Università della Svizzera italiana ccademia di architettura stituto di storia e teoria dell'ae e dell'architettura
Giorgio Agamben chl dll'p CATTEDRA BORROMINI 2012-2013
endrisio cademy Press
Con isttuzone della Catedra Borromn, un nsegnamento annuale d alto lvello nel campo degl stud stud umanstc - che s assegna a ntervall d due due ann a partre dall'anno accademco 20 12-20 13 - l'Unve l'Unverstà rstà della Svzze Svzzera ra talana, talana, I!ccade I!ccade ma d archtettura e l suo Isttuto d stora e teora dell'are e dell'archteura /SA) ntendono sotolneare l propro mpegno a favore delle scenze umane ntese n senso ampo e a sostegno del ruolo ntegrante che esse hanno svolto e contnua no a svolgere nella creazone arstca e archtetonca. Christoph Fank
Giorgo Agamben fi fillosofo osofo,, s laurea nel 1965 all'Unvesà d Roma con una es
s pensero potico d Smone Wel Negl ann Sessanta a Roma feqena nten samene Elsa Morane, Per Paoo Pasoln lngeborg Bachmann e paecipa a se mnai d ain Heidegger a Le Thor Neg anni Setanta siede a Paigi dove com pe sud d lngsca e d cla med evae evae,, srnge amcza con P ee Klossows e lalo Cavno. Nel 974-1975 svolge lavor d rcerca ala Bb bllota ota de Wabug lnsute d ondra e pepara l bro Stanze La parla e l antasma nella cultura oc cdentale (Torino 977 ornao n Ital dal 1978 dige pe Einaud ledzione delle mpot an manoscr Dal 986 Opere complete d Water Benjamn d c itova mpota al 1993 è Dreceur de pogramme al Coège lnernaonal de Phi losophe d Parig nsegna Eseca alUnversià d Macerata e allUnvesà d Veona e dal 2003 al 2009 è ordnaro aa Facoltà d A e Desgn dellUnversà UAV d Venez A patre dagl anni Novana lavora sla loso losoa a polca ed elabora na eora de apporo fa drto e vta e una crica del conceto di sovranà ( Homo sacer l Il potere sovrano e la nuova vta Toino 995, segio da Homo sacer Il Stato d ecce zone Torno 2003. È proessore honors causa delle Unversà d d F Fborgo Buenos Ares e Ro de la Pata e Albes-Magns-Proessur dell'Un ves vesà d Colon
.
Con isttuzone della Catedra Borromn, un nsegnamento annuale d alto lvello nel campo degl stud stud umanstc - che s assegna a ntervall d due due ann a partre dall'anno accademco 20 12-20 13 - l'Unve l'Unverstà rstà della Svzze Svzzera ra talana, talana, I!ccade I!ccade ma d archtettura e l suo Isttuto d stora e teora dell'are e dell'archteura /SA) ntendono sotolneare l propro mpegno a favore delle scenze umane ntese n senso ampo e a sostegno del ruolo ntegrante che esse hanno svolto e contnua no a svolgere nella creazone arstca e archtetonca. Christoph Fank
Giorgo Agamben fi fillosofo osofo,, s laurea nel 1965 all'Unvesà d Roma con una es
s pensero potico d Smone Wel Negl ann Sessanta a Roma feqena nten samene Elsa Morane, Per Paoo Pasoln lngeborg Bachmann e paecipa a se mnai d ain Heidegger a Le Thor Neg anni Setanta siede a Paigi dove com pe sud d lngsca e d cla med evae evae,, srnge amcza con P ee Klossows e lalo Cavno. Nel 974-1975 svolge lavor d rcerca ala Bb bllota ota de Wabug lnsute d ondra e pepara l bro Stanze La parla e l antasma nella cultura oc cdentale (Torino 977 ornao n Ital dal 1978 dige pe Einaud ledzione delle mpot an manoscr Dal 986 Opere complete d Water Benjamn d c itova mpota al 1993 è Dreceur de pogramme al Coège lnernaonal de Phi losophe d Parig nsegna Eseca alUnversià d Macerata e allUnvesà d Veona e dal 2003 al 2009 è ordnaro aa Facoltà d A e Desgn dellUnversà UAV d Venez A patre dagl anni Novana lavora sla loso losoa a polca ed elabora na eora de apporo fa drto e vta e una crica del conceto di sovranà ( Homo sacer l Il potere sovrano e la nuova vta Toino 995, segio da Homo sacer Il Stato d ecce zone Torno 2003. È proessore honors causa delle Unversà d d F Fborgo Buenos Ares e Ro de la Pata e Albes-Magns-Proessur dell'Un ves vesà d Colon
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CATTEDRA BORROMINI 2012-2013
Università della Svizzera italiana Accademia di arhitettra Itituto toria e teoria de'ate e del del archtettura Cattedra Borromin
Giorgio Agamben Archeologia dell'opera
Direttore della cllana Chtph Fk Crdamento generale D T Cratela B tt
Coordinamento editoriale T: Ct Redaione Gb N Grafca e impaginazone ltt
Edzione fuor comeco e a tiaua lmiata.
© 2013 Acadia i aha, Mnisio Univeà della Sviea iaiaa
Mendriiso Academy Press Mendr
«Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.» Martin Heideger
Una voa Aber Aber Einsein, ne coneso di una a amosa mosa poemica con Nies Bohr e a sua meccanica quanisica, ha aermao di non credere «che Dio giochi a dadi»: agi occhi de ceebre auore dea eoria dea rea reaivià, ivià, 'universo appariva inai come un' archie ura ordinaa, defnia secondo "sii e eggi precise, quasi osse un ibro scrio «in ingua maemaica» maemaica» ( per usare un' immagine di Gaieo Gaiei) e composo da un sapiene demiurgo (per usarne una paonica). Sebbene e sperimenazioni successive abbiano sosanziamene dao ragione a Nies Bohr (che a coega avrebbe causticamene repicao: «non dire a Dio come deve giocare»), dimosrando che a reaà subaomica è caraerizzaa caraerizzaa daa casuaià, come fsico po sso comprendere i ascino subìo da Aber Einsein davani ala beezza dea maeria, dee sue orme, dee sue sruure: da gioco dei voumi in un crisao ae "voe di un campo magnico, dai "p aazzi disegnai dai egami ra aomi in moecoe compesse fno a cosmo con con e sue " vie, i suoi " quarier quarieri i in espansione, a sua enropia e i suoi miseri miseri di " cià infnia, scoprire quano aascinan aascinan
«Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire.» Martin Heideger
Una voa Aber Aber Einsein, ne coneso di una a amosa mosa poemica con Nies Bohr e a sua meccanica quanisica, ha aermao di non credere «che Dio giochi a dadi»: agi occhi de ceebre auore dea eoria dea rea reaivià, ivià, 'universo appariva inai come un' archie ura ordinaa, defnia secondo "sii e eggi precise, quasi osse un ibro scrio «in ingua maemaica» maemaica» ( per usare un' immagine di Gaieo Gaiei) e composo da un sapiene demiurgo (per usarne una paonica). Sebbene e sperimenazioni successive abbiano sosanziamene dao ragione a Nies Bohr (che a coega avrebbe causticamene repicao: «non dire a Dio come deve giocare»), dimosrando che a reaà subaomica è caraerizzaa caraerizzaa daa casuaià, come fsico po sso comprendere i ascino subìo da Aber Einsein davani ala beezza dea maeria, dee sue orme, dee sue sruure: da gioco dei voumi in un crisao ae "voe di un campo magnico, dai "p aazzi disegnai dai egami ra aomi in moecoe compesse fno a cosmo con con e sue " vie, i suoi " quarier quarieri i in espansione, a sua enropia e i suoi miseri miseri di " cià infnia, scoprire quano aascinan aascinan
te possa essee la c osa più semplice o quella più immensa conduce a domande che ano olte la scienza e chiamano in causa 'uomo (non è un caso ce Einstein osse inteessato aa flosofa e in pa ticolae a Spinoza. Ance l'achiteta, come la fsica, sa suggeie questo "ote: e ome, gli spazi e e oze ce modellano una stuttua o una città potano impessa imponta dell'umano, e mui, pasti, vote e vo lute si tasomao in un discoso sul nosto appoto con la natua e con i ceae, sue noste sfde ala gavità e aa tempoità, sulla nosta iceca de belezza. achitetto, dunue, non può imitasi ad essee un bavo tecnico, ma deve essere anche espeto di "cose umane: è popio pe questo ce l'Accdemia di achitettua de'Univesità dea Svizzea itaiana icosce da sempe ae scienze umane (daa stoia e teoia de'ate a fosofa, da'antopologia al'economia umana, dala geogafa uana ala cutua de teitoio) un uolo onda mentae nel poceso omativo, adopeandosi pe pomuovene a disione e a creita. La Catteda Bomini, un insegnamento di alto liveo ne campo degli studi umansici ce si as segna ogni due anni, appesenta un consoidamento di tae impegno e uno svuppo de caattee ua
nistico del'Accademia, confguandosi quale uteioe "mattone di una visione dell'achitettua che la vu ole distante da'essee (e da consideasi) niente più ce una tecnica. Istituita ne'anno accademico 20122013 al'inteo delle attività del nuovo Istituto di stoia e teoia de'ate e de'acitettua (ISA) , la Catteda Boomini è intitolata al celebe Fancesco, uno dei po tagonisti del Baocco. Oiginaio di Bissone, le conache accont ano che da intagliatoe di piete sia divenuto achitetto dopo ess esi "innamoato dele ome concepite da Michelangeo Buonaoti a San Pieto. l suo è dunque un pecoso atistico ed esistenziale che va olte gi aspetti tecnici de'acitettua pe diventae in qualce modo discoso osofco ntono a'umano. Tovo dunque paticolamente appopiato ch e a inauguae la Catteda dedicata a Fancesco Boo mini sia stato un losoo e un flosoo d'eccezione, Giogio Agamben, ce a saputo accompagnaci in un suggestivo cao dento l'opea de'uomo, aa iceca di quea capacità di leggea e abitaa ce è pesupposto pe costuia. Piero Martin oli
Pesidente Univesità dea Svzzea itaiana
te possa essee la c osa più semplice o quella più immensa conduce a domande che ano olte la scienza e chiamano in causa 'uomo (non è un caso ce Einstein osse inteessato aa flosofa e in pa ticolae a Spinoza. Ance l'achiteta, come la fsica, sa suggeie questo "ote: e ome, gli spazi e e oze ce modellano una stuttua o una città potano impessa imponta dell'umano, e mui, pasti, vote e vo lute si tasomao in un discoso sul nosto appoto con la natua e con i ceae, sue noste sfde ala gavità e aa tempoità, sulla nosta iceca de belezza. achitetto, dunue, non può imitasi ad essee un bavo tecnico, ma deve essere anche espeto di "cose umane: è popio pe questo ce l'Accdemia di achitettua de'Univesità dea Svizzea itaiana icosce da sempe ae scienze umane (daa stoia e teoia de'ate a fosofa, da'antopologia al'economia umana, dala geogafa uana ala cutua de teitoio) un uolo onda mentae nel poceso omativo, adopeandosi pe pomuovene a disione e a creita. La Catteda Bomini, un insegnamento di alto liveo ne campo degli studi umansici ce si as segna ogni due anni, appesenta un consoidamento di tae impegno e uno svuppo de caattee ua
nistico del'Accademia, confguandosi quale uteioe "mattone di una visione dell'achitettua che la vu ole distante da'essee (e da consideasi) niente più ce una tecnica. Istituita ne'anno accademico 20122013 al'inteo delle attività del nuovo Istituto di stoia e teoia de'ate e de'acitettua (ISA) , la Catteda Boomini è intitolata al celebe Fancesco, uno dei po tagonisti del Baocco. Oiginaio di Bissone, le conache accont ano che da intagliatoe di piete sia divenuto achitetto dopo ess esi "innamoato dele ome concepite da Michelangeo Buonaoti a San Pieto. l suo è dunque un pecoso atistico ed esistenziale che va olte gi aspetti tecnici de'acitettua pe diventae in qualce modo discoso osofco ntono a'umano. Tovo dunque paticolamente appopiato ch e a inauguae la Catteda dedicata a Fancesco Boo mini sia stato un losoo e un flosoo d'eccezione, Giogio Agamben, ce a saputo accompagnaci in un suggestivo cao dento l'opea de'uomo, aa iceca di quea capacità di leggea e abitaa ce è pesupposto pe costuia. Piero Martin oli
Pesidente Univesità dea Svzzea itaiana
Una elce concdenza ha voluto che, poco dopo la ondazone nel 20 1 1 dell'Isttuto d stora e teoria dell'arte e dell'archtettura pres so l'Accadema d archtettura con sede a Mendrso, un gesto d mecenatsmo llumnato permettesse al nostro isttuto d creare la Cattedra Borromn, e questo n una localtà a poch pass dal borgo dove nacque colu che molt rtengono geno archtettonico per eccellenza della sua epoca È dunque con proonda riconoscenza che va elogata l'eccezonale generostà de'anonmo donatore che ha permesso all'Accadema e all'Unverstà della Svzzera talana d mbarcars n questa ambzosa avventura Un'altra elce concdenza ha po voluto che flosoo talano Giorgio Agamben potesse accettare nostro nvto a rcoprre la cattedra naugurale nell'anno accademco 201213. E ch altr se non Agamben, uno de pù autorevoli pensatori e critc del nostro tempo, avrebbe potuto aprre le attvtà della cattedra arontando la grande questone Archeologia dell'opera? Una questone centrale non solo per no tutt e per quant s cmentano ne ca mp dea creatvtà, ma rlevante n partcolare per nostr student I semnar e le conerenze d Agamben rimarranno ndmenticabl per quant v hanno assstito Ma per coloro che non hanno potuto partecpare dal vivo all'llumnante eserczo ntellettuale
Una elce concdenza ha voluto che, poco dopo la ondazone nel 20 1 1 dell'Isttuto d stora e teoria dell'arte e dell'archtettura pres so l'Accadema d archtettura con sede a Mendrso, un gesto d mecenatsmo llumnato permettesse al nostro isttuto d creare la Cattedra Borromn, e questo n una localtà a poch pass dal borgo dove nacque colu che molt rtengono geno archtettonico per eccellenza della sua epoca È dunque con proonda riconoscenza che va elogata l'eccezonale generostà de'anonmo donatore che ha permesso all'Accadema e all'Unverstà della Svzzera talana d mbarcars n questa ambzosa avventura Un'altra elce concdenza ha po voluto che flosoo talano Giorgio Agamben potesse accettare nostro nvto a rcoprre la cattedra naugurale nell'anno accademco 201213. E ch altr se non Agamben, uno de pù autorevoli pensatori e critc del nostro tempo, avrebbe potuto aprre le attvtà della cattedra arontando la grande questone Archeologia dell'opera? Una questone centrale non solo per no tutt e per quant s cmentano ne ca mp dea creatvtà, ma rlevante n partcolare per nostr student I semnar e le conerenze d Agamben rimarranno ndmenticabl per quant v hanno assstito Ma per coloro che non hanno potuto partecpare dal vivo all'llumnante eserczo ntellettuale
di un gand floso docn, abbiamo dciso di accoglin l connz n qelo ch appsn a il pimo libo di una sei ch la Cada Boomini alimnà ni possimi anni. Un isiuo p a sia la oia dll'a dl'achiua com qullo nao n coso d una impoan scuola di achiua com la nosa di ndisio, psna caai ch lo disinguono da isiui simi, ti nll'ambio adizional di acoà di L flosofa o da poi di icca xaaccadmici. n noso uoo è in qualch mo più aicolao, il noso dialogo più dicil ch in consi seamn scinifci. Ma a nosa sponsabilià vso l u gneazioni iman nondimno inalaa. Com soici dll'a dll'achiua, ppsnani di una disciplina ch n'ulimo scolo a viso moli cambiamni nl'inpazion dl passao, abbiao conmao il noso inss ciico p lo sudio dl op lla bllzza, ch pò sbbo incompn sibil s insim non sudiassimo anch i podoi dlla buzza psino auni oo snza pcdni da soia. Fdo Dosovskij Iidiota a ponuncia a uno di poagonisi d omanzo uamazion ch a noi smba non av pso nulla dla sua prinnza: «Signoi, il pincip sosin ch saà la bzza a savae i mondo! Ma io dico ch adsso gi vngono
in mn qusi allgi pnsii pché è innamoao». È in quso snso ch l oz dll'Accadmia di achiua sanno ccando di lavoa insim p miglioa i consi in cui viviamo gli ambii con cui collaboiamo. I nosi ingaziamni di cuo vanno innanzi uo al'anonimo donao, mn com sponsabil di qusa si di pubbli cazioni è con gand piac ch vogio ingazia in odin alabico Coado Bologna, aio Boa, Anda C avalli, Maco Dlla To, Pio Mainoli, Buno Pdi, Vga Tscai Anoin Tun p il loo incssan sosgno afdabil sup poo , gaanio anch dai moli ali ch lavoano dio quin d'Accadmia. «Il caa è il dsino», dic il flosoo gco. Il mio psonal ingaziamno a Giogio Agambn non ha co bisogno di n asi. Christoph Frank Dio Isiuo di soia oia dll'a dll'achiua Accadmia di achiua Univsià dlla Svizza ialiana
di un gand floso docn, abbiamo dciso di accoglin l connz n qelo ch appsn a il pimo libo di una sei ch la Cada Boomini alimnà ni possimi anni. Un isiuo p a sia la oia dll'a dl'achiua com qullo nao n coso d una impoan scuola di achiua com la nosa di ndisio, psna caai ch lo disinguono da isiui simi, ti nll'ambio adizional di acoà di L flosofa o da poi di icca xaaccadmici. n noso uoo è in qualch mo più aicolao, il noso dialogo più dicil ch in consi seamn scinifci. Ma a nosa sponsabilià vso l u gneazioni iman nondimno inalaa. Com soici dll'a dll'achiua, ppsnani di una disciplina ch n'ulimo scolo a viso moli cambiamni nl'inpazion dl passao, abbiao conmao il noso inss ciico p lo sudio dl op lla bllzza, ch pò sbbo incompn sibil s insim non sudiassimo anch i podoi dlla buzza psino auni oo snza pcdni da soia. Fdo Dosovskij Iidiota a ponuncia a uno di poagonisi d omanzo uamazion ch a noi smba non av pso nulla dla sua prinnza: «Signoi, il pincip sosin ch saà la bzza a savae i mondo! Ma io dico ch adsso gi vngono
in mn qusi allgi pnsii pché è innamoao». È in quso snso ch l oz dll'Accadmia di achiua sanno ccando di lavoa insim p miglioa i consi in cui viviamo gli ambii con cui collaboiamo. I nosi ingaziamni di cuo vanno innanzi uo al'anonimo donao, mn com sponsabil di qusa si di pubbli cazioni è con gand piac ch vogio ingazia in odin alabico Coado Bologna, aio Boa, Anda C avalli, Maco Dlla To, Pio Mainoli, Buno Pdi, Vga Tscai Anoin Tun p il loo incssan sosgno afdabil sup poo , gaanio anch dai moli ali ch lavoano dio quin d'Accadmia. «Il caa è il dsino», dic il flosoo gco. Il mio psonal ingaziamno a Giogio Agambn non ha co bisogno di n asi. Christoph Frank Dio Isiuo di soia oia dll'a dll'achiua Accadmia di achiua Univsià dlla Svizza ialiana
Sommario
15
Archeoogia de'opera d'arte
29
Che cos'è lato di creazione?
45
Linappropriabie
69
Che cosè un comando?
85
n
98
Nota bibliografca
capitaismo come reigione
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Sommario
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Archeoogia de'opera d'arte
29
Che cos'è lato di creazione?
45
Linappropriabie
69
Che cosè un comando?
