale De Luca accusa il film di essere del tutto squilibrato perché al sovraccarico delle accuse non corrisponde un altrettale spazio concesso alla difesa: vittima, insomma, sarebbe ora proprio la ragazza, alla quale è stata tolta la parola azzerando il peso delle sue ragioni (De
Luca: “Quella non è mica la ragazza della Uno bianca. Quella ragazza faceva parte di una generazione comunista. Dove si vede questo?”). Curiosamente, a me sembra vero il contrario, e cioè che il silenzio della ragazza sia stato, nel film, l'unico modo reale concesso al regista per salvaguardarne le ragioni, e, di più, che quello stesso silenzio sia la condizione e lo strumento attraverso il quale la ragazza attua la propria ricomposizione e riesce a definirsi, nel presente, come persona: persona sofferente, tormentata, infelice sin che si vuole, insomma, ma soprattutto integra. Solo lo spessore, il senso del suo silenzio poteva permettere di rappresentare questo dato elementare, indispensabile per non trascinare nel fango tutto l'inscenato dramma della “seconda volta”, e questo mi pare appunto il merito che Calopresti rivendica con chiarezza: “Lei non ha bisogno delle parole. Il mio problema era di non fare di lei un personaggio che doveva dare delle spiegazioni. Quel personaggio è silenzioso, ha la forza del silenzio rispetto a lui (...) Certo, le parole sono sbilanciate. Da una parte c'è l'uomo, che usa le parole in maniera forte, decisa; dall'altra c'è una donna che gli oppone il pudore, la timidezza, il silenzio. Un modo di esprimersi che per me non è negativo, anzi è positivo e forte rispetto alla parola di lui”. E ancora: “Non è affatto vero che lei esca demolita dal confronto. Io vedo in quel mutismo una forza, non una debolezza. Quando l'ho scritto, questo film, ho passato giorni a togliere parole, a togliere spiegazioni dalla bocca di lei...”, eccetera. Quello che io aggiungo di mio, infine, è solo il pensiero che quel silenzio non valga solo per lei, Lisa Venturi, ma per tutti noi che, come lei, sentiamo con strazio che non solo non c'è rimedio a ciò ch'è stato fatto, ma che il male compiuto ridicolizza le pretese delle parole, quando ci si trovi a pronunziarle davanti a chi di quel male è stato vittima. E neppure conta la pena inflitta dalle leggi, emblema di un impossibile risarcimento. Per questo (non penso affatto di avere ragione, cerco solo di spiegare) non ho mai domandato perdono: mi sarebbe sembrato un tentativo indebito, un tentativo che non mi compete, che in forma insidiosa prolunga l'effetto della violenza passata imponendo di fatto una situazione morale di obbligo, di scelta, proprio a chi, a suo tempo, non è stato certo interpellato, se sceglieva o meno di essere la nostra vittima. Non ha avuto scelta, allora, e di nuovo non ne ha avuta poi, perché si dimentica troppo facilmente che la vittima è obbligata ad accettare che il risarcimento sociale – il carcere per il colpevole – valga anche come risarcimento suo personale, come guarigione della sua intima ferita. Ma non è così, anche se in qualsiasi società civile non può essere che così, e mi sottraggo dunque all'idea di far di nuovo sanguinare la piaga e di sottolineare l'incommensurabilità dei due piani, chiedendo perdono proprio a chi di fatto già l'ha civilmente e laicamente concesso, rinunciando alla vendetta e onorando il patto che lo lega alla società in cui vive. Questo margine che molte volte occorre lasciare alla personale dimensione del silenzio, proprio perché le parole conservino meglio il loro significato, non ha a che fare con l'altra questione che in passato è stata spesso evocata, e che potremmo definire come la “politica del silenzio”. Essa riguardava alcune condizioni generali che avrebbero permesso o meno ad alcuni brigatisti di dire la loro, e cioè di portare il loro contributo di verità alla complessiva ricostruzione di quegli anni, e alla vicenda che più di ogni altra torna ogni tanto come irrisolta alla cronaca, quella che riguarda il sequestro e l'uccisione dell'onorevole Moro. Ora, questo aspetto mi sembra largamente esaurito: della vicenda Moro mi pare si sappia quanto ragionevolmente si può pensare di sapere; i brigatisti coinvolti, a cominciare da Moretti, hanno detto tutto quello che a loro toccava di dire, e i ricorrenti polveroni che vengono