SPECIALE
I GRANDI SCIENZIATI DELLA STORIA
numero 20 € 7,90
EINSTEIN LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
Lo spazio è una questione di tempo
Einstein La teoria della relatività
Pubblicazione periodica mensile Anno I - n. 1 EDITORE: RBA ITALIA Srl Via Roberto Lepetit 8/10 20124 Milano Direttore generale: Stefano Bisatti Direttore responsabile: Giorgio Rivieccio Redazione e amministrazione: RBA ITALIA SRL Via Roberto Lepetit 8/10 20124 Milano tel. 0200696352 e-mail:
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David Blanco Laserna è fisico e scrittore. Ha pubblicato numerosi libri di divulgazione scientifica fra i quali spiccano le biografie di Vito Volterra e di un’illustre contemporanea di Einstein, la matematica Emmy Noether.
© 2012 David Blanco Laserna per il testo © della prima edizione 2012, RBA Coleccionables, S.A. © 2014, RBA Revistas, S.L. © 2015 RBA Italia S.r.l. per la presente edizione Joan Pejoan, Infografica Foto in copertina: Buco nero, ricreazione artistica di Mark A. Garlick; Einstein non credeva che i buchi neri esistessero davvero, ma la teoria della relatività confermerebbe la loro esistenza. Ritratto di Albert Einstein, Corbis.
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Einstein La teoria della relatività
Lo spazio è una questione di tempo
Sommario IntroduzIone
12
c a P I to Lo 1
La rivoluzione elettromagnetica
20
c a P I to Lo 2
Ogni movimento è relativo
38
c a P I to Lo 3
Le pieghe dello spazio-tempo
74
c a P I to Lo 4
Le scale del mondo
102
c a P I to Lo 5
L’esilio interiore
126
L e t t u r e c o n s I g L I at e
138
IndIce
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Germania, anno zero
Albert Einstein nacque a Ulm (sopra, vista della città dal campanile della cattedrale), nel Baden-Württemberg, in Germania, il 14 marzo 1879, e studiò a Monaco. Un uomo che sarebbe diventato uno dei fisici teorici più importanti della storia della scienza, un giorno disse a suo padre: «Non farò mai niente di importante». WALTER G. ALLGÖWER / AGE FOTOSTOCK
Ogni movimento è relativo
Einstein al California Institute of Technology nel 1931. Il fisico tedesco pubblicò la teoria della relatività speciale molto prima di recarsi negli Stati Uniti, quando era ancora un giovane fisico sconosciuto. La famosa equazione dell’equivalenza fra massa ed energia (E = m c ²) venne dedotta da Einstein come conseguenza logica di quella teoria. BETTMANN / CORBIS
La nascita di una nuova cosmologia
Einstein riformulò i principi di base della cosmologia: la gravità non è una forza come tutte le altre, ma è la proprietà della materia di deformare lo spazio-tempo. La sua teoria permetterà di comprendere le caratteristiche essenziali dell’universo. ZONA CENTRALE DELLA VIA LATTEA, STÉPHANE GUISARD, ESO
INTRODUZIONE
E
instein visse in un’epoca di rivoluzioni. Per fortuna non tutte cruente. Se nel XIX secolo la pubblicità era riuscita a salire sul carro della carta stampata, all’inizio del XX secolo essa conquistò la radio e, in pochi decenni, anche la televisione. In tre ondate successive l’uomo della strada subì per la prima volta, e in tutta la sua forza, l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa. Chi conquistò la fama in quegli anni restò impresso per sempre nell’immaginario collettivo: Charles Chaplin, Marilyn Monroe, Elvis Presley, Albert Einstein… Poi verranno altri attori, musicisti e scienziati che dovranno però fare i conti con un pubblico meno ingenuo.
Negli ultimi anni Einstein era diventato una sorta di santo laico. Dopo due conflitti mondiali che legittimarono la guerra chimica e il panico nucleare, l’ammirazione per il progresso scientifico si era tinta dei colori della paura. Per un’intera generazione disincantata la figura del saggio distratto e spettinato che sosteneva il disarmo e predicava l’umiltà intellettuale nei confronti della natura era divenuta un’ultima opportunità per recuperare la fede in una scienza umanista.
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Al massimo della sua popolarità, quando divenne un’icona che faceva le linguacce ai fotografi, Einstein aveva ormai compiuto settantadue anni. Per allora aveva avuto il tempo di stemperare la maggior parte delle sue passioni, con l’unica eccezione dell’ossessione per riconciliare la meccanica quantistica con la relatività. A partire dal 1980 l’accesso alla sua corrispondenza privata diede il via alla corsa alla scoperta di un Einstein più umano, certamente più giovane e anche molto
BETTMANN / CORBIS
più complesso. Alcuni rimasero sorpresi nell’apprendere che fosse tormentato da altre inquietudini a parte fumare la pipa, suonare il violino o non indossare calzini. I punti oscuri della sua biografia riguardano principalmente il rapporto con la prima moglie, Mileva Marić, e due dei loro figli, Lieserl, nata in modo semiclandestino prima del matrimonio e data in adozione, ed Eduard, con il quale mantenne un atteggiamento ambivalente dopo aver scoperto che soffriva di una malattia mentale. Per molti resta il ritratto di un cittadino esemplare, un pacifista che si oppose alla Prima Guerra Mondiale, al nazismo e al maccartismo, con una vita privata però non priva di macchie. L’intensità con la quale è stata esaminata la sua figura inevitabilmente la deforma, un fenomeno che ricorda gli effetti quantistici: l’atto della misurazione influenza a tal punto ciò che si intende misurare che risulta impossibile liberarsi dall’incertezza. La rivista Time lo scelse come personaggio del XX secolo e forse non riusciremo mai a scalzarlo da quel piedistallo, quello di una figura che, nella nostra immaginazione, incarna un secolo, con meno diritto al dubbio e ai difetti di chi, come noi, non rappresenta niente e non deve rispondere ad aspettative universali. Per noi Einstein è le due guerre mondiali, il fungo di Hiroshima, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, l’implacabile espansione della conoscenza scientifica, il suo impatto sociale, il sionismo, la paranoia del senatore McCarthy, un’infinità di aforismi, E=mc², il sogno della pace mondiale… Einstein cercò di tutelare la sua intimità scrivendo l’autobiografia con meno dati personali mai pubblicata. Nelle prime 14 ein ste in
pagine inserì una dichiarazione di intenti da allora ampiamente saccheggiata: «Per un uomo nella mia condizione è fondamentale cosa e come pensa e non ciò che fa o soffre». È difficile, tuttavia, che la curiosità si fermi a un simile avvertimento. In questo libro si stabilirà un dialogo fra le peripezie biografiche di Einstein e la nascita delle sue meravigliose intuizioni scientifiche. Forse, se avesse ottenuto con facilità una cattedra universitaria invece di un lavoro di otto ore al giorno all’Ufficio Brevetti svizzero, avrebbe raggiunto comunque le stesse conclusioni, resta però suggestivo ricostruire in quali circostanze lo fece in realtà.
Nel suo lavoro sulla relatività speciale inizia la sua vera eredità, un nuovo modo di pensare, un’ispirazione per i fisici che lo seguirono. Einstein nacque circondato dall’avanguardia tecnologica del suo tempo, perfettamente integrata nel suo ambiente familiare grazie alla fabbrica di lampadine e materiale elettrico del padre. È curioso che egli illustri la teoria della relatività speciale con esempi presi dalla sincronizzazione degli orologi e una profusione di treni. Durante la sua infanzia e giovinezza le ferrovie divennero il mezzo di trasporto moderno per antonomasia. Le velocità allora raggiunte sulle strade ferrate erano vissute come un’esperienza tanto inedita quanto stimolante. Negli anni trascorsi a Berna, la sincronizzazione degli orologi fra le città alimentava la passione cronometrica degli svizzeri. È
possibile che queste circostanze abbiano entusiasmato la stessa immaginazione che diede i natali a una teoria dove si gioca con gli orologi, con velocità che sfidavano l’esperienza quotidiana e cambi costanti di sistemi di riferimento. In seguito i segreti della gravità si manifestarono grazie a un’altra invenzione che, all’epoca di Einstein, era la più perfetta espressione della modernità: «Ciò che devo sapere con esattezza – esclamava – è cosa accade ai passeggeri di un ascensore che cade nel vuoto!». Nei suoi primi articoli fece mostra del suo dominio della fisica statistica ed espresse al massimo il quadro classico della teoria cinetico-molecolare. Il suo lavoro consentiva di comprendere il movimento delle particelle di polvere in controluce, il colore azzurro del cielo e il tremore del polline in un bicchiere d’acqua. Spiegò inoltre fenomeni che sconcertavano i fisici sperimentali, come l’effetto fotoelettrico. Il meglio però doveva ancora arrivare. Nel suo lavoro sulla relatività speciale, del 1905, inizia a lasciarci la sua vera eredità, un nuovo modo di pensare che fu una rivelazione e un’ispirazione per i fisici che lo seguirono. Einstein descrisse così la transizione: «Una nuova teoria è necessaria, in primo luogo, quanto ci scontriamo con fenomeni che le teorie esistenti non sono in grado di spiegare. Questa motivazione, tuttavia, risulta per così dire triviale, imposta dall’esterno. Vi è un’altra ragione di non minore importanza. Consiste nella ricerca della semplicità e dell’unificazione delle premesse della teoria nel suo insieme». Seguendo le orme di Euclide, che aveva affrontato tutta la geometria conosciuta partendo da un pugno di assiomi, Einstein estese il campo
di applicazione delle sue teorie alla fisica intera. La sua teoria della relatività generale, pubblicata nel 1915, gettò di fatto le basi per la cosmologia moderna. Partendo da semplici ipotesi, come la costante della velocità della luce o la supposizione che tutti gli osservatori, indipendentemente da come si muovono, sono sottoposti alle stesse leggi fisiche, scosse in modo irreversibile le nostre nozioni di tempo, spazio o gravità. La sua immaginazione scientifica riuscì a raggiungere un’estensione che lascia senza fiato, dall’infinitamente piccolo (il raggio classico di un elettrone, 10-15 m) fino all’infinitamente grande (con la portata dell’universo osservabile, 1026 m). Scegliere bene le premesse, separare il grano dalla pula, richiedevano un dono speciale ed Einstein l’aveva dalla nascita. Chiunque si sia mai scontrato con i problemi di una lezione di fisica sa bene quanto sia difficile librarsi al di sopra delle equazioni, come un calciatore capace di vedere oltre il centrocampista che gli viene addosso. Se qualcosa caratterizzava Einstein era la sua straordinaria intuizione fisica che gli permetteva di leggere le mosse della natura mentre altri si perdevano nell’apparente caos dei risultati sperimentali. In caso di bisogno, sapeva districarsi fra gli strumenti matematici più sofisticati, ma aveva anche la capacità di dialogare con la realtà in modo immediato e profondo, con una sorta di chiaroveggenza che in seguito articolava logicamente. A far nascere le sue due grandi teorie, la relatività speciale e generale, furono due immagini mentali che si materializzarono in un momento di repentina ispirazione. Nella prima si vedeva nell’oscurità, mentre inseguiva un raggio di luce e si doi ntrodu zione 15
mandava cosa sarebbe accaduto quando l’avesse raggiunto. La seconda visione aveva come protagonista un uomo che precipitava nel vuoto, perdendo durante la caduta ogni senso del suo peso. Alcuni attribuiscono il fallimento del suo progetto più ambizioso, la costruzione di una teoria definitiva (un insieme di premesse a partire dalle quali si potessero dedurre tutti i fenomeni fisici), al fatto che Einstein non riuscì a trovare l’immagine intuitiva che gli sarebbe servita da guida. Il suo modo di lavorare lo trasformò in un fisico polemico. Spesso le sue speculazioni anticipavano di decenni la loro verifica sperimentale. Quelle stesse controversie, però, finivano per trasformarsi nelle sue migliori alleate quando trovavano soluzione. La conferma, nel 1919, che la luce delle stelle curva in prossimità del Sole gli garantì una fama immediata. Fu l’autore di una delle ultime opere scientifiche che possono fare a meno di un’impronta personale. Nelle parole dello scrittore inglese Charles Percy Snow: «Dirac, poco incline agli elogi esagerati, fu colui che rese a Einstein il tributo più sottile. Affermò in primo luogo che, se non avesse pubblicato la teoria della relatività speciale nel 1905, altri l’avrebbero fatto in un periodo molto breve, circa cinque anni [...]. La teoria generale della relatività, però, era una questione completamente diversa. È probabile che, senza Einstein, la staremmo ancora aspettando». Otteniamo una prova del suo talento confrontando le due grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo. La meccanica quantistica è il risultato dello sforzo di un esercito di formidabili scienziati: Planck, Schrödinger, 16 ein ste in
Heisenberg, Born, Dirac, Bohr, Pauli, Feynman… e lo stesso Einstein. La formula della relatività generale è, invece, essenzialmente frutto di un’unica persona. Fino al punto che uno dei dilemmi della fisica attuale è conciliare la visione geometrica imposta da Einstein alla gravitazione e le moderne teorie quantistiche. Steven Weinberg, premio Nobel per la Fisica nel 1979, rifletteva su questa sfida indiavolata: «Siamo progrediti molto […] nell’acquisizione di una visione unificata delle forze che agiscono sulle particelle elementari […], escludendo la gravitazione, ma è molto difficile fare l’ultimo passo e riuscire a inserirla nel quadro». Una parte sostanziale del problema non riguarda la natura della gravità, ma la rappresentazione di essa che abbiamo ereditato da Einstein, tanto diversa ed esotica rispetto al resto dell’immaginario fisico contemporaneo. Le relatività e la meccanica quantistica scardinarono per sempre le interpretazioni del mondo basate sul buon senso e su concetti che trovavano le proprie radici nella vita quotidiana, come la simultaneità, la posizione o la velocità. La meccanica quantistica risultò forse troppo esoterica sin dalla sua nascita per conquistare il cuore del grande pubblico. La relatività, invece, apriva le porte del cosmo, parlava dello spazio e del tempo, di corpi che, muovendosi, si rimpicciolivano e frenavano il ritmo dei loro orologi. Dipingeva uno scenario abbastanza esotico da risultare affascinante, ma partendo da elementi sufficientemente familiari per non respingerci del tutto. Se Newton trasformò il mondo in un meccanismo a orologeria che si poteva manipolare per illuminare una Rivoluzione Industriale,
Einstein lo convertì in uno spazio dove sognare l’impossibile. A prescindere che lo si capisca del tutto o meno, l’eco delle sue idee risuona in lungo e in largo nella nostra cultura. La sua opera rese naturali concetti insoliti come viaggi nel tempo, buchi neri, lenti gravitazionali, nuovi stati della materia, universi in espansione, bombe capaci di distruggere il mondo… Questo libro ha come tema le sue principali creazioni per quanto riguarda la relatività e la fisica quantistica, pur lasciando spazio anche a quelle minori, in ottica e meccanica statistica, che sarebbero comunque bastate per garantirgli un
posto d’onore nella storia della scienza. Molto si è scritto su Einstein, abbastanza da far traboccare gli scaffali della biblioteca di Babele, ma almeno una ragione giustifica che si aggiunga altra legna al fuoco: la sua stessa opera, che è ancora viva e in piena espansione. Più o meno direttamente gran parte degli apparecchi tecnologici che ci circondano sono suoi eredi, come il GPS, le cellule fotoelettriche o i lettori DVD. Non trascorre decennio senza che sia confermata una delle sue previsioni, che l’industria trovi una nuova applicazione grazie alle sue idee o che si progredisca nella ricerca di una teoria quantistica della gravitazione. j
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CRONOLOGIA
1879 Albert Einstein nasce a Ulm, in Germania, il 14 marzo, primo figlio di Hermann Einstein e Pauline Koch. 1896 Entra al Politecnico Federale di Zurigo dove conosce la futura moglie, Mileva Marić. 1901 Einstein prende la nazionalità svizzera.
Ulm, città natale di Einstein.
1902 Mileva dà alla luce la loro prima figlia, Lieserl. Einstein inizia a lavorare per l’Ufficio Brevetti di Berna. 1903 Sposa Mileva Marić. La coppia avrà altri due figli, Hans Albert ed Eduard. 1905 L’annus mirabilis di Einstein. Pubblica diversi articoli fondamentali sul moto browniano, la natura corpuscolare della luce, l’equivalenza fra massa ed energia – che contiene la celebre espressione E=mc² – e sull’elettrodinamica dei corpi in movimento. Quest’ultimo lavoro è antesignano della relatività speciale.
Einstein con Marie Curie.
1912 Ad Einstein viene una cattedra al Politecnico di Zurigo. Inizia una liaison con la cugina Elsa Löwenthal. 1914 Albert e Mileva si separano.
La Torre Einstein, osservatorio solare a Potsdam, Germania. DALL’ALTO AL BASSO: WERNER DIETRICH / WESTEND61 / CORBIS; AMERICAN INSTITUTE OF PHYSICS / SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK; MARTIN BOND / SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
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1915 Presenta le equazioni definitive della teoria della relatività generale all’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino.
La casa di Einstein a Caputh, nella periferia di Berlino.
1919 L’astronomo Arthur Eddington conferma la predizione della teoria relativista in merito all’effetto del campo gravitazionale sui raggi luminosi. Einstein diventa improvvisamente una celebrità mondiale. 1922 Einstein viene insignito del premio Nobel per la Fisica, non però per la teoria della relatività, ma per la sua spiegazione dell’effetto fotoelettrico.
Einstein in Inghilterra, dopo aver lasciato la Germania nel 1932.
1933 Dall’estero Einstein è testimone della salita al potere di Hitler e decide di sospendere ogni rapporto con le istituzioni scientifiche tedesche. Alla fine dello stesso anno si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. Lavora all’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton, dove conosce altri grandi scienziati come Kurt Gödel e John von Neumann. 1939 Einstein firma una lettera indirizzata al presidente americano Franklin D. Roosevelt nella quale lo avverte del potenziale distruttivo di un’eventuale bomba atomica in fase di studio da parte della Germania, incoraggiando gli Stati Uniti a condurre ricerche in parallelo.
Einstein ed Elsa Löwenthal a Chicago.
1952 Rifiuta l’offerta di diventare il secondo presidente del nuovo Stato di Israele. 1955 Muore a Princeton, il 18 aprile, all’età di settantasei anni per la rottura di un aneurisma dell’aorta addominale. Institute for Advanced Study, Princeton, Stati Uniti. DALL’ALTO AL BASSO: MCA / INTERFOTO / AGE FOTOSTOCK; BETTMANN / CORBIS; UNDERWOOD & UNDERWOOD / CORBIS; SUPERSTOCK / AGE FOTOSTOCK
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SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
CAPITOLO 1
La rivoluzione elettromagnetica Alla fine del XIX secolo il mondo si arrendeva affascinato all’elettricità e alle sue applicazioni. Gli scienziati, nel contempo, si impegnavano nel tentativo di riconciliare le loro scoperte sull’elettromagnetismo con la fisica ereditata da Newton. Un giovane Einstein di soli sedici anni si pose la domanda che avrebbe portato a tutte le risposte: «Che aspetto avrebbe un raggio di luce se lo raggiungessimo?»
Wilhelm Hallwachs progettò nel 1888 questo elettroscopio per verificare se un corpo fosse elettrizzato e conoscere il segno della sua carica. Nel 1905 Einstein impiegò la teoria quantica per spiegare l'effetto fotoelettrico, per il quale nel 1921 otterrà il premio Nobel per la Fisica.
C
ome narra la tradizione orale della famiglia Einstein, il padre di Albert, Hermann, mostrò sin da bambino una forte inclinazione verso la matematica che non poté coltivare all’università per mancanza di mezzi economici. Più o meno destinato a una carriera commerciale, divenne un nomade, con le valigie sempre accatastate all’entrata di casa sua, pronto per aprire una nuova impresa in un’altra città. Sfortunatamente, quando doveva scrivere sul registro dei conti, intingeva la penna più spesso nell’inchiostro rosso che in quello nero. La sua natura contemplativa, la difficoltà a prendere decisioni per colpa di una tendenza ad analizzare in modo esaustivo ogni alternativa e la sua fiducia nella bontà umana non risultarono essere le armi migliori per farsi strada nella spietata giungla degli affari. Dopo un periodo di apprendistato a Stoccarda, si diresse a Ulm per diventare socio in una fabbrica di materassi di un cugino. La città sveva, cinta dal Danubio, aveva una lunga tradizione commerciale basata principalmente sul traffico di merci lungo il fiume. Fu lì che si trasferì con la giovane moglie, Pauline Koch, e dove, il 14 marzo 1879, nacque in casa il figlio maggiore, Albert. Nel giugno dell’anno successivo, Hermann e suo fratello Jakob sbarcarono a Monaco per avviare una piccola attività di fornitura di acqua e gas. Nel maggio 1885 fondavano la società di ingegneria elettrica Elektro-Technische Fabrik Jakob Einstein & Cie. Hermann si sarebbe occupato della divisione commerciale e Jakob sarebbe stato l’anima innovatrice.
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Un’avventura imprenditoriale che segnò sotto molti aspetti il destino del giovane Albert.
Il nipote dell’inventore
Non sappiamo molto dell’infanzia di Einstein. Restano un pugno di aneddoti che, curiosamente, riguardano la sua testa, sia come contenitore che per il contenuto. È possibile che anticipino l’ossessione forense del dottor Thomas Harvey, patologo dell’ospedale di Princeton, che, molti anni più tardi, decise di estrarre il cervello del genio la mattina stessa della sua dipartita. Per cominciare, Pauline si spaventò osservando il neonato che le sembrava deforme. I medici cercarono di convincerla che la forma allungata e schiacciata della testa del figlio si sarebbe modificata dopo alcune settimane. Avevano ragione, ma la famiglia tardò a convincersi che il cervello non fosse rimasto danneggiato in modo irreparabile: Einstein non iniziò infatti a parlare fino ai due anni compiuti e, quando si decise a farlo, adottò l’inquietante abitudine di ripetere fra sé e sé quanto diceva, un vizio che non abbandonò fino ai sette anni. Solitamente si cita Einstein come esempio del genio con una carriera scolastica poco brillante, una leggenda che in realtà ha scarso fondamento. In una lettera alla sorella maggiore, Fanny, quando il bambino aveva sette anni, Pauline vedeva compiersi i sogni di ogni madre: «Ieri hanno consegnato i voti ad Albert: un’altra volta il primo della classe e ci ha portato una pagella splendida». Negli anni seguenti, durante gli studi superiori al Luitpold Gymnasium di Monaco, avrebbe mantenuto questa tendenza, soprattutto in fisica e matematica. Il fatto che i suoi professori lo considerassero con frequenza un pessimo allievo era dovuto a
In alto: i genitori di Albert, Hermann e Pauline Einstein. In basso a sinistra: prima fotografia conservata di Albert Einstein. In basso a destra: Albert Einstein a Monaco a quattordici anni. ARCHIVO RBA (SOPRA); ALBUM (SOTTO)
l a ri volu zione el et tromagnetic a
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un’assoluta inconciliabilità fra il suo carattere e il sistema educativo imperante nella Germania del tempo. Lo scontro con l’autorità è il secondo grande tema degli aneddoti infantili e giovanili. Si potrebbero riempire pagine intere con i commenti negativi dei suoi maestri. Uno di loro gli confidò che sarebbe stato molto più felice se non si fosse più fatto vedere alle sue lezioni. Einstein fece ricorso alla proverbiale risposta dei bambini: «Ma se non ho fatto niente!» A quel punto l’insegnante rispose: «Sì, è vero, ma te ne stai lì seduto, all’ultimo banco, sorridendo in un modo che sovverte completamente il clima di rispetto necessario a un maestro per fare lezione». Non suscitava entusiasmo in chi intendeva indottrinarlo e l’avversione era ricambiata. «I maestri della mia scuola mi sembravano dei sergenti e i professori del liceo dei tenenti», diceva. Erano le prime scaramucce di un antagonismo che fu sul punto di frustrare la sua carriera prima ancora che cominciasse. Sebbene non fosse molto felice a scuola, dove i compagni osservavano con diffidenza il suo scarso interesse per correre, saltare o litigare per un pallone, Einstein fu allevato in una bolla calda e protettiva. Il 18 novembre 1881 nacque l’unica sorella, Maria, nota con il nomignolo affettuoso di Maja. Nonostante all’inizio Albert abbia mostrato poco entusiasmo verso la nuova arrivata (si narra che chiese: «Ma non ha le ruote?»), con il tempo la sorella divenne la sua più intima complice e confidente. Le famiglie di Hermann e Jakob dividevano una splendida casa fuori Monaco, adiacente alla fabbrica e circondata da un giardino tanto lussureggiante da isolarli completamente dalla strada. I bambini lo chiamavano il loro “piccolo giardino inglese”, facendo riferimento al grande e omonimo parco di Monaco. Gli 24
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Einstein non frequentavano molto i vicini e preferivano organizzare escursioni con i cugini sulle montagne o ai laghi nelle vicinanze. Due episodi simboleggiano il processo di iniziazione di Einstein alla scienza: il regalo di una bussola da parte del padre quando aveva quattro anni e la lettura di un volume di geometria euclidea. L’ago magnetizzato spiegò davanti ai suoi occhi i misteri della natura; gli assiomi e i postulati di Euclide, il potere deduttivo dell’intelligenza. La vita di Einstein sarebbe diventata una tenace applicazione del secondo per decifrare i primi. Il magnetismo si può interpretare come un effetto puramente relativista e la stessa relatività come una visione geometrica dell’universo. Nella bussola e nel libro di Euclide, quindi, era scritto il suo destino.
«Ancora molto giovane acquisii viva consapevolezza della futilità delle ansie e delle speranze che asfissiano senza tregua la maggior parte degli uomini durante la loro vita.» Albert Einstein
Un altro mito che consola molti studenti è che Einstein andasse male in matematica, quando fu certamente la prima delle sue passioni. Non per nulla il motto di Ulm, la sua città natale, era: Ulmenses sunt mathematici (Gli ulmensi sono matematici). Si entusiasmava anticipando il contenuto di ogni corso e inventava dimostrazioni diverse da quelle presentate nei libri. Abitudine che prefigura una delle caratteristiche più evidenti della sua personalità scienti-
fica: l’indipendenza di pensiero. Lo zio incoraggiava questa disposizione sfidandolo con problemi complessi, prendendolo in giro e mettendo in dubbio la sua capacità di risolverli. Nonostante abbia finito per condurre Hermann verso un percorso professionale senza sbocchi, Jakob esercitò sul piccolo Albert un’influenza molto più positiva. Certamente Einstein si recava spesso in visita alla fabbrica e un inventore inquieto come lo zio gli avrà di sicuro mostrato il funzionamento dei forni e delle macchine, invitandolo a giocare con i galvanometri e le batterie elettrochimiche e proponendogli un’infinità di esperimenti. Il profilo di Einstein come teorico ci spinge a immaginarlo con la testa sempre fra le nuvole, ma è invece certo che coltivò per tutta la vita la passione per le macchine. Da bambino lo entusiasmavano le costruzioni, adorava sbirciare all’interno dei vari meccanismi, brevettò diverse invenzioni, progettò un nuovo modello di frigorifero e di misuratore di corrente e mantenne una vivace corrispondenza con altri appassionati di bricolage tecnologico. Einstein aveva dieci anni quando conobbe il secondo dei suoi spiriti tutelari: Max Talmey, uno studente di medicina polacco che godeva dell’ospitalità di Hermann e Pauline. Passava in pratica ogni giovedì da casa loro, in Adelreiterstrasse, per mangiare. Durante le conversazioni dopo pranzo che condivisero per cinque anni si forgiò un’amicizia impari per età – li separavano dodici anni – ma basata su simpatia e interessi comuni. Talmey restò impressionato dall’eccezionale intelligenza di Einstein e si prefisse il compito di stimolare le sue inquietudini. Gli mise fra le mani Forza e Materia di Lu-
dwig Büchner, Il cosmo di Alexander von Humboldt e la popolare serie di libri di scienze naturali di Aaron Bernstein. Einstein li divorò con la passione con la quale gli altri bambini leggevano Verne. Nel mondo isolato del piccolo giardino inglese Einstein entrò in contatto con l’avanguardia tecnologica dell’epoca. Le equazioni del campo elettromagnetico annunciate da James Clerk Maxwell nel 1861 prendevano vita a un isolato da casa sua, nelle bobine, nelle resistenze e nei condensatori che utilizzavano i cento dipendenti della fabbrica Jakob Einstein & Cie. L’atmosfera del XIX secolo era completamente satura di elettricità.
Il secolo dell’elettricità
Il fascino che Einstein sentì a quattro anni, quando ebbe fra le mani una bussola, riproduceva un rito quasi primordiale: la magnetite e i fenomeni elettrostatici erano noti dall’antichità, come dimostra l’origine classica delle parole elettricità (da elektron, il nome greco dell’ambra) e magnetismo (di provenienza più incerta, forse dall’Isola di Magnesia, nell’Egeo). Non sono rimaste notizie di quando si notò per la prima volta che, sfregando una resina fossile, l’ambra, quest’ultima faceva rizzare i peli o attirava piccoli trucioli di legno. L’invenzione cinese della bussola risale sicuramente alla dinastia Han, intorno al 200 a.C. (sebbene per decifrarne il fondamento e il rapporto con il campo magnetico terrestre fu necessario attendere le ricerche di un medico elisabettiano, William Gilbert). L’interesse per i fenomeni elettromagnetici si accentuò durante l’Illuminismo, ma non fu che nel XIX secolo che si iniziarono a decifrare i loro meccanismi l a ri volu zione el et tromagnetic a
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di base. Nel frattempo fu scritto uno dei capitoli più stimolanti della storia della scienza. Le scoperte rivoluzionarono il tessuto industriale che aveva avviato la riforma del sistema dei brevetti inglese, la razionalizzazione dell’agricoltura e l’invenzione della macchina a vapore. Gran parte del salto tecnologico che si verificò durante il XX secolo avvenne grazie alla corrente elettrica. Sul piano teorico fu il francese Charles Augustin Coulomb (1736-1806) che diede fuoco alle polveri, stabilendo una prima legge che chiamò «della forza elettrostatica»: l’attrazione o respingimento fra cariche elettriche era direttamente p roporzionale al prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separava. Un enunciato che restava impregnato di un forte sapore newtoniano. Di fatto, se si eliminava l’effetto di respingimento e si sostituivano le cariche con le masse, si poteva quasi ottenere un calcolo della legge di gravitazione universale. Nel 1800, nel tentativo di riprodurre il meccanismo con il quale alcuni pesci, come le razze, generano elettricità, Alessandro Volta inventò la batteria chimica (pila). Regalò così ai ricercatori una fonte stabile di corrente continua, rese possibile la costruzione di circuiti e ampliò drasticamente le possibilità di sperimentazione. Per fare solo un esempio: senza la pila sarebbe stata impossibile l’elettrolisi, un processo di enorme importanza industriale che consente di scomporre delle sostanze al passaggio di una corrente elettrica. Grazie alle batterie si scoprì che l’elettricità e il magnetismo, che fino a quel momento avevano percorso strade sepa26
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rate, nascondevano un vincolo segreto. Nel 1820 il medico danese Hans Christian Oersted (1777-1851) dimostrò davanti a una classe di alunni poco entusiasti che il passaggio di una corrente spostava l’ago di una bussola, una prerogativa riservata sino ad allora ai magneti permanenti. A differenza degli alunni di Oersted, la comunità scientifica rispose commossa: a memoria d’uomo le forze si erano manifestate unicamente fra masse, cariche o magneti. Il risultato dell’esperimento suscitò la curiosità di André Marie Ampère (1775-1836), che fece un ulteriore passo avanti per dimostrare che due correnti elettriche si possono anche attrarre e respingere fra loro, interagendo mediante forze di natura magnetica. Come Coulomb, spiegò il fenomeno mediante un enunciato matematico che legava fra loro un insieme di grandezze osservabili in qualunque laboratorio. A prima vista queste leggi non presentavano grandi sfide concettuali. I fisici, nel loro scrutare l’universo, avevano raccolto un numero ridotto di principi e concetti che sembravano bastare per produrre un’immagine logica e precisa dei fenomeni. Da una parte c’erano le singole particelle che interagivano mediante forze centrali, ovvero quelle che esercitano la loro influenza nella direzione della retta che le unisce. Questa interazione aveva luogo in modo istantaneo e a distanza. Dall’altra parte c’erano le onde, che si propagavano in un ambiente materiale costituito a sua volta da singole particelle legate fra di loro mediante interazioni. Come vediamo, al momento di dissezionare la realtà si ricorreva ad astrazioni ispirate a fenomeni quotidiani: la pietra
QUELLO CHE L’ELETTRICITÀ HA UNITO... Considerando che ciò che unisce fra loro gli atomi è di natura elettrica, il passaggio di una corrente attraverso una sostanza può indurre l’effetto inverso e scomporla. Nei secoli XVIII e XIX fiorirono le tecniche per disgregare la materia e cercare di identificare i suoi componenti di base. L’elettrolisi divenne una delle più potenti tra queste, separando elementi che fino ad allora avevano resistito a un’azione puramente chimica. Il processo consiste nell’immergere i poli di una pila in un contenitore con la sostanza che si intende scomporre. Affinché questa possa condurre l’elettricità, si fonde o si dissolve nell’acqua. Prendiamo, ad esempio, un po’ di sale comune (NaCl). A temperatura ambiente gli ioni negativi del cloro (Cl-) e quelli positivi del sodio (Na+) si intrecciano in una struttura rigida. Il primo passo prevede di riscaldare il sale fino a circa 800 °C perché si fonda, in modo da indebolire i legami fra ioni. Con un voltaggio sufficiente, quindi, gli ioni di Cl- saranno attratti dal polo positivo della pila che staccherà loro gli elettroni. Si trasformano così in molecole neutre di cloro gassoso. Gli ioni di Na+ sono attratti dal polo negativo, dal quale prendono elettroni fino a diventare sodio neutro, che si accumula galleggiando sul sale fuso. Il chimico inglese Humphry Davy (1778-1829) sottopose a elettrolisi il carbonato di potassio, il carbonato di sodio e l’ossido di calcio, isolando per la prima volta il sodio e il potassio (metalli alcalini) e il calcio (alcalino terroso). Faraday riuscì a stabilire leggi precise che mettevano in relazione la corrente che attraversa il contenitore elettrolitico e la quantità di sostanza che si libera o concentra in ogni estremità della pila.
–
+
Na++e– Na Si deposita il sodio
2Cl–
Cl2 + 2e–
Gas di cloro
Cl– Na+
NaCl fuso
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che tiriamo in uno stagno (la particella) o le increspature che solleva sulla superficie (le onde). La natura sembrava fatta a misura della mente umana. Per quanto familiari potessero risultare queste onde e particelle idealizzate, tuttavia, la nozione di un’azione istantanea e a distanza conservava in sé una profonda stranezza. «Al di fuori della fisica – riassunse Einstein – il pensiero non sa nulla di forze che agiscono a distanza». Una critica che aveva già ricevuto la formulazione newtoniana della gravità che descriveva i suoi effetti con esattezza matematica, senza però approfondirne le cause. È rimasta celebre la replica piccata di Newton a questo tipo di obiezioni: Hipotheses non fingo, ovvero, «Io non invento ipotesi». L’ammirazione che meritava l’opera di Newton non metteva del tutto a tacere una certa inquietudine per alcune delle sue implicazioni. Dalla legge di gravitazione, così come la formulò, si deduce, ad esempio, che potremmo inviare messaggi istantanei all’angolo più remoto dell’universo unicamente agitando una massa: il suo movimento modificherebbe la distanza che la separa da noi e, quindi, anche la forza che esercita su qualunque corpo della Terra. Un rilevatore con sensibilità sufficiente sarebbe in grado di individuare, almeno in teoria, questi effetti che potrebbero essere organizzati seguendo un modello, come il codice morse.