85
n
98
Nota bibliografca
capitaismo come reigione
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Archeologia de'opera d'arte
Lidea che guda queste me rilessoni sul concetto di opera d'arte è che larcheooga è a soa va di accesso a presente. È in questo senso che va nteso il titolo Archeologia dell'opera darte. Come ha suggerito Mche Foucault, lndagine sul passato non è che l'ombra portata di un'nterrogazione rivolta al presente. È cercando d com prendere presente che gli uomni- ameno noi uomin europe - c trovamo costrett a interrogare passato Ho precsato "no europei perché mi sembra che ammesso che la parola "Europa abba un senso esso comè ogg evidente non può essere né polit co né regioso e tanto meno economco ma consste forse n que sto, che 'uomo europeo a derenza ad esempo degli asatci e deg amercani per qual la stora e i passato hanno un signicato competamente diverso- può accedere ala sua verità soo attraver so un conronto co passato solo acendo conti con a sua storia. Molti ann fa un osofo che era anche un alto unzionario dellEu ropa nascente Alexandre Kojève soseneva che homo sapiens era gunto aa ne dea sua storia e non aveva orma davanti a sé che due possbità: laccesso a unanimatà poststorica (incarnato dal american way o/ lze) o o snobsmo ncaato da gapponesi che continuavano a celebrare e loro cerionie de tè svuotate però da ogni sgnicato storico) Tra un'America integralmente ranaiz
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Archeologia de'opera d'arte
Lidea che guda queste me rilessoni sul concetto di opera d'arte è che larcheooga è a soa va di accesso a presente. È in questo senso che va nteso il titolo Archeologia dell'opera darte. Come ha suggerito Mche Foucault, lndagine sul passato non è che l'ombra portata di un'nterrogazione rivolta al presente. È cercando d com prendere presente che gli uomni- ameno noi uomin europe - c trovamo costrett a interrogare passato Ho precsato "no europei perché mi sembra che ammesso che la parola "Europa abba un senso esso comè ogg evidente non può essere né polit co né regioso e tanto meno economco ma consste forse n que sto, che 'uomo europeo a derenza ad esempo degli asatci e deg amercani per qual la stora e i passato hanno un signicato competamente diverso- può accedere ala sua verità soo attraver so un conronto co passato solo acendo conti con a sua storia. Molti ann fa un osofo che era anche un alto unzionario dellEu ropa nascente Alexandre Kojève soseneva che homo sapiens era gunto aa ne dea sua storia e non aveva orma davanti a sé che due possbità: laccesso a unanimatà poststorica (incarnato dal american way o/ lze) o o snobsmo ncaato da gapponesi che continuavano a celebrare e loro cerionie de tè svuotate però da ogni sgnicato storico) Tra un'America integralmente ranaiz
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mentae (sebbene non registrato come t�e nei anuai di osoa) potrà rendere comprensibie i processo che secondo i noto pa radigma psicoanalitico de rito o de rimosso i forme patoogiche ha portato a pratica artistica ad assumere que caratteri che 'arte cosiddetta contemporanea ha estremizzato in forme inconsapevo mente parodiche. ( arte contemporanea come rtorno in forme patoogice de rimosso "opera ) . Non è certo questo i uogo per tentare una siie geneaogia. Mi imito piuttosto a presentare quache riessioe su tre momenti che mi sembrano particoarmente signicativi. Occorrerà, per i primo, che vi spostiate nea recia cassica, grosso modo al tempo di Aristotee, cioè ne I secoo prima di Cristo. Qual è a situazione de'opera d 'arte e, più i generae, de' ope ra e del'artista in questo momento? Assai diversa da quea a cui siamo abituati. artista, come ogni atro artigiano, è cassicato fra i technitaz cioè fra coloro che, praticando una ecnica, producono cose. L a sua attività non è però mai presa in conto come tae, ma è sempre e sotanto consider ata da punto di vist de'opera pro dot ta. Ciò è testimoniato con evidenza da fatto, sorprendente per gi storici del diritto, che i contratto che egi stipua con i committente non menziona mai a quantità di avoro necessaria, ma soo l'opera che egi deve fornire. Per questo gi storici moderni sono soiti ripetere che i nostro co ncetto di avoro o di attivtà produttiva è de tutto sconosciuto ai Greci, che mancano pern di un termine per esso. Io credo che si dovrebbe dire, più precisamente, come vedremo, che essi non distinguono il avoro e 'attiità produttiva da ' opera, perché, ai oro occhi, 'attività produttva risiede ne'opera e non ne'artista che 'ha prodotta. Vi è un passo di Arstotee in cui tutto ciò è esresso con carez za. n passo si trova ne ibro theta dea Metafica che è dedicato a probema dea potenza (dynamis) e de'atto energeia). n termi
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ne energeia è un'invenzione di Aristotee i oso, come i poeti, hanno bisogno di creare dee parole e la terminoogia, è stato detto a ragione, è l'eemento poetico de pensiero ma, per un orecchio greco, esso è immediatamente inteligibile. "Opera, attività si di ce in greco ergon e 'aggettivo energos signica "attivo, operante: energeia signica allora che quacosa è "in opera, attività, ne senso che ha raggiunto i suo ne proprio, 'operazione a cui è de stinata. Cur iosamente, per denire 'opposizione fra potenza e atto, dynamis e energeia Aristotee si serve di un esempio tratto proprio daa sfera che noi deniremmo artistica: Hermes, egli dice, è in potenza ne egno non ancora scopito, è invece in opera nea statua scopita. opera d'arte appartiene, cioè, costitutivamente aa sfera de' energeia a quae, d'altra parte, rimanda ne suo stesso nome a un essereinopera. E qui comincia passo ( 050a 2 1 ) che m'interessa eggere insieme con voi. n ne, i telos egi scrive è l' ergon 'opera, e 'opera è energeia operazione e essereinopera: infatti i termine energeia deriva da ergon e tende perciò verso a compiutezza, ' entelecheia (un atro termine forgiato da Aristotee: i possedersi nel proprio ne) . Vi sono però dei casi in cui il ne utimo si esaurisce nel'uso , come nea vista (ops, a facotà di vedere) e nea visione ('atto de vedere, oras) in cui otre aa visione non si produce nu'atro; vi sono, invece, atri casi in cui si produce quacos'atro, come, ad esempio, da'arte di costruire (oikodomze) otre a'operazione de costruire (oikodomesis) si produce anche a casa . . . In questi casi, 'atto de costruire, ' ozodmesis risiede nea cosa costruita (en toi oikodomoumenoi) essa viene in essere (gignetaz; si genera) ed è insieme aa casa. In tutti i casi, cioè, in cui viene prodotto quacos'atro otre a'uso , l' energeia risiede nela cosa fatta (en toi poioumenoi) come l'atto de costruire è nea casa costruita e 'atto di tessere nel tessuto. Quando, invece, non vi è un atro ergon, un'altra opera otre a' energeù aora ' energeia 'essereinopera,
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mentae (sebbene non registrato come t�e nei anuai di osoa) potrà rendere comprensibie i processo che secondo i noto pa radigma psicoanalitico de rito o de rimosso i forme patoogiche ha portato a pratica artistica ad assumere que caratteri che 'arte cosiddetta contemporanea ha estremizzato in forme inconsapevo mente parodiche. ( arte contemporanea come rtorno in forme patoogice de rimosso "opera ) . Non è certo questo i uogo per tentare una siie geneaogia. Mi imito piuttosto a presentare quache riessioe su tre momenti che mi sembrano particoarmente signicativi. Occorrerà, per i primo, che vi spostiate nea recia cassica, grosso modo al tempo di Aristotee, cioè ne I secoo prima di Cristo. Qual è a situazione de'opera d 'arte e, più i generae, de' ope ra e del'artista in questo momento? Assai diversa da quea a cui siamo abituati. artista, come ogni atro artigiano, è cassicato fra i technitaz cioè fra coloro che, praticando una ecnica, producono cose. L a sua attività non è però mai presa in conto come tae, ma è sempre e sotanto consider ata da punto di vist de'opera pro dot ta. Ciò è testimoniato con evidenza da fatto, sorprendente per gi storici del diritto, che i contratto che egi stipua con i committente non menziona mai a quantità di avoro necessaria, ma soo l'opera che egi deve fornire. Per questo gi storici moderni sono soiti ripetere che i nostro co ncetto di avoro o di attivtà produttiva è de tutto sconosciuto ai Greci, che mancano pern di un termine per esso. Io credo che si dovrebbe dire, più precisamente, come vedremo, che essi non distinguono il avoro e 'attiità produttiva da ' opera, perché, ai oro occhi, 'attività produttva risiede ne'opera e non ne'artista che 'ha prodotta. Vi è un passo di Arstotee in cui tutto ciò è esresso con carez za. n passo si trova ne ibro theta dea Metafica che è dedicato a probema dea potenza (dynamis) e de'atto energeia). n termi
ne energeia è un'invenzione di Aristotee i oso, come i poeti, hanno bisogno di creare dee parole e la terminoogia, è stato detto a ragione, è l'eemento poetico de pensiero ma, per un orecchio greco, esso è immediatamente inteligibile. "Opera, attività si di ce in greco ergon e 'aggettivo energos signica "attivo, operante: energeia signica allora che quacosa è "in opera, attività, ne senso che ha raggiunto i suo ne proprio, 'operazione a cui è de stinata. Cur iosamente, per denire 'opposizione fra potenza e atto, dynamis e energeia Aristotee si serve di un esempio tratto proprio daa sfera che noi deniremmo artistica: Hermes, egli dice, è in potenza ne egno non ancora scopito, è invece in opera nea statua scopita. opera d'arte appartiene, cioè, costitutivamente aa sfera de' energeia a quae, d'altra parte, rimanda ne suo stesso nome a un essereinopera. E qui comincia passo ( 050a 2 1 ) che m'interessa eggere insieme con voi. n ne, i telos egi scrive è l' ergon 'opera, e 'opera è energeia operazione e essereinopera: infatti i termine energeia deriva da ergon e tende perciò verso a compiutezza, ' entelecheia (un atro termine forgiato da Aristotee: i possedersi nel proprio ne) . Vi sono però dei casi in cui il ne utimo si esaurisce nel'uso , come nea vista (ops, a facotà di vedere) e nea visione ('atto de vedere, oras) in cui otre aa visione non si produce nu'atro; vi sono, invece, atri casi in cui si produce quacos'atro, come, ad esempio, da'arte di costruire (oikodomze) otre a'operazione de costruire (oikodomesis) si produce anche a casa . . . In questi casi, 'atto de costruire, ' ozodmesis risiede nea cosa costruita (en toi oikodomoumenoi) essa viene in essere (gignetaz; si genera) ed è insieme aa casa. In tutti i casi, cioè, in cui viene prodotto quacos'atro otre a'uso , l' energeia risiede nela cosa fatta (en toi poioumenoi) come l'atto de costruire è nea casa costruita e 'atto di tessere nel tessuto. Quando, invece, non vi è un atro ergon, un'altra opera otre a' energeù aora ' energeia 'essereinopera,
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risiederà nei soggetti stessi, come, ad esempio , a visione ne veden te e a contempazione (a theoria cioè a conoscenza più alta) ne contempante e a vita nel'anima . Soffermiamoci un momento su questo passo straordinario. Comprendiamo ora megio perché i Greci priviegiassero 'opera rispetto a'artista (o a'artigiano). Nee attività che producono quacosa, ' energeia 'attività produttiva vera e proria non risiede, per quanto questo possa sorprenderi, ne'artista, a ne'opera ' operazione di costruire nea casa e 'atto di tessere ne tessuto. E comprendiamo anche perché i Greci non potessero tenere in mota stima l'artista. Ment re la contempazione, 'atto dea conoscenza è ne contempante, 'artista è un es sere che ha i suo ne, i suo tels ori di sé, ne'opera. Egi è, cioè, un essere costitutivamente incompiuto, che non possiede mai i suo telos che manca di entelecheia. Per questo i Greci consideravano i technites come un banausos, ter mine che indica una persona da poco, non proprio decorosa. Ciò non signica, ovviamente, che essi non fossero in grado di vedere a differenza fra un cazoaio e Fidia: ma, ai oro occhi, essi avevano entrambi i oro ne fuori di essi, nea scarpa i primo e nee statue de Partenone i secondo; in ogni caso, a oro energeia non gi apparteneva. n probema non era, cioè, estetico, ma metasic. Accanto ae attività che producono opere , ve ne sono atre senz' opera che Aristotee esempica, come abbiamo visto, nea visione e nea conoscenza in cui ' energeia è invece ne soggetto stesso. Va da sé che queste sono, per un greco, superiori ae atre, ancora una volta, non perché essi non fossero in grado di apprezzare 'impor tanza dee opere d'arte rispetto aa conoscenza e a pensiero, ma perché nee attività improduttive, com'è appunto i pensiero (a theoria) i soggetto possiede perfettamente i suo ne. op era, ' er gon è invece, in quache modo, un intracio che espropria 'agente dea sua energeia che risiede non in ui, ma nel'opera. La prassi, 'azione che ha in se stessa i suo ne, è per questo, come Aristte
e non si stanca di ribad ire, in quache modo superiore aa poiesis a'attività produttiva, cui ne è ne'opera. energeia ' operazione perfetta, è senz'opera e ha i suo uogo ne'agente. (Gi antichi distinguevano coerentemente e artes in e/ectu come a pittura e a scutura, che producono una cosa, dale artes actuosae come a danza e i mimo, che si es auriscono nea oro esecuzione). Mi sebra che questa concezione de'agire umano contenga in sé i gere di un'aporia, che concerne i uogo proprio de' energeia umana, che in un caso nea poies- risiede ne'opera e ne'atro ne'agente. Che si tratti di un probema non trascurabie, o che comunque Aristotee non considerava tae, è testimoniato da un passo d'Etica nicomachea in cui il osofo si chiede se esista quacosa come un ergon un'opera che denisca 'uomo come tae, ne senso in cui 'opera de cazoaio è fare la scarpa, 'opera de autista suonare i auto e quea de'architetto costruire a casa. Oppure, si chiede Aristotee, dovremmo dire che mentre cazoaio, i autista e 'architetto hanno ciascuno a oro opera, l'uomo come tae è, invece, nato senz'opera? Aristotee ascia subito cadere quest'ipotesi, che a me pare interessantissima, e risponde che 'opera del'uomo è 'energeia de'anima secondo logos cioè, ancora una vota, un 'attività senz' opera, o in c ui 'opera coincide co n i suo stesso eserc izio, perché è sempre già inopera. Ma, potremmo chiedere, che ne è allora de cazoaio, de autista, de'artista, insomma de'uomo in quanto technites e costruttore di oggetti? S arà egi un essere con dannato aa scissione, perché vi saranno in ui due opere diverse, una che gi compete in quanto uomo e un'atra, esteriore, che gi compete in quanto produttore? Se confrontiamo questa concezione de'opera d 'arte con la nostra, possiamo dire che ciò che ci separa dai Greci è che, a un certo punto, attraverso un ento processo i cui inizi possiamo far coincidere co Rinascimento, 'arte è uscita daa sfera dee attività che hanno a oro energeia fuori di esse, in un'opera, e si è spostata ne'ambi
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risiederà nei soggetti stessi, come, ad esempio , a visione ne veden te e a contempazione (a theoria cioè a conoscenza più alta) ne contempante e a vita nel'anima . Soffermiamoci un momento su questo passo straordinario. Comprendiamo ora megio perché i Greci priviegiassero 'opera rispetto a'artista (o a'artigiano). Nee attività che producono quacosa, ' energeia 'attività produttiva vera e proria non risiede, per quanto questo possa sorprenderi, ne'artista, a ne'opera ' operazione di costruire nea casa e 'atto di tessere ne tessuto. E comprendiamo anche perché i Greci non potessero tenere in mota stima l'artista. Ment re la contempazione, 'atto dea conoscenza è ne contempante, 'artista è un es sere che ha i suo ne, i suo tels ori di sé, ne'opera. Egi è, cioè, un essere costitutivamente incompiuto, che non possiede mai i suo telos che manca di entelecheia. Per questo i Greci consideravano i technites come un banausos, ter mine che indica una persona da poco, non proprio decorosa. Ciò non signica, ovviamente, che essi non fossero in grado di vedere a differenza fra un cazoaio e Fidia: ma, ai oro occhi, essi avevano entrambi i oro ne fuori di essi, nea scarpa i primo e nee statue de Partenone i secondo; in ogni caso, a oro energeia non gi apparteneva. n probema non era, cioè, estetico, ma metasic. Accanto ae attività che producono opere , ve ne sono atre senz' opera che Aristotee esempica, come abbiamo visto, nea visione e nea conoscenza in cui ' energeia è invece ne soggetto stesso. Va da sé che queste sono, per un greco, superiori ae atre, ancora una volta, non perché essi non fossero in grado di apprezzare 'impor tanza dee opere d'arte rispetto aa conoscenza e a pensiero, ma perché nee attività improduttive, com'è appunto i pensiero (a theoria) i soggetto possiede perfettamente i suo ne. op era, ' er gon è invece, in quache modo, un intracio che espropria 'agente dea sua energeia che risiede non in ui, ma nel'opera. La prassi, 'azione che ha in se stessa i suo ne, è per questo, come Aristte
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e non si stanca di ribad ire, in quache modo superiore aa poiesis a'attività produttiva, cui ne è ne'opera. energeia ' operazione perfetta, è senz'opera e ha i suo uogo ne'agente. (Gi antichi distinguevano coerentemente e artes in e/ectu come a pittura e a scutura, che producono una cosa, dale artes actuosae come a danza e i mimo, che si es auriscono nea oro esecuzione). Mi sebra che questa concezione de'agire umano contenga in sé i gere di un'aporia, che concerne i uogo proprio de' energeia umana, che in un caso nea poies- risiede ne'opera e ne'atro ne'agente. Che si tratti di un probema non trascurabie, o che comunque Aristotee non considerava tae, è testimoniato da un passo d'Etica nicomachea in cui il osofo si chiede se esista quacosa come un ergon un'opera che denisca 'uomo come tae, ne senso in cui 'opera de cazoaio è fare la scarpa, 'opera de autista suonare i auto e quea de'architetto costruire a casa. Oppure, si chiede Aristotee, dovremmo dire che mentre cazoaio, i autista e 'architetto hanno ciascuno a oro opera, l'uomo come tae è, invece, nato senz'opera? Aristotee ascia subito cadere quest'ipotesi, che a me pare interessantissima, e risponde che 'opera del'uomo è 'energeia de'anima secondo logos cioè, ancora una vota, un 'attività senz' opera, o in c ui 'opera coincide co n i suo stesso eserc izio, perché è sempre già inopera. Ma, potremmo chiedere, che ne è allora de cazoaio, de autista, de'artista, insomma de'uomo in quanto technites e costruttore di oggetti? S arà egi un essere con dannato aa scissione, perché vi saranno in ui due opere diverse, una che gi compete in quanto uomo e un'atra, esteriore, che gi compete in quanto produttore? Se confrontiamo questa concezione de'opera d 'arte con la nostra, possiamo dire che ciò che ci separa dai Greci è che, a un certo punto, attraverso un ento processo i cui inizi possiamo far coincidere co Rinascimento, 'arte è uscita daa sfera dee attività che hanno a oro energeia fuori di esse, in un'opera, e si è spostata ne'ambi
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Laach nì con l'essere denito liturgische Bewegung, proprio come molte avanguardie di quegli anni si qualicavano come " movimenti artistici o letterari. accostamento fra la prati ca delle avanguardie e la liturgia, fra mo vimenti artistici e movimento liturgico non è pretestuoso . Alla base della dottrina di Case sta infatti l'idea che la liturgia (si noti che termine greco leourgia signica " opera, prestazione pubblica , da las, "popolo, e ergon) sia essenzialmente un "mistero Mistero non signica però, in alcun modo, secondo Case, insegnamento nascosto o dottrna segreta. In origine, come nei miseri eleusini che si celebravano nella Grecia lassica, mistero signica una prassi , una sorta di azione teatrale, fatta di gesti e parole che si compiono nel tempo e nel mondo per la salvezza degli uomini. T cristianesimo non è, in questo senso, una "religione o una " confessione nel senso moderno del termine, cioè un insieme di verità e di dogmi che si tratta di riconoscere e di professare: è, invece, un "mistero, cioè una actio liturgica, una performance, i cui attori sono Cristo e suo corpo mistico, cioè la Chiesa. E quest'azione è, sì, una prassi speciale ma, insieme, essa denisce l'attività umana più universale e più vera, in cui è in gioco la salvezza di colui che la compie e di coloro che vi partecipano. La liturgia cessa, in questa prospettiva, di apparire come la celebrazione di un rito esteriore, che ha altrove (nella fede e nel dogma) la sua verità: al contrario, solo nel compi mento hic et n un di questa azione assolutamente performativa, che realizza ogni volta ciò che signica, credente può trovare la sua verità e la sua salvezza. Secondo Case, infatti, la liturgia (ad esempio, la celebrazione del sacricio eucaristico nella messa) non è una "rappresentazione o una "commemorazione dell'evento salvico: è essa stessa l'evento. Non si tratta, cioè, di una rappresentazione in senso mimetico, ma di una (ri)presentazione in cui l'azione salvica (lo Heilstat) di Cri sto è resa eettivamente presente attraverso i simboli e le immagini
che la signicano. Per questo, l' azione liturgica agisce, come si dice, ex opere operato, cioè per fatto stesso di essere compiuta in quel momento e in quel luogo, indipendentemente dalle qualità morali del celebrante (anche se questi fosse un criminale se, a d esempio, battezzass e una donna con l'intenzione di farle violenza l'atto liturgico non perderebbe per questo la sua validità). È a partire da questa concezione " misterica della religione che vorrei proporvi l'ipotesi che fra l'azione sacra della liturgia e la prassi delle avanguarde artistche e dell'are etta contemporanea vi sia qualcosa di più che una semplice analogia. Una speciale attenzone per la liturgia da parte degli artisti era già apparsa negli timi decenni del XIX secolo, in particolare in quei movimenti artistici e letterari che si deniscono solitamente con i termini quanto mai vaghi di "simbolismo , " estetismo , " decadentismo . Di pari passo al processo che, con la pra apparizione dell'industria culturale, respinge i seguaci di un'arte pura verso i margini della produzione sociale, artisti e poeti (basti, per questi ultimi, fare nome di Mallarmé) cominciano a guardare alla loro pratica come alla celebrazione di una liturgia liturgia nel senso proprio del termine, in quanto comporta tanto una dimensione soteriologica, in cui sembra essere in questione la salvezza spirituale de'artista , quanto una dimensione performativa, in cui l'attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale, svincolato da ogni signicato sociale ed efcace per semplice fatto d essere celebrato. In ogni caso è anche e proprio questo secondo aspetto che viene ripreso con decisione dae avanguardie del Novecento, che di quei movimenti costituiscono una estremizzazione radicale e, talvolta, una parodia. Credo di non enunciare nulla di stravagante suggerendo l'ipotesi che le avanguardie e le loro derive contemporanee guadagnino a essere lette come la lucida e spesso consapevole ripresa di un paradigma ess enzialmente liturgico. Come, secondo Case, la celebrazione liturgica non è un'imitazione
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Laach nì con l'essere denito liturgische Bewegung, proprio come molte avanguardie di quegli anni si qualicavano come " movimenti artistici o letterari. accostamento fra la prati ca delle avanguardie e la liturgia, fra mo vimenti artistici e movimento liturgico non è pretestuoso . Alla base della dottrina di Case sta infatti l'idea che la liturgia (si noti che termine greco leourgia signica " opera, prestazione pubblica , da las, "popolo, e ergon) sia essenzialmente un "mistero Mistero non signica però, in alcun modo, secondo Case, insegnamento nascosto o dottrna segreta. In origine, come nei miseri eleusini che si celebravano nella Grecia lassica, mistero signica una prassi , una sorta di azione teatrale, fatta di gesti e parole che si compiono nel tempo e nel mondo per la salvezza degli uomini. T cristianesimo non è, in questo senso, una "religione o una " confessione nel senso moderno del termine, cioè un insieme di verità e di dogmi che si tratta di riconoscere e di professare: è, invece, un "mistero, cioè una actio liturgica, una performance, i cui attori sono Cristo e suo corpo mistico, cioè la Chiesa. E quest'azione è, sì, una prassi speciale ma, insieme, essa denisce l'attività umana più universale e più vera, in cui è in gioco la salvezza di colui che la compie e di coloro che vi partecipano. La liturgia cessa, in questa prospettiva, di apparire come la celebrazione di un rito esteriore, che ha altrove (nella fede e nel dogma) la sua verità: al contrario, solo nel compi mento hic et n un di questa azione assolutamente performativa, che realizza ogni volta ciò che signica, credente può trovare la sua verità e la sua salvezza. Secondo Case, infatti, la liturgia (ad esempio, la celebrazione del sacricio eucaristico nella messa) non è una "rappresentazione o una "commemorazione dell'evento salvico: è essa stessa l'evento. Non si tratta, cioè, di una rappresentazione in senso mimetico, ma di una (ri)presentazione in cui l'azione salvica (lo Heilstat) di Cri sto è resa eettivamente presente attraverso i simboli e le immagini
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che la signicano. Per questo, l' azione liturgica agisce, come si dice, ex opere operato, cioè per fatto stesso di essere compiuta in quel momento e in quel luogo, indipendentemente dalle qualità morali del celebrante (anche se questi fosse un criminale se, a d esempio, battezzass e una donna con l'intenzione di farle violenza l'atto liturgico non perderebbe per questo la sua validità). È a partire da questa concezione " misterica della religione che vorrei proporvi l'ipotesi che fra l'azione sacra della liturgia e la prassi delle avanguarde artistche e dell'are etta contemporanea vi sia qualcosa di più che una semplice analogia. Una speciale attenzone per la liturgia da parte degli artisti era già apparsa negli timi decenni del XIX secolo, in particolare in quei movimenti artistici e letterari che si deniscono solitamente con i termini quanto mai vaghi di "simbolismo , " estetismo , " decadentismo . Di pari passo al processo che, con la pra apparizione dell'industria culturale, respinge i seguaci di un'arte pura verso i margini della produzione sociale, artisti e poeti (basti, per questi ultimi, fare nome di Mallarmé) cominciano a guardare alla loro pratica come alla celebrazione di una liturgia liturgia nel senso proprio del termine, in quanto comporta tanto una dimensione soteriologica, in cui sembra essere in questione la salvezza spirituale de'artista , quanto una dimensione performativa, in cui l'attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale, svincolato da ogni signicato sociale ed efcace per semplice fatto d essere celebrato. In ogni caso è anche e proprio questo secondo aspetto che viene ripreso con decisione dae avanguardie del Novecento, che di quei movimenti costituiscono una estremizzazione radicale e, talvolta, una parodia. Credo di non enunciare nulla di stravagante suggerendo l'ipotesi che le avanguardie e le loro derive contemporanee guadagnino a essere lette come la lucida e spesso consapevole ripresa di un paradigma ess enzialmente liturgico. Come, secondo Case, la celebrazione liturgica non è un'imitazione
o una rappresenazione dell'evento salvico, ma è es sa stessa l' even to, ao stesso o do, ciò che denisce la prassi delle avanguardie del Novecento e dee loro derive contemporanee è il deciso abband ono del paradiga mimeticorapp resentativo in nome di una pretesa genuinamene ragmatica azione dell'artista si emancipa dal suo tradizional e e produttivo o riproduttivo e diventa una performan ce assoluta, un ura "liturgia che coincide con la propria celebra zione ed è efce ex opere operato e non per le qualità intellettuali o morali dell'arsta. In un celebre aso l'Etica nicomachea, Aristotele aveva distinto i fare (poiesis), ce mira a un ne esterno (la produzione di un ' opera) , dall'agire (axis, che ha in se stesso (nell'agir bene) i l suo ne Fra questi due odelli, liturgia e performance insinuano un ibrido terzo, in cui l'azne stessa pretende di presenarsi come opera A questo punto per terzo momento di questa mia sommaria archeologia, vi into a spostarvi a New York intorno al 1916. Qui un signore che on saprei come denire, forse un monaco come Case, in qualce modo un asceta, certamente non un artista , di no me Marcel Ducamp inventa ready-made. Come aveva compreso Giovanni Urbai, Duchamp, proponendo quegli atti esistenziali (e non opere d'arte) che sono i ready-made, sapeva perfettamente di non operare coe artista. Sapeva anche che la strada dell'arte era sbarrata da un stacolo insormontabile, che era l'arte stessa, ormai costituita dal'estetica come una realtà autonoma. Nei termini d questa archeogia, io direi che Duchamp aveva capito che ciò che bloccava l'ate era proprio quella che ho denito la macchina artistica, che aa raggiunto nea liturgia delle avanguardie la sua massa critica. Che cosa fa Duchamp pe r far esplodere o almeno disattivare la macchina operaartitaoperazione? Egli prende un qualsiasi oggetto d'us o, magari un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza
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a presentarsi come un'opera d'arte Naturalmente tranne che per il breve istante che dura l'eetto dell'estraneazione e della sorpresa in realtà nulla viene qui alla presenza: non l'opera, perché si tratta di un oggetto d'uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l'operazione artisti ca, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione, e nemmeno l' artista, p erché colui che sigla con un ironico nome fal so l'orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come losofo o critico o, come amava dire Duchamp, come «uno che respira», un semplice vivente. n ready-made non ha più luogo, né nell'opera né nell'artista, né ne'ergon né nellenergeia, ma soltanto nel museo, che acquista a questo punto un rango e un valore decisivo. Come sapete, quel che poi è avenuto è che una congrega, purt rop po tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il rea dymade in opera d' arte Non che essi siano riusciti a rimettere vera mente in moto la macchina artistica questa, gira ormai a vuoto , ma la parenza di un movimento riesce ad alimentare, io credo non per molto tempo ancora, quei templi dell'a ssurdo che sono i musei d'arte contemporanea Non intendo dire che l'arte contemporanea o, se volete, l'arte postDuchamp non abbia interesse. contrario, ciò che in essa viene alla luce è forse l'evento più interessante che si po ssa immagi nare: l'apparire del conitto storico, in ogni senso decisivo, fra arte e opera, energeia e ergon La mia critica, se di critica si può parlare, si rivolge alla perfetta irresponsabilità con cui molto spesso artisti e curatori eludono il confronto con questo evento e ngono che tutto continui come prima
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Vorrei ora concludere la mia breve archeologia dell'opera d'arte suggerendovi di abbandonare la macchina artistica al suo destino. E, con essa, di abbandonare anche l'idea che vi sia qualcosa come una suprema attività umana che, tramite un soggetto, si realizza in un'opera o in un'energeia che traggono da essa il loro incomparabi
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o una rappresenazione dell'evento salvico, ma è es sa stessa l' even to, ao stesso o do, ciò che denisce la prassi delle avanguardie del Novecento e dee loro derive contemporanee è il deciso abband ono del paradiga mimeticorapp resentativo in nome di una pretesa genuinamene ragmatica azione dell'artista si emancipa dal suo tradizional e e produttivo o riproduttivo e diventa una performan ce assoluta, un ura "liturgia che coincide con la propria celebra zione ed è efce ex opere operato e non per le qualità intellettuali o morali dell'arsta. In un celebre aso l'Etica nicomachea, Aristotele aveva distinto i fare (poiesis), ce mira a un ne esterno (la produzione di un ' opera) , dall'agire (axis, che ha in se stesso (nell'agir bene) i l suo ne Fra questi due odelli, liturgia e performance insinuano un ibrido terzo, in cui l'azne stessa pretende di presenarsi come opera A questo punto per terzo momento di questa mia sommaria archeologia, vi into a spostarvi a New York intorno al 1916. Qui un signore che on saprei come denire, forse un monaco come Case, in qualce modo un asceta, certamente non un artista , di no me Marcel Ducamp inventa ready-made. Come aveva compreso Giovanni Urbai, Duchamp, proponendo quegli atti esistenziali (e non opere d'arte) che sono i ready-made, sapeva perfettamente di non operare coe artista. Sapeva anche che la strada dell'arte era sbarrata da un stacolo insormontabile, che era l'arte stessa, ormai costituita dal'estetica come una realtà autonoma. Nei termini d questa archeogia, io direi che Duchamp aveva capito che ciò che bloccava l'ate era proprio quella che ho denito la macchina artistica, che aa raggiunto nea liturgia delle avanguardie la sua massa critica. Che cosa fa Duchamp pe r far esplodere o almeno disattivare la macchina operaartitaoperazione? Egli prende un qualsiasi oggetto d'us o, magari un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza
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a presentarsi come un'opera d'arte Naturalmente tranne che per il breve istante che dura l'eetto dell'estraneazione e della sorpresa in realtà nulla viene qui alla presenza: non l'opera, perché si tratta di un oggetto d'uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l'operazione artisti ca, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione, e nemmeno l' artista, p erché colui che sigla con un ironico nome fal so l'orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come losofo o critico o, come amava dire Duchamp, come «uno che respira», un semplice vivente. n ready-made non ha più luogo, né nell'opera né nell'artista, né ne'ergon né nellenergeia, ma soltanto nel museo, che acquista a questo punto un rango e un valore decisivo. Come sapete, quel che poi è avenuto è che una congrega, purt rop po tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il rea dymade in opera d' arte Non che essi siano riusciti a rimettere vera mente in moto la macchina artistica questa, gira ormai a vuoto , ma la parenza di un movimento riesce ad alimentare, io credo non per molto tempo ancora, quei templi dell'a ssurdo che sono i musei d'arte contemporanea Non intendo dire che l'arte contemporanea o, se volete, l'arte postDuchamp non abbia interesse. contrario, ciò che in essa viene alla luce è forse l'evento più interessante che si po ssa immagi nare: l'apparire del conitto storico, in ogni senso decisivo, fra arte e opera, energeia e ergon La mia critica, se di critica si può parlare, si rivolge alla perfetta irresponsabilità con cui molto spesso artisti e curatori eludono il confronto con questo evento e ngono che tutto continui come prima
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le valore. Ciò implica che si disegni da apo la mappa dello spazio in cui la modernità ha situato soggetto e le sue facoltà. Artista o poeta non è colui che ha la potenza o facoltà di creare, che un bel giorno, attraverso un atto di volontà o obbedendo a un'ingiunzione divina (la volontà è, nella cultura occidentale, dispositivo che permette di attribuire le azioni e le tecniche in proprietà a un soggetto), d ecide, come Dio dei teologi, non si sa come e perché, di mettere in opera. E, come poeta e pittore, così falegname, calzolaio, autista e, ine, ogni uomo, on sono i titolari trascen deti di una capacità di agire o di produrre opere: sono, piuttosto, dei viventi che, nell'uso e soltanto nell'uso delle loro membra come del mondo che li circonda, fanno esperienza di sé e costituiscono s é come forme di vita. Larte non è che modo in cui l'anonimo che chiamiamo artista mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del falegname, dell'architetto, del contrabbassista, in cui, come in ogni forma divita, è in questione nulla di meno che la sua felicità.
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Vorrei ora concludere la mia breve archeologia dell'opera d'arte suggerendovi di abbandonare la macchina artistica al suo destino. E, con essa, di abbandonare anche l'idea che vi sia qualcosa come una suprema attività umana che, tramite un soggetto, si realizza in un'opera o in un'energeia che traggono da essa il loro incomparabi
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Che cos'è l'ato di creazone?