ancora sollevati sull'argomento hanno sempre più il carattere di pretestuosi tentativi di intorbidare le acque per strane e per lo più incomprensibili faide che sembrano ancora dividere il mondo politico e gudiziario. Insomma, è ormai ben possibile fare la storia della lotta armata in Italia: certo, si potranno sempre analizzare meglio le cose e riflettere e arricchire di nuovi particolari il quadro complessivo, ma gli elementi ci sono tutti, e il pallone di tutti i pretesi misteri è in realtà scoppiato da un pezzo, anche se qualcuno ogni tanto s'affanna a gonfiarlo di nuovo. C'è invece un aspetto laterale della questione, ma forse più attuale, che mi interessa, e riguarda piuttosto il diffuso desiderio che le Brigate Rosse si ritraggano, spariscano, si rendano invisibili... c'è
come una gran voglia, insomma, che esse scompaiano proprio da ciò che, poco o tanto che sia, le riguarda. E per raggiungere lo scopo è sempre un buon sistema quello di negarne l'autonomia, di scavalcarle. In una recente trasmissione televisiva dedicata al caso Moro, un vecchio ed elegante signore, in apertura, ha dichiarato: “Allora, pensavo che le Brigate Rosse fossero al servizio degli americani; oggi lo penso ancora, ma penso anche che invece avrebbero potuto essere al servizio dei russi”. Allegria! Una frase del genere spiega perfettamente quello che intendo: riassume come meglio non si potrebbe, nella sua stessa assurdità, quell'ansia di rimozione, di aggiramento... le Brigate Rosse, insomma, non sono mai esistite! Onde, di nuovo, il tornare a gonfiare i palloncini bucati dei tanti misteri... So bene che, vicino a quella, c'è stata una eccellente trasmissione dedicata da Zavoli allo stesso argomento, dove erano in primo piano le voci di Moretti, della Braghetti e di altri, ma l'impressione mia è che non sia affatto Zavoli a fare tendenza, come s'usa dire (del resto, ricordo bene come la sua trasmissione “La notte della repubblica” fosse stata elogiata da qualche giornale importante solo dopo ch'era finita!). Come mai? Non ho risposte pronte. Indubbiamente, tanta insistenza sui supposti misteri del caso Moro è anche un sistema per regolare vecchi conti, per parlare d'altro (è stata tirata in ballo, in spregio a ogni senso del ridicolo, anche la 'ndrangheta calabrese!), e in ciò dura tenace la vischiosità delle vecchie posizioni del PCI. Ma c'è probabilmente anche qualcosa di diverso, meno legato a ideologie e schieramenti, e più invece alle singole persone. I brigatisti hanno o non hanno parlato, ma di là da tutto costituiscono un gruppo definito: un gruppo, o un'organizzazione, che ha perduto e che con un atteggiamento di notevole serietà e responsabilità ha fatto e sta facendo i suoi anni di galera. Dall'altra parte — non è in alcun caso una critica, ma una semplice constatazione di fatto – una gran parte della sinistra “di movimento” che si considera figlia ed erede del '68 sta altrove: nelle radio, alla televisione, nei giornali, nelle professioni intellettuali in genere e in qualche caso anche in Parlamento: là dove brigatisti proprio non ce ne sono. Ora, mi sembra che per molte di queste persone sia irresistibile la tentazione di ripercorrere la loro storia, a partire appunto dal '68, con un misto di rancore e frustrazione: come sarebbe stata altrimenti lineare e significativa, quella storia, e quanto avrebbe potuto essere importante e addirittura decisiva e innervata nella storia più ampia del nostro paese se, a rovinare tutto, non fossero arrivate proprio loro, le Brigate Rosse! Come non tentare, allora, di immaginare una storia diversa, la 'vera storia del movimento', senza il tormentone ricattatorio e stravolgente della lotta armata!? Si veda, di questi tempi, il ricorrente tentativo di gonfiare oltre il credibile l'importanza del cosiddetto “movimento del '77”, il cui livello non potrà invece essere troppo innalzato senza una patente violenza alla verità storica: ora, questo rigonfiamento cos'altro è se non il tentativo, rispettabile pur se vano, di rifare una storia dell'estrema sinistra senza le Brigate Rosse e la lotta armata? di ritrovare un'estrema sinistra buona da contrapporre alla cattiva, che ha rovinato tutto? I tentativi in questo senso non sono certo nuovi, a cominciare dai vecchi discorsi sull'imbuto tragico in cui il