Il messia e l’apostolo
Il sistema delle forze centrali iniziò a scricchiolare quando si vide che le interazioni elettromagnetiche non solo dipendevano dalla distanza, ma anche dalla velocità e dall’accelerazione. Fino a quando le cariche restavano ferme, lo schema classico 28
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manteneva la sua compostezza, ma appena si mettevano in movimento si moltiplicavano i termini nelle equazioni e la direzione della forza deviava dalla linea che univa le particelle, così come indicato nella figura sotto. Gli sforzi per far rientrare la dinamica delle cariche in una teoria retta da forze centrali ricordavano l’imbroglio di sfere, deferenti ed epicicli ordito da Tolomeo per salvare il vecchio geocentrismo. Progressivamente si fece strada l’idea che, con la rete concettuale esistente, non si sarebbe stati in grado di catturare le nuove leggi. Era necessario impiegare degli strumenti diversi e l’inglese Michael Faraday (1791-1867) fu il primo a contemplare dalla giusta prospettiva l’insolito paesaggio sperimentale che avevano dipinto Coulomb, Ampère e Oersted. Faraday fu un uomo per molti aspetti straordinario. Crebbe in condizioni di tale povertà da non poter neppure sognare la gloria della scienza. Studiò però chimica e fisica sfruttando il suo lavoro di rilegatore, leggendo i libri che doveva cucire e incollare. Non frequentò la politica o la filosofa, né si disturbò a fondare religioni, ma resta uno degli uomini che più hanno contribuito a modellare il mondo così come lo conosciamo oggi. Dell’attuale produzione mondiale di elettricità, oltre il 99% proviene da centrali nucleari, termiche, idroelettriche, eoliche, mareomotrici... e tutte impiegano generatori di corrente che sfruttano un fenomeno osservato per la prima volta da Faraday: l’induzione elettromagnetica. Il 17 ottobre 1831 egli annotò sul suo diario che, spostando un magnete nelle vicinanze di un cavo, in quest’ultimo si generava una corrente. La sua scoperta chiudeva il circolo aperto da
Ftotal
Felect
Felect
+
+
Fmag Fmag
v2 +
Felect
v1
+
Ftotal Felect
Direzione delle forze fra due cariche: in una situazione statica (a sinistra) e in una dinamica (a destra). Nel caso statico, la forza su ogni carica segue la direzione della retta che le unisce (Felect ). Quando le cariche acquisiscono velocità (v1 e v2) appare una forza magnetica (Fmag ) perpendicolare alla velocità. La forza risultante (Ftotal ) su ogni carica, somma della forza elettrica e della magnetica, non segue più la direzione della retta che le unisce.
Oersted: in Danimarca una corrente aveva spostato un ago magnetizzato; ora, nei sotterranei della Royal Institution di Londra, dove Faraday eseguiva i suoi esperimenti, il movimento di un magnete generava corrente. Faraday forgiò inoltre la chiave che avrebbe aperto la porta alla fisica teorica moderna: il concetto di «campo». Possiamo ottenere un’intuizione molto diretta di cosa sia osservando l’allineamento della lana di ferro intorno ai poli di un magnete o di una corrente. Si tratta di una semplice esperienza che chiunque può ripetere in casa e che sembra riprodurre una radiografia fantasma dello spazio. La sua contemplazione dispiega una costellazione di interrogativi. A quale impulso obbedisce la lana di ferro? A cosa si sostengono i mulinelli intorno alle cariche e i poli di un magnete, le «linee di forza», come le chiamò Faraday? Queste figure vaghe mandarono in esilio per sempre le forze centrali di Newton.
Einstein cercò di ricostruire così il processo speculativo di Faraday: […] dovette comprendere, guidato da un sicuro intuito, la natura artificiale di tutti gli sforzi che cercavano di spiegare i fenomeni elettromagnetici tramite azioni a distanza di particelle elettriche che reagivano fra loro. Come poteva sapere ogni truciolo di ferro, sparso su un foglio di carta, della presenza di particelle elettriche singole che pullulavano in un conduttore vicino? L’insieme di tutte queste particelle sembrava creare nello spazio circostante uno stato che, a sua volta, produceva un ordine determinato nei trucioli. Era convinto che, se si fosse compresa la struttura geometrica di queste configurazioni dello spazio, che oggi chiamiamo campi, e le loro vicendevoli dipendenze, si sarebbe scoperta la chiave di lettura delle misteriose interazioni elettromagnetiche.
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La sintesi elettromagnetica
Per spiegare un campo nello spazio basta assegnare dei valori matematici a ognuno dei suoi punti. Se si tratta di semplici valori numerici, il campo si chiama scalare. È il caso della distribuzione delle temperature in un solido o di pressioni in una cartina del tempo. Se, inoltre, assegniamo una direzione a ogni punto, avremo un campo vettoriale. Troviamo due esempi classici nella distribuzione delle velocità in un fluido o, ricorrendo ancora una volta alla meteorologia, dei venti in una determinata regione. In ogni caso c’è sempre una struttura soggiacente, materiale o meccanica. La pressione, la temperatura, il fluido o il vento sono manifestazioni macroscopiche di movimenti molecolari. Si pensò che lo stesso dovesse accadere nel caso dell’elettromagnetismo. I campi elettrici e magnetici sono vettoriali, hanno una dimensione e una direzione. Indicano cosa succederà a una carica se la depositiamo in un punto qualsiasi dello spazio. Con quale intensità sarà spostata e in che direzione. Quale struttura microscopica giustifica quindi il tracciato delle linee di forza? Doveva trattarsi di un ambiente invisibile e intangibile, che permeasse tutto, estremamente sottile, dato che nessuno lo aveva percepito né se ne era sentita la mancanza fino a quel momento. Costretto per definizione a rappresentare il massimo dell’etereo, ricevette il nome di etere. Le cariche restavano imprigionate in questo ambiente, la cui struttura elastica creavano e modificavano senza sosta con la loro mera presenza o con i loro movimenti. La configurazione del campo in una particolare regione indicava il destino di una specifica particella, ma, allo stesso 30
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tempo, ogni particella determinava quella del campo e, quindi, la sua e quella delle altre. Il lavoro di Maxwell poté stabilire le regole precise di questo continuo dialogo fra campi e cariche. Lo stesso anno in cui Faraday abbozzava le prime idee sulle linee di forza, nel 1831, nasceva a Edimburgo James Clerk Maxwell. Per molti, Faraday, figlio di un fabbro e di una contadina, era poco più di un artigiano prodigio. Forse con un certo snobismo di classe, non prendevano troppo sul serio le speculazioni teoriche di un uomo che non aveva seguito un percorso di studi canonico. Maxwell, invece, soddisfaceva tutti i requisiti. Sebbene alla lontana, la sua famiglia era imparentata con la nobiltà e aveva studiato nelle università di Edimburgo e Cambridge, dove ebbe accesso all’esclusiva e più o meno segreta Società degli Apostoli. Fu professore di filosofia naturale al King’s College di Londra e diresse anche il Laboratorio Cavendish. Nonostante il suo pedigree, tuttavia, egli prese molto seriamente le idee di Faraday. Maxwell disegnò le linee del campo che quest’ultimo aveva intuito nei percorsi della lana di ferro con un preciso tiralinee matematico. Mettendo mano alle derivate parziali, definì le leggi che reggevano la struttura e l’evoluzione dei campi davanti a qualunque configurazione immaginabile di cariche, correnti e magneti. Fu in grado di spiegare tutti i fenomeni elettromagnetici che si verificavano a livello macroscopico, integrando armonicamente i risultati sperimentali di Ampère, Coulomb, Faraday e Oersted. In altre parole, scrisse il manuale di istruzioni matematiche che gli ingegneri attendevano per progettare i loro moto-
Un esempio di campo scalare: mappa della distribuzione delle temperature nell’atmosfera (a sinistra). L’intensità del colore in ogni punto corrisponde a un valore della temperatura. Un esempio di campo vettoriale: distribuzione delle direzioni del vento in Italia (a destra).
ri, o inventare elettrodomestici, telefoni, televisori e radio. Anche per pubblicare un manifesto rivoluzionario bisogna però ricorrere a un linguaggio ereditato. Per costruire le equazioni che decifravano il comportamento dei campi elettrici e magnetici, Maxwell si appoggiò all’impalcatura dei modelli meccanici. Secondo le parole del fisico Freeman Dyson: Gli scienziati dell’epoca, compreso lo stesso Maxwell, cercavano di immaginare i campi come strutture meccaniche, composte da una moltitudine di rotelline e vortici che si estendevano nello spazio. Si supponeva che queste strutture comunicassero le tensioni meccaniche che i campi elettrici e magnetici trasmettevano fra le cariche elettriche e le correnti. Affinché i campi rispettassero le equazioni di Maxwell, il sistema di ruote e vortici doveva essere estremamente complesso.
Maxwell non pretendeva che i modelli da lui proposti fossero interamente accettati, ma erano comunque una dimostrazione che i fenomeni che studiava potevano essere spiegati con meccanismi analoghi. A parte ruote, vortici e altre complicazioni formali, le sue equazioni contenevano una profezia sorprendente. Agitando una carica elettrica, si genera un campo elettrico variabile che, a sua volta, induce un campo magnetico variabile che, a sua volta, produce un campo elettrico variabile… Le scoperte di Oersted e Faraday sono concatenate e si alimentano vicendevolmente, a cascata, come la caduta di una fila di tessere del domino. Questa «corsa a staffetta» comunica l’agitazione della carica al resto del campo. Manipolando le sue equazioni, Maxwell ottenne che la perturbazione, propagandosi, obbediva alla descrizione matematica del suono. Si comportava quindi come un’onda ed egli poté pertanto calcolare con esattezza la sua velocità. Corrispondeva al quoziente l a ri volu zione el et tromagnetic a
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«Immaginate il suo stato d’animo quando le equazioni differenziali che aveva formulato gli mostrarono che i campi elettromagnetici si diffondono sotto forma di onde polarizzate e alla velocità della luce! A pochi al mondo è concesso di vivere una simile esperienza.» Einstein in merito a cosa provò quando si rese conto della portata della sua scoperta
fra le unità elettromagnetiche ed elettrostatiche della carica e raggiungeva un valore vicino a 300.000.000 m/s. Non si trattava di un valore qualunque. Nel 1849, il parigino Hippolyte Fizeau (1819-1896) aveva imprigionato un raggio di luce in un labirinto di specchi e, aiutandosi con un delicato meccanismo, era riuscito a misurare la sua velocità nell’aria. Ottenne un valore di 314.858.000 m/s che il suo compatriota Léon Foucault (1819-1868) affinò fino a raggiungere 298.000.000 m/s. I grandi scienziati sono soliti pronunciarsi con cautela, ma davanti a una coincidenza di questa portata persino Maxwell osò annunciare: «La velocità si avvicina talmente a quella della luce che, a quanto pare, vi sono ragioni estremamente fondate per concludere che la stessa luce (incluso il calore radiante e, se del caso, altre radiazioni) sia una perturbazione elettromagnetica che si propaga sotto forma di onde attraverso il campo elettromagnetico, in accordo con le leggi elettromagnetiche». Questa rivelazione aprì una breccia nell’interpretazione fisica del mondo analoga a quella prodotta da L’origine delle specie di Darwin nel campo delle scienze naturali. Ora, finalmente, tutto acquistava senso. L’a32
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zione a distanza cedeva il posto ai campi, all’interno dei quali qualunque attrazione era trasmessa a una velocità finita, sotto forma di onde. Le equazioni di Maxwell officiarono una delle prime cerimonie di unificazione della fisica: all’elettricità e al magnetismo, sposati da Oersted, si univa ora la luce. Un matrimonio inatteso, dato che la luce, all’inizio, sembrava un mistero totalmente estraneo ai temi che riguardavano pile, correnti o magneti. Maxwell entrava così in un esclusivo gruppo di scienziati che condivisero l’entusiasmo del fisico Fritz Houtermans quando, davanti a un commento sulla bellezza delle stelle, si poté permettere di rispondere: «Sì, e in questo preciso momento sono l’unico uomo sulla faccia della Terra che sa perché brillano». Dopo aver letto l’opera di Maxwell, il fisico tedesco Heinrich Hertz si mise a caccia delle sfuggenti onde elettromagnetiche. Non dovette però muoversi dal suo laboratorio per trovarle. Sebbene fossero passate inosservate, erano rimaste lì con lui tutto il tempo e verificò che, in effetti, erano in essenza analoghe alla luce, solo che avevano una lunghezza d’onda che non sollecitava i fotorecettori dell’occhio umano, rendendole quindi invisibili.
LUNGHEZZE E COLORI Se consideriamo la luce come un’onda, non possiamo modificarne la velocità di propagazione nel vuoto, ma possiamo allungarla o comprimerla. Così facendo alteriamo le dimensioni del modello che in essa si ripete e che è noto come lunghezza d’onda, λ. Più è lunga λ, per una stessa velocità di propagazione, meno è la frequenza ν con la quale si ripete il modello. Pertanto λ e ν sono grandezze inverse, legate dall’equazione c = λ · ν, dove λ si misura in unità di distanza e ν in unità inverse di tempo. Nel range delle radiazioni visibili, la variazione nella lunghezza dell’onda si traduce in un cambio di colore. Se prendiamo un’onda viola e la allunghiamo, diventa azzurra, poi verde, gialla, arancio, rossa… fino a sparire dalla vista. Scomparirà anche in caso di compressione. Il range delle lunghezze trascende la percezione dei nostri occhi e si estende oltre un doppio orizzonte: infrarossi e ultravioletti.
λ
Aumento dell’energia
Aumento della lunghezza d’onda 0,0001 nm 0,01 nm Raggi gamma
Raggi X
10 nm
1 000 nm 0,01 cm
Ultravioletti
Infrarossi
1 cm
1m
100 m
Onde radio Radar TV FM
AM
Luce visibile
I fisici e gli ingegneri si abituarono presto a maneggiare le equazioni di Maxwell, senza doversi preoccupare troppo per l’impalcatura meccanica di ruote e vortici che si presumeva le sostentasse. Un’impalcatura che finalmente cadde, lasciando però in piedi la struttura. Einstein spiegò il processo con la sua caratteristica capacità di sintesi:
Nei decenni la maggior parte dei fisici era rimasta legata alla convinzione che si sarebbe trovata una struttura meccanica soggiacente alla teoria di Maxwell. Il fallimento dei loro sforzi, però, condusse alla graduale accettazione dei nuovi concetti di campo come fondamenti irriducibili. In altre parole, i fisici si ras-
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segnarono ad abbandonare l’idea di un fondamento meccanico.
Sebbene il concetto di campo soddisfacesse un’inquietudine se vogliamo filosofica – come può un corpo esercitare la sua influenza su un altro? – si impose inoltre per una questione di comodità. Sarebbe stato sufficiente per reinterpretare anche la gravità, dove continuava a dominare una legge di applicazione istantanea? Per risolvere la questione Einstein dovette studiare una teoria completamente nuova: la teoria generale della relatività.
Nella buona e nella cattiva sorte
L’avanguardia teorica sem inò il terreno per le applicazioni tecnologiche. A Coulomb, Oersted, Ampère, Faraday e Maxwell seguirono Marconi, Graham Bell, Morse, Tesla ed Edison e uno sciame di imprenditori disposti a guadagnare una fortuna con le loro invenzioni. Jakob ed Hermann Einstein si unirono a quegli imprenditori che si avvicinarono al campo dell’elettromagnetismo per partecipare al raccolto. Gli inizi a Monaco sembrarono molto promettenti. Nel 1885 firmarono un contratto per illuminare per la prima volta con luce elettrica l’Oktoberfest e parteciparono all’Esposizione Elettrotecnica Internazionale che si tenne a Francoforte nel 1891. Il settore della fornitura elettrica aveva sperimentato una crescita vertiginosa. Nel decennio fra il 1880 e il 1890 la domanda di impianti era così forte che molti piccoli imprenditori poterono ottenere anche loro un pezzo della torta. In Germania, tuttavia, le grandi società cominciarono a fare terra bruciata intorno alle imprese familiari fino a metterle in ginocchio ed espellerle 34
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dal mercato. Il 1894 fu l’anno del primo fallimento di Elektro-Technische Fabrik Jakob Einstein & Cie. Il rappresentante italiano della società, Lorenzo Garrone, propose il trasferimento a Pavia. Mentre Hermann soppesava i pro e i contro di una decisione di quella portata, Jakob lo stordì con il suo entusiasmo e lo caricò su un treno verso l’Italia. Le rispettive famiglie non ebbero altra possibilità che unirsi all’esodo. Hermann e Pauline lasciarono la loro idilliaca residenza all’ombra degli alberi, amici e conoscenti, la musicalità lineare della lingua materna... e loro figlio. Convinti che le difficoltà finanziarie non dovessero influire sulla carriera di Albert, lo lasciarono alle cure di lontani parenti. Il ragazzo riceveva lettere entusiaste da Milano, alle quali rispondeva telegrafico. Le sue scarne parole non rivelavano che, privato della valvola di sfogo in famiglia, l’ambiente scolastico gli era diventato irrespirabile. Questo, oltre alla non rosea prospettiva del servizio militare, lo aveva gettato sull’orlo dello scoramento e lo avviliva sempre di più. Einstein si sentiva come in un campo di prigionia e si propose di scavare il tunnel che gli avrebbe permesso di scappare dalla Germania. In qualche modo riuscì a ottenere dal suo medico di famiglia un certificato secondo il quale, se non si fosse immediatamente ricongiunto con i genitori, avrebbe corso il rischio di soffrire di una crisi nervosa. Il documento servì affinché la direzione del Luitpold Gymnasium, che certo non lo annoverava fra i suoi allievi prediletti, lo sollevasse dai suoi obblighi accademici. La parte più difficile era fatta: il 29 dicembre 1894 egli coprì a proprio rischio e pericolo i 350 km che se-
In alto: Riproduzione del primo generatore elettromagnetico inventato da Faraday. Il disco di rame gira fra i poli di un magnete a forma di serratura. Il movimento produce un flusso di corrente nel disco, trasformando l’energia meccanica in elettrica. In basso: Illustrazioni di Faraday che mostrano il comportamento della lana di ferro in prossimità di un magnete o combinandone diversi insieme. DK LIMITED / CORBIS (IN ALTO); M. FARADAY ELECTRICITY (IN BASSO)
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parano Monaco da Milano. Non si trattava di una visita per festeggiare capodanno insieme: Einstein fece capire chiaramente a Pauline ed Hermann che la sua decisione di non rimettere più piede al Luitpold era irrevocabile. Questo inatteso colpo di testa lasciava il suo futuro appeso a un filo. Da una parte, se non completava gli studi superiori, non avrebbe potuto iscriversi in nessuna università tedesca. Il servizio militare comportava poi una situazione ancora più difficile. Al compimento dei diciassette anni, i cittadini tedeschi che restavano all’estero e non si presentavano per adempiere ai loro obblighi militari erano considerati disertori. Durante un viaggio in bicicletta con le Alpi sullo sfondo in direzione di Genova, prese la decisione di rinunciare alla cittadinanza tedesca e chiedere quella svizzera. Scartata la sua partecipazione all’impresa di famiglia, Einstein decise di iscriversi al Politecnico Federale di Zurigo che offriva due attrattive irresistibili: era fuori dai confini tedeschi, ma all’interno della zona germanofona svizzera, e godeva di un solido prestigio nell’insegnamento superiore di fisica e matematica. Fra i suoi docenti vi erano alcune delle grandi personalità scientifiche dell’epoca, come Heinrich Weber, Adolf Hurwitz ed Hermann Minkowsky. Einstein trascorse la maggior parte del 1895 tra Milano e Pavia, preparando da solo gli esami di ammissione al Politecnico. Mentre si lasciava conq uistare dalla Sindrome di Stendhal e si innamorava dell’Italia, visitava di quando in quando la fabbrica per dare una mano. Jakob si stupiva che fosse in grado di risolvere in un quarto d’ora problemi che avevano tenuto in scacco i suoi tecnici per giorni. 36
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Questa tormenta di eventi finì per suscitare nella mente di Einstein una prima rivelazione fisica. Così ricordava cinquant’anni più tardi nelle sue Note autobiografiche: Questo principio nacque da un paradosso che mi si presentò già a sedici anni: correndo dietro a un fascio di luce con velocità c [la velocità della luce nel vuoto], dovrei percepire il raggio luminoso come un campo elettromagnetico stazionario, sebbene spazialmente oscillante. Questo fenomeno, però, non sembra esistere né sulla base dell’esperienza né secondo le equazioni di Maxwell.
Questo paradosso lo tormentò per dieci anni, periodo che gli fu necessario per risolverlo. Senza saperlo, aveva piantato nella sua immaginazione il seme della teoria della relatività speciale. In estate trovò il tempo per scrivere il suo primo articolo scientifico, Indagine sullo stato dell’etere in un campo magnetico, che inviò a uno dei suoi zii, Caesar Koch. In ottobre Pauline e Albert attraversarono in treno la frontiera diretti a Zurigo. Non sappiamo se a Einstein tremò la mano mentre scriveva il suo nome sui fogli di esame, conscio che era in gioco il suo futuro. Questo primo assalto terminò tuttavia con un fallimento, sebbene fosse andato così bene nelle materie scientifiche e matematiche da impressionare il professore di fisica, Heinrich Weber, che lo invitò ad assistere alle sue lezioni. Il preside del Politecnico gli consigliò quindi di completare gli studi superiori in una scuola cantonale di Aarau, una pittoresca cittadina a metà strada fra Zurigo e Basilea. L’anno successivo, dopo il consegui-
mento del diploma, avrebbe accettato la sua domanda di ammissione. Lontano dall’atmosfera oppressiva dell’Impero tedesco, il carattere di Einstein poté sbocciare. Dopo il periodo trascorso in Italia e Svizzera spariscono gli aggettivi “solitario”, “introverso” o “asociale” nelle impressioni di coloro che ebbero modo di conoscerlo ed emerge il profilo di un giovane simpatico, a tratti bohémien, che non disdegnava di corteggiare le donne. Ad Aarau il giovane studente fu ospitato a casa di Jost Winteler, un brillante filologo appassionato di ornitologia e scienze naturali. Einstein trovò nei Winteler affetto e stimoli intellettuali. Erano allegri e liberali, discutevano instancabilmente di libri e politica e organizzavano feste alla minima occasione. Einstein chiamava “papà” Jost e “mamma” sua moglie, Pauline, che, oltre al nome, condivideva con la sua vera madre la passione per il pianoforte. Non trattò tuttavia i loro figli come veri fratelli, quantomeno non Marie Winteler, della quale fu innamorato per un certo periodo. Superata la prova ad Aarau, Einstein dava inizio a una nuova tappa della sua
vita come studente di uno dei centri di insegnamento più prestigiosi della Svizzera. Durante una delle loro chiacchiere da innamorati, Marie aveva espresso ad Albert il suo timore che la fisica avrebbe finito per separarli. Fra gli undici compagni di studi che Einstein conobbe al corso che iniziava nella sezione di matematica del Politecnico c’era l’incarnazione di quelle paure: Mileva Marić, una giovane sveglia e indipendente, capace di condividere con Einstein lo stupore per la teoria cinetica dei gas, una caratteristica decisamente inusuale fra le donne che aveva conosciuto fino ad allora. Con lei l’amore dello studente approdò ad altri lidi. Come all’inizio di un’opera, a diciassette anni Albert aveva già affrontato i grandi temi della sua vita: aveva scritto il suo primo articolo scientifico, era stato protagonista di un serio scontro con l’autorità, si era innamorato e disinnamorato e aveva formulato un interrogativo capace di far scoppiare una vera rivoluzione scienwtifica: cosa sarebbe successo se un raggio di luce fosse stato seguito? j
l a ri volu zione el et tromagnetic a
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CAPITOLO 2
Ogni movimento è relativo
Nel 1905, Einstein, che allora era un anonimo dipendente dell’Ufficio Brevetti di Berna, pubblicò cinque articoli che avrebbero rivoluzionato la fisica. Fra questi era presente un primo abbozzo della relatività speciale. Fissando la costante della velocità della luce nel vuoto, egli condannò per sempre all’oblio qualsiasi nozione familiare di spazio e di tempo.
La Svizzera fu uno scenario chiave nella vita di Einstein, specialmente Zurigo (a sinistra), dove si trasferì a diciassette anni per studiare fisica e matematica nel prestigioso Politecnico, nelle cui aule conobbe la sua futura prima moglie, Mileva Marić.
L
a caccia al raggio di luce fu il filo di Arianna che guidò Einstein fino alla relatività speciale. Una teoria che, fra le molte altre cose, fornisce una ricetta per conciliare i punti di vista più diversi. Un vero traguardo per la fisica che il giovane scienziato fu, invece, incapace di conquistare nella vita privata. Gli anni della sua formazione furono caratterizzati da un’assenza di comprensione quasi totale con i suoi professori del Politecnico, le istituzioni accademiche che avrebbero potuto assumerlo e la sua famiglia, che sino ad allora gli era servita da parafulmine per le tempeste esterne. Chiusa la parentesi della sua idilliaca permanenza ad Aarau, tornava sul campo di battaglia. Se avesse pensato a un motto per il suo stemma araldico, sarebbe stato: Albert contra mundum. Il suo modo di intendere l’insegnamento, i rapporti sentimentali o l’esercizio della scienza sembrava incompatibile con l’ambiente sociale che gli era toccato in sorte. Fermandosi davanti al primo bivio decisivo, l’inizio della sua carriera da ricercatore: su un piatto della bilancia c’era la sua ambizione, il suo particolare modo di fare e, sull’altro, quello delle autorità accademiche. Einstein impiegò anni a trovare un equilibrio fra i due. La reciproca buona impressione che condivise con Heinrich Weber, dopo il primo tentativo fallito di entrare al Politecnico, svanì rapidamente. Non sembra che il disincanto fosse dovuto alle capacità di Einstein, dato che Weber premiò sempre il suo lavoro con valutazioni eccellenti. Il giovane fisico, però, non interpretava il ruolo del docile discepolo dalla fiducia incondizionata con la convinzio-
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ne sperata. Invece dell’altisonante “Herr Professor”, preferiva rivolgersi al docente con uno scarno “Herr Weber”. Durante i primi semestri seguì con entusiasmo le sue lezioni di termodinamica, ma sentì ben presto che stava così evitando la fisica che era ansioso di apprendere, la teoria della termodinamica di Maxwell, e finì per disertare le aule per studiarla per proprio conto. Fortunatamente, come ricorderà nel suo ultimo ritiro a Princeton, «avevo un amico, Marcel Grossmann, che frequentava con regolarità e prendeva eccellenti appunti. Così, invece di soffrire per il senso di colpa, che superavo con soddisfazione, godetti della libertà di scegliere come occupare il mio tempo fino a un paio di mesi prima dell’esame».
«Se son rose, fioriranno.» Risposta di Michele Besso, ingegnere e amico di Einstein, davanti ai dubbi di quest’ultimo sulle proprie idee
In aula il suo posto vuoto non passò inosservato e certamente non fu interpretato come un segno di rispetto. Il parere di Weber si può riassumere in un avvertimento: «Sei intelligente, ragazzo! Ma hai un difetto. Non lasci che nessuno ti dica niente, assolutamente niente». Dopo avergli teso la mano al suo arrivo a Zurigo, prima di iniziare gli studi, l’insegnante gli girò le spalle quando li terminò. Conclusi gli esami finali, Einstein fu l’unico studente che, pur promosso, non ricevette un’offerta per rimanere a lavorare nel centro. L’eco di questa porta chiusa in faccia si propagò alle altre istituzioni accademiche. Tutti i possibili datori di lavoro chiedevano referenze al suo mentore e sembra
In alto: Albert e Mileva fotografati nel 1904 e 1905. Nell’immagine a destra, la coppia posa insieme al figlio, Hans Albert. In basso: Mileva con Hans Albert ed Eduard, il secondo figlio avuto con Einstein durante il matrimonio. AGE / FOTOSTOCK (SOPRA A SINISTRA); ALBUM (SOPRA A DESTRA); CORDON PRESS (SOTTO)
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che Weber rispondesse puntualmente e con sincerità. Le richieste di un posto da assistente, il primo gradino indispensabile per iniziare una carriera da ricercatore, si scontrarono con un muro di silenzio. L’iniziale reazione di Einstein fu di indignazione. «È veramente spaventoso pensare agli ostacoli che questi vecchi filistei pongono sul cammino di chiunque non sia della loro cricca», scriveva nel dicembre 1901. «Queste persone considerano istintivamente ogni giovane intelligente come una minaccia per la loro putrescente dignità». In seguito la prese con più ironia e rassegnazione: «Dio creò l’asino e gli diede la pelle spessa». Ma questo non era l’unico conflitto nato nelle aule del Politecnico per colpa della sua allergia alle convenzioni. Appena arrivato, durante il semestre dell’inverno del 1896, conobbe una studentessa serba di quattro anni più grande giunta in Svizzera per continuare gli studi che le autorità austroungariche consideravano inadatti per una donna.
«Lei è un altro libro come te, a te invece serve una donna.» Giudizio di Pauline Einstein sulla futura nuora
Pauline ed Hermann avevano incoraggiato la relazione tra il figlio maggiore e Marie Winteler. Davanti a Mileva Marić reagirono con lo sgomento di chi vede un fantasma. I complimenti che le riservò Pauline sono come un boomerang che la dipinge come una suocera quasi da commedia. Per lei Mileva era «troppo vecchia» e «fisicamente storpia», una 42 ein ste in
donna che non poteva «aspirare a una buona famiglia». Con questa convinzione perseguitava il figlio, trasformata in un oracolo funesto: «Lei è un altro libro come te, a te invece serve una donna. Quando avrai trent’anni, sarà diventata una strega». Suo figlio, ovviamente, vedeva le cose in modo diverso. «Comprendo molto bene i miei genitori. Considerano la donna come un lusso per l’uomo, che può permettersela solo quando dispone di una vita agiata. Io però ho un’idea molto diversa del rapporto fra uomo e donna dato che, secondo quel punto di vista, fra una moglie e una prostituta l’unica differenza è che la prima, grazie alle migliori condizioni dell’esistenza, può ottenere dall’uomo un contratto a vita. Una tale opinione è la conseguenza naturale del fatto che nei miei genitori, come nella maggior parte delle persone, i sensi esercitano il dominio diretto sui sentimenti, mentre per noi, grazie alle felici circostanze in cui viviamo, le gioie della vita sono infinitamente maggiori». Il semplice immaginare le conseguenze che avrebbero potuto provocare queste gioie rubava il sonno a Pauline. Se nell’epoca dorata di Monaco si era divertita ad accompagnare al piano il figlio per interpretare delle allegre sonate, ora era dell’umore giusto solo per un requiem. Hermann e la moglie piangevano Albert come se fosse morto. Dopo aver saputo che Mileva non aveva superato gli esami finali, Pauline domandò: «E adesso cosa sarà di quella ragazza?». Einstein ribatté con determinazione: «Diventerà mia moglie». L’unica risposta che seppe dare la madre in quel momento fu gettarsi sul letto e coprirsi il volto con il cuscino per soffocare un attacco di pianto.
Una scena che Einstein raccontò in dettaglio a Mileva. Non stupisce che la giovane nutrisse poca simpatia per la futura suocera: «Sembra che questa signora nella vita si sia prefissata l’obiettivo non solo di amareggiare il più possibile la mia esistenza, ma anche quella di suo figlio». Sicuramente l’atteggiamento di Pauline rispecchiava un’ansia comune nella borghesia dell’epoca: realizzare un buon matrimonio. La relazione sentimentale fra Mileva e Albert nacque permeata di romanticismo e carica delle migliori intenzioni, di progetti comuni dove la passione amorosa si coniugava con il fervore scientifico. Einstein restò folgorato appena la conobbe alle lezioni al Politecnico. Per un uomo con il suo temperamento, la peggiore critica della madre si trasformava nel complimento più ardente: «Lei è un libro come te». Una donna che aspirasse a una carriera scientifica era una mosca bianca nel suo ambiente sociale, un esemplare prezioso per la sua singolarità. Si immaginavano fare ricerche insieme, discutere insieme, vivere insieme, superando insieme qualunque opposizione familiare. Le lettere che Einstein scrisse in quel periodo a Mileva sono tutte una variazione attorno a due temi ugualmente totalizzanti: la fisica e l’amore. Vincendo non poche difficoltà, riuscirono a realizzare il loro sogno. In Ungheria Mileva diede alla luce in modo semiclandestino una figlia che Einstein non conobbe mai, si sposarono nel 1903 con una cerimonia alla quale non partecipò nessun famigliare, ebbero altri due figli, subirono l’erosione della convivenza in condizioni economiche estremamente precarie, interpretarono una sinfonia di gelosie e recriminazio-
ni e finirono per combattere una guerra sotterranea, trasformando i figli in armi per ferirsi a vicenda. Il loro idillio sbocciò come una commedia romantica e sfociò in un dramma matrimoniale. Una storia che non susciterebbe alcun interesse, se uno dei coniugi non fosse stato eletto a furor di popolo come una delle icone del XX secolo.
L’autore segreto della relatività?
Uno dei capitoli più controversi della bibliografia di Einstein riguarda la partecipazione di Mileva alla genesi della relatività. Le scienziate sono state sovente maltrattate durante i secoli per il solo fatto di essere donne e il loro contributo è stato sistematicamente occultato, quando non usurpato senza il minimo tentennamento. Gli affronti subiti con atteggiamenti accondiscendenti e paternalistici da parte di maestri e compagni di ricerca riempirebbero i volumi di una biblioteca consacrata all’infamia. Affronti che, ovviamente, non restavano certo fuori dalla soglia di casa. Il matematico inglese William Young (1863-1942), ad esempio, non sembrava essere disturbato dall’idea di mantenere nell’ombra la moglie, la matematica Grace Chisholm (1868-1944): «È vero che dovremmo firmare entrambi i nostri articoli, ma, se così fosse, nessuno dei due ne trarrebbe beneficio. No. Adesso per me ci sono l’alloro della gloria e la conoscenza. Per te solo la conoscenza. Al momento non puoi avere una carriera pubblica. Io posso e ce l’ho». Possiamo applicare questo modello anche al matrimonio di Albert e Mileva? La relatività è in realtà opera, anche solo in parte, di un’altra persona? o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 43
Sappiamo poco delle discussioni e conversazioni private fra Mileva ed Einstein. Alcune delle accuse più taglienti sono andate sfumandosi a un esame più attento, come l’affermazione che vi fosse un originale di Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento firmato da entrambi. C’è chi vede più di una mano nella redazione di quell’articolo, dove si gettano le basi della relatività speciale. Alla fine buona parte dell’imputazione risale a una frase pronunciata da Einstein del 1901 fuori contesto («Sono stato così felice e orgoglioso quando, insieme, abbiamo concluso con successo il nostro lavoro sul movimento relativo») e al fatto che egli si fosse impegnato a consegnare il denaro ricevuto con il Nobel a Mileva dopo il divorzio. Come vedremo più avanti, la nozione di movimento relativo è molto comune in fisica e il 1901 è una data eccessivamente precoce perché si facesse riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato quattro anni più tardi. Non c’è inoltre motivo di legare i termini della separazione al riconoscimento di alcuna paternità scientifica. Sappiamo poi, d’altro canto, che Einstein spese parte del premio in investimenti che andarono in fumo a causa della Grande Depressione. È innegabile che Mileva potesse comprendere i suoi articoli e che potesse anche leggerli a caccia di eventuali errori. Einstein amava discutere delle sue idee con altri, come Michele Besso, Philipp Frank o Maurice Solovine. Il suo pensiero era stimolato dall’esercizio dialettico. Risulta difficile immaginare che non condividesse le sue speculazioni che la persona a lui più vicina e che non chiedesse la sua opinione. Fino a che punto, in questo 44 ein ste in
scambio, ricevette preziosi suggerimenti? La cosa più probabile è che non si sappia mai fino in fondo. La maggior parte delle lettere che Mileva scrisse a Einstein è andata perduta e, fra quelle conservate, sono scarsi gli accenni scientifici. Le missive di Einstein traboccano di entusiasmo per le sue letture e i contatti con altri scienziati. Gli appassionati delle teorie del complotto possono sempre pensare che le lettere che contenevano l’apporto di Mileva furono bruciate in un camino. Si conserva invece parte della corrispondenza di Mileva con l’amica Helene Kaufler-Savic, dove la donna esprime l’ammirazione per il lavoro del marito senza attribuire però a se stessa alcun merito. L’unica certezza è che il virtuosismo scientifico di Einstein sopravvisse alla vita con Mileva. La costruzione della relatività generale, il suo successo più ambizioso e profondo, raggiunse il culmine quando lavorava da solo a Berlino, ormai separato dalla moglie. Sebbene sia giusto evidenziare alcuni elementi piuttosto maschilisti, comprensibili per l’epoca, nel trattamento riservato a Mileva da Einstein, l’usurpazione non sembra essere in linea con quanto conosciamo della sua personalità. Prima che le aspirazioni accademiche di Mileva svanissero per sempre, dopo aver fallito per due volte gli esami finali, Einstein si diceva felice di poter condividere con lei la sua impresa scientifica. Da quanto si può leggere dalla sua corrispondenza, la incoraggiò sempre a non darsi per vinta. In diverse occasioni, inoltre, difese con decisione e di sua iniziativa altre donne che lottavano contro
l’ostracismo accademico, come nel caso della matematica tedesca Emmy Noether (1882-1935).