Il titolo di questa mia lezione riprende quello di una conferenza che Gilles Deleuze tenne a Parigi nel marzo del 1987. Se vi è ca pitato di vedere il bel video che ne è st ato tratto, ricorderete che Deleuze denisce l'atto di creazione come un «atto di resistenza». Resistenza alla morte, innanzitutto, ma resistenza anche al paradigma dell'informazione attraverso il quale il potere si esercita in quelle che Deleuze, per distinguerle dalle «società di disciplina» analizzate da Foucault, chiama «società di controllo». Ogni atto di creazione resiste a qualcosa: per esempio, dice Deleuze, la musica di Bach è un atto di resistenza contro la separazione del sacro e del profano. Come vedete, Deleuze non denisce che cosa signichi resistere e sembra dare al termine signicato corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna . N ella conversazione sua parola "resistenza nell', Deleuze aggiunge, a proposito dell'opera d'arte, che resistere signica sempre liberare una potenza di vita che era stata imprigionata o oesa; anche qui, tuttavia, manca una vera denizione de'atto di creazione come atto di resistenza. Dopo tanti anni passati a leggere, scrivere e studiare, capit a, a vol te, di capire che cosa facciamo, qual è nostro modo speciale, se ve n' è uno, di procedere nel pensiero e nela ricerca. Io ho capito che
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le valore. Ciò implica che si disegni da apo la mappa dello spazio in cui la modernità ha situato soggetto e le sue facoltà. Artista o poeta non è colui che ha la potenza o facoltà di creare, che un bel giorno, attraverso un atto di volontà o obbedendo a un'ingiunzione divina (la volontà è, nella cultura occidentale, dispositivo che permette di attribuire le azioni e le tecniche in proprietà a un soggetto), d ecide, come Dio dei teologi, non si sa come e perché, di mettere in opera. E, come poeta e pittore, così falegname, calzolaio, autista e, ine, ogni uomo, on sono i titolari trascen deti di una capacità di agire o di produrre opere: sono, piuttosto, dei viventi che, nell'uso e soltanto nell'uso delle loro membra come del mondo che li circonda, fanno esperienza di sé e costituiscono s é come forme di vita. Larte non è che modo in cui l'anonimo che chiamiamo artista mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del falegname, dell'architetto, del contrabbassista, in cui, come in ogni forma divita, è in questione nulla di meno che la sua felicità. z w m
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Che cos'è l'ato di creazone?
Il titolo di questa mia lezione riprende quello di una conferenza che Gilles Deleuze tenne a Parigi nel marzo del 1987. Se vi è ca pitato di vedere il bel video che ne è st ato tratto, ricorderete che Deleuze denisce l'atto di creazione come un «atto di resistenza». Resistenza alla morte, innanzitutto, ma resistenza anche al paradigma dell'informazione attraverso il quale il potere si esercita in quelle che Deleuze, per distinguerle dalle «società di disciplina» analizzate da Foucault, chiama «società di controllo». Ogni atto di creazione resiste a qualcosa: per esempio, dice Deleuze, la musica di Bach è un atto di resistenza contro la separazione del sacro e del profano. Come vedete, Deleuze non denisce che cosa signichi resistere e sembra dare al termine signicato corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna . N ella conversazione sua parola "resistenza nell', Deleuze aggiunge, a proposito dell'opera d'arte, che resistere signica sempre liberare una potenza di vita che era stata imprigionata o oesa; anche qui, tuttavia, manca una vera denizione de'atto di creazione come atto di resistenza. Dopo tanti anni passati a leggere, scrivere e studiare, capit a, a vol te, di capire che cosa facciamo, qual è nostro modo speciale, se ve n' è uno, di procedere nel pensiero e nela ricerca. Io ho capito che
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si tratta, ne mio caso, di percepire quea che Feuerbach chiamava a «capacità di sviuppo» contenuta ne'opera degli autori che amo. eemento genuinamente osoo contenuto in un'opera sia essa opera d'arte, di scienza, di pensiero è la sua capacità di essere sviuppata, quacosa che è rimasto, o è stato voutamente lasciato, non detto e che si tratta di saper trovare e raccogiere. Perché questa ricerca del'eemento suscettibile di essere sviluppa to mi aascina? Perché s e si segue no in fondo questo principio metodoogico, si arriva fatamente a un punto in cui non è possibie distinguere fra ciò che è nostro e ciò che setta invece a'autore che stiamo eggendo. Raggiungere questa zona impersonae di indiferenza, in cui ogni nome proprio , ogni diritto d' autore e ogni pretesa di originaità vengono meno, mi riempie di gioia. Proverò pertanto a interroga re ciò che è rimasto non detto ne'idea deeuziana de'atto di creazione come atto di resistenza e, in questo modo, cer cherò di continuare e proseguir e, ovviamente sotto a mia piena responsabiità, i pensiero di un autore che amo. Devo premettere che provo un certo disagio di fronte a'uso , purtroppo oggi assai diuso, de termine "creazion e in riferimento ae pratiche artistiche. Mentre indagavo a geneaogia di quest'uso, ho scoperto, non senza una certa sorpresa, che una parte della responsabiità incombeva proprio sugi architetti. Quando i teologi medievali devono spiegare a creazione de mondo, essi ricorrono a un esempio che era già stato usato dagi stoici. Come a casa preesi ste nea mente de'architetto, scrive Tommaso, così Dio h a creato i mondo guardando a modeo che era nea sua mente. Natura mente Tommaso distingueva ancora tra i creare ex nihilo che denisce la creazione divina, e i /acere de materia che denisce i fare umano. In ogni caso, i paragone fra 'atto del'architetto e queo di Dio contiene già in germe a trasposizione de paradigma dea creazione a'attività de'artista Per questo preferisco parlare piuttosto di " atto poetico e , se continuerò per comodità a servirmi de
termine " creazione , chiedo che venga inteso senza acuna enfasi, ne sempice senso di poiein "produrre. Intendere a resistenza sotanto come opposizione a una forza esterna non mi sembra suciente per una comprensione del'atto di creazione. In un progetto di prefazione ale Philosophische Bemerkungen, Ludwig Wittgenstein ha osserato come i dover resistere aa pressione e a'attrito che un epoca d'incutura oppone aa creazione nisca co diserdere e frammentare le forze de singoo. Ciò è tanto vero che, 'Abecedario Deeuze ha sentito i bisogno di recisare che 'atto di creazione ha costitutivamente a che fare con a iberazione di una potenza. Penso, tuttavia, che a potenza che 'atto di creazione ibera debba essere interna alo stesso atto, come interna a questo deve essere anche 'atto di resistenza. Soo in questo modo a reazione tra resistenza e creazione e quea tra creazion e e potenza potranno diventare comprensibii. n concetto di potenza ha, nea osoa occidentae, una unga sto ria, che possiamo far cominciare con Aristotee. Aristotee oppone e, insieme, ega a potenza (dynam) a'atto (energeia) e questa op posizione, che attraversa tanto a sua Metafsica quanto a sua Fisica è stata da ui trasmessa in eredità prima aa osoa e poi alla scien za medievae e moderna. È tramite questa opposizione che Aristotee spiega quei che noi chiamiamo "atti di creazione, che per ui coincidevano più sobriamente co n 'esercizio dee technai (arti, ne senso più generae dea paroa) . Gi esempi cui ricorre per iustrare i passaggio dalla potenza al'atto so no in questo senso signicativi: 'architetto (oikodomos) suonatore di cetra, o scutore, m a anche i grammatico e, in generae, chiunque possieda un sapere o una tec nica. L a potenza di cui Aristotee para ne ibro IX dea Metafsica e ne ibro II de De anima non è, cioè, a potenza generica secondo cui diciamo che un bambino può diventare architetto o scutore,
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si tratta, ne mio caso, di percepire quea che Feuerbach chiamava a «capacità di sviuppo» contenuta ne'opera degli autori che amo. eemento genuinamente osoo contenuto in un'opera sia essa opera d'arte, di scienza, di pensiero è la sua capacità di essere sviuppata, quacosa che è rimasto, o è stato voutamente lasciato, non detto e che si tratta di saper trovare e raccogiere. Perché questa ricerca del'eemento suscettibile di essere sviluppa to mi aascina? Perché s e si segue no in fondo questo principio metodoogico, si arriva fatamente a un punto in cui non è possibie distinguere fra ciò che è nostro e ciò che setta invece a'autore che stiamo eggendo. Raggiungere questa zona impersonae di indiferenza, in cui ogni nome proprio , ogni diritto d' autore e ogni pretesa di originaità vengono meno, mi riempie di gioia. Proverò pertanto a interroga re ciò che è rimasto non detto ne'idea deeuziana de'atto di creazione come atto di resistenza e, in questo modo, cer cherò di continuare e proseguir e, ovviamente sotto a mia piena responsabiità, i pensiero di un autore che amo. Devo premettere che provo un certo disagio di fronte a'uso , purtroppo oggi assai diuso, de termine "creazion e in riferimento ae pratiche artistiche. Mentre indagavo a geneaogia di quest'uso, ho scoperto, non senza una certa sorpresa, che una parte della responsabiità incombeva proprio sugi architetti. Quando i teologi medievali devono spiegare a creazione de mondo, essi ricorrono a un esempio che era già stato usato dagi stoici. Come a casa preesi ste nea mente de'architetto, scrive Tommaso, così Dio h a creato i mondo guardando a modeo che era nea sua mente. Natura mente Tommaso distingueva ancora tra i creare ex nihilo che denisce la creazione divina, e i /acere de materia che denisce i fare umano. In ogni caso, i paragone fra 'atto del'architetto e queo di Dio contiene già in germe a trasposizione de paradigma dea creazione a'attività de'artista Per questo preferisco parlare piuttosto di " atto poetico e , se continuerò per comodità a servirmi de
termine " creazione , chiedo che venga inteso senza acuna enfasi, ne sempice senso di poiein "produrre. Intendere a resistenza sotanto come opposizione a una forza esterna non mi sembra suciente per una comprensione del'atto di creazione. In un progetto di prefazione ale Philosophische Bemerkungen, Ludwig Wittgenstein ha osserato come i dover resistere aa pressione e a'attrito che un epoca d'incutura oppone aa creazione nisca co diserdere e frammentare le forze de singoo. Ciò è tanto vero che, 'Abecedario Deeuze ha sentito i bisogno di recisare che 'atto di creazione ha costitutivamente a che fare con a iberazione di una potenza. Penso, tuttavia, che a potenza che 'atto di creazione ibera debba essere interna alo stesso atto, come interna a questo deve essere anche 'atto di resistenza. Soo in questo modo a reazione tra resistenza e creazione e quea tra creazion e e potenza potranno diventare comprensibii. n concetto di potenza ha, nea osoa occidentae, una unga sto ria, che possiamo far cominciare con Aristotee. Aristotee oppone e, insieme, ega a potenza (dynam) a'atto (energeia) e questa op posizione, che attraversa tanto a sua Metafsica quanto a sua Fisica è stata da ui trasmessa in eredità prima aa osoa e poi alla scien za medievae e moderna. È tramite questa opposizione che Aristotee spiega quei che noi chiamiamo "atti di creazione, che per ui coincidevano più sobriamente co n 'esercizio dee technai (arti, ne senso più generae dea paroa) . Gi esempi cui ricorre per iustrare i passaggio dalla potenza al'atto so no in questo senso signicativi: 'architetto (oikodomos) suonatore di cetra, o scutore, m a anche i grammatico e, in generae, chiunque possieda un sapere o una tec nica. L a potenza di cui Aristotee para ne ibro IX dea Metafsica e ne ibro II de De anima non è, cioè, a potenza generica secondo cui diciamo che un bambino può diventare architetto o scutore,
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ma quela che compete a ch ha gà acqusto 'arte o saper e corrspondente. Astotee chama questa potenza hex, da echo, "avere l'abto, cioè i possesso d una capactà o abtà. Cou che posede, o ha l' abto d, una potenza può tanto mettera n atto che no mettera n atto. La potenza questa è a tes genae, anche se apparenza ovva, d Arstotele è nsomma denta essenziamen dala possbtà de suo noneserczo. archteto è potente n quanto può non costrure, a potenza è una sospensone de'atto. (In potca, cò è ben noto, ed esste anz una gura, detta "provocatore che ha appunto compto d obbgare ch ha potere a eserctar, a mettero n atto). È n questo modo che Arstote e rsponde, nea Metafsica, aa tes de megarc, che aermavano, peraltro non senza buone ragon, che a potenza esse soo nel'atto, «energei mn dynast; otan m e energei ou dynastai» (1 046b 2930). Se ciò fosse vro, obetta Arstotee, no non potremmo considerare architetto l'arctetto quando non costrusce, né chamare medco medco ne moento n cu non sta esercitando a sua arte. In que stone è, qun modo di essere dea potenza, che esste nea forma dela hexis dela sgnora s u una privazone. V è una forma, una presenza d cò he non è n atto, e qu esta presenza prvativa è a potenza. Come Aistotele aerma senza rsere n un passo straordnaro dea sua Fca (193b 1920), la steresis, a prvazone, è come una forma (ezos ti una spece d voto: ezos da ezenai, vedere). Secondo s gesto caratterstco, Arstotee spinge a'estremo questa tes a punto n cu ess sembra quas trasormars n un'apora. Dal atto che la potenza sia denta daa possbtà de suo noneserco, eg trae la conseguenza d una costtutva coappartenenza d tenza e mpotenza. mpotenza (adynamia) - eg scrve ( 1046a 932 ) è una privazone contrara ala potenza (dy nam). Ogn ptenza è mpotenza deo stesso e rspetto alo stesso (d cu è poteza): «tou autou kai kata to auto pasa dynam adyna mia». Adynam, mpotenza, non sgnca qu assenza d ogn po
tenza, ma potenzadinon (passare al'atto): dynam me energein. La tes densce, coè, ' ambivaenza specca d ogn poenza uma na, che nea sua strùttura orginaria s mantene in rapporto con a propra privazone, è sempre, e rspetto aa stessa cosa, potenza d essere e di nonessere, d fare e d nonfare. È questa reazone che costusce, per Arstotele, 'essenza dea poenza. l vivente, che esse ne modo dela potenza, può a propra mpotenza, e soo in questo modo possede la propra potenza. Eg può essere e fare, perché s tene n reazone co propro nonessere e non are. Nea potenza, a sensazone è costtutivamente anestesa, pensero nonpensero, 'opera inoperostà. Se rcordamo che g esemp dea potenzadnon sono quas sempre tratt da'ambto dele tecnche e de saperi uman (a grammatca, a musca, 'archtettura, a medicina ecceera) , possamo aora dire che 'uomo è vivente che esste in modo emnente nela d mensone dea potenza, del potere e de poternon. Ogn poenza umana è, coorgnaramente, impotenza; ogn poteressere o fare è, per 'uomo, costiutivamente in rapporto ala propra prvazione. Se tornamo aa nostra domanda su'atto d creazone, cò sign ca che questo non può essere in acun modo compreso, secondo la rappresentazone correne, come un sempce transto dala poten za a'atto. artsta non è coui che possiede una potenza di creare che, a un certo punto, decide, non s sa come e perché, d reazzare e mettere n atto. Se ogn potenza è costtutivamente impotenza, potenzadinon, come potrà avvenre passaggio a'atto? Poiché 'atto dea potenza d suonare piano è certamente, per panista, 'e secuzione di un pezzo sul panoforte; ma che cosa avene dea potenza di non suonare ne momento n cu eg comncia a suona re? Come s reazza una potenza d non suonare? Possamo ora comprendere in modo nuovo la relazone fra creazo ne e resstenza d cu parlava Deeuze. Vi è, n ogni atto d creazone, quacosa che resste e s oppone a'espressone. Resistere, da
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ma quela che compete a ch ha gà acqusto 'arte o saper e corrspondente. Astotee chama questa potenza hex, da echo, "avere l'abto, cioè i possesso d una capactà o abtà. Cou che posede, o ha l' abto d, una potenza può tanto mettera n atto che no mettera n atto. La potenza questa è a tes genae, anche se apparenza ovva, d Arstotele è nsomma denta essenziamen dala possbtà de suo noneserczo. archteto è potente n quanto può non costrure, a potenza è una sospensone de'atto. (In potca, cò è ben noto, ed esste anz una gura, detta "provocatore che ha appunto compto d obbgare ch ha potere a eserctar, a mettero n atto). È n questo modo che Arstote e rsponde, nea Metafsica, aa tes de megarc, che aermavano, peraltro non senza buone ragon, che a potenza esse soo nel'atto, «energei mn dynast; otan m e energei ou dynastai» (1 046b 2930). Se ciò fosse vro, obetta Arstotee, no non potremmo considerare architetto l'arctetto quando non costrusce, né chamare medco medco ne moento n cu non sta esercitando a sua arte. In que stone è, qun modo di essere dea potenza, che esste nea forma dela hexis dela sgnora s u una privazone. V è una forma, una presenza d cò he non è n atto, e qu esta presenza prvativa è a potenza. Come Aistotele aerma senza rsere n un passo straordnaro dea sua Fca (193b 1920), la steresis, a prvazone, è come una forma (ezos ti una spece d voto: ezos da ezenai, vedere). Secondo s gesto caratterstco, Arstotee spinge a'estremo questa tes a punto n cu ess sembra quas trasormars n un'apora. Dal atto che la potenza sia denta daa possbtà de suo noneserco, eg trae la conseguenza d una costtutva coappartenenza d tenza e mpotenza. mpotenza (adynamia) - eg scrve ( 1046a 932 ) è una privazone contrara ala potenza (dy nam). Ogn ptenza è mpotenza deo stesso e rspetto alo stesso (d cu è poteza): «tou autou kai kata to auto pasa dynam adyna mia». Adynam, mpotenza, non sgnca qu assenza d ogn po
tenza, ma potenzadinon (passare al'atto): dynam me energein. La tes densce, coè, ' ambivaenza specca d ogn poenza uma na, che nea sua strùttura orginaria s mantene in rapporto con a propra privazone, è sempre, e rspetto aa stessa cosa, potenza d essere e di nonessere, d fare e d nonfare. È questa reazone che costusce, per Arstotele, 'essenza dea poenza. l vivente, che esse ne modo dela potenza, può a propra mpotenza, e soo in questo modo possede la propra potenza. Eg può essere e fare, perché s tene n reazone co propro nonessere e non are. Nea potenza, a sensazone è costtutivamente anestesa, pensero nonpensero, 'opera inoperostà. Se rcordamo che g esemp dea potenzadnon sono quas sempre tratt da'ambto dele tecnche e de saperi uman (a grammatca, a musca, 'archtettura, a medicina ecceera) , possamo aora dire che 'uomo è vivente che esste in modo emnente nela d mensone dea potenza, del potere e de poternon. Ogn poenza umana è, coorgnaramente, impotenza; ogn poteressere o fare è, per 'uomo, costiutivamente in rapporto ala propra prvazione. Se tornamo aa nostra domanda su'atto d creazone, cò sign ca che questo non può essere in acun modo compreso, secondo la rappresentazone correne, come un sempce transto dala poten za a'atto. artsta non è coui che possiede una potenza di creare che, a un certo punto, decide, non s sa come e perché, d reazzare e mettere n atto. Se ogn potenza è costtutivamente impotenza, potenzadinon, come potrà avvenre passaggio a'atto? Poiché 'atto dea potenza d suonare piano è certamente, per panista, 'e secuzione di un pezzo sul panoforte; ma che cosa avene dea potenza di non suonare ne momento n cu eg comncia a suona re? Come s reazza una potenza d non suonare? Possamo ora comprendere in modo nuovo la relazone fra creazo ne e resstenza d cu parlava Deeuze. Vi è, n ogni atto d creazone, quacosa che resste e s oppone a'espressone. Resistere, da
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e a'sprazon quas e mpedsce d recars ne'opera: ' artsta sprato è senz' pera. E , tuttava, a potenzadnon non può es sere a sua vota parneggata e trasformata n un prncpo autonomo che rebbe cn 'mpedre ogn opera. Importante è che 'opera rsut sempre da una daettca fra ques due prnc p ntmamente congunt. In un bro mrtante, Gbert Smondon ha scrtto che 'uomo è, per così dre n essere a due fas, che rsuta dala dalettca fra una parte non dvduata e mpersonae e una parte ndvduae e personale. n prndvduae non è un passato cronoogco che, a un certo punto, si realzza e rsove ne'ndvduo: esso coesste con uesto e resta ad esso rrducbe. E possbe pensre, n questa prospettva, 'atto d creazone come una compcata daettca fra un eemento mpersonae che precede e scavaca sggetto ndvduale, e un eemento personae che ostnaamene g resste. m personae è a potenzad, geno che spnge verso l'oera e 'espressone; a potenzadnon è a retcenza che 'ndvae oppone a'mpersonae, carattere che tenacemente resste l'espressone e la segna con a sua mpronta. Lo stle d un'opera on dpende soo dal'eemento mpersonae, daa poenza creatva ma anche da cò che resste e quas entra n contto con essa. La potenzadinon non nega, però, a potenza e a forma, ma, attraverso a sua ressnza, n quache modo la espone , come a manera non s oppone smplcemente ao ste, ma può, a vote, mettero n rsalto. n verso d Dante è, n questo senso, una profeza che annunca a tarda pttura d Tzno, quae s mostra, ad esempo, l'Annunazione dea Chesa d San Salvador. Ch ha osserato questa tea straordnara non pu on essere copto da modo con cu, non soo nee nub che sovraso e due gure, ma pero sue de'angeo, coore s'ngorga e, nseme, s scava n queo che è stato a ragone
dento un magma creptante, n cu <e carn tremano» e « um combattono con le ombre». Non sorprende che Tzano abba rmato quest'opera con una formua nconsueta: « Titianus /et fe!>, 'ha fatta e rfatta coè, quas, dsfatta. n fatto che e radgrae abbano rveato sotto questa scrtta la formua consueta /aebat , no� sgnca necessaramente che s tratt d un'aggunta posterore. E possbe, a contraro, che Tzano 'abba canceata per sotoneare a partcoartà dea sua opera, che, come suggerva Rdol, forse rferendo una tradzone orale che poteva rsare ao stesso Tzano, commttent avevano gudcato «non rdotta a perfettone». In questa prospettva, è possbe che a scrtta che s egge n basso sotto vaso d or «ignis ardens non comburens», che rmanda a'epsodo de roveto ardente nea Bbba e, secondo teoog, smboegga a vergnà d Mara , possa essere stata nserta da Tzano propro per sottoneare carattere partcoare de'atto d creazone, che brucava sua superce dea tela senza tuttava consumars, metafora perfetta d una potenza che arde senza esaurrs . Per questo a sua mano trema, ma questo tremto è a suprema maestra. Cò che trema e quas danza nea forma è a potenza: ign ardens non comburens. D qu a pertnenza d quee gure dea creazone così frequent n Franz Kaa, n cu grand e artsta è d to precsamente da un'assoluta ncapacà rspetto aa sua arte. E, da una parte, a confessone de grande nuoatore: «Ammetto d detenere un record mondae, ma se m chedeste come 'ho conqustato, non sapre rsponder n manera soddsfacente. Perché, n reatà, o non so nuotare. Ho sempre vouto mparare, ma non ne ho ma avuto 'occasone»; da' atra, a straordnara cantante de popoo de top, Josephne, che non soo non sa cantare, ma a maapena resce a schare come tutt suo sm, e tuttava, propro n questo modo «raggunge eett che un artsta de canto nvano cercherebbe presso d no e che appunto soo a suo mezz nsucent sono concess»
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e a'sprazon quas e mpedsce d recars ne'opera: ' artsta sprato è senz' pera. E , tuttava, a potenzadnon non può es sere a sua vota parneggata e trasformata n un prncpo autonomo che rebbe cn 'mpedre ogn opera. Importante è che 'opera rsut sempre da una daettca fra ques due prnc p ntmamente congunt. In un bro mrtante, Gbert Smondon ha scrtto che 'uomo è, per così dre n essere a due fas, che rsuta dala dalettca fra una parte non dvduata e mpersonae e una parte ndvduae e personale. n prndvduae non è un passato cronoogco che, a un certo punto, si realzza e rsove ne'ndvduo: esso coesste con uesto e resta ad esso rrducbe. E possbe pensre, n questa prospettva, 'atto d creazone come una compcata daettca fra un eemento mpersonae che precede e scavaca sggetto ndvduale, e un eemento personae che ostnaamene g resste. m personae è a potenzad, geno che spnge verso l'oera e 'espressone; a potenzadnon è a retcenza che 'ndvae oppone a'mpersonae, carattere che tenacemente resste l'espressone e la segna con a sua mpronta. Lo stle d un'opera on dpende soo dal'eemento mpersonae, daa poenza creatva ma anche da cò che resste e quas entra n contto con essa. La potenzadinon non nega, però, a potenza e a forma, ma, attraverso a sua ressnza, n quache modo la espone , come a manera non s oppone smplcemente ao ste, ma può, a vote, mettero n rsalto. n verso d Dante è, n questo senso, una profeza che annunca a tarda pttura d Tzno, quae s mostra, ad esempo, l'Annunazione dea Chesa d San Salvador. Ch ha osserato questa tea straordnara non pu on essere copto da modo con cu, non soo nee nub che sovraso e due gure, ma pero sue de'angeo, coore s'ngorga e, nseme, s scava n queo che è stato a ragone
dento un magma creptante, n cu <e carn tremano» e « um combattono con le ombre». Non sorprende che Tzano abba rmato quest'opera con una formua nconsueta: « Titianus /et fe!>, 'ha fatta e rfatta coè, quas, dsfatta. n fatto che e radgrae abbano rveato sotto questa scrtta la formua consueta /aebat , no� sgnca necessaramente che s tratt d un'aggunta posterore. E possbe, a contraro, che Tzano 'abba canceata per sotoneare a partcoartà dea sua opera, che, come suggerva Rdol, forse rferendo una tradzone orale che poteva rsare ao stesso Tzano, commttent avevano gudcato «non rdotta a perfettone». In questa prospettva, è possbe che a scrtta che s egge n basso sotto vaso d or «ignis ardens non comburens», che rmanda a'epsodo de roveto ardente nea Bbba e, secondo teoog, smboegga a vergnà d Mara , possa essere stata nserta da Tzano propro per sottoneare carattere partcoare de'atto d creazone, che brucava sua superce dea tela senza tuttava consumars, metafora perfetta d una potenza che arde senza esaurrs . Per questo a sua mano trema, ma questo tremto è a suprema maestra. Cò che trema e quas danza nea forma è a potenza: ign ardens non comburens. D qu a pertnenza d quee gure dea creazone così frequent n Franz Kaa, n cu grand e artsta è d to precsamente da un'assoluta ncapacà rspetto aa sua arte. E, da una parte, a confessone de grande nuoatore: «Ammetto d detenere un record mondae, ma se m chedeste come 'ho conqustato, non sapre rsponder n manera soddsfacente. Perché, n reatà, o non so nuotare. Ho sempre vouto mparare, ma non ne ho ma avuto 'occasone»; da' atra, a straordnara cantante de popoo de top, Josephne, che non soo non sa cantare, ma a maapena resce a schare come tutt suo sm, e tuttava, propro n questo modo «raggunge eett che un artsta de canto nvano cercherebbe presso d no e che appunto soo a suo mezz nsucent sono concess»
