Presentazione
IL CAPOLAVORO DA CUI È TRATTO IL NUOVO FILM DI MARTIN SCORSESE Nagasaki, 1633: l’indomito padre gesuita Christóvão Ferreira, che da anni si batte in Giappone per diffondere il cristianesimo, ha rinnegato la vera fede ed è diventato un apostata: questa è la notizia sconvolgente che giunge a Roma. La Compagnia di Gesù decide allora di inviare in Oriente due giovani religiosi, Sebastião Rodrigues e Francisco Garrpe per compiere un’indagine all’interno della chiesa locale. I due gesuiti però, partiti pieni di ideali e di entusiasmo, si scontrano ben presto con la dura realtà del Giappone dei Tokugawa e delle persecuzioni. I sospetti cristiani vengono costretti dalle autorità giapponesi a calpestare immagini sacre: chi si rifiuta viene torturato e ucciso, mentre chi accetta viene deriso e costretto a vivere ai margini della società, rifiutato tanto dalla comunità cristiana quanto dai giapponesi. La vita in Giappone si fa sempre più difficile per Rodrigues che ora vive in prima persona le persecuzioni e che finisce, evangelicamente, per essere tradito dall’amico Kichijiro, il suo «Giuda», mentre implora Dio di rompere il suo «silenzio». Un romanzo intenso, aspro, pieno di ispirazione e sensibilità. Universalmente riconosciuto come un capolavoro. Shūsaku Endō (1923-1996) è uno dei maggiori scrittori giapponesi. Battezzato per volontà della madre, si è laureato in Letteratura francese all’Università di Tokyo e ha vissuto per molti anni a Lione. Considerato il Graham Greene giapponese per la delicatezza con cui descrive la fragilità umana di fronte al mistero divino, Endō ha ricevuto numerosi premi letterari ed è stato più volte candidato al Nobel per la letteratura. Fra i suoi romanzi pubblicati anche in italiano ricordiamo, oltre a «Silenzio» – pubblicato da Corbaccio e da cui Martin Scorsese ha tratto il film «Silence», «Vita di Gesù», «Una donna chiamata Shizu» e «Scandalo».
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www.illibraio.it Titolo originale: Chinmoku (Silence) Traduzione dalla versione inglese di William Johnston di Lydia Lax
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA In copertina: © Paramount Pictures/Sharpsword Films/Al Films Grafica Baroni Design Copyright © 1969, Monumenta Nipponica All rights reserved Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti S.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2013 Garzanti S.r.l., Milano L’editore riconosce i diritti del traduttore che non è riuscito a rintracciare prima della pubblicazione ISBN 978-88-6700-295-5 Prima edizione digitale dicembre 2016 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
PROLOGO
La notizia giunse fino alla Chiesa di Roma. Christóvão Ferreira, che era stato inviato in Giappone dalla Compagnia di Gesù del Portogallo, dopo esser stato sottoposto alla tortura della fossa, aveva abiurato la sua fede divenendo un apostata. Missionario di provata esperienza e che godeva di grandissima stima, Christóvão Ferreira aveva trascorso trentatré anni in Giappone, dove aveva ricoperto l’alta carica di padre provinciale, diventando una fonte di ispirazione sia per i sacerdoti sia per i credenti. Era inoltre un teologo di notevole talento. Durante le persecuzioni si era spinto segretamente nella regione di Kamigata per svolgere la sua opera di apostolato; le lettere che di là inviava a Roma traboccavano di coraggio indomito. Che un simile uomo tradisse la propria fede era inconcepibile, per quanto potesse esser terribile il frangente in cui si era venuto a trovare. In seno ai membri della Compagnia di Gesù, come nella Chiesa in genere, ci si chiedeva se il tutto non fosse un’invenzione messa in giro dagli olandesi o dai giapponesi. Non che la Chiesa di Roma ignorasse la precarietà della situazione nella quale versava la Missione in Giappone. Le lettere dei missionari non avevano lasciato dubbi in proposito. A partire dal 1587, il reggente Hideyoshi – adottando una politica opposta a quella del suo predecessore – aveva iniziato una spaventosa persecuzione contro la cristianità. Tutto aveva preso il via con la punizione a Nishizaka, Nagasaki, di ventisei tra preti e fedeli; da allora i cristiani di tutto il paese furono scacciati dalle loro famiglie, torturati e messi a morte. Lo Shogun Tokugawa perseguì la stessa politica, e nel 1614 ordinò l’espulsione dal Giappone di tutti i missionari. I rapporti inviati dai missionari dicevano come tra il 6 e il 7 ottobre di quello stesso anno settanta sacerdoti – sia giapponesi che stranieri – fossero stati ammassati a Kibachi, nel Kyushu, e costretti a imbarcarsi su cinque giunche dirette a Macao e a Manila. Così salparono per l’esilio. Pioveva quel giorno, il mare era tempestoso e grigio quando le imbarcazioni fradice di pioggia lasciarono la baia, passarono oltre il promontorio e scomparvero all’orizzonte. Tuttavia trentasette sacerdoti – ignorando il decreto d’esilio – rifiutarono di abbandonare il loro gregge e rimasero in segreto nascosti in Giappone. Ferreira era appunto uno di questi religiosi clandestini. A mezzo delle lettere che inviava, continuò a tenere informati i suoi superiori circa la cattura dei missionari e dei fedeli cristiani nonché delle pene cui venivano sottoposti. Ancor oggi esiste una sua lettera scritta da Nagasaki il 22 marzo 1632 al visitatore ecclesiastico Andrea Palmeiro, lettera in cui descrive esaurientemente le condizioni di quell’epoca: «Nella mia precedente lettera ho informato Sua Eccellenza della situazione in cui versano i cristiani in questo paese. E ora proseguirò raccontando quello che è successo a partire da allora. Tutto si è concluso con nuove persecuzioni, nuove repressioni, nuove sofferenze. Vorrei iniziare il mio resoconto con la storia di cinque religiosi che a datare dall’anno 1629 furono arrestati a causa della loro fede. Si chiamano Bartolomeo Gutierrez, Francisco de Jesus e Vincente de San Antonio, che sono dell’Ordine di Sant’Agostino, Anthonio Ishida che appartiene alla nostra Compagnia, e Gabriel de Santa Magdalena, un francescano. Il magistrato di Nagasaki, Takenaka Uneme, tentò di farli abiurare e di gettare nel ridicolo la nostra santa fede e i suoi seguaci con la speranza di distruggere in tal modo il coraggio dei fedeli. Tuttavia dovette ben presto rendersi conto che le parole, da sole, mai avrebbero smosso la risolutezza di questi sacerdoti. Fu pertanto costretto a adottare un diverso modo d’agire; così, a Unzen, li sottopose all’atroce immersione in acqua bollente. Diede ordine che i cinque preti fossero portati a Unzen e torturati fino a che non avessero abiurato la loro fede; ordinò tuttavia che non fossero per alcun motivo messi a morte. Dispose inoltre che in aggiunta ai cinque sacerdoti fossero torturate Beatrice da Costa, moglie di Antonio da Silva, e sua figlia Maria, poiché malgrado tutti i tentativi di persuasione avevano rifiutato di abbandonare la loro fede. Il 3 dicembre il gruppo lasciò Nagasaki diretto a Unzen. Le due donne furono messe in una lettiga, ai cinque uomini fu dato un cavallo. Così si accomiatarono. Giunti al porto, non molto distante, legarono loro mani e braccia, ne incatenarono i piedi, poi li caricarono su un battello legandoli saldamente alla fiancata. Quella sera raggiunsero il porto di Obama, ai piedi di Unzen, il giorno seguente risalirono la montagna e quindi i sette, uno per uno, furono gettati in una piccola baracca. Restarono confinati là dentro un giorno e una notte, con i piedi incatenati e le braccia legate, strettamente sorvegliati; nessuno, senza un regolare permesso degli ufficiali, poteva passare di lì. Il giorno successivo le torture ebbero inizio come segue: a uno a uno i sette furono separati dagli altri, presi e portati sulla riva del lago bollente; qui venne mostrata loro l’acqua che ribolliva scagliando nell’aria i suoi spruzzi, poi furono sollecitati ad abbandonare gli insegnamenti di Cristo sotto pena di sperimentare sul loro stesso corpo il dolore terribile di quell’acqua bollente che avevano davanti. Faceva freddo, e dal lago ribollente si alzava un vapore veramente spaventoso la cui sola vista, non fosse stato per la grazia di Dio, avrebbe fatto vacillare anche l’uomo più forte. Tuttavia ognuno dei sette, sostenuto dalla grazia divina, mostrò grande coraggio, arrivando perfino a chiedere di essere torturato, e tutti dichiararono con fermezza che mai avrebbero abbandonato la loro santa
fede. A questa intrepida risposta gli ufficiali strapparono i vestiti di dosso ai prigionieri, li legarono mani e piedi a dei pali, e raccolta dell’acqua bollente dentro grossi mestoli la versarono sui loro corpi nudi. I mestoli erano forati, pieni di buchi, per cui la cosa richiese parecchio tempo e le sofferenze furono prolungate. Eroi di Cristo, sopportarono l’orribile tormento senza esitare. Solo la giovane Maria, sopraffatta dall’eccessiva sofferenza, cadde a terra in un parossismo spasmodico. “Ha abiurato! Ha abiurato!” gridarono, e riportatala alla capanna la mandarono immediatamente a Nagasaki. Maria negò di aver voluto abiurare. Anzi, arrivò a supplicare di esser torturata insieme alla madre e agli altri. Le sue preghiere tuttavia non furono ascoltate. Gli altri sei restarono sulla montagna per trentatré giorni. Durante quel periodo i sacerdoti Antonio e Francisco, insieme a Beatrice, furono sottoposti alla tortura dell’acqua bollente ciascuno per sei volte; padre Vincente fu torturato quattro volte, i padri Palmeiro e Gabriel due volte. Malgrado tutto ciò nessuno di loro emise un gemito o un sospiro. In particolare i padri Antonio e Francisco nonché Beatrice da Costa, nonostante le torture e le minacce e le sollecitazioni di ogni sorta, mostrarono un coraggio davvero virile. Oltre alla tortura dell’acqua bollente Beatrice fu sottoposta a un’ulteriore ignominia, costretta a stare in piedi per ore su una piccola roccia, esposta agli insulti e alle beffe della folla. Ma anche quando il parossismo dei suoi persecutori giunse all’apice, essa non vacillò. Essendo gli altri molto deboli di salute, non era possibile punirli con troppo rigore dal momento che il magistrato non voleva che fossero messi a morte, ma intendeva farli abiurare. E per questa ragione arrivò addirittura a far portare un medico sulla montagna perché curasse le ferite dei prigionieri. Tuttavia alla fine Uneme comprese che non avrebbe mai vinto. I suoi seguaci, anzi, vedendo il coraggio dei sacerdoti, gli dissero che tutte le sorgenti di Unzen avrebbero dovuto prosciugarsi prima che si potesse persuadere uomini di tal forza a mutare opinione. Così Uneme decise di riportarli a Nagasaki. Il 5 gennaio relegò Beatrice in una casa di malaffare, e rinchiuse i preti nella prigione locale. E là si trovano tuttora. Tutta questa lotta ha avuto l’effetto di diffondere tra le folle la nostra dottrina e di rafforzare la fede di noi cristiani. Tutto si è rivoltato contro le intenzioni del tiranno.» Questa la lettera di Ferreira. La Chiesa di Roma non poteva credere che quest’uomo, per quanto sottoposto a torture terribili, fosse stato indotto a rinunziare alla sua fede e a strisciare davanti all’infedele. Nel 1635, a Roma, quattro sacerdoti si raccolsero intorno a padre Rubino. Intendevano giungere fino in Giappone nel pieno delle persecuzioni, allo scopo di fondare un apostolato missionario clandestino ed espiare l’apostasia di Ferreira che tanto aveva ferito l’onore della Chiesa. Dapprima questo piano temerario non riuscì a strappare il consenso dei superiori. Benché guardassero con favore all’ardore e allo zelo apostolico che avevano ispirato il progetto, le autorità ecclesiastiche erano restie all’invio di altri sacerdoti in un paese e in una missione minacciati da tanti pericoli. D’altra parte, era in quella stessa terra che fin dai tempi di Francesco Saverio il buon seme era stato gettato con più abbondanza: lasciarlo ora senza una guida e abbandonare i cristiani al loro destino era qualcosa di inconcepibile. Inoltre, per l’Europa di quel tempo, il fatto che Ferreira fosse stato costretto ad abiurare la sua fede in quel lontano paese, posto alla periferia del mondo, non era soltanto il fallimento di un singolo uomo ma una umiliante sconfitta per la fede stessa e per l’Europa intera. Questa fu l’opinione che prevalse, e così, dopo problemi e difficoltà di ogni sorta, padre Rubino e i suoi compagni ottennero finalmente l’autorizzazione a partire. Oltre a questo gruppo c’erano altri tre giovani sacerdoti intenzionati a loro volta a entrare in Giappone in segreto; si trattava però di portoghesi e la ragione che li spingeva era diversa. Erano stati allievi di Ferreira, sotto la cui guida avevano studiato nell’antico monastero di Campolide. Per questi tre uomini, Francisco Garrpe, Juan de Santa Marta e Sebastião Rodrigues, era impossibile credere che il loro ammiratissimo maestro Ferreira, posto dinanzi all’eventualità di un glorioso martirio, avesse strisciato come un cane davanti all’infedele. I loro sentimenti erano condivisi dal clero del Portogallo. Sarebbero andati in Giappone e avrebbero indagato di persona. Ma, come già in Italia, anche in Portogallo i superiori erano riluttanti a concedere la loro approvazione. Tuttavia con il tempo, sopraffatti dall’ardente insistenza dei giovani, diedero il benestare alla pericolosa missione in Giappone. Era l’anno 1637. I tre giovani religiosi si accinsero allora a preparare il loro lungo e faticoso viaggio. A quel tempo i missionari portoghesi diretti in Oriente erano soliti aggregarsi alla flotta che, da Lisbona, faceva vela per l’India; e a Lisbona la partenza della “flotta indiana” era uno degli avvenimenti più emozionanti dell’anno. Innanzi agli occhi dei tre giovani appariva a colori vividi lo spettacolo di un Oriente che rappresentava letteralmente il confine ultimo della terra, e di un Giappone che ne costituiva l’estremo limite. Bastava aprire la carta geografica, ed ecco i contorni dell’Africa, poi l’India quindi, sparsi tutto intorno, le innumerevoli isole e i paesi dell’Asia. E poi, nell’estrema parte nordorientale come un bruco enorme, ecco la sottile sagoma del Giappone. Per arrivarci occorreva prima andare a Goa, in India; quindi oltrepassare miglia e miglia di mare. Per settimane, per mesi, bisognava andare avanti e ancora avanti. Dai tempi di Francesco Saverio, Goa era stata la porta d’accesso a tutta la fatica missionaria in Oriente; a Goa esistevano due seminari dove studiavano giovani provenienti da ogni parte dell’Asia e dove i missionari europei venivano a conoscenza delle condizioni del paese a cui erano destinati. Talora i missionari dovevano restare a Goa per sei mesi o un anno in attesa di un mezzo di navigazione
che li portasse nella loro zona di missione. I tre giovani sacerdoti non tralasciarono sforzo per imparare tutto il possibile sulle condizioni del Giappone. Esistevano per fortuna numerosi rapporti inviati dal Giappone dai missionari portoghesi del tempo di Luís Fróis; questi rapporti dicevano come il nuovo Shogun Iemitsu avesse adottato una politica di repressione ancor più crudele di quella applicata dal padre e dal nonno. Dal 1629, in special modo a Nagasaki, il magistrato Takenaka Uneme aveva inflitto ai cristiani i supplizi più inumani e atroci, immergendoli in vasche di acqua bollente e spronandoli ad abiurare la loro fede e a mutare religione. Si diceva che in un sol giorno il numero delle vittime toccasse talora perfino le sessanta o settanta unità. Dato che era stato lo stesso Ferreira a far pervenire la notizia, non potevano esservi dubbi sulla sua fondatezza. Comunque i nuovi missionari si resero conto che dovevano partire con l’idea e la convinzione che alla fine del loro arduo viaggio avrebbero forse dovuto affrontare un destino ancora più terribile di tutte le sofferenze patite fino ad allora. Sebastião Rodrigues, nato nel 1610 nella famosa città mineraria di Tasco, era entrato nella vita religiosa a diciassette anni. Juan de Santa Marta e Francisco Garrpe, entrambi amici di Rodrigues, avevano studiato con lui al seminario di Campolide. Fin dagli esordi al seminario, avevano trascorso le giornate seduti ai loro banchi a studiare, e tutti avevano ancora vivido il ricordo del vecchio insegnante da cui avevano appreso la teologia. E ora Ferreira si trovava da qualche parte in Giappone. Il suo viso aveva ancora quegli occhi azzurri che emanavano una luce dolce, oppure era stato alterato dalle torture dei giapponesi? Questa la domanda che i giovani si ponevano. Non potevano credere che quel viso fosse ora sconvolto a causa degli insulti ricevuti; né potevano credere che Ferreira avesse voltato le spalle a Dio e gettato via la mite carità che caratterizzava ogni sua azione. Rodrigues e i suoi compagni volevano a ogni costo arrivare in Giappone e sapere la verità sulla sorte toccata a Ferreira. Accompagnata da salve di cannone provenienti dalla fortezza di Belém, il 25 marzo del 1638 la flotta indiana salpò dal fiume Tago. I tre missionari, dopo aver ricevuto la benedizione del vescovo João Dasco, si erano imbarcati sulla Santa Isabella, la nave ammiraglia. Appena oltrepassata la bruna foce del fiume, circondati ormai dall’azzurro del mare di mezzogiorno, si appoggiarono al parapetto della nave e osservarono il promontorio e le montagne che scintillavano come oro. Le mura rosse delle fattorie. La chiesa. Dalla torre i rintocchi della campana salutavano le navi in partenza e il suono si diffondeva sul mare. Ora li attendeva un viaggio intorno all’Africa, alla volta dell’India. Tre giorni dopo la partenza incapparono in una spaventosa tempesta lungo la costa occidentale dell’Africa. Il 2 aprile raggiunsero l’isola di Porto Santo, poi Madeira; il 6 aprile arrivarono alle isole Canarie, dove dovettero affrontare una pioggia incessante che scendeva da un cielo senza un alito di vento. Il caldo, nell’assoluta immobilità dell’aria, era insopportabile. E a questo punto, oltre a tutto il resto, scoppiarono le malattie. Sulla sola Santa Isabella oltre un centinaio di vittime gemevano sul ponte e nelle cuccette sotto coperta. Rodrigues, i suoi compagni e l’equipaggio si davano da fare a curare gli ammalati e ad aiutare a fare salassi. Finalmente il 25 luglio, festa di San Giacomo, la nave doppiò il Capo di Buona Speranza. Lo stesso giorno si sollevò un vento contrario talmente violento da spaccare l’albero maestro, scaraventandolo sul ponte con un suono lacerante. Tutti furono chiamati – Rodrigues, i suoi compagni, e perfino gli ammalati – per salvare la vela di trinchetto che correva lo stesso pericolo. Non avevano ancora finito che ecco la nave andò a sbattere contro uno scoglio. Se non ci fossero state le altre navi a soccorrerla, la Santa Isabella sarebbe probabilmente colata a picco in un attimo. Dopo la tempesta il vento calò di nuovo. Le vele erano senza vita e soltanto la loro cupa ombra nera si proiettava sui visi e sui corpi dei malati che giacevano sul ponte come morti. E i giorni passavano l’uno dopo l’altro, col calore abbagliante del sole che batteva su un mare dove non si increspava onda. Questa serie di inconvenienti prolungò il viaggio tanto che cibo e acqua cominciarono a scarseggiare; ma finalmente il 9 ottobre giunsero a destinazione: Goa. Una volta arrivati, poterono ottenere altre notizie sul Giappone, più dettagliate di quelle che si riusciva ad avere in patria. Seppero che dal gennaio dell’anno in cui erano partiti, tremilacinquecento cristiani erano insorti a Shimabara; nel sanguinoso conflitto con le forze del Bakufu seguito all’insurrezione, i ribelli erano stati massacrati fino all’ultimo: uomini e donne, giovani e vecchi, tutti trucidati. Come risultato di questa guerra l’intero distretto era così desolato che a stento vi si scorgeva un’ombra umana, mentre si dava la caccia ai cristiani rimasti, a uno a uno. Tuttavia la notizia che più colpì Rodrigues e i compagni, fu che come risultato di quella guerra il Giappone aveva troncato tutte le relazioni commerciali e i rapporti con la loro patria. Alle navi portoghesi era proibito entrare nei porti del Giappone. Fu con la consapevolezza di non poter arrivare fino in Giappone su una nave portoghese, che i tre sacerdoti giunsero a Macao. Erano disperati. Oltre a essere la base delle attività portoghesi in Oriente, Macao era una base commerciale per gli scambi tra Cina e Giappone. Perciò, se avessero atteso pazientemente in quella città, poteva capitare loro un provvidenziale colpo di fortuna. Immediatamente dopo il loro arrivo ricevettero dal visitatore ecclesiastico, Valignano, che si trovava a Macao in quel periodo, un consiglio inequivocabile. In Giappone, disse loro Valignano, di opera missionaria non se ne parlava neppure, ed egli stesso non aveva alcuna intenzione di inviare missionari in un paese così pieno di pericoli. Va detto che fin da quando in Giappone erano iniziate le
persecuzioni, l’intera amministrazione della provincia giapponese della Compagnia di Gesù era stata affidata al superiore Valignano, divenuto così padre provinciale; questi, dieci anni prima, aveva fondato a Macao un collegio per la formazione di missionari destinati alla Cina e al Giappone. Per quanto riguardava Ferreira, che i tre uomini intendevano trovare una volta arrivati in Giappone, Valignano riferì quanto segue: dal 1633 tutte le notizie dalle missioni clandestine avevano cessato di pervenire bruscamente e drasticamente. Marinai olandesi di ritorno a Macao da Nagasaki avevano riferito che Ferreira era stato catturato e sottoposto alla tortura della fossa. Tranne questa notizia, tutto il resto era molto oscuro e investigare sui fatti reali era impossibile. Questo perché gli olandesi avevano lasciato la zona esattamente lo stesso giorno in cui Ferreira era stato messo sotto tortura. L’unico dato certo era che Ferreira aveva subito un interrogatorio a opera del magistrato di fresca nomina Inoue, signore di Chikugo. Comunque, la Missione di Macao non poteva assolutamente approvare che, date le circostanze, dei preti si recassero in Giappone. Questa la schietta opinione espressa da Valignano. Oggigiorno si possono leggere alcune delle lettere scritte da Sebastião Rodrigues, conservate in Portogallo, nella biblioteca dell’Istituto di Studi Storici delle Terre Straniere. La prima di queste lettere fu scritta quando Rodrigues e i suoi compagni seppero da Valignano quale fosse la situazione in Giappone.
1. (LETTERA DI SEBASTIÃO RODRIGUES)
Pax Christi. Sia Lodato Gesù Cristo. Le ho già raccontato di come giungemmo a Goa il 9 ottobre dello scorso anno e di come arrivammo a Macao il 1º maggio. Tra le tante difficoltà e privazioni del viaggio Juan de Santa Marta era sfinito, pareva che dovesse venirgli la malaria, così soltanto Francisco Garrpe e io lavoriamo ora con ogni nostra forza al collegio missionario di qui. Certo l’accoglienza che abbiamo ricevuta è stata magnifica. C’è tuttavia un problema: Padre Valignano – che è il rettore del collegio e che si trova qui da dieci anni – si oppone recisamente al nostro viaggio in Giappone. Nella sua stanza che dà sulla baia ci ha parlato molto a lungo, ed ecco il succo del suo discorso: «Sono obbligato a rifiutare l’invio di altri missionari in Giappone. Per le navi portoghesi il viaggio per mare è estremamente pericoloso, e incontrereste ostacoli di ogni sorta prima ancora di metter piede in quel paese». Il suo veto non è del tutto immotivato dato che a partire dal 1636 il governo giapponese ha troncato completamente ogni relazione commerciale con il nostro paese, sospettando che i portoghesi avessero in qualche modo avuto a che fare con la rivolta di Shimabara. Non solo, ma da Macao i mari vicini al Giappone sono infestati da navi da guerra inglesi e olandesi pronte ad aprire il fuoco contro le navi mercantili portoghesi. «Tuttavia, con l’aiuto di Dio, la nostra missione segreta potrebbe andare a buon fine» ha affermato a un certo punto Juan de Santa Marta, sbattendo le palpebre con fervore. «In quella terra sconvolta i cristiani hanno perduto i loro sacerdoti e sono come un gregge di pecore senza pastore. Qualcuno deve raggiungerli per far loro coraggio, per far sì che la fiammella della fede non si spenga.» A queste parole un’ombra è passata sul viso di Valignano, che è rimasto in silenzio. Senza dubbio fino a quel giorno era stato profondamente travagliato e dibattuto dal dilemma tra il proprio dovere di superiore e il destino degli sfortunati e perseguitati cristiani. Così, tenendosi la fronte con le mani, il vecchio non parlava. Dalla sua stanza si vedeva da lontano il porto di Macao. Nel sole della sera il mare era rosso. Giunche scure galleggiavano sull’acqua, sparse qua e là come macchie nere. «C’è anche un altro motivo. Noi abbiamo un dovere di più: vogliamo scoprire la verità sul nostro maestro, Ferreira.» «Di Ferreira non abbiamo ricevuto altre notizie. I resoconti che lo riguardano sono vaghi. Comunque, al momento, non abbiamo pensato a nulla per accertare la verità o l’infondatezza di ciò che è stato detto su di lui.» «È vivo?» «Non sappiamo neppure questo...» Valignano ha sollevato la testa e, tratto un profondo sospiro, ha aggiunto: «I rapporti che mi inviava regolarmente dal 1630 sono cessati all’improvviso. Che sfortunatamente si sia ammalato e sia morto, che giaccia nelle prigioni degli infedeli, che (come voi immaginate) si sia conquistato un glorioso martirio, oppure che sia ancora vivo e che tenti senza successo di inviarci qualche rapporto... al momento non se ne può dir nulla». Valignano non ha sprecato una sola parola sulle voci che volevano che Ferreira si fosse piegato sotto le torture dei suoi nemici. Come noi, provava ripugnanza ad attribuire simili immaginose accuse al suo vecchio amico. «Inoltre...» Ora Valignano parlava con enfasi. «Adesso in Giappone è emerso un personaggio che è un vero flagello per i cristiani. Si chiama Inoue.» Era la prima volta che udivamo nominare Inoue. Valignano ha proseguito affermando che, paragonate a Inoue e alla sua crudeltà, persone come Takenaka, l’ex magistrato di Nagasaki che tanti cristiani aveva massacrato, erano solo dei novellini. Per stamparci in mente il nome di questo giapponese che avremmo certamente incontrato se fossimo sbarcati in Giappone, abbiamo continuato a ripetere quei suoni così poco familiari: I-N-O-U-E. Grazie all’ultimo rapporto inviato dai cristiani di Kyushu, Valignano conosceva parecchio sul conto di quell’uomo. Dopo la ribellione di Shimabara, Inoue era diventato di fatto l’artefice primo delle persecuzioni contro i cristiani. A differenza del suo predecessore, Takenaka, Inoue era astuto come una volpe, tanto che quei cristiani che finora non avevano vacillato davanti a minacce e torture cadevano adesso a uno a uno nei suoi astuti inganni. «E la cosa triste» ha proseguito Valignano «è che un tempo era della nostra stessa fede. È anche stato battezzato.» È probabile che in seguito potrò fornirle altre informazioni su questo persecutore; ora voglio dirle invece che Valignano, benché sia il prudente superiore che è, si è finalmente commosso alle nostre preghiere – specialmente a quella di Garrpe – e ha dato il consenso alla nostra missione segreta in Giappone. Ora il dado è tratto. Per la conversione del Giappone e la gloria di Dio siamo in qualche modo giunti in Oriente; adesso ci si apre un futuro che è senz’altro irto di pericoli e privazioni più grandi di quanto siano stati il viaggio per mare intorno all’Africa e la traversata dell’oceano Indiano.