Entrata in società
Sebbene la prendesse apparentemente con ironia, Einstein non godeva certo dei suoi continui scontri con il resto del mondo. La strenua difesa del suo rapporto con Mileva non doveva creargli eccessivi rimorsi, ma il dolore che suscitava nei genitori l’incertezza del suo futuro professionale lo tormentava. In una lettera alla sorella Maja questa angoscia affiora in tutta la sua crudezza: Per i miei genitori non sono altro che un peso […]. Sicuramente per loro sarebbe meglio che non esistessi. Solo la convinzione di avere sempre fatto quanto mi hanno permesso le mie scarse forze e che vivo anno dopo anno senza concedermi un piacere, una distrazione, con l’eccezione di quelli offertimi dai miei studi, mi permette di continuare e, a volte, mi protegge dalla disperazione.
Nei momenti di abbattimento contemplò la possibilità di abbandonare per sempre le sue aspirazioni scientifiche e di impiegarsi in una società di assicurazioni. Riuscì tuttavia a restare a galla, facendo equilibrismi tra un lavoro precario e l’altro: diede lezioni private, sostituì un professore di matematica alla scuola tecnica superiore di Winterthur, fu tutore in un collegio di Schaffhausen… e, in qualche caso, mangiò davvero poco. Il suo amico Friedrich Adler confessò che, in alcune occasioni, temette che potesse addirittura morire di fame. Quando il suo ex mentore Max Talmey, ormai di-
ventato medico, gli fece visita e vide dove viveva, affermò che: «Il suo ambiente rivelava una povertà notevole». Infine, grazie all’intercessione dell’ex compagno del Politecnico Marcel Grossmann, Einstein ottenne un posto all’Ufficio Brevetti di Berna. In cambio di uno scarso stipendio doveva valutare l’efficacia delle invenzioni che aspiravano a un brevetto, per la maggior parte con fondamenti di elettrotecnica. Era in realtà un’occasione per lasciarsi trasportare dal flusso creativo degli inventori e tornare all’universo accogliente delle bobine, dei trasformatori e delle dinamo al quale era stato iniziato dallo zio Jakob. Come scrisse alla vedova di Grossmann trentaquattro anni dopo, si trattava di un lavoro «senza il quale non sarei morto, ma avrei gettato via il mio spirito». Il posto gli offriva la stabilità psicologica ed economica necessaria per mettere radici e riordinare le idee. Nel 1905 Einstein ebbe uno dei debutti più memorabili della storia della scienza. Da una posizione assolutamente marginale del sistema, pubblicò cinque articoli nei quali parlava della natura quantistica della luce, del moto browniano, della relatività speciale e dell’equivalenza fra massa ed energia. Quando la comunità scientifica infine li notò, cercò invano nelle ultime pagine o nelle note in calce qualche riferimento al lavoro di un cattedratico o professore universitario. Nel suo articolo fondamentale sulla relatività (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), Einstein non cita altri fisici se non Newton, Faraday e Maxwell. La sua unica frase di ringraziamento è per un collega dell’Ufficio Brevetti: «Per concluo gni MOV I MENTO è REL ATI VO 45
IL MOTO BROWNIANO Nel giugno del 1827 il botanico scozzese Robert Brown iniziò ad analizzare al microscopio un campione di granelli di polline immersi in acqua. Osservò che le loro particelle, amiloplasti e sferosomi, sussultavano nel liquido come se fossero soggetti al costante bombardamento di proiettili invisibili. Gli impatti li facevano ruotare e perdere in traiettorie a zigzag. Brown non poteva osservare con il suo microscopio da 300 ingrandimenti le molecole d’acqua che si scontravano in modo casuale, milioni di volte, contro i minuscoli oggetti che erano immersi nel liquido e li muovevano, comunicando la loro agitazione Diagramma di Jean Perrin nel quale si mostra il termica. L’esistenza stessa movimento erratico di minuscoli granelli immersi in un degli atomi fu messa in dubliquido. bio da alcune autorità scientifiche fino all’inizio del XX secolo. Nel maggio del 1905 Einstein completò un articolo che contribuì a concludere la polemica: Sul movimento di piccole particelle sospese in un liquido stazionario secondo la teoria cinetica molecolare del calore, testo nel quale portò a termine un’analisi statistica di quali effetti percettibili causerebbe l’agitazione termica delle molecole invisibili. Nell’introduzione si mostrava cauto nel descrivere il rapporto fra il suo studio e le osservazioni di Robert Brown: In questo articolo si dimostrerà che, in accordo con la teoria cinetico-molecolare del calore, i corpi di una dimensione visibile al microscopio, sospesi in un fluido, devono realizzare, come risultato dei movimenti molecolari termici, movimenti di tali dimensioni da poter essere facilmente osservati al microscopio. È possibile che i movimenti che qui saranno dibattuti siano identici a ciò che si denomina moto molecolare browniano [...].
Il francese Jean Perrin verificò in laboratorio le predizioni di Einstein tre anni dopo. Nel suo libro Gli atomi riassumeva così lo stato della questione: «Credo che d’ora in avanti sarà difficile sostenere con argomentazioni razionali un atteggiamento ostile alle ipotesi molecolari».
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dere, ricordo che nel lavoro sul problema trattato il mio amico e collega M. Besso è stato fedelmente al mio fianco e a lui devo riconoscere molti e validi stimoli». Era come dire ai membri della comunità scientifica che se ne facessero una ragione e che proprio nulla doveva loro.
I precursori della relatività
La scienza ha trionfato lì dove hanno fallito la storia, la filosofia e il diritto e dove falliamo noi uomini giorno dopo giorno: nel porre d’accordo i più diversi osservatori su ciò che accade in realtà mediante relazioni matematiche e certe. Ovviamente un tale traguardo è stato conquistato a costo di un «piccolo» sacrificio: cestinare le nozioni intuitive di tempo e spazio. Il primo passo verso il principio della relatività è da attribuire a Galileo Galilei che, nella seconda giornata del suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, proponeva ai suoi lettori un curioso esperimento: Chiudetevi con un amico nello spazio più grande sottocoperta di una nave e chiudete con voi anche un pugno di zanzare, mosche o altri piccoli insetti. Portatevi un grosso vaso con dell’acqua e riempitelo di pesci; appendete una bottiglia che goccioli acqua in un’altra dal collo stretto posta sotto di essa. Con la barca in acque tranquille osservate quindi come gli insetti volano con velocità simile verso ogni lato della stanza, come i pesci nuotano indifferentemente in ogni direzione e come tutte le gocce cadano nella bottiglia situata sotto di loro. Lanciando qualunque oggetto al vostro amico, inoltre, non dovrete tirarlo con più forza in una direzione piuttosto che un’altra, sempre
che le distanze siano uguali, e saltando per la stanza arriverete tanto lontani in una direzione come in un’altra. Dopo aver osservato queste particolarità, credo che nessuno dubiterà che, fino a quando la barca resterà in acque tranquille, le cose non debbano verificarsi in modo diverso; fate in modo che la barca si muova a una velocità voluta, con un movimento però uniforme e senza oscillazioni in un senso e in un altro. Non sarete in grado di distinguere alcuna modifica negli effetti citati né potrete dedurre dall’uno o dall’altro se la barca si muova o meno.
Con il termine uniforme Galileo intendeva «a velocità costante». Tutte le esperienze qui suggerite sono di natura meccanica. Cerchiamo indizi del movimento della barca nella traiettoria delle mosche, nel gocciolare dell’acqua o nella deriva dei pesci. Eppure non li troviamo. Senza un’immagine dell’esterno, nella stiva priva di boccaporti di una nave, siamo incapaci di capire se siamo fermi o ci spostiamo a velocità costante. Non possiamo fidarci neppure degli occhi. Quando guardiamo dal finestrino di un vagone fermo in stazione e parte il treno situato accanto al nostro, abbiamo l’impressione di essere noi a esserci messi in moto. Un miraggio che termina quando scompare l’altro treno e, al suo posto, osserviamo il binario deserto. Come abbiamo imparato da bambini salendo sulle montagne russe, il miglior rilevatore di movimento è quello che abbiamo “installato” nella pancia e che risponde solo all’accelerazione. Scartata la testimonianza della vista, dovremo riporre la nostra fiducia nella matematica. o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 47
Avvicinandoci al pontile di Galileo possiamo ripetere l’esperimento nel modo seguente. Selezioniamo due punti di vista, denominati dai fisici in gergo tecnico sistemi di riferimento. Si tratta di un concetto astratto. Se lo troviamo più comodo, possiamo immaginarlo impersonato da un individuo sebbene i sensi umani siano poco affidabili. Si potrebbe inoltre utilizzare anche un apparecchio che registri una o più grandezze fisiche. Per praticità li distingueremo con le lettere G e D. Se un sistema di riferimento è fermo o si sposta a velocità costante in relazione a un altro, diremo che è un sistema inerziale. Installiamo uno dei due sistemi sul pontile, a riposo. Misureremo tutte le distanze dal punto dove si trova Galileo (G), che considereremo come l’origine delle coordinate. Alla sua destra e davanti a lui considereremo le distanze positive; alla sua sinistra e dietro, quelle negative. In relazione alla posizione di Galileo possiamo determinare per mezzo di due numeri (coordinate x e y) la posizione di qualun-
y
que elemento (potrebbe essere una mosca, una persona o una bottiglia) presente nello spazio (figura 1). Non è l’unico punto di vista ammissibile. Il nostro secondo sistema viaggerà a bordo dell’imbarcazione, nella stiva, e sarà Domenico, uno degli studenti di Galileo all’Università di Pisa che ha deciso di eseguire l’esperimento. Domenico si posiziona nell’angolo inferiore sinistro della stiva, come mostra il disegno, da dove faremo partire l’origine delle sue coordinate (D). Supponiamo che l’imbarcazione navighi a velocità costante u verso destra, mantenendo la linea di bordo praticamente attaccata al molo. Ci interessa che Galileo possa spiare Domenico, ma che lo studente non riceva alcuna informazione visiva di ciò che accade fuori dalla stiva. A tal fine possiamo immaginare che volti le spalle a una serie di oblò che offrono una vista dell’interno. Galileo, guardando Domenico, osserva che la posizione dello studente cambia man mano che l’imbarcazione avanza (figura 2).
y
y'
y'
u
D D G
x'
x
G x
x1 x2 x3
FIG. 1
48 ein ste in
FIG. 2
x'
x
Entrambi hanno a disposizione un orologio che hanno sincronizzato prima di separarsi in modo da poter registrare i tempi. Se si stanca di misurare le distanze, Galileo può calcolare con facilità la posizione del suo allievo in ogni istante. Gli basta moltiplicare la velocità della nave (u) per il tempo indicato dall’orologio (t). Chiamando x la distanza percorsa da Domenico, otterremo: x=u·t Chiuso nella stiva con le sue mosche, il giovane non si rende conto che si sta allontanando dal suo maestro. Per lui la sua posizione è sempre la stessa: x' = 0. Se osserva una mosca volare attorno a lui, darà le sue coordinate (x'm, y'm). Anche Galileo osserva l’insetto attraverso un oblò e ottiene per l’altezza alla quale vola un valore, ym, che coincide con quello di Domenico, y'm. Non riescono tuttavia a mettersi d’accordo sulla posizione orizzontale, xm e x'm. A ogni movimento in avanti e indietro della mosca per la stiva Galileo aggiunge sistematicamente lo spostamento u costante dell’imbarcazione. Arrivati a questo punto possiamo domandarci: c’è un modo di mettere in relazione le osservazioni di maestro e discepolo? La risposta, affermativa, si trova nelle equazioni seguenti che prendono il nome di trasformazioni galileiane: x = x' + u · t' y = y' t = t'
[1]
Grazie a esse Galileo può “tradurre” nel suo sistema qualunque traiettoria calcolata da Domenico, tanto di una mosca come di qualunque altro oggetto che stesse osservando. Lo studente ha a sua volta un proprio gruppo di trasformazioni per interpretare le impressioni di Galileo: x' = x − u · t y' = y t' = t
[2]
L’unica differenza sta nel fatto che Domenico deve sottrarre e non sommare la distanza orizzontale percorsa. Restando all’interno della stiva e ricevendo a voce le informazioni sulle distanze che lo separano da Galileo, arriverà alla conclusione che quest’ultimo si stia allontanando verso sinistra a velocità costante –u. Facendo un mezzo giro e gettando un’occhiata dall’oblò scoprirà, tuttavia, di essere lui a muoversi, mentre il suo maestro rimane fermo sul pontile. Una convinzione a sua volta falsa perché, ben lungi dal restare fermo, Galileo si trova sulla superficie di un pianeta che si muove a 30 km/s attorno al Sole, oltre a girare come una trottola a oltre 1.500 km/h. Allora sarà il Sole a stare fermo? Per nulla. È una stella che gira attorno al centro della Via Lattea. E la nostra galassia? Possiamo continuare a saltare da un sistema all’altro senza sosta, complicando sempre più le traiettorie. Se, ad esempio, per descrivere il percorso di un’auto fossimo costretti a considerare la velocità alla quale si sposta in compagnia della Terra, del Sole e della Via Lattea, riempiremmo pagine di calcoli inuo gni MOV I MENTO è REL ATI VO 49
tili. Possiamo concludere che risulta più pratico fissare un punto di vista e calcolare il nostro movimento relativo rispetto a tale punto. In realtà il dibattito eliocentrico o geocentrico non versa attorno al fatto che la Terra giri attorno al Sole o se sia il Sole a girare intorno alla Terra. I due punti di vista sono ugualmente validi, la questione è che nessuno prevale sull’altro, fatto salvo per la semplicità delle traiettorie. La Terra traccia delle ellissi intorno al Sole. Il Sole disegna riccioli di estrema complessità attorno al nostro pianeta. Le mosche, i satelliti e le navi modificano la loro posizione quando li os-
serviamo al passare del tempo. In base al nostro punto di osservazione, la “danza” che eseguono attorno a noi sarà diversa, ma tutte le prospettive sono valide e possiamo tradurre delle impressioni in altre senza che si contraddicano logicamente. Le esperienze che propone Galileo nella stiva della nave prevedono delle accelerazioni. Parlando di gocce che cadono da una bottiglia all’altra, di mosche che volano o persone che saltano, passiamo per i domini di Newton che inventò il calcolo per esprimere in modo appropriato le leggi della dinamica. Le sue equazioni registrano accelerazioni, pertanto variazioni di
UNA LEGGE CIECA Muovendoci in una sola dimensione, possiamo scrivere la seconda legge di Newton:
F=
d (m ⋅ v ) . dt
Se m è costante : F = m ⋅
dv d2x = m⋅ = m ⋅ a. dt dt 2
Questa ricetta per descrivere la realtà adotta la stessa forma nei due sistemi di riferimento.
Per G: F = m ⋅
d2x . dt 2
Se rapportiamo al sistema della stiva, mediante l’espressione di Galileo, qualunque forza misurata sul pontile, come quelle che intervengono in un salto o nei cambi costanti di velocità di un pesce o di una mosca:
F = m⋅
d2x d 2 ( x '+ u ⋅ t ') d2x ' d 2 (u ⋅ t ') = m⋅ = m⋅ + m⋅ = 2 2 2 dt dt ' dt ' dt '2 = m⋅
d2x ' d 2 (t ') d2x ' + m⋅u ⋅ = m⋅ = F '. 2 2 dt ' dt ' dt '2
Successivamente G e D applicheranno esattamente la stessa espressione per descrivere la forza, ognuna riferita alle proprie coordinate. La trasformazione di Galileo lascia intatte le equazioni della dinamica.
50 ein ste in
2 d 1
G
D
Sebbene gli osservatori G e D misurino distanze diverse ai punti 1 e 2, la distanza d fra i punti 1 e 2 è la stessa per entrambi.
velocità, quindi sono “cieche” alla velocità costante dell’imbarcazione. Si muove Galileo o si muove Domenico? Le equazioni di Newton non si pronunciano a favore del punto di vista di nessuno dei due sistemi. Questo è il principio della relatività di Galileo. Gli esperimenti meccanici non servono per determinare se ci spostiamo con una velocità costante o restiamo fermi. Con la dinamica classica alla mano possiamo parlare di movimenti relativi, ma non assoluti. Il secondo gioiello della corona newtoniana, la legge di gravitazione universale, dipende dalla distanza fra i corpi, un’altra grandezza relativa che non è influenzata da una variazione delle coordinate fra sistemi inerziali. In generale, Domenico e Galileo si trovano a distanze diverse dagli oggetti attorno a loro, pur misurando le stesse lunghezze che li separano.
La relatività si elettrifica
La scienza del XIX secolo si ubriacò con la rivoluzione portata dall’elettricità, ma si svegliò con i postumi derivanti dai suoi problemi teorici.
Nel capitolo precedente ne abbiamo esaminati alcuni, ma ci siamo limitati a raccontare solo una piccola parte della storia. Le interazioni elettromagnetiche, che dipendono dalla velocità, non solo complicavano lo scenario delle forze centrali e istantanee o compromettevano il principio di azione e reazione. Minacciavano anche il regno delle relatività fondato due secoli prima da Galileo. Per iniziare, le leggi di Maxwell non erano come quelle di Newton: cambiavano con una trasformazione galileiana. In qualunque sistema inerziale si può esprimere la forza come un prodotto di massa per accelerazione, senza aggiungere necessariamente nuovi termini dovuti a una variazione di coordinate. Le equazioni di Maxwell, tuttavia, erano oggetto di una metamorfosi paragonabile a quella del dottor Jekyll e di Mr Hyde. In un sistema a riposo, come il pontile, mostravano un aspetto conciso ed elegante, ma, eseguendo la traduzione data dalla formula [2] per passare a un sistema in movimento, come la barca di Domenico, si evidenziavano diversi tipi di termini nuoo gni MOV I MENTO è REL ATI VO 51
vi che complicavano le equazioni. Questi termini, inoltre, descrivevano fenomeni fisici mai osservati prima. Le linee di campo intorno a un magnete, ad esempio, che a riposo tracciano delle corde chiuse, risultavano tagliate in movimento. In questo caso le equazioni di Maxwell non sarebbero state “cieche” alla velocità costante e avrebbero offerto un metodo per identificare uno spostamento uniforme. È curioso che Maxwell abbia dedotto le sue eleganti equazioni da fenomeni registrati sulla superficie terrestre che tutti erano d’accordo nel considerare un sistema di riferimento in movimento. La Terra godeva forse di privilegi rispetto agli altri sistemi? La questione apriva un abisso geocentrico davanti ai fisici. Aveva quindi ragione la Bibbia quando sosteneva che gli astri giravano attorno al nostro pianeta? Il sistema terrestre era l’unico assolutamente fermo, l’unico nel quale le equazioni di Maxwell manifestavano tutta la loro forza e semplicità? Senza dover necessariamente uscire dallo spazio, ripetendo l’esperienza di Domenico e chiudendosi nella stiva di una nave, sostituendo le bottiglie, le mosche e i pesci con magneti, bobine con correnti e onde elettromagnetiche, si costatava che le linee di campo non si spezzavano e che, in generale, gli strani fenomeni previsti dai nuovi termini non si presentavano. Sebbene le equazioni di Maxwell si mostrassero ugualmente eleganti e semplici nei due sistemi di riferimento, gli esperimenti elettromagnetici non servivano neppure per stabilire se un osservatore si spostava a velocità costante o era fermo, ancorato al pontile. Per risolvere queste contraddizioni l’unica alternativa era correggere le tra52 ein ste in
sformazioni galileiane, sebbene dettate dal buon senso. Nel 1904 lo scienziato olandese Hendrik Lorentz (1853-1928) propose un nuovo gruppo di equazioni per tradurre le coordinate fra sistemi separati da una velocità costante. La comunità scientifica celebrò l’evento battezzandole con il suo cognome: nascevano così le trasformazioni di Lorentz. Offrivano da subito un’irresistibile attrattiva: se si applicavano alle equazioni di Maxwell, queste ultime conservavano la loro mirabile struttura. Inoltre, per velocità molto più basse di quella della luce, si riducevano a quelle di Galileo. Dato che le velocità alle quali ci spostiamo sono solitamente piuttosto limitate se confrontate con quella della luce, non doveva stupire che il nostro buon senso non colpisse subito nel segno con le espressioni di Lorentz e si adattasse per diversi secoli all’approssimazione di Galileo. La correzione che introducevano era tanto piccola che fu individuata prima da speculazioni teoriche che in laboratorio. I fisici non avevano ancora smesso di rallegrarsi per i vantaggi formali dell’invenzione di Lorentz che i suoi effetti secondari cancellarono di colpo il loro sorriso. Le trasformazioni assegnavano, a un tempo dato del sistema a riposo, un’infinità di tempi diversi nel sistema in movimento. Di fatto un numero infinito, uno per ogni punto nello spazio. In questo modo due eventi che sono percepiti come simultanei in punti separati del pontile non lo erano più per un osservatore che si trovasse nella stiva della nave. Giocando un po’ con le equazioni ci si immerge in un mondo dove i corpi,
LE TRASFORMAZIONI DI LORENTZ Si possono esprimere nel modo seguente:
x' =
1 1−
2
u c2
· (x − u · t)
1−
y'=y t' =
1
x=
u2 c2
· ( x ' + u · t ')
y = y' 1 u2 1− 2 c
· (t −
u · x) c2
t=
1 u2 1− 2 c
· (t ' +
u · x ') c2
È sufficiente esaminare l’espressione che pone in relazione t ' con t e x per vedere le nuvole addensarsi all’orizzonte. A un tempo dato del sistema a riposo, t, corrispondono diversi valori di t ', di fatto infiniti, in base al punto nello spazio dove ci posizioniamo (pertanto per i diversi valori di x). Due eventi percepiti allo stesso tempo in punti separati del pontile smettono di essere simultanei dalla stiva della nave. Si verifica inoltre che, per velocità molto più basse di quella della luce (per cui i termini u 2/c 2 e u/c 2 sono praticamente nulli) le equazioni si riducono alle trasformazioni di Galileo. Per farci un’idea della dimensione della correzione che introducono, possiamo provare a calcolare il valore di u 2/c 2 nel caso di una persona che cammina (a circa 5 km/h) e di un proiettile (immaginiamo 1000 m/s): rispettivamente 2,1 · 10−17 e 1,1 · 10−11. Le trasformazioni presentano un aspetto gradevole all’occhio del fisico e una certa simmetria fra le variabili. Se x' dipende da x e t, anche t ' dipende da esse. Nel caso di Galileo il tempo t ' non dipendeva dallo spazio x'. Questa struttura suscitò un déjà vu nei matematici: ricordava loro le equazioni di una rotazione nello spazio. L’analogia condusse alla costruzione dello spazio-tempo, dove le trasformazioni di Lorentz sono rotazioni in uno spazio quadridimensionale.
ARCHIVO RBA
o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 53
quando si muovono, apparentemente rimpiccioliscono e il tempo in loro sembra scorrere più lentamente. I fisici richiedevano incrollabili motivazioni per accettare simili sregolatezze e vi si opposero con le unghie e con i denti. Prima di arrendersi investirono tutte le loro energie per riuscire a inserire l’elettromagnetismo in un quadro più familiare.
I venti dell’etere
Prima del lavoro di Maxwell ed Hertz, gli unici fenomeni conosciuti che si propagavano sotto forma di onda lo facevano con il supporto di un mezzo, ad esempio il suono attraverso l’aria o l’acqua. Il buon senso, sempre pericoloso, invitava ad assurgere questa circostanza a principio universale. Le equazioni di Maxwell interpretavano la luce come un’onda, pertanto si impo-
L'ESPERIMENTO DI MICHELSON E MORLEY Nel 1887 Albert Michelson ed Edward Morley cercarono di misurare l’azione dell’etere sulla Terra in movimento, un effetto simile a quello del vento che un motociclista avverte quando attraversa una massa d’aria in condizione di quiete. Possiamo scomporre l’esperimento in quattro fasi: 1. Si divide in due un fascio luminoso in modo che si separi in direzioni perpendicolari. A tal fine si utilizza una lastra di vetro coperta di una pellicola d’argento dello spessore necessario per deviare la metà della luce e lasciare passare l’altra metà. A partire da questo punto i due fasci percorreranno due distanze della stessa lunghezza. 2. Alla fine di ogni percorso si posiziona uno specchio per far rimbalzare i fasci di luce. 3. La direzione di uno dei fasci coinciderà con lo spostamento della Terra. Se esistesse l’etere solcato dal nostro pianeta nel suo viaggio orbitale, la sua presenza romperebbe la simmetria nel percorso dei due fasci. 4. Quando due onde, A e B, coincidono, si verifica un fenomeno chiamato interferenza. Se si sincronizzano perfettamente, i ventri (punti più bassi) e le creste (punti più alti) di una e dell’altra si rafforzano vicendevolmente dando come risultato l’onda C (figura 1). Se si uniscono in modo che ogni ventre coincida con una cresta e viceversa, entrambe si annullano (figura 2). Più comune è un risultato intermedio, in modo che non coincidano né si annullino esattamente (figura 3). Studiando il modello di interferenza delle onde luminose che si riuniscono dopo un viaggio di andata e ritorno dagli specchi, dovremmo attenderci un terzo risultato. Uno dei fasci, quello che viaggia nella direzione di spostamento della Terra, dovrebbe essere soggetto a un effetto di trascinamento dell’etere e
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neva l’esistenza di un mezzo attraverso il quale potesse propagarsi: l’etere. Dato che non erano come i filosofi greci, invece di tracorrere il tempo speculando sulle proprietà dell’etere, gli scienziati si chiusero in laboratorio per individuarle. Pensarono a esperimenti estremamente sensibili e dettagliati per identificare qualche segno del vagare di questa Terra immersa nell’etere. Il risultato fu sempre negativo.
L’etere si comportava come l’assassino di un noir: commetteva il delitto di trasportare la luce, ma non lasciava traccia. Si poteva accettare che esso fosse sottile, ma cominciava a essere fin troppo etereo anche per essere etere. Alcuni, al culmine della disperazione, arrivarono a denunciare una cospirazione della natura che si divertiva a giocare a nascondino con gli scienziati.
arrivare più tardi al punto di incontro, perdendo la sincronia con l’altro fascio. Si scoprì, tuttavia, un accordo perfetto fra entrambi. La luce sembrava ignorare completamente il movimento della Terra. In modo curioso, Einstein, che non conosceva l’articolo di Michelson e Morley, propose a Weber un esperimento molto simile come tesi conclusiva dei suoi studi. Il suo tutor non accettò.
C
FIG. 1
A B
A
FIG. 2
C B Sfasamento C FIG. 3
A
B
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In questa atmosfera di sospetto si tentò ogni tipo si spiegazione. Alcune si avvicinarono all’obiettivo o riuscirono a strappare qualche frammento di verità. Molte delle risposte erano implicitamente già contenute nelle equazioni di Maxwell, se si sapeva leggerle sotto la luce giusta. In realtà, quando Einstein si presentò sulla scena, Lorentz ed Henri Poincaré avevano già raccolto tutte le tessere del puzzle. Lorentz aveva introdotto la trasformazione che consentiva di saltare da un sistema di riferimento a un altro senza smantellare le equazioni di Maxwell e dedotto alcune delle loro implicazioni fisiche più rilevanti, come la contrazione spaziale. Poincaré aveva seguito molto da vicino il lavoro dell’olandese, con il quale manteneva una corrispondenza di natura scientifica. Fra il 1898 e il 1905 aveva stabilito autonomamente il principio della relatività, postulando la costante della velocità della luce e mettendo in dubbio il concetto di simultaneità. Entrambi però erano accecati dalla “nebbia” dell’etere, dal peso di una certa tradizione, come se, dopo aver battuto tutte le piste sulla scena del crimine, non volessero riconoscere che l’assassino poteva essere un nobile. Einstein interpretò il ruolo del detective privato, scevro da pregiudizi o doveri istituzionali che gli impedissero di smascherare il vero colpevole. Poincaré seppe riconoscere questo vantaggio: «Ciò che più ammiro in lui è la facilità con la quale si adatta a nuovi concetti. Non resta attaccato ai principi classici». Da parte sua Einstein ammise che «senza dubbio, se consideriamo in modo retrospettivo lo sviluppo della teoria della relatività speciale, nel 1905 era già matura per essere scoperta». 56 ein ste in
Con il suo profondo senso estetico non poteva accettare che l’elegante impianto delle equazioni di Maxwell si disfacesse con un semplice cambiamento del sistema di riferimento. La sua convinzione che, nell’elettromagnetismo, importassero unicamente i movimenti relativi derivava dal fenomeno dell’induzione scoperto da Faraday. L’articolo nel quale fonda la relatività, Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, inizia con le seguenti parole: È noto che, quando si applica a un corpo in movimento, l’elettrodinamica di Maxwell, così come si intende solitamente oggi, conduce ad asimmetrie che non sembrano inerenti ai fenomeni. Prendiamo, per esempio, l’interazione elettrodinamica fra un magnete e un conduttore. Qui i fenomeni osservabili dipendono solo dal movimento relativo fra il conduttore e il magnete, mentre la visione abituale traccia una distinzione netta fra i due casi, dove è in movimento o un corpo o l’altro.
Sebbene la sua convinzione derivasse da una profonda e quasi istintiva conoscenza dei fenomeni elettromagnetici che aveva alimentato sin da bambino nella fabbrica di famiglia, Einstein si rese conto che le implicazioni della trasformazione di Lorentz trascendevano la sua relazione con l’elettrodinamica. Non era ossessionato dallo «smascherare» la «cospirazione della natura» che frustrava la caccia all’etere. Si mostrava più ambizioso: cercava un quadro concettuale generale che, come le leggi della termodinamica, si applicasse a tutta la fisica. Ispirato forse dalla struttura degli Elementi di Euclide, voleva fissare una serie di postulati per confrontarsi succes-
sivamente con le loro logiche conseguenze, che avrebbe risolto una a una, passo dopo passo, attraverso un processo deduttivo e inevitabile. Così nelle audaci osservazioni contenute nelle trentuno pagine scritte fitte di Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento si cimenta con due soli punti: – Le leggi fisiche adottano la medesima forma in tutti i sistemi di riferimento considerati con movimento uniforme. – La velocità della luce nel vuoto è la stessa per qualunque sistema di riferimento inerziale. Questo modo di operare, che comprimeva il nucleo della teoria in due assunti e spiegava un intero universo fisico attorno a essi, stupì particolarmente molti dei suoi lettori. «Il modo di ragionare di Einstein per me fu come una rivelazione – riconosceva uno dei padri della meccanica quantistica, Max Born. – Ebbe più influenza sul mio pensiero di qualunque altra esperienza scientifica». I postulati di Einstein erano ben lungi dall’essere, come quelli di Euclide, supposizioni che, essendo ovvie, erano accettate senza battere ciglio, come la nostra nozione di ciò che è un punto o una retta. La sua autorità si basava su evidenze sperimentali: «Una teoria presenta un vantaggio importante se i suoi concetti di base e le sue ipotesi fondamentali sono vicini all’esperienza». Il secondo postulato contraddice l’adagio popolare che riassume la teoria affermando che «tutto è relativo». Come fece notare Max Planck: «La teoria della relatività attribuisce senso assoluto a una grandezza che, nella teoria classica, ha solo un carattere relativo: la velocità della luce».
La correttezza del suo valore si evince direttamente dalle equazioni di Maxwell. Lo stesso Einstein faceva notare che il primo postulato «si soddisfa anche nella meccanica di Galileo e Newton». Era la costante della velocità della luce che, combinata con il principio della relatività, cambiava tutto. Per concludere, inoltre, le trasformazioni di Lorentz si potevano dedurre direttamente da questo secondo postulato senza un riferimento diretto alle equazioni di Maxwell e così fece Einstein nel suo articolo del 1905. Per verificare la distorsione che introduce la costante della velocità della luce dobbiamo tornare al pontile di Galileo. Porteremo a termine una serie di esperimenti che realizzeremo prima nel rispetto delle leggi di Newton (sarà la versione meccanica) e, in seguito, di quelle di Maxwell (la versione elettromagnetica). I risultati ci condurranno in un viaggio concettuale che ci restituirà un’immagine della realtà molto più esatta di quella fornita dal buon senso. E, proprio per questo, molto più interessante e straordinaria.
La fine della simultaneità
Abbiamo già visto come le trasformazioni di Lorentz impongono delle nuove regole del gioco che impediscono agli osservatori di trovare una descrizione comune di ciò che accade se si muovono. Analizziamo ora come la costante della velocità della luce influisce sulla simultaneità di due eventi. Esperimento di meccanica Iniziamo con due sistemi, G (con coordinate x e y) e D (x' e y' ). Abitano un universo dove il tempo fluisce uguale in tutti i o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 57
y'
v
v
v
x' A'
C'
A'
B'
C' FIG. 3
A'
t'1
clic!
C'
t'0
clic!
B'
FIG. 4
L' 2
L' 2
v
B'
t'2
clic!
FIG. 5
suoi punti, pertanto gli osservatori di tutti e due i sistemi possono confrontare i loro orologi e verificare che camminino allo stesso ritmo. Versione dall’interno della stiva Due persone che chiameremo A' e B ', si posizionano negli angoli della stiva guardando nel senso positivo dell’asse y'. Al centro si trova un meccanismo che spara due palloni contemporaneamente, uno verso destra e uno verso sinistra, entrambi alla stessa velocità v. Non consideriamo l’azione della gravità che curva la loro traiettoria verso il basso, né lo sfregamento dell’aria. Una terza persona, C ' si posiziona fra A' e B', davanti al meccanismo. A', B' e C' hanno sincronizzato i loro orologi e ognuno riceve il compito di registrare un evento diverso. Il primo, il colpo della palla contro la parete sinistra, il secondo il colpo della 58 ein ste in
palla contro la parete destra e C', il momento in cui il meccanismo spara (figura 3). Quando il meccanismo lancia i palloni, C' segna il tempo, t'0, sul suo orologio (figura 4). Quando A' e B' osservano il colpo di ogni palla contro la parete corrispondente, segnano t'1 e t'2 (figura 5). I due palloni percorrono la stessa distanza (L'/ 2) alla stessa velocità. Se i tre osservatori mettono in comune quanto registrato sui loro orologi e confrontano i valori t'2 − t'0 e t'1 − t'0 , ottengono lo stesso risultato e concludono che i palloni hanno toccato le pareti nello stesso momento. Si tratta di due eventi simultanei. Versione dal pontile Per riprodurre il procedimento seguito nella stiva, introduciamo un elemento parzialmente artificiale che acquisterà reale significato affrontando la versione relativista dell’esperimento. Disporremo lungo il
y
y' u
v
v
x'
x
FIG. 6
y'
y'
u
x' C
t0
clic!
x' A
t1
clic!
B
t2
x
clic!