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zione l' inopersità e la festa altrimenti che come riposo o negazione del lavoro Poiché noi cerchiamo invece di denir � l'inoperosità in relazione alla potenza e l'ato di creazione va da sé che non possiamo pensarla come ozisità o inerzia ma come una prassi o una potenza di un tipo specie che si mantiene costitutivamente in rapporto con la propria inoperosità Spinoza ne' s i serve di un concetto che mi sembra utile per comprendere ciò di cui stiamo parlando Egli chiama acquiescentia in se ipso «un letizia nata da ciò che l'uomo contempa se sesso e la sua potenza i agire» (IV Di Prop 52). Che cosa signica contemplare la prria potenza di agire? Ch e cos'è una inoperosià che consiste nel cemplare la propria potenza d agire? Si tratta io creo di una inoperosità intea per così dire alla stessa operazione di una prassi sui gener che nell'opera espone e contempla innzitutto la poenza una potenza che non precede l'opera ma l'accmpagna e fa vivere e apre in possibilità La vita che contempla a propria potenza di agire e di non agire si rende inoperosa in tue le sue operazioni vive soltanto la sua vivibilità Si comprende lora la funzione essenziale che la tradizione dea losoa occidenale ha assegnato alla vita contemplativa e all'inoperosità: la pra ssi propriamente umana è quella che rendendo inoperose le opere e nzio ni speciche del vivente le fa per così dire girare a vuoto e in questo modo le apre in possibità Con templazione e inopersità sono in questo senso gli operatori metasici dell'antropogenesi che liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o scale e da ogni compito predeterminato lo rendono disponibile pe quella paricolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare politica e " are Politica e arte non sono compiti né semplicemene op ere : esse nominano piutosto la dimensione in cui le operzini linguistiche e corporee materiali e immateriali biologiche e sali vengono disativae e contemplate come tali
Spero che a questo punt o ciò che intendevo parlando di una poetica dell'inoperosità sia in qualche modo più chiaro Forse il modello per eccellenza d questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane è la stessa poesia Che cos' è infatti la poesia se non un'o perazione nel linguaggio che ne disattiva e rende inoperose le nzioni comunicative e informative per aprirle a un nuovo possibile uso? O, nei termini di Spinoza puno in cui la lingua che ha disattivato le sue nzioni utilitarie riposa in se stessa conempla la sua potenza di dire In queso senso la Commedia o i Canti o I seme delpiangere sno la contemplazione della lingua italiana la sestina di Arnauld Daniel la conemplazione della lingua provenzale Trilce e i poemi posumi di Vallejo la contemplazione della lingua spagnola Le illuminazioni di Rimbaud la contemplazione della lingua francese gl i Inni di Hlderlin e le poesie di Trakl la contemplazione della lingua tedesca eccetera E ciò che la poesia compie per la poenza di dire la politica e la losoa devono compiere per la potenza di agire Rendendo inoperose le operazioni economiche e sociali esse mostrano che cosa può il corpo umano lo aprono a un nuovo possibile uso Spinoza ha denito l'essenza di ogni cosa come il desiderio il conatus di perseverare nel proprio essere Se è possibile esprimere una piccola riserva rispetto a un grande pensiero direi che mi sembra ora che anche in quest'idea spinoziana occorra come abbiamo visto per l'ato di creazione insinuare una piccola resistenza Certo ogni cosa desidera e si sforza di perseverare nel suo essere; ma insieme essa resiste a questo desiderio almeno per un attimo lo rende inoperoso e contempla Si tratta ancora una volta di una resistenza interna al desiderio di un'inoperosità interna all'operazione Ma soltanto essa conferisce al conatus la sua giustizia e la sua verità In una parola e questo è almeno nell'arte l' elemento decisivo la sua grazia
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zione l' inopersità e la festa altrimenti che come riposo o negazione del lavoro Poiché noi cerchiamo invece di denir � l'inoperosità in relazione alla potenza e l'ato di creazione va da sé che non possiamo pensarla come ozisità o inerzia ma come una prassi o una potenza di un tipo specie che si mantiene costitutivamente in rapporto con la propria inoperosità Spinoza ne' s i serve di un concetto che mi sembra utile per comprendere ciò di cui stiamo parlando Egli chiama acquiescentia in se ipso «un letizia nata da ciò che l'uomo contempa se sesso e la sua potenza i agire» (IV Di Prop 52). Che cosa signica contemplare la prria potenza di agire? Ch e cos'è una inoperosià che consiste nel cemplare la propria potenza d agire? Si tratta io creo di una inoperosità intea per così dire alla stessa operazione di una prassi sui gener che nell'opera espone e contempla innzitutto la poenza una potenza che non precede l'opera ma l'accmpagna e fa vivere e apre in possibilità La vita che contempla a propria potenza di agire e di non agire si rende inoperosa in tue le sue operazioni vive soltanto la sua vivibilità Si comprende lora la funzione essenziale che la tradizione dea losoa occidenale ha assegnato alla vita contemplativa e all'inoperosità: la pra ssi propriamente umana è quella che rendendo inoperose le opere e nzio ni speciche del vivente le fa per così dire girare a vuoto e in questo modo le apre in possibità Con templazione e inopersità sono in questo senso gli operatori metasici dell'antropogenesi che liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o scale e da ogni compito predeterminato lo rendono disponibile pe quella paricolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare politica e " are Politica e arte non sono compiti né semplicemene op ere : esse nominano piutosto la dimensione in cui le operzini linguistiche e corporee materiali e immateriali biologiche e sali vengono disativae e contemplate come tali
Spero che a questo punt o ciò che intendevo parlando di una poetica dell'inoperosità sia in qualche modo più chiaro Forse il modello per eccellenza d questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane è la stessa poesia Che cos' è infatti la poesia se non un'o perazione nel linguaggio che ne disattiva e rende inoperose le nzioni comunicative e informative per aprirle a un nuovo possibile uso? O, nei termini di Spinoza puno in cui la lingua che ha disattivato le sue nzioni utilitarie riposa in se stessa conempla la sua potenza di dire In queso senso la Commedia o i Canti o I seme delpiangere sno la contemplazione della lingua italiana la sestina di Arnauld Daniel la conemplazione della lingua provenzale Trilce e i poemi posumi di Vallejo la contemplazione della lingua spagnola Le illuminazioni di Rimbaud la contemplazione della lingua francese gl i Inni di Hlderlin e le poesie di Trakl la contemplazione della lingua tedesca eccetera E ciò che la poesia compie per la poenza di dire la politica e la losoa devono compiere per la potenza di agire Rendendo inoperose le operazioni economiche e sociali esse mostrano che cosa può il corpo umano lo aprono a un nuovo possibile uso Spinoza ha denito l'essenza di ogni cosa come il desiderio il conatus di perseverare nel proprio essere Se è possibile esprimere una piccola riserva rispetto a un grande pensiero direi che mi sembra ora che anche in quest'idea spinoziana occorra come abbiamo visto per l'ato di creazione insinuare una piccola resistenza Certo ogni cosa desidera e si sforza di perseverare nel suo essere; ma insieme essa resiste a questo desiderio almeno per un attimo lo rende inoperoso e contempla Si tratta ancora una volta di una resistenza interna al desiderio di un'inoperosità interna all'operazione Ma soltanto essa conferisce al conatus la sua giustizia e la sua verità In una parola e questo è almeno nell'arte l' elemento decisivo la sua grazia
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Linappropriabile
Vorrei parlarvi di u n conceo che è , pe r ovvie ragioni, esremamene auale e, nello sesso empo, assoluamene inatuale. A dire vero, quesa coincidenza degli opposi in uno sesso ermine non dovrebbe sorprendere: mi era capiao, qualche anno fa, riettendo proprio sul problema di cosa è conemporaneo, di dover concludere che conemporaneo è l'inauale, che qualcosa ci è tano più urgente e vicino quanto più sembra escluso dall'ambito di ciò che, con un ermine che ormai ha una connoazione giusamene dispregiaiva, si chiama }'"attualià. Queso ermine atualissimo e insieme inauale è "poverà: atualissima perché è dovunque, inauale perché, in quano essa coincide con disvalore assoluo, sembra che nostro tempo po ssa pensare solanto suo conrario: la ricchezza e denaro. Mi ero occupao del problema della poverà menre sudiavo quei movimenti spiriuali dell'XI e XII secolo che culminarono nel francescanesimo. Come sappiamo, la poverà non è solano rivendicaa come bene più alo (« altissima poverà») , ma essa coincideva perfeamene con la forma di via che i francescani professavano come la propria e che Francesco aveva espress o araverso le formule vivere sine proprio e vivere secundum /ormam sancti evangeli. Si ratava della rinuncia pura e semplice a qualsiasi forma di proprietà. C iò
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Vorrei parlarvi di u n conceo che è , pe r ovvie ragioni, esremamene auale e, nello sesso empo, assoluamene inatuale. A dire vero, quesa coincidenza degli opposi in uno sesso ermine non dovrebbe sorprendere: mi era capiao, qualche anno fa, riettendo proprio sul problema di cosa è conemporaneo, di dover concludere che conemporaneo è l'inauale, che qualcosa ci è tano più urgente e vicino quanto più sembra escluso dall'ambito di ciò che, con un ermine che ormai ha una connoazione giusamene dispregiaiva, si chiama }'"attualià. Queso ermine atualissimo e insieme inauale è "poverà: atualissima perché è dovunque, inauale perché, in quano essa coincide con disvalore assoluo, sembra che nostro tempo po ssa pensare solanto suo conrario: la ricchezza e denaro. Mi ero occupao del problema della poverà menre sudiavo quei movimenti spiriuali dell'XI e XII secolo che culminarono nel francescanesimo. Come sappiamo, la poverà non è solano rivendicaa come bene più alo (« altissima poverà») , ma essa coincideva perfeamene con la forma di via che i francescani professavano come la propria e che Francesco aveva espress o araverso le formule vivere sine proprio e vivere secundum /ormam sancti evangeli. Si ratava della rinuncia pura e semplice a qualsiasi forma di proprietà. C iò
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volontà propria (cfr. Adm., cap. 2: mangia dell'albero della scienza qui suam voluntatem appropriat). La concentrazione esclusiva sugli attac
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Vorrei pertanto provarmi ora a proseguire in chiave losoca l ' analisi e la denizione del concetto di povertà, al i là de l contesto storico del francescanesimo. Pensare la povertà in una prospettiva losoca signica pensarla come una categoria nologica. Cioè, ancora, pensarla non soltanto in relazione all'avere, ma anche e sop rattutto in relazione all'essere. Mi servirò, a questo ne, di due brevi testi losoci. n primo è una conferenza di Martin Heidegger del 1945, pubblicata negli Heidegger Studies nel 1994 , e il secondo un frammento di Walter Benjamin, composto probabilmente nel 19 1 6 e pubblicato soltanto nel 19 92 negli Adoo Btter (IV). La conferenza di Heidegger è stata tenuta il 27 giugno 1 945 nel Ca steo di Wildenstein, non lontano da Messkirch, d ove, dopo i bombardamenti alleati di Friburgo, si era trasferita la facoltà di Filosoa. I russi stavano per entrare a Berlino, mentre le truppe francesi, da poco entrate a Friburgo, avevano decretato la sospensione dei corsi e quel gioo si celebrava pertanto la chusura del semestre. La conferenza di Heidegger era l' evento concusivo di questa cerimonia di chiusura forzata. È in relazione a questo contesto non certo lieto che si deve forse considerare il titolo scelto da Heidegger: Die Armut, la povertà. Un a annotazione autografa sulla prima pagina del manoscritto recita infatti: «Perché, nel momento p resente della storia mondiale, ho scelto di interpretare queste parole, dovrà diventar chiaro attraverso questa s tessa interpretazione». Le parole che la conferenza si propone di interpretare provengono
da un frammento di Hlderlin, che recita: «Tutto si concentra da noi sullo spirituale, siamo diventati poveri, per diventare ricchi». Queste ultime parole contengono un evidente riferimento a 2 C or. 8: «Gesù da ricco si è fatto povero, perché voi diventaste ricchi del la sua povertà», che Heidegger non poteva non rilevare, anche se nel suo commento non ne fa parola. Non è questo il luogo per un 'analisi dettagliata del testo della conferenza. Mi limiterò a citarvi la denizione che Heidegger vi dà della povertà: «Che signica povero? In che cosa consiste l'essenza della povertà? Che cosa signica ricco, se soltanto nella povertà e attraverso di essa possiamo diventare ricchi? Povero e ricco, secono il signicato abituale, concernono il possesso, l'avere. a povertà è un non avere (Nicht-Haben) e cioè un mancare del necessario (En tbehren des Ntigen; entbeheren signica "sentire la mancanza di qualcosa , ma anche "fare a meno ). La ricchezza è un nonmancare del necessario, un avere al di là del necessario. essenza della povertà consiste tuttavia in un essere (Sn). Essere veramente povero signica: essere in modo tale, che noi non manchiamo di nulla, tranne che el nonnecessario (das Unntige, il superuo). Mancare veramente signica: non poter essere senza il nonnecessario e in questo modo appunto appartenere soltanto al nonnecessario». Poche righe dopo, il necessario è denito come ciò che viene dal bisogno (Not), cioè dalla costrizione (Zwang). n nonnecessario è, invece, ciò che non viene dal bisogno, ma dal libero (Freien). Prima di provarmi a commetare questa denizione, vorrei tracciare una breve genealogia del temine Armut nel pensiero di Heidegger. Esso compare, infatti, nell'importantissimo corso del 192 9 30 sui Concetti fondamentali della metasica per denire la condizione dell'animale, cioè la su a «povertà di mondo» (Weltarmut). a pietra è priva di mondo, l'animale è povero di mondo (weltarm), l'uomo è formatore di mondo. Subito prima di descrivere il rapporto dell'animale col suo ambien
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Vorrei pertanto provarmi ora a proseguire in chiave losoca l ' analisi e la denizione del concetto di povertà, al i là de l contesto storico del francescanesimo. Pensare la povertà in una prospettiva losoca signica pensarla come una categoria nologica. Cioè, ancora, pensarla non soltanto in relazione all'avere, ma anche e sop rattutto in relazione all'essere. Mi servirò, a questo ne, di due brevi testi losoci. n primo è una conferenza di Martin Heidegger del 1945, pubblicata negli Heidegger Studies nel 1994 , e il secondo un frammento di Walter Benjamin, composto probabilmente nel 19 1 6 e pubblicato soltanto nel 19 92 negli Adoo Btter (IV). La conferenza di Heidegger è stata tenuta il 27 giugno 1 945 nel Ca steo di Wildenstein, non lontano da Messkirch, d ove, dopo i bombardamenti alleati di Friburgo, si era trasferita la facoltà di Filosoa. I russi stavano per entrare a Berlino, mentre le truppe francesi, da poco entrate a Friburgo, avevano decretato la sospensione dei corsi e quel gioo si celebrava pertanto la chusura del semestre. La conferenza di Heidegger era l' evento concusivo di questa cerimonia di chiusura forzata. È in relazione a questo contesto non certo lieto che si deve forse considerare il titolo scelto da Heidegger: Die Armut, la povertà. Un a annotazione autografa sulla prima pagina del manoscritto recita infatti: «Perché, nel momento p resente della storia mondiale, ho scelto di interpretare queste parole, dovrà diventar chiaro attraverso questa s tessa interpretazione». Le parole che la conferenza si propone di interpretare provengono
da un frammento di Hlderlin, che recita: «Tutto si concentra da noi sullo spirituale, siamo diventati poveri, per diventare ricchi». Queste ultime parole contengono un evidente riferimento a 2 C or. 8: «Gesù da ricco si è fatto povero, perché voi diventaste ricchi del la sua povertà», che Heidegger non poteva non rilevare, anche se nel suo commento non ne fa parola. Non è questo il luogo per un 'analisi dettagliata del testo della conferenza. Mi limiterò a citarvi la denizione che Heidegger vi dà della povertà: «Che signica povero? In che cosa consiste l'essenza della povertà? Che cosa signica ricco, se soltanto nella povertà e attraverso di essa possiamo diventare ricchi? Povero e ricco, secono il signicato abituale, concernono il possesso, l'avere. a povertà è un non avere (Nicht-Haben) e cioè un mancare del necessario (En tbehren des Ntigen; entbeheren signica "sentire la mancanza di qualcosa , ma anche "fare a meno ). La ricchezza è un nonmancare del necessario, un avere al di là del necessario. essenza della povertà consiste tuttavia in un essere (Sn). Essere veramente povero signica: essere in modo tale, che noi non manchiamo di nulla, tranne che el nonnecessario (das Unntige, il superuo). Mancare veramente signica: non poter essere senza il nonnecessario e in questo modo appunto appartenere soltanto al nonnecessario». Poche righe dopo, il necessario è denito come ciò che viene dal bisogno (Not), cioè dalla costrizione (Zwang). n nonnecessario è, invece, ciò che non viene dal bisogno, ma dal libero (Freien). Prima di provarmi a commetare questa denizione, vorrei tracciare una breve genealogia del temine Armut nel pensiero di Heidegger. Esso compare, infatti, nell'importantissimo corso del 192 9 30 sui Concetti fondamentali della metasica per denire la condizione dell'animale, cioè la su a «povertà di mondo» (Weltarmut). a pietra è priva di mondo, l'animale è povero di mondo (weltarm), l'uomo è formatore di mondo. Subito prima di descrivere il rapporto dell'animale col suo ambien
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te, Heidegger fa alcune considerazioni s concetto di povertà in generale, che deve essere inteso in senso qualitativo e non quanti tativo. È a ques ne che egli introduc, per denire la povertà, il verbo entbehren (mancare sentire la mancanza fare a meno) che abbiamo già incntrato: «Essere povero non signica semplicemen te non possedere nua o poco o meno di un altro: essere povero signica mancare, sentire a mancanza (entbehren). Questo sentire la mancanza è possibile in maniere diverse. A seconda di come il po vero sente la canza c ioè di quale comportamento mantiene nel ancare, di come si pone nei confronti di esso, di come considera i ancare in eve, a seconda di che cosa manca e soprattutto di coe ne manca ioè di come si sente nel mancarne». Heidegger non ca il nome di Frances co, ma è dice non percepi re nelle sue consderazioni un'eco delle discussioni francescane s la povertà e suso s Ù come si deve intendere l'uso ch e povero fa di ciò che usa in particolare nel conitto fra gli spirituali che denivano l'uso in modo oggettivo come usus pauper, e i conventuali per i quali decisia era invece la modalità interiore dell'uso (uti re ut non sua) e non suo oggetto esteriore Nel corso del 199 30 , comunque a povertà denisce non l'uomo che è capace di aprire un mondo ed entrare in relazione con l'aperto ma 'anmale, che non è privo di mondo, come la pietra, ma ne esperisce i qualche modo la mancanza Qui Heidegger cita il passo della etra ai Romani (8, 1 9) sla apokaradokia tes ktiseos, l'attesa struggente della natura per la sua liberazione dalla schiavitù della corruzione. n non aver mondo dell'animale deve essere inteso, scrive Heidegger com e un mancare (entbeheren) e il modo di essere dell'animale come un essere povero a povertà è cioè, denita essenzialmente ni termini di una mancanza Nel corso de 4142 sull'inno Andenken di Hlderlin, Heideg ger torna sÙ conetto di povertà, per pensarne una determinazio ne più positiva. La povertà, egli suggerisce non deve essere deni
ta soltanto come rinuncia alla ricchezza. «Può essere ricco e usare la ricchezza solo colui che prima è diventato povero, nel senso di una povertà che non richiede alcuna rinuncia. a rinuncia resta sempre un non avere che, così come non ha altrettanto imme diatamente vorrebbe avere tutto senza essere appropriata a questo possess o Tae rinuncia non scaturisce dal coraggio (Mut) della povertà (Armut). a rinuncia che vuole avere è indigenza che con tinua a dipendere dalla ricchezza, senza essere in grado di cono scerne l'ess enza genuina e le condizioni della sua appropriazione e senza voere sottoettersi ad esse. essenziale e originaria povertà è il coraggio di fronte alle cose sepl ici e originarie, coraggio che non ha bisogno di dipendere da qualcosa Questa povertà d'animo scorge l'essenza della ricchezza e in questo modo conosce la legge e la maniera in cui essa si offre» È evidente che qui Heidegger cerca d pensare la povertà non sol tanto in modo negativo, cioè come una rinuncia ala ricchezza che dipende ancora d a ricchezza. In questo senso , la sua critica del la rinuncia potrebe coinvolgere anche l' abdicatio dei francescani, prigioniera di una stess a determinazione meramente negativa della povertà E l'osservazione sull'insucienza di un'indigenza che continua a dipendere dalla ricchezza, può ricordare l'aermazione di Giovanni XII secondo cui «un 'espropriazione dopo la quale re sta la stessa indigente preoccupazione (sollictudo) che vi era prima, non contribuisce alla perfezione» Anche della tesi di Heidegger sulla povertà si può dire tuttavia, che essa continua a dipendere dal suo opposto, perché la sola determinazione positiva che ne dà è che «essa scorge l'essenza della ricchezza e in questo modo conosce la legge e la maniera in cui essa si ore» Se torniamo, a questo punto, a conferenza del 1945 , notiamo che Heidegger vi opera uno spostamento decisivo tanto rispetto al corso del 192930 che a quello del 1941 42. "mancare (entbeheren) che nel primo deniva la condizione dell'animale «povero di mon
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te, Heidegger fa alcune considerazioni s concetto di povertà in generale, che deve essere inteso in senso qualitativo e non quanti tativo. È a ques ne che egli introduc, per denire la povertà, il verbo entbehren (mancare sentire la mancanza fare a meno) che abbiamo già incntrato: «Essere povero non signica semplicemen te non possedere nua o poco o meno di un altro: essere povero signica mancare, sentire a mancanza (entbehren). Questo sentire la mancanza è possibile in maniere diverse. A seconda di come il po vero sente la canza c ioè di quale comportamento mantiene nel ancare, di come si pone nei confronti di esso, di come considera i ancare in eve, a seconda di che cosa manca e soprattutto di coe ne manca ioè di come si sente nel mancarne». Heidegger non ca il nome di Frances co, ma è dice non percepi re nelle sue consderazioni un'eco delle discussioni francescane s la povertà e suso s Ù come si deve intendere l'uso ch e povero fa di ciò che usa in particolare nel conitto fra gli spirituali che denivano l'uso in modo oggettivo come usus pauper, e i conventuali per i quali decisia era invece la modalità interiore dell'uso (uti re ut non sua) e non suo oggetto esteriore Nel corso del 199 30 , comunque a povertà denisce non l'uomo che è capace di aprire un mondo ed entrare in relazione con l'aperto ma 'anmale, che non è privo di mondo, come la pietra, ma ne esperisce i qualche modo la mancanza Qui Heidegger cita il passo della etra ai Romani (8, 1 9) sla apokaradokia tes ktiseos, l'attesa struggente della natura per la sua liberazione dalla schiavitù della corruzione. n non aver mondo dell'animale deve essere inteso, scrive Heidegger com e un mancare (entbeheren) e il modo di essere dell'animale come un essere povero a povertà è cioè, denita essenzialmente ni termini di una mancanza Nel corso de 4142 sull'inno Andenken di Hlderlin, Heideg ger torna sÙ conetto di povertà, per pensarne una determinazio ne più positiva. La povertà, egli suggerisce non deve essere deni
ta soltanto come rinuncia alla ricchezza. «Può essere ricco e usare la ricchezza solo colui che prima è diventato povero, nel senso di una povertà che non richiede alcuna rinuncia. a rinuncia resta sempre un non avere che, così come non ha altrettanto imme diatamente vorrebbe avere tutto senza essere appropriata a questo possess o Tae rinuncia non scaturisce dal coraggio (Mut) della povertà (Armut). a rinuncia che vuole avere è indigenza che con tinua a dipendere dalla ricchezza, senza essere in grado di cono scerne l'ess enza genuina e le condizioni della sua appropriazione e senza voere sottoettersi ad esse. essenziale e originaria povertà è il coraggio di fronte alle cose sepl ici e originarie, coraggio che non ha bisogno di dipendere da qualcosa Questa povertà d'animo scorge l'essenza della ricchezza e in questo modo conosce la legge e la maniera in cui essa si offre» È evidente che qui Heidegger cerca d pensare la povertà non sol tanto in modo negativo, cioè come una rinuncia ala ricchezza che dipende ancora d a ricchezza. In questo senso , la sua critica del la rinuncia potrebe coinvolgere anche l' abdicatio dei francescani, prigioniera di una stess a determinazione meramente negativa della povertà E l'osservazione sull'insucienza di un'indigenza che continua a dipendere dalla ricchezza, può ricordare l'aermazione di Giovanni XII secondo cui «un 'espropriazione dopo la quale re sta la stessa indigente preoccupazione (sollictudo) che vi era prima, non contribuisce alla perfezione» Anche della tesi di Heidegger sulla povertà si può dire tuttavia, che essa continua a dipendere dal suo opposto, perché la sola determinazione positiva che ne dà è che «essa scorge l'essenza della ricchezza e in questo modo conosce la legge e la maniera in cui essa si ore» Se torniamo, a questo punto, a conferenza del 1945 , notiamo che Heidegger vi opera uno spostamento decisivo tanto rispetto al corso del 192930 che a quello del 1941 42. "mancare (entbeheren) che nel primo deniva la condizione dell'animale «povero di mon
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do» e che era assente dal corso del 194 42, denisce ora la situazione dell'uomo, che fa, come l'animale, esperienza di una mancanza. La pover ha, cioè, qui un valore antropogenetico, in una prospettiva in cu la dierenza rispetto all'animale sembra curio samente sfumare Ciò che manca all'uomo non è, però, necessario, bensì nonne cessario, ci oè precisamente quel " libero e quel laperto che, nel corso del 192930, denivano suo possesso essenziale. Se, atraverso l'esperienza della povertà, l'uomo è così, da una parte, riaicinato all'aniale e ala sua povertà di mondo, dall'altra questa povertà gli apre ora l'accesso alla vera ricchezza. Essere poveri, ossia sentire la mancanza unicamente del nonnecessari o, signica infatti «tenersi in relazione con ciò che libera» e, pertanto, con la rcchezza spirituale. Heidegger torna qui alla frase di Hlderlin da ci ha preso le mosse e ne dà un'interpretazione che può essere leta in relazione al passo paolino da cui essa proveniva: «Siamo diventati poveri per diventare ricchi. n diventar ricco non segue l'essere povero come l'eetto consegue alla causa, ma l' autentica poverà è in se stessa la ricchez za. Nella misura in cui, a partire dalla povetà, noi non manchiamo di nulla, abbiamo allora già tutto, siamo nella sovrabbondanza dell'essere, che eccede già sempre ciò che necessita in ogni necessità». n riavvicinamento strategico verso l'animale e la sua povertà di mondo mira, in utima analisi, al rovesciaento dialettico della povertà in ricchezza, della necessità materiale in superuità spirituale. E, curiosamente, con un brusco ritorno alla situazione storica della Gerania e dell'Europa, questo rovesciamento è presentato come una ricetta e r far fronte al counism o: «Poveri noi non lo diventeremo attraerso ciò che, sotto il nome inadeguato di comunismo, si annunca come destino del mondo storico . . . Nell'esser povero, il comunsmo non è semplicemente evitato o aggirato: è superato nella sua essenza. Solo in questo modo potremo venirne veramente a cap.