Ma «se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra»; e costantemente ho nel cuore le parole dell’Apocalisse: onore e gloria e potenza appartengono a Dio soltanto. Come già le ho detto, Macao si trova alla foce del grande fiume Chu-Kiang. Sorge su una delle tante isole di cui è costellata la via d’accesso alla baia, e come tutte le città d’Oriente non ha mura di cinta per cui è impossibile dire dove si trovino i confini della città vera e propria. Le case cinesi si dilatano e allungano come polvere. Comunque, per quanti centri e città del nostro paese lei possa immaginare, mai potrà figurarsela. Si dice che la popolazione si aggiri sulle ventimila unità, ma la cifra è quasi certamente falsa. Le uniche cose di qui che possono ricordare il nostro paese sono il palazzo del governatore, i magazzini dei portoghesi e le strade acciotolate. Sulla baia si affaccia una fortezza con dei cannoni che fortunatamente fino a questo momento non sono mai entrati in azione. La maggior parte dei cinesi non mostra alcun interesse per i nostri insegnamenti. A questo proposito, come disse san Francesco Saverio, «il Giappone è senza dubbio tra i paesi dell’Oriente il più adatto alla dottrina cristiana». Tuttavia da quando il governo giapponese ha proibito alle sue stesse navi di toccare porti stranieri, il monopolio del commercio della seta di tutto l’Estremo Oriente è caduto, per ironia, proprio nelle mani dei mercanti portoghesi di Macao. Si valuta che l’entrata complessiva di tale importazione arriverà quest’anno ai quattrocento xeraphim1 contro i cento xeraphim dell’anno scorso e dell’anno precedente. Oggi ho magnifiche notizie da darle. Ieri siamo finalmente riusciti a conoscere un giapponese. Pare che una volta fossero parecchi i giapponesi, tra religiosi e mercanti, che venivano a Macao; ma ora con la chiusura del loro paese queste visite sono finite, e anche i pochi che erano rimasti qui sono ritornati in patria. Anche Valignano, a una nostra domanda in merito, aveva risposto che non era rimasto un solo giapponese in città. E invece per puro caso abbiamo scoperto che in mezzo ai cinesi di Macao viveva un giapponese. Voglio raccontarle come lo abbiamo conosciuto. Ieri – una giornata spaventosamente piovosa – abbiamo visitato il quartiere cinese della città per vedere se potevamo trovare un’imbarcazione che ci portasse di nascosto in Giappone. Cercavamo un capitano e dei marinai. Macao sotto la pioggia... la pioggia rende questa squallida città ancora più squallida. Tutto era velato di un grigio cenere mentre i cinesi, accalcati nelle loro piccole case che sembrano per lo più dei canili, disertavano le strade sporche a un punto tale che non c’era un’anima in giro. Quando osservo quelle strade penso (e mi chiedo perché) al mistero della vita umana, e divento triste. Mentre ci dirigevamo verso la casa del cinese che ci era stato presentato e parlavamo dei nostri affari, improvvisamente questi ha affermato che in città c’era un giapponese che voleva tornare al suo paese natio. Dietro nostra richiesta, ha mandato il figlioletto alla ricerca del giapponese. Che dire di quest’uomo, il primo giapponese che avessi mai visto in vita mia? Vacillando per il troppo alcool, un ubriaco è entrato barcollando nella stanza. Di età intorno ai ventotto o ventinove anni, vestiva di stracci. Si chiamava Kichijiro. Quando si è deciso a rispondere alle nostre domande abbiamo scoperto che era un pescatore del distretto di Hizen, vicino a Nagasaki. Prima della famosa insurrezione di Shimabara, era stato raccolto da una nave portoghese, mentre andava alla deriva. Non so se fosse perché aveva bevuto, comunque il suo viso aveva uno sguardo astuto e mentre parlava strabuzzava gli occhi. «Sei cristiano?» gli ha chiesto Garrpe. Ma l’uomo d’improvviso si è rinchiuso in se stesso, non capivamo perché la domanda di Garrpe l’avesse messo tanto a disagio. Dapprima non voleva parlare affatto ma, alla lunga, cedendo alle nostre suppliche, ha cominciato poco per volta a raccontare delle persecuzioni subite dai cristiani di Kyushu. Ha narrato quanto segue: nei villaggi di Kurasaki e Hizen aveva assistito allo spettacolo di ventiquattro cristiani sottoposti alla tortura dell’acqua da parte del daimyo del luogo. In mare venivano conficcati dei pali di legno che affioravano a pelo dell’acqua; i cristiani venivano legati a quei pali. Quando arrivava la marea, l’acqua saliva sino a un determinato livello, poi calava. I cristiani si sono fatti via via più deboli e nel giro di una settimana, sono morti dopo orribile agonia. Forse neanche Nerone aveva escogitato un modo così crudele per dare la morte. Mentre la conversazione procedeva, abbiamo notato una cosa strana. Nel descrivere quella scena da far rizzare i capelli, il volto di Kichijiro si alterò, e poi improvvisamente egli tacque. Gli tremavano le mani come se quegli orribili ricordi affiorati dal passato lo perseguitassero. Mi chiedo se tra quella ventina di cristiani vittime della tortura dell’acqua ci fossero dei suoi amici o dei conoscenti. Forse avevamo messo il dito su una piaga ancora aperta e che sarebbe stato meglio non toccare. «Così tu sei cristiano, vero?» ha chiesto Garrpe ancora una volta, con insistenza. «Lo sei, vero?» «No» ha risposto Kichijiro scuotendo la testa. «Non sono cristiano.» «Comunque, vuoi ritornare in Giappone. Noi abbiamo denaro per comprare un’imbarcazione e per ingaggiare un capitano e dei marinai. Perciò, se vuoi tornare nel tuo paese...» A queste parole quegli occhi a mandorla, brutti occhi gialli da ubriaco, si sono illuminati di astuzia. Rimanendo accovacciato sulle ginocchia in un angolo della stanza, con voce tremante quasi dovesse difendersi, ha pregato perché gli consentissimo di ritornare al suo paese, anche solo per vedere ancora una volta i suoi cari rimasti a casa. Così sono iniziati i nostri rapporti con quell’individuo spaventato. In quella stanza sporca e debolmente illuminata una mosca ronzava continuamente tutt’intorno. Sul pavimento le bottiglie di sake, vuote, che l’uomo aveva bevuto. Comunque, l’aver scovato quest’individuo è un bene. Una volta in
Giappone non distingueremo la destra dalla sinistra. Qualcuno dovrà darci alloggio. Dovremo entrare in contatto con dei cristiani che ci possano aiutare. Possiamo quindi servirci di quest’uomo come di una prima guida. Kichijiro è rimasto seduto a lungo, con il viso rivolto verso il muro, le ginocchia strette, vagliando a fondo le condizioni che gli avevamo proposto. Poi ha accettato. Per lui si tratta di un’avventura molto pericolosa, tuttavia ha pensato probabilmente che se avesse perso quest’occasione non sarebbe potuto tornare in Giappone mai più. Comunque sembra che grazie a padre Valignano potremo procurarci una grossa giunca. E tuttavia come sono fragili ed effimeri i piani dell’uomo! Oggi abbiamo saputo che la nostra imbarcazione se la stanno divorando le termiti. E qui procurarsi ferro e pece è estremamente difficoltoso. Ogni giorno seguito a scrivere pezzo per pezzo questo rapporto, tanto che assomiglia a un diario privo di data. Per piacere lo legga con pazienza. Una settimana fa le ho detto che la giunca che eravamo riusciti a procurarci stava per esser distrutta dalle termiti; ma ora, grazie a Dio, abbiamo escogitato un sistema per superare questa difficoltà. Intendiamo sigillarne l’interno e quindi prendere il mare alla volta di Taiwan. Poi, se riterremo che queste misure d’emergenza possano resistere più a lungo, proseguiremo direttamente verso il Giappone. Chiediamo la protezione di Dio per non imbatterci in una delle grandi tempeste del mare della Cina orientale. Oggi ho cattive notizie da darle. L’avevo già informata che Santa Marta, completamente spossato dal lungo e penoso viaggio in mare, sembrava avesse preso la malaria. Adesso è caduto di nuovo preda di una febbre violentissima, accompagnata da brividi per tutto il corpo. È a letto, in una delle stanze del collegio. Lei che lo ricorda vigoroso e in salute, non può immaginare quanto sia spaventosamente magro e abbattuto. Ha gli occhi velati e iniettati di sangue, e se gli si mette sulla fronte una salvietta umida, questa si scalda come se fosse stata immersa in acqua bollente. Andare in Giappone in condizioni simili è assolutamente impensabile. Valignano dice che se non lo lasciamo qui a curarsi, non darà il permesso di partire nemmeno a noialtri due. «Prima andremo noi» ha detto Garrpe a Marta per consolarlo «e prepareremo la strada. Così quando starai meglio potrai raggiungerci.» Ma chi può predire ciò che avverrà? Forse la sua sarà una vita sicura e felice, mentre come molti altri cristiani noi saremo catturati dagli infedeli... Marta è rimasto in silenzio; aveva le guance e il mento coperti da una sottile barba ispida; aveva lo sguardo fisso alla finestra. Che cosa c’era nella sua mente? Lei che lo conosce da così lungo tempo può certamente capire i suoi sentimenti. Il giorno in cui, saliti a bordo, abbiamo ricevuto la benedizione del vescovo e dato l’addio al fiume Tago, è stato l’inizio di un lungo e terribile viaggio. La nostra nave è stata visitata da sete e malattie. Perché abbiamo sopportato tutto ciò? E perché siamo giunti fino a questa cadente città dell’Estremo Oriente? Per certi versi noi sacerdoti siamo un triste genere d’uomini. Venuti al mondo per soccorrere l’umanità, nessun altro individuo è più squallidamente solo del prete che non è all’altezza del suo compito. Fin dal nostro arrivo a Goa, Marta in modo particolare ha nutrito una speciale devozione per san Francesco Saverio: non passava giorno che, nel dire le orazioni nel santuario del santo, in India, non pregasse di riuscire a recarsi in Giappone. Ogni giorno preghiamo perché si rimetta in salute il più presto possibile. Ma non migliora. Tuttavia Dio concede all’uomo un fato migliore di quanto la conoscenza umana potrà mai arrivare a pensare o supporre. La nostra partenza si fa più vicina. Non restano che due settimane. Forse Dio, nella sua onnipotenza, farà sì che tutto vada per il meglio. La riparazione della nave procede rapidamente. Grazie alle nuove assi impiegate dopo i guai causati dalle termiti, la giunca ha ora un aspetto completamente diverso. Sembra che i venticinque marinai che padre Valignano ci ha trovato, potranno portarci fino al mare vicino al Giappone. Questi cinesi hanno un aspetto magro e consunto, come degli ammalati che non tocchino cibo da mesi, e tuttavia la forza delle loro mani sottili è incredibile. Senza alcuna difficoltà, con quelle loro braccia scarne, simili a fili d’acciaio, sollevano pesantissime casse colme di provviste. In ogni modo, ora aspettiamo soltanto il vento favorevole per prendere il largo. Per quanto riguarda il nostro giapponese, Kichijiro, egli si confonde con i marinai cinesi, trasporta bagagli e dà una mano a rammendare le vele; noi non perdiamo occasione di sorta per studiare attentamente il carattere di questo giapponese dal quale è probabile che dipenda tutto il nostro futuro destino. Ormai abbiamo capito che si tratta di un individuo assai scaltro. La furbizia gli deriva dal carattere debole. Stia a sentire che cosa è accaduto l’altro giorno. Quando lo sguardo del sovrintendente cinese si puntava su di lui, Kichijiro si dava un gran da fare e lavorava a più non posso, ma quando il sovrintendente se ne andava, lui cominciava subito a oziare. Dapprima gli altri marinai non hanno detto niente ma, a lungo andare, hanno perso la pazienza e gliele hanno suonate di santa ragione. Il fatto di per se stesso non è importante, ma siamo rimasti sbalorditi perché, quando è stato sbattuto a terra e preso violentemente a calci da tre marinai insieme, Kichijiro è diventato di un pallore mortale e, inginocchiatosi sulla sabbia dove era caduto, ha chiesto perdono nel modo più turpe che si possa immaginare.
Una condotta che è ben lontana dalla cosiddetta pazienza cristiana, e che invece è simile alla vigliaccheria dei deboli! Sollevando il viso che gli era sprofondato nella sabbia, ha urlato qualcosa in giapponese. Aveva naso e guance coperti di sabbia e dalla bocca gli usciva un rivolo di bava sporca. Cominciamo a capire perché si fosse chiuso in se stesso a riccio, quando per la prima volta gli abbiamo parlato dei cristiani giapponesi. Forse ogni volta che apre bocca, ha una paura terribile delle sue stesse parole. Comunque sia, la lotta a senso unico è cessata quando alla fine siamo intervenuti in suo favore, e tutto si è calmato. Da allora Kichijiro ci accoglie con un sorriso servile. «Sei davvero un giapponese? Lo sei veramente?» questa la domanda tipica che gli rivolgeva Garrpe, e non senza una punta di amarezza. Ma con uno sguardo stupito Kichijiro ribadiva con enfasi che sì, era giapponese. Con troppa credulità Garrpe aveva prestato fede ai discorsi di tanti missionari sulla «nazione, il cui popolo non ha paura nemmeno della morte». Naturalmente è vero che ci sono giapponesi che hanno saputo sopportare torture per cinque giorni di seguito senza vacillare o scostarsi dal loro credo; ma ce ne sono anche altri, deboli e codardi come Kichijiro. Ed è proprio a un uomo del genere che saremo costretti ad affidarci quando saremo in Giappone. Ci ha promesso di metterci in contatto con dei cristiani che ci daranno rifugio; tuttavia, ora che vedo il suo modo di agire, mi domando quanto ci si possa fidare di lui. Non pensi però, leggendo queste righe, che noi abbiamo perduto energia ed entusiasmo. Al contrario, quando penso che ho messo il mio futuro nelle mani di un individuo come Kichijiro non posso fare a meno di ridere. A ben riflettere, Nostro Signore stesso ha messo il proprio destino in mano di persone che non meritavano fiducia. In ogni caso, in questa particolare circostanza, non abbiamo alternativa se non quella di affidarci a Kichijiro. E così faremo. Una sola cosa è veramente sconcertante: è un ubriacone accanito. Dopo una giornata di lavoro, tutta la paga che riceve dal sovrintendente la spende fino all’ultimo soldo in sake. Quando ha bevuto, si comporta in modo inqualificabile. Posso solo concludere che ha qualche ricordo che lo ossessiona, qualcosa che cerca di dimenticare bevendo. A Macao, durante la notte, echeggia il triste, prolungato suono della tromba del soldato di guardia alla fortezza. Come in patria, anche qui, nel nostro monastero, dopo cena c’è la benedizione nella cappella; e poi i sacerdoti e i fratelli, tenendo in mano le candele, si ritirano nelle loro stanze, come prescrive la regola. I servitori hanno appena attraversato il cortile. Nelle camere di Garrpe e Santa Marta la luce è spenta. Siamo veramente all’estremo limite della terra. Sono seduto alla luce di una candela, tenendo le mani sulle ginocchia, con lo sguardo fisso davanti a me. È nella mia mente sempre presente il pensiero che mi trovo all’estremo limite della terra, in un posto sconosciuto e che in tutta la vita non si conoscerà mai. Tutto il mio essere freme, davanti ai miei occhi riaffiora il ricordo di quella lunga e terribile traversata, tanto che il mio petto è colmo di dolore. Certo il fatto che mi trovo in questa città orientale così remota e sconosciuta è come un sogno. O piuttosto, se comincio a pensare che un sogno non è, mi verrebbe voglia di gridare al miracolo. È vero che sono a Macao? Non sto sognando? Non posso crederci. Sul muro c’è un grande scarafaggio. Il suo fruscio stridente spezza il solenne silenzio della notte. «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura. Colui che crede e sarà battezzato sarà salvo; chi non crede sarà dannato.» Queste le parole del Cristo risorto ai suoi discepoli riuniti per la cena. E ora mentre obbedisco al suo comando, il volto di Cristo si leva davanti ai miei occhi. Come era il volto di Cristo? La Bibbia tace su questo punto. È cosa nota che i primi cristiani pensavano che Cristo fosse un pastore. Il mantello corto, la piccola tunica; con una mano tiene le zampe dell’agnello mentre con l’altra stringe un bastone. Questa è una figura familiare nei nostri paesi, che vediamo riflessa in molte persone a noi note. Così i primi cristiani vedevano il dolce volto di Cristo. E invece nelle chiese orientali si trovano il lungo naso, i capelli ricci, la barba nera. Con queste fattezze fu creato il Cristo orientale. Quanto agli artisti medievali, molti di loro dipinsero il volto di Cristo splendente dell’autorità di un sovrano. E tuttavia stanotte per me quel viso è come il dipinto conservato in Borgo San Sepolcro. È ancora viva nella mia memoria la prima volta che da seminarista vidi quel dipinto. Cristo ha un piede sul sepolcro, e nella mano destra regge un crocifisso. Guarda davanti a sé, e il suo volto ha l’espressione di incoraggiamento di quando comandò ai suoi discepoli, per tre volte: «Nutrite i miei agnelli, nutrite i miei agnelli, nutrite i miei agnelli...» È un volto pieno di vigore e di forza. Io provo un grande amore per quel volto. Sempre mi affascina il volto di Cristo, come un uomo è affascinato dal volto della sua amata. Finalmente mancano solo cinque giorni alla partenza; non abbiamo altro bagaglio da portare in Giappone che i nostri cuori. Ci preoccupiamo esclusivamente della nostra preparazione spirituale. Ahimè, quanto mi pesa scrivere di Santa Marta. Iddio non ha concesso al nostro sventurato compagno la gioia di ristabilirsi in salute. Ma ogni cosa che Dio fa è per il meglio. Non ho dubbi che a nostra insaputa Dio stia apprestandogli quella che un giorno sarà la sua missione.
2. (LETTERA DI SEBASTIÃO RODRIGUES)
La pace di Dio. Gloria a Cristo. Non so come scrivere nel breve spazio di una lettera gli innumerevoli avvenimenti che si sono susseguiti negli ultimi due mesi della mia esistenza. Inoltre, data la mia situazione, non so nemmeno se questa lettera arriverà mai. Tuttavia il mio stato è tale che non posso fare a meno di scriverle, sento il dovere di lasciarle qualcosa di scritto. Per otto giorni dopo la partenza da Macao la nostra imbarcazione è stata benedetta da un tempo straordinariamente bello. Il cielo era terso e azzurro, le vele gonfie di vento; si scorgevano banchi di pesci volanti che scintillavano come argento non appena guizzavano fuori dalle onde. Ogni mattina Garrpe e io celebravamo la messa a bordo, ringraziando Dio della nostra traversata sicura, pure non molto tempo dopo ci siamo imbattuti nella nostra prima tempesta. Era il 6 marzo quando un forte vento ha cominciato a soffiare da sud-est. I marinai erano uomini esperti: hanno ammainato le vele e ne hanno issata una sola e piccola sulla parte anteriore della nave. Ma ormai era notte fonda e non si poteva far altro che abbandonare l’imbarcazione in balia del vento e delle onde. Nel frattempo si è aperta a prua una grande falla per cui l’acqua ha cominciato a riversarsi nella nave. Per quasi tutta la notte abbiamo lavorato per otturare la falla con stracci e per gettar fuori l’acqua. All’alba il temporale si è calmato. I marinai, che come Garrpe e me erano completamente spossati, non hanno potuto far altro che gettarsi tra le balle del bagagliaio a guardare le grosse nuvole nere cariche di pioggia che fluttuavano verso est. Mi è sorto in cuore il pensiero di san Francesco Saverio. Anche lui, nella calma seguita a un’analoga tempesta, avrà guardato lassù nel cielo biancastro. E dopo di lui per i successivi ottanta anni, quanti missionari e seminaristi avevano navigato intorno alla costa africana, erano passati per l’India, e avevano attraversato questo stesso mare per portare il Vangelo in Giappone. E tra gli altri il vescovo Cerqueira, e Organtino, Gomes, Lopez, Gregorio... Se si comincia a contarli non si finisce più. Tra loro ce n’erano stati alcuni, come Gil de Mata, il cui fato si era concluso su una nave che naufragava, mentre i loro occhi fissavano il Giappone. Ora sono in grado di comprendere l’enorme emozione che colmò i loro petti e rese loro possibile il patire simili terribili sofferenze. Tutti questi grandi missionari fissarono sia le nuvole di un bianco lattiginoso sia le altre, le grosse nuvole nere cariche di pioggia fluttuanti verso est. Quali pensieri avevano in testa in momenti simili? Anche questo non mi è difficile immaginarlo. Kichijiro stava accanto ai bagagli. Sentivo la sua voce. Durante la tempesta quel penoso codardo non aveva praticamente fatto alcun tentativo per andare in aiuto dei marinai e ora, spaventosamente pallido, giaceva sdraiato tra i bagagli. Tutto intorno a lui c’era vomito bianco, e intanto seguitava a borbottare qualcosa in giapponese. Come i marinai, anche noi lo guardavamo con disprezzo. Eravamo troppo esausti per interessarci ai suoi borbottii in giapponese. Tuttavia per puro caso nel guazzabuglio delle sue frasi afferrai le parole “grazia” e “Santa Maria”. Quest’individuo che era proprio come un maiale che affondava la faccia nel suo stesso vomito, costui aveva senza ombra di dubbio pronunciato due volte le parole “Santa Maria”. Garrpe e io ci siamo scambiati delle occhiate. Possibile che fosse della nostra stessa fede, questo miserabile che per tutto il viaggio non solo non aveva dato una mano ma si era dimostrato un inutile fardello? No. Era impossibile. La fede non poteva trasformare un uomo in un vigliacco simile. Sollevando il viso sporco del suo vomito, Kichijiro ha lanciato verso di noi uno sguardo di dolore. E poi con il suo abituale atteggiamento da furbo ha simulato di non capire le occhiate interrogative che gli rivolgevamo. Ha fatto il suo sorriso da vile. La sua risata è più adulatoria e ossequiosa di quanto si possa immaginare. Lascia sempre un sapore amaro in bocca. «Ti sto facendo una domanda» ha detto Garrpe alzando la voce. «Voglio una risposta chiara. Sei o non sei cristiano?» Kichijiro ha scosso la testa con vigore. Dai loro posti tra le balle dei bagagli i marinai cinesi assistevano alla scena con un misto di curiosità e di disprezzo. Perché mai, se era cristiano, Kichijiro arrivava al punto da nascondere la cosa persino a noi, dei sacerdoti? Ho supposto che questo essere vigliacco temesse che, una volta tornati in Giappone, noi potessimo consegnarlo alle guardie, rivelando il fatto che era cristiano. D’altra parte, se non era cristiano, come spiegare il terrore con cui le parole (“grazia” e “Santa Maria”) gli venivano alle labbra? Comunque quest’uomo mi incuriosisce. Sono certo che poco alla volta riuscirò a venire a capo del suo segreto. Fino a quel giorno non c’era stata traccia di terraferma, né di isole. Il grigio del cielo si estendeva all’infinito e talvolta i raggi del sole battevano debolmente sulla nave, tuttavia pur sempre pesanti sulle palpebre. Vinti dalla depressione tenevamo gli occhi fissi sul mare freddo dove la cresta delle onde balenava come boccioli bianchi. Ma Dio non ci ha abbandonati. Improvvisamente un marinaio che finora era rimasto sdraiato come morto a poppa della nave ha dato un alto grido. Puntava un dito all’orizzonte: da quel punto giungeva un uccello in volo. E questo uccellino, che aveva attraversato l’oceano a volo, è venuto a riposare sulla nostra vela tutta strappata
e lacerata dalla tempesta della notte precedente. Poco dopo, innumerevoli ramoscelli si sono avvicinati galleggiando sulla superficie dell’acqua. Questa era la prova che la terra dove tanto ardentemente desideravamo arrivare non era lontana. Ma la nostra gioia si è mutata rapidamente in allarme... Se eravamo davvero in Giappone, dovevamo accertarci di non esser visti nemmeno dal più piccolo battello. Questo perché qualunque marinaio si sarebbe senza dubbio precipitato immediatamente ad avvisare le guardie che una giunca con stranieri a bordo solcava le onde al largo della costa. Aspettando che si facesse buio, Garrpe e io ci siamo accovacciati tra i bagagli come due cani. I marinai hanno issato una piccola vela a prua. Hanno coraggiosamente fatto il possibile per tenersi alla larga dai tratti di terra emersa che sembravano terraferma. Mezzanotte. La nave procedeva silenziosamente. Per fortuna non c’era luna; il cielo era nero come la pece; nessuno ci ha visti. La terraferma è emersa di colpo davanti a noi. Ci siamo resi conto che stavamo proprio entrando in una baia ai cui lati si ergevano ripide montagne. Ora riuscivamo anche a scorgere gruppi di case ammucchiate lungo la spiaggia. Kichijiro è stato il primo a giungere a riva; poi è venuto il mio turno, Garrpe è stato l’ultimo a scendere nell’acqua fredda come il ghiaccio. Questo era il Giappone? O era un’isola appartenente a un’altra terra? Francamente nessuno di noi ne aveva la più pallida idea. Ci siamo nascosti in silenzio in una piccola buca, mentre Kichijiro andava in giro a vedere come era la situazione. Un rumore di passi sulla sabbia si è avvicinato sino al punto in cui eravamo rannicchiati. Ci siamo stretti nelle vesti inzuppate, trattenendo il respiro: abbiamo visto passare davanti a noi una vecchia con un fazzoletto in testa e una cesta sulla schiena. Non si è accorta della nostra presenza e ha continuato per la sua strada. Mentre si allontanava, i suoi passi si spegnevano nella notte, e ancora una volta un silenzio di morte è calato sulla spiaggia. «Non tornerà! Non tornerà!» ha esclamato Garrpe con le lacrime nella voce. «Dove si è cacciato quello stupido vigliacco?» Quanto a me, stavo pensando a qualcosa di più terribile. Kichijiro non era scappato. Come Giuda, era andato a tradirci. Sarebbe ricomparso presto e le guardie con lui. «Un gruppo di soldati vi si recò con lanterne, torce e armi» disse Garrpe citando le Scritture. Abbiamo ripensato alla notte del Getsemani, quando Nostro Signore si affidò senza remore alle mani degli uomini. Ma il tempo scorreva così lentamente che il mio spirito era quasi annientato. Avevo veramente paura. Dalla fronte il sudore mi colava negli occhi. Poi un rumore di passi, un gruppo di persone si stava avvicinando. La luce delle loro lanterne brillava lugubre nell’oscurità. Si stavano avvicinando sempre più. Qualcuno ha spinto avanti una torcia la cui luce ha illuminato il brutto viso chiazzato di rosso e di nero di un vecchio di bassa statura; intorno a lui cinque o sei giovani ci guardavano con aria spaventata. «Padre! Padre!» Il vecchio si è fatto il segno della croce nel profferire queste parole e nella sua voce c’era una nota di premurosa sollecitudine per le nostre condizioni. Quanto a noi, quel “Padre” detto nella nostra amata lingua portoghese è stato qualcosa che mai avremmo potuto sognare di udire in un luogo simile. Inutile dire che quel vecchio non conosceva altro portoghese che quello, ma davanti ai nostri occhi si è fatto il segno della croce mostrandoci il legame che ci univa. Si trattava proprio di cristiani giapponesi. In un attimo ero in piedi. Avevo finalmente toccato il suolo giapponese, e tale consapevolezza mi ha colpito con una forza tremenda. Kichijiro, col solito sorriso servile, si faceva piccolo in mezzo agli altri. Sembrava sempre un topo pronto a darsela a gambe alla minima cosa. Mi sono morso le labbra per la vergogna. Nostro Signore si era affidato a ogni singolo uomo, perché amava tutti. E io invece diffidavo di quest’uomo, Kichijiro. «Presto, andiamo.» Era stato il vecchio a parlare, esortandoci con un bisbiglio. «Non possiamo rischiare di farci vedere dai gentili.» I “gentili”, altra parola della nostra lingua ben nota a questi cristiani. Erano stati i nostri predecessori che, fin dai tempi di san Francesco Saverio, avevano insegnato loro queste parole. Quanto sudore e quanta fatica per affondare la vanga in un così arido suolo, fertilizzarlo, coltivarlo sino a raggiungere il livello attuale. E tuttavia il seme era stato gettato e aveva germogliato vigorosamente; e adesso era grande compito di Garrpe e mio averne cura perché non inaridisse per poi morire. Quella notte ci hanno nascosti dentro le loro basse casupole, nei pressi c’era il letamaio il cui puzzo giungeva sino a noi. Ci hanno assicurato che non correvamo pericolo, ma come aveva fatto Kichijiro a trovare dei cristiani così alla svelta? Il mattino successivo faceva ancora buio quando Garrpe e io ci siamo infilati dei panni da contadini e insieme con i giovani venuti ad accoglierci la sera precedente, ci siamo inerpicati per una montagna che si ergeva dietro al villaggio. I cristiani intendevano nasconderci lassù, dove avevano un rifugio più sicuro: una baracca per il carbone. Una fittissima foschia gravava sui boschi e lungo il sentiero che stavamo percorrendo; poi la foschia si è tramutata in pioggia leggera. Arrivati a destinazione abbiamo ricevuto per la prima volta notizie sul luogo in cui ci trovavamo: era un villaggio di pescatori, Tomogi, non lontano da Nagasaki. Vi vivevano circa duecento famiglie, la maggior parte delle quali era già stata battezzata. «E come vanno le cose adesso?» ho chiesto. «Padre» era Mokichi che parlava – un giovane che ci scortava – voltandosi verso l’amico proseguì: «Non possiamo far nulla. Se si scopre che siamo cristiani ci ammazzano tutti». Come posso descrivere la gioia di quei volti quando abbiamo donato loro il crocifisso che avevamo al
collo? Entrambi si sono chinati letteralmente fino al suolo e, premendosi il crocifisso sulla fronte, hanno trascorso molto tempo in adorazione. Sembrava che non ne avessero visti da moltissimi anni. «Abbiamo dunque un prete tra noi?» Mokichi mi stringeva la mano tra le sue mentre parlava. «E i fratelli?» Inutile dire che questa gente non vedeva un prete o un fratello da sei anni. Fino a sei anni prima un sacerdote giapponese, Miguel Matsuda, e un fratello gesuita, Mateo de Coros, si erano tenuti segretamente in contatto con il villaggio e i suoi dintorni; ma nel novembre del 1633, logorati dalle fatiche e dalle sofferenze, erano passati entrambi a miglior vita. «Ma che cosa è accaduto in questi sei anni? E i battesimi, e i sacramenti?» Era Garrpe che lo chiedeva. La risposta di Mokichi ci ha sconvolti nel più profondo del nostro animo e desidero che, tramite suo, tale risposta sia comunicata ai miei superiori, e non solo ai miei superiori, ma all’intera Chiesa di Roma. Mentre Mokichi parlava, mi sono tornate alla mente le parole del Vangelo: alcuni semi caddero nel buon terreno, germogliarono e dettero frutto, uno rendendo il dieci, l’altro il trenta, un altro il sessanta, un altro ancora il cento per cento. Perché questa gente, pur priva di sacerdoti o di fratelli e nel pieno di una spaventosa persecuzione a opera del governo, si è organizzata in segreto per amministrare i sacramenti; in tal modo mantiene viva la propria fede. A Tomogi, per esempio, erano organizzati pressappoco come segue. Per ricoprire il ruolo di sacerdote era stato scelto un uomo tra gli anziani. (Glielo scrivo senza fronzoli, semplicemente, proprio come Mokichi me lo ha raccontato.) Si tratta di quel vecchio (lo chiamano “Jiisama”) che abbiamo incontrato ieri sera alla spiaggia, e che ricopre la più alta carica; conduce una vita irreprensibile e a lui è affidato il compito di battezzare i bambini. Sotto lo Jiisama c’è un gruppo d’uomini detti “Tossama”, il cui compito consiste nell’insegnare ai cristiani e guidarli nella preghiera. Infine ci sono i “Mideshi”, gli aiutanti. Tutti costoro sono impegnati in questa lotta tra la vita e la morte per tenere viva la fede. «Ed è così soltanto a Tomogi?» ho chiesto con un certo entusiasmo. «Immagino che in altri villaggi si mantenga viva la fede nello stesso modo e con un analogo tipo d’organizzazione.» Questa volta Mokichi ha scosso la testa. Solo assai più tardi mi sono reso conto che in un paese come il Giappone dove i rapporti di parentela sono di importanza primaria, i componenti di un singolo villaggio, benché uniti l’un l’altro come un’unica famiglia, arrivano a guardare con ostilità gli abitanti degli altri villaggi. «Sì, Padre, posso parlare soltanto della gente del mio villaggio. Con troppi contatti esterni potremmo trovarci accusati davanti a un magistrato.» Tuttavia ho pregato Mokichi e i suoi amici di cercare eventuali cristiani anche negli altri villaggi. Sentivo che bisognava spargere il più presto possibile la voce che ancora una volta un prete, tenendo il crocifisso in mano, era giunto in questa terra desolata e abbandonata. Da allora la nostra vita procede più o meno come segue. Nel cuore della notte celebriamo la Messa, come si faceva nelle catacombe; e quando ritorna il mattino ancora una volta risaliamo la montagna e aspettiamo nascosti se mai qualche cristiano voglia visitarci. Ogni giorno due di loro ci portano la nostra razione di cibo. Ascoltiamo confessioni, diamo consigli, insegniamo a pregare. Durante il giorno teniamo la porta della piccola capanna ben chiusa. Cerchiamo di non fare il minimo rumore per paura che un passante possa sentire. Inutile dire che, per via del fumo, di attizzare un fuoco non c’è nemmeno da parlare. E poi, non si sa mai... per ogni evenienza Mokichi e il suo amico hanno scavato una specie di buca sotto il pavimento della nostra capanna. Non è da escludere che nei villaggi e nelle isole a ovest di Tomogi vi siano tuttora dei cristiani, ma in queste condizioni durante il giorno praticamente ci è impossibile mettere il naso fuori dalla capanna. E tuttavia, vada come vuole andare, sono ben deciso a cercare e a trovare il mio solitario gregge abbandonato.