FIG. 7
Parete
Parete v–u u
v+u u
u
FIG. 8
pontile una fila di osservatori, ognuno dotato di un orologio, che renderanno conto unicamente di ciò che accadrà davanti a loro (figura 6). L’imbarcazione scivola lungo il pontile a velocità u. Chiameremo C l’osservatore situato davanti al meccanismo esattamente nel momento in cui quest’ultimo lancia i due palloni. Registrerà il tempo t0 sul suo orologio. A e B sono gli osservatori che
registrano i colpi contro le pareti. Segneranno i tempi t1 e t2 (figura 7). Il movimento della barca rompe la simmetria fra il percorso della palla che viaggia verso sinistra e quella che corre verso destra, d. Prima del lancio, gli osservatori vedono che il dispositivo si muove a velocità u verso destra. L’apparecchio comunica questa velocità a s e d dato che, prima del lancio, entrambi si muovono al o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 59
verificherebbero che t2 − t0 e t1 − t0 hanno lo stesso valore. Gli eventi continuano a essere simultanei.
suo interno. In un momento dato, il meccanismo spara i due palloni in direzioni opposte a velocità v. Sul pontile si osserva che s si dirige verso sinistra a una velocità di v – u e che d si muove verso destra a una velocità di v – u. Dal loro punto di vista s è più lenta e d più veloce. Eppure per A' e B' avevano la stessa velocità. Questa differenza di velocità farà sì che colpiscano le pareti in momenti diversi? No, perché s percepisce la parete sinistra che gli viene incontro a una velocità v, mentre d verifica che la sua parete si allontana alla stessa velocità (figura 8). Entrambi gli effetti si compensano: la palla più lenta percorre meno distanza e la più veloce deve coprire un percorso più lungo. Raggiungono quindi entrambe le pareti allo stesso tempo. Se A, B e C si riunissero e confrontassero gli orologi,
Esperimento elettromagnetico Sostituiamo il meccanismo di lancio e i palloni con una lanterna a doppia lampada. Accendendosi proietta due fasci luminosi (radiazione elettromagnetica): uno si dirige verso destra e l’altro verso sinistra. Versione dall’interno della stiva L’esperimento è essenzialmente molto simile al precedente, così come lo è il risultato. Avremo di nuovo t'2 − t'0 = t'1 − t'0. Gli eventi sono simultanei. Versione dal pontile Se ricordiamo l’asimmetria introdotta dallo spostamento della nave, la costante
y u
y'
u
y'
x' C
clic!
A
y'
x'
x'
clic!
B FIG. 9
Parete
Parete c
u
c u
FIG. 10
60 ein ste in
u
clic!
x
della velocità della luce impedirà in questo caso che si compensi. Il movimento della doppia lanterna non si comunica alla luce, né per aumentarla né per farla diminuire. Gli osservatori del molo arrivano alla conclusione che i fasci s e d hanno la stessa velocità (figura 9). Osservano però come la parete di sinistra vada incontro al fascio s e come la parete destra si allontani da d. Pertanto s raggiunge la propria destinazione prima di d. In G gli eventi non sono più simultanei! (figura 10).
smo di lancio fino a quando non colpisce la parete a destra. Versione dall’interno della stiva A' e B' pensano di essere fermi. A' registra il momento del lancio sul proprio cronometro (t'1) (figura 11). Quando la palla colpisce la parete, B' segna l’istante sul proprio orologio (t'2) (figura 12). Con il valore di v e i tempi registrati, in D è possibile dedurre la distanza percorsa moltiplicando la velocità per il tempo trascorso. In questo caso:
La contrazione dello spazio
L' = v · (t'2 − t'1).
Continuiamo a esplorare le conseguenze della costante della velocità della luce all’interno del quadro indicato dal principio della relatività. Presenteremo una situazione nella quale gli osservatori, G e D, assisteranno allo stesso insieme di fenomeni da prospettive diverse e chiederemo loro di estrarre da tali fenomeni il valore di una distanza. Come per l’esperimento precedente, racconteremo l’evento da ogni punto di vista e, in conclusione, confronteremo i risultati. Esperimento di meccanica Due persone, A' e B' si posizionano negli angoli della stiva guardando nel senso positivo dell’asse y'. Sulla parete sinistra installiamo un lanciatore automatico che, se in funzione, lancerà un pallone a una velocità definita v. Il fenomeno fisico che studieremo (in questo caso meccanico) consiste nel lancio e nella parata del pallone e ci serviremo di tale fenomeno per misurare la lunghezza della stiva. Detta distanza sarà uguale allo spazio percorso dal pallone da quando esce dal meccani-
L' v
t'1
B'
clic! FIG. 11
L'
B'
' FIG. 12
t'2
clic!
Versione dal pontile Disponiamo nuovamente una fila di osservatori lungo il pontile, ognuno armato di cronometro. o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 61
y u
v
A
x1 t1
x
...
clic!
FIG. 13
y u(t2 – t1)
L
u
v+u
x A
x1
B FIG. 14
62 ein ste in
L + u · (t2 − t1)
}
Chiameremo A colui che si trova davanti al meccanismo al momento del lancio. A registra sul suo cronometro il momento nel quale vede uscire la palla (t1) (figura 13). Fra tutti gli osservatori della traversata della barca, B è quello che osserva come la palla rimbalza contro la parete. In quel momento segna il tempo t2 (figura 14). Gli osservatori considerano che la palla avesse già acquisito una velocità all’interno dell’apparecchio, prima del lancio, ovvero quella dell’imbarcazione: u. A seguito del lancio, neppure la parete destra resta ferma: si allontana dalla palla a velocità u, obbligandola a percorrere una distanza maggiore. Pertanto, sebbene gli osservatori di G misurino gli stessi tempi rispetto a quelli di D, per loro lo spazio percorso e la velocità della palla sono diversi:
x2 t2
clic!
distanza alla quale si allontana la parete destra durante il lancio della palla
Ignorando per un istante la presenza della barca e concentrandoci solo sul pallone, costateremo che con una velocità v + u in un intervallo di tempo t2 − t1 percorrerà: (v + u) · (t2 − t1). Le due quantità devono essere uguali: L + u · (t2 − t1) = (v + u) · (t2 − t1). Otteniamo quindi la stessa relazione di prima per la lunghezza della stiva:
L = v · (t2 − t1). Possiamo concludere che, vista dal pontile, la palla deve percorrere una distanza maggiore dato che la parete si allontana da lei, ma, al contempo, va più veloce perché incorpora la velocità dell’imbarcazione. Entrambi gli effetti si compensano. I due sistemi misurano la stessa lunghezza della stiva. Esperimento elettromagnetico Sostituiamo il lanciatore con una lanterna e la palla con un fascio luminoso (di nuovo, una radiazione elettromagnetica). L’unico elemento comune ai sistemi G e D sarà il valore della velocità della luce. Tutti i cronometri che partecipano all’e-
sperimento sono usciti dalla stessa catena di montaggio, ma potremo ritenere che due meccanismi segnino la stessa ora unicamente nel caso in cui abbiano lo stesso sistema di riferimento. Per tradurre le coordinate da un sistema a un altro, tanto spaziali quanto temporali, dovremo ricorrere alle trasformazioni di Lorentz. Versione dall’interno della stiva Come nella versione meccanica dell’esperimento, A' registra il momento in cui l’onda esce dalla lanterna e B', quando raggiunge la parete opposta (figura 15). Pertanto: L' = c · (t2 − t1).
L'
L'
c
A' x'1 t'1 clic!
B' clic!
x'2
t'2
FIG. 15
y u
c
A
x1 t1
clic!
... FIG. 16
o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 63
y u (t2 – t1)
L
u
c
A
... x1
B FIG. 17
Versione dal pontile Dal pontile gli osservatori vedono che la parete destra si allontana, ma che l’onda luminosa corre alla stessa velocità c (figura 16). Notano che, prima di raggiungere la parete, la luce ha dovuto percorrere la lunghezza della stiva più la distanza percorsa dall’imbarcazione fra t2 − t1 (figura 17): L' + u · (t2 − t1). D’altra parte, se ci dimentichiamo dell’imbarcazione, in un intervallo di tempo (t2 − t1) la luce ha percorso uno spazio: c · (t2 − t1) = x2 − x1. Affiancando entrambe le espressioni come prima: L' + u · (t2 − t1) = c · (t2 − t1) = x2 − x1 , e applicando le trasformazioni di Lorentz si ottiene un risultato sorprendente: L = β · L' per cui β =
64 ein ste in
1−
u2 . c2
x2 t2
clic!
Dato che la velocità della barca è inferiore a quella della luce (u < c), il fattore b è minore di 1 e la grandezza di L è inferiore a quella di L'. In G, pertanto, si arriva alla conclusione che il valore della lunghezza della stiva è inferiore a quello che hanno dedotto in D. Questa è la cosiddetta contrazione di Lorentz. Possiamo prevedere un’altra situazione dove gli osservatori assistano allo stesso gruppo di fenomeni da sistemi inerziali diversi per chiedere loro di estrarre da essi il valore di un intervallo di tempo. In Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, Einstein si servì di un ragionamento più diretto. Partendo da due sistemi G e D, dove D si spostava rispetto a G a una velocità u uniforme, posizionò un orologio esattamente in corrispondenza delle coordinate di D e si domandò: «Qual è il ritmo di questo orologio quando si considera dal sistema a riposo?». La risposta che ottenne, dopo aver applicato la trasformazione di Lorentz, fu: t' = t – (1 – b) · t .
LA MATEMATICA DELLA CONTRAZIONE DI LORENTZ Di seguito si mostra come si applicano le trasformazioni di Lorentz per ottenere la contrazione della lunghezza. Per il percorso della luce si erano ottenute due espressioni: L + u · (t2 − t1) c · (t2 − t1) = x2 − x1. Ponendo l’una a fianco all’altra L + u· (t2 − t1) = c · (t2 − t1) = x2 − x1
L = x2 − x1 − u · (t2 − t1).
I calcoli si semplificano con un leggero cambio di annotazione: ∆x = x2 − x1
∆t = t2 − t1
β = 1−
u2 . c2
L’equivalenza che abbiamo trovato per L si riduce a: L = ∆x − u · ∆t. Dato che consideriamo ora che il ticchettio dei cronometri si possa indicare con ritmi diversi, in funzione del sistema, per tradurre le coordinate di G e D dovremo ricorre alle trasformazioni di Lorentz: x' + u ⋅ t' . β
x=
t '+ u ⋅
t=
β
x' c2 .
Se introduciamo questi valori nell’espressione per L:
L=
∆x '+ u ⋅ ∆t ' −u⋅ β =
∆x ' 2 c 2 = 1 ⋅ ∆x '+ u ⋅ ∆t '− u ⋅ ∆t '− ∆x '⋅ u = 2 c β β
∆t '+ u ⋅
∆x ' u 2 ∆x ' 2 ⋅ 1 − = ⋅ β = ∆x '⋅ β. β c2 β
Se consideriamo che ∆x' = x2' − x1' = L', L = b · L'.
o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 65
Vista l’equazione, concludeva: «[…] se ne deduce che la lettura dell’orologio, considerato dal sistema a riposo, ritarda ogni secondo di 1- β secondi». Da qui la percezione, per chi resta fermo, che il tempo trascorra più lentamente nel sistema in movimento.
Newton a confronto con la relatività
Grazie alle trasformazioni di Lorentz, le equazioni di Maxwell mantengono la loro forma in qualunque sistema inerziale, ma cosa succede con le vecchie equazioni della dinamica newtoniana?
QUALCHE DETTAGLIO IN PIÙ La situazione prevista da Einstein per dedurre il ritardo degli orologi in movimento era la seguente:
y
y'
G
u D
x' x
x=u·t
Fece ricorso all’equazione di Lorentz che mette in relazione i tempi:
t' =
1 u ⋅ t − x ⋅ 2 . β c
Per G la posizione dell’orologio (x) – vale a dire l’origine delle coordinate di D – si sposta verso destra a velocità costante, pertanto x = u · t. Sostituendola in t ':
t' =
1 u t u2 t ⋅ t − u ⋅ t ⋅ 2 = ⋅ 1 − 2 = ⋅ β2 = t ⋅ β β c β c β
Che si può esprimere anche come segue: t '= t · b + t − t = t − (1 − b) · t.
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Se le sottoponiamo al nuovo cambio di coordinate, sono soggette alla stessa metamorfosi che interessava quelle di Maxwell davanti alla trasformazione galileiana: compaiono termini senza senso dal punto di vista fisico. Abbiamo spogliato un santo per rivestirne un altro? La risposta è che dobbiamo correggere leggermente le equazioni di Newton per aggiornarle. Una volta che ci decidiamo ad accettare i postulati relativisti, dobbiamo applicarli a tutte le leggi della fisica e la dinamica non fa eccezione. Adesso la massa diventa un’altra grandezza, come la lunghezza, che dipende dalla velocità relativa del sistema dal quale si misura: aumenta con l’accelerazione. Se si introduce questo valore variabile nell’espressione della forza, si gettano le basi per la dinamica relativistica, le cui equazioni non cambiano forma con una trasformazione di Lorentz. A basse velocità si recuperano le equazioni che formulò Newton, così come era da aspettarsi.
Tutto è relativo?
Arrivati a questo punto dobbiamo domandarci se la contrazione di Lorentz e la dwilatazione temporale siano reali. Sicuramente, prima di rispondere, Einstein ci chiederebbe con un mezzo sorriso cosa intendiamo con il termine reale. Possiamo affermare che, di uno stesso fenomeno osservato da diversi punti di vista, gli astanti trarranno conclusioni differenti in merito alla distanza, la simultaneità e gli intervalli di tempo. Si tratta quindi di nozioni non assolute. Non sono però neppure arbitrarie, dato che possiamo porre in relazione con precisione alcuni punti di vista con altri e prevedere le conclusioni alle quali giun-
geranno gli osservatori di altri sistemi a partire dalle nostre. La contrazione e la dilatazione sono reali nel senso che, se, ad esempio, la luce viaggiasse a 100 km/h, vedremmo gli occupanti di un veicolo che corresse a 90 km/h schiacciarsi come se fossero dipinti sulla superficie di una fisarmonica che si chiude. Non lo sono però se ci attendiamo che gli atomi che compongono l’auto e i suoi occupanti si comprimano in senso fisico letterale. I passeggeri non sperimentano alcuno schiacciamento a bordo del veicolo. Per loro gli effetti relativisti si invertono: sono le facciate della strada che si comprimono e i passanti che camminano al rallentatore. Le nostre nozioni di spazio e tempo sono vincolate al nostro stato di movimento e non possiamo estrapolarle allegramente per il resto dell’universo. Quando il veicolo si ferma, la magia scompare. Viaggiatori e passanti percepiscono le stesse lunghezze e i loro orologi vanno allo stesso ritmo. Quest’ultima affermazione non è del tutto esatta, perché per raggiungere una velocità e per fermarci abbiamo bisogno di un’accelerazione, una “invitata” che nessuno si aspetta nella relatività speciale. E quando l’accelerazione si presenta, bisogna ampliare il campo di gioco fino al quadro della relatività generale, dove ci attendono nuovi effetti inattesi, fra i quali il fatto che la dilatazione temporale lascia traccia anche dopo che ci siamo fermati. Se viaggiassimo nello spazio a bordo di una navicella che raggiungesse velocità molto vicine a quella della luce, al nostro ritorno saremmo più giovani del nostro fratello gemello che è rimasto ad agitare il fazzoletto in segno di saluto alla base di lancio. o gni MOV I MENTO è REL ATI VO 67
L’accelerazione rompe la simmetria fra sistemi di riferimento inerziali. Le trasformazioni di Lorentz e la rottura della simultaneità risultano bizzarre al nostro intuito. Man mano che la scienza ispeziona regioni in una scala molto lontana dalla nostra, con distanze tanto piccole che non riusciamo a concepirle (come nella meccanica quantistica o delle teorie delle stringhe) o tanto grandi da includere l’intero universo (come la relatività generale), dobbiamo rinunciare a farci guidare dal buon senso, formato nella nostra sfera quotidiana, per una varietà di fenomeni ridotta. Possiamo adottare un approccio pragmatico, verificare se le teorie presentano contraddizioni logiche e corrispondono all’esperienza. Se le conclusioni risultano semplicemente sorprendenti, la colpa non è della fisica, ma del nostro limitato ventaglio di esperienze. Nel mondo di Newton e Galileo ogni evento si ripercuote in tutto lo spazio in modo istantaneo, pertanto la simultaneità acquista significato. Nel mondo relativista non possiamo accordarci con tanta velocità. L’informazione corre sulle spalle di viaggiatori che, al massimo, si spostano alla velocità della luce. Possiamo rispondere solo delle nostre misurazioni e comunicare con il resto dell’universo, ad esempio, lanciando sonde sotto forma di raggi luminosi. A partire dai dati che otterremo costruiremo la nostra immagine di ciò che lì accade. Non esiste alcun osservatorio privilegiato dal quale contemplare i fenomeni e costatare cosa sia realmente accaduto. 68 ein ste in
Un raggio irraggiungibile
Completando Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento Einstein poté rispondere finalmente alla domanda che l’aveva assillato in Italia a sedici anni: cosa succederebbe se cercassimo di raggiungere un raggio luminoso? Oggi la risposta è parte della cultura popolare: nulla può andare più veloce della luce né raggiungerla. Perché? I passeri disegnano migliaia di traiettorie nel cielo prima di posarsi, i bambini si mettono a correre, il vento spazza la strada. Attorno a noi il cambiamento si manifesta costantemente attraverso variazioni di velocità e ciò ci invita a domandarci quale sia la ragione della barriera della luce. Se un pilota di Formula 1 può schiacciare l’acceleratore e passare da 0 a 100 km/h in meno di 2 secondi, cosa succede quando raggiungiamo un regime ad alte velocità? Perché una navicella spaziale non può contare su una propulsione infinita? Da dove nasce questa limitazione della velocità che nessun corpo dell’universo è in grado di spezzare? Una delle cose che ci dice l’equazione F = m · a è che, se applichiamo una forza a un corpo, questo accelererà tanto di più quanto minore sarà la sua massa e viceversa. L’esperienza ci insegna la stessa lezione senza necessità di ricorrere alla matematica. Una spinta che può far cadere una lampada, lascerà indifferente un camion. Possiamo quindi interpretare la massa come una misura della resistenza che i corpi offrono cambiando il loro stato di movimento. La massa quindi aumenta con la velocità. A basse velocità l’effetto è impercettibile.
DOVE IL TUTTO NON È LA SOMMA DELLE PARTI Se le scale dello spazio e del tempo si distorcono nell’universo relativista, qualunque grandezza da noi fabbricata con le stesse rispecchierà tale perturbazione. Senza andare troppo lontano, consideriamo la velocità. Immaginiamo che da un sistema D, che si sposta a una velocità u, si osservi una mosca che vola seguendo una linea retta, parallela a una orizzontale. Per scoprire la sua velocità si parte della sua coordinata x’ e dal tempo misurato in D, t '. v' =
dx ' . dt '
In G la velocità della mosca, tuttavia, si costruisce con un altro gruppo di coordinate e tempi: x e t. y y'
v= v v'
u
G
D
x'
dx . dt
x
Le trasformazioni di Lorentz permettono di mettere in relazione i due ritmi ai quali cresce lo spazio percorso con il trascorrere del tempo: v=
v'+u . v'·u 1+ 2 c
Dopo aver analizzato nel dettaglio l’equazione, scopriamo che implica che non possiamo raggiungere un raggio di luce. Il buon senso pare ribellarsi e proporre che, se un’imbarcazione si muove alla metà della velocità della luce (c/2), sotto coperta, qualcuno spara un proiettile sempre alla metà della velocità della luce (c/2), dal molo, almeno teoricamente, dovremmo vedere il proiettile che taglia il vento a velocità c. L’analisi di Einstein conduce a un risultato molto diverso: c c + 2 2 4 c = = · c. v= c c 1 5 · 1+ 4 2 2 1+ 2 c
Nell’aritmetica relativista, la somma di ½ più ½ ha come risultato 4/5.
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Una persona che cammina acquista 0,00000000000000001 volte la sua massa. Man mano che aumenta la velocità, cresce l’opposizione a un nuovo incremento. Quando si fosse sul punto di raggiungere la luce, la massa sarebbe diventata quasi infinita, esattamente come per la resistenza a ulteriori accelerazioni. Questo implacabile freno portava Einstein a concludere: «Le velocità che superano quella della luce non sono possibili». In realtà il quadro teorico della relatività è più flessibile. Sebbene nessun corpo più lento della luce possa, mediante un’accelerazione, riuscire a raggiungerla, è possibile presumere che ci siano particelle più veloci, sempre che non frenino tanto da finire per correre più lente della luce. È la barriera di c che non si può superare in un senso o nell’altro, da velocità superiori o inferiori. Così come il tempo trascorre più lentamente quanto più ci avviciniamo alla velocità della luce, superandola dovremmo viaggiare diretti verso il passato. L’esistenza di particelle più veloci della luce è teoricamente stimolante, sebbene sia anche causa di diversi rompicapo, presumibili violazioni della causalità e della possibilità di inviare messaggi indietro nel tempo.
L’equazione più famosa di tutti i tempi: E = m c2
Nel settembre del 1905, tre mesi dopo aver spedito Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento agli Annalen, Einstein inviò un’appendice alla stessa rivista. Il nuovo articolo si occupava di rispondere all’interrogativo che annunciava nel titolo: «L’inerzia di un corpo dipende dalla sua energia?». 70 ein ste in
La domanda era retorica e la risposta si trasformò nell’equazione che i fisici corsero a farsi stampare sulle camicie: E = m c 2. Per dedurre questa espressione Einstein considerò una situazione molto particolare, un corpo che emetteva una radiazione elettromagnetica contemplato da due punti di vista: un sistema dove il corpo era a riposo e un altro che si muoveva a velocità costante rispetto allo stesso. Ottenne che la perdita energetica dovuta all’emissione si traduceva anche in una perdita di massa nell’ordine di m = E / c 2. Facendo mostra della sua nota ampiezza di vedute elevò le sue conclusioni al rango di enunciato universale: Se un corpo cede l’energia E sotto forma di radiazione, diminuisce quindi la propria massa come E / c 2. In questo caso è chiaramente indifferente che l’energia persa dal corpo diventi energia della radiazione e siamo quindi condotti alla conclusione generale; la massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia. Se cambia la sua energia in E, cambia quindi la sua massa nello stesso senso in E / 9 · 10 20, quando misuriamo l’energia in erg e la massa in grammi. Non si esclude che, mediante i corpi il cui contenuto di energia è altamente variabile (per esempio i sali di radio) si possa ottenere una conferma della teoria. Se la teoria si mostra in accordo con i fatti, la radiazione trasmette inerzia fra i corpi emittenti e assorbenti.
L’equazione impressiona, ma i fenomeni che descrive possono passare facilmente inosservati. Una lampadina da 11 W, ad esempio, perde 0,000000000000000012 kg al secondo per colpa della luce che emette. Il fattore di cambiamento fra massa ed energia è esorbitante: c 2. Per aggiungere altri numeri all’equazione E = m c 2, possiamo partire dal consumo totale di energia di un Paese sviluppato con circa 40 milioni di abitanti, che si aggira intorno ai 140 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep). 1 tep = 4,2 · 10 10 J. c = 3 · 10 8 m/s.
Pertanto, se E = m c 2, m=
E 140 ⋅ 10 6 ⋅ 4 ,2 ⋅ 1010 = = 65 , 3 kg. c2 9 ⋅ 1016
Quindi, se fossimo in grado di trasformare la nostra massa in energia, riusciremmo a soddisfare il fabbisogno energetico di un intero Paese per un anno.
La pena dell’eroe
A partire dalla pubblicazione dei suoi articoli, nel 1905, ebbero fine le peripezie alquanto dickensiane di Einstein e iniziò una storia di trionfi universalmente riconosciuti. È vero che, all’inizio, egli si disperò rendendosi conto che il suo lavoro non
TUTTO È MOVIMENTO In un’occasione Einstein scrisse al figlio Eduard: «La vita è come andare in bicicletta. Se vuoi restare in equilibrio, devi muoverti». Qualcosa di simile accade alla materia. Quando un corpo emette radiazioni diventa più leggero. Succede il contrario quando le assorbe. L’energia cinetica, legata al movimento, genera anch’essa una sua massa. La luce, ad esempio, ha una massa solo in virtù del suo movimento e manca di massa a riposo. Il nostro corpo è composto di molecole e queste sono composte di atomi. All’interno di un atomo la massa si concentra soprattutto nel nucleo, dove neutroni e protoni sono formati da quark. Il nome stesso della forza che li mantiene uniti, l’interazione forte, e della particella responsabile di questa unione, il gluone (dall’inglese glue, colla), suggeriscono il motivo: è molto difficile separarli. L’interazione forte è la più potente in natura e, invece di indebolirsi, cresce quando cerchiamo di distanziare i quark. Non possiamo considerarla come un’attrazione istantanea alla Newton, ma come uno scambio costante di gluoni che si creano e distruggono senza sosta, trasportando la forza. Tutto questo movimento di messaggeri della forza che vanno e vengono fra i quark, creandosi e distruggendosi, si traduce in massa. Si può affermare che oltre il 90% della nostra massa non è altro che il movimento delle particelle che ci compongono.
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Una foto del giovane Einstein. BETTMANN / CORBIS
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aveva avuto la minima ripercussione, come se l’avesse scritto con dell’inchiostro invisibile. Einstein si attendeva «un’opposizione categorica e le critiche più dure» che cercò invano nei numeri seguenti degli Annalen. Nel 1906 ricevette una lettera con timbro di Berlino nella quale Max Planck gli esponeva i dubbi nati durante la lettura del suo lavoro sulla relatività. Fu a quel punto, dopo aver attirato l’attenzione del fisico più importante di Germania che la sua sorte cambiò per sempre. Ma, in accordo con l’archetipo più classico, l’eroe doveva pagare la sua vittoria a caro prezzo. Albert Einstein sarebbe diventato lo scienziato più famoso del suo tempo, degno erede della stirpe di Newton e Galileo. Agli occhi del padre, però, sarebbe sempre rimasto un giovane di talento al quale il mondo aveva girato le spalle e che aveva compromesso il suo futuro con un matrimonio sfortunato. Nell’autunno del 1902 il cuore di Hermann Einstein cedette infine all'assedio delle preoccupazioni. Gli ultimi anni della sua vita potevano riassumersi in una parola: bancarotta. Dopo l’ennesimo fallimento inanellato durante la sua accidentata avventura imprenditoriale, Jakob si diede per vinto e accettò un posto da ingegnere in una società italiana. Con la sua formazione, Hermann non poteva permettersi una via di uscita così semplice e continuò a perdersi nel labirinto dei suoi commerci. Ignorando le suppliche e gli avvertimenti del figlio, avviò una nuova fabbrica a Milano. In quegli anni Hermann e Albert stavano combattendo una lotta impari con il mondo. Una delle testimonianze più com-
moventi dell’affetto e della preoccupazione che Hermann nutriva per il figlio si trova nella lettera che inviò di sua iniziativa al chimico Wilhelm Ostwald. Dopo le prime righe dedicate a scusarsi per tanto ardire, presenta gli studi di Einstein e ne loda le capacità, passando quindi a descrivere la sua situazione: […] ha cercato, senza successo, di ottenere un posto da assistente che gli consenta di continuare la sua formazione in fisica teorica e sperimentale. […] Mio figlio è quindi profondamente infelice non trovando al momento un posto e la convinzione di essere fuori dal suo ambiente lo fa sentire ogni giorno più isolato. Lo opprime inoltre il pensiero di essere un peso per noi, famiglia dai mezzi modesti.
Hermann chiedeva a Ostwald di leggere il primo articolo di Einstein, Conclusioni tratte dal fenomeno della capillarità, pubblicato nel 1901 sugli Annalen: «[…] e che gli scriva, se possibile, qualche parola di incoraggiamento, in modo che possa recuperare la gioia di vivere e lavorare». Per quanto ci è dato di sapere, Ostwald non rispose mai. Pochi mesi dopo aver preso servizio all’Ufficio Brevetti, la prima settimana di ottobre, Einstein attraversò il tunnel più lungo d’Europa, il San Gottardo, per tornare in Italia e salutare per l’ultima volta il padre. Prima di morire, Hermann fece l’unica cosa ancora nelle sue possibilità per alleviare le tribolazioni del figlio: diede finalmente la sua benedizione al matrimonio con Mileva. j
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74 ein ste in ILLUSTRAZIONE DI MOONRUNNER DESIGN
CAPITOLO 3
Le pieghe dello spazio-tempo Sebbene a malincuore, il mondo accademico finì per arrendersi al genio di Einstein. Dalla cattedra di professore a Zurigo si prefisse di affrontare la sfida di introdurre la gravità nello scenario relativista. Nel 1915 era molto vicino a raggiungere il suo obiettivo quando scoprì che il matematico David Hilbert si era proposto di completare la teoria prima di lui. Iniziò così uno dei periodi di maggiore stress psicologico della sua vita.
La teoria della relatività generale che Einstein presentò nel 1915 rivelò che spazio e tempo sono uniti in una trama flessibile, curvata e deformata dalla materia. La forza di gravità non è altro che la materia che scivola a causa delle curvature spazio-tempo.
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en lungi dal provocare un terremoto, gli articoli che Einstein pubblicò nel 1905 ricevettero un’accoglienza piuttosto tiepida da parte della comunità scientifica. All’inizio solo Planck ammise di averli presi in considerazione. L’ultimo a reagire, ovviamente, fu il mondo accademico. Einstein sostenne con quest’ultimo un ostinato tira e molla scandito da vicendevoli concessioni accettate malvolentieri. Nel mondo universitario tedesco il livello più basso della scala gerarchica corrispondeva al posto di privatdozent, incarico non retribuito che consentiva di tenere delle lezioni in cambio di un modesto stipendio a carico degli alunni. Einstein pensò che fosse una posizione per la quale aveva ottenuto meriti sufficienti e presentò domanda nel 1907, senza però considerare la puntigliosità dei funzionari dell’Università di Berna. Nella lista dei requisiti figurava la presentazione di un articolo scientifico inedito. Einstein ne consegnò diciassette. Come minimo due meritano un posto d’onore fra i grandi classici della letteratura scientifica. Nessuna considerazione, tuttavia, pesò più del fatto che li avesse già pubblicati. La commissione avrebbe potuto dispensarlo da questa formalità, se avesse ritenuto che Einstein avesse raggiunto qualche altro merito degno di nota. Paul Gruner, professore di fisica teorica, giudicava la relatività «molto problematica». Il professore di fisica sperimentale, Aimé Forster, era meno sottile. Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento per lui era illeggibile. «Non capisco neppure una parola di quello che ha scritto qui», disse. Era opinione del corpo docente che la relatività fosse stata «rifiutata, in
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modo più o meno chiaro, dalla maggior parte dei fisici contemporanei». Einstein descrisse l’episodio nel suo insieme come «divertente» e desistette. Impiegò un anno a ingoiare l’orgoglio e ancora una volta a «tentare la sorte, nonostante tutto, [...] all’Università di Berna». All’inizio del 1908 presentò Conseguenze per la costituzione della radiazione dalla legge di distribuzione di energia di corpo nero, un articolo che non avrebbe rivoluzionato la fisica, ma che aveva il pregio di essere inedito. Schivava inoltre lo spinoso terreno della relatività. In febbraio l’università accettò la sua domanda.
«È difficile che qualcuno capace di comprenderla veramente possa sfuggire alla meraviglia di questa teoria.» Albert Einstein sulla relatività generale.
Nel semestre estivo del 1908 Einstein mise piede per la prima volta in un’aula universitaria lasciandosi alle spalle i banchi degli studenti per salire in cattedra come professore. Solo tre persone ebbero la voglia di svegliarsi presto il martedì e sabato per ascoltare, alle sette del mattino, come dissertava di un tema adatto alla stagione: la teoria molecolare del calore. Fra loro non mancavano sostenitori incondizionati come Michele Besso. A volte la sorella Maja, che preparava una tesi sulle lingue romanze a Berna, faceva un salto per dargli appoggio morale. Con un tale successo di pubblico non poté far altro che mantenere il posto all’Ufficio Brevetti. Nel maggio dell’anno successivo fu nominato professore asso-
ciato dell’Università di Zurigo dopo una dura contrattazione. L’incarico era stato offerto in prima battuta a un suo ex compagno del Politecnico, Friedrich Adler, che seppe chiamarsi fuori con eleganza: «Se alla nostra università si presenta l’opportunità di avere un uomo come Einstein, sarebbe assurdo nominare me». Dopo aver superato questo ostacolo, egli si pose il problema delle sue capacità pedagogiche. Davanti alla critica di tenere unicamente monologhi, si limitò a rispondere con ironia: «Ci sono già abbastanza professori senza di me». Tuttavia, trascorso un certo periodo, necessario per stemperare ancora una volta la sua indignazione, fece valutare la sua competenza didattica durante un esame tenuto davanti alla Società di Fisica di Zurigo nel febbraio 1909. Ricevette una sufficienza risicata. Restava da sistemare una piccola irregolarità nel suo certificato di nascita che il comitato incaricato delle assunzioni non ignorò: «Herr doctor Einstein è un israelita». La relazione del comitato analizzava nel dettaglio le conseguenze che ciò poteva comportare per l’istituzione: «Proprio agli israeliti, fra tutti gli accademici, si attribuisce (in molti casi non senza fondamento) ogni sorta di sgradevoli peculiarità di carattere, come l’indiscrezione, l’insolenza e una mentalità da commercianti nella percezione del loro ruolo accademico». Dopo complicate riflessioni non considerarono «compatibile con la loro dignità adottare l’antisemitismo come politica». Ritennero però degno negoziare un po’ e offrirgli uno stipendio più basso di quello che Einstein riceveva all’Ufficio Brevetti. Per questo egli rifiutò le condizioni. Aumentarono l’offerta fino ai 4.500 franchi
l’anno che guadagnava a Berna. Einstein accettò. Quando finalmente il posto a Zurigo fu suo, un collega si complimentò: «Era ora che te ne andassi dall’Ufficio Brevetti». Al che Einstein rispose: «Così ora anch’io sono ufficialmente membro della corporazione delle prostitute». Nel luglio del 1909 ricevette un dottorato honoris causa dall’Università di Ginevra e, in ottobre, fu valutata la sua prima candidatura al premio Nobel. Dopo un inizio accidentato, la sua carriera accademica era finalmente decollata con tappe successive all’Università Karl-Ferdinand di Praga (nell’aprile 1911), nella sua università di origine, di ritorno a Zurigo (nell’agosto del 1912) e, infine, a Berlino (nel marzo 1914), dove gli offrirono un posto senza obbligo di insegnamento e l’ingresso all’Accademia Prussiana delle Scienze. Ogni trasloco era accompagnato da un miglioramento dello status sociale e da una maggiore stabilità economica per gli Einstein. La coppia che aveva saputo mantenersi unita nei momenti più difficili non seppe però sopravvivere al benessere. Sembra che Zurigo sia stato lo spazio naturale per i due sposi e, nei tre lunghi periodi che vi trascorsero, si può riassumere la loro evoluzione come i tre atti di un dramma, con un principio, un momento di catarsi e una risoluzione. Lì si conobbero e si innamorarono, lì superarono la prima crisi, nel 1909, concependo il loro secondo figlio, Eduard, e lì persero anche l’ultima sfida. Quando Einstein accettò l’offerta di Berlino sancì la la fine del suo matrimonio. Mileva, donna dal carattere impulsivo e complicato, incline alla depressione, non doveva essere una persona semplice con cui vivere. Gli anni da studentessa l e pi eghe del l o spa zio- temp o 77
erano una luce che illuminava la sua vita ma questa iniziò a oscurarsi man mano che quel periodo dorato si allontanava nel passato. Albert e Mileva avevano sognato di trasformare la scienza in un’avventura condivisa. Fu un periodo carico di promesse, frustrato però da una gravidanza prematura. Negli anni più duri, a Berna, fecero fronte comune contro un mondo ostile. Lei lo espresse con un gioco di parole: «Noi due siamo come una roccia (in tedesco ein stein)». Albert vide realizzarsi la sua ambizione e non seppe condividerla. «Mi sarebbe piaciuto essere lì, aver potuto ascoltare un po’ e vedere quelle magnifiche persone», gli scriveva Mileva da Praga mentre lui partecipava a un incontro scientifico a Karlsruhe e lei restava a casa. Uno dei biografi di Einstein, sposato con una figlia della sua seconda moglie, racconta come Mileva spesso desiderasse partecipare ai dibattiti scientifici del marito, «ma lui la lasciava a casa con i bambini». Dopo un decennio di vita in comune, nel 1912 circa, entrambi dichiaravano apertamente l’insoddisfazione per la loro unione. Mileva si sentiva sempre più isolata e ignorata ed Einstein rifuggiva la sua compagnia. I rimproveri per le sue assenze erano frequenti: «È talmente tanto che non ci vediamo che mi domando se mi riconoscerai». Nelle lettere all’amica Helene Savi, Mileva mostrava più apertamente il suo sconforto: «Lavora senza sosta ai suoi problemi; si può dire che viva solo per loro. Devo confessarti, con un poco di vergogna, che non gli interessiamo e che per lui veniamo al secondo posto». Certamente a Einstein piaceva coltivare una certa retorica del distacco. Così faceva nel suo saggio Il mondo come io lo vedo, 78 ein ste in
scritto quando aveva ormai superato la boa dei cinquant’anni: Il mio appassionato senso della giustizia sociale e della responsabilità civile ha sempre contrastato in modo singolare con una pronunciata assenza della necessità di contatto diretto con altre persone o comunità umane. In realtà sono un viaggiatore solitario e non ho mai donato completamente il mio cuore al mio Paese, alla mia casa, ai miei amici e neppure ai miei famigliari più stretti.