Se mi sono soermato su questi testi di Heidegger è per most rarne l'insucienza. Ho ricordato le analogie rispetto alla strategia fran cescana: l'avvicinamento alla condizione animale e la determinazione soggettiva e interiore della povertà. Non soltanto Heidegger, come i francescani, non riesce a raggiungere una determinazione positiva della povertà, che resta, nella conferenza, in ogni caso dipendente dla ricchezza, ma questa determinazione negativa viene arbitrariamente rovesciata in positivo, cosa che i francescani si erano ben guardati da l fare. La concezione heideggeriana della povertà non poteva pertanto servirmi. Un altro testo mi ha invece foito un'indicazione essenziale: gli Appunti per un lavoro sulla categoria della giustia di Benjamin ( 191 6). Si tratta di u testo frammentario e oscuro, in cui concetto di povertà non compare. M a esso mi interessa, p erché la giustizia vi è denita come «la condizione di un bene, che non può diventare possesso (Besitz)». Solo questo bene, prosegue testo, «è bene attraverso quale i beni divengono privi di propriet (beszlos, ma l'aggettivo vole anche dire "povero)». La giustizia non ha dunque nulla a che fare con la ripartizione dei beni secondo i bisogni e nemmeno con la buona volontà degli uomini. Essa, scrive Benjamin, «non sembra riferirsi alla buona volon tà di un soggetto, ma costituisce uno stato del mondo (einen Zustand der Welt)». Come tale, la giustizia si oppone aa virtù, perché mentre la virtù designa la categoria etica del dovuto, <a giustizia designa la categoria etica dell'esistente». Pertanto, prosegue Benja min co n una formulazione che prende con forza le distanze dall'etica kantiana, <a virtù può essere oggetto di un' esigenza, l a giustizia in ultima istanza può solo essere (nur sein), come stato del mondo o come stato di Dio». Ciò che trovo nuovo e importante in questo frammento benjami niano, è propri o fatto che la giustizia sia tolta daa sfera del dovere e della virù e, in generale, della soggettività per acquisire
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do» e che era assente dal corso del 194 42, denisce ora la situazione dell'uomo, che fa, come l'animale, esperienza di una mancanza. La pover ha, cioè, qui un valore antropogenetico, in una prospettiva in cu la dierenza rispetto all'animale sembra curio samente sfumare Ciò che manca all'uomo non è, però, necessario, bensì nonne cessario, ci oè precisamente quel " libero e quel laperto che, nel corso del 192930, denivano suo possesso essenziale. Se, atraverso l'esperienza della povertà, l'uomo è così, da una parte, riaicinato all'aniale e ala sua povertà di mondo, dall'altra questa povertà gli apre ora l'accesso alla vera ricchezza. Essere poveri, ossia sentire la mancanza unicamente del nonnecessari o, signica infatti «tenersi in relazione con ciò che libera» e, pertanto, con la rcchezza spirituale. Heidegger torna qui alla frase di Hlderlin da ci ha preso le mosse e ne dà un'interpretazione che può essere leta in relazione al passo paolino da cui essa proveniva: «Siamo diventati poveri per diventare ricchi. n diventar ricco non segue l'essere povero come l'eetto consegue alla causa, ma l' autentica poverà è in se stessa la ricchez za. Nella misura in cui, a partire dalla povetà, noi non manchiamo di nulla, abbiamo allora già tutto, siamo nella sovrabbondanza dell'essere, che eccede già sempre ciò che necessita in ogni necessità». n riavvicinamento strategico verso l'animale e la sua povertà di mondo mira, in utima analisi, al rovesciaento dialettico della povertà in ricchezza, della necessità materiale in superuità spirituale. E, curiosamente, con un brusco ritorno alla situazione storica della Gerania e dell'Europa, questo rovesciamento è presentato come una ricetta e r far fronte al counism o: «Poveri noi non lo diventeremo attraerso ciò che, sotto il nome inadeguato di comunismo, si annunca come destino del mondo storico . . . Nell'esser povero, il comunsmo non è semplicemente evitato o aggirato: è superato nella sua essenza. Solo in questo modo potremo venirne veramente a cap.
Se mi sono soermato su questi testi di Heidegger è per most rarne l'insucienza. Ho ricordato le analogie rispetto alla strategia fran cescana: l'avvicinamento alla condizione animale e la determinazione soggettiva e interiore della povertà. Non soltanto Heidegger, come i francescani, non riesce a raggiungere una determinazione positiva della povertà, che resta, nella conferenza, in ogni caso dipendente dla ricchezza, ma questa determinazione negativa viene arbitrariamente rovesciata in positivo, cosa che i francescani si erano ben guardati da l fare. La concezione heideggeriana della povertà non poteva pertanto servirmi. Un altro testo mi ha invece foito un'indicazione essenziale: gli Appunti per un lavoro sulla categoria della giustia di Benjamin ( 191 6). Si tratta di u testo frammentario e oscuro, in cui concetto di povertà non compare. M a esso mi interessa, p erché la giustizia vi è denita come «la condizione di un bene, che non può diventare possesso (Besitz)». Solo questo bene, prosegue testo, «è bene attraverso quale i beni divengono privi di propriet (beszlos, ma l'aggettivo vole anche dire "povero)». La giustizia non ha dunque nulla a che fare con la ripartizione dei beni secondo i bisogni e nemmeno con la buona volontà degli uomini. Essa, scrive Benjamin, «non sembra riferirsi alla buona volon tà di un soggetto, ma costituisce uno stato del mondo (einen Zustand der Welt)». Come tale, la giustizia si oppone aa virtù, perché mentre la virtù designa la categoria etica del dovuto, <a giustizia designa la categoria etica dell'esistente». Pertanto, prosegue Benja min co n una formulazione che prende con forza le distanze dall'etica kantiana, <a virtù può essere oggetto di un' esigenza, l a giustizia in ultima istanza può solo essere (nur sein), come stato del mondo o come stato di Dio». Ciò che trovo nuovo e importante in questo frammento benjami niano, è propri o fatto che la giustizia sia tolta daa sfera del dovere e della virù e, in generale, della soggettività per acquisire
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il signicato ntogico di uno stato del mondo, in cui esso appare come inappropriaile e "povero. Ciò signica che il carattere di inappropriabilità on gli è attribuito dagli uomini, ma proviene dal bene stesso. È su questa base ce occorre ripensare al problema della povertà. Si può liberare ques concetto dalla dimensione negativa in cui esso resta ogni volta imrigionato, solo se lo si pensa a partire dalla rela zione con qualcos che è per se stesso inappropriabile. Vorrei proporre prciò questa deizione della povertà: la povertà è la relazione con n inappropriabile; essere povero signca: tenersi in relazione con ene inappropriabile. a povertà è, come dicevano i francescani, expropriativa non perché implica una rinuncia alla proprietà, ma peré si rischia nella relazione con l'napp ropriabile e dimora in essa. Qesto signica il vivere sine proprio di Francesco: non tanto o non so un atto di rinuncia alla proprietà giuridica, ma una forma di vita he, in quanto si tiene in relazione con un inap propriabile, è semre già costitutivamente fuori del diritto e non può mai approprarsi di nulla. In questa prospeta, anche il conceto francescano di uso acquista un nuovo e più ampio signicato. Esso non designa più soltanto la negazione della prprietà, ma la relazione che il povero ha con il mondo quanto nappropriabile. Essere povero signica usare e usare non signic emplicemente utilizzare qualcosa , bensì tenersi in relazione con u inappropriabe. Se, nelle parole d Benjamin, la giustizia è la condizione di un bene che non può diveare possesso , allora anche la prossimità fra povertà e giustizia auista un signicato decisivo. Poiché se si intendono povertà e gizia in riferimeno alla condizione di un bene inappropriabile, alora esse metono in questione l'ordine stesso del diritto in qua fondato sulla possibilità dell'appropriazione.
Che una simile concezione dell'uso come relazione a un inappropriabile non sia aatto peregrina, è testimoniato dall'esperienza, che ci ore quotidianamente esempi di cose inappropriabili con cui siamo tuttavia intimamente in rapporto. Ci proponiamo qui di esaminare tre di questi inappropriabili: il corpo, la lingua, il pae saggio. Una corretta posizione del problema del corpo è sta ta messa durevolmente fuori strada dal la dottrina fenomenologica del corpo pro prio. Secondo questa dottrina che ha nella polemica di Edmund Husserl e Edith Stein contro la teoria lippsiana dell'empatia il suo luogo topico l' esperienza del corpo sarebbe, insieme a quella del l'I o, ciò che vi è di più proprio e originario. «a donazione originaria di un corpo» scrive Husserl «può essere soltanto la donazione originaria del mio corpo e di nessun altro (meines und keines ande Leibes) Lappercezione del mio corpo è in modo originalmente essenziale (urwesentlich) la prima e la sola che sia pienamente originaria. Solo se ho costituito il mio corpo, io posso percepire ogni altro corpo come tale, e quest' ultima appercezione ha rispetto al l' altra carattere mediato» (Zur Phnomenologie der Intersubjektivitt in Husserliana XIV, seconda parte, Den Haag 1973, p. 7). E, tuttavia, proprio questo enunciato apoditico sul carattere originariamente "mio della donazione di un corpo non cessa di suscitare aporie e difcolà. a prima è la percezione del corpo altrui. Questo, infatti, non è percepito come un corpo inerte (Ker) ma come un corpo vivente (Leib) dotato, come il mio, di sensibilità e percezione. Negli appunti e nelle stesure frammentarie che compongono i volumi XIII e X degli Husserliana, pagine e pagine sono dedicate al problema della percezione della mano altrui. Com'è possibile percepire una mano come viva, cioè non semplicemente come una cosa, una mano di marmo o dipta, ma come una mano " di cae e sangue e, tuttavia, non mia? Se alla percezione del corpo appartiene origina
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il signicato ntogico di uno stato del mondo, in cui esso appare come inappropriaile e "povero. Ciò signica che il carattere di inappropriabilità on gli è attribuito dagli uomini, ma proviene dal bene stesso. È su questa base ce occorre ripensare al problema della povertà. Si può liberare ques concetto dalla dimensione negativa in cui esso resta ogni volta imrigionato, solo se lo si pensa a partire dalla rela zione con qualcos che è per se stesso inappropriabile. Vorrei proporre prciò questa deizione della povertà: la povertà è la relazione con n inappropriabile; essere povero signca: tenersi in relazione con ene inappropriabile. a povertà è, come dicevano i francescani, expropriativa non perché implica una rinuncia alla proprietà, ma peré si rischia nella relazione con l'napp ropriabile e dimora in essa. Qesto signica il vivere sine proprio di Francesco: non tanto o non so un atto di rinuncia alla proprietà giuridica, ma una forma di vita he, in quanto si tiene in relazione con un inap propriabile, è semre già costitutivamente fuori del diritto e non può mai approprarsi di nulla. In questa prospeta, anche il conceto francescano di uso acquista un nuovo e più ampio signicato. Esso non designa più soltanto la negazione della prprietà, ma la relazione che il povero ha con il mondo quanto nappropriabile. Essere povero signica usare e usare non signic emplicemente utilizzare qualcosa , bensì tenersi in relazione con u inappropriabe. Se, nelle parole d Benjamin, la giustizia è la condizione di un bene che non può diveare possesso , allora anche la prossimità fra povertà e giustizia auista un signicato decisivo. Poiché se si intendono povertà e gizia in riferimeno alla condizione di un bene inappropriabile, alora esse metono in questione l'ordine stesso del diritto in qua fondato sulla possibilità dell'appropriazione.
Che una simile concezione dell'uso come relazione a un inappropriabile non sia aatto peregrina, è testimoniato dall'esperienza, che ci ore quotidianamente esempi di cose inappropriabili con cui siamo tuttavia intimamente in rapporto. Ci proponiamo qui di esaminare tre di questi inappropriabili: il corpo, la lingua, il pae saggio. Una corretta posizione del problema del corpo è sta ta messa durevolmente fuori strada dal la dottrina fenomenologica del corpo pro prio. Secondo questa dottrina che ha nella polemica di Edmund Husserl e Edith Stein contro la teoria lippsiana dell'empatia il suo luogo topico l' esperienza del corpo sarebbe, insieme a quella del l'I o, ciò che vi è di più proprio e originario. «a donazione originaria di un corpo» scrive Husserl «può essere soltanto la donazione originaria del mio corpo e di nessun altro (meines und keines ande Leibes) Lappercezione del mio corpo è in modo originalmente essenziale (urwesentlich) la prima e la sola che sia pienamente originaria. Solo se ho costituito il mio corpo, io posso percepire ogni altro corpo come tale, e quest' ultima appercezione ha rispetto al l' altra carattere mediato» (Zur Phnomenologie der Intersubjektivitt in Husserliana XIV, seconda parte, Den Haag 1973, p. 7). E, tuttavia, proprio questo enunciato apoditico sul carattere originariamente "mio della donazione di un corpo non cessa di suscitare aporie e difcolà. a prima è la percezione del corpo altrui. Questo, infatti, non è percepito come un corpo inerte (Ker) ma come un corpo vivente (Leib) dotato, come il mio, di sensibilità e percezione. Negli appunti e nelle stesure frammentarie che compongono i volumi XIII e X degli Husserliana, pagine e pagine sono dedicate al problema della percezione della mano altrui. Com'è possibile percepire una mano come viva, cioè non semplicemente come una cosa, una mano di marmo o dipta, ma come una mano " di cae e sangue e, tuttavia, non mia? Se alla percezione del corpo appartiene origina
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tà del corpo e el vissuto, tanto più forte e originaria si manifesta in essa l'invadeza di una "improprietà come se il corpo proprio proiettasse ogn volta un'omb ra portata , che non può in nessun ca so essere separaa da esso. Nel saggio del 135 De l'éasion, Emmanuel Levinas sottopone a una spietata samina delle esperienze corporee tanto familiari quanto sgradevi: la vergogna, la nausea, il bisogno. Secondo un suo gesto carattistico, evinas esagera e spinge all'estremo l'analitica dell'Essec del suo maestro Heidegge, no a esiirne per così die la faccia nourna. Se, in Essere e tempo l'Esseci è ireparail mente gettato i una fatticità che gli è impropria e che non ha s cel to, in modo che egli ha ogni volta da assumere e aerrare la stessa improprietà, questa struttura ntologica trova ora la sua formulazione parodca ell'analisi del bisogno corporeo, della nausea e della vergogna. Ci he denisce , infatti, queste esperienze non è una mancanza o un dfetto di essere, che cerchiamo di colmare o da cui prendiamo le sanze: esse si fondano, al contrario, su un duplice movimento, in ci il soggetto si trova, da una parte, consegnato irre missibilmente a suo corpo e, dall'altra, altrettanto inesorabilmente incapace di assuerlo. Si immagini un caso esemplare di vergogna: la vergogna per la nudi tà. Se, nella nudà, proviamo vergogna, è perché in essa ci troviamo rimessi a qualcsa da cui non possiamo ad alcun costo disdirci. «La vergogna appae ogni volta che non riusciamo a far dimenticare la nostra nudità. Essa si riferisce a tutto ciò che si vorrebbe nasconde re e che non possiamo coprire . . . Ciò che appare nea vergogna è precisamente fatto di essere inchiodati a noi stessi, l'impossibilità radicale di ggri pe nasconderi a noi stessi, la presenza irremis sibile de'io a se sesso. La nudità è vergognosa quando è la patenza del nostro essere della sua intimità ultima . . . E la nostra intimità, cioè la nostra pesenza a noi stessi che è vergognosa» (pp. 8687 ). Ciò signica che nell'ista nte in cui ciò che ci è più intimo e proprio
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il nostro corpo è messo irreparabmente a nudo, esso ci appare come la cosa più estranea, che non possiamo in alcun modo assu mere e vorremmo, per questo, nascondere. Questo duplice, pa radoss ale movimento è ancora più evidente nella nausea e nel bisogno corporeo. La nausea è, infatti, «una presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi» che, nell'istante in cui è vissuta, ci «appare insormontabile» (p. 89) . Quanto più lo stato nauseabondo, con i suoi cona ti di vomiti, mi consegna al mio ventre, come alla mia sola e irefutabile realtà, tanto più esso mi diventa estraneo e inappropriaile: non sono che nausea e conato, e tuttavia non posso né accettarli né venirne fuori. «C' è, nella nause a, un riuto di restarci, uno sforzo per uscirne. Ma questo sforzo è n dall'inizio caratte rizzato come disperato . . . Nella nausea, che è una impossibilità di essere ciò che si è, siamo nello stesso tempo inchiodati a noi stessi, stretti in un circolo che ci sooca» ( p. 0) . La natura contraddittoria della relazione al corpo raggiunge la sua massa critica nel bisogno . Nel momento in cui provo un impulso incontenibile a orinare, è come se tutta la mia realtà e la mia presenza si concentrassero in quella parte del mio corpo da cui proviene il bi sogno. Essa mi è assolutamente e implacabilmente propria e, tuttavia, precisamente per questo , appunto perch é io vi sono inchiodato senza scampo, essa diventa la cosa più estranea e inappropriabile. istante del isogno mette cioè a nudo la verità del corpo proprio : esso è un campo di tensioni polari i cui estremi sono deniti da un essereconsegnatoa e da un nonpoterassumere. n mio corpo mi è dato originariamente come la cosa più propr ia, solo nella misura in cui si rivela essere assolutamente inappropriabile.
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Esiste, in questa prospettiva, un'analogia strutturale fra il corpo e la lingua. Infatti, anche la lingua in particolare nella gura della lin gua matea si presenta per ciascun parlante come ciò che vi è di più intimo e proprio; e, tuttavia, parlare di una "p roprietà e di una
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tà del corpo e el vissuto, tanto più forte e originaria si manifesta in essa l'invadeza di una "improprietà come se il corpo proprio proiettasse ogn volta un'omb ra portata , che non può in nessun ca so essere separaa da esso. Nel saggio del 135 De l'éasion, Emmanuel Levinas sottopone a una spietata samina delle esperienze corporee tanto familiari quanto sgradevi: la vergogna, la nausea, il bisogno. Secondo un suo gesto carattistico, evinas esagera e spinge all'estremo l'analitica dell'Essec del suo maestro Heidegge, no a esiirne per così die la faccia nourna. Se, in Essere e tempo l'Esseci è ireparail mente gettato i una fatticità che gli è impropria e che non ha s cel to, in modo che egli ha ogni volta da assumere e aerrare la stessa improprietà, questa struttura ntologica trova ora la sua formulazione parodca ell'analisi del bisogno corporeo, della nausea e della vergogna. Ci he denisce , infatti, queste esperienze non è una mancanza o un dfetto di essere, che cerchiamo di colmare o da cui prendiamo le sanze: esse si fondano, al contrario, su un duplice movimento, in ci il soggetto si trova, da una parte, consegnato irre missibilmente a suo corpo e, dall'altra, altrettanto inesorabilmente incapace di assuerlo. Si immagini un caso esemplare di vergogna: la vergogna per la nudi tà. Se, nella nudà, proviamo vergogna, è perché in essa ci troviamo rimessi a qualcsa da cui non possiamo ad alcun costo disdirci. «La vergogna appae ogni volta che non riusciamo a far dimenticare la nostra nudità. Essa si riferisce a tutto ciò che si vorrebbe nasconde re e che non possiamo coprire . . . Ciò che appare nea vergogna è precisamente fatto di essere inchiodati a noi stessi, l'impossibilità radicale di ggri pe nasconderi a noi stessi, la presenza irremis sibile de'io a se sesso. La nudità è vergognosa quando è la patenza del nostro essere della sua intimità ultima . . . E la nostra intimità, cioè la nostra pesenza a noi stessi che è vergognosa» (pp. 8687 ). Ciò signica che nell'ista nte in cui ciò che ci è più intimo e proprio
il nostro corpo è messo irreparabmente a nudo, esso ci appare come la cosa più estranea, che non possiamo in alcun modo assu mere e vorremmo, per questo, nascondere. Questo duplice, pa radoss ale movimento è ancora più evidente nella nausea e nel bisogno corporeo. La nausea è, infatti, «una presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi» che, nell'istante in cui è vissuta, ci «appare insormontabile» (p. 89) . Quanto più lo stato nauseabondo, con i suoi cona ti di vomiti, mi consegna al mio ventre, come alla mia sola e irefutabile realtà, tanto più esso mi diventa estraneo e inappropriaile: non sono che nausea e conato, e tuttavia non posso né accettarli né venirne fuori. «C' è, nella nause a, un riuto di restarci, uno sforzo per uscirne. Ma questo sforzo è n dall'inizio caratte rizzato come disperato . . . Nella nausea, che è una impossibilità di essere ciò che si è, siamo nello stesso tempo inchiodati a noi stessi, stretti in un circolo che ci sooca» ( p. 0) . La natura contraddittoria della relazione al corpo raggiunge la sua massa critica nel bisogno . Nel momento in cui provo un impulso incontenibile a orinare, è come se tutta la mia realtà e la mia presenza si concentrassero in quella parte del mio corpo da cui proviene il bi sogno. Essa mi è assolutamente e implacabilmente propria e, tuttavia, precisamente per questo , appunto perch é io vi sono inchiodato senza scampo, essa diventa la cosa più estranea e inappropriabile. istante del isogno mette cioè a nudo la verità del corpo proprio : esso è un campo di tensioni polari i cui estremi sono deniti da un essereconsegnatoa e da un nonpoterassumere. n mio corpo mi è dato originariamente come la cosa più propr ia, solo nella misura in cui si rivela essere assolutamente inappropriabile.
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"intimità della lngua è certamente orviante, dal momento che la lingua awiene aluomo dall'esteo, attraverso un processo di tra smissione e di apprendimento che può ssere arduo e penoso ed è piuttosto impost al'infante che da ui voluto. Mentre il corpo s em bra particolare a iascun individuo, la ingua è per denizione con divisa da atri e ogetto, come tale, di un uso comune. Come la co stituzione corpoea secondo gli stoici, la lingua è, cioè, qualcosa con cui i vivente deve familiarizzarsi in una più o meno lunga oikeiosis, che sembra natuale e quasi congenita; e tuttavia come testimo niano i lapsus, i bettamenti, le improwise dimenticanze, le afasie essa è e resta sepre in qualche misura estranea al parlante. Ciò è tanto più edente in coloro, i poet i, il cui mestiee è appun to quello di padrneggiar e e far propria la lingua. Ess i devono, per questo, innanzito abbandonare le convenzioni e 'uso comune e rendersi, per cos dire, stra�iera la ingua che devono dominare, iscrivendola in u sistea di regole arbitrarie quanto inesorabili straniera a tal puo che, secondo una tenace tradizione, non sono essi a paare, ma n principio atro e divino, a musa, che proferi sce i poema a cu il poeta si imita a prestare la voce. appropria zione della gua he essi perseguono è, quindi, nea stes sa misura un'espropriazion in modo che 'atto poetico si presenta come un gesto bipolare, ch si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente apopriato. Possiamo chiaae "stile e "maniera i modi in cui questo dupli ce gesto si segna ea lingua. Occorre qui abbandonare le consuete rappresentazioni erarchiche, per cui la maniera sarebe una perer sione e una decadnza dello stile, che le resterebbe per denizione superiore Stile e aniera nomano piuttosto i due po irriducibili de gesto poetico: e lo stile ne segna i tratto più proprio, la maniera registra un'inversa esigenza di espropriazione e inappartenenza. Ap propriazione e ds ppropriazione vanno qui prese a ettera, come un processo che iveste e trasforma la lingua in tutti i suoi aspetti.
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Esiste, in questa prospettiva, un'analogia strutturale fra il corpo e la lingua. Infatti, anche la lingua in particolare nella gura della lin gua matea si presenta per ciascun parlante come ciò che vi è di più intimo e proprio; e, tuttavia, parlare di una "p roprietà e di una
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i inuista Ernst Le, che era stato professore di Walter Benjamin
a Berlino, pubblicò nel 191 3 lo studio Sulla lingua del vecchio Goethe. Saggio sulla lingua del singolo Egli aveva osservato, come altri prima di lui, l'evidente trasformazione della lingua di Goethe nele opere tarde; ma, mentre i critici e gli storici dea etteratura l'ave vano denita in termini di stiemi intralinguistici e di arti ci senili, Le, che era uno specialista delle lingue uraloaltaiche, aveva no tato che, nell'uso del vecchio poeta, tedesco evolveva dalla morfo logia delle lingue indo-europee verso forme diverse, simili a quelle delle lingue aglutinanti, come tur co. Fra queste tarde mutazioni , eli elencava la propensione a fomare composti aggettivali aatto inusuali, il prevalere della frase nominale e la caduta tendenziale dell'articolo. La lingua stessa veniva, cioè, deportata al di là delle sue frontiere verso territori sempre più lontani, come se i poeta scrivesse ora in una lingua che gli era così propria, da essere diven tata del tutto straniera. Tensioni del genere, che s'incontrano non di rado nell'opera tar da degli artisti (basti pensare, per la pittura, al vecchio Tiziano o a Micheangelo) vengono di solito catalogati dai critici come ma nierismi. Già i grammatici alessandrini avevano notato che o stile di Platone, cos impido nei pimi dialoghi, diventa, negi ultimi, oscuro ed esageratamente paratattico. Considerazioni non dissimili possono farsi per lo Hderlin dopo le traduzioni sofoclee, cos di viso fra la tecnica aspra e spezzata degli inni e la stereo tip a d olcezza delle poesie rmate con l'eteronimo Scardanelli. In modo analogo, negli ultimi romanzi di Melville, manierismi e divagazioni proifera no a tal punto da mettere in questione la forma stessa del romanzo , spostandola verso altri generi meno leggibili, come il trattato os o co o il centone erudito. Negli ambiti in cui concetto di maniera è stato denito con più riore (la storia del'arte e la psichiatria) esso designa un processo bipolare: è, insieme, eccessiva adesione a un uso o a un modello
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"intimità della lngua è certamente orviante, dal momento che la lingua awiene aluomo dall'esteo, attraverso un processo di tra smissione e di apprendimento che può ssere arduo e penoso ed è piuttosto impost al'infante che da ui voluto. Mentre il corpo s em bra particolare a iascun individuo, la ingua è per denizione con divisa da atri e ogetto, come tale, di un uso comune. Come la co stituzione corpoea secondo gli stoici, la lingua è, cioè, qualcosa con cui i vivente deve familiarizzarsi in una più o meno lunga oikeiosis, che sembra natuale e quasi congenita; e tuttavia come testimo niano i lapsus, i bettamenti, le improwise dimenticanze, le afasie essa è e resta sepre in qualche misura estranea al parlante. Ciò è tanto più edente in coloro, i poet i, il cui mestiee è appun to quello di padrneggiar e e far propria la lingua. Ess i devono, per questo, innanzito abbandonare le convenzioni e 'uso comune e rendersi, per cos dire, stra�iera la ingua che devono dominare, iscrivendola in u sistea di regole arbitrarie quanto inesorabili straniera a tal puo che, secondo una tenace tradizione, non sono essi a paare, ma n principio atro e divino, a musa, che proferi sce i poema a cu il poeta si imita a prestare la voce. appropria zione della gua he essi perseguono è, quindi, nea stes sa misura un'espropriazion in modo che 'atto poetico si presenta come un gesto bipolare, ch si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente apopriato. Possiamo chiaae "stile e "maniera i modi in cui questo dupli ce gesto si segna ea lingua. Occorre qui abbandonare le consuete rappresentazioni erarchiche, per cui la maniera sarebe una perer sione e una decadnza dello stile, che le resterebbe per denizione superiore Stile e aniera nomano piuttosto i due po irriducibili de gesto poetico: e lo stile ne segna i tratto più proprio, la maniera registra un'inversa esigenza di espropriazione e inappartenenza. Ap propriazione e ds ppropriazione vanno qui prese a ettera, come un processo che iveste e trasforma la lingua in tutti i suoi aspetti.