movimento s'era andato infilando, allora, e già c'è stato qualcosa di molto preciso. La chiave interpretativa di un libro importante e interessante come Gli invisibili, di Nanni Balestrini, del 1987, sta tutta in questa contrapposizione, per la quale “visibili” e in qualche modo analoghi sono lo Stato e le Brigate Rosse, mentre 'invisibili' sono loro, i giovani del movimento, che pure sono i soli a esprimere e vivere veri valori alternativi – la vera morale e la vera libertà. Ma appunto, sono costretti a farlo da “invisibili”, schiacciati come sono da uno scontro tra apparati contrapposti che non li riguarda minimamente. Significativa non è dunque la rivolta nel carcere di Trani, descritta come il trionfo, prima, della militaresca organizzazione brigatista e poi dell'efficienza dei corpi speciali dei carabinieri, ma semmai la domestica, gioiosa e intimamente eversiva “fuga dal Cantinone” dei ragazzi del movimento milanese. La vera storia del movimento sarebbe dunque precisamente quella che lo scontro armato ha occultato, ha represso, ha sviato nelle decrepite forme di una politica ossessionata dal potere, che avrebbe visto, paradossalmente, le Brigate Rosse e lo Stato dalla stessa parte, contro la vitale e libera
spontaneità anarchica di quei giovani, espropriati della loro rivoluzione. Il punto è importante, perché, vent'anni dopo, è forse il primo che si presenti alla riflessione e chieda una soluzione: c'è un bivio, a questo punto, e con ipotesi diverse si prenderanno strade diverse e si scriveranno o semplicemente si ricorderanno storie diverse. Ed è prima di tutto importante sul piano personale, perché è quello che più immediatamente implica un giudizio di valore sul passato intimamente commisurato al senso che allora abbiamo voluto dare alle nostre scelte, radicato nei termini concreti della nostra esperienza esistenziale. Dirò dunque la mia, nell'inevitabile forma di un bilancio, e cercherò di farlo nella maniera più breve e chiara possibile. Lo schema appena esposto è senz'altro suggestivo, e per qualche parte può persino essere vero: meglio, per qualcuno può essere stato effettivamente così. Per qualche parte, per qualcuno...: nella sostanza, tuttavia, le cose sono state affatto diverse, e quel discorso risponde piuttosto al desiderio di trovare una soluzione di comodo intorno alla quale ci possa essere un largo accordo, in nome di una rilettura parziale e consolatoria del passato. Del resto, proprio perché è uno schema falso non è riuscito ad affermarsi, ed è ricorrentemente arrivato a un passo dal successo, e poi è ricaduto su di sé. Il fatto è che non si può fare un buco più piccolo dove già se n'è fatto uno più grande, e dunque nessuna storia del movimento e tanto meno di quello del '77 è in realtà possibile, nella coscienza di tutti, direi, se si pretendesse di passare sotto silenzio o di mettere tra parentesi quella che, piaccia o meno, è stata l'espressione più radicale e conseguente che i movimenti nati a partire dal '68 hanno finito per assumere: quella della lotta armata. Naturalmente non basta dirlo: occorre qualcosa di più. Ed è con qualcosa di più, appunto, che vorrei chiudere queste breve appendice a un libro scritto, allora, di getto. Perché sono così convinto che sia sbagliato ogni tentativo, più o meno dignitoso, più o meno mascherato, di espellere le Brigate Rosse dal filo principale della storia dei movimenti degli anni '70? Per una residua forma di orgoglio? Per la perdurante illusione di avere, sì, sbagliato e perduto, ma di aver tuttavia conservato in ciò una certa grandezza, un certo significato? Non sono in grado di escludere che ci siano, in me, anche sentimenti di questo tipo: se così fosse, chiedo che mi siano perdonati o quanto meno capiti, visto che a essi ho sacrificato gran parte della vita. Presumo, tuttavia, che il mio giudizio non mascheri un mero riflesso di carattere psicologico, non sia l'estrema proiezione del desiderio. Torno a quanto dicevo una decina di pagine fa: molte cose possono apparire incerte, molte prospettive annebbiate e insicure, ma, se lo si cerca, un punto fermo c'è sempre. Per cominciare, oggi, a cose fatte, un elemento è chiaro e inconfutabile sotto i nostri occhi: il decennio di lotta armata, in Italia, fa parte a pieno titolo dell'assai più complessa vicenda