È vero però che, nonostante la scienza lo occupasse la maggior parte del tempo, non trascurava neppure la vita sentimentale. Aveva semplicemente cambiato l’oggetto delle sue attenzioni. Durante le vacanze pasquali del 1912 si recò da solo a Berlino per fare visita alla famiglia. Dopo essere rimasta vedova, Pauline era andata a trascorrere qualche giorno con la sorella Fanny. Il marito di quest’ultima, Rudolph, apparteneva a un altro ramo dell’affollato albero genealogico degli Einstein. Suo padre era il fratello del padre di Hermann ed era uno dei cugini che aveva perso ingenti somme di denaro investendo nelle sue imprese in campo elettrotecnico. Sopra l’appartamento di Rudolph e Fanny si era trasferita la figlia Elsa, reduce da un divorzio. Elsa ed Einstein si erano conosciuti a Monaco e lei amava raccontare come, da bambina, si fosse innamorata del cugino ascoltandolo interpretare Mozart al violino. Non sappiamo se rimase affascinata da una nuova esibizione musicale, ma il sentimento infantile rifiorì.
In alto, ritratto di Albert Einstein nel 1911 e della cugina Elsa che sarebbe diventata la sua seconda moglie. In basso, la scrivania di Einstein all’Ufficio Brevetti di Berna, occupazione che conciliava con le lezioni all’università della capitale svizzera. ARCHIVO RBA (IN ALTO A SINISTRA); ALBUM (IN ALTO A DESTRA E IN BASSO)
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Sebbene si ignorino i dettagli del loro incontro, sappiamo che, tornato a Praga, Einstein iniziò un corteggiamento epistolare segreto. Dopotutto non era un viaggiatore tanto solitario: «Ho bisogno di qualcuno da amare – ammetteva – altrimenti la vita è così triste. E quel qualcuno siete voi». Si può descrivere Elsa in molti modi, ma forse è più immediato dire che era l’esatto contrario della taciturna, introversa e tormentata Mileva: civettuola, divertente, un animale sociale senza alcun interesse per la scienza… Se Einstein soffocava nel suo rapporto con la moglie, in Elsa non poteva trovare nulla che gliela ricordasse. Sentiva ancora sufficiente responsabilità, però, per allarmarsi per la piega che avevano preso gli eventi e fece un passo indietro: «Se cedessimo alla nostra comune attrazione, provocheremmo solo confusione e disgrazia». Alla fine di maggio decise di troncare definitivamente. O forse non proprio. Nella stessa lettera dove annunciava a Elsa: «[…] vi scrivo per l’ultima volta e mi piego di nuovo all’inevitabile […]», la informava di essersi trasferito. Si aprì una parentesi di un anno. Nel marzo del 1913, in occasione del trentaquattresimo compleanno di Einstein, Elsa ruppe la tregua con degli auguri. Lui rispose e la corrispondenza riprese presto lo slancio dimenticato. La convivenza con Mileva era andata sempre più deteriorandosi. Ormai dormivano in camere separate ed Einstein perfezionava l’arte dell’assenza, parandosi dietro un muro di obblighi professionali. Dopo il trasferimento a Berlino, nel marzo 1914, la vicinanza di Mileva non fu di ostacolo perché Einstein, come scrisse all’amico Besso, godesse di una «relazione estremamente piacevole e bella» con la cugina, «la cui 80 ein ste in
natura permanente» era garantita «dalla rinuncia al matrimonio». Si ha l’impressione che non volesse separarsi da Mileva. «Possiamo perfettamente essere felici insieme», aveva spiegato a Elsa, «senza doverla ferire». Forse si convinse che, con qualche strano gioco di prestigio, avrebbe potuto avere tutto. Mantenere il rapporto con la moglie, per non ferirla né sentirsi colpevole e neppure separarsi dai figli, e recuperare con Elsa un universo sentimentale che era ormai solo un ricordo. Se pensava però che la cugina si sarebbe accontentata di occupare una delle punte del triangolo, si sbagliava. Elsa affermò sempre con chiarezza che il divorzio poteva attendere, ma non all’infinito. Quando la crisi scoppiò, a fine luglio, Mileva si alzò presto per prendere il treno che l’avrebbe riportata a Zurigo in compagnia di Hans Albert ed Eduard. All’inizio la decisione non sembrò irreversibile. Gli amici della coppia avviarono una delicata rete di mediazioni. In altre circostanze, forse, ci sarebbe stato margine per una riconciliazione. Proprio il giorno in cui Mileva prendeva il treno, però, l’Austria-Ungheria invadeva la Serbia e scoppiava la Prima Guerra Mondiale. La frontiera tra Germania e Svizzera fu chiusa. Einstein ed Elsa rimasero da una parte, a Berlino. Mileva e i bambini dall’altra, a Zurigo. Sebbene avesse ora un nuovo amore per consolarsi della separazione, Einstein visse come una lacerazione l’allontanamento dai figli. Due anni più tardi faceva il bilancio seguente di quanto accaduto in una lettera a un’amica della moglie: Per me la separazione da Mitsa (Mileva) era una questione di vita o di morte. La nostra convivenza era diventata impos-
sibile, persino deprimente, ma non saprei dire perché. Così mi sono separato dai miei figli, che amo tanto. Nei due anni che siamo rimasti lontani, li ho visti due volte. La scorsa primavera ho fatto un breve viaggio con Albert. Con profonda tristezza ho capito che i miei figli non comprendono il mio agire, alimentano una furia silenziosa contro di me e sono giunto alla conclusione che, sebbene mi dolga molto, è meglio per loro che il loro padre non li veda più.
Negli anni in cui Einstein portava avanti la sua laboriosa transumanza sentimentale rifletteva anche intensamente sulla gravità e la meccanica quantistica. Aveva fatto onore al suo credo: «Fino a quando potrò lavorare, non posso lamentarmi né lo farò, perché il lavoro è l’unica cosa che dà sostanza alla vita». Uno dei periodi di maggiore stress psicologico coincise con il 1915. Per allora si erano aperti davanti a lui tre grandi fronti: la Prima Guerra Mondiale, il divorzio da Mileva e, infine, il braccio di ferro con i matematici di Gottinga per vedere chi avrebbe completato per primo una teoria geometrica della gravitazione.
Equivalenza tra gravità e accelerazione
La stella polare che guidò Einstein durante la sua ardua traversata verso la relatività generale – che durò quasi otto anni segnati dall’incertezza – si accese nel mese di novembre del 1907. In seguito la definirà come l’idea più felice della sua vita. Un aneddoto ne colloca l’origine nella caduta di un imbianchino dall’alto di un ponteggio. Quando Einstein gli chiese se
stesse bene, l’uomo gli raccontò che, durante la caduta, per un brevissimo istante, gli era sembrato di galleggiare nell’aria. «Una persona in caduta libera – ricorderà anni dopo – non sentirà il suo peso. Sono rimasto spiazzato. Questa idea così semplice mi segnò profondamente e mi spinse verso una teoria della gravitazione». Il cammino per svelare la gravità si arricchiva quindi di un nuovo capitolo della sua particolare mitologia che vedeva come protagonisti tre fisici leggendari. Prima Galileo, che aveva lasciato cadere una palla di legno e una di piombo dall’alto della Torre di Pisa. Poi Newton con la sua mela e, infine, si aggiunse l’incidente sul lavoro dell’imbianchino di Einstein. È quasi certo che nessuno dei tre episodi accadde veramente. Nella lettera indirizzata all’astronomo americano George Ellery Hale dell’ottobre 1913 Einstein esponeva la possibilità che «i raggi di luce fossero soggetti a una deviazione in un campo gravitazionale» e suggeriva che, nel caso della massa solare e molto vicino alla stella, tale deviazione arrivasse a 0,84’’, scendendo di 1/R, dove R è la distanza più breve fra il raggio e il centro del Sole. Questa idea costituisce il nucleo originale dell’esperimento che, nel 1919, avrebbe confermato la relatività generale. Insegniamo ai bambini delle elementari che la gravità è una forza che ci mantiene attaccati al terreno e che gli astronauti, lontani da grandi masse come la Terra che li attirino, galleggiano liberi stagliandosi nell’oscurità dello spazio. Eppure, in un certo senso, abbiamo tutti uno spirito da astronauta. Se, come per magia, si aprisse un pozzo sotto i nostri piedi, diciamo di dieci metri di profondità, per pochi sel e pi eghe del l o spa zio- temp o 81
condi sperimenteremmo la stessa caduta libera di un paracadutista che salta da un aereo. La Terra resterebbe al suo posto, la reciproca attrazione anche, ma la nostra sensazione di peso svanirebbe. Quando ci cade di mano una tazza di caffè, si rompe in mille pezzi sul pavimento. Se la lasciassimo cadere nel preciso istante in cui il pozzo si apre sotto di noi, ci accompagnerebbe durante la caduta, galleggiandoci misteriosamente accanto. Una persona prigioniera in un cubicolo senza abbaini né finestre non potrebbe dirci se galleggia nel vuoto all’interno di una capsula spaziale o se cade nella stiva di un aereo. Se si togliesse il portafoglio di tasca e lo mettesse all’altezza degli occhi, vedrebbe che resterebbe fermo, galleggiando davanti a lei. Non serve però ricorrere necessariamente agli artifici del pozzo o del prigioniero. Spiccando un salto, proprio dopo aver raggiunto il punto più alto, sperimentiamo una fugace caduta libera. I bambini si ubriacano della sensazione di mancanza di gravità che percepiscono a intermittenza cadendo e rimbalzando su un tappeto elastico. Lo stesso fenomeno è sfruttato per l’addestramento degli astronauti, in aerei che prendono quota e poi si lasciano cadere nell’atmosfera per garantire qualche secondo di mancanza di gravità ai loro occupanti. E anche qualche effetto secondario: il turboreattore KC-135 della NASA fu battezzato con il nome ufficiale di “meraviglia senza gravità”, ma i suoi agitati passeggeri preferivano chiamarlo con il nomignolo familiare di vomit comet, confermando che il miglior indicatore dell’accelerazione è installato nel nostro stomaco. 82 ein ste in
Einstein scoprì l’illusione che si annida in qualcosa in apparenza di tanto solido come la nostra sensazione di gravità. L’ambiguità fra accelerazione e gravità si estende a qualunque valore del peso. In un ascensore, i cambiamenti di velocità ci fanno sentire più leggeri o più pesanti. Un’incertezza che possiamo portare all’estremo. Recuperando lo spirito degli esperimenti di Galileo, possiamo chiudere Domenico in una perfetta riproduzione della stiva della nave, senza boccaporti, e introdurla in un grande ascensore spaziale, lontano da qualunque massa. Se l’ascensore salisse con un’accelerazione tale da produrre in Domenico la sensazione esatta del suo peso, il nostro studente non sarebbe in grado di dire se si trova sulla Terra o nello spazio, a prescindere dall’esperimento che deciderà di svolgere all’interno della stiva. La brillante idea di Einstein evoca un illusionismo da prestigiatore: qualunque effetto di gravità si può imitare mediante un’accelerazione e viceversa. Chiamò questa relazione tanto particolare principio di equivalenza. A partire dal 1905 la grande sfida che gli si presentava era ampliare il quadro della relatività speciale. Quest’ultima contemplava solo corpi che si muovono a velocità costante. Una teoria fisica completa, tuttavia, doveva tenere per forza in conto le accelerazioni. Al contempo Einstein voleva incorporare la gravità. La legge di gravitazione universale funzionava con un meccanismo matematico che era diventato antiquato dopo la rivoluzione relativista. La famosa equazione di Newton presentava due problemi: F =G
MT m r2
.
In questa lettera indirizzata all’astronomo americano George Ellery Hale dell’ottobre 1913 Einstein esponeva la possibilità che «i raggi di luce fossero soggetti a una deviazione in un campo gravitazionale» e suggeriva che, nel caso della massa solare e molto vicino alla stella, tale deviazione arrivasse a 0,84'', scendendo di 1/R, dove R è la distanza più breve fra il raggio e il centro del Sole. Questa idea costituisce il nucleo originale dell’esperimento che, nel 1919, avrebbe confermato la relatività generale. AGE FOTOSTOCK
l e pi eghe del l o spa zio- temp o 83
LE FORZE DI MAREA Esaminando la questione più a fondo, Einstein si rese conto che, dopotutto, un uomo chiuso in un cubicolo aveva comunque modo di verificare se galleggiava nel vuoto (a parte lasciar trascorrere il tempo sufficiente fino a scontrarsi contro qualcosa). Immaginiamo che il prigioniero del cubicolo si svuoti le tasche: toglie un portafoglio, un fazzoletto, delle chiavi e un cellulare. Mentre galleggia dispone i quattro oggetti attorno a lui. Lascia galleggiare il portafoglio sopra la sua testa, il fazzoletto alla sua destra, le chiavi a sinistra e il cellulare ai suoi piedi. Partendo da questa premessa, esploriamo due conclusioni, cambiando lo scenario di fondo: durante una caduta libera verso la Terra e galleggiando nel vuoto dello spazio. 1) Durante una caduta libera. Ci ricorderemo immediatamente di Newton: l’intensità con la quale la Terra attrae altre masse è inversamente proporzionale al quadrato della distanza che la separa da queste:
F =G
MT m r2
dove G è la costante universale della gravitazione (6,67 · 10−11 m3 · kg−1 · s−2), MT , è la massa della Terra, m un’altra massa qualsiasi ed r la distanza. Il portafoglio resta un poco più distante dalla superficie terreste rispetto al prigioniero, quindi sarà attratto più debolmente. Da parte sua, il cellulare è più vicino e sperimenta un’attrazione maggiore. Questa differenza finirà per separarli. Ma cosa succede al fazzoletto e alle chiavi? Dato che la direzione di attrazione è rivolta verso il nucleo delle masse, le linee che li uniscono con il centro della Terra non sono parallele. Con il trascorrere dei secondi, quindi, il portafoglio si allontanerà dalla testa del prigioniero, così come farà il cellulare ai suoi piedi. Il fazzoletto e le chiavi si avvicineranno ai lati (figura 1). A volte si descrive questa deriva affermando che sugli oggetti agiscono forze di marea, perché si tratta dello stesso effetto rilevato per le maree terrestri. 2) Nello spazio. Senza la Terra in vista, non si verificherà alcuna delle deviazioni precedenti. Avviato l’esperimento, se il prigioniero assiste alla deriva degli oggetti, potrà iniziare a prepararsi per un doloroso atterraggio (figura 2). FIG. 1
84 ein ste in
FIG. 2
Se la osservassimo attentamente vedremmo, da un lato, che nel denominatore compare r, la distanza che separa le masse. Einstein, però, sapeva che, in base alla contrazione di Lorentz, due osservatori, uno in movimento e uno a riposo, non devono necessariamente misurare le stesse distanze. Quale di queste doveva essere introdotta nell’equazione? D’altro canto, e forse aspetto più importante, nell’espressione non figura il tempo. Ciò implica che l’azione della forza è istantanea. Se m si allontana da m', le forze cambiano in modo immediato. Questo violava i precetti relativisti che stabilivano che nulla potesse viaggiare più veloce della luce. Scoprendo l’equivalenza fra gravità e accelerazione, Einstein si rese conto che poteva affrontare i due problemi contemporaneamente: se riusciva a introdurre l’accelerazione nella relatività, la gravità si sarebbe inserita in essa in modo automatico. Se ci concedono poco tempo e ci privano di alcuni dei nostri sensi, non sapremo determinare se precipitiamo in caduta libera o galleggiamo in assenza di gravità. Questa incertezza potrebbe crearsi anche spiccando un salto. Congelando il nostro movimento nel fotogramma dove raggiungiamo il punto più alto, proprio prima di iniziare la discesa, se ci cancellassero la memoria, in una frazione di secondo saremmo incapaci di distinguere la nostra caduta dalla mancanza di gravità. Su questa ambiguità si basa il principio di equivalenza. Se lasciassimo passare il tempo sufficiente, tuttavia, prima o poi osserveremmo una deviazione dalla mancanza di gravità. Ci può aiutare una similitudine geometrica: percorrendo una breve distanza non possiamo capire se la
Terra è piatta o rotonda. In un viaggio più lungo finiremo per identificare qualche deviazione dalla linea retta, pertanto la curvatura del pianeta. Questa analogia nasconde la chiave per far accomodare la gravità all’interno di una teoria relativista. Nell’estate del 1912, appena tornato a Zurigo da Praga, Einstein inviò una richiesta di aiuto a un vecchio amico, Marcel Grossmann: «Devi aiutarmi o diventerò pazzo». Da studenti, Grossmann gli aveva prestato i suoi appunti quando saltava le lezioni e, più avanti, lo aveva salvato dalla precarietà con il lavoro all’Ufficio Brevetti. In quegli anni era ormai diventato un’autorità nella geometria non euclidea. Ancora una volta acconsentì di buon grado a collaborare. Insieme, Einstein e Grossmann intrapresero un’escursione nel mondo delle superfici molto simile a quella che stiamo per iniziare.
Anatomia di una superficie
In una superficie piana, due individui che traccino perpendicolari a una stessa linea retta disegneranno due parallele che non si incontreranno finché avranno pazienza, anche se questa dovesse essere infinita. Trasferendosi all’equatore di una sfera, la situazione cambia. In funzione delle dimensioni del globo, prima o poi finiranno per incontrarsi (figura 1). In una sfera gigantesca è possibile che non si rendano mai conto che il territorio che abitano non è in piano. L’umanità impiegò migliaia di anni a convincersi della curvatura della Terra e ciò non sorprende, se non si può dare un’occhiata dallo spazio o fare il giro del mondo. Probabilmente la prima intuizione della sua convessità la ebbero i marinai che intraprendevano lunghi viaggi guidati dalle stelle. L’esperil e pi eghe del l o spa zio- temp o 85
mento delle parallele fornisce agli abitanti di una superficie uno strumento deduttivo per verificare se vivono su un terreno piano o tondeggiante. Basta partire perpendicolarmente dall’equatore e lasciar passare il tempo sufficiente. Quando si renderanno conto di avvicinarsi, avranno individuato la curvatura. Cosa succede se riduciamo drasticamente il tempo della loro indagine? Riusciranno a disegnare solo due segmenti molto corti, quasi dei punti, paralleli. Dopo averli analizzati non potranno sapere se abitano su un piano o una sfera. Immaginiamo ora di prendere un foglio di carta e di disegnarvi sopra due punti (figura 2). Se ci chiedessero di unirli con un tratto continuo il più breve possibile, sceglieremmo la linea retta (figura 3). Nel caso di una sfera, la risposta diventa l’arco di una circonferenza (figura 4). La condizione estrema che abbiamo imposto a questi tracciati li distingue dal resto delle possibili traiettorie, facendo sì che si meritino un nome ad hoc: geodetiche. Non importa quanto complichiamo la geografia della superficie, continueremo a trovare geodetiche, anche se dovranno serpeggiare per superare ogni tipo di irregolarità (figura 5). A prescindere dalla complessità dalla superficie, potremmo approssimare anche le aree circostanti di qualunque dei suoi punti mediante un piano: il loro piano tangente (figura 6). Ripetendo l’operazione attorno a molti punti finiremo per coprire l’intera superficie. In un terreno ragionevolmente liscio, utilizzeremo delle «tessere» grandi. Se lavoriamo con un rilievo accidentato, otterremo un mosaico di pezzetti pianeggianti di piastrelle molto piccole. 86 ein ste in
FIG. 1
B
A
FIG. 2
B
A
FIG. 3
B
A
FIG. 4
Partiamo da una superficie, con due punti e una geodetica che li unisca, e procediamo a «piastrellarla» (figura 7 e 8). Si osserva che, così come la superficie si scompone in una manciata di piastrelle
B A
FIG. 5
FIG. 6
B A FIG. 7
FIG. 8
B A
FIG. 9
piatte, la geodetica si rompe in una serie di linee rette (figura 9). Per un abitante della superficie che possa operare solo all’interno del ristretto margine di una piastrella, il mondo sarà piano e le geodetiche rette.
Prigioniero di una regione limitata, non potrà determinare se vive su uno spazio liscio o irregolare. Man mano che ampliamo i nostri domini, le linee rette cominceranno a ritorcersi e a deformarsi in geodetiche più complesse. La situazione ricorda l’indecisione della caduta libera e la sua risoluzione dopo aver lasciato trascorrere il tempo sufficiente. Einstein propose che avvenisse lo stesso. Nell’estate del 1912 si rese conto che la teoria delle superfici creata dal matematico Carl Friedrich Gauss «conteneva la chiave che apriva il mistero» per inserire l’interazione della gravità nella sua teoria della relatività. Questa scoperta lo portò a iniziare un corso accelerato di sofisticazione matematica tenuto da Grossmann per dominare gli strumenti capaci di tradurre la sua intuizione fisica nel linguaggio formale della geometria differenziale. Fino all’inizio del XIX secolo, con la pubblicazione di Investigazioni generali sulle superfici curve di Gauss, gli spazi bidimensionali erano stati studiati da una prospettiva tridimensionale, erano quindi osservati per lo più dall’esterno. Gauss si immerse invece nella superficie, inciampando uno dopo l’altro nei suoi ostacoli man mano che li incontrava. Questo viaggio dell’immaginazione inaugurò lo studio della geometria intrinseca delle superfici che avrebbe ricevuto un impulso definitivo con l’opera di uno degli studenti di Gauss, Bernhard Riemann (1826-1866). In un piano risulta ragionevole estrapolare le proprietà di una piccola regione e applicarle alle aree immediatamente circostanti. La sua monotonia rende ogni palmo di terreno identico agli altri. Un ambiente scosceso, tuttavia, ci offre a ogni ostacolo un punto di riferimento. Distinl e pi eghe del l o spa zio- temp o 87
LA VITA PRIVATA DELLE SUPERFICI Carl Friedrich Gauss (1777-1855) nacque in una famiglia di umili origini, ma con una mente privilegiata, seconda solo a quelle di Newton o Archimede. Lasciò che alcune delle sue scoperte più significative, come la geometria non euclidea o l’algebra dei numeri complessi, prendessero polvere in un cassetto per risparmiarsi polemiche scientifiche. Se lo poteva permettere: la parte della sua opera che decise infine di pubblicare fu sufficiente per segnare un prima e un dopo nella storia della matematica. Riemann generalizzò le sue idee sulla geometria differenziale in una conferenza tenuta nel 1854 che concluse con una nota di suspense: «Questo ci conduce ai domini di un’altra scienza, all’ambito della fisica, dove il tema di oggi non ci permette di addentrarci». Senza saperlo, le sue parole erano rivolte a qualcuno che non era presente in sala e che non sarebbe nato se non venticinque anni dopo. Sarebbe stato Albert Einstein a osare attraversare finalmente la soglia sulla quale si era fermato Riemann, applicando gli strumenti matematici che aveva forgiato per radiografare la struttura segreta dell’universo. ARCHIVO RBA
guiamo una vetta da un avvallamento e non possiamo imporre la singolarità di una parte del territorio al resto. Pertanto, per esprimere la struttura intrinseca di una superficie, dobbiamo mappare la sua intera estensione. Per farlo, Gauss si concentrò su ciò che accade in un punto qualunque della superficie quando ci posizioniamo sullo stesso e decidiamo di avanzare di una distanza molto ridotta in una direzione a caso. Se siamo su un terreno pianeggiante, come quello di un appartamento, ci è indifferente la direzione che sceglieremo: lo stesso passo ci allontanerà sempre della stessa lunghezza. Se siamo su una superficie ondulata, però, la situazione si complica. Andando verso destra, potremmo muoverci in di88 ein ste in
scesa e, verso sinistra, in salita lungo una pendenza pronunciata. Per fare un esempio estremo, studiamo la situazione delle due persone del disegno qui accanto. Entrambe camminano da A a B, una accanto all’altra. La persona 1 cammina in linea retta su un terreno pianeggiante; la 2 lungo un avvallamento che si apre proprio accanto a lei. Per andare da A a B, la 2 deve fare più passi rispetto alla 1 a causa della geometria curva del terreno (figura 10). Se domandiamo a entrambe qual è la distanza fra A e B, daranno risposte diverse. Gauss costruì una funzione matematica (una relazione metrica, rappresentata tramite la lettera g) che mostrasse, per ogni punto di una superficie, la distanza percorsa con un piccolo passo in base alla dire-
zione verso la quale ci muoviamo. Questa informazione cambia con l’orientamento e da un punto all’altro in una superficie accidentata, ma non in una piana. La relazione metrica si può considerare come il manuale di istruzioni per creare una superficie dal momento che racchiude tutti i dati che vogliamo estrarre dalla stessa. Contemplando uno spazio da una dimensione superiore, le sue irregolarità saltano all’occhio. La relazione metrica ci permette di apprezzarle «a tentoni», dalle viscere della superficie stessa. Le proprietà geometriche di uno spazio devono essere indipendenti dal sistema di coordinate che scegliamo per descriverlo. Possiamo ricorrere all’analogia di una notizia che racconta di un evento in una particolare lingua: anche se il testo fosse tradotto in un’infinità di lingue diverse, in tutte sarebbe narrato lo stesso fatto. La distanza fra due punti, ad esempio, è un’informazione che non è influenzata da una traduzione, pertanto da una trasformazione di coordinate. I punti 1 e 2 sono a distanze diverse a seconda che li si misuri da A o da B, ma la distanza fra loro non cambia. In linguaggio algebrico si dice che la distanza è un invariante (figura 11). Partendo dalla relazione metrica si può calcolare qualunque distanza fra due punti di una superficie. Permette inoltre di costruire altri invarianti, come la curvatura, una grandezza che rispecchia quanto una superficie devia dal «retto comportamento» euclideo (figura 12). Gli invarianti riflettono le proprietà obiettive dello spazio e non dipendono dal punto di vista prescelto per descrivere una superficie. Questa proprietà presentava
1
2 A
B
FIG. 10
2
1
B
A FIG. 11
Curvatura piccola
Curvatura grande
Curvatura zero
FIG. 12
una seconda analogia estremamente suggestiva per Einstein, che si domandava: «È concepibile che il principio della relatività sia valido anche per sistemi che accelerino uno rispetto all’altro?». Pertanto, se il prinl e pi eghe del l o spa zio- temp o 89
cipio era rispettato in sistemi separati da una velocità costante, si sarebbe mantenuto valido per sistemi separati da una velocità variabile? Ricordiamo che uno dei due postulati della relatività spaziale era: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo in movimento uniforme». Un’affermazione che sembra derivata dal seguente enunciato geometrico: «Gli invarianti, come la distanza o la curvatura,
adottano la stessa forma da qualunque sistema di coordinate». Questo parallelismo, sommato all’analogia del principio di equivalenza, lo portava a un passo dall’unire finalmente fisica e geometria.
Dalla relatività speciale a quella generale
Il matematico lituano Hermann Minkowski (1864-1909) fu colui che spianò la strada affinché le idee di Einstein potesse-
LA CREAZIONE DELLA RELAZIONE METRICA DI GAUSS Per creare la relazione metrica Gauss partì dalla distanza fra due punti qualsiasi molto ravvicinati in una superficie, le cui coordinate differissero unicamente per valori infinitesimali. La nozione più elementare di distanza (s), quella euclidea, si evince dal teorema di Pitagora (figura 1). Per indicare che possiamo ridurre la distanza fra due punti (x1 , y1) e (x2 , y2) a piacere, cambiamo la notazione da Δx (grandezza misurabile) a dx (grandezza differenziale) (figura 2). Questa espressione smette di essere valida se le coordinate non si riferiscono più a due assi perpendicolari x e y o, in generale, se ci troviamo in una superficie curva, come, ad esempio, una sfera (figura 3). Per ampliare il quadro di questa teoria, Gauss lavorò con coordinate più generali, u e v (coordis 2 = Δ x 2 + Δy 2 s = Δ x 2 + Δy 2
ds 2 = dx 2 + dy 2
FIG. 2 FIG. 1
FIG. 3
90 ein ste in
ro venire espresse nel linguaggio di Gauss. Prese il tempo e lo spazio della relatività speciale e forgiò, a partire da questi ultimi, un’unica realtà tetradimensionale, lo «spazio-tempo». Con tono abbastanza teatrale, egli proclamò: «D’ora in avanti lo spazio singolarmente inteso e il tempo singolarmente inteso sono destinati a svanire in nient’altro che ombre e solo una radicale connessione dei due potrà preservare una
realtà indipendente». Minkowski riservò lo stesso trattamento matematico sia alle tre coordinate spaziali (larghezza, profondità e altezza) sia al tempo. Se immaginiamo una mosca che si sposta lungo una linea retta, dobbiamo visualizzare il suo spostamento in una dimensione, scattando delle istantanee a intervalli di tempo regolari. Possiamo anche considerarla come un punto che scivola lungo una diagonale su
nate gaussiane), e scrisse che il quadrato della distanza fra due punti separati da una distanza infinitesimale (u, v) e (u+du, v+dv) è dato da: ds 2 = E (u,v) du 2 + 2 F (u,v) du dv + G (u,v) dv 2, dove E, F e G sono funzioni delle coordinate. Per recuperare una lunghezza misurabile basta sommare, lungo una curva, tutte le distanze infinitesimali ds2 comprese fra i suoi estremi. Il tedesco Bernhard Riemann non si accontentò di studiare le superfici bidimensionali ed estese le impostazioni di Gauss a un numero arbitrario delle stesse. Pertanto: n
ds 2 = ∑ gi j dxi dx j , i, j
dove n può assumere qualunque valore naturale. Le quantità gij sono, ancora una volta, funzioni delle coordinate. Il quadrato della distanza fra due punti estremamente vicini ds 2, pertanto, si allunga e comprime in funzione del nostro spostamento sulla superficie e della registrazione dei suoi ostacoli. Se traduciamo l’espressione gaussiana nei termini, più ampi, proposti da Riemann, otterremo che: n=2 g12 = g21 = F
x1 = u g11 = E
x2 = v g22 = G
… g 1n … g 2n
…
gn1 g
… g nn
n2
…
g11 g 12 g21 g 22
… …
Le funzioni gij (la metrica) nel loro insieme riflettono le irregolarità del rilievo. Si possono presentare mediante una matrice quadrata di n² elementi.
l e pi eghe del l o spa zio- temp o 91
t=1
t =2
t =3
x
t 3 2 1 x
un piano a due dimensioni, dove t e x sono variabili somiglianti: Analogamente, il movimento dei corpi attraverso lo spazio, con il passare del tempo, diventa uno spostamento lungo una «ipersuperficie» di quattro dimensioni. La dinamica si trasforma in geometria. Dopo questo salto concettuale, che Minkowski applicò per riformulare con eleganza la relatività speciale, i parallelismi fra la caduta libera e l’assenza di gravità e fra una superficie curva e il suo piano tangente smettono di essere semplici analogie. Da parte loro, le geodetiche e gli invarianti della relazione metrica acquisiscono immediatamente un significato fisico. Per un matematico, una geodetica è una linea statica, un tratto sulla carta, ma fra le quattro dimensioni della relatività di Minkowski figura il tempo: le geodetiche dello spazio-tempo risultano dinamiche, sono traiettorie. La coordinata temporale traduce un semplice punto in un evento, le trasformazioni di coordinate in cambi di sistemi di riferimento. Si può applicare anche il punto di vista contrario e considerare la fisica come una geometria. Osserviamo un’immagine bi92 ein ste in
dimensionale della Luna che gira attorno alla Terra (figura 13). Se ora chiedessimo una rappresentazione della posizione della Luna in funzione del tempo, la risposta più intuitiva sarebbe immaginare che il satellite disegna un circolo attorno alla Terra. Eppure, spogliando il tempo dei suoi privilegi e trattandolo come una normale coordinata spaziale, come fece Minkowski, otteniamo una rappresentazione geometrica tridimensionale (figura 14). Nel gergo relativista, la distanza è nota come tempo proprio e si rappresenta mediante la lettera greca tau: τ. Si tratta di una grandezza che non corrisponde alla separazione fra due posizioni, ma fra due eventi. Ogni insieme di coordinate si compone di tre valori spaziali e di uno temporale che indicano un dove e un quando. Spostandoci da un punto all’altro lasciamo una scia tetradimensionale: una «linea dell’universo». La nostra vita si può contemplare come una traiettoria nello spazio di Minkowski, una successione di luoghi e momenti legati fra loro. Così lo intese il fisico George Gamow quando intitolò le sue memorie La mia linea di universo. Un’autobiografia informale. Nel capitolo precedente abbiamo scoperto fino a che punto le nostre percezioni
«Quando uno scarafaggio cieco si trascina sulla superficie di un ramo piegato, in realtà non si rende conto che il tracciato che percorre è una curva. Ho avuto la fortuna di capire ciò che lo scarafaggio ignorava.» Risposta di Einstein quando il figlio Eduard gli chiese perché fosse tanto famoso.