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i inuista Ernst Le, che era stato professore di Walter Benjamin
a Berlino, pubblicò nel 191 3 lo studio Sulla lingua del vecchio Goethe. Saggio sulla lingua del singolo Egli aveva osservato, come altri prima di lui, l'evidente trasformazione della lingua di Goethe nele opere tarde; ma, mentre i critici e gli storici dea etteratura l'ave vano denita in termini di stiemi intralinguistici e di arti ci senili, Le, che era uno specialista delle lingue uraloaltaiche, aveva no tato che, nell'uso del vecchio poeta, tedesco evolveva dalla morfo logia delle lingue indo-europee verso forme diverse, simili a quelle delle lingue aglutinanti, come tur co. Fra queste tarde mutazioni , eli elencava la propensione a fomare composti aggettivali aatto inusuali, il prevalere della frase nominale e la caduta tendenziale dell'articolo. La lingua stessa veniva, cioè, deportata al di là delle sue frontiere verso territori sempre più lontani, come se i poeta scrivesse ora in una lingua che gli era così propria, da essere diven tata del tutto straniera. Tensioni del genere, che s'incontrano non di rado nell'opera tar da degli artisti (basti pensare, per la pittura, al vecchio Tiziano o a Micheangelo) vengono di solito catalogati dai critici come ma nierismi. Già i grammatici alessandrini avevano notato che o stile di Platone, cos impido nei pimi dialoghi, diventa, negi ultimi, oscuro ed esageratamente paratattico. Considerazioni non dissimili possono farsi per lo Hderlin dopo le traduzioni sofoclee, cos di viso fra la tecnica aspra e spezzata degli inni e la stereo tip a d olcezza delle poesie rmate con l'eteronimo Scardanelli. In modo analogo, negli ultimi romanzi di Melville, manierismi e divagazioni proifera no a tal punto da mettere in questione la forma stessa del romanzo , spostandola verso altri generi meno leggibili, come il trattato os o co o il centone erudito. Negli ambiti in cui concetto di maniera è stato denito con più riore (la storia del'arte e la psichiatria) esso designa un processo bipolare: è, insieme, eccessiva adesione a un uso o a un modello
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(stereotipia, ripezione) e impossibilità di identicarsi veramente con essi (stravagaza, unicità). Così, nella storia dell'arte, il manie rism presuppo la conoscenza di uno stile a cui si vuole a ogni costo aderire e ce si cerca, invece, più ·o meno inconsciamente di evitare attravers a sua esagerazione; in psichiatria, la patologia del manierista si mafesta attraverso gesti e comportamenti estranei e inspiegabili e, inseme, nella volontà di guadagnare, attraverso di essi, un terreno poprio e un'identità. Considerazioi aaloghe possono farsi per la relazione del parlan te alla sua inapprpriabile lingua: essa denisce un campo di forze polari, tese fra lotismo e la stereotipia, il troppo proprio e la più completa esraneà. Soo in questo cntesto l 'opposizione fra stile e maniera acquista il suo vero senso. Esi sono i due po nella cui tensione vive i gesto del poeta: lo stie è 'appropriazione disappropriante (una neigenza sublime, un dimeticarsi nel roprio) , la maniera una disappropriazione appropriante (un presentirsi o un ricordarsi nell'improprio). Possiamo, alora hiamare " uso il campo di tensione i cui poli so no lo stile e a maiera, l'app ropriazione e l'espropriazione. E non soltanto nel poea ma in ogni uomo parlante rispetto alla sua lingua e in ogni vivente rispetto al suo corpo, vi è sempre, nell'uso, una maniera che prede le distanze dallo stile, uno stile che si disappro pria in maniera. Ogni uso è, in questo seso, un gesto polare: da una parte appropriazne e abito, dal'altra perdita ed espropriazione. "Usare di qui ampiezza semantica del termine, che indica tan to l'uso in senso setto che l'abitudine signica incessantemente oscillare tra una patria e un esilio: abitare. T terzo esempio d inappropriabile è qualcosa su cui voi architetti non dovreste cessae di riettere: il paesaggio. Un tentativo di de nire il paesaggio ee esordire dall'esposizione del suo rapporto con l'ambiete e co i ondo. E questo non perché il problema del pae
saggio, così come è stato arontato dagli storici dell'arte, dagli antro pologi e dagli storici della cultura, sia irrilevante; decisiva è piuttosto la constatazioe delle aporie di cui queste discipline restano prigio niere ogni volta che cercano di denire il paesaggio. Non soltanto non è chiaro se esso si a una realtà naturale o un fenomeno ano, luogo geograco o un luogo dell'anima; ma, in questo secondo caso, nemmeno è chiaro se esso debba essere considerato come consustan ziae all'uomo o non sia vece un'venzione modea. Si è spesso ripetuto che la prima apparizione di una sensibilità al paesaggio sia la ettera di Petrarca che descrive l'ascensione sul monte Vetoux, «sola videndi insignem oi aitudinem cupiditate ductus». Nello stesso senso si è potuto affermare che la pittura di paesaggio, scoosciuta all'antichità, sarebbe un'ivenzione della pittura olandese del Quattrocento. Entrambe le aermazioni sono false. Non soltanto i luogo e la data di composizione dela lettera sono probabilmente ttizi, m a la citazione di Agostino che Petrarca vi introduce (X, 8,15) per stigmatizzare la sua cupiditas videndi, implica che già nel IV secolo gli uomini amassero contemplare il paesaggio: «et eunt homines mirari alta montium et ingentes uctus mar' et latissimos lapsus juminum». Numerosi passi testimoniano, anzi, di una vera e propria passione degli antichi per la contempla zione da'alto («magnam capies voluptatem - scrive Plinio, ep. , 6 13 si un regionz' situm ex monte prospexerz'») , una visione che gli etologi hanno aspettatamente ritrovato nel regno animale, dove si vedono capre, vigogne, felini e primati inerpicar si su un luogo eleva to per poi contemplare, senz' alcuna apparente ragione, il paesaggio circostante (Detlev Fehling, Ethologche Ueberlegungen auf dem Gebiet der Altertumskunde, Mnchen 197 4, pp. 44 48) Quanto al la pittura, on soltanto gli areschi pompeiani, ma anche le fonti mostrano che i Greci e i Romani conoscevano la pittura di paesag gio, che chiamavano topiographia o scenograa (skenographia). So no inoltre stati conservati i nomi di paesaggisti, come Ludius, <
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(stereotipia, ripezione) e impossibilità di identicarsi veramente con essi (stravagaza, unicità). Così, nella storia dell'arte, il manie rism presuppo la conoscenza di uno stile a cui si vuole a ogni costo aderire e ce si cerca, invece, più ·o meno inconsciamente di evitare attravers a sua esagerazione; in psichiatria, la patologia del manierista si mafesta attraverso gesti e comportamenti estranei e inspiegabili e, inseme, nella volontà di guadagnare, attraverso di essi, un terreno poprio e un'identità. Considerazioi aaloghe possono farsi per la relazione del parlan te alla sua inapprpriabile lingua: essa denisce un campo di forze polari, tese fra lotismo e la stereotipia, il troppo proprio e la più completa esraneà. Soo in questo cntesto l 'opposizione fra stile e maniera acquista il suo vero senso. Esi sono i due po nella cui tensione vive i gesto del poeta: lo stie è 'appropriazione disappropriante (una neigenza sublime, un dimeticarsi nel roprio) , la maniera una disappropriazione appropriante (un presentirsi o un ricordarsi nell'improprio). Possiamo, alora hiamare " uso il campo di tensione i cui poli so no lo stile e a maiera, l'app ropriazione e l'espropriazione. E non soltanto nel poea ma in ogni uomo parlante rispetto alla sua lingua e in ogni vivente rispetto al suo corpo, vi è sempre, nell'uso, una maniera che prede le distanze dallo stile, uno stile che si disappro pria in maniera. Ogni uso è, in questo seso, un gesto polare: da una parte appropriazne e abito, dal'altra perdita ed espropriazione. "Usare di qui ampiezza semantica del termine, che indica tan to l'uso in senso setto che l'abitudine signica incessantemente oscillare tra una patria e un esilio: abitare. T terzo esempio d inappropriabile è qualcosa su cui voi architetti non dovreste cessae di riettere: il paesaggio. Un tentativo di de nire il paesaggio ee esordire dall'esposizione del suo rapporto con l'ambiete e co i ondo. E questo non perché il problema del pae
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saggio, così come è stato arontato dagli storici dell'arte, dagli antro pologi e dagli storici della cultura, sia irrilevante; decisiva è piuttosto la constatazioe delle aporie di cui queste discipline restano prigio niere ogni volta che cercano di denire il paesaggio. Non soltanto non è chiaro se esso si a una realtà naturale o un fenomeno ano, luogo geograco o un luogo dell'anima; ma, in questo secondo caso, nemmeno è chiaro se esso debba essere considerato come consustan ziae all'uomo o non sia vece un'venzione modea. Si è spesso ripetuto che la prima apparizione di una sensibilità al paesaggio sia la ettera di Petrarca che descrive l'ascensione sul monte Vetoux, «sola videndi insignem oi aitudinem cupiditate ductus». Nello stesso senso si è potuto affermare che la pittura di paesaggio, scoosciuta all'antichità, sarebbe un'ivenzione della pittura olandese del Quattrocento. Entrambe le aermazioni sono false. Non soltanto i luogo e la data di composizione dela lettera sono probabilmente ttizi, m a la citazione di Agostino che Petrarca vi introduce (X, 8,15) per stigmatizzare la sua cupiditas videndi, implica che già nel IV secolo gli uomini amassero contemplare il paesaggio: «et eunt homines mirari alta montium et ingentes uctus mar' et latissimos lapsus juminum». Numerosi passi testimoniano, anzi, di una vera e propria passione degli antichi per la contempla zione da'alto («magnam capies voluptatem - scrive Plinio, ep. , 6 13 si un regionz' situm ex monte prospexerz'») , una visione che gli etologi hanno aspettatamente ritrovato nel regno animale, dove si vedono capre, vigogne, felini e primati inerpicar si su un luogo eleva to per poi contemplare, senz' alcuna apparente ragione, il paesaggio circostante (Detlev Fehling, Ethologche Ueberlegungen auf dem Gebiet der Altertumskunde, Mnchen 197 4, pp. 44 48) Quanto al la pittura, on soltanto gli areschi pompeiani, ma anche le fonti mostrano che i Greci e i Romani conoscevano la pittura di paesag gio, che chiamavano topiographia o scenograa (skenographia). So no inoltre stati conservati i nomi di paesaggisti, come Ludius, <
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samente da quelo che avviene nell'animale, si riutano a noi nella misura stessa in cui siamo inchiodati ad esse. «esserci si trova così consegnato all'ente che si riuta nella sua totalità». uomo, annoiandosi, è consegnato, cioè, a qualcosa che gli si riuta, esatta mente come l'anmale, nel suo stordimento, è esposto in una non rivelazione. Ma, a dierenza de'animale, l'uomo, dimorando nella noia, sospende rapporto immediato con l'ambiente: egli è un animale che si annoia e percepisce così per la prima volta come tale cioè come un ete il disinibitore che gli si riuta Ciò signica, aoa , che il mondo non si apre su uno sp azio nuovo e ulteriore, più pio e luminoso, conquistato al di à dei limiti dell' ambiente anime e senza relazione con esso. A contrario, esso si è aperto solo attraerso una so spensione e una disattivazione del rapporto animale c disinibitore. aperto, il libero spazio dell'essere , non nominano qualco sa di radicalmente altro rispetto al nonaperto de'animale: ess ono soltanto l'aerramento di un indisvelato, la sospensione e la cattura del nonvederel'alodolal'aperto. apertura che è in quesione nel mondo è essenzialmente apertura a una chiusura, e colu he guarda nell'aperto vede solo un richiudersi, vede solo un nonvedere. Per questo in quanto, cioè, mondo si è aperto solo attraverso l' interruzione e la ncazione del rapporto del vivente col suo disinibitore l'ess er è n dall'inizio traversato dal nulla e il mondo è costitutivamente sgnato da negatività e spaesamento. Si comprende che cos'è il paesaggio solo se s'intende che esso rappresenta, rispett a'a mbiente animale e al mondo umano, uno stadio ulteriore. Quando guardiamo un paesaggio, noi certo vediamo l'aper to, contempiamo il mondo, con tutti gli elementi che lo compongono (le fonti antiche elencano fra questi i boschi, le colle, gli specchi d' acqua, e ville, i promontori, le sorgenti, i torrenti, i canali, le greggi e i pasti, gente a piedi o in bar ca, che va a caccia o vendemmia . . . ); ma q esti, che non erano già più parti di un ambiente
animale, sono ora per così dire disattivati uno a uno sul piano dell' essere e percepiti nel loro insieme in una nuova dimensione. Li vediamo, perfettamente e limpidamente come non mai, e tuttavia non li vediamo già più, perduti felicemente, immemorabilmente perduti nel paesaggio. essere, en état de paysage, è sospeso e reso inoperoso, e il mondo, divenuto perfettamente inappropriabile, va per così dire al di là dell'es sere e del nulla. Non più animale né umano, chi contempla il paesaggio è soltanto paesaggio. Non cerca più di comprendere, guarda soltanto. Se il mondo era l'inoperosità del'ambiente animale, il paesaggio è, per così dire, inoperosità del'inoperosità, essere disattivato. Né disinibitori animali né enti, gli elementi che formano il paesaggio sono ntologicamente neutri. E la negatività, che, nella forma del nulla e della non apertura, ineriva al mondo poiché questo proveniva dalla chiusura animale, di cui era sotanto una sospensione è ora congedata. In quanto si è portato, in questo senso, al di là dell'essere, il paesaggio è la forma eminente dell'uso. In esso, uso di sé e uso del mondo coincidono senza residui. La giustizia, come stato del mondo in quanto inappropriabile, è qui l'esperienza decisiva. paesaggio è la dimora nell'inappropriable come formadivita, come giustizia. Per questo, se nel mondo l'uomo era necessariamente gettato e spaesato, nel paesaggio egli è nalmente a casa. Pays!, paese! (da pagus, villaggio) è in origine, secondo gli etimologisti, il saluto che si s cambiavano coloro che si riconoscevano dello stesso v aggio. paesaggio è la casa dell'essere.
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samente da quelo che avviene nell'animale, si riutano a noi nella misura stessa in cui siamo inchiodati ad esse. «esserci si trova così consegnato all'ente che si riuta nella sua totalità». uomo, annoiandosi, è consegnato, cioè, a qualcosa che gli si riuta, esatta mente come l'anmale, nel suo stordimento, è esposto in una non rivelazione. Ma, a dierenza de'animale, l'uomo, dimorando nella noia, sospende rapporto immediato con l'ambiente: egli è un animale che si annoia e percepisce così per la prima volta come tale cioè come un ete il disinibitore che gli si riuta Ciò signica, aoa , che il mondo non si apre su uno sp azio nuovo e ulteriore, più pio e luminoso, conquistato al di à dei limiti dell' ambiente anime e senza relazione con esso. A contrario, esso si è aperto solo attraerso una so spensione e una disattivazione del rapporto animale c disinibitore. aperto, il libero spazio dell'essere , non nominano qualco sa di radicalmente altro rispetto al nonaperto de'animale: ess ono soltanto l'aerramento di un indisvelato, la sospensione e la cattura del nonvederel'alodolal'aperto. apertura che è in quesione nel mondo è essenzialmente apertura a una chiusura, e colu he guarda nell'aperto vede solo un richiudersi, vede solo un nonvedere. Per questo in quanto, cioè, mondo si è aperto solo attraverso l' interruzione e la ncazione del rapporto del vivente col suo disinibitore l'ess er è n dall'inizio traversato dal nulla e il mondo è costitutivamente sgnato da negatività e spaesamento. Si comprende che cos'è il paesaggio solo se s'intende che esso rappresenta, rispett a'a mbiente animale e al mondo umano, uno stadio ulteriore. Quando guardiamo un paesaggio, noi certo vediamo l'aper to, contempiamo il mondo, con tutti gli elementi che lo compongono (le fonti antiche elencano fra questi i boschi, le colle, gli specchi d' acqua, e ville, i promontori, le sorgenti, i torrenti, i canali, le greggi e i pasti, gente a piedi o in bar ca, che va a caccia o vendemmia . . . ); ma q esti, che non erano già più parti di un ambiente
animale, sono ora per così dire disattivati uno a uno sul piano dell' essere e percepiti nel loro insieme in una nuova dimensione. Li vediamo, perfettamente e limpidamente come non mai, e tuttavia non li vediamo già più, perduti felicemente, immemorabilmente perduti nel paesaggio. essere, en état de paysage, è sospeso e reso inoperoso, e il mondo, divenuto perfettamente inappropriabile, va per così dire al di là dell'es sere e del nulla. Non più animale né umano, chi contempla il paesaggio è soltanto paesaggio. Non cerca più di comprendere, guarda soltanto. Se il mondo era l'inoperosità del'ambiente animale, il paesaggio è, per così dire, inoperosità del'inoperosità, essere disattivato. Né disinibitori animali né enti, gli elementi che formano il paesaggio sono ntologicamente neutri. E la negatività, che, nella forma del nulla e della non apertura, ineriva al mondo poiché questo proveniva dalla chiusura animale, di cui era sotanto una sospensione è ora congedata. In quanto si è portato, in questo senso, al di là dell'essere, il paesaggio è la forma eminente dell'uso. In esso, uso di sé e uso del mondo coincidono senza residui. La giustizia, come stato del mondo in quanto inappropriabile, è qui l'esperienza decisiva. paesaggio è la dimora nell'inappropriable come formadivita, come giustizia. Per questo, se nel mondo l'uomo era necessariamente gettato e spaesato, nel paesaggio egli è nalmente a casa. Pays!, paese! (da pagus, villaggio) è in origine, secondo gli etimologisti, il saluto che si s cambiavano coloro che si riconoscevano dello stesso v aggio. paesaggio è la casa dell'essere.
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Che cos'è un comando?
Cercherò ogg i semplicemente di presentai il renconto di una ri cerca in corso, che concerne l'archeologia del comando. Più che di una dottrina da trasmettere, si tratterà di concetti nea loro relazio ne strategica a un problema o di strumenti nella lor relazione a un possibile uso, che starà a voi, se ne avrete voglia, praticare. 'inizio della ricer ca, mi resi subito conto che dovevo confrontarmi con due dicoltà preliminari non preventivae. a prima era che la formulazione stessa della ricerca archeoloa del comando conteneva qualcosa come un'aporia o una contraddizione. L archeologia è la ricerca di un'arché, di un'origine, m i termine greco arché ha due signicati: signca tanto "origine, prncpio, quanto "comando, ordine. Così, verbo archo signica "inziare, essere il primo a fare qualcosa, ma signica anche "candare, essere capo. Senza dimenticare che l'arconte (letteralente "colui che comincia) era in Atene la suprema magistratura. Questa omonimia o, piuttosto, questa polisemia è nelle nostre lingue un fatto così comune che non ci stupiamo d rovare elencati sotto uno stes sa lemma nei nostri dizionari signict almeno in apparenza lontanissimi fra lro, che poi paziente lavoro dei linguisti cerca di ricucire in un etimo comune. o credo ce questo doppio movimento di disseminazione e di riunicazione semantica sia con
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Che cos'è un comando?
Cercherò ogg i semplicemente di presentai il renconto di una ri cerca in corso, che concerne l'archeologia del comando. Più che di una dottrina da trasmettere, si tratterà di concetti nea loro relazio ne strategica a un problema o di strumenti nella lor relazione a un possibile uso, che starà a voi, se ne avrete voglia, praticare. 'inizio della ricer ca, mi resi subito conto che dovevo confrontarmi con due dicoltà preliminari non preventivae. a prima era che la formulazione stessa della ricerca archeoloa del comando conteneva qualcosa come un'aporia o una contraddizione. L archeologia è la ricerca di un'arché, di un'origine, m i termine greco arché ha due signicati: signca tanto "origine, prncpio, quanto "comando, ordine. Così, verbo archo signica "inziare, essere il primo a fare qualcosa, ma signica anche "candare, essere capo. Senza dimenticare che l'arconte (letteralente "colui che comincia) era in Atene la suprema magistratura. Questa omonimia o, piuttosto, questa polisemia è nelle nostre lingue un fatto così comune che non ci stupiamo d rovare elencati sotto uno stes sa lemma nei nostri dizionari signict almeno in apparenza lontanissimi fra lro, che poi paziente lavoro dei linguisti cerca di ricucire in un etimo comune. o credo ce questo doppio movimento di disseminazione e di riunicazione semantica sia con
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pura origine, un semplice "venire alla presenza disgiunto da ogni
quasi per abbandonare comando, quando trova nalmente un reg
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pura origine, un semplice "venire alla presenza disgiunto da ogni comando. n secondo che non sarà ilegittio denire l'interpre tazione democratica di Heidegger è il tentativo simmetricamente opposto di Jacques Derrida di neutralizzare l'origine per raggiungere un puro imperativo, senz' altro contenuto che l'ingiunzione: interpreta! (anarchia mi è sempre parsa più interessante della democrazia, ma va da sé che ciascuno è qui libero di pensare come crede) . In ogni caso, credo che possiate ora intendere senza dicoltà a che cosa mi riferivo quando evocavo le aporie con cui un'archeologia del comando deve confrontarsi. Non vi è 'arché per il comando, perché il comando stesso è l'arch è l'origine o, almeno, è nel luogo dell'origine.
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La seconda dicoltà con cui dovevo confrontarmi era l'assenza quasi completa nea tradizione losoca di una riessione sul co mando. Vi sono state e vi sono tuttora ricerche sull'obbedienza, su perché gli uomini obbediscono, come il bellissimo Dcorso sulla servitù volontaria di La Boétie; ma nulla o quasi troviamo sul necessario presupposto dell'obbedienza, cioè sul comando e su perché gli uomini comandino. o mi ero invece formato la convinzione che il potere non sia denito soltanto dalla sua capacità di farsi obbedire, ma innanzitutto dalla sua capacità di comandare. Un potere non cade quando non è più o non è più integralente obbedito, ma quando cessa di dare ordini I uno dei più bei romanzi del X secolo, Lo stenrdo di exander LeetHolenia, vediamo l'esercito plurazionale de'impero austroungarico nel punto in cui comincia a disgregarsi, verso la ne della pra guerra mondiale. Un reggiento di ungheresi riuta im provvisamente di obbedire all'ordine di marcia ipartito dal comandante austriaco. n comandante, sbalordito di fronte a questa inattesa disubbidienza esita, consulta gli altri uciali, non sa che fare e sta
quasi per abbandonare comando, quando trova nalmente un reg gimento di un'altra nazionalità che obbedisce ancora ai suoi ordini e fa oco sugli insorti. Ogni volta che un potee è in disfacimento, nché qualcuno dà ordi, si troverà sempre anche qualcuno, magari uno solo, che gli obbedirà: un potere cessa di esstere soltanto quan do smette di dare ori. È quello che è success Germania al mo mento della caduta del muro e Italia dopo 1'8 settembre 1945: non era cessata l'obbedienza, era venuto meno il coando. Di qui l'urgenza e la necessità di un'archeologia del comando, di una ricerca che interrogasse non solo le ragioni ell'obbedienza, ma anche e innanzitutto quelle del co mando Dal momento che la losoa non sembrava però fornirmi alcuna denizione del concetto di comando, decisi di cominciare innanzitutto con un'analisi della sua forma linguistica. Che cos'è un comando dal punto di vista dea lingua? Qua l è a sua grammatica e quale la sua logica? A questo proposito la tradizione osoca m foiva uno spunto decisivo: la fondamentale divisione degli enunciati linguistici che Aristotele stabilisce in un passo del Peri hermn eias, che, escludendo una parte di essi dalla considerazione osoca, s rvelava essee all'origine della scarsa attenzione che la logica ccientale ha ac cordato al comando. «Non ogn iscorso» scrive Aristotele (De int. , 17 a 1 7 ) «è apofantico, ma è tale solo quel discoso in cui è possibile dire il vero o il falso (aletheuein e pseudesthai Ciò non avviene in tutti i discorsi: ad esempio, la preghiera è un discorso (logos), ma essa non è né vera né falsa. Non ci oc cuperemo pertanto di questi altri discorsi, perché la loro indagine compete alla retorica e alla poetica; oggetto del presente studio sarà solo il discors apofantico». Aristotele sembra qui aer mentito, perché, se apriamo il suo trat tato sulla Poetica, scopriamo che l'esclusione della preghiera è cu riosamente ripetuta ed estesa a un vasto insieme di discorsi non apofantici che comprende anche il comando: <
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le gure del discorso (schemata tes lexeos) spetta all'arte dell'atto-
Quanto al comando, che di quella terra incognita era parte essenzia-
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pura origine, un semplice "venire alla presenza disgiunto da ogni comando. n secondo che non sarà ilegittio denire l'interpre tazione democratica di Heidegger è il tentativo simmetricamente opposto di Jacques Derrida di neutralizzare l'origine per raggiungere un puro imperativo, senz' altro contenuto che l'ingiunzione: interpreta! (anarchia mi è sempre parsa più interessante della democrazia, ma va da sé che ciascuno è qui libero di pensare come crede) . In ogni caso, credo che possiate ora intendere senza dicoltà a che cosa mi riferivo quando evocavo le aporie con cui un'archeologia del comando deve confrontarsi. Non vi è 'arché per il comando, perché il comando stesso è l'arch è l'origine o, almeno, è nel luogo dell'origine.