3. (LETTERA DI SEBASTIÃO RODRIGUES)
Con giugno in questo paese si inizia la stagione delle piogge. Mi è stato detto che la pioggia cade senza tregua per oltre un mese. Probabilmente con l’inizio della stagione delle piogge le guardie allenteranno la vigilanza, e intendo approfittare di quest’occasione per visitare i dintorni e cercare i cristiani che ancora vi restano. Voglio che sappiano il più presto possibile che non sono completamente abbandonati e soli. Mai ho avvertito altrettanto profondamente quanto piena di significato sia la vita del sacerdote. Questi cristiani giapponesi sono come una nave sperduta in una tempesta e priva di mappa. Già li vedo, senza un solo prete o un fratello che infonda loro coraggio e li consoli, perder poco per volta la speranza e brancolare confusi nel buio. Anche ieri pioggia. Naturalmente quest’acqua non è altro che il segnale del caldo che verrà. Cade per tutto il giorno con un suono pieno di malinconia sopra il boschetto che circonda la nostra capanna. Gli alberi tremano e oscillano mentre lasciano cadere le gocce di pioggia. In momenti simili Garrpe e io, con il viso premuto contro le sottili fessure della porta di legno, cerchiamo di scrutare il mondo che ci circonda. Ma non vediamo nulla tranne pioggia e ancora pioggia, e in petto ci cresce una sensazione di rabbia. Quanto durerà questa vita? Certamente siamo entrambi stranamente impazienti e irrequieti, tanto che quando uno dei due commette anche il più piccolo passo falso l’altro gli lancia subito un’occhiata ostile. Non è che il risultato di nervi, tesi ogni giorno che passa, come corde di violino. Vorrei ora darle informazioni più dettagliate sulla gente del villaggio di Tomogi. Sono poveri contadini che sbarcano il lunario coltivando patate e grano in piccoli campi. Non hanno risaie. Osservando come la terra venga coltivata fin su, a mezza montagna di fronte al mare, si resta colpiti non tanto dalla loro operosità infaticabile quanto dalla crudeltà della vita toccata loro in retaggio. E tuttavia il magistrato di Nagasaki esige da questa gente tasse severissime. Quanto le dico corrisponde alla verità: per lungo, lungo tempo questi contadini hanno lavorato come tante bestie da soma, e come tante bestie da soma sono morti. Per tal ragione appunto la nostra religione è penetrata in questo territorio quale acqua che scorre su un arido terreno, perché essa ha infuso in questa gente un calore umano finora sconosciuto. Per la prima volta hanno incontrato persone che li hanno trattati come esseri umani. Sono state la gentilezza e la carità umane dei padri che hanno toccato i loro cuori. Ancora non ho incontrato l’intera popolazione di Tomogi poiché per timore delle guardie soltanto due persone per notte si avventurano su per la montagna fino alla nostra capanna. A dir la verità, mio malgrado, mi vien da ridere quando sento tutto quel borbottio di parole portoghesi e latine sulle labbra di questi ignoranti contadini: “Deus”, “Angelus”, “Beato”, e così via. Chiamano il sacramento della confessione “konshan”; il paradiso “parais”; l’inferno è “inferno”. Non solo questa gente ha dei nomi che sono difficili da ricordare, ma anche i loro volti sembrano tutti uguali – cosa che crea non pochi inconvenienti. Noi confondiamo Ichizo con Seisuke, e abbiamo scambiato Omatsu con un’altra donna che si chiama Saki. Di Mokichi le ho già raccontato qualcosa, e vorrei ora dir due parole su un paio d’altri cristiani. C’è Ichizo, un uomo sulla cinquantina che viene di notte fino alla nostra capanna e che in viso ha sempre un’espressione rabbiosa. Durante la Messa, e anche dopo, non dice una parola. In realtà però non è arrabbiato affatto, quella è semplicemente la sua espressione naturale. È di una curiosità estrema; con i piccoli occhi segnati dalle rughe scruta attentamente ogni movimento, ogni gesto di Garrpe e mio. Omatsu, così mi è stato detto, è la sorella maggiore di Ichizo; ha perso il marito parecchio tempo fa e ora è vedova. È venuta fin da noi due volte insieme alla nipote, Sen, portando sulle spalle una cesta con del cibo. Come il fratello Ichizo, Omatsu è estremamente curiosa e insieme alla nipote ci tiene gli occhi incollati addosso mentre consumiamo il pasto. E che pasto! Non ha idea di quanto sia misero e scadente: qualche patata fritta e acqua. E mentre Garrpe e io trangugiamo quella roba, le due donne ci osservano, ridendo con evidente soddisfazione. «Siamo davvero così strani?» ha esclamato una volta Garrpe in un impeto di rabbia. «Oppure è il nostro modo di mangiare che è tanto buffo?» Le due donne non avevano capito una parola di quel che Garrpe aveva detto ma sono scoppiate a ridere, le facce raggrinzite come fogli accartocciati. Voglio aggiungere qualcosa su come sono organizzati in segreto i cristiani di qui. Già le ho parlato dei compiti del Jiisama e del Tossama, di come il Jiisama sia responsabile del sacramento del battesimo e il Tossama si occupi di istruire i fedeli riguardo alla preghiera e al catechismo. Inoltre i Tossama hanno composto un calendario con tutte le feste della Chiesa e insegnano ai fedeli come osservarle. A quanto mi dicono, le festività di Natale, Venerdì Santo e Pasqua vengono tutte celebrate dai Tossama. Inutile dire che in tali ricorrenze non possono avere una Messa, non essendoci sacerdoti; tuttavia espongono segretamente in una delle loro case un’immagine sacra, davanti alla quale recitano le preghiere (le recitano in latino, proprio come noi: il Pater Noster, l’Ave Maria, eccetera). Tra una preghiera e l’altra chiacchierano degli argomenti più disparati. Nessuno può prevedere un’eventuale irruzione delle guardie, comunque se ciò accadesse tutto è disposto in modo che i cristiani possano
affermare di essersi semplicemente riuniti tra loro per un motivo qualsiasi. A partire dalla ribellione di Shimabara, il capo di questo distretto ha impiegato ogni energia al fine di stanare i cristiani fino all’ultimo. Ogni giorno le guardie vanno in giro a ispezionare ciascun villaggio e talvolta quando nessuno se lo aspetta fanno irruzioni improvvise nelle case. L’anno scorso, per esempio, è stato emanato un decreto che proibisce a chiunque di erigere uno steccato o una siepe tra la sua abitazione e quella confinante. Vogliono che chiunque abbia la possibilità di vedere dentro la casa del vicino, e se nota qualcosa di sospetto deve riferirlo subito. Chiunque fornisca informazioni su di noi preti riceve una ricompensa di trecento monete d’argento. Chi dà informazioni su un fratello riceve invece una ricompensa di duecento monete; e per un’informazione su un cristiano si ricevono cento monete. Inutile spiegarle quale tentazione costituisca per questi miseri contadini una simile somma di denaro. Di conseguenza, della gente degli altri villaggi i cristiani non si fidano quasi per nulla. Ho già avuto occasione di accennarle come Mokichi e Ichizo abbiano facce prive di espressione, quasi dei pupazzi. Ora ne capisco il motivo. Non possono permettere che il loro volto esprima dolore e neppure gioia. I lunghi anni di clandestinità hanno tramutato i loro visi in maschere. Una cosa veramente amara e triste. Perché Dio ha dato ai nostri cristiani un fardello simile? Questo proprio non arrivo a capirlo. Nella mia prossima lettera la informerò delle ricerche che abbiamo compiuto su Ferreira, nonché su Inoue (ricorda? a Macao, Valignano ci disse che era soprattutto quest’uomo che dovevamo temere). Voglia per favore trasmettere i miei rispettosi saluti e le mie promesse di preghiera al padre superiore Lucius de Sanctis. Oggi ancora pioggia. Nell’oscurità Garrpe e io stiamo sdraiati sulla paglia che ci serve da giaciglio. Di dormire non si parla neppure: minuscoli pidocchi mi camminano sul collo e sulla schiena. I pidocchi giapponesi stanno quieti durante il giorno, ma di notte, ti camminano lungo tutto il corpo: sfacciati, insopportabili, screanzati! Finora, in una simile notte di pioggia, nessuno ha osato inerpicarsi fino alla nostra capanna; abbiamo così la possibilità di far riposare non solo i nostri corpi ma anche i nostri nervi, tesi fino allo spasimo a causa della tensione cui sono quotidianamente sottoposti. Ascoltando il fruscio della pioggia che gocciola dagli alberi del boschetto, ancora una volta i miei pensieri sono andati a padre Ferreira. I contadini di Tomogi non sanno assolutamente niente di lui. Ma è certo che fino al 1633 il padre svolgeva a Nagasaki, non lontano dal luogo dove ci troviamo noi, un’opera di apostolato clandestino. Fu appunto in quell’anno che ogni comunicazione tra lui e Valignano, a Macao, si interruppe di colpo, recisa come un cordone. Mi chiedo se sia ancora vivo. È mai possibile che, come si vocifera, abbia strisciato come un cane davanti agli infedeli e gettato al vento tutto ciò cui aveva sino ad allora dedicato la vita? E supponendo che sia vivo, sta a sua volta ascoltando il deprimente fruscio di questa pioggia? e con quali sentimenti? Improvvisamente mi sono voltato verso Garrpe, tutto preso dalla sua battaglia contro i pidocchi, e mi sono sfogato: «Se uno di noi riuscisse a raggiungere Nagasaki, si potrebbero trovare dei cristiani che conoscono padre Ferreira». Nell’oscurità Garrpe ha smesso di torcersi e girarsi e tossire. Poi ha commentato: «Se fossimo catturati, sarebbe la fine. Non è un problema che riguardi noi due soltanto. Il pericolo si estende a tutti questi contadini intorno a noi. Comunque, non dimenticare che siamo l’ultimo baluardo del Vangelo in questo paese». Ho emesso un profondo sospiro. Garrpe si è sollevato dalla paglia e mi ha fissato con intensità tale che sono riuscito a captare come la pensasse. Una per una mi sono sfilate davanti agli occhi le facce di Mokichi, di Ichizo e dei giovani di Tomogi. Ma non poteva recarsi qualcun altro a Nagasaki per noi? No. Neppure ciò andava bene. Questa gente aveva dei parenti e delle persone a carico; una posizione ben diversa da quella del sacerdote, che non ha moglie né figli. «E se lo chiedessimo a Kichijiro?» mi sono arrischiato a domandare. Garrpe ha riso con amarezza; e anche a me è tornata in mente la scena sulla nave, la vile figura di Kichijiro con la faccia immersa nella sozzura, le mani giunte mentre implorava la pietà dei marinai. «Pazzo!» mi ha apostrofato il mio compagno. «Non ci si può fidare nemmeno un briciolo di lui.» Fra noi è calato un lungo silenzio. La pioggia picchiettava sul tetto della piccola capanna, simile al fruscio della sabbia che scorre in una clessidra. Qui notte e solitudine sono identiche. «Anche noi saremo presi come Ferreira?» ho mormorato. «Mi preoccupano di più questi insetti che mi camminano addosso» ha ribattuto Garrpe. Dal nostro arrivo in Giappone il suo morale è sempre stato alto. Forse ritiene che con carattere e umore buoni può infondere coraggio a entrambi. Personalmente, a dire il vero, non ho la sensazione che saremo catturati. L’uomo è un essere strano. Ha sempre in cuore la sensazione che, quale che sia il pericolo, egli lo supererà. È come quando piove e uno immagina i deboli raggi del sole che splendono sopra un qualche colle lontano. Non riesco a vedermi mentre vengo catturato dai giapponesi. Nella nostra piccola capanna ho la sensazione di una sicurezza perpetua. Non so perché. È una strana sensazione.
Finalmente, dopo tre giorni di acqua incessante, ha smesso di piovere. Lo possiamo dedurre unicamente grazie ai bianchi raggi del sole che penetrano attraverso una fessura della porta di legno della capanna. «Usciamo un attimo» ho detto. Garrpe ha annuito con un sorriso di gioia. Non appena ho aperto la porta fradicia d’acqua, ecco dagli alberi diffondersi nella stanza il canto degli uccelli come lo zampillare di una fontana. Mai prima d’ora avevo sentito così profondamente la gioia pura dell’essere vivo. Ci siamo seduti vicino alla baracca e levati i kimono di dosso. Nelle cuciture della stoffa dove si erano trincerati saldamente, i pidocchi sembravano proprio polvere bianca; e mentre con una pietra li schiacciavo a uno a uno mi ha colto un inesprimibile fremito di piacere. È questo che provano le guardie quando catturano e uccidono i cristiani? All’interno del bosco indugiava ancora un poco di nebbia, attraverso la quale però si riusciva a scorgere il cielo azzurro e, in lontananza, il mare luccicante. Dopo la lunga reclusione nella capanna, finalmente mi trovavo di nuovo all’aperto; rinunciando alla battaglia contro i pidocchi ho preso a fissare avidamente il mondo degli uomini. «Non c’è nulla di cui aver paura!» e i denti bianchi di Garrpe brillavano mentre sorridendo di buon umore esponeva ai raggi del sole il petto ricoperto di peli biondi: «Chissà perché ci siamo tanto innervositi. D’ora in avanti almeno una volta ogni tanto dovremo permetterci un bel bagno di sole». Un giorno dopo l’altro il cielo ha continuato a essere senza nuvole e a mano a mano che la fiducia in noi stessi cresceva diventavamo via via sempre più audaci. Insieme facevamo passeggiate lungo i pendii del bosco, intriso dell’odore delle foglie nuove e di fango umido. Il buon Garrpe chiamava la baracca per il carbone “il monastero”, e quando uscivamo per far due passi diceva con una risata: «Torniamocene al monastero a farci un pasto a base di pane caldo e di una buona zuppa densa. Ma sarà meglio non farne parola con i giapponesi!» Ci tornava alla mente la vita che conducevamo con lei al monastero di San Francesco Saverio a Lisbona. Inutile dire che qui non abbiamo né una bottiglia di vino né un pezzetto di carne. Il nostro unico cibo sono le patate fritte e le verdure lessate che ci portano gli abitanti di Tomogi. Ma nel mio cuore si accentua via via la profonda convinzione che tutto vada per il meglio e che Dio ci proteggerà. Una sera è accaduta una cosa degna di nota. Stavamo come al solito a scambiare due chiacchiere seduti su una pietra fra la capanna e il bosco; era l’imbrunire, e alla luce degli ultimi raggi del sole, d’improvviso, un uccello enorme si è innalzato dagli alberi del boschetto, ha tracciato un grande arco nero nel cielo ed è volato lontano verso le colline. «Qualcuno ci sta guardando!» ha detto Garrpe con il fiato mozzo, gli occhi fissi a terra, la voce acuta e soffocata al tempo stesso. «Non muoverti! Resta dove sei!» Su una collina illuminata dalla luce del sole morente, e che era leggermente spostata rispetto al boschetto da cui l’uccello aveva appena spiccato il volo, c’erano due uomini; in piedi, guardavano nella nostra direzione. Ci siamo resi subito conto che non appartenevano alla popolazione contadina di Tomogi che noi conoscevamo tanto bene. Immobili come pietre, siamo restati seduti senza muovere un muscolo, pregando che il sole del tramonto non rivelasse i nostri volti. «C’è qualcuno là?» Dalla cima della collina i due uomini hanno alzato il tono della voce e gridato: «C’è qualcuno là?» Dovevamo rispondere o stare zitti? Anche una sola parola avrebbe potuto tradirci. Per la paura non abbiamo detto nulla. «Stanno scendendo dalla collina, vengono qui!» ha bisbigliato Garrpe a voce bassissima e restando seduto dove era. Poi: «No. Se ne vanno da dove sono venuti». I due sono scesi a valle, diventando sempre più piccoli ai nostri occhi mano mano che si allontanavano. Tuttavia restava il fatto che due uomini erano stati sulla collina, e noi non sapevamo se nel sole del tramonto ci avessero visti oppure no. Quella stessa notte Ichizo ha risalito la montagna ed è venuto da noi, accompagnato da un uomo, Magoichi, che era uno dei Tossama. Quando abbiamo spiegato a Ichizo quello che era accaduto quella sera, egli ha strizzato gli occhi e si è messo a fissare la baracca centimetro per centimetro. Alla fine, dopo esser rimasto in piedi in silenzio, ha scambiato due parole con Magoichi e ha cominciato a sollevare le assi dal pavimento. Mentre si davano da fare, una falena ha preso a volare tutto intorno a una lampada a olio. Afferrato un badile che era appeso alla porta, Ichizo ha cominciato a scavare il terreno. Le sagome dei due uomini con il badile in mano ondeggiavano sulla parete di fronte. Scavata una buca abbastanza capace da poterci ospitare entrambi, ne hanno cosparso il fondo con la paglia, poi l’hanno chiusa di nuovo con le tavole. A quanto pare, questo è destinato a essere il nostro nascondiglio per un’eventuale emergenza. Da quel giorno siamo estremamente prudenti: cerchiamo di non farci vedere affatto fuori dalla capanna e la notte non usiamo lumi di sorta. Cinque giorni dopo c’è stato un altro avvenimento degno di nota. Era notte fonda. Stavamo segretamente impartendo il battesimo a un bambino che ci era stato portato da Omatsu e da due uomini appartenenti ai Tossama. Era la prima volta dal nostro arrivo in Giappone che celebravamo un battesimo. Naturalmente nella nostra piccola capanna non c’erano candele, né musica; l’unico strumento per la cerimonia era costituito da una tazza da contadini, piccola e sbreccata, che usavamo
per l’acqua santa. E tuttavia vedere quella povera piccola capanna con il bambino che piangeva, Omatsu che cercava di calmarlo mentre uno degli uomini stava fuori di guardia, era molto più toccante di qualsiasi rito solenne in una cattedrale. Palpitavo di gioia ascoltando la voce solenne di Garrpe che recitava le preghiere battesimali. Solo un prete missionario in una terra straniera può gustare una gioia simile. Quando l’acqua gli scorse sulla fronte, il bambino corrugò il viso e strillò forte. Aveva una testa minuta, gli occhi piccoli; la sua era già la faccia di un contadino. Con il tempo sarebbe diventata simile a quella di Mokichi e di Ichizo. Anche questo bambino, come i suoi genitori e i suoi nonni, sarebbe cresciuto cercando di sbarcare il suo misero lunario faccia a faccia con il nero mare in questa stretta e desolata terra; e a sua volta avrebbe vissuto come un animale e come un animale sarebbe morto. Ma Cristo non è morto per i buoni e i belli. Morire per chi è buono e bello è piuttosto facile; duro invece è morire per i miseri e i corrotti: e di questo mi son reso conto in modo molto preciso. Quando se ne sono andati, mi son lasciato cadere sulla paglia, esausto. Nella capanna aleggiava ancora l’odore dell’olio che i tre avevano portato. Una volta di più i pidocchi ci salivano lentamente sulla schiena e sulle gambe. Non so per quanto io sia rimasto assopito, ma dopo un lasso di tempo che mi è parso breve, sono stato svegliato dal russare di quell’ottimista di Garrpe che dormiva profondamente. E poi... qualcuno stava spingendo la porta della capanna, cercando di aprirla poco per volta. In un primo momento ho pensato che poteva essere soltanto il vento che, soffiando dalla valle sottostante attraverso gli alberi, infuriava contro la porta. Strisciando adagio sono emerso dalla paglia, e nell’oscurità ho toccato le assi del pavimento, sotto le quali si celava il nascondiglio segreto scavato da Ichizo. Le spinte contro la porta sono cessate e si è sentita una voce d’uomo, bassa e lamentosa: «Padre! Padre...» Questo non era il segnale convenuto con i contadini di Tomogi; eravamo d’accordo che dovevano bussare alla porta piano e per tre volte. Ora finalmente si era svegliato anche Garrpe che senza il più piccolo movimento aveva teso le orecchie, attento ad altri eventuali suoni. «Padre!» la voce lamentosa si è fatta sentire di nuovo. «Va tutto bene. Non abbia paura di noi.» Nel buio pesto trattenevamo il respiro, in silenzio. Quale guardia poteva essere tanto pazza da tenderci un simile tranello? «Perché non ci crede? Siamo contadini di Fukazawa. È da molto che desideriamo incontrare un prete. Vogliamo confessare i nostri peccati.» Costernati dal nostro silenzio, avevano smesso di spingere la porta, e nella notte sono echeggiati tristemente i loro passi che si allontanavano. Appoggiate le mani sulla porta, ho fatto per uscire: volevo andare. Sì, anche se era una trappola, anche se quegli uomini erano guardie, non mi importava niente. In fondo al cuore una voce diceva impetuosa: «E se poi sono cristiani?» Ero un prete, nato per dedicare la mia vita al servizio dell’uomo. Sarebbe stata una vergogna tradire la mia vocazione per paura e vigliaccheria. «Fermati!» ha gridato Garrpe con furia. «Idiota che non sei altro...» «Non sono un idiota. È il mio dovere.» Ho spalancato la porta: i pallidi raggi della luna inondavano di una luce d’argento il terreno aperto e gli alberi. Che notte stupenda era! Fuori, accovacciati come cani, c’erano due uomini con gli abiti stracciati; sembravano accattoni. Mi hanno guardato e hanno mormorato: «Padre, abbia fiducia in noi!» Ho notato che il piede di uno di loro era tutto insanguinato, se l’era ferito nell’arrampicarsi sulla montagna. Erano entrambi allo stremo delle forze, quasi sul punto di svenire. La cosa non era sorprendente, perché erano venuti fin qui dalle isole di Goto, distanti venti leghe, due giorni di viaggio. «È da un po’ che siamo sulla montagna, cinque giorni fa ci siamo nascosti lassù e guardavamo in questa direzione.» Uno di loro ha fatto segno oltre la nostra capanna. Erano dunque questi gli uomini che quella sera ci avevano osservato dalla collina... Li abbiamo fatti entrare e abbiamo dato loro le patate fritte che ci aveva portato Ichizo. Le hanno afferrate con ingordigia con tutte e due le mani, e se le sono cacciate in bocca come animali. Era chiaro che non mangiavano da due giorni. Poi abbiamo cominciato a parlare. Chi mai aveva detto loro dove ci trovavamo?, è stata la nostra prima domanda. «Lo abbiamo saputo da un cristiano del nostro villaggio, padre. Si chiama Kichijiro.» «Kichijiro?» «Sì, padre.» Nuovamente si sono accovacciati, come bestie, all’ombra della lampada, con le labbra ancora sporche di patate. Uno dei due non aveva praticamente denti, ma ostentava quel paio che gli era rimasto ridendo come un bambino. L’altro sembrava piuttosto rigido e teso per il fatto di trovarsi alla presenza di due preti stranieri. «Ma Kichijiro non è un cristiano» ho detto alla fine. «Oh, sì, padre, lo è. Kichijiro è cristiano.» Non era la risposta che ci aspettavamo, benché a volte ci fossimo chiesti se dopotutto quell’individuo non fosse cristiano. Ma ora il tutto cominciava ad assumere un diverso aspetto ed era abbastanza chiaro. Kichijiro era un cristiano che aveva abiurato. Otto anni prima lui e la sua famiglia (tutti cristiani) erano stati traditi da un informatore invidioso, arrestati e sottoposti a interrogatorio. All’ordine di calpestare
un’immagine di Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle si erano rifiutati. Solo Kichijiro, minacciato dalle guardie, aveva urlato che avrebbe rinunciato alla sua fede. I fratelli e le sorelle erano stati immediatamente incarcerati. Kichijiro, benché libero, non era tornato al suo villaggio. Il giorno in cui i suoi parenti, legati a un palo, furono arsi vivi, il volto codardo di Kichijiro era stato notato tra la folla che circondava il luogo dell’esecuzione. Subito dopo quel volto, coperto di fango e simile a quello di un animale selvatico, incapace di sopportare la vista del martirio dei suoi fratelli, era scomparso. I due visitatori ci hanno dato notizie stupefacenti. Nel distretto conosciuto come Odomari gli abitanti del villaggio erano riusciti a eludere la sorveglianza delle guardie ed erano tuttora cristiani, dal primo all’ultimo. E non solo nel distretto di Odomari era così; in quello vicino e nei villaggi di Miyahara, Dozaki ed Egami, benché apparentemente di culto buddista, gli abitanti erano di fatto cristiani e a stento la cosa veniva tenuta nascosta. Per lunghissimo tempo avevano atteso il giorno in cui noi preti fossimo ancora una volta arrivati attraverso il remoto mare per aiutarli e dar loro la nostra benedizione. «Non siamo stati a Messa, padre. Non abbiamo confessato i nostri peccati. Abbiamo solo detto le preghiere.» Era l’uomo con il piede macchiato di sangue a parlare. «Venite presto al nostro villaggio. Padre, ai nostri figli insegniamo a recitare le preghiere. Anche loro aspettano il giorno del vostro arrivo.» L’uomo con i denti gialli, la bocca spalancata che sembrava una enorme caverna, annuiva in segno d’approvazione. L’olio di pesce ardeva scoppiettando. Garrpe e io non potevamo respingere una supplica di quel genere. Fino a ora eravamo stati troppo vigliacchi. Era imbarazzante pensare alla nostra debolezza contrapposta al coraggio di questi contadini giapponesi che avevano dormito sulle montagne e si erano feriti i piedi per venire fino a noi. Il cielo era bianco. L’aria mite del mattino soffiava dentro la nostra capanna. Malgrado le nostre insistenze i due si sono rifiutati di sdraiarsi sulla paglia per riposare, e hanno dormito accovacciati con le braccia strette intorno alle ginocchia. Finalmente i raggi del sole sono penetrati tra le fessure delle assi della capanna. Due giorni abbiamo discusso con i componenti della comunità cristiana di Tomogi il problema della nostra partenza per Goto. Alla fine è stato deciso che Garrpe sarebbe rimasto, mentre io avrei cercato, per un periodo di cinque giorni, di mettermi in contatto con i cristiani di Goto. Il piano non li entusiasmava affatto, e qualcuno di loro ha ventilato l’idea che tutta la faccenda non fosse altro che una pericolosa congiura tramata per adescarci. Venne il giorno stabilito. Di notte, in segreto, sono arrivato all’appuntamento sulla spiaggia. Avevo indosso i vestiti dei contadini giapponesi. Mokichi e un altro uomo sono venuti a salutarmi fino alla giunca che era stata preparata sulla spiaggia. La notte era senza luna, il mare di un nero lucente, e non si udiva alcun suono oltre al muoversi ritmico dei remi; ma l’uomo che li manovrava non diceva una parola. Appena in mare aperto le onde si sono gonfiate e la barca ha preso a beccheggiare. All’improvviso mi sono sentito invadere da una terribile paura, dal dubbio, dal sospetto. Quell’uomo era forse qui con me per vendermi? La gente di Tomogi mi aveva avvertito; avevano ragione. Perché non era venuto anche l’uomo con il piede ferito? e l’altro, lo sdentato, perché non era con noi? Osservando la faccia del giapponese che mi stava di fronte, impassibile e priva di espressione come quella di un Budda, la mia apprensione crebbe ulteriormente. E tuttavia dovevo andare. Avevo detto che sarei andato. Nella notte, tutto intorno a noi c’era solo il mare nero e in cielo non brillava neppure una stella. Dopo un viaggio di due ore nelle tenebre, ho avuto l’impressione di scorgere la forma oscura di un’isola che si muoveva lentamente vicino a noi. Era Kabashima, un’isola vicino a Goto, ha detto il mio compagno di viaggio. Mentre approdavamo alla spiaggia sentivo la testa che mi turbinava per il mal di mare, la spossatezza, la tensione. Tre pescatori ci stavano aspettando, e quando ho alzato lo sguardo verso di loro, nella figura centrale ho riconosciuto Kichijiro, che aveva sul viso il consueto sorriso umile e servile. Nel villaggio non c’erano luci, ma da qualche parte un cane abbaiava freneticamente. L’individuo senza denti non aveva esagerato nel sostenere che i pescatori e i contadini di Goto aspettavano con impazienza estrema l’arrivo di un prete. Ancora adesso sono assolutamente oberato di lavoro. Non ho neppure il tempo di dormire. Vengono a casa mia uno dietro l’altro, ignorando del tutto il bando che grava sul cristianesimo. Battezzo i bambini e ascolto le confessioni degli adulti. Anche quando mi affanno per l’intera giornata, non ce la faccio ad accontentarli tutti. Mi fanno venire in mente un esercito in marcia in un deserto riarso, che alla fine arriva a un’oasi ricca d’acqua; è così che vengono da me, assetati e desiderosi di ristoro. La casa colonica semidiroccata che mi serve da chiesa è zeppa all’inverosimile, ed è in questa situazione che ascolto i loro peccati. Con le labbra incollate al mio orecchio, emanano un tale cattivo odore che rischia di farmi venire il vomito. Perfino gli ammalati si trascinano fin qui per incontrarmi. «Può ascoltarmi, padre?»... «Può ascoltarmi, padre?»... e così di seguito. Però la cosa che batte ogni altra in comicità è Kichijiro. Non è più il medesimo uomo: adesso viene innalzato alle stelle, è l’eroe del villaggio, e va in giro tenendo la testa ben alta. Comunque, ritengo sia giusto che abbia messo su delle arie perché senza di lui non avrei assolutamente potuto venir qui. Ma il suo passato – il fatto che fosse divenuto apostata e tutto il resto – sembra esser stato dimenticato completamente. Mi chiedo se nel parlarne ai cristiani questo ubriacone non abbia gonfiato tutta la storia di Macao e del nostro viaggio per mare. Magari, da come lo descrive, l’arrivo dei due preti in
Giappone è tutta opera sua. Eppure non me la sento di riprenderlo. Odio la sua loquacità, però non posso negare di essergli debitore. L’ho spronato a confessarsi ed è stato con grande umiltà che ha confessato tutti i peccati del suo passato. Gli ho ordinato di tenere sempre a mente le parole di Nostro Signore: «Colui che avrà attestato il mio nome innanzi agli uomini, quello io confermerò innanzi al Padre mio che è nei cieli; ma colui che avrà rinnegato il mio nome, quegli io rinnegherò innanzi al Padre mio che è nei cieli». A tali parole Kichijiro si è prosternato a terra come un cane frustato percuotendosi la fronte con la mano in segno di pentimento. Quest’individuo è per natura un vigliacco fatto e finito; sembra assolutamente incapace di trovare anche un minimo di coraggio. Tuttavia ha buona volontà; gli ho detto senza mezzi termini che se voleva superare la debolezza della sua volontà e la viltà che lo fa tremare di fronte alla minima violenza, doveva cercare il rimedio nella fermezza della sua fede e non nel bere continuo. Quanto avevo ipotizzato tempo addietro era esatto. Che cosa mai cercano in me i contadini giapponesi? Queste persone che lavorano e vivono e muoiono come fossero animali, nel nostro insegnamento trovano per la prima volta un sentiero attraverso il quale liberarsi dai ceppi che li avvincono. I bonzi buddisti li trattano come bestie, e per lungo tempo questa gente non ha potuto far altro che vivere rassegnata al proprio fato. Oggi tra adulti e bambini ho battezzato trenta persone. Non si tratta esclusivamente di gente del luogo: i contadini, attraversando le montagne, arrivano da Miyahara, da Kuzushima, da Haratsuka. Poi ho ascoltato oltre cinquanta confessioni. Dopo la messa domenicale per la prima volta ho intonato i canti e recitato in lingua giapponese le preghiere insieme ai fedeli. I contadini mi fissavano con gli occhi che brillavano di curiosità. E mentre parlo loro, spesso mi viene alla mente il volto di colui che pronunziò il Discorso della Montagna, e immagino la gente seduta o in ginocchio accanto a lui, affascinata dalle sue parole. Quanto a me, forse il suo volto mi affascina a dismisura, proprio perché le Scritture non ne parlano affatto. Poiché non ne vien fatta parola, ogni particolare è lasciato alla mia immaginazione. Fin dall’infanzia ho tenuto stretto in cuore quel viso, proprio come chi idealizza con romanticismo le sembianze della persona amata. Quando ancora ero studente in seminario, se mi capitava di trascorrere una notte insonne, si risvegliava nel mio cuore l’immagine di quel bel viso. In ogni modo mi rendo perfettamente conto di quanto siano pericolosi questi assembramenti di folla. È probabile che presto o tardi tutto ciò arrivi all’orecchio dei soldati. Anche qui non si ha notizia di Ferreira. Ho incontrato due anziani cristiani che l’hanno conosciuto. Il risultato della conversazione è stato il seguente: in un luogo chiamato Shinmatsu, vicino a Nagasaki, Ferreira aveva aperto una casa per bambini abbandonati e per infermi. Naturalmente tutto ciò risaliva all’epoca precedente all’intensificarsi delle persecuzioni. Ma solo per aver ascoltato i discorsi dei due anziani contadini le sembianze del mio antico insegnante mi riapparvero davanti: la barba castana, gli occhi lievemente infossati... Ho cominciato a chiedermi se si fosse mescolato a quei miseri cristiani giapponesi come aveva fatto con noi studenti, posando la mano sulle spalle con lo stesso calore amichevole. Così ho posto deliberatamente un quesito preciso: «Il padre aveva un carattere severo?» Uno dei due vecchi mi ha fissato e ha scosso la testa con ardore in segno di vigoroso diniego. Sembrava che le sue labbra tremanti dicessero: “No, no, no, non ho mai incontrato in tutta la vita una persona altrettanto dolce e gentile”. Prima di far ritorno a Tomogi, ho dato alla comunità cristiana locale istruzioni su come creare un’organizzazione simile a quella che le ho già descritto. Alludo a quanto avevano escogitato segretamente gli abitanti di Tomogi, una volta rimasti completamente privi della guida di un sacerdote. Perciò ho insegnato loro come dovevano scegliere il Jiisama e creare i Tossama. Nell’attuale situazione, questo è l’unico mezzo che hanno per continuare a insegnare il catechismo ai loro giovani e ai bambini. È stato davvero con grande entusiasmo che hanno adottato questo sistema, e quando devono scegliere Jiisama e Tossama cominciano a discutere animatamente tra loro come gli abitanti di Lisbona in periodo di elezioni. In mezzo a tutti, ovviamente, Kichijiro si ostina a farsi avanti per qualsivoglia carica di prestigio. Un’altra cosa interessante. I contadini di qui, esattamente come quelli di Tomogi, non cessavano di insistere perché dessi loro un piccolo crocifisso o un’immagine sacra o qualcosa d’analogo; e quando rispondevo loro che non avevo portato con me nulla del genere, assumevano una espressione affranta. Alla fine ho dovuto prendere il mio rosario, scioglierne i grani, e distribuirne uno a testa. Non ritengo sia un male che i cristiani giapponesi nutrano venerazione per questa sorta di cose, e tuttavia in un certo senso il loro atteggiamento mi fa sentire a disagio. Mi chiedo costantemente se il loro modo di sentire non sia errato. Dopo sei giorni, nottetempo, ho ripreso il mare segretamente sulla navicella, e a forza di remi ci siamo aperti la via del ritorno nelle tenebre, sulle onde scure. Ascoltavo il suono monotono dei remi tuffati nell’acqua e quello del mare che scivolava lungo i fianchi dell’imbarcazione, mentre Kichijiro, in piedi a poppa, cantava sommessamente fra sé e sé. Cinque giorni prima, quando a bordo della medesima imbarcazione avevo compiuto la traversata fino all’isola, d’un tratto ero stato invaso da una paura inspiegabile. E ora, ripensando al panico assurdo provato in quell’occasione, non potevo fare a meno di sorridere. Comunque adesso era tutto a posto. Così pensavo in quel momento. In effetti, fin dall’arrivo in Giappone tutto era andato bene oltre ogni mia più avventata aspettativa.
Non eravamo stati costretti a pericolose imprese di sorta, eravamo riusciti a trovare nuovi gruppi di cristiani e finora i soldati erano all’oscuro della nostra presenza. Ero arrivato addirittura a pensare che dopotutto il timore mostrato a Macao da padre Valignano circa le persecuzioni da parte dei giapponesi fosse esagerato. D’improvviso ho sentito il cuore traboccarmi di gioia e di felicità: avevo la sensazione che la mia vita avesse un valore e che attraverso di essa qualcosa si adempisse. Sono di qualche utilità – tali le mie riflessioni – alla gente di questo paese posto ai confini della terra, gente di un paese che mai riuscirò a comprendere. Forse proprio per la sensazione di benessere che provavo, il viaggio di ritorno mi è parso tanto più breve rispetto a quello di andata; così quando l’imbarcazione ha toccato la spiaggia, mi è sembrato quasi incredibile che fossimo già arrivati a Tomogi. Nascosto sulla spiaggia, ho atteso l’arrivo di Mokichi e del suo amico. Perfino tale precauzione mi è parsa a un certo punto del tutto priva di senso e il mio pensiero riandava di continuo alla notte in cui Garrpe e io eravamo giunti in Giappone. Abbiamo udito dei passi sulla spiaggia. «Padre...» Sopraffatto dalla gioia sono balzato in avanti per stringere con la mano sporca di sabbia l’altra mano protesa verso di me. «Scappi, padre! Presto, presto, se ne vada!» Mokichi parlava con grande rapidità, spingendomi innanzi a sé. «Le guardie sono al villaggio.» «Le guardie?» «Sì, padre, le guardie. La notizia è giunta fino a loro.» «E di noi sanno qualcosa?» Mokichi ha scosso rapidamente il capo. «Finora non si sono accorti che vi abbiamo tenuti nascosti.» E così mi sono messo a fuggire nella direzione opposta, lontano, con Mokichi e Kichijiro che mi tiravano tenendomi per le mani. Siamo corsi verso la campagna, cercando di tenerci nascosti mentre attraversavamo i campi di grano, aprendoci la strada fino alla nostra piccola capanna. Dal cielo cadeva dolcemente una pioggia sottile. In Giappone era iniziata la stagione delle piogge.