attraverso la quale abbiamo visto chiudersi nel mondo tanto l'utopico modello teorico-politico quanto l'effettuale realtà del comunismo. Fatte tutte le differenze e le proporzioni che si vorranno fare, resta che la sconfìtta delle Brigate Rosse ha avuto, qui da noi, lo stesso valore e lo stesso senso che avrà anni dopo, emblematicamente, il crollo del muro di Berlino. Non solo: per le sue caratteristiche l'esperienza italiana è stata per molti aspetti un'esperienza centrale, perché in essa gli elementi della tradizione comunista sono arrivati al loro capolinea, si sono sommati e sono bruciati sino in fondo, senza residui, con l'astratta purezza di un esperimento da laboratorio. Già questa considerazione basta di per sé a fare giustizia dell'ipotesi opposta, quella cioè di una sostanziale estraneità della lotta armata rispetto al corso vero e profondo che ha animato il “movimento”: è vero invece che è stata proprio la lotta armata che ha colto, interpretato e vissuto radicalmente, sino alle sue estreme conseguenze, quello che era il fenomeno reale che su grande scala si stava compiendo e che la sovradeterminava. Tant'è che, quando nei primi anni dell' '80 è stata sconfìtta e il campo è tornato libero, nel deserto della speranza comunista non sono tornati a fiorire liberi i “movimenti”, ma quello che ne rimaneva, perduto l'ossigeno che li teneva in vita, è semmai affogato senza lasciare apprezzabili tracce di sé nelle lente spire del decennio “socialista” o craxiano, come lo si voglia chiamare. Questa considerazione ne comporta sùbito un'altra, che per amore di chiarezza vorrei esprimere in
forma forse paradossale e provocatoria. Il grande partito italiano della tradizione comunista, il PCI, ha avuto, allora, la grande fortuna (ma una fortuna, certo, che egli stesso si era preparata da lontano, con i suoi meriti storici) di vedere che una parte di sé prendeva consistenza oggettiva, e cresceva e si staccava quasi spontaneamente dal suo stesso corpo, e gli si contrapponeva... vedeva, insomma, che tutto ciò di cui di lì a poco avrebbe dovuto liberarsi in forma dichiarata e ufficiale già se ne andava per conto suo, nella realtà, sì che ha potuto combattere non già una lacerante guerra intestina, ma una guerra che appariva condotta contro un nemico esterno: ha avuto perciò nella lotta armata la sua grande occasione e l'ha saputa cogliere, in pieno, e proprio in questa guerra contro quel se stesso che non era e non voleva più essere s'é conquistata la possibilità, più tardi, di consacrare la propria trasformazione pagando solo il modico prezzo di qualche lacrima, nelle sezioni emiliane o toscane. Né poteva in effetti pagare molto di più, dopo essere riuscito a schierare per intero le sue forze contro il “terrorismo”, in difesa dello stato democratico. La lotta armata, e segnatamente quella più consapevole e organizzata, quella delle Brigate Rosse, s'è dunque posta nel nome dell'utopia, della novità, del futuro, ed esprimeva invece le convulsioni finali di qualcosa che stava morendo: era la crudele messa in scena della sua stessa morte. Era una fine, non un principio. Oggi, questo mi sembra il punto fondamentale. E se mi si domanda come mai questa fine volle essere così tragica e piena di sangue — l'incolpevole sangue di tante vittime, e quello di tanti compagni: anche quelli che in un modo o nell'altro hanno attraversato la mia vita — riesco solo a rispondere che era la natura stessa di quelle convulsioni a volerlo, e che la storia dell'utopia e della realtà del comunismo potesse semplicemente finire così, con una mozione congressuale e qualche lacrimuccia in sezione, è sciocco pensarlo. La fine non poteva che trascinare con sé il peso del lontano inizio, e il peso terribile dei suoi mille ramificati svolgimenti e dei suoi atroci sviluppi... La brevità obbliga in qualche modo alla retorica. È meglio dunque ch'io torni a me, ed ecco che non trovo nulla di retorico se guardo indietro e cerco di rappresentarmi, oggi, quale fosse il significato concreto di quella parola: comunismo. Mio padre, intanto: non me ne ha mai voluto parlare, e solo pochi giorni prima di morire, nel '68, mi ha mostrato una vecchia tessera del PCI clandestino, d'anteguerra: era iscritto, ed è stato più o meno tre anni in carcere, negli anni '30, e poi al