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La seconda dicoltà con cui dovevo confrontarmi era l'assenza quasi completa nea tradizione losoca di una riessione sul co mando. Vi sono state e vi sono tuttora ricerche sull'obbedienza, su perché gli uomini obbediscono, come il bellissimo Dcorso sulla servitù volontaria di La Boétie; ma nulla o quasi troviamo sul necessario presupposto dell'obbedienza, cioè sul comando e su perché gli uomini comandino. o mi ero invece formato la convinzione che il potere non sia denito soltanto dalla sua capacità di farsi obbedire, ma innanzitutto dalla sua capacità di comandare. Un potere non cade quando non è più o non è più integralente obbedito, ma quando cessa di dare ordini I uno dei più bei romanzi del X secolo, Lo stenrdo di exander LeetHolenia, vediamo l'esercito plurazionale de'impero austroungarico nel punto in cui comincia a disgregarsi, verso la ne della pra guerra mondiale. Un reggiento di ungheresi riuta im provvisamente di obbedire all'ordine di marcia ipartito dal comandante austriaco. n comandante, sbalordito di fronte a questa inattesa disubbidienza esita, consulta gli altri uciali, non sa che fare e sta
quasi per abbandonare comando, quando trova nalmente un reg gimento di un'altra nazionalità che obbedisce ancora ai suoi ordini e fa oco sugli insorti. Ogni volta che un potee è in disfacimento, nché qualcuno dà ordi, si troverà sempre anche qualcuno, magari uno solo, che gli obbedirà: un potere cessa di esstere soltanto quan do smette di dare ori. È quello che è success Germania al mo mento della caduta del muro e Italia dopo 1'8 settembre 1945: non era cessata l'obbedienza, era venuto meno il coando. Di qui l'urgenza e la necessità di un'archeologia del comando, di una ricerca che interrogasse non solo le ragioni ell'obbedienza, ma anche e innanzitutto quelle del co mando Dal momento che la losoa non sembrava però fornirmi alcuna denizione del concetto di comando, decisi di cominciare innanzitutto con un'analisi della sua forma linguistica. Che cos'è un comando dal punto di vista dea lingua? Qua l è a sua grammatica e quale la sua logica? A questo proposito la tradizione osoca m foiva uno spunto decisivo: la fondamentale divisione degli enunciati linguistici che Aristotele stabilisce in un passo del Peri hermn eias, che, escludendo una parte di essi dalla considerazione osoca, s rvelava essee all'origine della scarsa attenzione che la logica ccientale ha ac cordato al comando. «Non ogn iscorso» scrive Aristotele (De int. , 17 a 1 7 ) «è apofantico, ma è tale solo quel discoso in cui è possibile dire il vero o il falso (aletheuein e pseudesthai Ciò non avviene in tutti i discorsi: ad esempio, la preghiera è un discorso (logos), ma essa non è né vera né falsa. Non ci oc cuperemo pertanto di questi altri discorsi, perché la loro indagine compete alla retorica e alla poetica; oggetto del presente studio sarà solo il discors apofantico». Aristotele sembra qui aer mentito, perché, se apriamo il suo trat tato sulla Poetica, scopriamo che l'esclusione della preghiera è cu riosamente ripetuta ed estesa a un vasto insieme di discorsi non apofantici che comprende anche il comando: <
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le gure del discorso (schemata tes lexeos) spetta all'arte dell'attore (hypokritzes) e a chi la possiede tecnicamente: come a dire che cos'è l comando (entolé, che cos'è la preghiera, che cosa sono la narrazione, la minaccia, la domanda e la risposta e altri argomenti del genere. Dalla conoscenza o dall'ignoranza di ciò non può derivare alla poetica nulla che sia in qualche modo degno di considerazione. Che importanza ha se, come aerma Protagora, Omero ha scambiato una preghiera con un comando, dicendo "cantami l'ira, o dea ? Chiedere di fare o non fare, dice Protagora, è un comando. Lasciamo perciò questo argomento, che appartiene a un'altra indagine e non aa poetica» (Poet. 56b 925) Consideriamo questa grande cesura che divide, secondo Aristotele, il campo del linguaggio e, insieme, ne esclude una parte dalla competenza professionale dei oso. Vi è un discorso, un logos che Aristotele chiama "apofantico per ché è ca pace di manifestare (questo è il signicato del verbo apo/aino) se una cosa esiste o no, ed è pertanto nec essariamente vero o falso. V i è poi u altro discor so, un altro logos come la preghiera, il comando, la minaccia, la narrazione, la domanda e la risposta (e anche , possiamo aggiungere, l'esclamazione, il saluto, il consiglio, la maledizione, la bestemia eccetera) che non è apofantico, non manifesta l'esse re o il non essere di qualcosa e d è, pertanto, indierente alla verità e alla falsità. La decisione aristotelica di escludere il discorso non apofantico dalla losoa ha segnato la storia della logica occidentale. Per secoli, la logica, cioè la riessione sul linguaggio, si è concentrata soltanto sull'analisi delle proposizioni apofantiche, che possono essere vere o false, e ha lasciato da parte, come un territorio impraticabile, quell'enorme porzione dela lingua di cui pure quotidia namente ci serviamo, quel discorso non apofantico, che non può essere né vero né falso e, come tale , quando non era semplicemente ignorato, venne abbandonato alla competenza dei retori, dei oralisti e dei teologi. -
Quanto al comando, che di quella terra incognita era parte essenziale, esso venne semplicemente spiegato, quando capitava di doverlo menzionare, come un atto di volontà e, come tale, connato nell' ambito della giurisprudenza e del la morale. Anche un pensato re certamente non convenzionale come Hobbes, nei suoi Elements o/ law denisce il comando semplicemente come «an expression o/ appetite and will» Solo nel X secolo i logici cominciarono a interessarsi a quello che avrebbero chiamato "linguaggio prescrittivo, cioè al discorso espresso nel modo imperativo. Se non mi soermerò su questo capitolo della storia dea logica, che ha ormai prodotto una vastissima letteratura, è perché il problema sembra qui essere soltanto quello di evitare le aporie implicite nel comando, trasformando u discorso all'imperativo in un discorso all'indicativo. n mio problema era invece precisamente quello di denire l'imperativo come tale. Proviamo ora a comprendere che cosa avviene quando qualcuno esprime un discorso non apofantico nella forma di un imperativo, com per esempio: "camina ! . Per comprendere il signicato di questa ingiunzione, sarà ute compararla con lo stesso verbo nella terza persona del modo ndicativo: "egli camina o "Carlo cammina. Quest'ultia proposizione è apofantica in senso aristotelico, perché può essere vera (se Carlo sta eettivamente camminando) o falsa (se Carlo sta seduto); in ogni caso, però, essa si riferisce a qualcosa nel mondo, manifesta l'esser e o il non essere di qualcosa. Tutto al contrario, benché morfologicamente identico all'espressione verbale a'indicativo, il comando "cammina ! non manifesta l'ess ere o il nonessere di qualcosa, non desc rive né nega uno stato di cose e, senza essere per questo falso, non si riferisce a nulla di esistente nel mondo. Occorre evitare con ogni cura l'equivoco secondo cui il signicato de'imperativo consisterebbe nell'atto della sua esecuzione. ordine impartito dall'uciale ai suoi soldati è
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le gure del discorso (schemata tes lexeos) spetta all'arte dell'attore (hypokritzes) e a chi la possiede tecnicamente: come a dire che cos'è l comando (entolé, che cos'è la preghiera, che cosa sono la narrazione, la minaccia, la domanda e la risposta e altri argomenti del genere. Dalla conoscenza o dall'ignoranza di ciò non può derivare alla poetica nulla che sia in qualche modo degno di considerazione. Che importanza ha se, come aerma Protagora, Omero ha scambiato una preghiera con un comando, dicendo "cantami l'ira, o dea ? Chiedere di fare o non fare, dice Protagora, è un comando. Lasciamo perciò questo argomento, che appartiene a un'altra indagine e non aa poetica» (Poet. 56b 925) Consideriamo questa grande cesura che divide, secondo Aristotele, il campo del linguaggio e, insieme, ne esclude una parte dalla competenza professionale dei oso. Vi è un discorso, un logos che Aristotele chiama "apofantico per ché è ca pace di manifestare (questo è il signicato del verbo apo/aino) se una cosa esiste o no, ed è pertanto nec essariamente vero o falso. V i è poi u altro discor so, un altro logos come la preghiera, il comando, la minaccia, la narrazione, la domanda e la risposta (e anche , possiamo aggiungere, l'esclamazione, il saluto, il consiglio, la maledizione, la bestemia eccetera) che non è apofantico, non manifesta l'esse re o il non essere di qualcosa e d è, pertanto, indierente alla verità e alla falsità. La decisione aristotelica di escludere il discorso non apofantico dalla losoa ha segnato la storia della logica occidentale. Per secoli, la logica, cioè la riessione sul linguaggio, si è concentrata soltanto sull'analisi delle proposizioni apofantiche, che possono essere vere o false, e ha lasciato da parte, come un territorio impraticabile, quell'enorme porzione dela lingua di cui pure quotidia namente ci serviamo, quel discorso non apofantico, che non può essere né vero né falso e, come tale , quando non era semplicemente ignorato, venne abbandonato alla competenza dei retori, dei oralisti e dei teologi. -
Quanto al comando, che di quella terra incognita era parte essenziale, esso venne semplicemente spiegato, quando capitava di doverlo menzionare, come un atto di volontà e, come tale, connato nell' ambito della giurisprudenza e del la morale. Anche un pensato re certamente non convenzionale come Hobbes, nei suoi Elements o/ law denisce il comando semplicemente come «an expression o/ appetite and will» Solo nel X secolo i logici cominciarono a interessarsi a quello che avrebbero chiamato "linguaggio prescrittivo, cioè al discorso espresso nel modo imperativo. Se non mi soermerò su questo capitolo della storia dea logica, che ha ormai prodotto una vastissima letteratura, è perché il problema sembra qui essere soltanto quello di evitare le aporie implicite nel comando, trasformando u discorso all'imperativo in un discorso all'indicativo. n mio problema era invece precisamente quello di denire l'imperativo come tale. Proviamo ora a comprendere che cosa avviene quando qualcuno esprime un discorso non apofantico nella forma di un imperativo, com per esempio: "camina ! . Per comprendere il signicato di questa ingiunzione, sarà ute compararla con lo stesso verbo nella terza persona del modo ndicativo: "egli camina o "Carlo cammina. Quest'ultia proposizione è apofantica in senso aristotelico, perché può essere vera (se Carlo sta eettivamente camminando) o falsa (se Carlo sta seduto); in ogni caso, però, essa si riferisce a qualcosa nel mondo, manifesta l'esser e o il non essere di qualcosa. Tutto al contrario, benché morfologicamente identico all'espressione verbale a'indicativo, il comando "cammina ! non manifesta l'ess ere o il nonessere di qualcosa, non desc rive né nega uno stato di cose e, senza essere per questo falso, non si riferisce a nulla di esistente nel mondo. Occorre evitare con ogni cura l'equivoco secondo cui il signicato de'imperativo consisterebbe nell'atto della sua esecuzione. ordine impartito dall'uciale ai suoi soldati è
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perfetto per l solo fatto d essere proferto: che esso sa obbedto o dsatteso non na n alcun modo la sua valdtà. Dobbamo pertanto ammettere senza rserve che nulla, nel mondo così com'è, corrsponde all'mperatvo. Per questo gurst e moralst soglno rpetere che l'mperatvo non mplca un essere ma un dover essere dstnzone che la lngua tedesca esprme con cha rezza nell'opposzone fra Sein e Sollen che Kant ha posto a fondame�o della sua etca e Kelsen alla base della sua teora pura del dtto. «Quando un uomo» scrve Hans Kelsen «esprme la volontà che un altro uomo s comport n un certo modo l senso d questo atto non può essere desc rtto dcendo che l'altro' uomo s comporterà n un certo modo, ma solo dcendo che egl deve (sol comportars n quel modo». Ma o sao veramente aermare d aver compreso, g raze a que sta dstzwne fra essere e dove r essere, l sgncato dell'mperatvo "cammna ! ? E possble denre la semantca dell'mperatvo? La scenza del lnguaggo non c è purtroppo d'auto, perché ngust confessano d trovars n mbarazzo ogn volta che s tratta d descrvere sgncato d un mperatvo. Menzonerò, tuttava, le corsve osservazon d due fra pù grand lngust de X secoo, Antone Melet e Emle Benvenste. Mellet, che sottolnea l'denttà morfologca fra la forma del verbo a'ndcatvo e quella dell'mperatvo, osserva che nelle lngue ndoeuropee l'mperatvo concde d solto con l tema de verbo e ne trae la conseguenza che l' mperatvo potrebbe essere qualcos� come la «forma essenzale del verbo». Non è charo se qu "essenzale sgnch anche "prmtva, ma l'dea che l'mperatvo potrebbe esser e la forma orgnara de verbo non sembra lontana. Benvenste, n un artcolo n cu crtca la concezone d Austn del comando come un performatvo (sul problema del performatvo avremo occasone d tornare), scrve che l'mperatvo «non ha denotazone e non mra a comuncare qualcosa, ma s caratterzza come
pragmatco e cerca d agre sull'udtore, ntmndogl un compor tamento»; esso non è propramente un tempo erbale, ma è, put tosto, «l semantema nudo usato come forma iussva con una nto nazone specca». Cerchamo d svolgere quea aconca, quanto engmatca denzone. mperatvo è l "semantema nudo, coè, n quanto tale, qualcosa che esprme la pura elazone ntologca fra lnguaggo e mondo. Questo nudo semantea è usato, però, n modo non denotatvo: non s rfersce, coè, a u segmento concreto del mondo o a uno stato d cose, ma see puttosto a ntmare qualcosa a ch lo rceve. Che cosa ntma l'mperaio? È evdente che cò che ntma l'mperatvo "cammna! n quato "nudo semantema non è altro che se stesso, non è altro che i nudo semantema "c ammnare, mpegato non per comuncare ualcosa o descrvere la relazone con uno stato d cose, ma nella forma d un comando. Samo, co è, n presenza d un nguaggo sgncante, ma non denotatv, che ntma se st esso, coè la pura connesone semantca fra lnguaggo e mondo. La relazione ntologica fra inguaggio e mondo non è qui assera, come nel dcorso apofantico ma comandata. E, tuttava, s tratta ancora d un'ntologa, solo ce questa non ha la forma del è, ma quella del "s, on descr una relazone fra lnguaggo e modo, ma la ngunge e comand
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Possamo allora suggerre a seguente potes, che è forse l'acqu szone essenzale dela ma rcerca, almeno ella fase n cu essa s trova attualmente. V sono, nella cultura ocidentale, due nto loge, dstnte ma non rrelate: la prma, l'ntloga dell'asserzo ne apofantca, s esprme essenzalmente all'ncatvo; la seconda, l'ntologa del comando, s esprme essenzalmente all'mperatvo. Possamo chamare la prma "ntologa dell' (n greco, la forma della terza pe rsona dell'ndcatvo del verbo essere ), la seconda "ntologa del' esto" (la forma corrspondente l'mperatvo). Nel poema d Parmende, che naugura la metasca occdentale, la pro
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perfetto per l solo fatto d essere proferto: che esso sa obbedto o dsatteso non na n alcun modo la sua valdtà. Dobbamo pertanto ammettere senza rserve che nulla, nel mondo così com'è, corrsponde all'mperatvo. Per questo gurst e moralst soglno rpetere che l'mperatvo non mplca un essere ma un dover essere dstnzone che la lngua tedesca esprme con cha rezza nell'opposzone fra Sein e Sollen che Kant ha posto a fondame�o della sua etca e Kelsen alla base della sua teora pura del dtto. «Quando un uomo» scrve Hans Kelsen «esprme la volontà che un altro uomo s comport n un certo modo l senso d questo atto non può essere desc rtto dcendo che l'altro' uomo s comporterà n un certo modo, ma solo dcendo che egl deve (sol comportars n quel modo». Ma o sao veramente aermare d aver compreso, g raze a que sta dstzwne fra essere e dove r essere, l sgncato dell'mperatvo "cammna ! ? E possble denre la semantca dell'mperatvo? La scenza del lnguaggo non c è purtroppo d'auto, perché ngust confessano d trovars n mbarazzo ogn volta che s tratta d descrvere sgncato d un mperatvo. Menzonerò, tuttava, le corsve osservazon d due fra pù grand lngust de X secoo, Antone Melet e Emle Benvenste. Mellet, che sottolnea l'denttà morfologca fra la forma del verbo a'ndcatvo e quella dell'mperatvo, osserva che nelle lngue ndoeuropee l'mperatvo concde d solto con l tema de verbo e ne trae la conseguenza che l' mperatvo potrebbe essere qualcos� come la «forma essenzale del verbo». Non è charo se qu "essenzale sgnch anche "prmtva, ma l'dea che l'mperatvo potrebbe esser e la forma orgnara de verbo non sembra lontana. Benvenste, n un artcolo n cu crtca la concezone d Austn del comando come un performatvo (sul problema del performatvo avremo occasone d tornare), scrve che l'mperatvo «non ha denotazone e non mra a comuncare qualcosa, ma s caratterzza come
pragmatco e cerca d agre sull'udtore, ntmndogl un compor tamento»; esso non è propramente un tempo erbale, ma è, put tosto, «l semantema nudo usato come forma iussva con una nto nazone specca». Cerchamo d svolgere quea aconca, quanto engmatca denzone. mperatvo è l "semantema nudo, coè, n quanto tale, qualcosa che esprme la pura elazone ntologca fra lnguaggo e mondo. Questo nudo semantea è usato, però, n modo non denotatvo: non s rfersce, coè, a u segmento concreto del mondo o a uno stato d cose, ma see puttosto a ntmare qualcosa a ch lo rceve. Che cosa ntma l'mperaio? È evdente che cò che ntma l'mperatvo "cammna! n quato "nudo semantema non è altro che se stesso, non è altro che i nudo semantema "c ammnare, mpegato non per comuncare ualcosa o descrvere la relazone con uno stato d cose, ma nella forma d un comando. Samo, co è, n presenza d un nguaggo sgncante, ma non denotatv, che ntma se st esso, coè la pura connesone semantca fra lnguaggo e mondo. La relazione ntologica fra inguaggio e mondo non è qui assera, come nel dcorso apofantico ma comandata. E, tuttava, s tratta ancora d un'ntologa, solo ce questa non ha la forma del è, ma quella del "s, on descr una relazone fra lnguaggo e modo, ma la ngunge e comand
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Possamo allora suggerre a seguente potes, che è forse l'acqu szone essenzale dela ma rcerca, almeno ella fase n cu essa s trova attualmente. V sono, nella cultura ocidentale, due nto loge, dstnte ma non rrelate: la prma, l'ntloga dell'asserzo ne apofantca, s esprme essenzalmente all'ncatvo; la seconda, l'ntologa del comando, s esprme essenzalmente all'mperatvo. Possamo chamare la prma "ntologa dell' (n greco, la forma della terza pe rsona dell'ndcatvo del verbo essere ), la seconda "ntologa del' esto" (la forma corrspondente l'mperatvo). Nel poema d Parmende, che naugura la metasca occdentale, la pro
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nome della sicurezza, in modo che l'obbedienza a un comando
la sua formazione, si osserva che esso sembra svilupparsi a partire
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nome della sicurezza, in modo che l'obbedienza a un comando prende la forma di una cooperazione e, spesso, quella di un comando dato a se stessi. Non penso solo alla sfera della pubblicità e a quella delle prescrizioni di sicurezza date in forma di invito, ma anche alla sfera dei dispositivi tecnologici. Questi dispositivi sono deniti dal fatto che il soggetto che li usa crede di coman darli (e infatti preme dei tasti deniti come " comandi ), ma non fa in verità che obbedire a un comando iscritto nella stessa struttura del dispositivo. Il libero cittadino delle società democraticotecnologiche è un essere che incessantemente obbedisce nel gesto stesso con cui impartisce un comando. Avevo detto che vi avrei dato un rendiconto della mia ricerca in corso sull'archeologia del comando. Ma questo rendiconto non sarebbe completo se non vi parlassi di un altro concetto, che ha costantemente accompagnato come una sorta di compagno clandestino la mia inchiesta sul comando. Si tratta della volontà. Nella tradizione losoca, il comando, quando è menzionato, è costantemente e sbrigativamente spiegato come un "atto di volontà ciò signica però dal momento che nessuno è mai riuscito a denire che cosa signica "volere pretendere di spiegare, come si dice, un obscurum per obscurius, qualcosa di oscuro con qualcosa di ancora più oscuro. Per questo, a un certo punto della mia ricerca, ho deciso di provare a seguire il suggerimento di Nietzsche, che, rovesciando la spiegazione , aerma che volere non signica nient'altro che comandare. Una delle poche questioni su cui gli storici della losoa antica sembrano essere in perfetto accordo è la mancanza del concetto di volontà nel pensiero greco classico. Questo concetto, almeno nel senso fondamentale che esso ha per noi, comincia ad apparire soltanto con lo stoicismo romano e trova il suo pieno svuppo nella teologia cristiana. Ma se si cerca di seguire il processo che porta al
la sua formazione, si osserva che esso sembra svilupparsi a partire da un altro concetto, che svolge nella losoa greca una funzione altrettanto importante e al quale la volontà iarrà strettamente connessa: il concetto di potenza, dynamis. Credo anzi che non sarebbe errato dire che, mentre la osoa gre ca aveva al suo centro la potenza e la po ssibilit la teologia cristiana e al suo seguito la osoa moderna pongon al proprio centro la volontà. Se l'uomo antico è un essere di potenza, un essere che può, l'uomo moderno è un essere di volontà, un soggetto che vuole. In questo senso, il passaggio dalla sfera della poenza a quella della volontà segna la soglia fra l'antico e moderno iò si potrebbe an che esprimere dicendo che, con l'inizio dell'e oderna, verbo modale "volere prende il posto del verbo moale "potere. Vale dunque la pena riettere sulla nzione ndamentale che i verbi modali svolgono nella nostra cultura e, i particolare, nella losoa. Sappiamo che la losoa si denisce come scenza dell'essere, ma ciò è vero solo a condizione di precisare che 'essere v è sempre pensato secondo le sue modalità, cioè c he esso è sempre già diviso e articolato in "p ossibilità, contingenza, nece ssit , e che nel suo dar si è sempre già segnato da u potere, un volere un dovere. l verbi modali hanno, tuttavia, una curiosa particolari: come dicevano i grammatici antichi, essi " sono manchevoli della osa (elleiponta to pragmati), sono "oti (kena), nel senso che, per acquistare loro signicato, devono essere seguiti da un altro verbo all'innito che li riempia. " Io cammino, io scrivo, io mangio non sono vuoti; ma "io posso, io vogli, io devo possono essere usati solo se accompagnati da un verbo espresso o sottinteso: " io posso caminare , " io voglio scrivere, "io devo mangi �re. È singolare che questi verbi vuoti siano così importanti per l a lo soa, che essa sembra essersi data come compto la comprensione del loro signicato. Credo in tal senso che una buona denizione
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nome della sicurezza, in modo che l'obbedienza a un comando prende la forma di una cooperazione e, spesso, quella di un comando dato a se stessi. Non penso solo alla sfera della pubblicità e a quella delle prescrizioni di sicurezza date in forma di invito, ma anche alla sfera dei dispositivi tecnologici. Questi dispositivi sono deniti dal fatto che il soggetto che li usa crede di coman darli (e infatti preme dei tasti deniti come " comandi ), ma non fa in verità che obbedire a un comando iscritto nella stessa struttura del dispositivo. Il libero cittadino delle società democraticotecnologiche è un essere che incessantemente obbedisce nel gesto stesso con cui impartisce un comando. Avevo detto che vi avrei dato un rendiconto della mia ricerca in corso sull'archeologia del comando. Ma questo rendiconto non sarebbe completo se non vi parlassi di un altro concetto, che ha costantemente accompagnato come una sorta di compagno clandestino la mia inchiesta sul comando. Si tratta della volontà. Nella tradizione losoca, il comando, quando è menzionato, è costantemente e sbrigativamente spiegato come un "atto di volontà ciò signica però dal momento che nessuno è mai riuscito a denire che cosa signica "volere pretendere di spiegare, come si dice, un obscurum per obscurius, qualcosa di oscuro con qualcosa di ancora più oscuro. Per questo, a un certo punto della mia ricerca, ho deciso di provare a seguire il suggerimento di Nietzsche, che, rovesciando la spiegazione , aerma che volere non signica nient'altro che comandare. Una delle poche questioni su cui gli storici della losoa antica sembrano essere in perfetto accordo è la mancanza del concetto di volontà nel pensiero greco classico. Questo concetto, almeno nel senso fondamentale che esso ha per noi, comincia ad apparire soltanto con lo stoicismo romano e trova il suo pieno svuppo nella teologia cristiana. Ma se si cerca di seguire il processo che porta al
la sua formazione, si osserva che esso sembra svilupparsi a partire da un altro concetto, che svolge nella losoa greca una funzione altrettanto importante e al quale la volontà iarrà strettamente connessa: il concetto di potenza, dynamis. Credo anzi che non sarebbe errato dire che, mentre la osoa gre ca aveva al suo centro la potenza e la po ssibilit la teologia cristiana e al suo seguito la osoa moderna pongon al proprio centro la volontà. Se l'uomo antico è un essere di potenza, un essere che può, l'uomo moderno è un essere di volontà, un soggetto che vuole. In questo senso, il passaggio dalla sfera della poenza a quella della volontà segna la soglia fra l'antico e moderno iò si potrebbe an che esprimere dicendo che, con l'inizio dell'e oderna, verbo modale "volere prende il posto del verbo moale "potere. Vale dunque la pena riettere sulla nzione ndamentale che i verbi modali svolgono nella nostra cultura e, i particolare, nella losoa. Sappiamo che la losoa si denisce come scenza dell'essere, ma ciò è vero solo a condizione di precisare che 'essere v è sempre pensato secondo le sue modalità, cioè c he esso è sempre già diviso e articolato in "p ossibilità, contingenza, nece ssit , e che nel suo dar si è sempre già segnato da u potere, un volere un dovere. l verbi modali hanno, tuttavia, una curiosa particolari: come dicevano i grammatici antichi, essi " sono manchevoli della osa (elleiponta to pragmati), sono "oti (kena), nel senso che, per acquistare loro signicato, devono essere seguiti da un altro verbo all'innito che li riempia. " Io cammino, io scrivo, io mangio non sono vuoti; ma "io posso, io vogli, io devo possono essere usati solo se accompagnati da un verbo espresso o sottinteso: " io posso caminare , " io voglio scrivere, "io devo mangi �re. È singolare che questi verbi vuoti siano così importanti per l a lo soa, che essa sembra essersi data come compto la comprensione del loro signicato. Credo in tal senso che una buona denizione
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loso che ciò possa sembrarci; ma de potentia ordi
cioè secondo
Il capitalsmo
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loso che ciò possa sembrarci; ma de potentia ordinata, cioè secondo l'ordine e i comando che egli ha imposto aa potenza con la sua volontà, Dio non può fare che ciò che ha deciso di fare. E Dio ha deciso di incaarsi in Gesù e non in una donna, di salvare Pietro e non Giuda, di non distruggere la sua creazione e, soprattutto, di non mettersi a correre senza ragione. n senso e la nzione strategica di questo dispositivo sono perfettamente chiari: si tr atta di contenere e imbrigliare la potenza, di porre un limite al caos e all'immensità de'onnipotenza divina, che renderebbero altrimenti impossibile un governo ordinato del mondo. Lo strumento che realizza, per così dire dall 'interno, questa limitazione della potenza, è la volontà. La potenza può volere e, una volta che ha voluto, essa deve agire secondo la sua volontà. E, come Dio, anche l' uomo può e deve volere, può e deve arginare l'abisso oscuro della sua potenza. ipotesi di Nietzsc he, secondo cu i volere signica in realtà coman dare, risulta dunque corretta, e ciò a cui la volontà comanda non è altro che la potenza. Vorrei allora lasciare l'ultima parola a un personaggio di Melvie, che sembra ostinatamente indugiare all'incrocio fra la volontà e la potenza, lo scrvano Bartleby, he all'uomo di legge che gli chiede: «You wi not ? non cessa di risponder e, rivogendo la volontà contro se stessa : <
Il capitalsmo come rel g ione
Vi sono segni dei tempi (Mt. 16, 24) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cri stallizzano in eventi che annunciano e deniscono l'epoca che vie ne, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di quest eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971 quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la converbità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la ne di un sistema che aveva vincolato a lung valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieo delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Epp ure, a partire da quel momen to, l'i scrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sua sterlina e sua rupia, ma non sull'euro) «Prometto di pagare al portatore la somma di. .. », contrormata dal governatore dea banca centrale aveva enitivamente perduto il suo senso. Que sta frase signcava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un'oncia),
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loso che ciò possa sembrarci; ma de potentia ordinata, cioè secondo l'ordine e i comando che egli ha imposto aa potenza con la sua volontà, Dio non può fare che ciò che ha deciso di fare. E Dio ha deciso di incaarsi in Gesù e non in una donna, di salvare Pietro e non Giuda, di non distruggere la sua creazione e, soprattutto, di non mettersi a correre senza ragione. n senso e la nzione strategica di questo dispositivo sono perfettamente chiari: si tr atta di contenere e imbrigliare la potenza, di porre un limite al caos e all'immensità de'onnipotenza divina, che renderebbero altrimenti impossibile un governo ordinato del mondo. Lo strumento che realizza, per così dire dall 'interno, questa limitazione della potenza, è la volontà. La potenza può volere e, una volta che ha voluto, essa deve agire secondo la sua volontà. E, come Dio, anche l' uomo può e deve volere, può e deve arginare l'abisso oscuro della sua potenza. ipotesi di Nietzsc he, secondo cu i volere signica in realtà coman dare, risulta dunque corretta, e ciò a cui la volontà comanda non è altro che la potenza. Vorrei allora lasciare l'ultima parola a un personaggio di Melvie, che sembra ostinatamente indugiare all'incrocio fra la volontà e la potenza, lo scrvano Bartleby, he all'uomo di legge che gli chiede: «You wi not ? non cessa di risponder e, rivogendo la volontà contro se stessa : <