4. (LETTERA DI SEBASTIÃO RODRIGUES)
E così posso ancora inviarle una lettera. Le ho già descritto il mio ritorno da Goto, e raccontato come i funzionari governativi stessero saccheggiando il villaggio. Posso soltanto ringraziare il Signore che Garrpe e io ci siamo salvati. Fortunatamente, prima che i funzionari arrivassero sul posto, il Tossama è riuscito a far nascondere a tutti con la massima rapidità le immagini sacre, i crocifissi e qualunque oggetto che potesse destare sospetti. In queste circostanze l’organizzazione “cordia” è stata magnifica. All’arrivo dei funzionari tutti hanno continuato a lavorare nei campi con volti pieni di innocenza e il Jiisama ha risposto alle domande con semplicità e disinvoltura. La saggezza dei contadini si dimostra nella loro capacità di fingersi stupidi. Dopo un lungo interrogatorio i funzionari, esausti, si sono ritenuti soddisfatti e se ne sono andati. Ichizo e Omatsu ci hanno riferito questa storia con manifesto orgoglio e, mentre descrivevano i particolari, mettevano fuori i denti ridendo allegramente. Quale astuzia si leggeva nei loro lineamenti! Tuttavia rimane sempre un problema sconcertante: qualcuno ci ha traditi? Non può certo trattarsi di uno degli abitanti del villaggio, eppure, a poco a poco, essi stessi hanno cominciato a sospettare l’uno dell’altro. Io stesso sono preoccupato per tema che si verifichi una spaccatura fra loro. Ciò nonostante, a parte questo, ora che sono di nuovo al villaggio, mi sento del tutto in pace. La nostra capanna è piena di luce; mi giunge il canto del gallo dalle pendici del colle; i fiori rossi si sono aperti e ammantano la terra come un bel tappeto. Kichijiro è molto popolare anche qui da quando è tornato a Tomogi. Va in giro per le case pavoneggiandosi e raccontando con sussiego come stiano le cose a Goto. Racconta loro come sono stato accolto e come anche lui sia stato apprezzato per avermici condotto, e quando si dilunga in questi discorsi, la gente del villaggio gli offre cibo e a volte persino sake. Una volta è arrivato alla capanna completamente ubriaco, con due o tre suoi giovani compagni. Aveva il volto arrossato mentre gridava: «Io sto con lei... E se io sto con lei non ha nulla da temere». I compagni lo guardavano con rispetto, e lui ha preso a cantare con entusiasmo ancor maggiore. «Io sto con lei... se io sto con lei non ha nulla da temere» ha continuato a gridare, quando ha smesso di cantare. Poi, dopo aver steso le gambe in fuori, si è addormentato di colpo. Forse in fondo è una brava persona? forse è perché è simpatico. Il fatto sta che non riesco assolutamente a odiarlo. Ora lasci che le racconti ancora qualcosa sui giapponesi. Inutile spiegare che le sto parlando dei contadini di Tomogi che ho visto. Mi limito a riferirle quello che loro hanno detto; non deduca che tutto il Giappone è proprio così. La prima cosa di cui ci si deve rendere conto è la povertà e lo squallore in cui vivono questi contadini, al di là di qualunque cosa si sia mai vista in Portogallo. Persino i più ricchi tra loro, la classe abbiente, sentono il sapore del riso due volte l’anno. La loro dieta solida è costituita da patate, rapanelli e vegetali analoghi, e l’unica bevanda è l’acqua calda. A volte scavano radici dal suolo e le mangiano. Hanno uno strano modo di star seduti, affatto diverso dal nostro. Appoggiano le ginocchia al suolo o sul pavimento, dopo di che si siedono all’indietro sui talloni. Per loro questa posizione è riposante ma per noi, fino a che non ci siamo abituati, è stata una gran sofferenza. I tetti delle case sono di paglia, le case sono sporche e il lezzo è insopportabile. A Tomogi le famiglie che possiedono una mucca o un cavallo sono soltanto due. Il signore feudale ha potere illimitato sulla sua gente, molto più di qualsiasi sovrano in un paese cristiano. La tassa annuale è dolorosamente elevata, e chi non la paga viene punito impietosamente. La ribellione dei Shimabara è stata in effetti una tremenda reazione alle insostenibili sofferenze imposte da questa tassazione. Ad esempio, qui a Tomogi si racconta la storia di come, cinque anni fa, la moglie e i figli di un certo Mozaemon fossero presi come ostaggi e messi nella prigione sull’acqua solo perché lui non aveva pagato la tassa di cinque sacchi di riso. I contadini sono schiavi dei samurai, al di sopra dei quali ci sono i proprietari terrieri. I samurai attribuiscono molta importanza alle armi e, quale che sia la condizione sociale, quando compiono tredici o quattordici anni, tutti portano un pugnale e una spada. Il proprietario terriero ha potere assoluto sui samurai e, se vuole, può uccidere chi non gli garba e confiscarne tutte le proprietà. I giapponesi girano a testa scoperta d’inverno e d’estate, e gli indumenti che portano li lasciano esposti al freddo. In genere si tagliano i capelli in modo da restare completamente calvi, lasciandosi soltanto una lunga treccia che scende sulla schiena. I bonzi hanno il capo completamente rasato, e tra i samurai anche altri, che non sono bonzi, fanno lo stesso...
... questa è un’interruzione improvvisa. Cercherò di scriverle con la massima precisione possibile ciò che è accaduto il 5 giugno, anche se può darsi che questa relazione finisca per essere cortissima. Nella nostra attuale situazione non possiamo sapere quando il pericolo ci piomberà addosso. Può anche darsi che io non abbia più la possibilità di scriverle a lungo e in maniera particolareggiata. Il giorno 5, verso mezzogiorno, ho avuto la sensazione che nel villaggio sottostante stesse accadendo qualcosa di strano. Attraverso gli alberi riuscivamo a sentire l’incessante latrato dei cani. Naturalmente, nei giorni tranquilli, quando il tempo è bello, non è insolito che i latrati dei cani e persino il chiocciare delle galline arrivino vagamente fin quassù, ed effettivamente quei suoni costituiscono una specie di consolazione nella nostra reclusione, ma oggi la cosa ci ha messi piuttosto a disagio. Sospettando che potesse esservi nell’aria qualcosa di minaccioso, siamo andati sul lato orientale del boschetto per guardare giù e vedere che cosa stesse succedendo. Da lì si ha la vista migliore sul villaggio ai piedi della montagna. La prima cosa che ha attratto la nostra attenzione è stata una nube di polvere bianca sulla litoranea che conduce al villaggio. Che cosa poteva essere? Un cavallo senza sella, galoppando selvaggiamente, proveniva dal villaggio, all’ingresso del quale c’erano cinque uomini (chiaramente non si trattava dei nostri contadini) che sbarravano con fermezza la strada in modo che nessuno potesse fuggire. Ci siamo immediatamente resi conto di quello che era accaduto: le guardie erano venute a perquisire il villaggio. Garrpe e io, inciampando nella fretta, ci siamo precipitati di nuovo verso la capanna e, afferrato tutto quello che avrebbe potuto tradirci, l’abbiamo nascosto nella grossa buca scavata da Ichizo. Fatto questo, abbiamo preso il coraggio a quattro mani e deciso di scendere in mezzo agli alberi per vedere meglio quello che succedeva nel villaggio. Non si sentiva il minimo rumore. Il bianco sole del mezzogiorno ardeva impietoso sulla strada e sul villaggio. Tutto quello che riuscivamo a vedere con chiarezza era l’ombra scura delle case sulla strada. Perché non c’era traccia di vita? Persino i cani avevano all’improvviso smesso di abbaiare e Tomogi sembrava un’antica rovina abbandonata. Eppure avvertivo l’orribile silenzio che avviluppava ogni cosa. Con ardore ho preso a pregare il Signore. Sapevo bene che non si dovrebbe pregare per ottenere l a felicità e la buona sorte di questo mondo, eppure pregavo e continuavo a pregare affinché quell’orribile silenzio di mezzogiorno potesse essere spazzato via dal villaggio sul quale incombeva tanto sinistramente. I cani hanno ripreso ad abbaiare mentre gli uomini che avevano bloccato l’ingresso al villaggio si precipitavano fuori. Siamo riusciti a vedere in mezzo a loro la figura del Jiisama – quel povero vecchio – legato saldamente con corde. Un samurai a cavallo, che portava un cappello nero simile a un ombrello, ha gridato un ordine e tutti hanno formato un’unica fila dietro il vecchio, prendendo poi ad avanzare. Faceva strada un altro samurai, che brandiva una frusta, era a cavallo da solo, avvolto nella propria nuvola di polvere bianca e, mentre procedeva, continuava a voltarsi indietro a guardare. Il ricordo di tutto questo è ancora vivido nella mia mente: i cavalli che sollevavano alte le zampe nel galoppo, il vecchio barcollante e vacillante, mentre veniva trascinato via da coloro che l’avevano catturato. E così la processione avanzava lungo la strada nel calore bianco del sole, proprio come una colonna di formiche. Poi si è persa alla vista. Quella sera abbiamo appreso i particolari da Kichijiro e da Mokichi. Le guardie erano comparse prima di mezzogiorno. Stavolta la gente non aveva avuto alcun preavviso del loro arrivo. E così i samurai erano arrivati a cavallo, urlando ordini ai loro uomini, galoppando per il villaggio e perquisendo ogni angolo, mentre la gente scappava disordinatamente, in preda alla confusione. Non era stata trovata traccia di alcunché di cristiano. Eppure questa volta non avevano rinunciato esasperati e non si erano ritirati. I samurai avevano invece riunito i contadini in un punto e li avevano avvisati che, se non avessero confessato tutto, avrebbero preso un ostaggio. Eppure nessuno aveva detto una sola parola. «Non trascuriamo di pagare le tasse e facciamo il nostro dovere verso lo stato.» Il Jiisama aveva parlato ai samurai. «Anche i nostri funerali... si svolgono nel tempio.» A questo il samurai non aveva risposto, indicando invece con la frusta il Jiisama; subito gli uomini che stavano raggruppati alle sue spalle avevano lanciato una corda attorno al vecchio e lo avevano legato saldamente. «Bada! Niente obiezioni. Non siamo qui per discutere. Un informatore ci ha detto di recente che tra voi vi sono adepti segreti di questa setta cristiana proibita. Se qualcuno dirà con franchezza chi siano queste persone, riceverà cento monete d’argento. Ma se non confessate, dovete accettare le conseguenze. Tra tre giorni verremo a prendere un altro ostaggio. Pensateci su!» I contadini erano rimasti immobili ed eretti, in silenzio. Uomini, donne, bambini, tutti in silenzio. Così erano passati i secondi. Simili a nemici che si stessero squadrando. Ripensandoci ora, mi rendo conto che deve essere stato esattamente nell’attimo in cui tutto era silenzioso che noi avevamo guardato il villaggio dalla montagna. Il samurai aveva girato il cavallo verso l’ingresso al villaggio e, brandendo la frusta, si era allontanato al galoppo. Il vecchio Jiisama, legato e trascinato dietro i cavalli, era caduto, si era rialzato, poi era caduto di nuovo. Mentre lo trascinavano via, gli uomini lo sorreggevano per farlo stare diritto. Questo è stato l’incidente del 5 giugno come ci è stato raccontato. «No, padre, non abbiamo detto una parola di lei» ha spiegato Mokichi, tenendo le mani sulle
ginocchia, «e se torneranno continueremo a non dir nulla. Qualunque cosa accada, la sosterremo.» Probabilmente lo ha detto vedendo l’ombra che ci ha oscurato il volto, una paura e un’apprensione momentanee. Se così è stato, me ne vergogno molto. E tuttavia persino Garrpe, sempre di buon umore malgrado le difficoltà più tremende, ha fissato Mokichi con uno sguardo pieno d’angoscia. «Ma se continua così, finirete per essere presi tutti come ostaggi» ha detto alla fine. «Sì, padre, potrebbe essere così, ma continueremo a non dire niente.» «Questo è impossibile. Per evitare una simile calamità, è meglio che noi due ce ne andiamo lontano da questa montagna.» Mentre parlava, Garrpe si è rivolto a Mokichi, a me e al terrorizzato Kichijiro che sedeva al nostro fianco. «Non possiamo rifugiarci nell’isola di quest’uomo?» Nell’udire quelle parole, uno spasmo di paura ha contratto il volto di Kichijiro che però non ha detto una sola parola. Rammentando ora la situazione, mi rendo conto che quell’uomo debole e pauroso si trovava in un orribile pasticcio per averci portati lì ed essersi immischiato in tutta la vicenda. Da un canto non voleva perdere la reputazione di buon cristiano, dall’altro nella sua piccola testa pensava furiosamente a come salvarsi la pelle. E gli occhi astuti lampeggiavano, mentre si sfregava le mani come una mosca le zampe. Ha detto che a Goto sarebbe sorto lo stesso problema, perché sarebbero venuti anche lì a perquisire. Poi ha cercato di dimostrare che sarebbe stato meglio andare in qualche posto più lontano. Ma in ogni caso quella sera non è stata presa alcuna decisione, e i due uomini sono ritornati sui loro passi furtivamente giù per la montagna. Il giorno dopo la gente di Tomogi era eccitata e nervosa. Ben lungi da me l’idea di volerli criticare, ma voglio soltanto dirle quello che mi ha riferito Mokichi. Erano spaccati in due: una fazione insisteva affinché noi due ci spostassimo in un altro luogo; l’altra sosteneva che il villaggio avrebbe dovuto darci asilo, a qualunque costo. Qualcuno affermava persino che Garrpe e io eravamo responsabili del male che si era abbattuto sul villaggio. In mezzo a tutto questo Mokichi, Ichizo e Omatsu ostentavano una fede incrollabile. Qualunque cosa fosse successa, loro avrebbero protetto i preti... questa era la loro posizione. Quella confusione ha dato alle autorità l’occasione che stavano cercando. Il giorno 8 giugno hanno adottato una nuova tattica. Stavolta non è stato un samurai dalla faccia feroce a presentarsi in sella a un cavallo, ma un vecchio samurai dal volto sorridente, accompagnato da quattro o cinque seguaci. Egli ha consigliato alla gente di riflettere attentamente e di pensare ai pro e ai contro di tutto. Ha aggiunto che chiunque avesse onestamente rivelato i nomi degli aderenti a quella setta cristiana, avrebbe ottenuto una riduzione delle tasse negli anni a venire. Per quei poveri contadini una riduzione delle tasse doveva essere una cosa molto allettante davvero, eppure hanno vinto la tentazione. «Se siete così decisi, suppongo non mi resti altro che credervi» ha detto il vecchio, voltandosi a guardare con espressione ridente i suoi seguaci. «E tuttavia devo chiedere ai miei superiori se la vostra dichiarazione è quella veritiera, o se lo è quella del nostro informatore. Quindi abbiamo bisogno di un ostaggio. Scegliete per favore tre uomini fra voi e mandateli a Nagasaki domani. Poiché sono sicuro che non avete fatto nulla di male, non avete di che preoccuparvi.» Nel tono della sua voce non c’era la minima traccia di intimidazione, ma tutti hanno capito che si trattava di una trappola. E quindi gli uomini di Tomogi hanno trascorso la notte a dibattere violentemente per decidere chi bisognasse mandare alla sede del magistrato a Nagasaki. Gli uomini prescelti forse non sarebbero tornati più. Non c’era da stupirsi che persino il Tossama e gli altri che occupavano qualche carica si tirassero indietro. Radunatisi in una fattoria buia, i contadini si osservavano attentamente. Sembrava che ognuno di loro si chiedesse segretamente come avrebbe potuto sfuggire a quella terribile sorte. È stato fatto il nome di Kichijiro. Probabilmente perché, in primo luogo, per un certo verso, era un estraneo, non nativo di Tomogi; e in secondo luogo, molti avevano la radicata certezza che tutta la catastrofe fosse avvenuta solo per colpa sua. Povero essere debole! Quando ha visto ciò che stava accadendo, è piombato nella più nera confusione e ha cominciato a piangere. Alla fine è esploso in violente imprecazioni contro tutti i presenti. Ma gli altri hanno ribattuto che sarebbero stati costretti ad abbandonare mogli e figli. «Tu non appartieni a questo villaggio» gli hanno detto. «I funzionari non ti sottoporranno a controinterrogatori così severi. Per favore, vai in vece nostra.» Lo hanno supplicato a mani giunte, finché, per pura debolezza, lui non si è più potuto rifiutare. E così è stato deciso che sarebbe andato lui. «Lasciate che vada anch’io.» Era stato Ichizo all’improvviso a parlare. Tutti lo hanno fissato sbalorditi, sussultando. Poteva essere costui il silenzioso, cocciuto Ichizo che conoscevano tanto bene? E poi è stata la volta di Mokichi. Ha detto che si sarebbe unito agli altri due. 9 giugno. Una leggera acquerugiola ha continuato a cadere sin dal mattino. Gli alberi davanti alla nostra capanna si vedevano a stento, avvolti com’erano in una bruma grigia. I tre sono saliti per il bosco. Mokichi sembrava piuttosto agitato. Ichizo, con gli occhi socchiusi come al solito, era cupo e silenzioso. Li seguiva Kichijiro che sembrava un cane bastonato. Continuava a fissarmi con occhi compassionevoli che sembravano carichi di risentimento. «Padre, se ci viene ordinato di calpestare il fumie...» Mokichi, la testa penzolante, mormorava le parole come se stesse parlando da solo. «La cosa non riguarda soltanto noi. Se non lo calpestiamo, tutti al villaggio saranno interrogati. Che cosa dobbiamo fare?» A quelle parole un senso di compassione così forte mi ha gonfiato il petto che, senza pensare, ho dato una risposta che so lei non avrebbe mai dato. Ho scacciato dalla mente il ricordo di come padre
Gabriel, durante la persecuzione a Unzen, trascinato davanti al fumie, aveva esclamato: «Preferisco che mi venga tagliato il piede anziché calpestare questa immagine...» So che molti cristiani giapponesi e molti padri hanno manifestato sentimenti simili quando la sacra immagine è stata posta ai loro piedi. Ma era possibile esigerlo da questi tre uomini sfortunati? «Calpestate! Calpestate!» ho gridato, ma subito dopo mi sono reso conto di aver pronunciato parole che non avrebbero mai dovuto essere sulle mie labbra. Garrpe mi ha guardato con espressione di rimprovero. Kichijiro continuava a piagnucolare. «Perché Dio Sama ci ha sottoposto a questa prova? Non abbiamo fatto niente di male!» ha esclamato. Siamo restati in silenzio. Anche Mokichi e Ichizo sono restati in silenzio; i loro occhi sembravano fissare una macchiolina nel cielo vuoto. E così insieme ci siamo uniti in un’ultima preghiera e, quando abbiamo finito di pregare, i tre uomini sono discesi dalla montagna. Garrpe e io siamo rimasti a guardare le loro figure che svanivano nella bruma e scomparivano. Non avrei mai più rivisto Mokichi e Ichizo. È di nuovo trascorso molto tempo da quando ho scritto. Ho già descritto come i funzionari fossero calati su Tomogi, ma ho dovuto attendere sino a ora per poterle riferire i particolari sull’interrogatorio dei tre cristiani a Nagasaki. Avevamo pregato il Cielo moltissimo affinché ci fossero restituiti sani e salvi insieme con il Jiisama. Sera dopo sera la gente del villaggio offriva le proprie preghiere a tale scopo. Non credo che il Signore ci abbia sottoposti a questa prova senza ragione. So che verrà il giorno in cui comprenderemo chiaramente perché siamo stati chiamati a questa persecuzione, con tutte le sofferenze che ha comportato: tutto ciò che Nostro Signore fa è per il nostro bene. Eppure, mentre scrivo queste parole, sento nel cuore il peso opprimente delle ultime parole balbettate da Kichijiro il mattino in cui se ne è andato: «Perché Dio Sama ci ha sottoposto a questa prova?» E poi il risentimento di quegli occhi fissi su di me: «Non abbiamo fatto niente di male!». Penso che dovrei limitarmi a scacciare dalla mente le insensate parole di quel vile, eppure come mai la sua voce lamentosa mi traffigge il petto con il dolore di un ago acuminato? Perché Nostro Signore ha imposto questa tortura e questa persecuzione ai poveri contadini giapponesi? No, Kichijiro cercava di esprimere qualcosa di diverso, qualcosa di ancor più sconvolgente. Il silenzio di Dio. Sono già trascorsi vent’anni da quando si è scatenata la persecuzione; lo scuro suolo del Giappone si è riempito dei lamenti di tanti cristiani; il rosso sangue dei preti è corso con profusione; le pareti delle chiese sono crollate; e di fronte a questo sacrificio terribile e impietoso che gli è stato offerto, Dio è rimasto in silenzio. Era questo il problema che si annidava dietro la lamentosa domanda di Kichijiro. In ogni caso, lasci che le racconti della sorte che ci è toccata in seguito. I tre uomini sono stati convocati nell’ufficio del magistrato in un luogo chiamato Sakuradai. Per due giorni sono rimasti abbandonati nella prigione sul retro dell’edificio, fino a che finalmente sono stati condotti fuori per essere interrogati. Per chissà quale motivo l’interrogatorio ha avuto inizio con una domanda e una risposta stranamente meccaniche. «Voi sapete che il cristianesimo è una religione fuori legge?» Mokichi, che parlava per tutti, ha annuito. «Ci è pervenuto un rapporto secondo il quale voi praticate questa religione fuori legge. Che cosa avete da dire?» Tutti e tre hanno risposto di essere buddisti convinti e di vivere secondo l’insegnamento dei monaci del Tempio di Danna. Il passo successivo è stato: «E allora calpestate il fumie». Ai loro piedi è stata posta una tavola sulla quale era appiccicata un’immagine della Vergine col Bambino. Seguendo il mio consiglio, Kichijiro è stato il primo a porre i piedi sull’immagine; dopo di lui altrettanto hanno fatto Mokichi e Ichizo. Ma se si illudevano di essere prosciolti dopo questo, si sbagliavano di grosso. Lentamente sul volto dei funzionari presenti sono comparsi vaghi sorrisi. Quello che aveva attratto la loro attenzione, non era il fatto che i cristiani avessero messo i piedi sul fumie, ma l’espressione dei loro volti mentre lo facevano. «Pensate di poterci ingannare in questo modo?» ha chiesto uno dei funzionari, un uomo anziano. E per la prima volta i tre hanno riconosciuto in lui il vecchio samurai che era arrivato a cavallo a Tomogi qualche giorno prima. «Pensate che siamo stupidi? Pensate che non abbiamo notato come il vostro respiro si è fatto pesante e nervoso...?» «Non siamo agitati» ha affermato in tono serio Mokichi. «Non siamo cristiani.» «Be’, tentiamo in altro modo» è stata la risposta. E con ciò è stato dato loro l’ordine di sputare sul crocifisso e di dichiarare che la Beata Vergine era una sgualdrina. Solo in seguito sono venuto a sapere che questo era un piano concepito da Inoue, l’uomo che, a detta di Valignano, era il più pericoloso di tutti. Questo Inoue che un tempo aveva ricevuto il battesimo per farsi strada nel mondo, sapeva benissimo che sopra ogni altra cosa quei poveri contadini onoravano la Vergine. In effetti io stesso, da quando sono arrivato a Tomogi, mi sono un po’ preoccupato nel rendermi conto che a volte i contadini onorano Maria più che il Cristo. «Andiamo, non volete sputarci sopra? Non volete ripetere le parole che vi sono state dette?» Ichizo ha afferrato il fumie con entrambe le mani e, mentre i funzionari lo incalzavano da dietro, ha
tentato di sputare sull’immagine ma non so perché, non ne è stato capace. Non è riuscito a farlo. Neppure Kichijiro si è fatto avanti, ed è rimasto lì, immobile. «Che cosa vi succede?» Alle violente pressioni dei funzionari una lacrima bianca è scesa dall’occhio di Mokichi e gli è rotolata sulla guancia. Anche Ichizo ha scosso la testa come se fosse stato colto da forti dolori. Poi alla fine entrambi hanno confessato apertamente di essere cristiani. Solo Kichijiro, sopraffatto dalle minacce, ha balbettato le blasfemie richiestegli contro la Vergine. «E adesso sputa» gli è stato ordinato. A quell’ordine lui ha lasciato cadere sul fumie l’insultante sputo che non sarebbe mai più stato possibile cancellare. Dopo le indagini Mokichi e Ichizo sono stati rinchiusi per dieci giorni nel carcere di Sakuradai. Quanto all’apostata Kichijiro, è stato liberato, dopo di che è scomparso. Da allora non è più tornato qui. Gli sarebbe impossibile tornare. Siamo entrati ora nella stagione delle piogge. Ogni giorno pioviggina in continuazione. Ora per la prima volta mi rendo conto di quale orribile flagello sia questa pioggia, un flagello che distrugge ogni cosa, sia in superficie sia alla radice. Tutta la zona è come un paese di morti. Nessuno sapeva quale sorte sarebbe toccata ai nostri due cristiani. La gente era atterrita dalla paura di essere a sua volta sottoposta alle stesse indagini e quasi più nessuno andava nei campi a lavorare. E al di là dei tetri campi quanto era nero il mare! 20 giugno. Di nuovo i funzionari sono arrivati al villaggio, questa volta con un proclama. Lì, sulla spiaggia di Tomogi, Mokichi e Ichizo sarebbero stati sottoposti al castigo dell’acqua. 22 giugno. Da lontano lungo la strada cinerina ammantata di pioggia, si vedeva arrivare una processione simile a una lunga fila di piselli. Lentamente le figure minuscole sono andate ingrandendosi. In mezzo al gruppo, con le braccia strettamente legate e la testa penzolante, circondati da guardie, avanzavano a cavallo Mokichi e Ichizo. La gente del villaggio non si arrischiava a uscire da dietro le porte sbarrate delle case. Dietro la lunga processione seguivano molti vagabondi che si erano accodati dai villaggi vicini per assistere allo spettacolo. Dalla nostra capanna si poteva vedere tutta la scena. Arrivati sulla spiaggia, i funzionari hanno ordinato di accendere un fuoco affinché Ichizo e Mokichi potessero scaldarsi il corpo inzuppato di pioggia. E poi (come mi è stato detto), qualcuno mosso da un inaspettato senso di compassione, ha dato loro da bere una tazza di sake. Quando l’ho saputo, non ho potuto fare a meno di pensare che un soldato aveva dato al Cristo morente una spugna inzuppata di aceto. Sul bordo dell’acqua erano stati sistemati due alberi a forma di croce ai quali Ichizo e Mokichi sono stati legati. La notte, con il sopravvenire della marea, i loro corpi sarebbero stati immersi nell’acqua fino al mento. Non sarebbero morti subito ma, dopo due o tre giorni di totale spossatezza fisica e mentale, avrebbero cessato di respirare. Il progetto delle autorità era di offrire alla popolazione del villaggio di Tomogi, nonché agli altri contadini, lo spettacolo di quella sofferenza prolungata affinché nessuno si avvicinasse mai più alla fede cristiana. Era già trascorso mezzogiorno quando Mokichi e Ichizo furono legati agli alberi e i funzionari, dopo avere lasciato quattro uomini di guardia, si allontanarono a cavallo. Anche gli spettatori, che inizialmente erano venuti a frotte a guardare lo spettacolo, ora un po’ alla volta se ne andarono. È venuta l’alta marea. Le due figure non si sono mosse. Le onde, che bagnavano i piedi e metà dei corpi, si avventavano sulla spiaggia buia con fragore monotono e con fragore monotono si ritraevano. La sera, Omatsu insieme con sua nipote, è andata a portare cibo alle guardie e ha chiesto se potevano dare qualcosa da mangiare ai due uomini. Ricevuto il permesso, si sono avvicinate su una piccola imbarcazione. «Mokichi! Mokichi!» ha gridato Omatsu. «Che cosa c’è?» si dice abbia risposto Mokichi. E poi: «Ichizo! Ichizo!», ma il vecchio Ichizo non è riuscito a rispondere. Eppure era chiaro che non era morto, perché di tanto in tanto muoveva leggermente il capo. «State soffrendo orribilmente, ma siate pazienti! Il padre e tutti noi preghiamo. Andrete entrambi in paradiso.» Quelle sono state le parole di incoraggiamento pronunciate da Omatsu ma, quando ha tentato di mettere in bocca a Mokichi la patata che aveva portato, egli ha scosso il capo. Se doveva morire, sembrava pensasse, avrebbe preferito sfuggire al più presto a quel tormento. «Dalla a Ichizo» ha detto. «Che mangi lui, io non ce la faccio più.» Sconvolte e piangenti, Omatsu e sua nipote sono tornate a riva e lì, bagnate fino alle ossa per la pioggia, hanno levato le loro voci e hanno pianto. È venuta la notte. La luce rossa del fuoco acceso dalle guardie si vedeva vagamente persino dalla nostra capanna, mentre la gente di Tomogi si radunava sulla spiaggia e guardava il mare nero. Il mare e il cielo erano così scuri che nessuno sapeva dove si trovassero Mokichi e Ichizo. Nessuno sapeva se fossero vivi o morti. Tutti in lacrime, nel profondo del loro cuore pregavano. E poi, fra il fragore delle onde, hanno udito quella che sembrava essere la voce di Mokichi. Forse perché voleva far sapere alla gente che la sua vita non si era ancora spenta o forse per farsi forza, il giovane cantava
affannosamente un inno cristiano: «Siamo in cammino, siamo in cammino, Siamo in cammino verso il tempio del Paradiso, Verso il tempio del Paradiso... Verso il grande Tempio...» Tutti hanno ascoltato in silenzio la voce di Mokichi, anche le guardie ascoltavano; e ripetutamente, in mezzo al rumore della pioggia e delle onde, il canto giungeva alle loro orecchie. 24 giugno. Ha continuato a piovigginare tutto il giorno, mentre la gente di Tomogi, di nuovo ammassata, guardava da lontano i pali di Mokichi e di Ichizo. La spiaggia, avvolta nella pioggia, si estendeva stancamente come un deserto sommerso. Oggi non sono arrivati spettatori “gentili” dai dintorni. Quando la marea si è ritirata, in lontananza sono restati solo i pali solitari ai quali erano legati i due uomini. Era impossibile distinguerli, Mokichi e Ichizo aderivano in tal modo ai pali che ne erano diventati parte. L’unica indicazione che erano ancora vivi era il cupo lamento di una voce che sembrava quella di Mokichi. Di tanto in tanto i lamenti cessavano. Mokichi non aveva più nemmeno la forza di darsi coraggio con un inno come quello del giorno precedente. Eppure dopo un’ora di silenzio di nuovo il vento ha portato la voce alle orecchie della gente. Nell’udire quel suono, simile al lamento di un animale, la gente ha tremato e pianto. Nel pomeriggio la marea ricomincia a risalire, il colore nero e freddo del mare diventa più intenso, i pali sembrano sprofondare nell’acqua. Le bianche onde spumeggianti, vorticando oltre i pali, si infrangono sulla spiaggia, un uccello bianco, sfiorando la superficie del mare, vola lontano, molto lontano. E con questo è finito tutto. Sono stati martirizzati. Ma quale martirio! Ho letto molto sul martirio nelle vite dei santi: come le anime dei martiri siano tornate in Cielo, come siano stati soffusi di gloria in Paradiso, come gli angeli abbiano suonato le trombe. Era questo lo stupendo martirio che spesso avevo visto nei sogni. Ma il martirio dei giapponesi cristiani che ora le descrivo non è stato così glorioso. Che cosa miserabile e dolorosa è stata! La pioggia cade incessante sul mare, e il mare che li ha uccisi si gonfia in maniera inquietante, in silenzio. La sera sono tornati nuovamente i funzionari a cavallo. A un loro ordine le guardie hanno raccolto pezzi di legno umido e, dopo aver tolto i corpi di Mokichi e di Ichizo dai pali, hanno preso a bruciarli. L’hanno fatto per impedire che i cristiani portassero a casa le spoglie per venerarle. Quando i corpi si sono ridotti in cenere, li hanno buttati in mare. La fiamma che avevano acceso ha fatto una vampa bianca e rossa nella brezza; il fumo si è sparso sopra la spiaggia sabbiosa, mentre la gente, senza fare il minimo movimento, ne guardava le ondulazioni con occhi vacui. Quando tutto è finito, a testa bassa come mucche, sono tornati alle loro case, strascicando i piedi. Oggi, mentre scrivo questa lettera, esco di tanto in tanto dal capanno per guardare il mare sotto di me; la tomba di quei due contadini giapponesi che hanno creduto nel nostro verbo. Il mare si limita a estendersi all’infinito, malinconico e buio, mentre sotto le nubi grigie non c’è l’ombra di un’isola. Non c’è nessun cambiamento. Ma so quello che lei dirà: «La loro morte non è priva di senso. È stata una pietra che con il tempo costituirà le fondamenta della Chiesa; e il Signore non ci chiama mai a una prova che non sia possibile superare. Mokichi e Ichizo sono con il Signore. Al pari di numerosi martiri giapponesi che se ne sono andati prima, ora godono una felicità eterna». Anch’io, naturalmente, sono convinto di tutto ciò, eppure perché nel cuore persiste questo senso di sofferenza? Perché il canto dello stremato Mokichi legato al palo continua a rodermi il cuore? «Siamo in cammino, siamo in cammino, Siamo in cammino verso il tempio del Paradiso, Verso il tempio del Paradiso... Verso il grande Tempio...» Ho sentito dalla gente di Tomogi che molti cristiani, quando venivano trascinati verso il luogo dell’esecuzione, cantavano questo inno, una melodia piena di cupa tristezza. Per questi contadini giapponesi la vita in questo mondo è troppo dolorosa. Solo la speranza nel “Tempio del Paradiso” fa sì che continuino a vivere. Tanta è la tristezza da cui è pervaso questo canto. Che cosa voglio dire? Io stesso non lo capisco bene. Solo che oggi, giorno in cui Mokichi e Ichizo hanno pianto, sofferto e sono morti a maggior gloria di Dio, non riesco a sopportare il monotono fragore dello scuro mare che erode la spiaggia. Dietro il silenzio deprimente di questo mare, il silenzio di Dio... la sensazione che mentre gli uomini levano la loro voce angosciata Dio rimane silenzioso, a braccia conserte. Questo potrebbe essere il mio ultimo rapporto. Stamane ci è giunta la notizia che le guardie si apprestano a setacciare le montagne. Prima che cominci la perlustrazione, dobbiamo rimettere la capanna a posto, come era prima, ed eliminare ogni traccia della nostra presenza. Così ora lasceremo la capanna. E dove andremo? Garrpe e io non abbiamo ancora deciso. Abbiamo discusso a lungo della