confino, e per questo ha avuto subito un posto di lavoro, nel '45, all'Ansaldo di Genova. E poi, negli anni '50, nel piccolo paese dell'Appennino ligure dove abitavamo, le povere feste dell'Unità (suonavano i pochi dischi a 78 giri che portavamo noi e pochi altri), e, nella Genova operaia di Rivarolo e Sampierdarena, i grandi scioperi... Un mattino è soprattutto nitido nel ricordo. Era il luglio del '60: c'era il governo Tambroni, e Genova era paralizzata dallo sciopero generale. Mio padre non si è alzato: mi sono alzato io, invece, alle sei, e tutto solo, muovendomi silenzioso per la cucina, mi sono fatto il caffè. Mi sono affacciato alla porta della camera, e ho detto: “Ciao. Io vado...”. Mi ha risposto: “Stai attento”, e nient'altro. Dovevo fare quasi due chilometri a piedi, per arrivare alla stazione: di solito, insieme a tutti quelli, studenti e operai, che come me prendevano il treno per scendere in città. Quella mattina, però, eravamo pochissimi, e ci guardavamo in silenzio. In stazione, sul marciapiede, ci si poteva contare. Avevamo tutti la stessa meta, e nessuno parlava. Qualche ora più tardi, il mio contributo ai famosi moti di Genova è stato quasi nullo: ho fatto mucchio con altri, con altri sono scappato sotto le cariche della Celere, e ho avuto per due giorni gli occhi gonfi per i lacrimogeni. Ma il silenzio irreale di quella limpida e calda mattina di luglio, aspettando il treno, quando tutto era sospeso: non si andava a scuola, non si andava in fabbrica, eppure si era lì, e si andava, chiamati da qualcosa a cui non ci si poteva sottrarre... quell'attesa non la posso dimenticare. Era una fine, non un principio, e in qualche oscura e contorta maniera questa consapevolezza deve aver agito, e aggiunto un sovrappiù di assurda determinazione, di cruda follia. Ma non eravamo solo noi brigatisti a credere nel moribondo fantasma del comunismo. Dall'altra parte anche altri ci credevano, evidentemente, visto che hanno messo bombe e provocato stragi per fermarlo. Se non fosse tragico – uno dei più tragici paradossi di questa pazza e crudele storia d'Italia — potrebbe apparire grottesco che a
credere al comunismo fossero rimaste le Brigate Rosse e i servizi segreti, e che da una parte e dall'altra ci si trasformasse in assassini, chi per favorire e chi per combattere qualcosa che invece aveva già finito d'esistere. In ogni caso, penso che la data ufficiale d'inizio della lotta armata sia il 12 dicembre 1969, il giorno in cui è esplosa la bomba di piazza Fontana, a Milano. Questo non vuol essere un alibi per quanto è successo poi: da quel giorno, dal momento in cui quello è diventato l'orizzonte ultimo dello scontro, ognuno ha fatto in piena responsabilità le sue scelte. Al proposito, ho un modesto personale aneddoto da raccontare. Quando sono stato arrestato la prima volta, con Isabella, nel maggio del '79, i carabinieri hanno trovato una pistola nascosta nel camino della nostra casa di campagna, e proprio su quell'arma si è retta allora l'accusa di appartenenza a banda armata. La pistola non era affatto nostra, né l'avevamo messa lì: con ogni evidenza, ce l'avevano messa quelli stessi che poi l'hanno trovata. La cosa è stata fatta in ogni caso in maniera così maldestra che prima il giudice di Chiavari, nel processo per direttissima, e poi quello di Genova, un anno dopo, ci hanno assolti, il che di per sé già la dice lunga sulla questione. Ma non è questo il punto: negli anni successivi, per accenni o per battute, sia io che Isabella abbiamo molte volte verificato come fosse noto e addirittura scontato che quella pistola fosse stata nascosta in casa nostra proprio per incastrarci. Recentemente, avendo subito un furto, Isabella ha avuto occasione di parlare con alcuni carabinieri che ricordavano le nostre passate vicende. Polemicamente è tornato fuori il discorso della pistola, e proprio uno dei carabinieri ha detto allora una frase che mi ha colpito non certo per la sua particolare novità, ma perché appariva così intimamente connessa con la nostra vicenda personale: “Ma signora, cosa pretende? Allora, contro il comunismo c'era l'ordine di fare qualsiasi cosa”. Qualsiasi cosa: dal minimo episodio della pistola messa in casa mia, e del quale per la verità non ho mai pensato di dovermi troppo lamentare, su su allo stupro