FIG. 13
FIG. 14
Due rappresentazioni “piane” del sistema formato dalla Terra e dalla Luna dove lo spazio è descritto solo in due dimensioni. Nella seconda immagine (figura 14) si aggiunge il tempo.
sono malleabili. Una volta entrati nel labirinto degli specchi relativisti, saltando da un sistema di riferimento all’altro, i tempi e le distanze acquisiscono un comportamento lunatico. Come la scenografia di un film espressionista, si deformano, si allungano e si schiacciano. Gli oggetti in movimento si restringono e frenano la marcia dei loro orologi. Eppure, nonostante tutte le implicazioni psicologiche, il tempo in sé non smette di essere una distanza, quindi
una proprietà geometrica. È pertanto un invariante e offre le stesse informazioni a tutti i sistemi di coordinate, quindi a tutti i sistemi di riferimento: a tutti gli osservatori. Per vederlo meglio facciamo ricorso a un’altra parabola tridimensionale. Collochiamo una bacchetta in posizione verticale, vicino a una parete, illuminata da due torce, una situata in cima e una di lato. La torcia verticale proietterà un punto a terra, l e pi eghe del l o spa zio- temp o 93
LA METRICA DE MINKOWSKI Se il quadrato della distanza euclidea fra due punti molto vicini (ds) si definiva come ds2 = dx 2 + dy 2 + dz 2, nella geometria di Minkowski è dato da: ds 2 = dx 2 + dy 2 + dz 2 − c 2 dt 2. Il prodotto della velocità della luce c (calcolato, ad esempio, nel sistema internazionale delle unità di misura in m/s) per t (in s) fa sì che la quarta variabile abbia la stessa lunghezza delle tre variabili spaziali. La grandezza ds 2 è un invariante. Misurandola da due sistemi di coordinate differenti (x, y, z, t) e (x', y', z', t'), si ottiene lo stesso risultato: ds 2 = dx 2 + dy 2 + dz 2 − c 2dt 2 ds' 2 = dx' 2 + dy' 2 + dz' 2 − c 2dt' 2
ds 2 = ds' 2
Cercando quale trasformazione di coordinate leghi i due sistemi, in modo che si rispetti l’equivalenza ds 2 = ds' 2, si ottengono le equazioni di Lorentz. Estraendo la metrica dall’espressione di ds²: 1 0 0 0
0 1 0 0
0 0 1 0
0 0 0 –c 2
⎧ ⎩
⎧ ⎩
Qui i componenti di g, con valori costanti, disegnano un piano senza ostacoli né curvature. Le sue geodetiche sono linee rette, ma il cambio di segno nel termine temporale introduce una peculiarità: non corrispondono più alla distanza più breve fra due punti dello spazio-tempo, ma alla più lunga.
mentre quella laterale rifletterà sulla parete l’intera bacchetta (figura 15). Se adesso la incliniamo (rispetto al piano definito dalle due torce), la torcia verticale creerà un’ombra che crescerà a terra, mentre la silhouette sulla parete si ridurrà di pari passo di dimensione (figura 16). Mettendola in posizione orizzontale, avremo invertito la situazione originaria. Il punto apparirà sulla parete, mentre a terra la bacchetta si rifletterà in tutta la sua lunghezza (figura 17). Possiamo dire che la parete e il terreno sono osservatori bidimensionali che contemplano come la bacchetta si rimpicciolisce (nello spazio) o si allunga (nel 94 ein ste in
tempo). Stiamo conferendo un’interpretazione geometrica alla contrazione di Lorentz e alla dilatazione temporale. Gli abitanti di queste superfici potrebbero inquietarsi scoprendo che la lunghezza della bacchetta cambia in modo imprevedibile quando si muove, ma potrebbero anche ideare un modello matematico in tre dimensioni e arrivare alla conclusione che le mutazioni sono un’illusione. Il movimento modifica unicamente la dimensione delle ombre: la lunghezza della bacchetta resta inalterabile in uno spazio con una dimensione superiore. Gli esempi proposti fanno ricorso a superfici in due dimensioni o spazi di tre,
FIG. 15
ma l’universo di Minkowski ne prevede un’altra: la curvatura dello spazio-tempo si evidenzia in quattro dimensioni. Per aumentare le difficoltà del gioco, quando vogliamo mettere in relazione le storie di due osservatori che si muovono in un ambiente relativista, parte di ciò che per uno è lo spazio, per l’altro è il tempo e viceversa. Una circostanza facile da tradurre in equazioni matematiche o da rispecchiare in una similitudine, ma quasi impossibile da accettare in modo intuitivo. Lo spazio-tempo di Minkowski offre una certa austerità perché è piano, come è giusto in uno scenario dove i corpi si spostano a velocità costante. Dalla prospettiva delle quattro dimensioni, gli oggetti senza accelerazione si possono rappresentare mediante punti o linee rette. Introducendo la gravità e l’accelerazione, le rette si ritorcono. La gravità avvicina i corpi come la curvatura della sfera rende più vicini i disegnatori di parallele. Così come la linea retta di un mondo piatto si trasforma in un arco percorrendo una sfera, le traiettorie rette della relatività speciale mutano in geodetiche curve «acceleran-
FIG. 16
FIG. 17
do» nell’universo della relatività generale. Come in una superficie curva possiamo approssimare lo spazio attorno a un punto mediante il suo piano tangente, possiamo fisicamente avvicinare la traiettoria di un corpo accelerato mediante una caduta libera, sebbene per un breve momento. L’approssimazione risulterà più o meno precisa in funzione di quanto pronunciata sia la curvatura dello spazio, pertanto in base all’accelerazione alla quale è sottoposto il corpo. La relatività generale prende d’assalto lo spazio piano di Minkowski e lo deforma. Chi è responsabile della distorsione? La presenza della massa. Quanta più materia (o energia) «iniettiamo» al suo interno, più si separerà lo spazio dalla condizione di planarità. Secondo le parole del fisico statunitense John Wheeler: «La gravità non è una forza aliena e fisica che opera nello spazio, ma una manifestazione della geometria dello spazio proprio lì dove si trova la massa». Arrivati a questo punto possiamo sintetizzare il nucleo della relatività generale in due enunciati: l e pi eghe del l o spa zio- temp o 95
– La traiettoria di un corpo in un campo gravitazionale adotta la forma di una geodetica dello spazio tetradimensionale. – La relazione tra la presenza della massa e la forma dello spazio tetradimensionale è data dall’equazione:
Facciamo nuovamente ricorso a Wheeler per tradurre questa espressione in un linguaggio più quotidiano: «Lo spazio dice alla materia come muoversi e la materia dice allo spazio come curvarsi». Sul lato sinistro dell’equazione riconosciamo la g della metrica (gμν). Sia Rμν sia R sono componenti matematici che si costruiscono a partire da g e sono invarianti. Indicano quanto devia lo spazio dal piano di Minkowski, misurano quindi la sua curvatura in ogni punto. ll secondo termine, che tecnicamente si denomina tensore di energia-impulso, Tμν, incarna la materia. L’equazione di Einstein ci dice che, in una porzione determinata dello spazio, la sua curvatura risulta proporzionale a un numero (la costante G) e alla quantità di materia (o energia) che racchiude. Possiamo immaginare un universo a bassa intensità e velocità costanti come un foglio liscio, solcato da traiettorie diritte, che comincia a incresparsi quando la densità aumenta e l’accelerazione fa atto di presenza, fino a rompere tali linee. La relazione metrica riflette questa transizione facendo in modo che le sue componenti costanti comincino a variare da un punto all’altro. 96 ein ste in
La presenza della massa ci permette di costruire l’architettura esatta dello spazio tetradimensionale attraverso il secondo enunciato. Una volta delineato questo scenario, il primo detta le evoluzioni di qualunque corpo che transiti per lo stesso. L’equazione di Einstein conserva una proprietà geometrica decisiva. È costituita da invarianti e, pertanto, mantiene la propria forma per qualunque spettatore. Se la distanza e la curvatura non dipendono dal sistema di coordinate, neppure i fenomeni fisici possono dipendere dal punto di vista scelto dall’osservatore per descriverli. Si tratta della generalizzazione di uno dei due postulati della relatività speciale: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo con movimento uniforme». Adesso possiamo spingerci oltre e affermare: «Le leggi della fisica adottano la stessa forma in qualunque sistema di riferimento che consideriamo con movimento accelerato».
Fisici contro matematici
Fu colpa di Hermann Minkowski se il virus della relatività si impossessò dell’Università di Gottinga. Nel suo circolo di fedelissimi figurava uno dei matematici più prolifici e influenti del XX secolo: David Hilbert. Nonostante la loro amicizia, Minkowski impiegò anni a contagiarlo con la sua passione per la fisica. Arrivò a usarla come pretesto per non fargli visita durante le vacanze di Natale: «Date le circostanze, non so se ti serve che ti consoli. Credo che mi avresti trovato infettato fino al midollo dalla fisica. È addirittura possibile che debba essere messo in quarantena prima che Hurwitz e tu mi possiate ammettere di nuovo come compagno
IL MOVIMENTO DEI CORPI IN UN CAMPO GRAVITAZIONALE Immaginiamo che più persone sorreggano un lenzuolo steso. Posizionano quindi al centro una sfera pesante, come la palla che si usa per giocare a bowling. Muovendo delicatamente il lenzuolo, otterranno sulla tela un’ondata di solchi e pieghe che metterà in movimento la boccia. L’inerzia la spingerà a disegnare ogni tipo di traiettoria, evitando piccoli monticelli, rotolando verso il basso negli affossamenti e frenando quando incontra una pendenza. La forma che adotta la superficie della tela, la sua «geometria», che le persone possono modificare a piacere, detta il percorso della palla. Quest’ultima, tuttavia, non si limita a interpretare un ruolo passivo, poiché anche il suo peso e il suo movimento modellano la forma del lenzuolo. La sua presenza disturberebbe, ad esempio, la traiettoria di una biglia lanciata in linea retta sulla tela, così come i movimenti delle persone che la sostengono. Cosa succederebbe con un lenzuolo in quiete e che fosse anche trasparente? Uno spettatore newtoniano vedrebbe come una forza misteriosa, la cui origine si posizionerebbe al centro della palla, che attira la biglia con un’azione che, in apparenza, è esercitata in modo immediato e a distanza. Sicuramente non penserebbe neppure di imputare la curva che disegna la pallina di vetro a una deformazione di un lenzuolo invisibile che trasmette con un certo ritardo qualunque cambiamento della sua geometria provocata dalla presenza e dal movimento di qualsiasi corpo appoggiato su di esso. Questa analogia si può estendere ai campi gravitazionali, dove la presenza della massa (anche di energia) deforma il tessuto dello spazio-tempo e, così facendo, frena e accelera, devia dalla loro traiettoria o intrappola i corpi in una coreografia dinamica, alla cui creazione collettiva partecipano tutte le masse.
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delle vostre passeggiate, matematicamente puro e astratto». Minkowski inaugurò la sua prima conferenza sulla relatività, nel 1907, con uno sconsolato ritratto dei fisici: «Sembra che la teoria elettromagnetica della luce stia dando luogo a una completa trasformazione delle nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo che dovrebbe suscitare un interesse straordinario fra i matematici. Il matematico si trova in una situazione privilegiata per adottare questo nuovo punto di vista, dato che comporta per lui un mero acclimatamento a schemi concettuali già familiari. Il fisico, al contrario, è costretto a riscoprire questi concetti e aprirsi un varco attraverso un bosco primigenio di oscurità. Accanto, il vecchio sentiero, disposto con precisione dal matematico, permette di progredire in tutta facilità». In considerazione di questo chiaro svantaggio, la chiaroveggenza di uno dei suoi ex studenti al Politecnico di Zurigo quasi lo infastidiva: «Oh, quell’Einstein, non faceva che saltare le lezioni. A essere sincero, non lo avrei mai creduto capace di tutto questo!». Un’appendicite mise bruscamente fine alla vita di Minkowski e lasciò il suo lavoro incompiuto. Fu un duro colpo per Hilbert, il cui atteggiamento verso la fisica cambiò notevolmente. Da allora le sue parole adottarono il tono di un medium attraverso il quale Minkowski continuava a divulgare le proprie inquietudini: «Nella sua esposizione scritta, il fisico ignora con leggerezza passi logici importanti, [...] mentre spesso il matematico diventa la chiave per comprendere i processi fisici». In un ambiente più informale la si prendeva 98 ein ste in
con più spirito: «La fisica sta diventando troppo complicata per lasciarla in mano ai fisici». In modo più o meno cosciente, Hilbert si proposte di dare concretezza al programma del suo vecchio amico. Uno dei suoi principali traguardi era stato l’assiomatizzazione della geometria. Adesso avrebbe trattato nello stesso modo la fisica, ricostruendola dalle fondamenta con un rigore sconosciuto e applicando le più moderne tecniche. Riassumeva il suo programma con un ordine: «Abbiamo riformato la matematica, adesso dobbiamo riformare la fisica e, in seguito, sarà la volta della chimica». Sino a qui era giunto quando incontrò Einstein, con una teoria generale della relatività a metà e formulata in un linguaggio geometrico che non riusciva ancora a dominare. Dopo ormai quasi un anno di conflitto, la Prima Guerra Mondiale, ben lungi dal volgere al termine, si stava inasprendo. Nell’aprile del 1915 i tedeschi avevano inaugurato la guerra chimica, avvolgendo le trincee di Ypres in una nebbiolina verdastra e giallognola di gas-mostarda. Nella storia della relatività si avvicinava una battaglia meno sanguinaria, ma non certo esente da colpi di scena. A fine giugno Einstein accettò un invito di Hilbert e si recò a Gottinga per tenere un ciclo di sei conferenze, durante le quali rese noto il livello di sviluppo raggiunto dalla sua teoria generale della relatività. Nel corso della sua permanenza alloggiò a casa del matematico, con il quale ebbe occasione di conversare animatamente, senza sospettare di sollecitare così sin troppo la sua curiosità. L’impressione che riportarono del collega fu eccellente per entrambi. «Con mia grande gioia ho avuto pieno successo nel
DAVID HILBERT Hilbert nacque nella città prussiana di Königsberg nel 1862. Ebbe una carriera folgorante e, sin dai suoi esordi, fu riconosciuto come la figura carismatica che avrebbe guidato i matematici della sua generazione. In collaborazione con Felix Klein trasformò l’Università di Gottinga in uno dei centri di ricerca matematica più produttivi di tutti i tempi. Durante il Congresso Internazionale dei Matematici del 1900, svoltosi a Parigi, passò in rassegna una serie di ventitré problemi la cui risoluzione avrebbe segnato, a suo giudizio, lo sviluppo futuro della disciplina. Nonostante la rivalità scientifica con Einstein, i due avevano molto in comune e fra loro scattò subito una vera simpatia. Entrambi si rifiutarono di firmare una dichiarazione di appoggio all’intervento tedesco nella Prima Guerra Mondiale. Come Einstein, anche Hilbert ebbe un figlio affetto da schizofrenia con il quale mantenne un rapporto complesso. Non era da meno anche in fatto di aforismi. A testimonianza di questa sua capacità, una sola frase: «Possiamo misurare l’importanza di un’opera scientifica dal numero di pubblicazioni precedenti che rende superflue». Arrivò a compiere ottantuno anni, una longevità che visse come una disgrazia poiché ebbe tempo di vedere come i nazisti distruggevano la scuola matematica che aveva creato in decenni di fatiche. Quando, durante un banchetto nel 1934, il Ministro della Cultura gli chiese se fossero vere le voci secondo le quali la matematica tedesca aveva risentito delle purghe nazionalsocialiste, Hilbert rispose: «Risentito? La matematica non ne ha risentito affatto, signor ministro. Semplicemente non esiste più».
convincere Hilbert e Klein», si rallegrava Einstein. Neppure Hilbert nascondeva la sua soddisfazione: «In estate abbiamo avuto i seguenti ospiti: Sommerfeld, Born ed Einstein. Le conferenze di quest’ultimo sulla teoria della gravitazione in particolare sono state un vero e proprio evento». Senza dubbio Einstein era riuscito a sedurre i matematici di Gottinga con la sua geometrizzazione della gravità. Non poteva però indovinare che l’avessero an-
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che visto perso davanti a un bivio: il punto dove la fisica diventava troppo complessa per lasciarla ai fisici. Il gran patriarca della scuola di Gottinga, Felix Klein, si lamentava: «Nell’opera di Einstein ci sono imperfezioni che non arrivano a pregiudicare le sue grandi idee, ma che le nascondono alla vista». Hilbert si permetteva qualche battuta: «Qualunque ragazzino di strada di Gottinga ne capisce di più di geometria tetradimensionale di Einstein». l e pi eghe del l o spa zio- temp o 99
Le carte furono scoperte in novembre. Einstein iniziò riconoscendo che aveva «perso totalmente la fede nelle equazioni di campo» che aveva difeso negli ultimi tre anni. Decise di riprendere una linea di attacco che aveva abbandonato nel 1912, con eccessiva fretta, accettando una restrizione che si rivelò senza fondamento. La notizia che Hilbert aveva individuato le sue imperfezioni e aveva iniziato in autonomia l’assalto alle equazioni di campo fu per lui una vera doccia gelata. Hilbert aveva il vantaggio di una superiorità matematica innegabile, in un problema dove questo sembrava un fattore decisivo. A suo favore, Einstein poteva contare sul suo ineguagliabile istinto fisico. Stimolato dalla rivalità, sprofondò in un abisso di equazioni che riempiva di cancellature, prove e modifiche fino a terminare ogni possibile alternativa. Abbandonò praticamente qualunque attività che minacciasse la sua massima concentrazione. Non distingueva più il giorno dalla notte e a volte si dimenticava persino di mangiare. Questa tenacia estenuante finì per dare i suoi frutti. La nebbia si dissipava attorno alla matematica della teoria... quando il 14 novembre trovò nella cassetta della posta una lettera con il timbro di Gottinga dove Hilbert si vantava dei suoi progressi che considerava quasi definitivi: «È vero che mi piacerebbe pensare prima a qualche applicazione concreta per i fisici, come qualche affidabile relazione tra costanti fisiche, prima di offrire la soluzione assiomatica al tuo gran problema». La corrispondenza fra i due si trasformò in un fuoco incrociato di suggerimenti e astuzie. Il 18 novembre Einstein vide finalmente la luce. La sua ultima versione della teoria prevedeva un’irregolarità nell’orbi100 ein ste in
ta di Mercurio, descritta dal matematico Urbain Le Verrier nel 1859, che sfidava le previsioni newtoniane. Correggeva inoltre la stima classica della curvatura della luce sotto gli effetti gravitazionali. Infine, le sue equazioni si riducevano a quelle di Newton in campi gravitazionali di bassa intensità. La rivelazione gli provocò una tachicardia e uno stato improvviso di euforia che non lo abbandonò per giorni. Il 25 novembre 1915, un Einstein allo stremo delle forze presentava la sua versione delle equazioni di campo davanti all’Accademia di Berlino: «Finalmente la teoria generale della relatività mostra una struttura logica chiusa». Cinque giorni prima, Hilbert riassumeva le conclusioni del suo programma assiomatico davanti all’Accademia delle Scienze di Gottinga. Chi aveva vinto? Per cominciare possiamo affermare che, nonostante le apparenze, avevano partecipato a competizioni diverse. Sebbene Hilbert fosse stato il primo a rendere pubblici i suoi risultati, negli originali dell’articolo che riassume la sua conferenza di Gottinga non compaiono le equazioni di campo corrette, sebbene figurino nella versione che pubblicò nel marzo del 1916. La priorità è quindi di Einstein. Se misuriamo il risultato in base all’obiettivo che ognuno dei due si era prefissato, quest’ultimo centrò il bersaglio, mentre Hilbert sbagliò il tiro con un ampio margine. Il matematico ignorò quasi completamente il paesaggio sperimentale. La letteratura relativista della gravitazione era solo un aspetto della sua vasta ambizione assiomatica che pretendeva conquistare non solo la gravità, ma anche l’elettromagnetismo e la sua interazione con la materia. Le equazioni fondamentali della fisica
dovevano sorgere a partire da una funzione che chiamò «funzione dell’universo», le cui proprietà aveva definito in un paio di assiomi. Hilbert intitolò la sua conferenza I fondamenti della fisica, una disciplina dalla quale, a partire da allora, «sarebbe sorta una scienza come la geometria». Seppe dispiegare un’artiglieria formalmente superiore a quella di Einstein e risolvere alcuni dei suoi problemi tecnici in modo più diretto, ma le sue pretese di aver unificato la relatività e l’elettromagnetismo, dando conto, nel frattempo, dei fenomeni che si verificavano nell’atomo, risultarono infondate. Einstein pensava che il proposito di Hilbert nascondesse, «mimetizzata fra le tecniche», la pretesa «di un superuomo». Fu forse un alunno di Hilbert, Hermann Weyl, il cui contributo fu tanto importante per la fisica teorica, a saper comprendere meglio di chiunque altro l’atmosfera di svolta: «Gli uomini come Einstein e Niels Bohr si aprono la strada a tentoni, nell’oscurità, fino a raggiungere le loro concezioni della relatività generale o della struttura atomica mediante un tipo di esperienza o immaginazione diversa da quella che serve al matematico, sebbene
senza dubbio la matematica costituisca un ingrediente essenziale». Einstein giudicò il lavoro di Hilbert come un’intromissione, una convinzione che trapela in modo velato in alcune delle sue lettere. I suoi sospetti però svanirono presto, soprattutto dopo che Hilbert non fece nulla per mettere in dubbio la priorità del fisico tedesco. Il 20 dicembre Einstein gli scriveva una lettera conciliante: Fra di noi vi è stata una certa ostilità della quale non pretendo di analizzare le cause. Ho lottato contro il sentimento di amarezza che è nato in me e l’ho vinto completamente. Penso di nuovo a te con un affetto sul quale non si allunga alcuna ombra e ti prego di fare lo stesso con me.
Vera ironia della sorte, dopo che Minkowski contagiò Hilbert con la passione per la fisica, a sua volta Hilbert trasmise le sue aspirazioni da superuomo a Einstein. Quest’ultimo consacrò gli ultimi decenni di vita a costruire una teoria nella quale si fondessero i campi elettromagnetici e gravitazionali. Una ricerca anch’essa destinata al fallimento. j
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einste JUAN CARLOS in CASADO / SHELIOS
ILLUSTRAZIONE DI JUAN CARLOS CASADO / SHELIOS
CAPITOLO 4
Le scale del mondo Un volta alzato il “ponteggio” delle equazioni relativiste, Einstein si impegnò a dipingere la sua immagine personale dell’universo. La cosmologia, una scienza dominata fino ad allora dalla speculazione, fece con lui un enorme passo avanti. La conferma sperimentale, nel 1919, della deviazione della luce per azione della gravità trasformò improvvisamente Einstein in una celebrità.
La Luna oscura la sfera solare durante l’eclissi anulare del Sole nel 2005. Le immagini che sir Arthur Eddington ottenne dell’eclissi solare totale nel maggio del 1919 costituirono una delle prime dimostrazioni sperimentali della teoria della relatività generale di Einstein.
A
lla fine di ogni tempesta creativa, Einstein si ammalava. L’intensità del contraccolpo era proporzionale allo sforzo investito. Se dopo i mesi di iperattività che portarono alla stesura degli articoli del 1905 trascorse a letto due settimane, a seguito del lungo e sostenuto braccio di ferro con la relatività generale la convalescenza si prolungò, a fasi alterne, per diversi anni. Il razionamento dovuto alla guerra non poté che aggravare le sue condizioni. A partire dal 1917 il suo organismo cedette a un susseguirsi di piccoli collassi, calcoli biliari, disturbi epatici, itterizia e ulcere gastriche che lo obbligarono a letto per mesi, facendogli temere che non si sarebbe mai più ristabilito del tutto. Arrivò a perdere fino a venticinque chili in due mesi. Con l’arrivo dell’estate, Elsa gli affittò un appartamento nel suo stesso stabile e, con discrezione, su e giù per le scale, si prodigò nel ruolo di infermiera, cuoca, vicina di casa e amante. In cambio della sua totale dedizione, aumentò le pressioni sul divorzio. L’anno successivo Einstein ripresentò la spinosa questione a Mileva e, facendo mostra di particolare tatto, cercò di renderla più accettabile con una spettacolare offerta economica che comprendeva il premio in denaro che avrebbe ricevuto con un eventuale Nobel. Inizialmente Mileva reagì con l’antica furia, ma dopo poche settimane venne a più miti consigli. La persistenza della separazione e la determinazione di Einstein erano prova che l’unione matrimoniale era ormai irrimediabilmente distrutta, nonostante la presenza dei figli. Era afflitta dalle 104
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precarie condizioni di salute, così come la sorella e il figlio minore. Dato che il passato era un territorio che ormai non poteva riconquistare, era forse arrivato il momento di affrontare l’inevitabile nelle condizioni migliori possibili. Vinte le reticenze di Mileva, restava da superare un avversario ancora più temibile: la burocrazia. «Sono curioso di vedere cosa durerà di più – confidava Einstein alla moglie – la guerra mondiale o le nostre pratiche di divorzio». Durò di più il divorzio. Mileva fu probabilmente il grande amore della sua vita. Nel suo primo matrimonio aveva cercato tutto, corpo e spirito. Nella corrispondenza con Elsa, Einstein recupera il linguaggio di un innamorato, ma la temperatura è più bassa e si moltiplicano le obiezioni: «Non è per mancanza di vero affetto che il matrimonio smette di sostentarmi!». Con una nota di cinismo, si potrebbe dire che Mileva incarnava l’amore ideale per un giovane di vent’anni, mentre Elsa lo rappresentava per un uomo di quaranta. La cugina gli garantì una grande pace, in cambio di un’affinità meno profonda. Forse non discuteva molto di fisica con Elsa, né erano uniti da un amore passionale, ma si offrirono appoggio e compagnia e condividevano un gran senso dell’umorismo. In lei trovò il modo di coniugare il bisogno di affetto con la comodità.
«Sono felice che la mia attuale compagna non sappia nulla di scienze, a differenza della mia prima moglie.» Einstein alla sua allieva Esther Salaman
La sostituzione di Mileva con Elsa rendeva evidente una transizione più sotterranea. Dopo l’incoronazione della teoria della relatività generale, Einstein iniziò a svestire i panni dell’iconoclasta. Lui stesso se ne lamentava: «Per castigare il mio disprezzo verso l’autorità, il destino ha decretato che diventassi io stesso un’autorità». Durante il divorzio, Einstein fece una promessa a Mileva: «Non rinuncerò mai a vivere solo, uno stato che si è rivelato come un’indescrivibile benedizione». Ci mise meno di quattro mesi a cambiare idea. Ottenne il divorzio da Mileva il 14 febbraio 1919 e lo ritroviamo sposato con Elsa il 2 giugno dello stesso anno. Pauline festeggiò la separazione da Mileva come se avesse vinto la lotteria: «Se il tuo povero padre fosse ancora qui per vederlo!». Poté tuttavia godersi poco la nuova situazione. Sarebbe morta infatti un anno più tardi per un tumore allo stomaco. Un colpo che, ancora una volta, contraddisse la presunta insensibilità di Einstein: «Sentiamo nelle ossa cosa significano i vincoli di sangue».
L’eclissi
Nel 1804 un astronomo bavarese, Johann Georg von Soldner (1776-1833), si basò sulla teoria corpuscolare di Newton – che considerava la luce composta da masse puntiformi, sensibili alla gravità – per formulare una curiosa predizione: «Se […] un raggio luminoso passa accanto a un corpo celeste, invece di continuare in linea retta, l’attrazione di quest’ultimo lo costringerà a descrivere un’iperbole la cui concavità si dirige verso il corpo che lo attrae». Nel caso del Sole, Von Soldner calcolò in circa 0,84 secondi d’arco l’an-
golo della deviazione. Un fenomeno tanto suggestivo si sarebbe potuto vedere dalla Terra? «Se fosse possibile osservare le stelle fisse molto vicine al Sole, dovremmo prendere in considerazione questo effetto. Eppure, giacché è ben noto che così non accade, dovremo ignorare la perturbazione del Sole». Durante il XIX secolo, la teoria corpuscolare della luce perdette progressivamente appeal in favore dell’ipotesi ondulatoria, tanto che la congettura di Von Soldner, impossibile da verificare con i mezzi dell’epoca, fu presto dimenticata. Nel giugno del 1911, partendo da alcuni presupposti teorici molto diversi e senza conoscere l’opera di Von Soldner, Einstein resuscitò l’idea nel suo articolo L’influenza del campo gravitazionale sulla propagazione della luce, nel quale raggiunse un valore praticamente identico: 0,83 secondi d’arco. La sua conclusione, però, differiva diametralmente da quella dell’astronomo: Dato che durante le eclissi totali di Sole le stelle fisse diventano visibili nelle regioni del cielo vicine al Sole, questa conseguenza della teoria può essere verificata mediante una prova sperimentale [...]. Sarebbe auspicabile che gli astronomi prestassero attenzione alla questione qui riportata, sebbene possa sembrare che le riflessioni sopra annotate manchino di sufficiente fondamento o, addirittura, siano stravaganti.
Tre anni dopo che Einstein rese pubblica la sua sfida sugli Annalen der Physik, gli almanacchi astronomici del 1914, un anno che sarebbe stato carico di eventi, fissarono per il 21 agosto un’eclissi che presentava tutti i requisiti per effettuare la verifica. l e sc a l e del mond o
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Erwin Freundlich (1885-1964), giovane astronomo di Wiesbaden, si affrettò a raccogliere il guanto di sfida, ma la Prima Guerra Mondiale rovinò la sua spedizione in Crimea. La Germania dichiarò guerra alla Russia il 1 agosto e, come rappresaglia, i soldati dello zar catturarono il gruppo di astronomi tedeschi le cui aspirazioni scientifiche furono interpretate come una grossolana copertura per attività di spionaggio. «Il mio buon amico, l’astronomo Freundlich – si lamentava Einstein in una lettera a Ehrenfest – invece di portare avanti esperimenti su un’eclisse di Sole in Russia, dovrà sperimentare di persona la prigionia in quel Paese». Nonostante l’antimilitarismo dello scienziato, le truppe zariste gli stavano quasi facendo un favore. La sua teoria non era ancora in condizioni di superare l’esame dei cieli. Invece di confermare la relatività, le osservazioni di Freundlich l’avrebbero confutata. Nella sua famosa conferenza del 25 novembre 1915, Einstein aveva dedotto, a partire dall’equazione di campo corretta, una seconda stima che si allontanava nettamente da quella di Von Soldner: 1,7 secondi d’arco. La disparità forniva ora un’eccellente base per confrontare la visione relativista della gravità con quella classica newtoniana. Arthur Eddington (1882-1944), direttore dell’Osservatorio di Cambridge, superò in questa occasione Freundlich, che era intanto tornato in Germania a seguito di uno scambio di prigionieri. L’inglese era convinto di avere un appuntamento con il destino il 29 maggio 1919: L’effetto della curvatura influenza le stelle vicine al Sole e, quindi, l’unica opportunità di effettuare questa osser-
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vazione è durante un’eclissi totale, quando la Luna sospende la propria accecante luce. Anche allora una grande quantità di luce passa dalla corona solare e si estende lontano dal disco. Pertanto è necessario considerare stelle che brillino abbastanza vicine al Sole e che non svaniscano nello splendore della corona. [...] Un astronomo che consultasse oggi le stelle annuncerebbe che la data più favorevole dell’anno per calcolare la luce è il 29 maggio. Il motivo è che il Sole, nel suo percorso annuale attorno all’ellissi, attraversa campi stellari di diversa ricchezza, ma il 29 maggio si trova nel mezzo di una porzione assolutamente eccezionale di stelle brillanti, una sezione delle Iadi, di gran lunga il miglior campo di stelle disponibile.
La spedizione scientifica organizzata dall’Università di Cambridge e dalla Regia Società Astronomica per coprire l’eclissi si divise in due gruppi attorno al circolo dell’equatore. Uno, a sud, si diresse verso la città brasiliana di Sobral, l’altro, a nord, all’Isola del Principe, davanti alla costa della Guinea. Come molte spedizioni, anche questa fu sul punto di essere annullata per il mal tempo. La mattina dell’eclissi, invece del Sole, Eddington si trovò di fronte una moltitudine di nubi e un diluvio. Alle tredici e trenta il sole si affacciò timidamente, ma le nuvole si comportavano come un sipario che si alzava e si abbassava, coprendo e scoprendo lo scenario dove sarebbe stata giudicata la teoria della relatività. Quando la luna iniziò a coprire il sole, Eddington si concentrò sulla frenetica impressione di una lastra fotogra-
Descrizione delle osservazioni di Crommelin a Sobral apparse sull’Illustrated London News il 22 novembre 1919. THE ILLUSTRATED LONDON NEWS
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Posizione apparente
Terra
Posizione reale
Sole
2°
1°
2°
1°
1°
2°
1°
2°
La massa del Sole curva in modo significativo la luce che passa nelle sue vicinanze, facendo sì che alcune stelle sembrino occupare posizioni diverse da quelle reali, come si evidenzia nella rappresentazione della figura 1. Questo fenomeno si nota chiaramente mediante la sovrapposizione di due immagini dello stesso campo stellare, con e senza eclissi, scattate nel 1922 e che sono rappresentate nella figura 2. Ogni freccia collega la posizione reale di una stella (il punto) con la posizione apparente (la punta).
fica dopo l’altra. Aveva a disposizione solo cinque minuti. Guardando il cielo, a volte vedeva l’eclissi, altre volte le nubi. Fra le sedici immagini che scattò dell’ammasso stellare delle Iadi, solo due sembravano utilizzabili. Corse subito a 108
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svilupparle, attanagliato dall’inquietudine: cosa era successo a Sobral? Secondo il racconto di Andrew Crommelin, responsabile della spedizione brasiliana, il clima si rivelò snervante, ma «una schiarita fra le nubi si aprì in prossimità del sole ap-
pena in tempo e, per quattro dei cinque minuti di oscuramento, il cielo attorno al sole rimase completamente terso». Eddington giocò un po’ a favore della relatività, manipolando i dati e confrontando le fotografie con altre dello stesso campo stellare scattate una notte di inverno in Inghilterra, quando il Sole non sviava la luce dalle Iadi. Dopo aver scartato i dati che più si allontanavano dalle sue aspettative, imputando le loro devianze a diversi difetti strumentali, considerò valida una deviazione di 1,7 secondi d’arco. Alcuni inglesi giudicarono l’esperimento come una continuazione della guerra con altri mezzi, un duello fra il loro grande genio nazionale, Isaac Newton, e un tedesco, per quanto poco Einstein potesse considerarsi tale (e per quanto ancora meno tedesco lo considerassero i suoi connazionali). Il 6 novembre del 1919 una riunione congiunta della Società Astronomica Reale e della Royal Society a Londra concluse che l’analisi delle fotografie certificava la predizione della relatività generale. Se la prima spedizione di Freundlich fu organizzata con un pessimo tempismo, tanto storico quanto scientifico, la seconda fece centro in entrambi i bersagli. Con grande sorpresa di tutti, una notizia scientifica era considerata degna della prima pagina dei principali quotidiani, da dove si scatenò un terremoto senza precedenti nell’opinione pubblica. Scorrendo i titoli dell’epoca, leggiamo: «Trionfa la teoria di Einstein» (The New York Times), «Rivoluzione nella scienza», «Confutate le idee newtoniane» (The Times), «Una nuova importante figura nella storia mondiale: Albert Einstein» (Berliner Illustrirte). Le masse non tardarono a ra-
tificare la canonizzazione del fisico sugli altari della scienza. La convalida della teoria non elevò solo lo sguardo di giornalisti e lettori verso il firmamento, ma anche quello degli scienziati. È vero che l’equazione di campo poteva essere applicata a qualunque gruppo di masse, ma il cosmo sembrava l’ambiente naturale della relatività. I suoi effetti passavano inosservati nella danza atomica dei nuclei e degli elettroni, ma si manifestavano in tutto il loro splendore fra stelle e galassie. Lì si sarebbe aperto il primo atto della meccanica post-newtoniana.