cosa, chiedendoci se dobbiamo fuggire insieme o divisi. Alla fine abbiamo deciso che, anche se uno dei due cadesse preda dei gentili, sarebbe meglio se l’altro rimanesse. In altre parole, ci saremmo lasciati. E tuttavia perché mai restiamo in questo paese? Non abbiamo fatto quel lungo viaggio attorno all’Africa, attraverso l’oceano Indiano, fino a Macao e poi in Giappone, soltanto per fuggire così da un nascondiglio all’altro. Non l’abbiamo fatto per nasconderci nelle montagne come topi di campagna, per ricevere un tozzo di pane dai contadini in miseria e per star chiusi in una capanna di carbonai senza poter nemmeno incontrarci con i cristiani. Che cosa ne è stato dei nostri gloriosi sogni? Tuttavia un solo prete che rimanga in questo paese ha il medesimo significato della candela che bruciava nelle catacombe. E quindi Garrpe e io abbiamo giurato che, dopo esserci separati, avremmo fatto di tutto per restar vivi. Comunque, se ora questa mia relazione si interrompe bruscamente (per quanto ne so, potrebbe anche non averla ricevuta), non pensi che siamo senz’altro morti. È solo che in questa terra spoglia dobbiamo lasciare una piccola vanga per arare la terra... Tutt’attorno a me c’è il nero mare; impossibile dire dove cominci l’oscurità della notte. Non riesco a vedere se attorno a me ci siano isole. L’unica cosa che mi dice che sono sul mare è il pesante ansimare del giovane che rema alle mie spalle: il rumore dei remi nell’acqua, lo sciabordio delle onde contro lo scafo della barca. Garrpe e io ci siamo separati un’ora fa. Siamo saliti a bordo di barche diverse e abbiamo lasciato Tomogi: lui si è allontanato in direzione di Hirado. Nell’oscurità profonda non sono nemmeno riuscito a vederlo; non abbiamo nemmeno avuto tempo di salutarci. Rimasto completamente solo, tremavo dalla testa ai piedi. Era come se il mio corpo non fosse più controllato dalla mia volontà. Se dovessi affermare che quel momento non è stato pregno di terrore direi una menzogna. Per quanto possa essere forte la fede, la paura fisica può travolgere completamente. Quando ero con Garrpe, potevamo almeno condividere la nostra paura, come si fa con il pane spezzandolo in due; ma adesso ero tutto solo nel mare buio della notte e dovevo subire in solitudine il freddo, l’oscurità e ogni altra cosa. (Tutti i missionari giapponesi hanno provato un terrore analogo? Me lo chiedo.) E poi, non so perché, nella mia immaginazione è apparsa la faccia da topo di Kichijiro, piena di terrore. Sì, quel vile miserabile che aveva calpestato il fumie a Nagasaki ed era fuggito. Se io fossi un normale cristiano e non un prete, sarei fuggito allo stesso modo? Quello che mi ha dato la forza di resistere potrebbe essere il rispetto di me stesso e il mio sacerdotale senso del dovere. Ho chiamato il giovane ai remi per chiedergli un po’ di acqua, ma lui non ha risposto. Ho cominciato a rendermi conto che, da quando è avvenuto il martirio, la gente di Tomogi mi considera uno straniero che ha portato sciagura: un tremendo peso per loro. Probabilmente questo giovane vorrebbe essere sollevato dall’incarico di dovermi trasportare sull’acqua. Per inumidirmi la lingua inaridita, ho cominciato a succhiarmi le dita bagnate con acqua di mare e ho pensato al Cristo inchiodato sulla croce e al sapore di aceto nella sua bocca. Mentre l’imbarcazione cambiava lentamente direzione, sentivo le onde frangersi contro le rocce. Era come il rullare dei tamburi di una tribù nera, ed era stato così anche durante l’ultima traversata. Da lì il mare entrava in una profonda insenatura dove lambiva la sabbia dell’isola. Ma tutta l’isola era avvolta nella più fitta oscurità e non riuscivo a vedere dove fosse il villaggio. Quanti missionari avevano raggiunto quest’isola su una piccola imbarcazione proprio come ho fatto io! Eppure in circostanze ben diverse dalle mie! Quando erano venuti in Giappone, la fortuna sorrideva gaia a ogni loro impresa. Ogni luogo era sicuro per loro; trovavano case in cui potersi comodamente riposare e cristiani che li accoglievano a braccia aperte. I signori feudali gareggiavano fra di loro per dar protezione ai padri, non per amore della loro fede ma per desiderio di scambi commerciali. E i missionari non mancavano di sfruttare questa possibilità per allargare il proprio lavoro di apostolato. Per chissà quale ragione mi sono tornate alla memoria le parole di Valignano a Macao: «Una volta abbiamo seriamente discusso se la nostra veste talare dovesse essere di seta o di cotone». Quando quelle parole mi sono improvvisamente tornate alla mente, ho guardato nell’oscurità e, stringendomi le ginocchia, ho riso sommessamente. Non mi fraintenda. Non ho intenzione di considerare con disprezzo i missionari di allora. L’unica cosa è che mi sembra così assurdo che quest’individuo seduto in una piccola barca infestata dagli insetti, vestito con l’abito di Mokichi, contadino di Tomogi, che quest’individuo sia proprio un prete come loro. A poco a poco le scogliere scure sono apparse più vicine. Dalle sponde ci è giunto alle narici l’odore delle alghe marcescenti, e quando la sabbia ha cominciato a raschiare lo scafo della barca, il mio giovane compagno è saltato in mare e con le mani ha preso a spingere la barca sulla spiaggia. Anch’io mi sono calato nell’acqua bassa e, respirando profondamente l’aria salmastra, ho raggiunto la spiaggia. «Grazie» ho detto. «Il villaggio è quassù, vero?» «Padre, io...» Anche se non riuscivo a vederlo in volto, il tono della sua voce mi ha fatto capire che non voleva aver più nulla a che fare con me. Ci siamo stretti la mano e lui, profondamente sollevato, è corso verso il mare. Il rumore sordo dei suoi piedi quando è balzato sulla barca è echeggiato nell’oscurità. Mentre nelle orecchie mi restava il rumore dei remi che si allontanavano, ho pensato a Garrpe. Dove
era adesso? Camminavo lungo la spiaggia parlando da solo, come una madre che cerchi di consolare il suo bambino. Di che cosa avevo paura? Conoscevo la strada. Se avessi proseguito diritto, sarei arrivato al villaggio che mi aveva accolto così festosamente. In lontananza ho udito una sorta di roco lamento. Era il miagolio di un gatto. Ma la sola cosa cui riuscivo a pensare era come far riposare le membra stanche e mettere un po’ di cibo nello stomaco vuoto. Quando sono arrivato alle porte del villaggio, il miagolio basso del gatto è diventato ancora più chiaro. Il vento mi ha portato alle narici un orrendo lezzo che mi ha fatto quasi vomitare. Sembrava odore di pesce marcio. Ma quando sono entrato nel villaggio, mi sono ritrovato attorniato da un silenzio sinistro, minaccioso. Non c’era anima viva. Non dirò che era una scena di vuota desolazione. Piuttosto sembrava che una battaglia avesse recentemente devastato tutta la zona. Sparsi per le strade c’erano piatti e tazze rotte, mentre tutte le porte erano abbattute e di conseguenza le case aperte. Il basso miagolio del gatto, che proveniva da una capanna vuota, sembrava in certo qual modo impudente, come se l’animale si aggirasse sfrontato per il villaggio. Sono rimasto a lungo in silenzio, attonito al centro del villaggio. Strano a dirsi, non provavo angoscia, né paura. La sola domanda che di continuo si affacciava quietamente alla mia mente era: “Perché questo? Perché?” Ho percorso il villaggio da un angolo all’altro nel silenzio mortale. Gatti selvatici di una magrezza scheletrica si aggiravano per le strade, anche se non riesco a immaginare da dove venissero. Mi sfioravano le gambe passandomi vicino e mi fissavano con occhi accesi. Assetato e affamato mi sono fatto strada in una casa vuota alla ricerca di cibo ma, alla fine, la sola cosa che ho trovato è stata una scodella d’acqua. Mentre me ne stavo lì, sono stato sopraffatto dalla stanchezza di quella giornata e ho dormito, appoggiato a una parete, in piedi come un cammello. Nel bel mezzo di un sogno ho sentito i gatti selvatici camminarmi attorno e afferrare il pesce essiccato strappandolo coi denti. Altre volte, aprendo gli occhi, ho visto attraverso la porta abbattuta il greve cielo nero senza stelle. Con l’aria fresca del mattino ho cominciato a tossire. Adesso il cielo era bianco e le montagne che facevano da sfondo al villaggio si intravedevano appena dal capanno in cui mi trovavo. Era pericoloso restare lì. Dovevo staccarmi dalla parete, uscire in strada e abbandonare quel luogo desolato. Come la sera prima, il terreno era cosparso di tazze, piatti e lembi di indumenti. Ma dove sarei andato? In ogni caso, piuttosto che procedere lungo il mare, dove certamente avrei attirato l’attenzione, mi sembrava più sicuro prendere la strada delle colline. Da qualche parte dovevano esservi cristiani che vivevano segretamente la propria esistenza di fede, come avevano fatto queste persone un mese prima. Li avrei cercati e avrei saputo quello che era successo qui. Dopo di che avrei deciso il da farsi. Ma poi, all’improvviso, mi è venuto in mente Garrpe, e mi sono chiesto che cosa gli fosse accaduto. E così ho dato un’ultima occhiata al villaggio, entrando nelle case. In quella desolazione, così totale che a volte non c’era quasi posto dove appoggiare un piede, ho trovato finalmente un po’ di riso secco. L’ho avvolto in alcuni stracci trovati per terra e, portandomelo appresso, mi sono diretto verso le montagne. Sono arrivato in cima alla prima montagna; il fango intriso di pioggia mi inzaccherava i piedi; poi lentamente ho cominciato ad arrampicarmi per le risaie. Quanto erano poveri i cristiani! Con quanta meticolosa cura avevano arato il suolo piatto, dividendo i campi con muretti di pietra. Eppure era impossibile vivere e nel contempo pagare le tasse soltanto con quella stretta striscia di terra che correva lungo il mare. Ovunque aleggiava il puzzo di concime sul misero granturco e attorno ai castagni, mentre torme di mosche attratte dall’odore riempivano l’aria e a volte mi si posavano sul viso con mia profonda irritazione. Infine, mentre l’alba si levava e le montagne cominciavano a risaltare contro il cielo come lame di sciabole, sono riuscito a vedere gli stormi di cornacchie che gracchiavano roche volando in cerchio in mezzo alle nubi bianche. Mi sono fermato in vetta al colle per guardare il villaggio sottostante. Una massa marrone di terra; un mucchio di tetti di paglia; capanne fatte con fango e legna; non una traccia di vita sulla strada o sulla spiaggia scura. Appoggiato a un albero, ho guardato giù verso la valle argentata dalla pioggia. Soltanto il mare mattutino era bello. Questo mare, che trattiene nel suo abbraccio un certo numero di isolette, lampeggiava come un ago nella vaga luce del sole, mentre le onde si avventavano verso la spiaggia spumeggiando candide. Ho ricordato quanti missionari erano andati e venuti attraverso quel mare, ed erano stati accolti dai cristiani: Saverio, Cabral, Valignano e gli altri. Certamente Saverio era passato di qui quando era venuto a Hirado. E poi Torres, quel grande e nobile missionario giapponese, anch’egli aveva visitato queste isole. Eppure questi uomini erano stati profondamente amati dalla gente, erano stati accolti con gioia; avevano avuto chiese che, per quanto piccole, erano belle e addobbate di fiori. Loro non erano mai stati costretti a fuggire sulle montagne per nascondersi come uomini braccati. Quando riflettevo sulla mia condizione, nel cuore mi si levava uno strano desiderio di ridere. Oggi il cielo era di nuovo rannuvolato. Si preannunciava una giornata calda. Le cornacchie volavano sopra la mia testa con insistenza; e quando mi fermavo per un momento smettevano il loro minaccioso
gracchiare, ma, non appena ricominciavo a camminare, riprendevano a seguirmi. A volte una si posava sul ramo di un albero vicino e, agitando le ali, mi osservava. Una o due volte ho gettato dei sassi contro quei maledetti uccelli. Verso mezzogiorno sono arrivato ai piedi della montagna a forma di mezzaluna. Ho continuato a scegliere strade da dove non avrei perso di vista il mare e la costa; mi sono chiesto se vi fossero villaggi su quelle isole. Nel cielo sporco nubi grevi di pioggia fluttuavano lentamente come enormi navi. Mi sono seduto nell’erba, e ho cominciato a masticare il riso secco rubato al villaggio e alcuni cetrioli che avevo raccolto lungo la strada. Il succo dei cetrioli mi ha ridato in certo qual modo forza e coraggio. Il vento soffiava sui campi e poi, quando ho chiuso gli occhi, ho avvertito l’odore di qualcosa che bruciava. Mi sono alzato. Erano i resti di un fuoco. Qualcuno era passato di lì prima di me e aveva raccolto ramoscelli per accendere un fuoco. Ho messo le dita nella cenere e ho sentito che al centro c’era ancora un po’ di calore. Ho riflettuto a lungo. Dovevo tornare indietro o proseguire? Avevo trascorso una sola giornata senza incontrare anima viva, vagando per quel villaggio desolato e quelle montagne tetre. Era stato un solo giorno, eppure ora mi sembrava di aver perduto energia e coraggio. Avrei voluto incontrare un uomo, chiunque, purché fosse stato un uomo. Questo era stato il mio primo pensiero, seguito dalla consapevolezza del pericolo che un evento simile avrebbe comportato. Ma alla fine, dopo aver ponderato a lungo, ho ceduto alla tentazione. Nemmeno Cristo, mi sono detto, è riuscito a superare questa tentazione perché è sceso dalla montagna e ha chiamato gli uomini al proprio fianco. Ho subito capito in quale direzione era andato l’uomo che aveva acceso il fuoco. Una sola strada era possibile: la direzione opposta a quella dalla quale ero venuto. Alzando gli occhi al cielo ho visto il sole bianco lampeggiare fra le nubi sporche entro le quali le cornacchie continuavano a gracchiare con le loro voci roche. Ho affrettato con circospezione il passo. La pianura era punteggiata da alberi di ogni sorta. A volte essi assumevano la forma di un uomo e io, pieno di confusione, mi fermavo, mentre il roco gracchiare delle cornacchie che mi inseguivano continuava a suscitare in me un presentimento sinistro e sgradevole. Per distrarmi ho continuato a camminare, guardando con attenzione i vari alberi davanti ai quali passavo. Sin dalla infanzia ho amato la botanica, e da quando sono arrivato in Giappone, ho saputo riconoscere immediatamente tutti gli alberi che mi sono noti. Vi sono alberi che il Signore ha piantato in tutti i paesi, ma qui ne ho trovati altri di un genere sul quale non avevo mai posato lo sguardo sino a questo momento. Nel pomeriggio il cielo, che si era rischiarato, rifletteva le nubi nelle pozze di acqua bianca e azzurrina che restavano sul suolo. Accovacciato, agitavo l’acqua per bagnarmi il collo ora inondato di sudore. Le nubi sono scomparse dall’acqua ed è comparso invece il volto di un uomo. Sì, lì, riflesso nell’acqua c’era un volto stanco e incavato. Non so perché, ma in quel momento ho pensato al volto di un altro uomo. Quello era il volto di un uomo crocifisso, un uomo che per tanti secoli aveva ispirato gli artisti. L’uomo che nessuno di quegli artisti aveva visto con i propri occhi e di cui tuttavia ritraevano il volto: il più puro, il più bello che mai abbia ispirato la preghiera nell’uomo e abbia corrisposto alle sue più elevate aspirazioni. Non v’è dubbio che il suo vero volto fosse più bello di qualunque cosa essi abbiano immaginato. Eppure il volto riflesso in quella pozza di acqua piovana era appesantito dal fango e dalla barba incolta e ispida; era magro e sporco; era il volto di un uomo braccato dall’angoscia e dalla stanchezza. Le sembra possibile che in una circostanza simile un uomo possa essere all’improvviso colto da un accesso di risa? Ho abbassato il volto sull’acqua, ho contorto le labbra come un pazzo, ho roteato gli occhi e ho continuato a fare smorfie e facce buffe nell’acqua. Perché ho fatto una cosa simile? Perché? Perché? Nei boschi una cicala friniva roca. Dovunque intorno c’era silenzio. Il sole a poco a poco si è infiacchito; il cielo si è nuovamente rannuvolato e, mentre le ombre si allungavano sulla pianura, ho rinunciato alla speranza di riuscire a raggiungere l’uomo che aveva acceso quel fuoco. «Frusta si rivelò l’incauta via della rovina, solitari erano i deserti che percorrevamo...» Soltanto le parole della Sacra Scrittura mi si sono levate nel cuore e, mentre trascinavo i piedi, le ho cantate fra me. «Il sole si leva e poi tramonta e, ansando, trae verso il luogo suo ove egli si deve levare. Il vento trae verso il mezzodì e poi gira verso settentrione; egli va sempre girando e ritorna ai suoi giri... Tutti i fiumi corrono al mare e il mare non si empie... Ogni cosa si affatica più che l’uomo non possa dire: l’occhio non si sazia giammai di vedere e l’orecchio non si riempie di udire.» Ma ecco che nel mio cuore si è levato all’improvviso il fragore del mare rombante così come mi risonava all’orecchio allorché Garrpe e io ce ne stavamo nascosti sulla montagna. Il fragore di quelle onde echeggianti nell’oscurità come il rullare smorzato di un tamburo; il rumore di quelle onde che per tutta la notte si frangevano senza senso, si ritraevano, quindi tornavano a infrangersi sulla spiaggia. Quello era il mare che lambiva inesorabilmente i cadaveri di Mokichi e di Ichizo, il mare che li inghiottiva, il mare che, dopo la loro morte, si estendeva all’infinito con espressioni mutevoli. E al pari del mare, Dio era silenzioso. Il suo silenzio si prolungava. No, no! Ho scosso la testa. Se Dio non esiste, come può un uomo sopportare la monotonia del mare e la sua crudele indifferenza? (Ma supponendo... naturalmente solo supponendo.) Dai più profondi recessi del mio essere, un’altra voce si fece sentire in un sussurro. Supponendo che Dio non esista... Era una fantasia spaventosa. Se non esiste, quanto diventa tutto assurdo! Quale assurdo dramma diventano le vite di Mokichi e di Ichizo, legati al palo e lambiti dalle onde. E i missionari che hanno
passato tre anni solcando i mari per giungere in questo paese... che illusione è stata la loro! Anch’io qui, a vagare su desolate montagne: che assurda situazione! Mentre camminavo, strappavo l’erba, vi affondavo i denti soffocando i pensieri che mi salivano nauseabondi in gola. Sapevo bene, naturalmente, che il principale peccato contro Dio era la disperazione; ma il silenzio di Dio era una cosa che non riuscivo a penetrare. «Il Signore ha salvato l’uomo giusto mentre i senzadio perivano attorno a lui. Sarebbe fuggito allorché il fuoco fosse disceso sulle Città della Pianura.» Tuttavia ora, mentre la spoglia terra già mandava fumo, mentre i frutti sugli alberi erano ancora acerbi, avrebbe certamente detto una parola per i cristiani. Ho corso, scivolando giù per il pendio. Ogniqualvolta rallentavo, quell’orrendo pensiero si affacciava ribollendo alla coscienza, portando con sé un’orribile paura. Se avessi ceduto a quel pensiero, tutto il mio passato sino a questo momento stesso sarebbe stato spazzato silenziosamente via. Ho sentito una goccia d’acqua sul volto e, alzando lo sguardo, ho visto una gigantesca nube nera, simile a un dito fluttuante attraverso la superficie di un cielo ora diventato plumbeo e fosco. Le gocce hanno preso a cadere sempre più fitte, sino a che un velo di pioggia ha avvolto l’intera pianura come le corde di un’arpa. Alla vista di un boschetto poco lontano, mi ci sono precipitato velocemente. Ne sono schizzati via numerosi uccelli, simili a frecce scagliate da un arco, e sono volati alla ricerca di un rifugio. Nel punto in cui stavo la pioggia batteva le foglie con un rumore di sassi che picchiano su un tetto. I miei abiti pesanti erano completamente inzuppati; le cime degli alberi, ondeggianti nella pioggia argentata, sembravano alghe. E poi, in lontananza, oltre i rami ondeggianti, sulla spiaggia, ho visto una capanna. Probabilmente la gente del villaggio l’aveva costruita per tagliarci la legna. La pioggia è cessata all’improvviso come era iniziata. Di nuovo la pianura è diventata bianca, e gli uccelli hanno cominciato a cantare come se si fossero appena svegliati. Goccioloni di pioggia continuavano a cadere dalle foglie degli alberi e, dopo essermi asciugata l’acqua che dalla fronte mi scendeva negli occhi, mi sono avvicinato alla capanna. Non appena mi sono affacciato sulla porta, mi ha investito un orribile puzzo e ho visto una nuvola di mosche che brulicavano attorno all’entrata. Si ammassavano attorno a escrementi umani. Mi sono immediatamente reso conto che lì c’era stato un uomo non molto tempo prima, e che se ne era andato per la sua strada. Ma sinceramente ho provato collera contro quell’individuo tanto incivile da servirsi in quel modo di quell’unico rifugio. La situazione, tuttavia, aveva anche un suo lato comico e sono scoppiato a ridere. Le mie apprensioni riguardo a quell’uomo sono diminuite. Avanzando nella capanna ho visto che la legna bruciava ancora sotto la cenere. Mi sono rallegrato che vi fosse anche un residuo di fuoco davanti al quale avrei potuto far asciugare i miei abiti inzuppati. Mi rendevo conto che, se comunque mi fossi fermato un po’, non avrei avuto molta difficoltà a raggiungere l’uomo che mi aveva preceduto, perché era evidente che non andava in fretta. Quando sono uscito dalla capanna, la pianura e gli alberi che mi avevano protetto erano immersi in una luce dorata, mentre le foglie degli alberi, ora asciutte come sabbia, erano tutto un canto. Ho preso un ramo secco e l’ho usato come bastone, quindi ho continuato a camminare fino a che sono finalmente arrivato al pendio dal quale si vedeva la linea costiera sottostante. Non c’era alcun mutamento nel mare languido che luccicava come un ago e si avventava sul lido curvo come la corda gigantesca di un arco. Su una parte della costa la sabbia era di un bianco latteo mentre l’altra parte formava una insenatura di rocce scure. All’interno dell’insenatura ho visto un minuscolo punto d’attracco con tre o quattro pescherecci issati sulla sabbia. A ovest c’era un villaggio di pescatori circondato da alberi. Da quel mattino era il primo segno che vedevo di una comunità. Seduto sul pendio, mi sono stretto le mani attorno alle ginocchia e ho guardato attentamente il villaggio con l’espressione sfrontata di un cane selvatico. Forse l’uomo che aveva lasciato il fuoco nella capanna era sceso in quel villaggio; e anch’io sarei potuto correre giù per il pendio seguendo le sue tracce? Ma era un villaggio cristiano, quello? Mi sono sforzato di vedere se vi fosse traccia di chiese o di croci. Valignano e gli altri missionari ci avevano avvertiti a Macao di non immaginare che in quel paese le chiese fossero eguali a quelle di casa nostra. I signori feudali avevano detto ai preti di usare come chiese le dimore e i templi che già esistevano. In effetti, per questa ragione succedeva che i contadini confondessero il cristianesimo con il buddismo, pensando che fossero la stessa cosa. Persino Saverio, per l’errore di un interprete, per poco su questo punto non ha fallito. Alcuni giapponesi, ascoltando i suoi sermoni, hanno pensato che il nostro Dio fosse il sole, che il popolo di questo paese aveva venerato per molte generazioni. Di conseguenza, il fatto che io non vedessi edifici con guglie non significava che lì non vi fossero chiese. Tra le capanne di fango laggiù ce ne poteva benissimo essere una che in realtà era una chiesa. E poteva benissimo essere che i cristiani in miseria desiderassero disperatamente un prete che somministrasse loro i Santi Sacramenti, ascoltasse le loro confessioni e battezzasse i loro figli. In quel deserto dal quale missionari e preti erano stati espulsi, l’unico che poteva dare a quell’isola l’acqua della vita ero io. Sì, soltanto io, vestito con quei miseri e laceri stracci, che me ne stavo lì con le mani strette attorno alle ginocchia. «Signore, tutto ciò che tu hai creato è bello. Come sono belle le tue dimore!» Violente emozioni mi si gonfiavano in petto mentre appoggiandomi al bastone scivolavo giù per il pendio ancora bagnato di pioggia e correvo verso la mia parrocchia: sì, quella era la mia parrocchia, era il compito che Nostro Signore mi aveva affidato. Ma, mentre correvo, da un angolo del villaggio circondato da pini, è arrivata la voce di un uomo. Sembrava levarsi dalle profondità della terra. Il bastone in mano, mi sono fermato di colpo e ho visto chiaramente la rossa fiamma smorzata di un
fuoco. Rendendomi istintivamente conto ch’era successo qualcosa, sono corso indietro per il pendio dal quale ero scivolato tanto in fretta. Sul versante opposto del colle ho visto soltanto la figura di un uomo vestito con abiti grigi da contadino che si allontanava da me alla massima velocità. Poi l’uomo ha guardato nella mia direzione e si è fermato di colpo. Il volto incavato e terrorizzato mi ha guardato con un certo sollievo: «Padre!» Mentre gridava la parola, agitava la mano. Poi di nuovo urlando, mi ha indicato il villaggio. Mi faceva cenno di nascondermi. Correndo su per il colle più in fretta che potevo ho cercato di nascondermi come un animale selvatico al riparo di una grossa roccia. Ansimavo e cercavo di controllare il respiro. Ho sentito rumore di passi e poi tra le rocce più avanti sono comparsi gli sporchi occhietti da topo dell’uomo fissi su di me. Ho fatto per asciugarmi il sudore che mi colava giù per il viso ma, quando mi sono guardato la mano, ho visto che non si trattava di sudore bensì di sangue. Quando ero sceso a balzelloni per il pendio avevo battuto contro qualche cosa. «Padre!» Dal riparo delle rocce gli occhietti scrutavano nella mia direzione. «Padre, come sono contento di vederla...» La risata servile. Il tentativo di accattivarsi il favore. La barba non rasata che spuntava sul mento. «Qui è pericoloso. Ma io mi occuperò di lei.» In silenzio ho guardato quel volto. Kichijiro, il cane bastonato, mi sorrideva con sguardo furtivo. Strappando l’erba, cacciandosela in bocca e masticandola con i denti gialli, ha mormorato guardando giù verso il villaggio: «È terribile». Mentre lo fissavo mi sono reso conto che era lui l’uomo che aveva acceso il fuoco nei campi terrazzati, che aveva lordato la capanna. Ma perché si aggirava per le montagne come me? Lui aveva calpestato il fumie: che aveva da temere? «Padre, perché è venuto su quest’isola? È un luogo pericoloso. Ma conosco un villaggio dove sono nascosti dei cristiani.» Ho continuato a fissarlo in silenzio. Ogni villaggio per il quale era passato quell’individuo era stato sorpreso dai funzionari governativi. Hanno preso ad affollarmisi nella mente sospetti passati. Forse lui era più di una semplice esca. Avevo già sentito parlare di apostati che venivano usati come marionette dal governo; e gli apostati collaboravano di buon grado, quasi ritenessero di poter giustificare il loro brutto crimine aggiungendovene un altro. Il loro modo di pensare è simile a quello degli angeli caduti quando attirano la gente al peccato. La sera aveva cominciato ad avviluppare le montagne circostanti, e nel villaggio una rossa fiamma di luce iniziava a spostarsi muta. Tuttavia c’era soltanto silenzio. Lo stesso villaggio insieme agli abitanti sembrava accettare le proprie sofferenze senza protestare. Da tempo avvezza a soffrire, la gente non riusciva nemmeno più a piangere e a gridare nel proprio dolore. Per me abbandonare il villaggio e andare per la mia strada era altrettanto doloroso quanto strappare una crosta da una ferita che avesse appena iniziato a guarire. Dentro il mio cuore una voce gridava: «Sei debole, sei vile!» Solo per sentirsi rispondere da un’altra voce che non dovevo lasciarmi trasportare da un momento di agitazione o di sentimentalismo: «Tu e Garrpe siete probabilmente gli unici preti in tutto il paese. Se morirete voi, le chiese giapponesi moriranno con voi. Tu e Garrpe dovete vivere, per quante ferite e sofferenze comporti questa vita». Tuttavia mi domandavo se questa non fosse soltanto la voce della mia debolezza. Mi è venuta in mente una storia che avevo sentito quando ero ancora a Macao. Era la storia di un prete francescano che, sfuggito a una morte da martire, aveva proseguito clandestinamente il suo apostolato... poi si era arreso, presentandosi al castello del signore feudale, Omura. In seguito a questa momentanea imprudenza tutto il lavoro clandestino della missione era stato danneggiato e la salvezza dei fedeli era stata messa in pericolo. Questa storia era molto conosciuta. La morale che se ne traeva era che un prete non esiste allo scopo di diventare un martire; deve conservare la propria vita affinché la fiamma della fede non muoia del tutto allorché la Chiesa è perseguitata. Kichijiro mi seguiva come un cane selvatico. Quando mi fermavo, si fermava a sua volta. «Non cammini tanto in fretta» gridava. «Sono malato. Mi dica dove sta andando. Il magistrato dice che l’uomo che trova un prete avrà trecento monete d’argento.» «Dunque il mio prezzo è di trecento monete d’argento!» Queste sono state le prime parole che ho rivolto a Kichijiro e, mentre le pronunciavo, una risata amara mi ha contratto il volto. Giuda ha venduto Nostro Signore per trenta monete d’argento. Io valevo dieci volte tanto. «È pericoloso andar da soli» mi ha detto. Come se si fosse sentito in certo qual modo sollevato, mi ha raggiunto e ha continuato a battere il ramo di un albero sulle siepi mentre mi camminava a fianco. Le strida degli uccelli irrompevano nell’oscurità. «Padre, conosco un posto dove ci sono cristiani. Lì è sicuro. Andiamoci. Stasera possiamo dormire qui, domani ci metteremo in cammino.» Senza aspettare risposta, si è accovacciato a terra, ha abilmente raccolto dei ramoscelli che non erano bagnati dalla bruma serotina, si è tolto dalla sacca un acciarino e ha acceso un fuoco. «Deve aver fame» mi ha detto e ha preso dalla sacca alcuni pesci essiccati. Quando i miei occhi affamati li hanno visti, la saliva ha preso a scorrermi abbondante in bocca. Da quel mattino non avevo mangiato più nulla, a eccezione di un po’ di riso non cucinato e dei cetrioli; cosicché il cibo che Kichijiro mi faceva ballare davanti agli occhi era davvero allettante. Mentre la fiamma si accendeva e il pesce salato si andava lentamente arrostendo, un profumo intollerabilmente delizioso mi è giunto alle narici. «Non vuole mangiare?»