di Franca Rame, per arrivare sino alle bombe nelle banche, nelle stazioni, nelle piazze e sui treni... Qualsiasi cosa davvero, visto che ho letto tanto tempo fa, su “OP”, il giornale di Pecorelli, un articolo del generale Miceli, allora capo dei servizi segreti, che teorizzava come si dovesse ricorrere all'aiuto della mafia per sconfiggere le Brigate Rosse (in parte, qualcosa del genere è stato poi tentato con Cutolo). La cosa mi torna in mente oggi, quando leggo che il giudice Colombo ha ricordato i patti tra la mafia e gli americani, al tempo dello sbarco in Sicilia: trovo infatti che lo schema del giudice potrebbe utilmente essere aggiornato proprio con quell'articolo che, non fosse che per la firma che portava, non nasceva evidentemente dal nulla. Al fondo di questo discorso sta forse la possibile spiegazione di una contraddizione. Da una parte, infatti, per molte ragioni si tende a dimenticare il fatto che le Brigate Rosse sono nate tra le file della sinistra, mentre, dall'altro, solo così si spiega non solo il relativo consenso che per un certo tempo hanno avuto, ma, in particolare, si spiega perché mai la risposta ai movimenti del '68 sia stata così diversa in Francia e in Italia. Non si tratta solo, infatti, della diversa solidità e intelligenza delle rispettive borghesie, come molti hanno ormai detto, ma del fatto che in Francia il movimento si presentava assai più libero da ipoteche di schieramento e da prospettive di potere politico, e insomma non era possibile percepire quei giovani innanzi tutto come “comunisti”, sì che la risposta riuscì facilmente a essere altrettanto libera e efficacemente calibrata sul merito dei problemi. In Italia no, perché il movimento si è sempre e da subito presentato come “comunista” e addirittura come l'incarnazione ideologica e pratica del vero comunismo, sì che non ha mai contato nulla la sostanza materiale dei problemi sollevati, e molto invece la natura politica dello scontro, rispetto al quale la nostra classe dirigente non poteva pensare di perdere o concedere alcunché. Questo, per dire che la cosiddetta “politica della fermezza” non è stata applicata solo verso le Brigate Rosse e a proposito del caso Moro, ma è stata sempre quella seguita nei confronti di un movimento al quale in verità non è mai stato concesso nulla, sin da principio, e che nell'imbuto della lotta armata ha trovato l'esito più coerente alle proprie premesse. Ora quella storia è finita, e noi sappiamo che abbiamo giocato la vita degli altri e la nostra in una corsa a esaurimento. Proprio per questo oggi le categorie della politica non sono più sufficienti a dare
ragione di quanto è accaduto, perché spiegano moltissimo, è vero, ma poi anch'esse s'esauriscono e ci abbandonano. La sconfitta è anche questo: ritrovarsi con alibi scaduti, con giustificazioni morte dinanzi a ciò che è stato una volta per sempre, e che, proprio perché è finito, non può più essere modificato, interpretato in modi nuovi, condotto in direzioni diverse. Mi è capitato più volte di sostenere che, nella storia della sinistra, la forma più tipica dell'autocritica condotta secondo i canoni di un materialismo dialettico che è la forma stessa della presunzione recita più o meno così: “Abbiamo avuto torto, e gli altri hanno avuto ragione. Ma allora, date quelle circostanze, noi abbiamo avuto ragione ad aver torto, e gli altri hanno avuto torto ad avere ragione” . Ebbene, ora, a partita chiusa, anche questa estrema forma di autogiustificazione è impraticabile, perché troppo deboli o inesistenti sono i fili che tengono assieme l'allora e l'ora. E se un filo c'è, e per caso vale qualcosa, esso sta solo nella dimensione personale dell'esperienza vissuta, e nel prezzo pagato: che non è solo quello della galera, ma quello degli affetti, della famiglia, del lavoro... della vita, anche, in molti casi. Si dirà giustamente che è quasi nulla, o in ogni caso non molto, dinanzi al sangue volutamente versato: poco o tanto, è tuttavia quello che è, e serva almeno a difendere i contorni di un principio di identità che, fin che resiste, non può fare a meno di esistere. Finito di stampare nel mese di marzo 2006 da Lito Terrazzi Firenze per conto di di costlan editori S.r.l., Milano. Fotocomposto da Punto Editoriale, Genova €8,80 ISBN 88-7437-032-6 www.costlan.it