La luce, prigioniera dell’oscurità
Nel suo duello con Hilbert, Einstein aveva presentato la sua equazione con tre casi particolari, alla ricerca di una rapida conferma sperimentale: il calcolo di un’anomalia nell’orbita di Mercurio, insieme alla deviazione di un raggio di luce e allo spostamento verso il rosso (un effetto che spiegheremo più avanti), entrambi per cause gravitazionali. Fu una corsa contro il tempo, nella quale Einstein si limitò a estrapolare soluzioni approssimative. La sua teoria attirò improvvisamente l’attenzione di altri e smise di essere solo il suo passatempo. Il primo a fornire una soluzione esatta fu un astronomo, Karl Schwarzschild (1873-1916), che si allontanò così dagli orrori del fronte russo dove lo aveva condotto il suo fervore patriottico. Schwarzschild aveva l’astronomia nel sangue: pubblicò il suo primo articolo, sull’orbita delle stelle doppie, a sedici anni, quando era ancora uno studente delle superiori. l e sc a l e del mond o
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Tre giorni prima del Natale del 1915, scriveva a Einstein per mostrargli i suoi calcoli sulle anomalie dell’orbita di Mercurio: «Vede che, nonostante il fuoco serrato dei cannoni, la guerra mi tratta con sufficiente clemenza da consentirmi di evadere da tutto questo e di passeggiare per la terra delle sue idee». Schwarzschild cercò di plasmare nel dettaglio la versione relativista di una stella. Per semplicità la considerò sferica e statica. Per prima cosa calcolò la curvatura spazio-temporale nei pressi del corpo celeste e, in seguito, si gettò all’osservazione della matematica al suo interno. Riuscì a determinare la distorsione che introduceva la massa stellare nel tessuto dello spazio-tempo. Comprese che il tempo fluisce più lentamente man mano che ci si avvicina alla massa, pertanto all’aumentare dell’intensità del campo gravitazionale, una tendenza che si mantiene dopo averne attraversato la superficie, diretti verso il centro. Una manifestazione osservabile di questo fenomeno è che la luce che emette la stella è interessata da ciò che si conosce come spostamento verso il rosso. Studiando la materia, riscontriamo che l’attività dei suoi elettroni genera radiazioni elettromagnetiche sotto forma di onde di diverse lunghezze. Così come la luce del Sole si divide nei colori dell’arcobaleno, è possibile analizzare una radiazione qualunque e spiegarne i suoi componenti. Grazie a un apposito apparecchio siamo in grado di stampare l’impronta luminosa della materia e la sua registrazione è nota con il nome di spettro. Grazie agli spettri atomici possiamo determinare la composizione di una stella analizzando la luce che ci 110
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arriva dalla stella stessa. Le equazioni di Schwarzschild indicavano che, per un atomo situato sulla superficie di una stella, il tempo trascorre più lentamente che per un altro atomo dello stesso elemento sulla Terra (dal punto di vista di un osservatore che si trovi sul nostro pianeta). Pertanto, le loro scale di tempo non coincidono (figura 1). Questa differenza influenza la nostra percezione della radiazione stellare. Sebbene per ogni sistema di riferimento (quello vicino alla stella e alla Terra) atomi uguali generino, alla stessa temperatura, spettri identici, per gli astronomi terrestri le onde emesse vicino alla stella si registrano con periodi (T) più lunghi (figura 2). Il periodo è, per essere esatti, l’inverso della frequenza (T = 1 / ν). Man mano che cresce T, diminuisce v, e ciò significa che le onde che compongono l’impronta dell’elemento sono ricevute con una frequenza più corta. All’interno dello spettro visibile, la luce con minore frequenza è quella rossa. Per estensione, si dice che la distorsione gravitazionale della massa stellare sposta la radiazione verso il rosso. Questo effetto si accentua con l’intensità del campo gravitazionale. Quanto più compatta e massiccia è la stella, più pronunciato sarà lo spostamento verso il rosso, un indicatore che il tempo trascorre più lentamente nelle sue vicinanze. Portando la situazione all’estremo, troveremo che, per una densità critica, il tempo finisce per fermarsi e lo spostamento verso il rosso aumenta in modo esponenziale, fino ad annullare lo spettro. Schwarzschild giudicava questo limite come un’illusione matematica senza corrispondenza nella realtà. Era ignaro di stare scrivendo per la prima volta di una
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T FIG. 1
FIG. 2
Confronto delle scale di tempo sulla superficie della stella e sulla superficie terrestre. La disparità è dovuta al fatto che l’intensità del campo gravitazionale è superiore vicino alla stella rispetto che al nostro pianeta.
peculiarità astronomica che avrebbe affascinato l’immaginazione dei fisici (e degli appassionati di fantascienza): un buco nero. Il termine sarebbe stato coniato da John Wheeler mezzo secolo dopo, durante una conferenza all’Istituto Goddard di Studi Spaziali della NASA nell’autunno del 1967. Einstein fu entusiasta del lavoro di Schwarzschild, ma l’impressionante incursione dell’astronomo nella relatività generale fu una stella cadente che si spense con la guerra. Una malattia autoimmune della pelle strappò Schwarzschild alle trincee e lo riportò a Potsdam, per mettere fine alla sua vita nei pressi dell’osservatorio che ave-
va diretto prima di arruolarsi volontario nell’esercito. Dopo aver soppesato la questione, Einstein concluse che «le peculiarità di Schwarzschild non esistono nella realtà fisica». Le sue obiezioni, tuttavia, contenevano delle lacune. Nella conferenza nella quale battezzò i buchi neri, Wheeler non solo accettava la loro possibile esistenza, ma fece inoltre una vivida e plausibile descrizione della loro traumatica nascita. Quando il combustibile nucleare di una stella si esaurisce, questa si trova davanti a un bivio. La sua sorte dipende quindi da una serie di variabili, fra le quali la sua l e sc a l e del mond o
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massa iniziale. Può verificarsi che la sua già ridotta energia radiante non basti per sostenere la sua massa e che questa le cada addosso, provocando una drastica contrazione. […] a causa di un’implosione sempre più rapida, [la superficie della stella che collassa] si allontana dall’osservatore con maggiore rapidità. La luce si sposta verso il rosso. Diventa più debole millisecondo dopo millisecondo e, in meno di un secondo, troppo scura per poterla vedere... [La stella], come il Ghignagatto, sparisce dalla vista. Uno lascia dietro di sé solo il suo sorriso, l’altra l’attrazione gravitazionale.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come il grado di curvatura in una regione dello spazio-tempo rifletta il suo contenuto di materia. La densità di un buco nero equivale a schiacciare la massa del Sole all’interno di uno spazio grande la metà dell’isola di Manhattan. Una tale concentrazione forza il tessuto spazio-temporale fino a limiti che Schwarzschild ed Einstein si arrischiavano a considerare solo nei loro quaderni di equazioni. Eppure l’universo è risultato essere molto più estremo di quanto osassero sognare i patriarchi della relatività. In prossimità di un buco nero si moltiplica la frenata temporale che si apprezzava già nelle vicinanze della superficie di una stella. In altre parole, avvicinandoci al suo orizzonte con cautela entriamo in un film girato al rallentatore e, allontanandoci, possiamo essere proiettati a migliaia di anni nel futuro. I buchi neri non lasciano traccia in nessuno spettro e, perciò, al fine di localizzar112
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li è necessario applicare la stessa strategia impiegata per dare la caccia all’uomo invisibile: abbassare lo sguardo per scoprire le sue orme nella neve. Sebbene non ci siano prove dirette della loro esistenza, i telescopi rilevano perturbazioni gravitazionali nella danza delle stelle e delle galassie che rispondono in modo mirabile alla loro teorica influenza. Sembra ironica la sospettosità di Einstein nei confronti dei buchi neri, dato che, come sottolineava Freeman Dyson: «Sono gli unici luoghi dell’universo dove la teoria della relatività si manifesta in tutta la sua potenza e splendore». Lo spostamento del perielio di Mercurio o i buchi neri mostravano angoli suggestivi del cosmo relativista, ma non consentivano di concentrarsi sui dettagli. Dato che le equazioni di campo si potevano applicare a qualunque gruppo di masse, si era tentati di inglobare nel termine Tμv tutta la materia e l’energia dell’universo per vedere cosa sarebbe successo. Ancora una volta Einstein fu il primo a lanciarsi in questo audace tentativo, tagliando il traguardo che inaugurò la cosmologia moderna. Si doveva confrontare con uno scenario tanto smisurato che dovette affrontare il tema partendo da approssimazioni. Sin da subito, dovendo contemplare la massa dell’universo, socchiuse gli occhi e suppose una distribuzione continua della materia. Considerò di fatto, inoltre, che qualunque punto o direzione dell’universo fosse fondamentalmente equivalente agli altri (condizioni di omogeneità e isotropia). Nel 1917, quando costruì il suo modello, l’immagine che aveva del cosmo si riduceva a un’istantanea della Via Lattea.
LENTI GRAVITAZIONALI Nel 1936, Rudi Mandl, ingegnere e scienziato dilettante di origini ungheresi, pensò che, se le grandi masse deviavano i raggi luminosi, potevano agire anche come una lente, concentrando la luce in un punto. Nel caso di due stelle convenientemente allineate con la Terra, poiché il corpo celeste centrale è estremamente grande, quest’ultimo si comporterebbe esattamente come una lente di ingrandimento, materializzando davanti agli osservatori terrestri un’immagine della più lontana. Einstein aveva preso in esame la stessa nozione nel 1912, ma l’aveva scartata, pensando forse che l’effetto non sarebbe stato rilevabile. Spronato dall’entusiasmo di Mandl, ripeté i calcoli vent’anni dopo e pubblicò una piccola nota sulla rivista Science. Nell’ultimo paragrafo adottava il tono scettico di Von Soldner, convinto che non vi fossero «molte opportunità di apprezzare questo fenomeno». Un pessimismo ragionevole negli anni Trenta, ma non nel 1979, quando Dennis Walsh, Robert Carswell e Ray Weymann identificarono, nell’Osservatorio di Kitt Peak, nel deserto dell’Arizona, le prime immagini generate da una lente gravitazionale. Le lenti gravitazionali creano in genere immagini multiple e altre distorsioni ottiche, come archi, aloni e croci. Il disegno mostra una galassia che si comporta come una lente gravitazionale: nonostante si interponga sulla sua linea di visione, produce due immagini sfalsate di un quasar molto lontano.
Posizione apparente del quasar
Quasar Linea della visuale Terra
Posizione apparente del quasar
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Un colossale arcipelago di stelle arenato nel vuoto. Introducendola nell’equazione di campo, tuttavia, la foto risultava mossa. Le masse non tardavano ad abbandonare le loro posizioni fisse, spinte dalle reciproche attrazioni gravitazionali che le avvicinavano le une alle altre. Per rimediare al collasso che si scatenava davanti a lui, Einstein inserì un nuovo termine nell’equazione di campo: la costante cosmologica che interpretava il ruolo di una forza repulsiva su scala cosmica. Il significato fisico di questo escamotage matematico restava oscuro, dato che il suo unico scopo era garantire ad hoc un universo statico. Per il resto, il modello presentava la fattura rivoluzionaria di Einstein. Scelse l’universo piatto di Newton, lo ritorse e lo chiuse su se stesso, trasformandolo nella superficie di un’ipersfera (una sfera a quattro dimensioni). L’esempio classico per visualizzare l’operazione è il materiale plastico di un palloncino gonfiato ad aria. Gli ipotetici abitanti in piano della sua superficie sarebbero immersi in uno spazio finito, ma senza limiti, dato che potrebbero camminare senza sosta in qualunque direzione, tornando più e più volte al punto di partenza, senza mai incontrare una frontiera. Nel caso del nostro universo, lo spazio tridimensionale equivale alla plastica e si chiude su se stesso proprio come un palloncino. Una nave spaziale che mantenesse la rotta finirebbe per circumnavigare l’universo e tornare al punto di partenza. Nel 1930 Eddington dimostrò che la costante cosmologica non serviva neppure per confutare l’espansione. Da un punto di vista matematico, l’universo di Einstein era in equilibrio precario, come il bastone sulla punta del naso 114
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di un equilibrista. La più piccola perturbazione lo spingeva verso l’espansione o la contrazione. Durante i decenni seguenti, man mano che si raffinavano le tecniche di osservazione, lo scenario astronomico crebbe in modo esponenziale. Oltre le frontiere della nostra galassia, l’universo continuava. Nel 1929, Hubble avvertì che, quanto più una galassia era distante da noi, più rapidamente si allontanava. La sua velocità non deve essere interpretata come uno spostamento attraverso lo spazio, ma come una dilatazione dello spazio stesso. Recuperando la similitudine del palloncino, se lo gonfiamo, un punto sulla superficie si allontanerà da quelli vicini, sebbene lo stesso non si stia spostando su tale superficie. Allo stesso modo, ciò che osserviamo nel firmamento è una composizione del movimento proprio dei corpi celesti sommato all’espansione dello spazio. A seguito di questa combinazione possiamo riscontrare che alcune galassie si avvicinano alla Via Lattea, come nel caso di Andromeda. Il quadro delle galassie in fuga dipinto da Hubble mal si conciliava con l’immagine statica di Einstein. Per sua fortuna, nel 1922, il fisico sovietico Alexander Friedmann (1888-1925) aveva dimostrato che per un universo omogeneo e isotropo le equazioni di campo, lasciate libere, consentivano sia un’espansione sia una contrazione. Non era più necessario assegnare proprietà esoteriche allo spazio per evitarne il collasso: l’attrazione gravitazionale si limitava a frenarne l’espansione. «Mentre discutevo di problemi di cosmologia con Einstein – raccontava George Gamow
nella sua autobiografia – affermò che l’introduzione del termine cosmologico era stato il più grande errore della sua vita». Eppure, come un film del terrore, la costante cosmologica sorprese gli astronomi con un ritorno vendicativo. Alla fine degli anni Novanta si costatò che, in realtà, l’espansione dell’universo sta accelerando, un vero rompicapo per i fisici teorici che resta ancora senza soluzione.
Il lato oscuro della luce
Durante gli spensierati anni Venti, mentre diventava un assiduo praticante della sua nuova teoria della gravitazione, Einstein fu molto coinvolto nel dibattito aperto in materia di meccanica quantistica. A differenza della relatività, questa teoria fu il risultato dello sforzo collettivo di decine di fisici, pertanto non si apprezza nella sua creazione la medesima coerenza. La sua stessa natura sembrava sfidare qualsiasi immaginazione formatasi nella fisica classica, fino al punto che un modo di interpretarla risultava tanto importante, se non più importante, di un risultato sperimentale. Molti dei suoi artefici coniarono qualche frase ingegnosa con la quale dare sfogo al loro sconcerto. Per Niels Bohr: «Chi non si commuove conoscendo per la prima volta la meccanica quantistica è impossibile che l’abbia compresa». Da parte sua, Schrödinger sembrava vergognarsi del suo contributo: «Non mi piace e mi dolgo di averci avuto a che fare». Einstein, particolarmente dotato per gli aforismi, gliene dedicò abbastanza da scrivere un libro. La maggior parte non sono molto lusinghieri: «Più successo ottiene la teoria quantistica, più sembra ridicola».
Se riuscì a imporsi contro i suoi detrattori, tra le cui file si contavano persino alcuni dei suoi pionieri, fu grazie alla sua implacabile efficacia, la sua capacità di organizzare logicamente le nuove scoperte e di realizzare predizioni sperimentali con un grado di precisione inusitato. Poche teorie potevano affermare di dare conto, secondo Paul Dirac, «di gran parte della fisica e di tutta la chimica». Se dovessimo indicare una fissazione di Einstein, un feticcio scientifico, potremmo scommettere sulla luce. Fu la luce ad alimentare il primo slancio ispirato, il tentativo di raggiungere un raggio luminoso. La conferma della sua deriva rispetto alla massa del Sole gli conferì lo status di mito vivente. Ben lungi dal considerare il tema esaurito, Einstein si avventurò anche nel lato più oscuro, quantistico, della luce. Possiamo dire che questa illuminò, attraverso lo scienziato, le due grandi costruzioni fisiche del XX secolo: la relatività e la meccanica quantistica. Tutto ebbe inizio quando Max Planck postulò che la materia emettesse e assorbisse la radiazione elettromagnetica sotto forma di pacchetti discreti (quanti) di energia. Lo scambio energetico non funzionava come la divisione di una torta che si poteva tagliare in porzioni arbitrariamente piccole. La natura imponeva un limite a partire dal quale non era possibile trasferire quantità più piccole. Einstein si spinse un passo oltre con questa ipotesi e propose che fosse la radiazione stessa che, anche quando si propagava liberamente attraverso lo spazio, lontano dai corpi, lo facesse sotto forma di «un numero finito di quanti di energia». l e sc a l e del mond o
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Einstein non era a suo agio con la continuità del campo elettromagnetico di Maxwell e la natura discreta, puntiforme, dei componenti della materia, a prescindere che fossero atomi o molecole. Uniforme e graduale contro improvviso e frammentario; erano tasselli che non combaciavano. Suggerì che, applicando una lente di ingrandimento quantica alle onde elettromagnetiche, si sarebbero frammentate in un’infinità di piccole unità, come una fotografia che si divide in un miliardo di pixel quando l’occhio si avvicina allo schermo del computer. Per molto tempo l’establishment della scienza ignorò con tatto questa ipotesi. Nella lettera rivolta nel 1913 da Nernst e Planck all’Accademia Prussiana delle Scienze per sostenere la candidatura di Einstein, si profusero in elogi, scusandosi, tuttavia, che, a volte, avesse potuto «spingersi troppo oltre con le sue speculazioni, come, per esempio, nella sua ipotesi del quanto di luce». Il problema in questo caso, come per la relatività, è che molte delle sue congetture anticipavano considerevolmente le evidenze sperimentali. Davanti allo scetticismo generale, Einstein, come era solito fare, continuò per la sua strada. Nel 1916 si dedicò a un’idea che gli ronzava in testa da quasi un decennio: che la parcellizzazione dell’energia si manifestasse sotto forma di particelle dotate di momento (una grandezza fisica vettoriale che si ottiene moltiplicando la massa di un corpo per la sua velocità). I quanti di luce, pertanto, si comportavano come proiettili di energia, i fotoni, che potevano ad esempio scontrarsi con gli elettroni e farli deviare dalla loro traiettoria. 116
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Sette anni dopo la sua ipotesi fu confermata in laboratorio da Arthur Compton (1892-1962). L’idillio con la meccanica quantistica risultò effimero, dato che la palla di neve sospinta da Bohr, Heisenberg e Born rotolava già a valle. Senza quasi scomporsi, Einstein passò dal favorire un atteggiamento eccessivamente ardito a un altro estremamente conservatore.
«Devo sembrare una specie di struzzo che nasconde sempre la testa nella sabbia relativista per non affrontare quei malvagi dei quanti.» Einstein, in una lettera al fisico Louis de Broglie
Parlando di buchi neri, abbiamo visto come la radiazione elettromagnetica servisse a identificare gli atomi che la emettono. Gli spettri atomici offrivano uno strumento di analisi inestimabile ai fisici, a costo di porre loro numerose domande imbarazzanti. Per iniziare, da cosa derivava ogni modello? Che tipo di struttura soggiacente lo generava? Dopo molti tentativi ed errori, il matematico svizzero Johann Balmer compose una formula che forniva le frequenze della luce che emetteva l’idrogeno, senza riferirsi però ad alcun modello teorico. Nel marzo del 1912, Niels Bohr, giovane fisico danese, arrivò all’Università di Manchester, allontanato da Cambridge, per chiedere asilo al Schuster Laboratory. Il suo direttore, Ernest Rutherford (1871-1937), non tardò ad apprezzare la
Salto dell’elettrone Fotone E2
E1 Nucleo
FIG. 3
Salto dell’elettrone Fotone
E2
E1 Nucleo FIG. 4
Salto di un elettrone da un livello di energia (E1) a un altro più alto (E2), con l’assorbimento di un fotone (figura 3). Salto di un elettrone da un livello di energia (E2) a un altro più basso (E1), con l’emissione di un fotone (figura 4).
sua mente aperta al paradosso che funzionava come un rullo compressore: pesante, lenta, ma dalla forza demolitrice. Appassionato della moda dei quanti di Planck ed Einstein, Bohr delineò le orbite degli elettroni, decretando che girassero unicamente a determinate distanze dal nucleo. A ogni orbita corrispondeva un valore o un livello di energia. Gli elettroni potevano solo passare da un circolo all’altro, emettendo o assorbendo nel processo pacchetti di energia. Tali pacchetti erano i quanti della radiazione elettromagnetica: i fotoni di Einstein.
La differenza di energia fra i due livelli coinvolti in un salto corrispondeva alla carica energetica di ogni pacchetto. Possiamo immaginare che la struttura interna di ogni elemento eriga il proprio anfiteatro di energie, con gradini ad altezze diverse, mentre i loro elettroni saltano da uno all’altro, assorbendo ed emettendo i fotoni che caratterizzano il suo spettro. In questo modo, i modelli che si notavano nella radiazione rispecchiavano l’architettura degli atomi (figure 3 e 4). Facendo riferimento all’articolo originale di Bohr, il fisico Alan Lightman l e sc a l e del mond o
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sottolinea come la vaghezza quantistica si infiltrasse già nel linguaggio degli scienziati: Desta particolare attenzione che Bohr descriva gli elettroni che «passano» da un’orbita all’altra, sebbene non possa apportare alcuna immagine fisica di ciò che significa questo verbo. La sua interpretazione suggerisce che l’elettrone non può occupare lo spazio fra le orbite in nessun modo conosciuto. In caso contrario irradierebbe continuamente energia. In un certo modo l’elettrone può iniziare a un livello di energia, che corrisponde a un’orbita, e, improvvisamente, riapparire in un’altra orbita con un altro livello di energia. Ho appena impiegato il termine «riapparire». Bohr utilizza la parola «passare». Alcuni scienziati usano «saltare». In realtà, però, non abbiamo a disposizione il vocabolario appropriato per descrivere un fenomeno simile, dato che tutto il nostro vocabolario proviene dall’esperienza umana del mondo.
Il modello di Bohr si adattava come un guanto all’atomo più semplice, l’idrogeno. Man mano che incorporava più elettroni, tuttavia, e nonostante continuasse a gettare luce sulla stabilità e sul comportamento chimico degli elementi, diventava evidente che non era alla fine del suo percorso, ma solo in una stazione di transito. Bohr aveva messo sul tavolo un’immagine chiara dell’atomo, ma lasciava troppe domande senza risposta. Ad esempio, i fotoni erano emessi con una direzione e in momenti precisi. Cosa determinava entrambi? Perché circolando per le orbite permesse l’elet118
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trone non irradiava energia e lo faceva invece quando saltava? Il modello era un ibrido tra fisica nuova e tradizionale. Werner Heisenberg (1901-1976) arrivò alla conclusione che il suo punto di forza era proprio la sua stranezza e che ciò che lo limitava era quanto aveva mantenuto ancora di classico. Per progredire doveva diventare ancora più strano. La sovversiva visione di Heisenberg fu forgiata come vetta di un processo febbrile. In piena estate del 1925 egli si era rifugiato nell’Isola di Heligoland, nel Mare del Nord, vittima di un grave attacco allergico. In assenza di antistaminici, che non erano ancora stati scoperti, combatteva la rinite riflettendo sulla costruzione della relatività speciale. Einstein aveva rifiutato qualunque concetto che non corrispondesse a fenomeni osservabili, per intuitivi che risultassero a prima vista, come nel caso della simultaneità. Heisenberg decise di far proprio questo programma fino alle estreme conseguenze. Certo, si potevano contemplare spettri atomici, ma qualcuno aveva mai sorpreso un elettrone nel pieno di un salto da un’orbita all’altra? Le traiettorie di Bohr, con un raggio e un periodo determinati, non erano osservabili, quindi mancavano di senso. Il suo impeto distruttore («Investo tutte le mie energie nell’annichilire la nozione di orbita») gettò le basi sulle quali si sarebbe poggiata la nuova teoria: il principio di indeterminazione. Per Heisenberg i fenomeni naturali su scala atomica «si potevano comprendere solo lasciando da parte, per quanto possibile, qualunque descrizione visiva».
Max Planck consegna a Einstein la medaglia che porta il suo nome in questa fotografia del 28 giugno 1929. Furono i primi due a ricevere l’ambito riconoscimento, creato per premiare conquiste eccezionali nel campo della fisica. CORBIS
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Dopo aver scartato le immagini, cercò di costruire una struttura logica i cui unici mattoni fossero grandezze misurabili in laboratorio. Per analizzare la materia non restava altro che interagire con essa. La domanda che ci pone il mondo quantistico è fino a che punto questo intervento influenza il fenomeno che pretenderemmo di osservare, se non lo modifica l’atto stesso della misurazione, alterando l’informazione che avevamo creduto di estrarre. Con una similitudine, per farci un’idea del rilievo di una statua, possiamo sparare proiettili di gomma che rimbalzino perfettamente contro diversi punti della sua superficie, analizzando quindi in quale direzione sono stati sviati. Per iniziare, i proiettili non sviati forniranno una buona stima del volume della statua. Se utilizziamo palloni da spiaggia, saremo in grado solo di ottenere una rappresentazione molto approssimativa. Potremo dire, al massimo, se la figura è in piedi o seduta o se aveva un braccio steso. Man mano che si riduce la dimensione dei proiettili, aumenterà il numero dei dettagli. In tal caso risulterà critica la relazione fra curvatura dei pallini che lanciamo e quella dei dettagli che desideriamo verificare. I fotoni della luce visibile sono molto più piccoli degli oggetti che vediamo e sono morbidi, alterano appena la disposizione globale della materia mentre interagiscono con essa. Non conviene utilizzare la similitudine alla lettera, perché la luce non rimbalza. I fotoni che colpiscono un oggetto non sono gli stessi che ci giungono dallo stesso, ma lasciamo da parte questo tipo di 120
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disquisizioni dato che intendiamo farci solo un’idea intuitiva del processo. Su scala atomica, i proiettili che prima ci sembravano piccoli acquisiscono la stessa portata e costituzione di ciò che intendevamo studiare attraverso di essi. Se provassimo a lanciare fotoni a bassa energia e notevole lunghezza d’onda per localizzare un elettrone, ad esempio, staremmo lanciando palloni da spiaggia grandi come la statua. Per aumentare la precisione non resta che aumentare l’energia del fotone e ciò comporta un indurimento dei proiettili. Proprio quando iniziamo a distinguere i primi dettagli, i pallini acquisiscono la durezza sufficiente per rompere la statua. La loro deviazione non è più frutto di un rimbalzo classico, che fornisce dati sul rilievo, ma del processo di frammentazione della figura. Il nostro impegno per l’osservazione altera completamente il fenomeno. Il limite della precisione risulta inerente al procedimento dato che utilizziamo onde e particelle come sonde per studiare onde e particelle e le une si ripercuotono sulle altre. Per peggiorare la situazione, non è neppure chiara la frontiera che le separa, dato che una particella può comportarsi come un’onda e viceversa. A prescindere dalla natura delle entità quantistiche, non si può attribuire loro la semplice etichetta di «onda» o «particella», potendo essere entrambe in base alle circostanze. Con le leggi classiche alla mano, se abbiamo un elettrone e conosciamo in un istante dato la sua posizione e velocità (un vettore che segnala verso dove si sposterà in seguito), potremo disegnare la sua traiettoria. Heisenberg affermava che
UN EINSTEIN non da meno Le opere minori di Einstein lo sono unicamente per confronto, messe in ombra dalla relatività. Qualunque fisico avrebbe firmato i lavori seguenti dove, ancora una volta, la grande protagonista era la luce: - Dirigendo un fascio luminoso contro una lamina metallica si liberano elettroni. Nel 1902 Philipp Lenard (1862-1947) scoprì che la velocità delle particelle emesse aumentava con la frequenza della luce incidente, ma non con la sua intensità. Einstein spiegò il mistero, denominato «effetto fotoelettrico», supponendo che la luce si componesse di quanti. La carica energetica che trasporta ogni fotone dipende dalla frequenza, ma un aumento dell’intensità del fascio di luce si traduce semplicemente in un maggior numero di fotoni che raggiungono con la stessa energia più elettroni.
Philipp Lenard
- Gli elettroni interagiscono con i fotoni salendo e scendendo la scala energetica in modo spontaneo. Nel 1917 Einstein contemplò la possibilità di forzarne l’emissione. Indicò due requisiti: un atomo con un elettrone eccitato (in condizione di scendere a uno scalino più basso) e un fotone la cui carica energetica coincidesse con l’altezza dello scalino. Sparando il fotone contro l’atomo, questo avrebbe risposto emettendo due fotoni con la stessa direzione ed energia. Gettò così le basi per l’emissione stimolata della luce, in inglese stimulated emission of radiation (SER). Si doveva solo rafforzare l’effetto e amplificare la luce, light amplification (LA), per inventare il laser. - Nel 1924 Einstein ricevette l’articolo di un fisico di Calcutta, Satyendra Nath Bose (1894-1974), nel quale quest’ultimo sviluppava un modo oriSatyendra Nath Bose ginale per descrivere statisticamente la luce (nella foto, lo scienziato nel 1925). Bose evidenziava il fatto che i fotoni, al contrario degli elettroni, potevano arrivare a perdere la loro identità individuale. Einstein considerò la possibilità che un gas presentasse lo stesso comportamento. Abbassando la sua temperatura fino allo zero assoluto, gli atomi si sarebbero spogliati dell’unica caratteristica capace di distinguerli, l’energia, dando luogo a un nuovo stato della materia: i condensati di Bose-Einstein, che si comportano all’unisono come un superatomo. Nel 1995 essi presero corpo in laboratorio.
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si doveva abbandonare questa pretesa in ambito atomico: La risposta più evidente alla questione di come sia possibile osservare l’orbita di un elettrone nel suo percorso all’interno dell’atomo è forse quella di utilizzare un microscopio con un potere di risoluzione molto elevato. Dato che il campione per questo microscopio dovrebbe essere illuminato con luce a una lunghezza d’onda estremamente corta, però, il primo quanto della luce della fonte luminosa che raggiungesse l’elettrone e penetrasse nell’occhio dell’osservatore spingerebbe l’elettrone completamente fuori dalla sua orbita [...]. Sarebbe quindi possibile osservare a livello sperimentale solo un punto della traiettoria per volta.
Se non si possono tracciare traiettorie mediante un esperimento, non si possono introdurre con rigore nella teoria. La continuità di movimento che ci detta il buon senso è un miraggio, l’osservazione da una grande distanza di uno scenario impreciso per natura. Da vicino, ogni linea perde in definizione e diventa sfocata. Il grande merito di Heisenberg non fu invocare l’incertezza, ma limitarla matematicamente. Rivelò come le principali grandezze osservabili siano segretamente legate: la posizione e il momento, il tempo e l’energia. Quanta più precisione si acquisisce misurando una di esse, più si perde nell’altra. Al limite sarebbe possibile determinare la posizione esatta di un elettrone, se si rinunciasse a sapere alcunché sulla sua velocità. L’atomo diventava sfocato e questo offuscamento sarebbe stato al centro della nuova scienza. 122
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Sebbene molti fisici che parteggiarono per la rivoluzione quantistica lo fecero impiegando lo stile di pensiero che avevano imparato da Einstein, i suoi successi presero in contropiede chi gli era servito di ispirazione. Le traiettorie, le grandi protagoniste della nuova teoria della gravitazione, attraverso le geodetiche, erano ormai il passato. Questo fatto trasformava il principio di indeterminazione in un acerrimo nemico della relatività generale. I fisici che seguirono le orme di Heisenberg, come Born, sottoposero l’incertezza a un rigoroso trattamento statistico. È vero che, prima di misurare, non si può affermare dove si trova un elettrone o quando un atomo eccitato emetterà un fotone, ma le risposte a queste domande non sono comunque arbitrarie. Le regole della meccanica quantistica facilitano la probabilità associata a ognuna delle possibilità e dettano la loro evoluzione con il passare del tempo. Einstein espresse in privato e in pubblico le sue titubanze in merito alla nuova dottrina. Si fece coinvolgere con Bohr nella polemica più esasperata e cordiale che si ricordi nella storia della fisica. Si stavano simpatici, si rispettavano, ma non potevano divergere di più nella loro interpretazione della meccanica quantistica. Quando Einstein arrivava a un punto morto si arroccava su un aforisma («Dio non gioca a dadi»), un atteggiamento che, a volte, strappava Bohr dal suo affabile mutismo («Non stia sempre a dire a Dio cosa deve fare!»). Una questione sostanziale consisteva nel decidere fino a che punto la condizione statistica del mondo quantistico era frutto della mancanza di informazione o era parte della sua natura. Il punto di vista deter-
minista di Newton indicava che, se conoscessimo la posizione e la velocità di tutte le particelle dell’universo, quest’ultimo si comporterebbe come un meccanismo a orologeria la cui destinazione saremmo in grado di stabilire con precisione assoluta. Eppure, nella pratica, risulta impossibile maneggiare un volume di informazioni di questa portata. Qualcosa di simile accade studiando sistemi estremamente complessi, come il clima, dove ricorriamo a una descrizione statistica. Qui l’incertezza non nasce dal cuore dei fenomeni, ma dalla nostra incapacità di elaborarli a un livello determinista. Per Einstein la descrizione quantistica in questo senso risultava incompleta. Secondo il criterio di Bohr, non esisteva un livello più profondo della realtà dove recuperare il determinismo. Solo l’atto di misurare, la scelta di una dimensione osservabile – una condizione che influenza la struttura dell’esperimento – scioglie l’incertezza e concretizza un aspetto: la posizione, ma non il momento; il tempo, ma non l’energia. In gran misura, lo sconcerto davanti al mondo quantistico si presenta cercando di riempire gli interstizi che lascia la sperimentazione su scale atomiche con il buon senso che importiamo dal mondo macroscopico. Con Bohr, Heisenberg e Born la descrizione della realtà poteva risultare sconcertante, ma era finalmente diventata logicamente coerente.
L’esilio dei due mondi
Dato che i paradossi quantistici prendevano d’assalto la fisica, era inevitabile che Einstein ricevesse il premio Nobel non per la teoria della relatività, ma per la sua spiegazione dell’effetto fotoelettri-
co. La sua candidatura fu respinta in ben otto occasioni. Inizialmente pochi degli incaricati di valutare il suo lavoro erano in grado di farlo. Intervenne inoltre l’antipatia personale di alcuni consulenti del comitato, come il Nobel per la fisica del 1905, Philipp Lenard, che considerava la teoria della relatività «una frode giudaica», sebbene nelle sue relazioni mascherasse i pregiudizi razziali dietro ad argomentazioni meno grossolane. Inoltre, gran parte dei fisici che guidavano allora l’Accademia Reale Svedese delle Scienze o erano suoi membri o erano scienziati sperimentali, poco affezionati alla sofisticazione speculativa. Einstein non fu l’unico teorico che l’Accademia mantenne per anni in quarantena prima di assicurarsi di non essere in errore. Procedette con una cautela simile anche nei casi di Planck e Born.
«Una fiducia insensata nell’autorità è il peggior nemico della verità.» Einstein, in una lettera a Jost Winteler
Dopo l’apoteosi dell’eclissi del 1919, era più in dubbio il prestigio del Nobel che quello di Einstein. Alla fine gli svedesi fecero sfoggio della loro proverbiale diplomazia e concessero il premio, ma non per la relatività. Einstein sarebbe stato riconosciuto per aver scoperto una legge, quella dell’effetto fotoelettrico, non per avere abbozzato altre teorie. Il segretario dell’Accademia Reale redasse quasi una clausola di esonero di responsabilità, precisando che fra i suoi l e sc a l e del mond o
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meriti non era stata contemplata la possibilità che la relatività fosse confermata. Quando gli annunciarono la vittoria, Einstein aveva già programmato un viaggio in Giappone e non si prese il disturbo di cancellarlo. Non mise piede a Stoccolma fino al luglio dell’anno successivo. Mentre Planck, Born o Heisenberg fondavano la meccanica quantistica, molti dei loro compatrioti si affannavano in altri esperimenti, in questo caso politici e su grande scala.
«Non ho altro rimedio che portare pazienza e andarmene all’estero. Le chiedo solo una cosa: prenda questo piccolo incidente come me, con umorismo» Einstein, in una lettera a Max Planck
Potremmo dedicare un capitolo intero all’ostracismo sofferto da Einstein nell’atmosfera nazista che tolse lentamente l’aria alla Repubblica di Weimar fino a soffocarla. Ebreo, acerrimo oppositore del nazionalismo tedesco, aveva rinunciato alla nazionalità per evitare il servizio militare (sebbene gli fosse stato di nuovo imposto prima di entrare all’Accademia Prussiana delle Scienze), era un pacifista dichiarato, un pubblico oppositore della Prima Guerra Mondiale e un attivo difensore dell’internazionalismo: la realtà lascia scarso margine all’immaginazione. La popolarità, inoltre, aveva trasformato Einstein in un facile bersaglio. La campagna di denigrazione adottò tutte le forme possibili: articoli sulla stampa, 124
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libri, volantini, discorsi, conferenze... Si costituì persino una società per canalizzare a livello istituzionale l’avversione che suscitava, l’Arbeitsgemeinschaft deutscher Naturforscher zur Erhaltung reiner Wissenschaft (Associazione degli scienziati tedeschi per la conservazione della scienza pura). Dietrich Eckhart, uno dei padri spirituali del nazionalsocialismo, aveva preso posizione apertamente per l’assassinio di Einstein. Quest’ultimo cercò di valutare la situazione senza perdere la calma. «Il problema si riduce al fatto che i giornali riportano costantemente il mio nome, agitando così le folle contro di me – scrisse a Max Planck. – Non ho altro rimedio che portare pazienza e andarmene all’estero. Le chiedo solo una cosa: prenda questo piccolo incidente come me, con umorismo». La tormenta si placò, ma la minaccia restò latente. «Sotto le ceneri», avvertiva Max Born, sopravviveva «la brace dell’animosità contro di lui, fino a quando non prese apertamente fuoco nel 1933». Sulle valigie di Einstein si accumularono adesivi da ogni angolo del pianeta: Marsiglia, Colombo, Singapore, Hong Kong, Shangai, Kobe, Tokio, Palestina, Barcellona, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Montevideo, L’Havana, Stati Uniti... I suoi viaggi ricordano la strategia delle coppie che decidono di combattere il logorio della loro relazione con assenze sempre più prolungate. Erano anche la dimostrazione del suo impegno verso la repubblica e la sua disponibilità a interpretare il ruolo di ambasciatore della riconciliazione davanti ai
vincitori, essendo uno dei pochi tedeschi che non si era macchiato dell’ardore bellico nel 1914. In parte, forse, era anche un allenamento per prepararsi all’esilio. Einstein aveva valutato senza sosta le ragioni per restare in Germania o partire, dibattendosi in una dualità tanto schizofrenica come quella che confondeva onde e particelle. Nell’estate del 1932 prese coscienza che il Paese era alle porte di una «imminente rivoluzione nazionalsocialista» e gli eventi dell’autunno e dell’inverno, che culminarono con l’insediamento di Hitler alla Cancelleria di Stato, non poterono che confermare i suoi timori.
Abbandonando la sua residenza di campagna a Caputh, alla periferia di Berlino, raccomandò a Elsa di dirle addio con un ultimo sguardo: «Non la vedrai mai più». Per allora il suo prestigio e la vita nomade lo avevano trasformato in un cittadino del mondo. Il 10 dicembre 1932, la nave a vapore Oakland sciolse gli ormeggi a Bremerhaven e partì alla volta degli Stati Uniti, portandolo lontano dalla Prussia e dal nazionalismo tedesco. Il mese successivo il Reichstag era in fiamme. Un anticipo dei focolai che avrebbero favorito il divampare dell’incredibile delirio nazionalsocialista. j
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CAPITOLO 5
L’esilio interiore
Man mano che si spegneva la sua stella creativa, si accresceva la dimensione pubblica di Einstein. Divenne una figura patriarcale, critica e rispettata, ma dalla quale le nuove generazioni di fisici si emancipavano. Immune allo scoraggiamento, si lanciò da solo alla conquista di una teoria non quantistica capace di riconciliare elettromagnetismo e gravitazione.