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Il capitalsmo come rel g ione
Vi sono segni dei tempi (Mt. 16, 24) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cri stallizzano in eventi che annunciano e deniscono l'epoca che vie ne, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di quest eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971 quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la converbità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la ne di un sistema che aveva vincolato a lung valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieo delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Epp ure, a partire da quel momen to, l'i scrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sua sterlina e sua rupia, ma non sull'euro) «Prometto di pagare al portatore la somma di. .. », contrormata dal governatore dea banca centrale aveva enitivamente perduto il suo senso. Que sta frase signcava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un'oncia),
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Se questo è vero, allora l'ipotesi di Benjamin di una stretta relazio-
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gli interessi semplici e composti, che sono nzione della colpa . . . si trasforma immediatamente in socialismo». Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l'ipotesi di Benjamin . Se il capitalismo è una religione, com e possiamo denirlo termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon? David Flsser, un grande studioso di scienza delle religioni (esiste anche una disciplina con questo strano nome) , stava lavorando sulla parola pist che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pteos signica in greco "banco di credito. Ecco qual era il senso della parola pt, che stava cercando da mesi di capire: pt "fede, è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questo Paolo può dire in una famosa denizione che <
Se questo è vero, allora l'ipotesi di Benjamin di una stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fde. E come, secondo Benjamin, il capitalismo una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato, quindi da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere , nel puro credito (believes in the pure beej ossia nel denaro. n capitalismo è, cioè, una religione in cui a fede i credito si è sostituita a Dio. Detto altri menti, poiché la forma pura del credito è il denaro , è una religione il cui Dio è il enaro. Ciò signica che la banca, che non è nient'altro che una macchina per fabbricare e gestire cedito, ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede la scarsa, incerta ducia che nostro tempo ha ancora in se stesso. Che cosa ha sgnicato, pe r questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certame nte qualcosa come una chiaricazione del roprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d'oro o ala ssazione di un dogma conciliare in ogni caso, un passo decisivo verso la puricazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa, nella forma del denaro e del credito, i emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idatrico con l'oro e si aerma nella sua assolutezza. n credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pist che non è che «sostanza di cose sperate». La fede così recitava la celebe denizione della Lettera agli ebrei - è sostanza (ousia termine tecnico per eccellenza de'ntologia greca) delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo a sua pt in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l'essere, la sostanza. Ma è proprio questo "come se
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gli interessi semplici e composti, che sono nzione della colpa . . . si trasforma immediatamente in socialismo». Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l'ipotesi di Benjamin . Se il capitalismo è una religione, com e possiamo denirlo termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon? David Flsser, un grande studioso di scienza delle religioni (esiste anche una disciplina con questo strano nome) , stava lavorando sulla parola pist che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pteos signica in greco "banco di credito. Ecco qual era il senso della parola pt, che stava cercando da mesi di capire: pt "fede, è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questo Paolo può dire in una famosa denizione che <
Se questo è vero, allora l'ipotesi di Benjamin di una stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fde. E come, secondo Benjamin, il capitalismo una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato, quindi da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere , nel puro credito (believes in the pure beej ossia nel denaro. n capitalismo è, cioè, una religione in cui a fede i credito si è sostituita a Dio. Detto altri menti, poiché la forma pura del credito è il denaro , è una religione il cui Dio è il enaro. Ciò signica che la banca, che non è nient'altro che una macchina per fabbricare e gestire cedito, ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede la scarsa, incerta ducia che nostro tempo ha ancora in se stesso. Che cosa ha sgnicato, pe r questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certame nte qualcosa come una chiaricazione del roprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d'oro o ala ssazione di un dogma conciliare in ogni caso, un passo decisivo verso la puricazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa, nella forma del denaro e del credito, i emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idatrico con l'oro e si aerma nella sua assolutezza. n credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pist che non è che «sostanza di cose sperate». La fede così recitava la celebe denizione della Lettera agli ebrei - è sostanza (ousia termine tecnico per eccellenza de'ntologia greca) delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo a sua pt in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l'essere, la sostanza. Ma è proprio questo "come se
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colo è una profezia di ciò che la decisione del governo americano avrebbe realizzato quattro anni dopo
nessione in termini giuridici, parlando di una lingua rea a cui si pos-
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colo è una profezia di ciò che la decisione del governo americano avrebbe realizzato quattro anni dopo A questo corrisponde, secondo Debord, una trasformazione del linguaggio umano, che non ha più nulla da comunicare e si presenta pertanto come «comunicazione dell'incomunicabile» tesi 192) denaro come pura merce, corrisponde un lguaggio in cui il nesso col mondo si è spezzato Linguaggio e cultura, separati nei media e nella pubblicità, diventano <a merce vedetta della società spettacolare», che comincia ad accaparrare per sé una pare crescente del prodotto nazionale È la stessa natura linguistica e comunicativa dell'uomo che si trova così espropriata nello spettacolo: ciò che impedisce la comunicazione è il suo assolutizzarsi in una sfera separata, in cui non vi è più nulla da comunicare se non la comunicazione stessa Nella società spettacolare, gli uomini sono separati da ciò che dovrebbe unirli Che v sia una somiglianza fra linguaggio e denaro, che, secondo l'adagio goethiano, «verba valent sict nummi» è patrimonio del senso comune Se proviamo però a prendere sul serio la relazione implicita nell'a dagio, essa si rivela come qualcosa di più che un' anaogia. Come il denaro si riferisce ae cose costituendoe come erci, rendendole commerciabii, così inguaggio si riferisce alle cose rendendole dicibili e comunicabili Come, per secoli, ciò che permetteva al denaro di svolgere la su funzione di equivalente universale del valore di tutte le merci era la sua relazione con l' oro, così ciò che garantisce la capacità comunicativa del linguaggio è l'intenzione di signicare, il suo riferento eettivo alla cosa n nesso denotativo con le cose, realmente presente nella mente di ogni parlante, è ciò che, nel linguaggio, corrisponde alla base aurea della moneta È questo senso del principio medievale secondo cui non è la cosa a essere soggetta al discorso, ma il discorso alla cosa («non sermoni res, sed rei est sermo subiectus»). Ed è signicativo che un grande canonista del XIII secolo, Goredo di Trani, esprima questa con
nessione in termini giuridici, parlando di una lingua rea a cui si possa, cioè, imputare una relazione con la cosa: «solo l'eettiva connessione dela mente con la cosa rende eettivamente imputabile (cioè signicne la lingua (ream linguam non /acit nisi rea mens)» Se questo nesso signicante viene eno, i l linguaggio dice letteralmente nulla («nihil diit>>). n signicato il riferimento alla realtà garantisce la nzione comunicate dea lingua esattamente come il riferimento all'oro assicura la capacità del denaro di scabiarsi con tutte le cse E la logica veglia sulla connessione fra linguaggio e mondo, esaamente come Gold exchange stan dard vegliava sulla connessione del denaro con la base aurea È contro la cazione di queste garanzie implicita, da una parte nel distacco della moneta dal'oro e, dall'atra, nella rottura del n�sso fra lingaggio e mondo, ce si sono dirette con buone ragioni le analisi critche del capitale nanziario e della società dello spettacolo n medio che rende possible lo scambio non può essere lo stesso scambato: il denaro, che misura le merci, non può diventare esso stesso una merce o stesso modo , il linguaggio che rende comunicabili le cose non può diventare esso stesso una cosa , oggetto a sua volta di apropriazione e di scambio: medio della comunicazione non pu essere esso stesso comunicato Separato dale cose, i linguaggio comunica nulla e celebra in questo modo i suo emero trionfo sul mndo; distaccato dall'oro, denaro esibisce il proprio nulla coe misura e, insieme, merce assoluta n linguaggio è il vlore spettcolare supremo, perché rivela il nulla di tutte le cose; il denaro è la erce suprema, perché mostra in ultima analisi la nlità di tutte le merci Ma è in ogi ambito dell'esperienza che il capitalismo attesta il suo carattere religioso "e, insieme, la sua relazione parassitaria col cristianesim Innanzitutto rispetto al tempo e alla storia n capitalismo non a acun telos è essenzialente innito, e, tuttavia e proprio per uesto, incessantemente i preda a una crisi, sempre
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in atto di nire. Ma anche in questo esso attesta la sua relazione
fatti, la trinit, se non i dispositivo che permette di conciliare l' assenza in Dio di ogni arché con la nascita, insieme eterna e storica,
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colo è una profezia di ciò che la decisione del governo americano avrebbe realizzato quattro anni dopo A questo corrisponde, secondo Debord, una trasformazione del linguaggio umano, che non ha più nulla da comunicare e si presenta pertanto come «comunicazione dell'incomunicabile» tesi 192) denaro come pura merce, corrisponde un lguaggio in cui il nesso col mondo si è spezzato Linguaggio e cultura, separati nei media e nella pubblicità, diventano <a merce vedetta della società spettacolare», che comincia ad accaparrare per sé una pare crescente del prodotto nazionale È la stessa natura linguistica e comunicativa dell'uomo che si trova così espropriata nello spettacolo: ciò che impedisce la comunicazione è il suo assolutizzarsi in una sfera separata, in cui non vi è più nulla da comunicare se non la comunicazione stessa Nella società spettacolare, gli uomini sono separati da ciò che dovrebbe unirli Che v sia una somiglianza fra linguaggio e denaro, che, secondo l'adagio goethiano, «verba valent sict nummi» è patrimonio del senso comune Se proviamo però a prendere sul serio la relazione implicita nell'a dagio, essa si rivela come qualcosa di più che un' anaogia. Come il denaro si riferisce ae cose costituendoe come erci, rendendole commerciabii, così inguaggio si riferisce alle cose rendendole dicibili e comunicabili Come, per secoli, ciò che permetteva al denaro di svolgere la su funzione di equivalente universale del valore di tutte le merci era la sua relazione con l' oro, così ciò che garantisce la capacità comunicativa del linguaggio è l'intenzione di signicare, il suo riferento eettivo alla cosa n nesso denotativo con le cose, realmente presente nella mente di ogni parlante, è ciò che, nel linguaggio, corrisponde alla base aurea della moneta È questo senso del principio medievale secondo cui non è la cosa a essere soggetta al discorso, ma il discorso alla cosa («non sermoni res, sed rei est sermo subiectus»). Ed è signicativo che un grande canonista del XIII secolo, Goredo di Trani, esprima questa con
nessione in termini giuridici, parlando di una lingua rea a cui si possa, cioè, imputare una relazione con la cosa: «solo l'eettiva connessione dela mente con la cosa rende eettivamente imputabile (cioè signicne la lingua (ream linguam non /acit nisi rea mens)» Se questo nesso signicante viene eno, i l linguaggio dice letteralmente nulla («nihil diit>>). n signicato il riferimento alla realtà garantisce la nzione comunicate dea lingua esattamente come il riferimento all'oro assicura la capacità del denaro di scabiarsi con tutte le cse E la logica veglia sulla connessione fra linguaggio e mondo, esaamente come Gold exchange stan dard vegliava sulla connessione del denaro con la base aurea È contro la cazione di queste garanzie implicita, da una parte nel distacco della moneta dal'oro e, dall'atra, nella rottura del n�sso fra lingaggio e mondo, ce si sono dirette con buone ragioni le analisi critche del capitale nanziario e della società dello spettacolo n medio che rende possible lo scambio non può essere lo stesso scambato: il denaro, che misura le merci, non può diventare esso stesso una merce o stesso modo , il linguaggio che rende comunicabili le cose non può diventare esso stesso una cosa , oggetto a sua volta di apropriazione e di scambio: medio della comunicazione non pu essere esso stesso comunicato Separato dale cose, i linguaggio comunica nulla e celebra in questo modo i suo emero trionfo sul mndo; distaccato dall'oro, denaro esibisce il proprio nulla coe misura e, insieme, merce assoluta n linguaggio è il vlore spettcolare supremo, perché rivela il nulla di tutte le cose; il denaro è la erce suprema, perché mostra in ultima analisi la nlità di tutte le merci Ma è in ogi ambito dell'esperienza che il capitalismo attesta il suo carattere religioso "e, insieme, la sua relazione parassitaria col cristianesim Innanzitutto rispetto al tempo e alla storia n capitalismo non a acun telos è essenzialente innito, e, tuttavia e proprio per uesto, incessantemente i preda a una crisi, sempre
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in atto di nire. Ma anche in questo esso attesta la sua relazione parassitar ia col cristianesimo. A David Cayley, che gli chiedeva se il nostro è un mondo postcristiano, Ivan lich ha risposto che il nost.r� mondo non un mondo postcristiano, bensì i mondo più . es l tamente cstano che sia mai esistito, cioè un mondo apocalttco. La losoa cristiana della storia (ma ogni osoa della storia è necessariamente cristiana) si fonda infatti sull'assunto che la storia dell'umanità e del mondo è essenzialmente nita: essa va dala creazione alla ne dei tempi, che coincide col Giorno del Giudizio, con la salvezza o la dannazione. Ma, in questo tempo storico cronologico, l 'evento messianico iscrive un altro tempo cairologico, in cui ogni istante si mantiene in relazione diretta con la ne, fa esperienza di un "tempo della ne, che è però anche un nuovo inizio. Se la Chiesa sembra aver chiuso il suo ufcio esca tologico, ogi sono sop_attutto gli scienziati, trasformati in profeti . . apocal1tt1c1, ad annuncare la ne imminente della vita sulla terra. E in gni ambito, nell'economia come nella politica, la reliione ca. ptasta proclama uno stato di cr isi permanente (cris signica etimologicamente " giudizio denitivo ), che è, insieme, uno stato di eccezie divenut ? normale, l cui solo possibile esito si presenta, propo come nell Apocalisse, come «una nuova terra». Ma 'escatologia della religione capitalista è una escatologia bianca, senza redenzione né giudizio. �ome, infatti, non può avere una vera ne ed è per questo sempre m atto di nire, così il capitalismo non conosce un principio, è intimamente anarchico e, tuttavia, proprio per questo, sempre in atto d ricominciare. Di qui la consustanzialità fra capitalismo e innovaZOne, che Schumpeter ha posto alla base della sua denizione del capitalismo. anarchia del capitale coincide col proprio incessante bisogno di innovazione. Nondimeno, ancora una volta il capitalismo mostra qui la sua intima e parodica connessione con il dogma cristiano: che cos'è, in
fatti, la trinit, se non i dispositivo che permette di conciliare l' assenza in Dio di ogni arché con la nascita, insieme eterna e storica, di Cristo, l 'anarchia divina con i governo del mondo e l'economia della salvezza? Vorrei aggiungere qulcosa a proposito dea relazione fra capitalismo e anarcha. C'è una frase, pronunciata da uno dei quattro scellerati nel Salò di Pasoini, che recita: «La sola vera anarchia è l' anarchia del potere». Nello stesso senso Benjamin aveva scritto molti anni prima Nulla è così anarchico come l'or dine borghese». Ancora una volt, credo che il loro suggerimento debba essere preso sul serio. Beamin e Pasolini colgono qui un carattere essenziale del capitaliso, che è forse il potere più anarchico mai esistito, nel senso letterale che esso non può avere alcuna arché, alcun inizio né fondamento. Ma anche in questo caso la reigione capitalista mostra la sua para sstica dipendenza dalla teologia cristiana. Ciò che qui fnziona come paradigma dell'anarchia capitalista è la cristologia. Fra i IV e il VI secolo, la Chi esa fu profondamente divsa dalla coroversia sull' arianesimo, ce coinvolse violentemente, insieme all'mperatore, t utta a cristianità orientale. l problema concerneva appunto l' arché del Figlio. Tanto Ari o che i suoi avversari concord ano, infatti, nel'aermare che il Figlio è stato generato dal Padre e che questa generazione è avenuta «prima dei tempi eterni» (<Pro chronon aionion» in Ario; «pro panton ton aionon» in Eusebio di Cesarea). rio ha anzi cura di precisare che il Figlio è stato generato «achronos», intemporalmente. In questione non è qui tanto una precedenza cronologica (il tempo non esiste ancora), né soltanto un prolema di rango (che il Padre sia "maggiore del Figio è opinione condivisa da molti degli antiariani); si tratta, piuttosto, di decidere se il Figlio cioè la parola e la prassi di Dio è fondato nel Padre o è, come lui, senza principo, anarchos, cioè infondato.
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te congiunte, ora sep arano e oro strade. azione umana non è più
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in atto di nire. Ma anche in questo esso attesta la sua relazione parassitar ia col cristianesimo. A David Cayley, che gli chiedeva se il nostro è un mondo postcristiano, Ivan lich ha risposto che il nost.r� mondo non un mondo postcristiano, bensì i mondo più . es l tamente cstano che sia mai esistito, cioè un mondo apocalttco. La losoa cristiana della storia (ma ogni osoa della storia è necessariamente cristiana) si fonda infatti sull'assunto che la storia dell'umanità e del mondo è essenzialmente nita: essa va dala creazione alla ne dei tempi, che coincide col Giorno del Giudizio, con la salvezza o la dannazione. Ma, in questo tempo storico cronologico, l 'evento messianico iscrive un altro tempo cairologico, in cui ogni istante si mantiene in relazione diretta con la ne, fa esperienza di un "tempo della ne, che è però anche un nuovo inizio. Se la Chiesa sembra aver chiuso il suo ufcio esca tologico, ogi sono sop_attutto gli scienziati, trasformati in profeti . . apocal1tt1c1, ad annuncare la ne imminente della vita sulla terra. E in gni ambito, nell'economia come nella politica, la reliione ca. ptasta proclama uno stato di cr isi permanente (cris signica etimologicamente " giudizio denitivo ), che è, insieme, uno stato di eccezie divenut ? normale, l cui solo possibile esito si presenta, propo come nell Apocalisse, come «una nuova terra». Ma 'escatologia della religione capitalista è una escatologia bianca, senza redenzione né giudizio. �ome, infatti, non può avere una vera ne ed è per questo sempre m atto di nire, così il capitalismo non conosce un principio, è intimamente anarchico e, tuttavia, proprio per questo, sempre in atto d ricominciare. Di qui la consustanzialità fra capitalismo e innovaZOne, che Schumpeter ha posto alla base della sua denizione del capitalismo. anarchia del capitale coincide col proprio incessante bisogno di innovazione. Nondimeno, ancora una volta il capitalismo mostra qui la sua intima e parodica connessione con il dogma cristiano: che cos'è, in
fatti, la trinit, se non i dispositivo che permette di conciliare l' assenza in Dio di ogni arché con la nascita, insieme eterna e storica, di Cristo, l 'anarchia divina con i governo del mondo e l'economia della salvezza? Vorrei aggiungere qulcosa a proposito dea relazione fra capitalismo e anarcha. C'è una frase, pronunciata da uno dei quattro scellerati nel Salò di Pasoini, che recita: «La sola vera anarchia è l' anarchia del potere». Nello stesso senso Benjamin aveva scritto molti anni prima Nulla è così anarchico come l'or dine borghese». Ancora una volt, credo che il loro suggerimento debba essere preso sul serio. Beamin e Pasolini colgono qui un carattere essenziale del capitaliso, che è forse il potere più anarchico mai esistito, nel senso letterale che esso non può avere alcuna arché, alcun inizio né fondamento. Ma anche in questo caso la reigione capitalista mostra la sua para sstica dipendenza dalla teologia cristiana. Ciò che qui fnziona come paradigma dell'anarchia capitalista è la cristologia. Fra i IV e il VI secolo, la Chi esa fu profondamente divsa dalla coroversia sull' arianesimo, ce coinvolse violentemente, insieme all'mperatore, t utta a cristianità orientale. l problema concerneva appunto l' arché del Figlio. Tanto Ari o che i suoi avversari concord ano, infatti, nel'aermare che il Figlio è stato generato dal Padre e che questa generazione è avenuta «prima dei tempi eterni» (<Pro chronon aionion» in Ario; «pro panton ton aionon» in Eusebio di Cesarea). rio ha anzi cura di precisare che il Figlio è stato generato «achronos», intemporalmente. In questione non è qui tanto una precedenza cronologica (il tempo non esiste ancora), né soltanto un prolema di rango (che il Padre sia "maggiore del Figio è opinione condivisa da molti degli antiariani); si tratta, piuttosto, di decidere se il Figlio cioè la parola e la prassi di Dio è fondato nel Padre o è, come lui, senza principo, anarchos, cioè infondato.
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Un'anaisi testuae dee ettere di Ario e degi scritti dei suoi avversari mostra, infatti, che i termine decisivo nea controversia è proprio anarchos (senza arché ne doppio senso che i termine ha in greco: fondamento e principio). Ario aerma che mentre i Padre è assoutamente anarchico, i Figio è ne principio (en arche} ma non è " anarchico , poiché ha ne Padre i suo fondamento. Contro questa tesi eretica, che dà al Logos un saldo fondamento ne Padre, i vescovi riuniti dall'imperatore Costanzo a Serdica ( 343 ) aermano con chiarezza che anche i Figio è "anarchico e, co me tae, «assoutamente, anarchicamente e innitamente (pantote, anarchos kai ateleutetos) regna insieme co Padre» . Perché questa co ntroversia, a di à dee sue bizantine sottigiezze, mi sembra così importante? Perché, da momento che i Figio non è altro che a paroa e 'azione de Padre, anzi, più precisamente, i principae attore deeconomia dea savezza, cioè de governo divino de mondo, ciò che è qui in questione è i probema de carattere "anarchico, cioè infondato, de inguaggio, de'azione e de governo. I capitaismo eredita, secoarizza e spinge a'estremo i carattere anarchico dea cristoogia. Se non s'intende questa originaria vocazione anarchica dea cristoogia, non è possibie comprendere né i successivo sviuppo storico dea teoogia cristiana, con a sua atente deriva ateoogica, né a storia dea osoa e dea poitica occidentai, con a oro cesura fra ntoogia e prassi, fra essere e agire, e a oro conseguente enfasi sua voontà e sua ibertà. Che Cristo è anarchico signica, in utima istanza, che, ne 'occidente moderno, inguaggio, prassi ed economia non hanno fondamento nel'essere. Comprendiamo ora megio perché a reigione capitalista e e osoe a essa subaterne hanno tanto bisogno dea voontà e dea ibertà. Libertà e voontà signicano sempicemente che essere e agire, ntoogia e prassi, che ne mondo cassico erano strettamen
te congiunte, ora sep arano e oro strade. azione umana non è più fondata ne'essere: per questo è ibera, cioè condannata a caso e a'aeatorietà. Vorrei interrompere qui a m ia breve archeologia dea religione c a pitaista. Non ci sarà una concusione. Penso, infatti, che nea o soa come nell'arte, non possiamo "concudere un'opera: possia mo soo abbandonara, come Giacometti diceva dei suoi quadri. Ma se vi è qualcosa che vorrei adare aa vostra riessione, questo è proprio i probema de'anarchia . Contro 'anarchia de potere, io non intendo invocare un ritorno a un soido fondamento ne'essere: anche se avessimo mai posseduto un tae fondamento, certo 'abbiamo perduto o abbiamo dimenticato 'accesso ad esso. Credo, però, che una ucida comprensione dela profonda anarchia della soci
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Un'anaisi testuae dee ettere di Ario e degi scritti dei suoi avversari mostra, infatti, che i termine decisivo nea controversia è proprio anarchos (senza arché ne doppio senso che i termine ha in greco: fondamento e principio). Ario aerma che mentre i Padre è assoutamente anarchico, i Figio è ne principio (en arche} ma non è " anarchico , poiché ha ne Padre i suo fondamento. Contro questa tesi eretica, che dà al Logos un saldo fondamento ne Padre, i vescovi riuniti dall'imperatore Costanzo a Serdica ( 343 ) aermano con chiarezza che anche i Figio è "anarchico e, co me tae, «assoutamente, anarchicamente e innitamente (pantote, anarchos kai ateleutetos) regna insieme co Padre» . Perché questa co ntroversia, a di à dee sue bizantine sottigiezze, mi sembra così importante? Perché, da momento che i Figio non è altro che a paroa e 'azione de Padre, anzi, più precisamente, i principae attore deeconomia dea savezza, cioè de governo divino de mondo, ciò che è qui in questione è i probema de carattere "anarchico, cioè infondato, de inguaggio, de'azione e de governo. I capitaismo eredita, secoarizza e spinge a'estremo i carattere anarchico dea cristoogia. Se non s'intende questa originaria vocazione anarchica dea cristoogia, non è possibie comprendere né i successivo sviuppo storico dea teoogia cristiana, con a sua atente deriva ateoogica, né a storia dea osoa e dea poitica occidentai, con a oro cesura fra ntoogia e prassi, fra essere e agire, e a oro conseguente enfasi sua voontà e sua ibertà. Che Cristo è anarchico signica, in utima istanza, che, ne 'occidente moderno, inguaggio, prassi ed economia non hanno fondamento nel'essere. Comprendiamo ora megio perché a reigione capitalista e e osoe a essa subaterne hanno tanto bisogno dea voontà e dea ibertà. Libertà e voontà signicano sempicemente che essere e agire, ntoogia e prassi, che ne mondo cassico erano strettamen
te congiunte, ora sep arano e oro strade. azione umana non è più fondata ne'essere: per questo è ibera, cioè condannata a caso e a'aeatorietà. Vorrei interrompere qui a m ia breve archeologia dea religione c a pitaista. Non ci sarà una concusione. Penso, infatti, che nea o soa come nell'arte, non possiamo "concudere un'opera: possia mo soo abbandonara, come Giacometti diceva dei suoi quadri. Ma se vi è qualcosa che vorrei adare aa vostra riessione, questo è proprio i probema de'anarchia . Contro 'anarchia de potere, io non intendo invocare un ritorno a un soido fondamento ne'essere: anche se avessimo mai posseduto un tae fondamento, certo 'abbiamo perduto o abbiamo dimenticato 'accesso ad esso. Credo, però, che una ucida comprensione dela profonda anarchia della soci
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Nota bib ografica
Archeologa dell'opera d'arte
Lappropriabile
Che cos'è u comado?
n captalso coe relgioe
A. Kojève, Introduzione al lettura di Hegel, Milano 1996 (ed. o. Intdu tn à lecture de Hegel, Pais 1947). G. Ubani, Per un 'archeologia del pre sente, Milano 2012. R. Klein, La /orma e l'intelligibile.
G. Agamben, Altsima povertà Rego le monastiche e /orma di vita, Vicen za 2 0 1 1 . M. Heidegge, Die Armut, in Heideg ger Studies, vol. 10, 1 994. M. Heidegge, Concetti fonmenta
R. Schmann, Dai princip all'anar chia. Essere e age in Heidegger, Bolo gna 1995 (ed. o e princpe d'anarchie. Heidegger et question de l'agir, Pais 1982). A. Leet-Holeia, Lo stenrdo, lano 1989 (ed. r. Die tanrte, Be li 1934). H. Kelsen, La dottrina pura del dir to, Toino 1966 (ed. o. Reine Rechts lehre Wien 1960. A. Meillet, ur e caractères du verbe,
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vol. l, Pais 1966).
l vocabor delle tituzioni indoeu ropee, vol. Economia parente so cietà Toino 1976 (ed. o. Ladelit personnelle, in Le vocabuire des insti tutions indo-e uropenn es, vol. Éco nomie paren t socét, Pais 1969). R. Kuz, ne del politica e l'apo teosi del denaro, Roma 1997 (ed. o. Die Himmeahrt des Geldes, "Kisis, 16-17, 1995). I Illich, I umi a no rd d el futuro Te
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Lappropriabile
Che cos'è u comado?
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