Scoprendo i denti ho afferrato avidamente il pesce secco. Una sola fetta è bastata a farmi scendere a compromessi con Kichijiro. Con espressione in parte soddisfatta e in parte sprezzante mi guardava mentre mangiavo voracemente. E frattanto lui continuava a masticare erba come se fosse stata tabacco o qualcosa del genere. La campagna circostante adesso era avvolta nell’oscurità; le montagne cominciavano a diventare gelide; la pioggia piena di vapori sembrava penetrarmi nel corpo. Mi sono steso accanto al fuoco come se volessi dormire. Ma dormire era fuori discussione perché, una volta che avessi perso conoscenza, Kichijiro se la sarebbe svignata. Mi avrebbe venduto come aveva venduto i suoi compagni. Forse lo avrebbe fatto quella stessa sera. Per un mendicante miserabile come lui trecento monete d’argento costituivano certo una tentazione allettante. Mentre chiudevo gli occhi, sotto le palpebre pesanti comparve vivida l’immagine che avevo visto dall’altipiano; l’immagine del mare e delle isole: il mare luccicante come un ago, le isole sparse sopra la sua superficie. Io avevo solcato quello splendido mare benedetto da così numerosi missionari. Ricordavo il giorno in cui le chiese erano state addobbate di fiori, quando i cristiani avevano portato doni di pesce e riso. A quell’epoca qui c’era stato un seminario nel quale gli studenti cantavano in latino come avevamo fatto noi in Portogallo. Valignano ci aveva detto che c’era stato persino un tempo in cui sonavano l’arpa e l’organo, con somma delizia dei signori feudali. «Padre, è sveglio?» Non ho risposto, ma di sotto gli occhi socchiusi ho guardato il mio compagno. Se durante la notte se la fosse svignata in qualche modo, lo avrebbe certo fatto per andare a chiamare i funzionari governativi. Osservava il mio respiro di persona addormentata, poi a poco a poco ha cominciato a spostarsi. L’ho guardato muoversi furtivamente come un animale. Quella era la sua occasione per andarsene ma, con mia sorpresa, è tornato con un sospiro vicino al fuoco. Con le mani continuava ad ammucchiare nuova legna sulle ceneri e nel frattempo continuava a sospirare come se fosse stato in ambascia. La fiamma rossa del fuoco gli si rifletteva sulle guance e vedevo la sua figura stagliarsi nella notte. Poi, sopraffatto dalla stanchezza di quella giornata, mi sono addormentato. Di tanto in tanto aprivo gli occhi e c’era sempre la figura di Kichijiro seduta accanto al fuoco. Il giorno dopo abbiamo continuato a camminare sotto gli impietosi raggi solari. Un vapore bianco si levava dal suolo ancora inzuppato per la pioggia del giorno precedente e, oltre la montagna, una nube ammiccava allegramente. Da un po’ soffrivo di emicrania e avevo la gola arida. Non so se Kichijiro avesse notato il dolore che mi contraeva il viso; ma ogni tanto attraversava la strada lentamente, trafiggeva col bastone un serpente nascosto tra i cespugli e lo poneva nella sua sacca sporca. «Noi contadini mangiamo questi grossi serpenti come medicina» ha detto, scoprendo i denti gialli e ridendo. “Perché non mi hai venduto ieri sera per trecento monete d’argento?” pensavo. E poi mi è tornata alla mente quella terribile scena durante la Cena quando Cristo si è rivolto a Giuda dicendogli: «Quello che devi fare, fallo al più presto». Per quanto prete, mi riesce difficile afferrare il pieno significato di queste parole. Trascinando stancamente i piedi accanto a Kichijiro in mezzo al vapore che si alza dal suolo, continuo a rigirarmele nella mente. Quale emozione aveva riempito il petto di Cristo quando ordinò di andar via all’uomo che lo avrebbe tradito per trenta monete d’argento? Era collera? Oppure risentimento? O forse quelle parole nascevano dall’amore? Se era collera, allora in quell’istante Cristo escludeva dalla salvezza quell’unico uomo fra tutti gli uomini del mondo; e dunque Nostro Signore ha consentito che un solo uomo piombasse nella dannazione eterna. Ma non poteva essere così. Cristo voleva salvare persino Giuda. Altrimenti non ne avrebbe fatto uno dei suoi discepoli. E tuttavia perché Cristo non lo ha fermato quando ha cominciato a deviare dal retto sentiero? Era un problema che non avevo capito neppure quando ero seminarista. Ho interrogato molti preti a questo riguardo. Certo devo aver chiesto anche a padre Ferreira, ma non ricordo quale fosse stata la sua risposta. E questo stesso fatto dimostra che non mi ha fornito una soluzione reale. «Quelle parole non furono pronunciate in un moto di collera o di odio. Erano parole di disgusto» ha detto qualcuno. Ma che genere di disgusto? Disgusto per tutto quello che era Giuda? In quel momento Cristo aveva cessato di amarlo? «Niente affatto» è stata la risposta. «Prendi esempio dal marito tradito dalla moglie. Egli continua ad amarla ma non dimentica il fatto che lei, sua moglie, lo ha tradito. Questo è ciò che prova il marito che ama la moglie ma prova disgusto per un simile comportamento... e l’atteggiamento di Cristo verso Giuda fu qualcosa del genere.» Questa risposta convenzionale non è riuscita a soddisfarmi nemmeno quando ero molto giovane. In realtà neppure ora riesco a capire. Se non è blasfemo dirlo, ho l’impressione che Giuda non sia stato altro che lo sfortunato pupazzo per la gloria di quel dramma che furono la vita e la morte di Cristo. «Quello che devi fare, fallo al più presto.» Eppure non potevo dire quelle parole a Kichijiro, intanto perché volevo proteggere la mia vita e poi perché speravo ardentemente che lui non sommasse tradimento a tradimento. «Questo sentiero è stretto, è difficile camminare qui» ha detto il mio compagno. «C’è un fiume da qualche parte?» ho chiesto. La sensazione di secchezza e di arsura che provavo in gola mi era diventata ora insopportabile. Con un accenno di risata Kichijiro mi ha guardato attentamente. «Vuole acqua? Ha mangiato troppo pesce secco.» Come il giorno precedente, le cornacchie volavano a stormo attorno a noi formando un enorme quarto di luna nel cielo. Alzando il capo, un bagliore di luce bianca mi ha colpito gli occhi, quasi accecandomi. Ho cominciato a rimpiangere di essere sceso a compromessi e di aver ceduto alla
debolezza. Per un pezzo di pesce secco, avevo irrevocabilmente fallito. Ho cercato la palude ma inutilmente. Il vento caldo soffiava dal mare. “Il fiume! Il fiume! Il fiume! Il fiume!” «Qui non c’è nemmeno un ruscello. Non può aspettare?» ha detto Kichijiro, ma senza nemmeno attendere la mia risposta, è corso giù per il pendio. Quando si è perso alla vista dietro una rupe, tutt’attorno è calato di colpo un silenzio sinistro, a parte il ronzio asciutto di insetti svolazzanti nell’erba. Una lucertola è strisciata faticosamente sopra un sasso, poi è schizzata via in fretta. Il suo muso furtivo mentre mi fissava mi ha rammentato quello di Kichijiro che era semplicemente sparito alla vista. Era davvero andato a cercare l’acqua per me? Oppure era andato a tradirmi, a dire a qualcuno che ero lì? Afferrando il bastone e rimettendomi in cammino mi sono reso conto che l’aridità in gola era ancor più insopportabile e ora capivo fin troppo chiaramente che quel miserabile mi aveva deliberatamente indotto a mangiare il pesce secco. Ho ricordato le parole del Vangelo quando Cristo aveva detto «Ho sete», e uno dei soldati aveva messo una spugna piena d’aceto sull’issopo e gliel’aveva avvicinata alle labbra. Ho chiuso gli occhi. In lontananza un grido roco ha echeggiato come se qualcuno mi stesse cercando. «Padre! Padre!» Kichijiro correva strascinando i piedi nel solito modo sciatto, portando una brocca piena d’acqua. «Sta scappando?» mi ha chiesto guardandomi con espressione dispiaciuta. Ho afferrato la brocca d’acqua che mi offriva e, portatala alle labbra, ho bevuto avidamente e senza vergogna. L’acqua mi si rovesciava giù per le mani bagnandomi le ginocchia. «Padre, lei stava scappando. Non si fida di me?» «Non voglio offendere i tuoi sentimenti» ho risposto. «Siamo entrambi stanchi. Per favore, vattene, lasciami solo!» «Solo? E dove andrebbe? È pericoloso. Conosco un villaggio di cristiani che stanno nascosti. Lì c’è una chiesa e un padre.» «Un padre?» Inconsapevolmente ho alzato la voce. Non riuscivo a credere che sull’isola ci fosse un altro prete oltre a me. Ho guardato Kichijiro con sospetto crescente. «Sì, padre, e non è giapponese. Così ho sentito.» «Impossibile!» «Padre, non si fida di me.» Se ne stava lì a strappare fili d’erba e a piagnucolare con la sua voce flebile. «Nessuno si fida di me.» «Eppure tu sai come badare a te stesso. Mokichi e Ichizo sono precipitati in fondo al mare come sassi, eppure...» «Mokichi era forte... come un virgulto forte. Ma un virgulto debole come me non crescerà mai, qualunque cosa si faccia.» Sembrava avvertire che il mio era stato un rimprovero severo perché con un’espressione da cane bastonato si è dato un’occhiata alle spalle. Eppure non avevo detto quelle parole con l’intenzione di rimproverarlo; cercavo solo di dare forma a una mesta riflessione che mi si faceva strada nella mente. Kichijiro aveva ragione quando diceva che non tutti gli uomini sono santi o eroi. Quanti dei nostri cristiani, se solo fossero nati in un’altra epoca anziché in questa di persecuzione, non avrebbero mai dovuto affrontare il problema dell’apostasia o del martirio, ma avrebbero vissuto vite santificate dalla fede fino all’ora della morte. «Non ho dove andare. Sto solo vagando per le montagne» si è lamentato Kichijiro. Un sentimento di pietà mi si è gonfiato in petto. Gli ho ordinato di inginocchiarsi e, obbedendo al mio comando, si è piegato tremante sulle ginocchia sino a terra. «Desideri confessarti per Mokichi e Ichizo?» gli ho chiesto. Gli uomini nascono divisi in due categorie: i forti e i deboli, i santi e i comuni mortali, gli eroi e coloro che li rispettano. In tempi di persecuzione i forti vengono bruciati tra le fiamme e affogati in mare; ma i deboli, come Kichijiro, conducono una vita da vagabondi nelle montagne. Quanto a te (ora mi rivolgevo a me stesso) a quale categoria appartieni? Se non fosse per la tua consapevolezza di prete e per il tuo orgoglio, forse come Kichijiro calpesteresti il fumie. «Nostro Signore è coronato di spine. Nostro Signore è crocifisso.» Con la semplicità di un bambino che imita la madre, Kichijiro ha ripetuto a una a una le mie parole mentre di nuovo una lucertola strisciava sopra e attorno la candida superficie della roccia. Nei boschi risonava la voce delle cicale; la fragranza dell’erba si diffondeva sopra la bianca roccia. Poi, mentre percorrevamo la strada che avevamo attraversato, ho sentito un rumore di passi. Uomini che guardavano nella nostra direzione e che stavano affrettando il passo si sono fatti strada sbucando dai cespugli. «Padre, mi perdoni!» ancora in ginocchio sulla nuda terra Kichijiro ha esclamato con voce soffocata dalle lacrime. «Io sono debole. Non sono un uomo forte come Mokichi e Ichizo.» Già gli uomini mi stavano afferrando e trascinando in piedi. Uno di loro con un gesto di disprezzo ha buttato sul volto di Kichijiro ancora in ginocchio una manciata di monetine d’argento. Senza dire una parola mi hanno spinto facendomi camminare davanti a loro. Inciampando e barcollando sono stato portato lungo la strada asciutta. Mi sono girato una volta ma già il viso minuto del mio traditore era lontano. Quel volto con gli occhi paurosi come quelli di un ragno...
5.
Il mondo esterno era inondato di luce solare, ma l’interno del villaggio sembrava stranamente buio. Mentre lo trascinavano via, ragazzi e adulti vestiti di stracci avevano continuato a fissarlo con occhi luccicanti, come animali acquattati dietro le capanne dai tetti di paglia. Si disse che forse erano cristiani, e fece uno sforzo per costringersi ad aprire le labbra al sorriso. Ma fu tutta una illusione: non ebbe alcuna reazione. Un bambinetto nudo trotterellò fino al punto in cui lui era fermo, ma la madre, una donna dai capelli scarmigliati, inciampando per la fretta, si avventò in avanti e, afferrato il bambino in braccio, si affrettò a tornare dove stava prima. Quella notte per placare il tremito angosciato, il prete pensò con fervore a un uomo che era stato trascinato dall’Orto del Getsemani al palazzo di Caifa. Una volta uscito dal villaggio i suoi occhi rimasero di colpo abbagliati dalla violenta luce del sole. Si sentì cogliere da un capogiro. L’uomo alle sue spalle, continuando a brontolare, non cessava di spingerlo in avanti. Costringendosi a sorridere, il prete chiese se gli si poteva concedere di riposare un momento, ma l’altro, con il viso duro e cupo, scosse la testa in cenno di rifiuto. I campi sotto il sole abbacinante emanavano un odore greve di letame; le allodole cicalavano compiaciute nel cielo; grandi alberi di cui egli non sapeva il nome, diffondevano un’ombra piacevole sulla strada; e la brezza faceva frusciare le foglie con un fresco mormorio. La strada attraverso i campi si andava mano mano restringendo, e quando giunsero al lato opposto trovarono una valletta che si allungava entro la montagna. Lì c’era una minuscola capanna di rami la cui ombra scura si proiettava sul suolo limaccioso. Quattro o cinque donne, e uomini vestiti in abiti da contadino, con le mani legate, erano seduti insieme sull’erba. Sembrava che parlassero tra di loro ma, quando riconobbero il prete, aprirono la bocca, attoniti. Dopo aver portato il prete vicino al gruppo, le guardie parvero ritenere di aver compiuto il proprio lavoro e cominciarono a chiacchierare e a scherzare, ridendo in continuazione. Non sembravano minimamente preoccupati che il prete potesse scappare. Quando il prete sedette per terra, gli uomini e le donne chinarono il capo rispettosamente. Per un poco lui rimase in silenzio. Una mosca tentò di leccare il sudore che gli scorreva sulla fronte e poi continuò a ronzargli tenacemente attorno al viso. Mentre prestava orecchio al rumore smorzato delle ali e si sentiva i raggi caldi del sole sulla schiena, un senso di benessere cominciò a penetrargli gradatamente in tutto il corpo. Alla fine era stato catturato: e ciò era davvero difficile da sopportare ma, d’altro canto, non si era aspettato di trovare una simile noncuranza, e cominciò a chiedersi se non potesse trattarsi di un’illusione. Per un motivo che non riuscì a definire gli venne alla mente la parola “sabbath... giorno del riposo”. Le guardie parlavano e ridevano come se non vi fosse niente nell’aria. Il sole luminoso si rifletteva allegramente sulle siepi e sulla capanna nella valletta. E così quello era il giorno della sua cattura, il giorno che aveva atteso con un misto di paura e di angoscia. Poteva veramente essere un giorno così pieno di pace e di quiete? Tuttavia, in qualche modo, provava anche un’inesprimibile insoddisfazione, una sorta di delusione per non aver goduto del privilegio di essere un eroe tragico, come tanti martiri e come lo stesso Cristo. «Padre!» era uno degli uomini che aveva un occhio menomato; parlava muovendo i polsi ammanettati. «Padre, che cosa è successo?» A quelle parole tutti gli altri alzarono il capo e attesero con volti pieni di curiosità la risposta del prete. “Erano come un mucchio di bestie ignoranti” pensò “del tutto ignari della sorte che li attendeva.” Quando ebbe spiegato loro di essere stato catturato nelle montagne, parvero non capire quello che diceva e l’uomo, portando la mano all’orecchio, pose di nuovo la stessa domanda. Alla fine parvero capire il significato delle sue parole. «Ah!» Un sospiro privo sia di assenso sia di emozione, si levò tra loro. «Come parla bene!» esclamò una delle donne, meravigliandosi come un bambino per la padronanza del giapponese che lui rivelava. «È davvero intelligente, non è così?» Ma le guardie continuavano a ridere, senza nemmeno darsi la pena di rimproverare gli uomini e le donne, e nemmeno di impedire loro di parlare. In effetti il guercio prese a parlare con una certa familiarità con una delle guardie che gli rispose con un sorriso cordiale. «Che cosa fanno questi uomini?» chiese il prete in un bisbiglio a una delle donne. E lei rispose che stavano aspettando l’arrivo dei funzionari governativi che erano attesi al villaggio. «In ogni caso, padre, noi siamo cristiani. Quegli uomini non sono cristiani. Sono gentili.» Evidentemente trovava un significato profondo in quella distinzione. «Non vuole mangiare qualcosa, padre?» proseguì, e nonostante i polsi ammanettati, riuscì a togliersi dal seno due piccoli cetrioli, poi, prendendo a mordicchiarne uno, porse l’altro al prete. Quando lui lo masticò, la bocca gli si riempì di quella puzza verde. Si disse che, da quando era arrivato in quel paese, aveva provocato solo disastri a quei poveri cristiani; masticava il cetriolo con i denti anteriori pensando che da loro aveva avuto la piccola capanna in cui aveva abitato; loro gli avevano dato gli indumenti che ora portava; aveva mangiato il loro cibo. E ora toccava a lui dar qualcosa. Ma che cosa
poteva dare? La sola cosa che era in grado di offrire era la propria vita e la propria morte. «Come ti chiami?» chiese. «Monica.» La risposta fu un po’ timida, come se il nome cristiano fosse l’unico ornamento che lei possedesse al mondo. Quale missionario aveva dato a quella donna, il cui corpo emanava puzzo di pesce, il nome della madre di Agostino? «E quell’uomo?» Fece un gesto verso l’uomo che aveva un occhio solo e che stava ancora parlando con le guardie. «Vuol dire Mozaemon? Si chiama Juan.» «Quale padre vi ha battezzati?» «Non era un padre, era un fratello: Fratello Ishida. Deve conoscerlo, padre.» Il prete scosse la testa. L’unica persona che conosceva in quel paese era Garrpe. «Non lo conosce?» La donna parlava con stupore, osservando il volto del prete. «Ma come, è stato ucciso a Unzen!» «Ma voi avete tutti l’animo tranquillo?» Ora finalmente esprimeva il dubbio che aveva nel cuore. «Non vi rendete conto che moriremo tutti allo stesso modo?» La donna abbassò gli occhi e fissò intensamente i cespugli ai propri piedi. Di nuovo una mosca, allettata dall’odore dell’umanità, gli ronzò vicino al collo. «Non lo so» rispose lei. «Fratello Ishida era solito dirci che quando andremo in Cielo, troveremo pace e felicità eterne. Non ci saranno tasse da pagare tutti gli anni, non ci si preoccuperà della fame e della malattia. Lì non ci saranno più lavori forzati. Al mondo abbiamo soltanto guai, quindi dobbiamo lavorare duramente. Padre, è vero che in Cielo non c’è tutta questa angoscia?» Aveva voglia di urlare: “Il Cielo non è il genere di luogo che tu pensi!” Ma si dominò. Quei contadini avevano studiato il catechismo come bambini, sognavano un Paradiso in cui non esistessero le grevi tassazioni e l’oppressione. Chi era lui per porre fine crudelmente a quel loro sogno felice? «Sì» rispose, sbattendo le palpebre, «non c’è nulla che ci possa essere rubato, non possiamo essere privati di nulla.» Ma ora un’altra domanda si levò dalle labbra del prete. «Conoscete un padre di nome Ferreira?» La donna scosse la testa. Il nome di Ferreira era una parola che non doveva neppure essere menzionata dai cristiani? si domandò lui. All’improvviso dalla roccia soprastante echeggiò una voce tonante. Alzando gli occhi, il prete vide un piccolo e grassoccio samurai sorridente, piuttosto avanti negli anni, seguito da due contadini. Quando vide il sorriso dell’uomo anziano, si rese conto che si trattava del samurai che aveva condotto le indagini a Tomogi. «Caldo, vero?» Il samurai, agitando il ventaglio, scese lentamente per la scogliera mentre parlava. «D’ora in avanti farà davvero molto caldo. I campi aperti diventano insopportabili.» Monica, Juan e gli altri uomini e donne posarono i polsi ammanettati sulle ginocchia e fecero un compito inchino. Con la coda dell’occhio il vecchio vide il prete chinare il capo insieme con gli altri, ma lo ignorò e gli passò davanti. Mentre passava si udiva il fruscio secco del suo mantello. Dagli abiti emanava un profumo dolce. «In questi giorni non ci sono state piogge serali. La strada è tutta polverosa. È duro per noi vecchi venire così lontano.» Sedette in mezzo ai prigionieri rinfrescandosi il capo e il collo con il ventaglio bianco. «Non continuate a creare guai a un vecchio come me» disse. La luce del sole rendeva il suo volto ridente così piatto che il prete rammentò le statue del Budda che aveva visto a Macao. Queste non avevano mai suscitato in lui un’emozione paragonabile a quella risvegliata dal volto del Cristo. Soltanto le mosche continuavano a ronzare. Sfioravano il collo dei cristiani, poi volavano in direzione del vecchio, e tornavano indietro. «Non è per odio che vi abbiamo arrestati. Dovete capire le nostre ragioni. Perché dovremmo arrestarvi visto che pagate le tasse e lavorate duramente? Sappiamo meglio di chiunque altro che i contadini sono la spina dorsale del paese.» Il volteggiare delle mosche si mischiava al fruscio del ventaglio. Da lontano, portato dal nuovo vento caldo, giungeva il chiocciare dei polli. È forse questo il famoso interrogatorio, si chiese il prete, gli occhi bassi come gli altri. Tutti quei cristiani e quei missionari, che erano stati torturati e puniti, avevano anch’essi udito la dolce voce della persuasione prima di subire le sofferenze? Avevano anch’essi sentito il ronzio delle mosche in una atmosfera sonnolenta come quella? Aveva temuto di venir sopraffatto dalla paura e dal tremito ma, stranamente, nessun terrore gli agitava il cuore. Non era affatto acutamente consapevole dell’imminenza della tortura e della morte. Si sentiva come un uomo che, in un giorno piovoso, pensa a una lontana montagna illuminata dal sole. «Vi darò tempo per riflettere. Dopo, datemi una risposta ragionevole» disse il vecchio, troncando bruscamente la conversazione, mentre il sorriso forzato spariva dalle sue labbra. Ora invece sul suo volto comparve quell’orgoglio avido che il prete aveva tanto spesso visto sulle facce dei mercanti di Macao. «Andatevene!» disse. Le guardie si alzarono in mezzo ai cespugli e cominciarono a spingere i prigionieri. Il prete andò a mettersi in piedi con gli altri ma il vecchio, strizzando il viso come una scimmia e rivelando per la prima volta odio e rancore nei suoi occhi lampeggianti, gridò: «Tu» si eresse in tutta la sua altezza e posò una mano sulla spada «rimani qui». Sorridendo debolmente il prete sedette di nuovo in mezzo ai cespugli. Il piccolo vecchio si eresse e, impettito come un gallo, incedette sussiegoso, ovviamente per mostrare ai prigionieri la propria
determinazione a non lasciarsi sconfiggere da uno straniero. “Una scimmia” pensò il prete. “Non ha bisogno di starsene lì con la mano sulla spada. Non intendo fuggire.” Osservò il gruppo di persone che, tutte ammanettate, salivano il pendio e scomparivano alla vista entro il lontano altipiano. “Hoc passionis tempore piis adauge gratiam.” La preghiera gli si levò amaramente alle labbra. «Signore!» mormorò. «Non accrescere le loro sofferenze. Già sono troppo pesanti per loro. Fino a oggi sono riusciti a sopportarle. Puoi chiamare ad altre prove ancora gente che è già schiacciata sotto il carico delle tasse, della burocrazia e della crudeltà?» Il vecchio portò una tazza alle labbra e si inumidì la gola come una gallina sorseggerebbe l’acqua. «Ho conosciuto molti padri» disse. «A volte li ho interrogati...» Si umettò le labbra e prese a parlare con una voce servile, che era in stridente contrasto con il suo atteggiamento precedente. «Capisci il giapponese?» Qualche ciuffo di nuvole si attardava nel cielo. La valletta cominciava a diventare buia. Nei cespugli circostanti per la prima volta si udiva il ronzio soffocante degli insetti. «I contadini sono stupidi» disse. «Dipende da te se saranno o meno liberati.» Il prete non capiva bene che cosa intendesse, ma l’espressione sul volto dell’altro rese evidente che l’astuto vecchio farabutto gli tendeva una trappola. «I contadini non sanno pensare da soli. Anche se ne discutono, non giungeranno ad alcuna conclusione. Ma se tu dici una sola parola...» «Che cosa cerca di dire?» chiese il prete. «Abiura! Abiura!» Il vecchio rise e mentre parlava agitava il ventaglio. «E se rifiutassi?» rispose pacatamente il prete, continuando a ridere. «Allora suppongo che mi ucciderete.» «No, no» rispose il vecchio. «Non faremo questo. Se lo facessimo, i contadini si incaponirebbero ancora di più. Abbiamo già compiuto questo errore a Omura e a Nagasaki. I cristiani lì sono gente cocciuta.» Il vecchio trasse un sospiro profondo ma al prete fu subito chiaro che era tutta una commedia. Cominciò persino a provare una gioia segreta nello stuzzicare quel vecchio che sembrava una scimmia. «Ora, se tu sei veramente un padre, dovresti provare pena per i cristiani, non è così?» Inconsapevolmente il prete si sentì cascare le braccia. Che sempliciotto era quel vecchio! Pensava di conquistare qualcosa con quella logica infantile? Tuttavia, quello che lui si era scordato era che, se quel funzionario era ingenuo come un bambino, lui era altrettanto ingenuo nell’andare in collera perché subiva una sconfitta nella discussione. «Che ne dici?» chiese il vecchio. «Punisca me solo» rispose il prete, scrollando le spalle e ridendo. Un rossore iroso si soffuse sulla fronte del vecchio. Da nubi assai lontane giunse il brontolio vago e smorzato del rombo di un tuono. «È per causa tua che devono soffrire» concluse il vecchio. Lo scaraventarono nella piccola capanna. Bianchi raggi di sole penetravano come fili attraverso quelle pareti di tronchi di alberi innalzate sul nudo suolo. Fuori riusciva a udire le voci smorzate delle guardie che chiacchieravano. Dove avevano portato i cristiani? Erano semplicemente spariti alla vista e basta. Seduto per terra, con le braccia allacciate attorno alle ginocchia, pensava a Monica e al suo compagno guercio. Poi pensò al villaggio di Tomogi, a Omatsu, a Ichizo e a Mokichi. E il suo cuore divenne pesante. Se almeno, se almeno avesse avuto un attimo per riflettere, avrebbe quanto meno impartito una breve benedizione a quei poveri cristiani. Ma non vi aveva nemmeno pensato. Quella era la prova che non aveva avuto un attimo di requie. Avrebbe dovuto quanto meno chiedere loro che giorno era, che giorno del mese era. Ma si era scordato anche di questo. Da quando era arrivato in quel paese sembrava aver perso ogni senso del tempo, dei mesi e dei giorni, cosicché ora non riusciva più a calcolare quanti giorni erano trascorsi da Pasqua o quale nome di santo si festeggiava quel giorno. Poiché non aveva il rosario, prese a recitare i Pater e le Ave sulle cinque dita della mano, ma come l’acqua scivola via dalla bocca di un uomo quando le sue labbra sono serrate dalla malattia, così la preghiera rimaneva vuota e priva di significato sulla sua bocca. Invece era attratto dalle voci delle guardie fuori della capanna. Che cosa c’era di tanto buffo da indurli ad alzare di continuo la voce e a ridere allegramente? Tornò con il pensiero al giardino illuminato dal fuoco e alla servitù; alle figure degli uomini che tenevano in mano le nere torce fiammeggianti, del tutto indifferenti al destino di un uomo. Anche quelle guardie erano uomini, uomini indifferenti al destino di altri uomini. Era quello il sentimento suscitato nel suo cuore da quelle risa e da quel chiacchierio. Rifletté che il peccato non è quello che si è soliti pensare che sia; non è dire bugie e rubare. Peccato è quando un uomo calpesta brutalmente la vita di un altro uomo, e si dimentica del tutto delle ferite che si è lasciato alle spalle. E allora per la prima volta una vera preghiera sgorgò dal suo cuore. All’improvviso un raggio di luce brillante si posò sulle sue palpebre abbassate. Qualcuno stava aprendo la porta della capanna, silenziosamente e con cautela in modo da non far rumore. Subito dopo occhietti minacciosi lo scrutarono. Quando il prete alzò il viso, l’intruso cercò subito di ritirarsi. «È tranquillo, vero?» Qualcuno si rivolgeva alla guardia che aveva guardato all’interno della capanna. E ora la porta si aprì tutta. Un fascio di luce invase il luogo e sulla soglia comparve la figura di un uomo: non il vecchio samurai ma un altro, senza spada.
«Señor, gracia» disse. Dunque parlava portoghese. La pronuncia era strana e impacciata, ma certo si trattava di portoghese. «Señor.» «Palazera à Dios nuestro Señor.» L’improvviso sprazzo di luce accecante aveva dato una sorta di capogiro al prete. Ascoltava le parole... sì, c’era qualche errore ogni tanto ma non vi erano dubbi sul significato. «Non si sorprenda» proseguì l’altro in portoghese. «A Nagasaki e a Hirado ci sono diversi interpreti come me. Ma vedo che lei, padre, conosce bene la nostra lingua. Riuscirebbe a indovinare dove ho imparato il portoghese?» Senza attendere risposta, l’uomo continuò a parlare e, mentre parlava, agitava il ventaglio proprio come aveva fatto il vecchio samurai. «Grazie a voi padri portoghesi sono stati creati seminari ad Arima e ad Amakusa e a Omura. Ma ciò non significa che io sia un apostata. Sono stato battezzato; però, sin dall’inizio, non ho mai voluto diventare cristiano o fratello. Io sono soltanto il figlio di un samurai di corte; nulla tranne la cultura avrebbe potuto farmi diventare grande al mondo.» Quell’uomo sottolineava con molto zelo il fatto di non essere cristiano. Il prete sedeva nell’oscurità con volto privo di espressione, ascoltandolo mentre continuava a cianciare. «Perché non dice qualcosa?» chiese l’uomo, arrabbiandosi ora. «I padri ci hanno sempre messi in ridicolo. Conoscevo padre Cabral... provava solo disprezzo per tutto ciò che era giapponese. Disprezzava le nostre case; disprezzava la nostra lingua; disprezzava il nostro cibo e le nostre usanze... eppure viveva in Giappone. Nemmeno a quelli di noi che si sono diplomati al seminario ha concesso di diventare preti.» Mentre parlava, rammentando incidenti passati, la sua voce diventava vieppiù stridula e violenta. Ciò nonostante il prete, seduto con le mani allacciate attorno alle ginocchia, si rendeva conto che la collera di quell’uomo non era del tutto ingiustificata. Aveva sentito qualcosa su Cabral da Valignano a Macao; ricordava con quanta tristezza Valignano aveva parlato dei preti e dei cristiani che avevano lasciato la Chiesa a causa dell’atteggiamento di quell’uomo verso il Giappone. «Io non sono come Cabral» disse alla fine. «Davvero?» chiese l’altro con una risata. «Io non ne sono tanto sicuro.» «Perché?» Nell’oscurità il prete non riusciva a vedere quale espressione avesse assunto l’altro. Ma, in certo qual modo, intuiva che quella voce allegra proveniva da un volto pieno d’odio e di risentimento. Abituato com’era ad ascoltare a occhi chiusi le confessioni dei cristiani, riusciva a fare quelle congetture con una certa sicurezza. “Ma” si disse, guardando l’altro, “quest’uomo non si batte contro padre Cabral bensì contro il fatto di aver ricevuto il battesimo.” «Non vuole uscire, padre? Non credo che ora noi si debba temere una sua fuga.» «Non si sa mai» rispose il prete con l’ombra di un sorriso. «Non sono un santo. Ho paura della morte.» «Padre, a volte il coraggio provoca soltanto guai agli altri. Noi lo definiamo coraggio cieco. E molti preti, fanaticamente accesi da questo coraggio cieco, dimenticano di provocare guai ai giapponesi.» «E tutto quello che i missionari hanno fatto? Hanno soltanto provocato guai?» «Se si costringe la gente ad accettare cose che non vuole, poi naturalmente costoro dicono: “Grazie di niente!” E la dottrina cristiana qui da noi è qualcosa di simile. Noi abbiamo la nostra religione, non ne vogliamo una nuova, straniera. Io ho studiato dottrina cristiana al seminario, ma le dico che a mio parere non dovrebbe essere introdotta in questo paese.» «Il suo e il mio modo di pensare sono diversi» disse il prete, abbassando con calma la voce. «Se la pensassimo nello stesso modo, non avrei attraversato il mare per venire in questo paese da tanto lontano.» Quella era la sua prima polemica con un giapponese. Dai tempi di Saverio erano stati tanti i padri che si erano impegnati con i buddisti in uno scambio di idee simile? Valignano lo aveva avvertito di non sottovalutare l’intelligenza dei giapponesi. Erano tutti molto versati nell’arte della polemica, gli aveva detto. «Bene, allora lasci che le ponga una domanda.» Aprendo e chiudendo il ventaglio mentre parlava, l’altro passò all’attacco. «I cristiani sostengono che il loro Dio è fonte d’amore e di pietà, fonte di bontà e di virtù, mentre i budda sono tutti uomini e non possono possedere tali qualità. È anche il suo punto di vista, padre?» «Un budda non può sfuggire alla morte più di quanto non lo possiamo noi. È qualcosa di diverso dal Creatore.» «Solo un padre che ignori gli insegnamenti buddisti potrebbe dire una cosa del genere. In realtà, lei non può dire che i budda non sono altro che uomini. Vi sono tre specie di budda: bussin, goshin e oka. Il budda oka mostra otto aspetti per salvare gli esseri umani e concedere loro benefici; ma il bussin non ha né inizio né fine ed è immutabile. È scritto nei sutra che il budda è eterno e non cambia mai. Solo un cristiano potrebbe considerare i budda come semplici esseri umani. Noi non la pensiamo affatto così.» L’uomo continuava a spiattellare le risposte come se le avesse imparate pappagallescamente a memoria. Era indubbio che in passato doveva aver interrogato molti missionari e aveva continuato a riflettere sul modo migliore di sconfiggerli. E chiaramente aveva finito per usare paroloni che egli stesso non capiva.