Nel dicembre del 1932 Einstein abbandonò definitivamente la Germania e partì per gli Stati Uniti. Nel 1933 fece il suo ingresso all’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton (a sinistra), centro academico al quale resterà legato fino alla sua morte, nel 1955.
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hissà se, in gioventù, fantasticando sul suo futuro, Einstein aveva sognato la gloria della scienza? È improbabile, comunque, che si vedesse trasformato in un punto di riferimento morale, le cui opinioni sulla pace, Dio o la libertà sarebbero andate ad arricchire le collezioni di frasi celebri. Avrebbe dovuto scorgere in una sfera di cristallo il dramma del XX secolo. Mentre lui si affannava a promuovere il fisico, le due guerre mondiali e il nazismo lo imposero come pacifista, sionista e rifugiato. Inaugurò la permanenza negli Stati Uniti come mirabile scienziato e la concluse venerato dalle masse. La simpatia e l’affetto che suscitava ovunque erano in parte dovuti alla sua modestia e all’immagine di saggio fra le nuvole, ma soprattutto al fatto che seppe sfruttare la propria fama per schierarsi a favore di cause considerate dai più tanto giuste quanto perse. Non mancò chi pensava che potesse risparmiarsi la sua coscienza civica. L’amico Max von Laue gli rinfacciava: «Ma perché dovevi diventare famoso anche in politica? Non voglio assolutamente criticare le tue idee, solo mi sembra che un erudito dovrebbe restare al margine. La lotta politica esige altri metodi e nature rispetto alla ricerca scientifica». Davanti alla guerra e alle tempeste ideologiche che colpirono duramente l’Europa, Einstein dovette pensare che confidare nei metodi e nella natura dei politici equivalesse a un suicidio collettivo. In Germania la sua immagine pubblica gli attirò l’odio di molti compatrioti e il suo appello a non collaborare alla caccia alle streghe portata avanti dal senatore Joseph McCarthy, negli anni
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Cinquanta, fece alzare più di una voce di dissenso negli Stati Uniti. Se non divenne famoso come buon tedesco né come americano esemplare, cercò almeno di esprimersi con sincerità e responsabilità, pur correndo il rischio di scontentare tutti. Il 16 ottobre 1933 attraccò con Elsa nel porto di New York, di ritorno dopo un breve soggiorno in Europa. Superata la quarantena, dovette sottoporsi un’ultima volta al processo di acclimatamento a un nuovo centro accademico, l’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton, al quale resterà legato per il resto della vita. Elsa rimase meravigliata dai meriti architettonici dell’edificio: «Il luogo è incantevole, di ispirazione interamente inglese, uno stile Oxford elevato all’ennesima potenza». Alcuni studiosi, tuttavia, lo vedevano come un “cimitero” intellettuale, una torre d’avorio dove la mancanza di contatto con gli scienziati sperimentali e la dispensa dagli obblighi di docenza finivano per soffocare invece che stimolare la creatività. Più la sua dimensione pubblica cresceva, più i fisici perdevano interesse nella sua opera. Abraham Pais ricorda che, vedendolo entrare a una conferenza sulla fisica delle particelle, restò interdetto, come sarebbe accaduto a Einstein se, a una delle sue lezioni a Berna, avesse scorto Newton fra il pubblico che cercava un posto libero. Nel suo sforzo lungo decenni per ottenere l’unificazione fra gravità ed elettromagnetismo, Einstein riuscì a dare un’interpretazione geometrica alle equazioni di Maxwell, ignorando però le interazioni forti e deboli che reggono i destini del nucleo atomico. Inoltre, il
suo certosino lavoro teorico non riusciva neppure a gettare luce sull’eccentrico comportamento quantistico: l’incertezza di Heisenberg non si manifestava nelle sue equazioni di campo. Alcune tessere importanti per il puzzle che intendeva completare non erano ancora state scoperte, sebbene si debbano ricercare le motivazioni del suo fallimento in gran parte nel suo disinteresse verso la fisica nucleare. Una materia che finì per richiamare la sua attenzione in modo tanto tragico quanto inaspettato.
«Ho poca influenza, mi considerano una specie di fossile che, con gli anni, è diventato sordo e cieco.» Einstein, in una lettera a Max Born
A metà luglio del 1939, due fisici ungheresi, Leo Szilard (1898-1964) ed Eugene Wigner (1902-1995), si recarono in visita a Einstein che trascorreva i mesi più caldi a Nassau Point, poco distante dalla baia di Peconic. Szilard era un suo vecchio collaboratore, con il quale aveva lavorato per anni cercando di sviluppare un modello commerciale di frigorifero. La conversazione, tuttavia, prese altre strade. Si concentrò sulle conseguenze del bombardamento di uno degli isotopi meno abbondanti dell’uranio (235U) con dei neutroni. Una fissione tipica origina una coppia di elementi più leggeri, quali kripton e bario e la liberazione di due o tre neutroni che si possono utilizzare per continuare il bombardamento. Così facendo, i proiettili atomici si moltiplicano
raggiungendo ogni obiettivo, trascinando i nuclei di uranio e scatenando una reazione a catena capace di liberare enormi quantità di energia. Quest’ultima poteva essere destinata a fini molto diversi, ma Szilard e Wigner sospettavano che Hitler avrebbe saputo approfittare solo dei peggiori. Come scienziati, mostravano scarsa fiducia nelle coincidenze: uno dei principali giacimenti di uranio si trovava in Cecoslovacchia, paese invaso in marzo da un Terzo Reich in espansione. Molti ritengono che l’espressione E=mc2 sia stata il seme che fece germogliare l’idea della bomba atomica. Ascoltando le spiegazioni di Szilard, tuttavia, Einstein esclamò: «A questo non avevo proprio pensato!». Una cosa era scoprire nella materia una riserva estremamente concentrata di energia, un’altra, molto diversa, il meccanismo per liberarla. La conversione fra massa ed energia si produce senza sosta in natura e, nonostante il ruolo che svolge nella fissione nucleare, questa non costituisce la sua conseguenza più immediata. Non deve stupire che, quando Einstein stabilì la sua equazione nel 1905, la prima cosa che gli venne in mente non fu una reazione a catena. Mancavano ancora ventisette anni prima che James Chadwick supponesse l’esistenza dei neutroni. Szilard, inoltre, riassumendo le fonti che ispirarono l’idea, le faceva risalire a un romanzo di H.G. Wells, La liberazione del mondo, nel quale il chimico Holsten concepiva una bomba atomica che scoppiava in modo continuo. Il risultato dell’incontro di Nassau Point fu una lettera indirizzata al presidente Roosevelt, datata 2 agosto, nella quale Einstein consigliava che gli statul ’ esi l io i nteriore
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ESTRATTO DELLA LETTERA DI EINSTEIN A ROOSEVELT Signore, alcune ricerche svolte recentemente da E. Fermi e L. Szilard, a me giunte sotto forma di manoscritto, mi inducono a ritenere che l’uranio possa essere trasformato nell’immediato futuro in una nuova e importante fonte di energia. […] Potrebbe essere fattibile provocare una reazione nucleare a catena in una grande massa di uranio, mediante la quale si genererebbero enormi quantità di energia e grandi quantità di nuovi elementi simili al radio [...]. Questo nuovo fenomeno condurrebbe anche alla fabbricazione di bombe ed è possibile pensare – anche se qui la certezza è minore – che in questo modo si possa creare una nuova tipologia di bombe, estremamente potenti. Una sola bomba di questo tipo, trasportata su un’imbarcazione e fatta scoppiare in un porto, con ogni probabilità potrebbe distruggere il porto intero e una parte del territorio circostante [...]. Considerata la situazione, forse potrebbe valutare conveniente stabilire dei contatti permanenti fra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che lavora negli Stati Uniti nel campo delle reazioni a catena [...]. Ho saputo, peraltro, che la Germania ha sospeso la vendita di uranio delle miniere cecoslovacche che ha conquistato. L’adozione di una decisione tanto precipitosa può intendersi alla luce del fatto che il figlio del sottosegretario di Stato tedesco, Von Weizsäcker, è iscritto all’Istituto Kaiser Willhelm, a Berlino, dove si sta ora svolgendo una parte delle ricerche statunitensi sull’uranio [...].
nitensi si rifornissero di uranio e investissero con convinzione nella ricerca di applicazioni della fissione nucleare. Dopo due anni di titubanza, Roosevelt avviò il Progetto Manhattan nel dicembre 1941, un giorno prima che gli aerei giapponesi bombardassero Pearl Harbour. Dopo aver fornito una dettagliata consulenza sul metodo per setacciare gli isotopi di uranio, Einstein abbandonò la scena del programma nucleare. La sua natura anticonformista e le ventilate tendenze socialiste suscitavano scarse simpatie fra i politici e mettevano ancora più in guardia i militari. Considerato un rischio per la sicurezza, fu tenuto lontano dal Progetto Manhattan. La sua relazione con la bomba atomica non riprese fino a dopo Hiroshima. 130
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«Ignoro con che tipo di armi si combatterà la Terza Guerra Mondiale, ma nella Quarta si useranno bastoni e pietre.» Da un'intervista concessa nel 1949
Vide allora le sue raccomandazioni a Roosevelt sotto una luce diversa: «Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a fabbricare la bomba atomica, non avrei mosso neppure un mignolo». A Szilard commentò pentito: «È impossibile indovinare tutte le conseguenze delle nostre azioni, per questo il saggio si limita in modo rigoroso alla contemplazione». Ora che il danno era fatto, però, egli non cercò comunque rifugio nella vita contempla-
tiva. Sin da bambino il nazionalismo gli aveva provocato una repulsione viscerale. L’arsenale atomico, al servizio del patriottismo miope e interessato di ogni singolo Stato, garantiva, a suo giudizio, lo scoppio di una guerra così devastante che l’unico vantaggio sarebbe stato il fatto di non potersi ripetere. Approfittò di qualsiasi possibilità a sua disposizione per promuovere il disarmo, il pacifismo e la creazione di una politica sovranazionale che gestisse e custodisse l’energia nucleare. Il suo impegno per la riunificazione si traduceva dalla fisica alla politica internazionale. Se le forze principali della natura potevano convivere fraternamente, forse anche le nazioni potevano essere capaci di cedere la loro sovranità a un organismo che sapesse integrarle.
Conclusione
Proprio come la sua visione fisica apparteneva sempre di più al passato, anche ciò che restava del suo mondo svaniva a poco a poco. Elsa non riuscì a festeggiare il Natale del 1936, stroncata da un attacco di cuore. Mileva morì nell’estate del 1948 per un’emorragia cerebrale. Sua sorella Maja lo lasciò il 25 giugno 1951 per una polmonite. Michele Besso scomparve il 15 marzo 1955 colpito da una trombosi. Sebbene a Einstein piacesse coltivare una certa retorica del distacco, mille gesti lo smentiscono. Pur senza considerare la sua perseveranza nell’aiutare i rifugiati del nazismo, basta ricordare il suo dolore vedendo come si disintegrava il circolo dei suoi affetti più intimi. Poco propenso al sentimentalismo, cercò di trovare forza nel lavoro. Quando non riusciva a concentrarsi, si lasciava dominare da un umore teso e ombroso. In un’occasione il caro amico
Paul Ehrenfest gli aveva rimproverato che non avesse bisogno di nessuno; Einstein gli rispose indignato: «Ho bisogno della tua amicizia tanto se non più di quanto tu abbia bisogno della mia». Cosciente della progressiva perdita delle sue facoltà, fino all’ultimo lavorò alla «geometrizzazione» della fisica. La scienza, la sua prima e più duratura passione, manteneva intatto il suo fascino. Ogni mattina entrava nel suo ufficio di Princeton con in tasca un pugno di equazioni alle quali aveva pensato durante la notte. La sera del 13 aprile 1955 non si sentì bene. Poco dopo essersi svegliato da un sonnellino pomeridiano, fu colpito da un collasso in bagno. Un aneurisma dell’aorta, all’altezza dell’addome, che pendeva come una spada di Damocle sulla sua salute da ormai sette anni, si era rotto, causando un’emorragia interna. Nonostante i forti dolori, si oppose all’operazione: «Voglio andarmene quando lo decido io. Mi sembra di cattivo gusto prolungare la vita in modo artificiale. Ho già fatto la mia parte. È arrivato il momento che esca di scena e lo farò con eleganza». Il venerdì successivo riuscirono a convincerlo a farsi ricoverare all’Ospedale di Princeton. Si andò spegnendo, alternando momenti di veglia ad altri di sonno dovuti ai sedativi. Il figlio maggiore, che insegnava idraulica a Berkeley, attraversò il Paese per riunirsi al padre. Il loro rapporto aveva vissuto alti e bassi, ma, dopo l’arrivo di Hans Albert negli Stati Uniti, aveva raggiunto un punto di equilibrio ragionevole. La ferita aperta durante il divorzio con Mileva si era chiusa, anche se la cicatrice non sarebbe mai scomparsa del tutto. Einstein non riuscì però a dire addio al figlio minore, Eduard. L’aveva dato per perso l ’ esi l io i nteriore
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«Per chi è stato vinto dall’età, la morte arriverà come una benedizione. È qualcosa che sento con intensità, adesso che io stesso sono invecchiato e ho finito per considerare la morte come un vecchio debito che, alla fine, bisogna pagare.» Einstein a Gerhard Fankhauser, professore di Biologia a Princeton
nel labirinto della schizofrenia da quando gli fu diagnosticata la malattia a vent’anni. Non smise mai di preoccuparsi della sua situazione, attraverso famigliari o amici rimasti in Svizzera, dove viveva internato in un sanatorio, ma negli ultimi anni non si sentì in grado di riprendere i contatti. Refrattario a qualunque solennità o sfarzo, soprattutto se funebre, Einstein non volle esequie pubbliche. Chiese di essere cremato e che le ceneri fossero disperse al vento, in un luogo sconosciuto. Appena prima di morire riuscì a burlarsi ancora una volta degli altisonanti gesti che tanto odiava. Le sue ultime parole le sussurrò in tedesco all’orecchio di una sconcertata infermiera del turno di notte che non capì neppure una sillaba e non poté quindi tramandarle ai posteri. Albert Einstein morì la mattina del 18 aprile 1955. Accanto a lui restavano, incomplete, le equazioni che aveva scarabocchiato a matita prima di lasciarsi vincere dal sonno.
La scienza di Einstein dopo Einstein
I postulati della relatività speciale si sono integrati con naturalezza in tutti gli strati della fisica. Riuscirono a essere accolti anche dalla meccanica quantistica, con la 132
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quale forgiarono un’alleanza che condusse alla predizione di nuovi fenomeni, come l’esistenza dei positroni (gemelli degli elettroni in tutto salvo che nella carica, positiva), che non tardarono a essere identificati nella radiazione cosmica. Come abbiamo visto, la fisica nucleare sfruttò sin da subito la relazione E=m c 2. Una precoce verifica, indiretta, dell’equivalenza tra massa ed energia si svolse nel 1932 con lo studio della disintegrazione dei nuclei di litio, bombardati da protoni. Eppure la minima deviazione avrebbe provocato implicazioni fisiche sostanziali. Nel 2005 l’equazione fu sottoposta a un rigoroso scrutinio. In una delle prove si spararono neutroni contro l’isotopo più comune dello zolfo ( 32 S). Il risultato fu un altro isotopo stabile ( 33 S), in uno stato di eccitazione, che, recuperando l’equilibrio, emette un fotone ad alta energia (γ). La reazione si può rappresentare come: n + 32 S → 33 S + γ. Facendo un bilancio delle masse coinvolte prima e dopo il processo con l’energia del fotone, si verificò la relazione E = m c 2 con una precisione dello 0,00004%. Le dilatazioni temporali, gli incrementi di massa e le contrazioni spaziali fanno parte della vita quotidiana degli acceleratori di particelle. Nel tentativo di raggiungere la velocità della luce consumano
In alto a sinistra: Einstein il giorno del suo settantesimo compleanno circondato da un gruppo di piccoli sfollati provenienti da un centro di accoglienza. In alto a destra: Copertina del Time del numero di dicembre 1999. La rivista nominò Einstein «il più grande pensatore del XX secolo». Sotto: Un giornale annuncia la morte di Einstein. ALBUM (SOPRA A SINISTRA); TIME (SOPRA A DESTRA); CORBIS (SOTTO)
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sufficiente elettricità per alimentare un’intera città. Le loro collisioni liberano enormi quantità di energia che si trasformano in particelle di massa, tanto instabili da sopravvivere solo una milionesima parte di secondo. Finora la relatività generale detiene la versione ufficiale della gravità, ma non può restare per sempre al margine delle sue interazioni sorelle (elettromagnetica, deboli e forti), che convivono sotto l’ombrello delle teorie quantistiche dei campi, un matrimonio matematico particolarmente felice tra relatività speciale e meccanica quantistica. L’unificazione delle quattro forze all’interno di uno stesso quadro concettuale, conosciuto con il nome di «teoria del tutto» o «teoria finale», costituisce una delle principali ossessioni dei fisici moderni. In questo contesto, le diver-
se teorie delle stringhe si profilano come uno degli sforzi più promettenti. Intessono un universo con dimensioni addizionali e, dalla loro prospettiva, se effettivamente risultasse fattibile, la nostra visione della relatività sicuramente sperimenterebbe dei cambiamenti. La relatività regna nel dominio delle stelle e delle galassie e la meccanica quantistica fra atomi e quark. Si può presumere che il punto dove si sovrappongono le loro giurisdizioni, dispiegando un rosario di fenomeni esotici, corrisponda alla cosiddetta «lunghezza di Planck», circa 10−35 m. Si tratta di una distanza tanto piccola da risultare quasi inconcepibile, ben oltre i numeri. Equivale al salto di scala fra il raggio dell’universo osservabile e il diametro di un’elica di DNA. Per osservare da vicino cosa accade a queste
NELL'ONDA Nel 1918, per distrarsi dai terribili dolori allo stomaco che lo inchiodavano a letto, Einstein si intrattenne con un’idea che avevano già soppesato Lorentz e Poincaré: l’esistenza di onde gravitazionali. Una perturbazione in un punto di un campo elettromagnetico si comunica al resto sotto forma di onde elettromagnetiche. Sarebbe successo lo stesso con la deformazione geometrica di una regione dello spazio-tempo (un cambiamento nella sua distribuzione delle masse)? Le onde gravitazionali, se esistessero, interagirebbero appena con la materia. A differenza della luce, che stabilisce il suo dialogo con le cariche elettriche, queste influenzerebbero le masse. Con le parole del fisico svizzero Daniel Sigg, i suoi effetti osservabili non sono piccoli «perché l’energia che si irradia sia piccola – al contrario, è enorme – ma perché lo spazio-tempo è un ambiente rigido». La radiazione elettromagnetica si propaga attraverso lo spazio, ma, nel caso delle onde gravitazionali, sarebbe lo stesso tessuto dello spazio-tempo a vibrare. Si pensa che la diminuzione progressiva del periodo di rotazione di due stelle di neutroni che girano una attorno all’altra nella costellazione dell’Aquila potrebbe costituire una prova indiretta della sua esistenza. Se la torsione che impongono al tessuto spazio-temporale si propaga sotto forma di onde gravitazionali, ancora non è possibile misurarlo. Tuttavia, la sua emissione provocherebbe una perdita di energia che le avvicinerebbe, precipitandole in una spirale. L’evoluzione del sistema che predice la teoria, basandosi sull’ipotesi ondulatoria, concorda abbastanza bene con le osservazioni degli astronomi.
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latitudini sono necessarie energie nell’ordine di 1016 TeV (circa 500 kWh). Nel grande collisore di adroni del CERN, a Ginevra, il principale acceleratore di particelle al mondo, si mettono in gioco energie fino a 7 TeV. È possibile che nella scala di Planck lo spazio-tempo perda la sua continuità, si rompa e la sua natura quantistica contempli violazioni dei precetti relativisti. Avvicinandoci a questo strettissimo margine delle distanze, le particelle potrebbero presentare la loro struttura interna di stringhe e la gravità guardarsi finalmente nello specchio del resto delle interazioni. Oggi si presenta come un territorio inaccessibile con la nostra competenza tecnologica e, presumibilmente, continuerà a esserlo per decenni. Ben lungi dal rassegnarsi all’attesa, i fisici scandagliano lo spazio conosciuto a caccia di indizi o resti dell’architettura dei livelli più profondi. Fra le energie accessibili, la relatività ha superato tutti gli esami ai quali è stata sottoposta. Uno dei principali problemi per mettere a confronto le ipotesi di Einstein è il grado di precisione con il quale correggono quelle newtoniane. A sua volta, perfezionare la relatività comporta una sfida che spinge gli scienziati al limite dell’acutezza sperimentale. Per molto tempo si ritenne che la relatività generale fosse il paradiso dei fisici teorici, ma il purgatorio di quelli sperimentali. La situazione si è ribaltata negli ultimi decenni. Nel 1962, Irwin Shapiro concepì ciò che fu poi denominata «la quarta verifica della relatività generale» e che andò ad aggiungersi alle tre classiche ideate da Einstein. Sfrutta il fatto che un’onda elettromagnetica non subisce una deviazione solo in prossimità di un corpo dalla massa
ingente, come una stella. La sua traiettoria è disturbata in uno spazio quadridimensionale che comprende anche la coordinata temporale e l’onda accumula un ritardo lungo il suo percorso. Questo ritardo non obbedisce al fatto che la traiettoria curva sia più lunga di quella retta, si tratta di un effetto puramente relativista. Per identificarlo, Shapiro pensò a un esperimento che richiedeva la presenza di una congiunzione superiore di Venere o Mercurio: i pianeti, visti dalla Terra, dovevano allinearsi con il Sole, posizionandosi dietro la stella. Appena prima di entrare o uscire dalla congiunzione si sarebbero inviate onde radio che si sarebbero riflesse sul pianeta. Questo viaggio di andata e ritorno avrebbe richiesto più tempo rispetto alla ripetizione dell’esperienza senza l’interposizione del Sole. Nonostante i desideri di Shapiro («Sarebbe stato bello dimostrare che Einstein si era sbagliato»), l’effetto non fece che confermare le aspettative relativiste. Il 20 aprile 2004 la NASA lanciò in orbita il satellite Gravity Probe B. Il suo scopo era misurare le distorsioni introdotte nello spazio-tempo dalla presenza della massa terrestre e l’effetto di trascinamento che aggiunge la sua rotazione. Nello spazio di Newton, una sfera che girasse su se stessa sospesa a 600 km dalla superficie terrestre manterrebbe il suo asse di rivoluzione diretto sempre nella stessa direzione. Il tessuto tetradimensionale di Einstein, invece, trasmetterebbe alla sfera le perturbazioni della Terra e il suo asse devierebbe poco a poco. La sonda Gravity Probe B analizzò per un anno la progressione dell’asse di rivoluzione di quattro sfere di quarzo quasi perfette. All’inizio dell’esperimento si allinearono nella dil ’ esi l io i nteriore
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642 km
Effetto della massa Effetto della rotazione
Stella di riferimento IM Pegasi (HR 8703)
Il satellite Gravity Probe B, lanciato nel 2004, aveva la missione di dimostrare la distorsione che sia la massa sia la rotazione del nostro pianeta esercitano sullo spazio-tempo. Il satellite era dotato di quattro giroscopi puntati verso la stella IM Pegasi come punto di riferimento. I cambiamenti nella direzione di rivoluzione sperimentati dimostrarono tale distorsione.
rezione definita da un telescopio puntato su una stella della costellazione di Pegaso. Gli strumenti della sonda erano in grado di individuare spostamenti nell’angolo di rivoluzione equivalenti allo spessore di un capello visto da una distanza di 32 km. L’analisi definitiva dei dati fu pubblicata nel maggio del 2011, quando il direttore del progetto, Francis Everitt, dell’Università di Stanford, annunciò: «Abbiamo concluso un fondamentale esperimento che mette alla prova l’universo di Einstein. Ed Einstein è sopravvissuto». Un secolo dopo la sua scoperta, le sottigliezze della relatività sono penetrate nella nostra quotidianità. I dispositivi GPS determinano la posizione confron136
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tando i dati che ricevono da un pugno di satelliti. Affinché le informazioni siano precise, gli orologi in orbita e quelli terrestri devono essere sincronizzati. Se desideriamo affinare la posizione sotto i 30 m, dobbiamo prendere in considerazione due correzioni relativiste. Dobbiamo attribuire un ritardo alla relatività speciale (de 7 μs), causato dalla velocità del satellite, e un anticipo a quella generale (de 45 μs), dovuto al fatto che il tempo trascorre più in fretta man mano che diminuisce l’intensità di un campo gravitazionale (effetto inverso al ritardo che provoca lo spostamento verso il rosso). La gravità è più debole a 20.000 km di altezza, dove sono i satelliti, rispetto che sulla super-
ficie. Questi sfasamenti sono cancellati nei nuovi sistemi di posizionamento che incorporano alla rete le stazioni terrestri. Il maggior passo avanti per la relatività finora compiuto si ebbe con l’annuncio, nel settembre 2011, di un presunto superamento del limite superiore della velocità della luce. I neutrini generati in un acceleratore del CERN, vicino a Ginevra, attraversarono la crosta terrestre fino ai rilevatori interrati sotto il picco più alto degli Appennini, il Gran Sasso, a 100 km da Roma. Dopo aver completato i loro calcoli, i responsabili dell’esperimento arrivarono alla conclusione che si erano presentati 60 ns prima del previsto. La notizia fu annunciata con molta cautela e ricevuta con ancora maggior scetticismo, soprattutto dopo l’individuazione di un collegamento difettoso nel meccanismo di sincronizzazione fra gli orologi del CERN e del Gran Sasso. Nel giugno del 2012 venne confermato che l’anticipazione delle particelle era stata solo un miraggio. Anche qualora i neutrini avessero aperto una breccia attraverso la quale osservare la nuova fisica, gli effetti relativisti non sareb-
bero svaniti. Altri esperimenti del CERN hanno confermato la struttura fondamentale della teoria con un grado di precisione che sarebbe espresso in millimetri se misurassimo la distanza fra la Terra e la Luna. L’affascinante mondo della relatività si è installato nel cuore della scienza e possiamo affermare che alcuni dei suoi tratti vi resteranno per sempre. Così come la fisica continuerà a essere newtoniana per le velocità più basse confrontate con quella della luce e in presenza di campi gravitazionali poco intensi, la fisica di Einstein ha conquistato un proprio dominio, anche se non riuscisse a comprendere l’intero territorio. La scienza funziona come una levigatrice che, di volta in volta, regala descrizioni sempre più precise della natura. Da lontano, la fisica si riconosce nelle idee di Newton; più da vicino si distinguono i tratti quantistici e relativisti che le inglobano, rivelando a loro volta dettagli inattesi. Chi può dire quale volto finirà per mostrare in futuro. Senza dubbio Einstein, alla luce delle nuove scoperte, distinguerebbe le sue vecchie ossessioni: tempo, spazio e gravità. j
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BETTMANN / CORBIS
L E T T U R E C O N S I G L I AT E
Bergia, S., Einstein e la relatività, Bari, Laterza, 1978. Bernstein, J., L’uomo senza frontiere. Vita e scoperte di Albert Einstein, Milano, Il Saggiatore, 2000. Einstein, A., Corrispondenza con Michele Besso (1903-1950), Guida, Napoli, 1995. Einstein, A., Pensieri di un uomo curioso, Milano, Mondadori, 1997. Ferris, T., L’avventura dell’universo, Milano, Editrice Leonardo, 1991. Gamow, G., Biografia della fisica, Milano, Mondadori, 1998. Gribbin, J., In search of Schrödinger’s cat, Toronto, Bantam Books, 1984. Gribbin, J., L’avventura della Scienza Moderna, Milano, Longanesi, 2003. Hawking, S., Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, BUR-Rizzoli, Milano, 2000. Heidegger, M., Umanesimo e scienza nell’era atomica, Brescia, La Scuola, 1984. Helge Kragh, Cosmology and Controversy, Princeton University Press, 1999. Helge Kragh, Quantum Generations: a history of physics in the twentieth century, Princeton University Press, 1999. Isaacson, W., Einstein. La sua vita, il suo universo, Milano, Mondadori, 2010. Kaku, M., Il cosmo di Einstein, Torino, Codice Edizioni, 2005. Landau, L. e Rumer, Che cos’è la relatività?, Roma, Editori Riuniti, 1983. Pais, A., Sottile è il signore... La scienza e la vita di Albert Einstein, Torino, Bollati Boringhieri, 2012. Penrose, R. e AA. VV., Equilibrio perfetto: le grandi equazioni della scienza moderna, a cura e prefazione di Graham Farmelo, Milano, Il Saggiatore, 2005. Pyenson, L., The Young Einstein: the advent of relativity, Institute of Physics Publishing, 1985. Rosenblum, B., Kuttner, S., Quantum enigma, Oxford University Press, 2008. Sparzani, A., Relatività, quante storie, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
Albert Einstein suona il violino a bordo della nave S.S. Belgenland nel 1931 durante un viaggio negli Stati Uniti, quando era ormai un fisico famoso a livello mondiale.
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HULTON-DEUTSCH COLLECTION / CORBIS
INDICE ANALITICO
Accademia Prussiana delle Scienze 19, 77, 116, 124 Adler, Friedrich 45, 77 Ampère, André Marie 26, 28, 30, 34 Balmer, Johann Jakob 116 Berna, Ufficio Brevetti di 14, 18, 38, 45, 73, 76, 77, 79, 85 Università di 76, 78 Bernstein, Aaron 25 Besso, Michele Angelo 40, 44, 47, 76, 80, 131 Bohr, Niels 16, 101, 115, 116, 117, 118, 122, 123 Born, Max 16, 57, 99, 116, 122, 123, 124, 129 Bose, Satyendra Nath 121 browniano, moto 18, 45, 46 Brown, Robert 46 Buco nero 111, 112 campo elettromagnetico 25, 32, 35, 36, 116 gravitazionale 19, 81, 83, 96, 97, 110, 111, 136 Carswell, Robert 113 Chadwick, James 129 Chisholm, Grace 43 Compton, Arthur 116 condensato di Bose-Einstein 121 costante cosmologica 114, 115 contrazione di Lorentz 64, 65, 67, 85, 94 Coulomb, Charles Augustin 26, 28, 30, 34 Crommelin, Andrew 107, 108
curvatura 85, 86, 89, 90, 95, 96, 100, 106, 110, 112, 120 Davy, Humphry 27 dilatazione temporale 67, 94, 114 Dirac, Paul 16, 115 Dyson, Freeman 31, 112 E = mc2 11, 70, 71, 132 Eddington, Arthur Stanley 19, 103, 106,109, 114 effetto fotoelettrico 15, 19, 21, 121, 123 Ehrenfest, Paul 106, 131 Einstein Eduard 14, 18, 41, 71, 77, 80, 92, 131 Elsa 19, 78, 79, 80, 104, 105, 125, 128, 131 Hans Albert 18, 41, 80, 131 Hermann 18, 22, 23, 24, 25, 34, 36, 42, 73, 78 Jakob 24, 34, 45, 73 Lieserl 18 Maria «Maja» 204, 45, 76, 131 emissione stimolata della luce 121 equazioni di Maxwell 31, 32, 33, 36, 51, 52, 54, 56, 57, 66, 128 etere 30, 55 Euclide 15, 24, 56, 57 Everitt, Francis 136 Faraday, Michael 27, 28, 29, 30, 31, 34, 35, 45, 56 Fermi, Enrico 130
Visita di Einstein all’osservatorio astronomico del monte Wilson nel 1931. L’osservatorio, nel sud della California, ospitava il telescopio più grande dell’epoca.
Feynman, Richard 16 fissione nucleare 129, 130 Fizeau, Hippolyte 32 fotone 117, 120, 121, 122, 132 Foucault, Léon 32 Frank, Philipp 44 frequenza 33, 110, 121 Freundlich, Erwin 106, 109 Friedmann, Alexander 114 Galilei, Galileo 46-53, 57, 67, 68, 73, 81, 82 Gamow, George 92, 114 Gauss, Carl Friedrich 87, 88, 90, 91 geodetica 86, 87, 92, 96 geometria differenziale 87, 88, 90 euclidea 24 non euclidea 85, 88 Gottinga, Università di 81, 96, 98, 99, 100 GPS 17, 136 gravità 15, 16, 17, 28, 34, 58, 75, 81, 82, 85, 87, 95, 96, 100, 105, 106, 128, 134, 135, 136, 137 Gravity Probe B 135, 136 Grossmann, Marcel 40, 45, 85, 87 Heisenberg, Werner 16, 116, 118, 120, 122, 123, 124, 129 Hertz, Heinrich 32, 54 Hilbert, David 75, 96, 98, 99, 100, 101, 109 Houtermans, Fritz 32 Hubble, Edwin 114 Humboldt, Alexander von 25 Hurwitz, Adolf 36, 96 induzione elettromagnetica 56
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Karl-Ferdinand, Università 77 Kaufler-Savic, Helene 44 Klein, Felix 99 Koch Einstein, Pauline 16, 22, 25, 34, 36, 37, 42, 43, 78, 105 Laue, Max von 128 Lenard, Philipp 121, 123 legge di gravitazione universale 16, 17, 26, 28, 51, 82 lunghezza d’onda 32, 33, 120, 122 di Planck 134 lente gravitazionale 113 Lorentz, Hendrik 52, 53, 56, 57, 63, 134 Mandl, Rudi 1137 Marić, Mileva 18, 37, 41-45, 73, 77, 78, 80, 81, 104, 105, 131 Maxwell, James Clerk 25, 30, 31, 34, 45, 54 McCarthy, Joseph 14, 128 Michelson, Albert 54, 55 Minkowski, Hermann 90, 91, 92, 94, 95, 96, 98, 101 Morley, Edward 54, 55 Nernst, Walther 116 Newton, Isaac 16, 23, 28 29, 45, 50, 51, 57, 66, 67, 68, 71, 73, 81, 82, 84, 100, 105, 109, 114, 123, 128, 135, 137 Noether, Emmy 45 Oersted, Hans Christian 26, 28, 29, 30, 31, 32, 34 onda elettromagnetica 52, 115, 134, 135 gravitazionale 134 Ostwald, Wilhelm 73
Pauli, Wolfgang 16 Perrin, Jean 46 Planck, Max 16, 57, 73, 76, 115, 116, 117, 123, 124, 134, 135 Poincaré, Henri 56, 134 Politecnico Federale di Zurigo 18, 36-37, 40, 42, 43, 45, 98 Princeton, Istituto per gli Studi Avanzati di 19, 128, 131 principio di equivalenza 82, 85, 90 di indeterminazione di Heisenberg 118, 129 relatività speciale 15, 16, 19, 44, 67, 68, 75, 76, 81, 83, 95, 101, 103, 104, 105, 109, 111, 122, 134, 135 generale 13, 14, 17, 44, 67, 68, 75, 76, 81, 83, 95, 101, 103, 104, 105, 109, 111, 122, 134, 135 relazione metrica 88-92, 96 Riemann, Bernhard 87, 88, 91 Roosevelt, Franklin D. 19, 129, 130 Rutherford, Ernest 116 Schrödinger, Erwin 16, 115 Schwarzschild, Karl 109, 110, 111, 112 Shapiro, Irwin 135 Snow, Charles P. 16 Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento 18, 44, 45, 56, 57, 64, 68, 70 Soldner, Johann Georg von 105, 106, 113 Solovine, Maurice 44 Sommerfeld, Arnold 99
spazio-tempo 53, 75, 91, 92, 94, 95, 97, 110, 112, 134, 135, 136 spostamento verso il rosso 109, 110, 112, 136 stringhe, teorie delle 68, 134 Szilard, Leo 129-131 Talmey, Max 25, 45 teoria finale 16, 132 tempo proprio 92 trasformazione di Galileo 49-53, 76 di Lorentz 52-57, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 85, 94 Verrier, Urbain Le 100 Volta, Alessandro 26 Walsh, Dennis 113 Weber, Heinrich 36, 40, 42, 55 Weinberg, Steven 16 Wells, Herbert George 129 Weyl, Hermann 101 Weymann, Ray 113 Wheeler, John 95, 96, 111 Wigner, Eugene 129 Winteler Jost 37, 123 Marie 37, 42 Young, William 43 Zurigo, Università di 75, 77
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