«Ma lei sostiene che tutto esiste in modo naturale, che il mondo non ha inizio o fine» disse il prete, cogliendo al volo il punto debole dell’altro e prendendo l’offensiva. «Sì, questa è la nostra posizione.» «Ma un oggetto senza vita deve essere mosso dall’esterno da qualcos’altro, oppure dall’interno. Come sono nati i budda? Inoltre, mi rendo conto che tutti questi budda hanno cuori pietosi ma, prima di tutto questo, come è stato fatto il mondo? Il nostro Dio è la fonte della sua stessa esistenza; ha creato l’uomo, ha dato vita a tutte le cose.» «Allora il Dio cristiano ha creato gli uomini malvagi. È questo che sta dicendo? Anche il male è opera del vostro Dio?» L’interprete rise sommessamente mentre parlava, come se godesse della propria vittoria. «No, no» esclamò il prete scuotendo la testa. «Dio ha creato ogni cosa per il bene. E per questo bene ha donato all’uomo il potere del pensiero, ma noi uomini a volte usiamo questo potere discriminante nel modo errato. Questo è il male.» L’interprete fece schioccare sprezzantemente la lingua. Ma il prete non si era certo aspettato di convincerlo con quella spiegazione. Quel genere di dialogo finiva ben presto di essere dialogo diventando un gioco di parole in cui uno tentava vigorosamente di stendere a terra il proprio avversario. «Basta con questi sofismi» urlò l’interprete. «In questo modo lei potrà accontentare i contadini, le loro mogli e i figli, ma non può imbrogliare me. Ma ora lasci che le ponga un’altra domanda. Se è vero che Dio è veramente buono e misericordioso, come spiega il fatto che abbia inflitto tante prove e sofferenze di ogni genere all’uomo che si trova sulla strada che porta al Paradiso?» «Sofferenze di ogni genere? Credo che lei non afferri una cosa essenziale. Se soltanto l’uomo osservasse fedelmente i comandamenti del nostro Dio, dovrebbe poter vivere in pace. Se noi desideriamo mangiare qualcosa, possiamo soddisfare questo desiderio. Dio non ci ordina di morire di fame. Tutto quello che ci viene chiesto è di onorare il nostro Signore e Creatore, e questo basta. O ancora, quando non riusciamo a scacciare i desideri della carne, Dio non ci ordina di evitare qualsiasi contatto con le donne, ma ci dice di avere una sola moglie e di fare la sua divina volontà.» Mentre finiva di parlare si rendeva conto che la sua risposta era stata bene impostata. Nell’oscurità della capanna riusciva chiaramente ad avvertire che l’interprete non trovava la replica ed era ridotto al silenzio. «Basta! Non possiamo andare avanti all’infinito con queste inutili chiacchiere» disse l’altro irosamente, passando ora al giapponese. «Non sono venuto qui per queste stupidaggini.» Da molto lontano proveniva il canto di un gallo. Dalla porta lievemente socchiusa penetrava nell’oscurità della stanza un unico raggio di luce in cui danzavano una miriade di particelle di pulviscolo. Il prete le guardò con attenzione. L’interprete trasse un profondo sospiro. «Se lei non abiura, i contadini saranno sospesi nella fossa.» Il prete non riusciva a capire bene il significato di quello che l’altro gli diceva. «Sì, cinque contadini saranno sospesi per vari giorni a testa in giù nella fossa.» «Sospesi nella fossa?» «Sì, padre, a meno che lei non abiuri.» Il prete tacque. Quelle parole erano serie? Oppure erano una minaccia? Scrutò attentamente nell’oscurità, con occhi luccicanti. «Padre, ha sentito parlare di Inoue? Il magistrato è lui. A un dato momento dovrà trovarsi faccia a faccia con lui per l’indagine.» «I-N-O-U-E...» soltanto con quelle sillabe il portoghese dell’interprete parve sorgere a vita. Colpirono le orecchie del prete e il suo corpo di colpo sussultò e tremò. «I padri che hanno abiurato dopo il controinterrogatorio di Inoue sono: i padri Porro, Pedro, Cassola e padre Ferreira.» «Padre Ferreira?» «Sì, lo conosce?» «No, non lo conosco» esclamò il prete, scuotendo il capo, agitato. «Appartiene a una congregazione diversa; non l’ho mai sentito nominare; non l’ho mai conosciuto... è vivo ora questo padre?» «Certo che è vivo. Ha assunto anzi un nome giapponese e vive in una casa a Nagasaki con la moglie. Ora gode di buona fama.» All’improvviso, davanti agli occhi del prete, sorsero immagini delle strade di una Nagasaki che egli non aveva mai visto. Per motivi incomprensibili quella città della sua immaginazione era piena di strade labirintiche e il sole dorato splendeva sulle finestre delle minuscole case. E lì, intento a camminare per la strada, con abiti eguali a quelli dell’interprete, c’era Ferreira. No, non poteva essere. Una fantasia simile era assurda. «Non le credo» disse. Ma l’interprete con una risata sprezzante uscì. La porta di nuovo si chiuse alle sue spalle; il raggio bianco di luce si spense di colpo; ancora una volta, proprio come prima, le voci delle guardie echeggiarono contro le pareti della capanna. «Un ribaldo egoista come non ce ne sono mai stati» stava dicendo l’interprete. «Ma finirà comunque per abiurare.» Il prete si disse che ovviamente quelle parole si riferivano a lui e, afferrandosi le ginocchia tra le mani, prese a riflettere silenziosamente sui quattro nomi che l’interprete aveva snocciolato come se li
avesse mandati a memoria. Non conosceva i padri Porro e Pedro. Era sicuro di aver sentito a Macao il nome di padre Cassola. Era un missionario portoghese, ma a differenza sua, non era venuto da Macao bensì dalla città controllata dagli spagnoli, Manila, ed era entrato clandestinamente in Giappone. Dopo il suo arrivo non c’erano più state sue notizie e la Compagnia di Gesù aveva dato per scontato che fosse stato chiamato a un glorioso martirio. Ma dietro quelle tre figure c’era il volto di Ferreira... Ferreira che lui cercava da quando era arrivato in Giappone. Se le parole dell’interprete non erano una semplice minaccia, anche Ferreira, come era corsa voce, aveva tradito la Chiesa per mano del magistrato Inoue. Se anche Ferreira aveva abiurato, avrebbe lui avuto la forza di sopportare le sofferenze che l’aspettavano? Una terribile angoscia gli si levò in petto. Scosse violentemente il capo cercando di padroneggiare le tremende immagini e le parole che gli salivano alla gola come nausea. Ma più tentava di scacciare quell’immagine più il quadro diventava vivido di fronte ai suoi occhi sfuggendo al controllo della volontà. “Exaudi nos, Pater omnipotens, et mittere digneris Sanctum qui custodiat, foveat, protegat, visitet, atque defendat omnes habitantes...” Ripetendo di continuo la preghiera cercava freneticamente di distrarre la propria attenzione ma la preghiera non riusciva a placare il suo cuore angosciato. “Signore, perché taci? Perché taci sempre...?” Venne la sera. La porta si aprì. Una delle guardie mise un po’ di zucca in una scodella di legno, gliela posò davanti e uscì senza dire una parola. Alzando la zucca alle labbra fu colpito dall’odore di rancido che ne emanava. Doveva essere stata cotta due o tre giorni prima, ma nel suo stato attuale avrebbe mangiato con piacere persino il cuoio pur di riempirsi lo stomaco. Prima di averla inghiottita tutta, aveva le mosche che gli ronzavano attorno alle mani. “Sono come un cane” rifletté. C’era stato un tempo in cui i missionari erano spesso invitati a pranzo in casa dei signori feudali e dei samurai. Era il tempo in cui le navi portoghesi, cariche di mercanzie, venivano con regolarità nei porti di Hirado, Yokoseura e Fukuda, e c’era anche stato un tempo, a detta di Valignano, in cui ai missionari non mancavano mai il pane e il vino. Sedevano a tavole pulite, invocavano la grazia del Signore e mangiavano tranquilli. E lui invece era lì, dimentico persino di pregare per buttarsi su quel cibo buono per i cani. La sua non era una preghiera di ringraziamento al Signore; era una preghiera che chiedeva aiuto; era persino un pretesto per dar voce alle proprie lamentele e al risentimento. Era ignobile che un prete provasse quei sentimenti. Sapeva bene che la sua vita avrebbe dovuto essere dedicata alle lodi al Signore, non a espressioni di risentimento. Eppure in quel giorno in cui veniva messo alla prova e si sentiva come Giobbe lebbroso, quanto gli era difficile levare la propria voce in lode al Signore! Di nuovo la porta stridette e comparve la stessa guardia. «Padre, adesso andiamo» gli disse. «Andiamo? Dove?» «Al molo.» Alzatosi si sentì girare la testa per le fitte allo stomaco vuoto. Fuori della capanna era già calato il crepuscolo e gli alberi protendevano languidi i loro rami come stremati per il calore della giornata. Le zanzare sciamavano attorno ai volti dei due uomini e in lontananza si udivano le rane gracidare. Era circondato da tre guardie, ma nessuna di esse sembrava preoccuparsi che lui tentasse la fuga. Si parlavano ad alta voce, a volte scoppiando a ridere. Una si separò dalle altre per andare a orinare nei cespugli. “Se volessi” pensò il prete “ora potrei fuggire dagli altri due e cercare una via di scampo.” Ma mentre quel pensiero gli passava per la mente una delle due guardie si girò all’improvviso verso di lui e disse: «Padre, quella capanna era tetra, vero?» Sì, era una brava persona, quella guardia. E d’un tratto il prete fu in certo qual modo colpito dal volto affabile e ridente di quell’individuo. Se fosse fuggito, le conseguenze le avrebbero subite quei contadini. Costringendosi a fare un debole sorriso, annuì. Percorsero la strada che avevano fatta al mattino. Gli occhi incavati del prete erano affascinati dai giganteschi alberi che si ergevano al centro dei campi echeggianti per il gracidio delle rane. Ricordò di aver già visto quegli alberi. In essi enormi corvi stavano ora sbattendo le ali e stridendo con versi rochi. Che cupo coro era quello: il gracidio delle rane e il gracchiare dei corvi! Quando entrarono nel villaggio il fumo bianco che si levava dalle case sparse scacciò la nube di zanzare. Un uomo con il perizoma era fermo con un bimbo in braccio. Alla vista del prete aprì la bocca come uno scemo e scoppiò a ridere. Le donne, con gli occhi mestamente abbassati, guardarono sfilare i quattro uomini. Attraversarono il villaggio e di nuovo uscirono nelle risaie. Scesero lungo il pendio del colle fino a che finalmente un alito secco di vento salmastro soffiò sulle guance infossate del prete. Sotto c’era un porto, se effettivamente si poteva definire un porto, perché non era altro che un molo di attracco di pietre nere ammassate, con due barchette squallide tirate sulla sabbia. Mentre le guardie spingevano dei pali sotto le barche, il prete raccolse le conchiglie rosate e giocherellò con esse. Erano le sole cose belle che avesse visto in quella lunghissima giornata. Portandone una all’orecchio ascoltò il fievole rombo smorzato che proveniva dal suo cuore profondo. Poi all’improvviso un greve fremito scosse tutto il suo essere e schiacciò nel palmo della mano quella conchiglia con il suo rombo smorzato. «Sali a bordo!» giunse l’ordine. L’acqua sul fondo della barca era bianca di polvere; ed era fredda sotto i suoi piedi gonfi. Con i piedi inzuppati, le mani strette sullo scafo, chiuse gli occhi e sospirò. Mentre l’imbarcazione si staccava lenta
da terra, i suoi occhi infossati si posarono sulle montagne sulle quali aveva errato fino a quel mattino. Nella bruma serotina la scura montagna azzurra che si levava dal mare sembrava il seno rigonfio di una donna. Guardando di nuovo in direzione della spiaggia vide un uomo, un mendicante, gli parve, che correva freneticamente. E mentre correva gridava qualcosa, poi i suoi piedi affondavano nella sabbia e lui cadeva. Sì, era l’uomo che l’aveva tradito. Cadeva e si rialzava, poi cadeva di nuovo e urlava qualcosa ad alta voce. Ora sembrava un fischio, ora sembrava pianto ma il prete non riusciva a capire quello che diceva Kichijiro. Eppure non sentiva di odiarlo, non provava risentimento. In fin dei conti, presto o tardi, era fatale che lo catturassero e già nel suo petto era penetrato un senso di rassegnazione. Alla fine Kichijiro parve rendersi conto che non sarebbe mai riuscito a raggiungerli e rimase immobile, eretto come un palo sul bordo dell’acqua. Mentre l’imbarcazione si allontanava, la sua figura immobile diventava sempre più piccola nella bruma serotina. Con il sopraggiungere della sera la barca entrò in una insenatura. Aprendo gli occhi socchiusi e semiaddormentati vide che le guardie sbarcavano per essere sostituite da altri uomini. La loro conversazione era inframmezzata da un dialetto che appariva ricco di consonanti ma, stremato come era, il prete non se la sentiva di compiere lo sforzo di capire che cosa stessero dicendo. L’unica cosa che notò fu che le parole Nagasaki e Omura venivano pronunciate spesso e confusamente intuì che lo portavano in quella direzione. Quando era stato nella capanna, aveva avuto la forza di pregare per un guercio e per la donna che gli aveva dato il cetriolo; ma adesso non aveva nemmeno più la forza di pregare per se stesso, tanto meno per rivolgersi ad altri. Dove lo portavano, che cosa gli avrebbero fatto... nemmeno questo aveva importanza. Chiuse gli occhi e di nuovo si addormentò. A volte li riapriva e sempre udiva il rumore monotono dei remi nell’acqua. Uno degli uomini remava, gli altri due sedevano accovacciati sul fondo della barca, con viso cupo e imbronciato. «Signore, sia fatta la Tua volontà» mormorò lui nel sonno. Ma anche se le sue parole esitanti sembravano simili a quelle di tanti santi che avevano affidato se stessi alla divina provvidenza, lui avvertiva che erano diverse. “Che cosa ti succede?” si chiese. “Cominci a perdere la fede?” diceva una voce dal più profondo del suo essere. Eppure quella voce lo riempiva di disgusto. «Dove state andando?» chiese con voce roca alle tre nuove guardie, riaprendo gli occhi. Ma gli altri rimasero irrigiditi nel silenzio, quasi a minacciarlo. «Dove state andando?» ripeté ad alta voce. «Yokose-no-Ura» rispose uno degli uomini a bassa voce e, in certo qual modo, parve vergognarsi. Aveva sentito spesso il nome di Yokose-no-Ura da Valignano. Era un porto che era stato aperto da Fróis e Almeida con il permesso del signore locale; e le navi portoghesi, che fino a quel momento attraccavano a Hirado, avevano cominciato a usare solo questo porto. Sul colle che si affacciava sul porto era stata costruita una grande chiesa gesuita e su di essa i padri avevano eretto un gigantesco crocifisso, in verità così grande che i missionari riuscivano a vederlo dalle navi quando, dopo molti giorni e molte notti di un lungo viaggio, finalmente raggiungevano il Giappone. Anche gli abitanti giapponesi, la domenica di Pasqua, sfilavano in processione per il colle sino alla vetta cantando inni e portando candele accese in mano. Persino i signori feudali ci andavano e alcuni tra loro ricevevano finanche il battesimo. Dalla barca il prete strizzò gli occhi per vedere qualche traccia di villaggio o del porto che avrebbe potuto essere Yokose-no-Ura, ma terra e mare erano dipinti nello stesso nero cupo e non si vedeva alcuna luce. Non c’era la minima traccia di villaggi o di case. Eppure continuava a pensare che lì, da qualche parte, come a Tomogi e a Goto, potevano esservi nascosti ancora dei cristiani. In tal caso, sapevano costoro che in una piccola barca, rannicchiato per la paura e tremante come un cane selvatico, c’era un prete? «Dov’è Yokose-no-Ura?» chiese a una delle guardie. «Non ne è rimasto più niente» fu la risposta. Il villaggio era stato raso al suolo e tutti i suoi abitanti erano stati dispersi. Il mare e la terra erano silenziosi come la morte; solo il monotono rumore delle onde che lambivano la barca rompeva il silenzio notturno. “Perché ci hai abbandonati così completamente?” pregava con voce fievole. “Persino il villaggio era stato costruito per te e tu lo hai abbandonato nelle sue ceneri? Nemmeno quando la gente è stata buttata fuori dalla sua casa tu hai dato loro coraggio? Sei rimasto semplicemente silenzioso come l’oscurità che mi circonda? Perché? Dimmi almeno perché. Non siamo forti come Giobbe cui era stata inflitta la prova della lebbra. C’è un limite alla nostra sopportazione. Non imporci più sofferenze.” Così pregava, ma il mare continuava a essere freddo e l’oscurità manteneva il suo caparbio silenzio. Tutto ciò che si riusciva a udire era il regolare tonfo smorzato e monotono dei remi. “Mi rivelerò un codardo?” si chiese. Sentiva che, se la grazia non gli avesse infuso coraggio e forza, non sarebbe riuscito a sopportare altro. Il rumore dei remi cessò. Uno degli uomini si voltò e gridò: «C’è qualcuno lì?» I remi si erano fermati, ma più oltre da qualche parte si udiva il rumore di altri remi. «Forse è qualcuno che va a pesca di notte. Lascialo stare.» Stavolta era stato il vecchio a bisbigliare, quello che non aveva mai aperto bocca fino a quel momento. Il rumore dei remi era cessato e si udì una voce flebile che cercava di rispondere. Il prete ebbe l’impressione di aver già udito quella voce da qualche altra parte, ma non riuscì a ricordare dove.
Adesso era mattino. Erano arrivati a Omura. Quando gradatamente la bruma lattiginosa venne spazzata via dal vento, i suoi occhi stanchi si posarono sul bianco muro di un castello circondato da un boschetto sul fianco della baia. Era ancora in fase di costruzione e tutt’attorno si vedevano le impalcature di tronchi. Uno stormo di cornacchie volò di traverso sopra il boschetto. Dietro il castello c’era un gruppo di case con il tetto di paglia e bitume. Era la prima volta che vedeva una città giapponese. Mano mano che la luce diventava più chiara per la prima volta notò che accanto alle tre guardie, che gli erano state compagne nella barca, c’erano grossi randelli. Probabilmente avevano ricevuto l’ordine di gettarlo impietosamente in mare qualora lui avesse dato segno di voler tentare la fuga. Sul molo c’era una folla di spettatori irrequieti, capeggiati da samurai che tenevano grandi spade vicino alle maniche delle vesti. I samurai urlavano qualcosa agli spettatori, che si alzavano e tornavano a sedersi sul colle, sulla spiaggia, in paziente attesa dell’arrivo della barca. Quando il prete scese, dalla folla si levò un gran grido e, mentre veniva scortato dai samurai in mezzo alla gente, i suoi occhi si fissarono in quelli di molti uomini e molte donne che lo guardavano con espressione di dolore e di angoscia. Rimase in silenzio; e anch’essi rimasero in silenzio. Ma quando passò davanti a costoro alzò la mano e impartì loro, con gesto lieve, una benedizione. Subito allarme e preoccupazione comparvero sui loro volti e tutti abbassarono gli occhi. Alcuni girarono persino il viso. Se le cose fossero state normali, lui avrebbe potuto porre in quelle bocche ora serrate il pane del corpo di Cristo. Ma non aveva né calice né vino né altare ove poter celebrare la Messa. Quando con i polsi saldamente legati, fu issato sul cavallo privo di finimenti, dalla folla si levò un urlo di derisione. Sebbene Omura si fregiasse del nome di città, sembrava poco dissimile, con i suoi tetti di paglia, dai villaggi che aveva visto sino a quel momento. Le donne scalze con i capelli sciolti e le gonne ondeggianti stavano in strada a disporre conchiglie, legna da ardere e verdure. In mezzo alla gente menestrelli ambulanti in hakama e bonzi vestiti di nero lo guardavano e lo deridevano sprezzanti. A volte, mentre veniva condotto per la strada lunga e stretta, sassi gettati da mani di bambini gli sfioravano il volto. Se Valignano non si era sbagliato, Omura era la regione in cui i missionari avevano compiuto i loro sforzi maggiori. Aveva molte chiese e un seminario; i contadini e persino i samurai «ascoltavano le nostre parole con grande entusiasmo», così aveva scritto Fróis in una sua lettera. Persino i signori feudali erano diventati fervidi cristiani e lui aveva sentito dire che si erano praticamente convertiti tutti in massa. Ma ora, mentre i bambini gli lanciavano pietre e i bonzi urlavano parole di scherno e lo coprivano di vile sputo, non c’era nessun samurai tra i funzionari che facesse un tentativo per fermarli. La strada costeggiava il mare e poi conduceva dritta a Nagasaki. Quando attraversarono un villaggio che si chiamava Suzuda, notò una fattoria piena di fiori di cui non conosceva i nomi. A un dato momento i samurai fermarono i cavalli e ordinarono a uno degli uomini di portare dell’acqua che poi offrirono al prete. Ma l’acqua gli sgocciolò dalla bocca sul petto. «Guardate! Non è grande?» chiedevano le donne tirando i figli per la manica e indicandolo con scherno. Quando la lenta processione si rimise in cammino, lui si voltò a guardare. Pensò con mestizia che forse non avrebbe più rivisto sbocciare fiori bianchi come quelli davanti ai quali era appena passato. Mentre procedevano, i samurai si toglievano i cappelli piumati e si asciugavano il sudore dalla fronte. Poi, ravviandosi i capelli, si ergevano sui cavalli. Ora la strada diventava bianca e tortuosa e il prete notò la figura di un uomo somigliante a un mendico che, chino su un bastone, li seguiva. Era Kichijiro. Come era rimasto immobile sulla spiaggia a guardare a bocca aperta la barca che si allontanava, così ora procedeva goffamente con il kimono spalancato. Accortosi che il prete lo aveva visto, si innervosì e cercò di nascondersi dietro il riparo di un albero. Il prete era perplesso. Perché quell’uomo che lo aveva tradito ora lo seguiva così? E in quel momento intuì che forse la persona sull’altra barca quel mattino era Kichijiro. Sobbalzando sul cavallo, con gli occhi infossati guardava di tanto in tanto sul mare, che luccicava scuro e minaccioso. Quando furono lontano da Suzuda, la gente lungo la strada divenne piano piano sempre più numerosa. Mercanti che portavano animali con carichi sulla schiena; viaggiatori con grandi cappelli di paglia simili a ombrelli e con giacche di paglia. Alla vista della processione si scostavano sul ciglio della strada a guardare a bocca aperta la strana cosa in cui si erano imbattuti. A volte i contadini gettavano la zappa e venivano di corsa a guardare il buffo spettacolo. In precedenza il prete si era interessato vivamente ai giapponesi – al loro aspetto, agli abiti che vestivano e così via –, ma ora non riusciva a risvegliare in sé alcun interesse tanta era la sua enorme stanchezza. Si limitò a chiudere gli occhi e a pensare alle stazioni della Via Crucis che, a una a una, in quel momento venivano recitate in qualche monastero; e continuava a muovere la lingua riarsa nel tentativo di mormorare le parole della preghiera. Era una preghiera ben nota a tutti i seminaristi e ai cristiani, una meditazione che rammentava i particolari della Passione di Cristo. Quando quell’uomo era uscito dai cancelli del Tempio per salire il sentiero ripido del Golgota portando la croce, avanzando a stento e vacillando, la folla, sempre più numerosa ed eccitata, lo aveva seguito. «Donne di Gerusalemme, non piangete per me bensì per voi e per i vostri figli perché giorno verrà...» Quelle parole gli tornarono alla mente. “Molti secoli fa quell’uomo ha provato con la sua lingua arida e gonfia tutte le sofferenze che ora io soffro” pensò. E quel senso di sofferenza condivisa gli placò il cuore e la mente più dell’acqua più dolce. “Pange lingua...” Sentì le lacrime che gli scorrevano per le guance. “Bella premunt hostilia, da
robur, fer auxilium.” “Qualunque cosa succeda non abiurerò mai” disse a se stesso. Nel pomeriggio arrivarono in una città chiamata Isahaya. Lì sorgeva una palazzina circondata da un fossato e da un muro di terra, e tutt’attorno c’erano case di paglia e di sterpi. Quando giunsero davanti a una delle case, alcuni uomini armati di spada si chinarono con rispetto davanti alla sfilata di samurai e vennero avanti con due grandi piatti di riso. Mentre i samurai mangiavano, il prete per la prima volta fu tirato giù da cavallo e legato a un albero come un cane. Vicino a lui si accovacciarono mendicanti dai capelli arruffati che lo fissavano come bestie con occhi luccicanti. Lui non aveva più l’energia per sorridere. Qualcuno gli mise davanti qualche chicco di riso in un piatto sbreccato. Distrattamente lui alzò gli occhi e vide che si trattava di Kichijiro. Se ne stava lì accovacciato in mezzo ai mendicanti. Ogni tanto girava lo sguardo, quasi volesse guardare il prete ma quando i loro occhi si incontravano, girava il volto in fretta. Il prete guardava con serenità quel volto. Quando aveva visto quell’uomo sulla spiaggia era troppo stanco anche solo per odiarlo; ma ora era semplicemente incapace di dimostrare qualsiasi generosità. Ribollendo di collera rifletté sulla scena nella pianura quando il pesce secco che era stato forzato a mangiare gli aveva provocato una tremenda arsura in gola. «Quello che devi fare, fallo al più presto.» Persino Cristo aveva scagliato quelle parole irose a Giuda che lo aveva tradito. Per molto tempo il prete aveva pensato che quelle parole fossero una contraddizione nell’amore del Cristo ma ora, alla vista del volto tremante di quell’individuo accovacciato al suolo, che a volte alzava gli occhi come un cane frustato, dal più profondo del suo essere si levò un sentimento nero e crudele. “Va”’, bisbigliò in cuor suo “quello che devi fare, fallo al più presto.” I samurai avevano finito di mangiare il riso ed erano già montati in groppa ai cavalli. Il prete fu issato sul proprio e la processione si rimise lentamente in marcia. I bonzi alzarono la voce in tono di scherno, i bambini lanciarono pietre. Gli uomini con le loro bestie da carico e i viaggiatori in abiti giapponesi alzarono lo sguardo sui samurai e guardarono il prete. Tutto era esattamente come prima. Lui si girò a guardare... e vide Kichijiro un po’ in disparte, appoggiato al suo bastone, mentre si apprestava a seguirli. “Quello che devi fare, fallo al più presto” mormorò in cuor suo il prete. “Quello che devi fare, fallo al più presto.”
6.
Il cielo si rabbuiò; le nubi passarono lente sopra la vetta dei monti e giù sui campi. Quella era l’aperta pianura di Chizukano. Qua e là gruppi di arbusti sembravano strisciare sopra il terreno; ma ovunque altrove si estendeva all’infinito soltanto la terra di un cupo marrone. I samurai erano impegnati in serie discussioni e, quando ebbero finito, diedero ordine che il prete fosse fatto smontare da cavallo. Le lunghe ore trascorse in groppa all’animale si facevano sentire e, quando mise i piedi a terra, un dolore lacerante gli serpeggiò nelle cosce e allora si accovacciò. Uno dei samurai fumava tabacco in una lunga pipa. Da quando era arrivato in Giappone era la prima volta che vedeva il tabacco. Il samurai aspirò due o tre volte, eruttò fuori il fumo, poi passò la pipa al suo compagno. Nel frattempo i funzionari li guardavano con invidia. Rimasero tutti fermi a lungo a guardare verso sud, ora seduti su una roccia ora in piedi. Alcuni orinarono al riparo della roccia. A settentrione in alcuni punti il cielo era ancora chiaro ma verso meridione si andavano ammassando pesanti nubi notturne. Di tanto in tanto il prete si voltava a guardare la strada che avevano percorso, ma di Kichijiro non c’era traccia, doveva essersi attardato in cammino. Probabilmente si era stancato di strisciar loro appresso e si era fermato da qualche parte. «Sono qui! Sono qui!» urlarono le guardie indicando a meridione e da quella direzione si avvicinò lenta una banda di samurai con i loro aiutanti, simili a quelli fermi lì in attesa. Subito il samurai con la pipa saltò in sella al suo cavallo e galoppò a tutta velocità verso il gruppo in arrivo. Restando in sella, salutò i nuovi arrivati con un inchino che gli fu ricambiato con solennità. Il prete capì che ora sarebbe stato consegnato a una nuova scorta. Quando lo scambio di convenevoli ebbe fine e il gruppo che lo aveva scortato da Omura girò i cavalli e scomparve lungo la strada a settentrione, dove i raggi del sole continuavano a scendere delicati, il prete fu circondato dal gruppo che era venuto da Nagasaki. Di nuovo fu issato in groppa a un cavallo privo di finimenti. La prigione era sul pendio di un colle, circondata da alberi. Costruita di recente, sembrava una specie di magazzino; all’interno era leggermente sopraelevata da terra. La luce entrava attraverso una finestrella sbarrata e una piccola grata fissata con uno spioncino scorrevole di legno dal quale passava a stento una scodella. Di lì il cibo gli veniva passato una volta al giorno. Dopo l’arrivo era stato condotto fuori due volte per l’interrogatorio e questo gli aveva dato modo di vedere che aspetto aveva all’esterno la costruzione: una cancellata di bambù inclinata minacciosamente verso l’interno, mentre più oltre, all’esterno, c’erano le case col tetto di paglia in cui alloggiavano le guardie. Quando fu scaraventato là dentro, non c’erano altri prigionieri oltre a lui. Rimase seduto per tutto il giorno in silenzio pensoso, al buio, ascoltando le voci delle guardie; non era molto diverso da quando stava nella capanna sull’isola. A volte le guardie gli parlavano, preoccupate com’erano di fare passare il tempo. E così egli apprese di essere alle porte di Nagasaki, ma non riuscì ad appurare quale fosse la sua posizione in rapporto al centro della città. Solo durante il giorno riusciva a distinguere in lontananza le grida forti di uomini che lavoravano, il tonfo degli alberi segati, di chiodi che venivano battuti e da ciò dedusse che quella zona era in fase di sviluppo. Al cader della notte udiva il canto della tortora in mezzo agli alberi. Nonostante tutto la sua vita di carcerato era piena di una singolare quiete e serenità. La tensione e l’angoscia dei giorni in cui aveva vagato per le montagne ora gli sembravano il sogno di una vita passata. Non sapeva quello che gli avrebbe portato l’indomani, ma quasi non provava paura. Dalle guardie ottenne della robusta carta giapponese e della corda con cui fece un rosario che gli consentiva di pregare tutto il giorno scandendo con forza le preghiere. Di notte, mentre giaceva sul letto con gli occhi chiusi ad ascoltare il canto della tortora negli alberi, lasciava sfilare sotto le palpebre chiuse tutte le scene della vita di Cristo. Sin dall’infanzia il volto di Cristo per lui era stato il conseguimento di ogni suo sogno e ideale. Il volto di Cristo mentre predicava alla folla il Discorso della Montagna. Il volto di Cristo mentre attraversava il lago della Galilea al crepuscolo. Anche nei momenti delle più terribili torture quel volto non aveva mai perso la sua bellezza. Quegli occhi dolci e limpidi che penetravano fino alla più intima essenza di un essere umano adesso erano fissi su di lui. Quel volto che non poteva far del male, pronunciare parole di insulto. Quando quel volto gli compariva davanti, paura e tremore sembravano svanire come minuscoli rivoletti che vengono silenziosamente risucchiati dalla sabbia della spiaggia marina. Era la prima volta da quando era venuto in Giappone che riusciva a trascorrere giorno dopo giorno in serena tranquillità. Cominciò a chiedersi se il prolungamento di quella pace ininterrotta non fosse la prova che la morte non era lontana, tanto dolcemente passavano quei giorni sereni attraverso il suo cuore. Ma al nono giorno, all’improvviso, fu portato fuori della prigione. Abituato a una cella senza un raggio di luce, la luminosità del sole gli ferì gli occhi tagliandoli come una spada. Il frinire delle cicale scendeva dagli alberi come una cascata, mentre dietro la capanna delle guardie si godeva la vista di
uno splendido manto di fiori rossi e luminosi. Ora più che mai si rendeva conto di che vagabondo era diventato, con i capelli e la barba lunghi, la carne che gli pendeva addosso, le braccia esili come aghi. Si chiese se lo stessero portando fuori per l’interrogatorio, invece fu condotto direttamente nella stanza delle guardie e messo in una cella. Non sapeva perché lo avessero portato lì. Ne scoprì la ragione soltanto il giorno dopo. Improvvisamente il silenzio fu infranto dalle voci colleriche e ringhiose delle guardie e riuscì a sentire lo strascichio vago di passi di donne e uomini che venivano trascinati fuori del cancello della prigione, nel cortile. Fino al giorno precedente quei prigionieri erano stati rinchiusi in una prigione buia come la sua. «Se continuate a comportarvi così, sarete puniti» gridavano le guardie alzando irosamente la voce e i prigionieri resistevano altrettanto irosamente. «Smettetela di smaniare! Smettetela!» E l’irosa disputa tra guardie e prigionieri si prolungò per un po’. Poi tutto tornò tranquillo. Al cadere della sera, all’improvviso, dalla prigione si udì un suono di voci che si levavano in preghiera. «Padre nostro che sei nei Cieli, sia benedetto il tuo nome. Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà così in Cielo come in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori; non indurci in tentazione ma liberaci dal male. Amen.» Nelle brume della sera quelle voci si levavano come una fontana, poi si spensero. «Non indurci in tentazione.» In quelle voci che pregavano c’era forse una punta di pathos? Un tono lamentoso? Sbattendo le palpebre sugli occhi infossati, il prete mosse le labbra all’unisono con quella preghiera. «E ancora tu non rompi il silenzio!» disse. «Non dovresti tacere in eterno.» Il giorno dopo il prete chiese alle guardie se poteva far visita ai prigionieri che erano costretti ora a lavorare nei campi sotto rigorosa sorveglianza. Il permesso gli fu accordato e lui si portò nel punto in cui cinque o sei tra uomini e donne stavano maneggiando con gesti inerti delle vanghe. Quando alzarono gli occhi per guardarlo sbalorditi, ricordò chi erano. Ricordò anche i logori abiti da contadino. Ma erano i volti, i volti che si levarono a guardarlo: era forse per la continua mancanza di luce nella cella che gli uomini avevano quell’aspetto, con le lunghe barbe e i lunghi capelli, mentre le donne avevano volti di un pallore mortale? «Oh!» esclamò una delle donne. «È il padre! Non lo avrei mai riconosciuto.» Era la donna che un giorno gli aveva dato un cetriolo togliendoselo dal seno. E accanto a lei, c’era l’uomo con l’aria del mendicante, il guercio che metteva in mostra i denti marci e rideva con un’ombra di nostalgia. Da quel giorno ebbe il permesso dalle guardie e tutte le mattine e le sere, due volte al giorno, entrava nel carcere dei cristiani. Le guardie sapevano che i prigionieri li avrebbero ripagati di quella generosità non creando guai. Poiché non aveva pane e vino, il prete non poteva celebrar Messa, ma poteva quanto meno recitare con loro il Credo, il Pater Noster e l’Ave Maria e aveva modo di ascoltare le loro confessioni. «Non confidate nei principi, né in alcun figliol d’uomo che non può dare salvezza. Il suo fiato se ne va ed egli torna alla sua terra; in quel giorno periscono i suoi disegni. Beato colui che ha l’Iddio di Giacobbe per suo aiuto, e la cui speranza è nell’Eterno, suo Dio, che ha fatto il cielo e la terra e il mare e tutto ciò che è in essi.» Mentre il prete pronunciava le parole del salmista, non uno dei prigionieri faceva anche un sol colpo di tosse; ma tutti tendevano l’orecchio in fervida attenzione. Persino le guardie ascoltavano. Era un testo della Scrittura che aveva letto e riletto, ma mai gli era venuto alle labbra con tale ricchezza di significato sia per lui sia per i cristiani. Ogni parola sembrava penetrargli nel cuore con nuovo significato e nuova ricchezza. «Beati i morti che muoiono nel Signore. D’ora innanzi... non avrete sofferenze più grandi di questa» disse il prete con voce piena di intenso fervore. «Il Signore non vi abbandonerà in eterno. È lui che lava le nostre ferite, è sua la mano che deterge il nostro sangue. Il Signore non resterà in silenzio in eterno.» Quando veniva la sera, somministrava il sacramento della penitenza ai cristiani ma, dato che non disponeva di confessionale, posava l’orecchio al buco dal quale veniva passato il cibo e il penitente bisbigliava i propri peccati a bassa voce. E così ascoltava la confessione. Frattanto gli altri si rannicchiavano in un angolo cercando il più possibile di non rendere difficili le cose al penitente. Lì in prigione, per la prima volta dai giorni di Tomogi, riusciva a esercitare le funzioni di prete, e questa consapevolezza lo induceva a pregare in segreto affinché quella vita potesse continuare per sempre. Dopo aver ascoltato le confessioni, prese la carta ricevuta dai funzionari, si fece una penna da un’ala di pollo ch’era caduta in cortile e cominciò a scrivere tutto ciò che ricordava da quando era arrivato in Giappone. Naturalmente non sapeva se ciò che scriveva sarebbe mai arrivato in Portogallo ma c’era la possibilità che qualche cristiano consegnasse quei fogli a un cinese a Nagasaki. E con quella flebile speranza muoveva la penna sulle pagine. Di notte, mentre se ne stava seduto al buio ad ascoltare il canto della tortora negli alberi, sentiva che il volto di Cristo lo fissava attentamente. Gli occhi azzurri erano pieni di compassione, i lineamenti sereni: era un volto pieno di fiducia. «Signore, non potrai più respingerci» bisbigliava, guardando quel volto fissamente e poi sembrava che la risposta giungesse alle sue orecchie: «Non vi abbandonerò». Chinando il capo tendeva le orecchie per udire ancora quella voce ma la sola cosa che riusciva a sentire era il canto della tortora. L’oscurità era fitta e profonda eppure il prete sentiva che, per un solo istante, il suo cuore era stato purificato. Un giorno udì il rumore del catenaccio e una guardia mise il capo entro la porta. «Cambiati i
vestiti!» urlò gettandogli per terra alcuni indumenti pesanti. «Guarda! Hai degli abiti rossi e biancheria d i jittoku e cotone. Prendili tutti, sono tuoi.» E la guardia proseguì spiegandogli che il jittoku era il tessuto indossato dai monaci buddisti. «Molte grazie» rispose il prete con un sorriso sul volto infossato. «Ma per favore li porti via. Non li voglio.» «Non vuoi prenderli? Non vuoi prenderli?» La guardia scosse il capo come un bambino e guardò gli indumenti con espressione di desiderio. «Ma sono un regalo dei funzionari dell’ufficio del magistrato.» Raffrontando i propri indumenti di canapa con quelli che erano completamente nuovi, il prete si chiese come mai i funzionari gli avessero portato i vestiti di un bonzo. Era un gesto di pietà nei confronti di un prigioniero, oppure era un’altra trappola per catturarlo? Non riusciva a capirlo ma in ogni caso si disse che con l’invio di quegli indumenti aveva inizio il suo rapporto con l’ufficio dei magistrati. «Presto! Presto!» incalzò la guardia. «I funzionari saranno qui tra poco.» Il prete non aveva pensato che l’interrogatorio sarebbe cominciato tanto presto. Nella sua fantasia aveva quotidianamente immaginato la scena come una sorta di incontro tra Pilato e Cristo, con la folla ululante, Pilato perplesso e Cristo silenzioso. Ma lì l’unico rumore era il frinire delle cicale che lo invitavano a dormire. La prigione dei cristiani era avvolta nel solito silenzio pomeridiano. Dopo essersi fatto portare dell’acqua calda dalle guardie, si lavò e lentamente si mise gli abiti di cotone infilando le braccia nelle maniche. Il vestito non era gradevole al tocco e nel contempo egli provò un brivido di mortificazione al pensiero che indossando quell’indumento stringeva un patto con l’ufficio del magistrato. Nel cortile erano state sistemate alcune sedie in un’unica fila e ognuna di esse gettava un’ombra sul terreno. Costretto ad accovacciarsi alla destra del cancello, con le mani sulle ginocchia, aspettò a lungo. Non abituato com’era a quella posizione sudava profusamente per il dolore alle ginocchia, ma non voleva che i funzionari vedessero la sua agonia. Riflettendo intensamente a come Cristo doveva essere apparso al momento della fustigazione, si sforzava di distrarre la mente dal dolore alle ginocchia. Di lì a un po’ si udì il rumore di un corteo e di zoccoli di cavallo e tutte le guardie si abbassarono fino a terra, chinando il capo. Entrarono nel cortile alcuni samurai con andatura sprezzante e con ventagli nelle mani. Parlando tra loro passarono senza neppure degnare Rodrigues di uno sguardo, poi sedettero languidamente sulle sedie. Le guardie, sempre prone, portarono delle tazze e gli altri sorseggiarono lentamente l’acqua calda. Dopo un breve intervallo il samurai all’estrema destra fece un cenno alle guardie e il prete, sussultando per il dolore alle ginocchia, fu trascinato davanti alle cinque sedie. Nell’albero alle sue spalle una cicala proseguì il suo canto. Il sudore gli colava lungo la schiena ed egli era acutamente consapevole di una gran quantità di occhi fissi su di lui alle sue spalle: perché i cristiani dalla prigione indubbiamente avrebbero ascoltato con attenzione ogni domanda e ogni risposta tra lui e i suoi interlocutori. Ora capiva perché Inoue e i funzionari avessero deliberatamente scelto quel luogo per l’interrogatorio: volevano mostrarlo ai contadini incastrato e sconfitto. “Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto...” chiuse gli occhi incavati e si costrinse a sorridere, ma si rese conto da solo che l’espressione del suo volto si induriva come una maschera. «Il governatore di Chikugo è preoccupato per la sua perplessità» disse il samurai all’estrema destra parlando seriamente in portoghese. «Se è in difficoltà la prego di dircelo.» Il prete chinò il capo in silenzio. Poi, alzando lo sguardo, incontrò quello di un vecchio seduto al centro fra gli altri quattro. Con un sorriso gentile sulle labbra, il vecchio osservava il prete con la curiosità di un bambino cui sia appena stato regalato un nuovo giocattolo. Poi fu letta una dichiarazione: «Paese d’origine: Portogallo. Nome: Rodrigues. Sostiene di essere venuto da Macao. È esatto?» Il samurai all’estrema destra disse con voce piena di commozione: «Padre, siamo profondamente commossi per la forza della sua decisione nel venire qui da migliaia di chilometri di lontananza, attraverso ogni genere di difficoltà. Non c’è dubbio che lei abbia sofferto molto». Nelle sue parole c’era un’inflessione gentile e quella gentilezza toccò il cuore del prete dandogli dolore. «Proprio perché lo sappiamo, il nostro dovere di investigatori ci riesce doloroso.» A quelle premurose parole le emozioni trattenute del prete parvero essere sul punto di cedere. “Se non fosse per le barriere del paese e della politica, noi potremmo stringerci la mano e parlare.” Era quello il sentimento che di colpo gli riempì il cuore. Tuttavia si rese subito conto che era pericoloso abbandonarsi a un simile sentimentalismo. «Padre, noi non stiamo discutendo se la sua dottrina sia giusta o sbagliata. Il motivo per cui abbiamo bandito il cristianesimo dal Giappone è che, dopo profonda e seria considerazione, troviamo che questo insegnamento non abbia alcun valore per il Giappone di oggi.» L’interprete andò subito al nocciolo della discussione. Il vecchio dalle grandi orecchie continuava a tenere lo sguardo abbassato sul prete con aria di comprensione. «Secondo il nostro modo di pensare, la verità è universale» disse il prete ricambiando finalmente il sorriso al vecchio. «Un momento fa voi funzionari avete manifestato comprensione per le sofferenze che ho patito. Uno di voi ha pronunciato calde parole di consolazione perché ho percorso tante migliaia di miglia sul mare, così a lungo, per giungere nel vostro paese. Se non credessimo che la
verità è universale, perché mai tanti missionari dovrebbero sottostare a tanta pena? È proprio perché la verità è comune a tutti i paesi e a tutti i tempi che la chiamiamo verità. Se una vera dottrina non fosse vera sia in Portogallo che in Giappone non potremmo definirla “vera”.» Ogni tanto l’interprete aveva difficoltà con alcune parole; tuttavia con volto privo di espressione, come una marionetta, traduceva il significato del discorso agli altri quattro. Soltanto il vecchio che stava davanti al prete continuava ad annuire come se fosse totalmente d’accordo con quello che egli diceva e, mentre annuiva, prese lentamente a passarsi la mano destra sulla sinistra, come a sfregarsela. «Tutti i padri continuano a ripetere la stessa cosa. E tuttavia...» L’interprete traduceva lentamente le parole di un altro samurai. «Un albero che fiorisce in un certo tipo di terreno può rinsecchire se il terreno viene cambiato. Quanto all’albero del cristianesimo, in un paese straniero le sue foglie possono crescere fitte e i boccioli possono fiorire, mentre in Giappone le foglie diventano secche e non spunta alcun bocciolo. Padre, non ha mai pensato alla diversità del suolo, alla diversità dell’acqua?» «Le foglie non dovrebbero appassire e i boccioli dovrebbero spuntare» disse il prete alzando la voce. «Lei pensa che io non sappia nulla? In Europa, per non parlare di Macao dove ho vissuto per qualche tempo, la gente conosce l’opera dei missionari ed è risaputo che, dove molti proprietari terrieri hanno dato l’autorizzazione all’evangelizzazione, il numero di cristiani è arrivato a trecentomila.» Il vecchio continuava ad annuire e a sfregarsi le mani. Mentre gli altri funzionari dall’espressione tesa ascoltavano le parole dell’interprete, soltanto il vecchio sembrava completamente dalla parte del prete. «Se le foglie non crescono e i fiori non sbocciano è perché il terreno non viene fertilizzato.» Il frinire delle cicale non si sentiva più, ma il sole pomeridiano divenne ancora più forte. I funzionari tacevano, quasi non sapessero che cosa dire. Il prete, intuendo che i cristiani alle sue spalle stavano cercando di capire quello che veniva detto, ebbe l’impressione di essere il vincitore nella controversia, e una sensazione piacevole gli si gonfiò lentamente in petto. «Perché avete dato inizio a questo processo di persuasione?» Il prete parlò con calma abbassando gli occhi. «Non cambierete idea qualunque cosa io dica; e neppure io ho intenzione di mutare il mio modo di pensare.» Mentre stava ancora parlando, provò una brusca ondata di commozione. Più era conscio di essere osservato dai cristiani alle sue spalle, più continuava a fare di se stesso un eroe. «Qualunque cosa io dica, sarò punito» esclamò. L’interprete tradusse meccanicamente le parole agli altri. I raggi del sole rendevano quel viso piatto ancora più piatto. Ora per la prima volta le mani del vecchio si bloccarono. Scuotendo il capo, egli guardò il prete come se volesse consolare un bambino capriccioso. «Noi non puniremo i padri senza motivo.» «Non è così che la pensa Inoue. Se lei fosse Inoue, mi punirebbe subito.» A quelle parole i funzionari risero allegramente, come se fosse stata loro raccontata una barzelletta. «Perché ridete?» «Padre, questo è Inoue, il governatore di Chikugo. È qui davanti a lei.» Sbalordito, guardò il vecchio che, con l’ingenuità di un bambino, ricambiò l’occhiata continuando a sfregarsi le mani. E come avrebbe potuto riconoscere quell’uomo che smentiva così totalmente le sue aspettative? L’uomo che Valignano aveva definito un demone, che aveva costretto i missionari ad abiurare a uno a uno... fino a questo momento aveva immaginato che il volto di quell’uomo fosse pallido e astuto. Invece ora davanti ai suoi occhi vedeva un uomo comprensivo, all’apparenza buono, mite. Bisbigliando qualche parola al samurai che gli sedeva accanto, il governatore di Chikugo si alzò un po’ faticosamente dalla sedia. Gli altri funzionari lo seguirono, a uno a uno, e uscendo dalla porta dalla quale erano entrati, scomparvero alla vista. Le cicale frinivano; la luce pomeridiana lampeggiava; le sedie abbandonate diffondevano per terra un’ombra ancora più scura. Poi, senza ragione, una violenta commozione si levò nel petto del prete e gli occhi si riempirono di lacrime. Era la commozione che si prova dopo aver fatto qualcosa di grande. La prigione era stata silenziosa, ma ora all’improvviso qualcuno cominciò a cantare: «Siamo in cammino, siamo in cammino, Siamo in cammino verso il tempio del Paradiso, Verso il tempio del Paradiso... Verso il grande Tempio...» Il canto continuò a lungo dopo che la guardia lo ebbe riportato sul pavimento spoglio della sua stanza. Per lo meno non aveva creato confusione nei cristiani; non aveva fatto nulla per turbare la loro fede, il suo comportamento non era stato abbietto e codardo. Questi erano i suoi pensieri. I raggi della luna filtravano attraverso le sbarre della prigione, formando sul muro un’ombra che al prete ricordava la figura dell’uomo di Galilea. Gli occhi erano abbassati ma guardavano nella sua direzione. Il prete tracciò dei contorni su quel volto d’ombra: gli occhi e la bocca. Si disse che quel giorno aveva fatto cose buone e si illuminò di orgoglio come un bambino.
Dal cortile si udì rumore di porte. Le guardie che facevano il giro del carcere. Lo facevano tutte le sere. Il terzo giorno. Le guardie scelsero tre uomini in mezzo ai cristiani e li costrinsero a scavare tre buche al centro del cortile. Dalla finestra della cella il prete riusciva a vedere nei raggi brillanti del sole la figura del guercio (non si chiamava Juan?) che maneggiava la vanga insieme con gli altri, cacciava il fango in una cesta che portava via. A causa del caldo intenso, indossava soltanto un perizoma e il sudore sulla sua schiena luccicava come acciaio. Chiese a una delle guardie perché scavassero quelle buche, e gli fu risposto che stavano facendo una latrina. I cristiani adesso erano in fondo al buco che avevano scavato senza sospettare nulla e gettavano fuori il fango. Mentre scavava, uno degli uomini si sentì male per un colpo di sole. Le guardie urlarono e lo colpirono, ma lui si accovacciò al suolo senza riuscire a muoversi. Juan e gli altri cristiani lo sollevarono in braccio e lo portarono in prigione. Dopo un po’ di tempo una delle guardie venne a chiamare il prete. Lo stato del malato aveva subìto un cambiamento improvviso e i cristiani continuavano a chiedere del prete. Si precipitò e trovò Juan, Monica e gli altri attorno al malato che giaceva nell’oscurità, grigio come una pietra. «Non vuoi bere qualcosa?» chiese Monica avvicinandogli alle labbra una tazza sbreccata. Ma l’acqua gli scese dalla bocca sul collo. «Le tue sofferenze sono terribili. Ce la fai a continuare?» gli chiese. Quando giunse la notte, il malato cominciò ad ansimare. Era stato impossibile fare un lavoro tanto pesante con il corpo così indebolito, sorretto solo da un po’ di miglio. Il prete gli si inginocchiò accanto e si apprestò a somministrargli i sacramenti ma allorché fece il segno della croce il malato tirò un respiro. Era la fine. Le guardie ordinarono ai cristiani di bruciare il cadavere, ma tutti protestarono dicendo che un’azione simile era contraria all’insegnamento cristiano: per i cristiani la tradizione era quella di seppellire i morti nella terra. E così, il giorno successivo l’uomo fu sepolto nel boschetto dietro il carcere. «Adesso Hisagoro è felice» mormorò con invidia uno dei cristiani. «La sua sofferenza è finita. È entrato nel riposo eterno.» Gli altri, uomini e donne, ascoltarono quelle parole con indifferenza. È pomeriggio. La pesante aria calda comincia a muoversi. E poi la pioggia prende a cadere. Fa un rumore monotono e malinconico quando tambureggia sul tetto di legno della prigione e nel boschetto dove hanno sepolto il morto. Allacciandosi le ginocchia, il prete continua a chiedersi per quanto ancora le autorità intendano fargli fare quella vita. Non che tutto vada bene in quella vita da carcerato ma, purché non ci siano fastidi, le guardie acconsentono tacitamente che i cristiani preghino; permettono al prete di andare a trovarli e di scrivere le sue lettere. Lui si chiede come mai gli consentano tutto ciò. Sembra molto strano. Attraverso le sbarre della prigione ha intravisto un uomo con un mantello, che veniva irosamente rimproverato dalle guardie. Il mantello gli ha impedito di vedere chi fosse, ma evidentemente non si tratta di qualcuno che sta in carcere. La persona sembrava implorare qualcosa, ma le guardie hanno scosso la testa e lo hanno scacciato senza ascoltare le sue parole. «Se vai avanti così, sarai picchiato» ha urlato una delle guardie, brandendo un grosso bastone e la persona se ne è scappata in direzione del cancello come un cane selvatico. Ma un attimo dopo era di nuovo tornato nel cortile e se ne stava lì sotto la pioggia a guardare fisso davanti a sé. Al calar della sera il prete guardò attraverso le sbarre della sua cella, ed eccolo ancora lì, l’uomo con il mantello, che se ne stava immobile e ostinato, inzuppato di pioggia. Nessuna guardia uscì dal capanno. Sembrava che avessero rinunciato al tentativo di scacciarlo. Quando l’uomo guardò in direzione del prete, i loro occhi si incontrarono. Era Kichijiro. Per un istante uno spasmo di paura contrasse quel volto e Kichijiro indietreggiò di qualche passo. «Padre!» La sua voce era come l’uggiolare di un cane. «Padre! Mi ascolti!» Il prete ritrasse il volto dalla finestra e cercò di tappare le orecchie per non sentire il suono di quella voce. Come avrebbe mai potuto dimenticare il pesce secco, la sete bruciante in gola? Anche se avesse tentato di perdonare quell’individuo, non sarebbe riuscito a scacciare dalla memoria l’odio e la furia che vi si annidavano. «Padre! Padre!» La voce implorante continuava come quella di un bambino che supplichi la madre. «Non vuole ascoltarmi, padre? Ho continuato a ingannarla. Da quando lei mi ha rimproverato, ho cominciato a odiare lei e tutti i cristiani. Sì, è vero che ho calpestato la sacra immagine. Mokichi e Ichizo erano forti. Io non posso essere forte come loro.» Le guardie, non riuscendo più a sopportare la scena, uscirono con dei bastoni, e Kichijiro scappò urlando. «Ma io devo perorare la mia causa! Anche chi ha calpestato la sacra immagine ha da dire la sua. Pensate che l’abbia calpestata di mia volontà? I piedi mi facevano male per il dolore che provavo. Dio mi chiede di imitare i forti anche se mi ha fatto debole. Non è irragionevole?» Di tanto in tanto c’era calma, poi voci irose e il grido d’implorazione, le lacrime. «Padre, che cosa può fare una persona debole come me? Io non l’ho tradita per denaro. Sono stato
minacciato dai funzionari.» «Vattene in fretta di qui» urlavano le guardie, sporgendo il capo fuori del capanno. «Non abusare della nostra condiscendenza.» «Padre, mi ascolti. Ho fatto una cosa per la quale non potrò mai fare ammenda. E voi funzionari! Sono cristiano. Mettetemi in prigione.» Il prete chiuse gli occhi e prese a recitare il Credo. Provava un senso di gioia all’idea di poter abbandonare quell’individuo piagnucoloso sotto la pioggia. Anche se Cristo pregava, Giuda si era impiccato nel campo di sangue... e il Cristo aveva forse pregato per Giuda? Non c’era niente al riguardo nelle Scritture, e se anche ci fosse stato, lui non riusciva a porsi in quello stato d’animo che lo portasse a fare la stessa cosa. E, in ogni caso, fino a che punto ci si poteva fidare di quell’uomo? Cercava il perdono, ma forse si trattava solo di un fugace momento di eccitazione. A poco a poco la voce di Kichijiro si placò e poi si spense. Guardando attraverso le sbarre il prete vide le guardie spingere bruscamente quell’individuo e trascinarlo verso il carcere. La pioggia cessò con il cader della sera. Gli fu passata una palla di riso con un po’ di pesce salato. Il pesce era marcio e immangiabile. Riusciva a udire, come sempre, le voci dei cristiani levate nella preghiera. Ricevuto il permesso dalle guardie, andò a trovarli in prigione e lì vide Kichijiro rannicchiato tutto solo in un angolo, separato dagli altri. I cristiani rifiutavano di unirsi a lui. «Attento a quell’individuo» bisbigliarono al prete. «I funzionari spesso si servono degli apostati, forse vogliono intrappolarci.» Era vero che a volte i magistrati ponevano dei cristiani apostati insieme con gli altri per fomentare guai e indurli a rinunciare alla loro fede. Poteva darsi che Kichijiro avesse ricevuto denaro per fare proprio questo. Ma, in ogni caso, al prete era impossibile fidarsi ancora di lui. «Padre! Padre!» Vedendo che il prete era venuto nella prigione, Kichijiro aveva ripreso a implorare nell’oscurità. «Lasci che confessi i miei peccati e mi penta!» Il prete non aveva il diritto di rifiutare il sacramento della penitenza a nessuno. Se una persona chiedeva il sacramento, non stava a lui concedere o rifiutare, a seconda dei propri sentimenti. Alzò la mano per benedire, pronunciò debitamente la dovuta preghiera e avvicinò l’orecchio all’altro. Mentre l’alito puzzolente gli veniva soffiato in faccia lì, nell’oscurità, fluttuò davanti ai suoi occhi l’immagine dei denti gialli e dello sguardo astuto. «Mi ascolti, padre!» gemette Kichijiro con un tono di voce che consentisse agli altri cristiani di udire. «Sono un apostata, ma se fossi morto dieci anni fa, sarei potuto andare in Paradiso come un buon cristiano, e non disprezzato come un apostata. Soltanto perché vivo in tempo di persecuzioni... mi dispiace.» «Ma credi ancora?» chiese il prete, facendo del suo meglio per sopportare il puzzo maleodorante dell’alito di quell’altro. «Ti darò l’assoluzione ma non posso fidarmi di te. Non riesco a capire perché tu sia venuto qui.» Traendo un sospiro profondo e cercando le parole per spiegare, Kichijiro si muoveva e strisciava i piedi al suolo. Il puzzo di sporcizia e di sudore giungeva al prete a zaffate. Possibile che Cristo amasse e cercasse quello che era il più sudicio tra gli uomini? Nella malvagità permanevano la forza e la bellezza della malvagità stessa, ma quel Kichijiro non era neppure degno di essere considerato malvagio. Era magro e sporco come i panni laceri che indossava. Soffocando il disgusto, il prete recitò le ultime parole dell’assoluzione e poi, seguendo l’usanza stabilita, bisbigliò: «Vai in pace». Allontanandosi più in fretta che poté dal puzzo di quella bocca e di quel corpo, tornò vicino ai cristiani. “No. No. Nostro Signore aveva cercato i laceri e gli sporchi.” Così rifletteva mentre stava disteso sul letto. Tra le persone che comparivano nelle pagine delle Scritture, coloro che Cristo aveva cercato con amore erano la donna di Cafarnao con lo sbocco di sangue, la donna colta in adulterio e che gli uomini avevano voluto lapidare: persone prive di attrattive, di bellezza. Chiunque potrebbe essere attratto da ciò che è bello e affascinante. Ma può tale attrazione definirsi amore? Il vero amore era accettare l’umanità quando era ridotta a stracci e brandelli. In teoria il prete lo sapeva, ma non riusciva egualmente a perdonare Kichijiro. Ancora una volta il volto di Cristo bagnato di lacrime si avvicinò al suo. E quando gli occhi dolci guardarono dritto nei suoi, il prete si sentì pieno di vergogna. Il fumie era iniziato. I cristiani stavano raggruppati in fila come asini scacciati dalla città. Stavolta non avevano di fronte gli stessi funzionari del giorno prima ma un gruppo di subordinati più giovani, che sedevano su sgabelli, le braccia incrociate. Le guardie, con bastoni tra le mani, stavano all’erta. Anche ora le cicale cantavano con voce rincuorante; l’aria era rinfrescante e luminosa. Non ci sarebbe tuttavia voluto molto prima che il caldo opprimente tornasse. L’unico a non essere trascinato fuori nel cortile fu il prete che, premendo contro le sbarre un volto sul quale la carne pendeva flaccida, guardava lo spettacolo del fumie che stava ora per avere inizio. «Prima la fate finita prima uscirete di qui» tuonò uno dei funzionari. «Non vi sto dicendo di calpestarlo con sincerità e persuasione. Questa è soltanto una formalità. Le vostre persuasioni non saranno intaccate solo per il fatto che vi mettete il piede sopra.» I funzionari continuavano a insistere con i cristiani che calpestare il fumie era una pura formalità. Era sufficiente calpestare l’immagine. Se lo si faceva, a nessuno importava in che cosa si credesse. Secondo gli ordini del magistrato, si doveva posare leggermente il piede sul fumie, e poi si sarebbe stati rilasciati subito.
I quattro uomini ascoltarono l’arringa con volti privi di espressione. Quanto al prete, che stava con il volto premuto alle sbarre, non riusciva a capire a che cosa mirassero quegli individui. E i quattro volti sfocati dei cristiani dagli zigomi sporgenti, lividi e smorti per mancanza di luce erano come marionette senza una volontà propria. Quello che doveva succedere era successo. Questo lui lo capiva bene, ma non riusciva a convincersi che il proprio destino e quello dei cristiani si sarebbero conclusi presto. I funzionari parlavano con i cristiani, quasi chiedessero un favore. I contadini scuotevano la testa; e poi i funzionari si allontanarono un poco con viso preoccupato. Al suolo, vicino alle guardie, tra i contadini e gli sgabelli occupati ora dai funzionari, c’era un fumie avvolto in un panno. Poi essi tornarono al loro posto. Scorrendo l’elenco uno dei funzionari pronunciò i nomi: «Ikitsukijima, Kubo-no-ura, Tobei». I cristiani stavano seduti con espressione vacua. Irritata, una guardia colpì con il bastone l’uomo all’estrema sinistra, ma questi non si mosse. Fu pungolato due o tre volte; cadde in avanti e si piegò al suolo, ma non fece lo sforzo di muoversi dal punto in cui era caduto. «Kubo-no-ura, Chokichi.» Il guercio scosse la testa due o tre volte. Sembrava un bambino! «Kubo-no-ura, Haru.» La donna che aveva dato il cetriolo al prete piegò la schiena e chinò il capo. In quella posizione fu spinta dalla guardia, ma lei non alzò nemmeno gli occhi. Infine fu chiamato il vecchio, Mataichi. Ma anche lui non si mosse da dove si trovava. I funzionari non levarono però voci irose e non fecero alcun rimprovero. Si sarebbe pensato che se lo aspettassero sin dall’inizio, a giudicare dal modo in cui restarono seduti sugli sgabelli, bisbigliandosi parole a bassa voce. Poi all’improvviso si alzarono e si ritirarono nel capanno delle guardie. Il sole si trovava direttamente sopra la prigione e i suoi raggi picchiavano sui quattro cristiani rimasti lì. Le loro figure accovacciate diffondevano ombre nere al suolo, mentre le cicale riprendevano a cantare quasi volessero frantumare l’aria lucente. Le guardie e persino i cristiani presero a parlare e a scherzare reciprocamente, come se il precedente rapporto tra interroganti e interrogati fosse svanito nel nulla. Ma in quel momento uno dei funzionari gridò dal capanno che potevano tornare tutti in prigione tranne il guercio, Chokichi. Allentando le mani sulle sbarre che aveva strette fino a quel momento, il prete sedette per terra. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto. Ma, in ogni caso, la giornata era trascorsa tranquilla, e quel pensiero gli dava un profondo senso di sollievo. Se anche oggi fosse passato bene, era sufficiente; l’indomani era un altro giorno. Se lui l’indomani fosse stato vivo... «Non è un peccato buttarlo via?» stava dicendo una voce. E un’altra rispondeva: «Sì, è un vero peccato». Non riusciva a capire su che cosa vertesse la conversazione, ma il vento gli portava alle orecchie una cordiale conversazione tra la guardia e il guercio. Una mosca si avventò giù dalle sbarre e prese a ronzare attorno alla testa del prete: il fruscio delle sue ali era quasi soporifico. D’un tratto qualcuno attraversò di corsa il cortile. Poi si udì il sibilo di un rumore secco. Quindi un tonfo. E quando il prete afferrò le sbarre, il funzionario già stava rimettendo nel fodero la sua spada affilata e lucente: l’esecuzione era finita. Il cadavere del guercio giaceva bocconi al suolo. Afferratolo per i piedi, una delle guardie cominciò a trascinarlo lentamente verso la buca scavata dai cristiani. Il sangue nero che sgorgava dal corpo formava tutt’attorno qualcosa che faceva pensare alla cintura di un indumento. All’improvviso dalla prigione si levò il grido stridulo di una donna, la cui voce saliva sempre più, quasi stesse cantando un inno. Poi si spense e l’aria circostante divenne di una calma mortale. Solo le mani del prete che si aggrappavano alle sbarre tremavano come fossero state bloccate e paralizzate. «Guardate» urlò un altro funzionario rivolto alla facciata del carcere ma con la schiena al prete. «Questo è quello che succede quando si dà poca importanza alla vita. È una faccenda noiosa, ma appena vi siete sbrigati, uscite di qui. Non vi dico di calpestare per convincimento. Se vi limitate a eseguire quest’atto formale, la vostra fede non ne risentirà.» Urlando a gran voce una guardia portò quindi fuori Kichijiro. Con addosso soltanto un perizoma e tremando dalla testa ai piedi, giunse davanti ai funzionari facendo inchini di continuo. Poi, alzando il piede magro e malridotto, lo posò sul fumie. «Presto! Vattene!» urlò uno dei funzionari indicandogli il cancello. E Kichijiro, inciampando per la fretta, scomparve alla vista. Non una volta si girò a guardare il capanno dove era rinchiuso il prete. Ma quello che faceva quell’essere, al prete non importava più. I bianchi raggi del sole picchiavano abbacinanti sul cortile scoperto. Sotto i suoi raggi impietosi si vedeva sul suolo quella tintura rossa ch’era il sangue uscito dal corpo del guercio. Proprio come prima, le cicale continuavano a eseguire il loro canto secco e roco. Non c’era un alito di vento. Proprio come prima, una mosca continuava a ronzare attorno al viso del prete. Nel mondo esterno non c’era alcun cambiamento. Un uomo era morto, ma non c’era alcun cambiamento. “Dunque siamo giunti a questo...” Rabbrividì, afferrando le sbarre. “Dunque siamo giunti a questo...” Tuttavia la sua perplessità non derivava dal fatto accaduto tanto improvvisamente. Ciò che non riusciva a capire era l’immobilità nel cortile, la voce delle cicale, le ali ronzanti delle mosche. Un uomo era morto. Eppure il mondo esterno andava avanti come se non fosse successo niente. Ci poteva essere qualcosa di più pazzesco? Era questo il martirio? Perché taci? Qui, quest’uomo con un occhio solo è morto... e per te. Dovresti saperlo. Perché questa calma si protrae? Questa immobilità del
mezzogiorno. Il fruscio delle mosche, questa cosa folle, questa faccenda crudele. E tu scosti il volto quasi fossi indifferente. Questo... questo... non lo sopporto. “Kyrie eleison! Signore, abbi pietà!” Le sue labbra tremanti si mossero per un po’ in preghiera, ma le parole gli svanirono dalle labbra. “Signore, non abbandonarmi più! Non abbandonarmi in questo modo misterioso. È questa la preghiera? Per molto tempo ho creduto che la preghiera venisse pronunciata per lodarti e glorificarti, ma quando ti parlo, mi sembra di non fare altro che dire blasfemie. Anche il giorno della mia morte il mondo continuerà impietosamente per la sua strada, indifferente come adesso? Quando sarò assassinato, le cicale canteranno e le mosche agiteranno le ali con il loro fruscio sonnolento? Voglio essere così eroico? Sto cercando il vero, il segreto martirio oppure soltanto una morte gloriosa? Forse voglio essere onorato, voglio che mi si rivolgano preghiere, voglio essere chiamato santo? ” Stringendosi le ginocchia sedeva per terra, guardando diritto davanti a sé. «Era quasi mezzodì. E all’ora terza l’oscurità ricoprì la terra.» Quando quell’uomo era morto sulla croce, dall’interno del tempio erano usciti tre suoni di tromba, uno lungo e uno corto e poi ancora uno lungo. Erano iniziati i preparativi per la Pasqua. Con vesti fluenti e azzurre il Gran Sacerdote era salito per i gradini del tempio e, fermo davanti all’altare sul quale giaceva la vittima sacrificale, aveva suonato la tromba. In quel momento il cielo si era oscurato e il sole era scomparso dietro le nubi. «Cadde l’oscurità. Il velo del tempio fu squarciato in due dall’alto al basso.» Quella era l’immagine del martirio ch’egli aveva concepito da molto tempo; ma il martirio di quei contadini, messo in atto davanti ai suoi occhi, quanto era squallido, miserevole come i capanni in cui essi vivevano, come gli stracci di cui erano vestiti.
7.
La sera di cinque giorni dopo ebbe il secondo incontro con Inoue, il signore di Chikugo. La giornata era stata implacabilmente immobile ma le foglie degli alberi cominciavano a fremere lievemente, diffondendo un fresco bisbiglio nella brezza serotina. E così si ritrovò faccia a faccia con Inoue. A parte l’interprete, il magistrato non aveva altra compagnia. Quando il prete entrò scortato dalla sentinella, l’altro, baloccandosi con una grossa ciotola che teneva tra le mani, stava sorseggiando lentamente acqua calda. «Temo di averla trascurata» disse Inoue, continuando a tenere con entrambe le mani la ciotola, mentre i suoi grandi occhi fissavano curiosi il prete. «Ho avuto da fare a Hirado.» Il magistrato ordinò all’interprete di portare al prete acqua calda, e per tutto il tempo un sorriso gli aleggiava sulle labbra. Poi lentamente cominciò a parlare del suo viaggio a Hirado. «Dovrebbe andare a Hirado se ne avesse la possibilità, padre.» Sembrava che si rivolgesse al prete come a un uomo libero. «C’è un castello dei Matsuura su una montagna di fronte a una tranquilla baia.» «Sì, ho sentito dire dai missionari di Hirado che è una bella città.» «Non direi bella, piuttosto direi interessante.» Inoue scuoteva la testa mentre parlava. «Quando vedo quella città, penso a una storia che ho sentito tanto tempo fa. Parla di Takenobu Matsuura di Hirado che aveva quattro concubine, le quali litigavano incessantemente per gelosia. Takenobu non riuscendo a sopportarle oltre, finì per scacciarle tutte e quattro dal suo castello. Ma forse questa non è una storia confacente alle orecchie di un prete celibe.» «Quel Matsuura doveva essere un uomo molto saggio.» Dato che Inoue era diventato così schietto, anche il prete si sentiva rilassato mentre parlava. «Parla sul serio? In tal caso sono felice. Hirado, e in effetti l’intero nostro Giappone, è esattamente come Matsuura.» Rigirando la ciotola tra le mani il signore di Chikugo proseguì: «La Spagna, il Portogallo, l’Olanda, l’Inghilterra e altre donnette di tal fatta continuano a sussurrare gelosi racconti di massacri all’orecchio dell’uomo chiamato Giappone». Mentre ascoltava la traduzione dell’interprete il prete cominciò a rendersi conto di quello cui mirava Inoue. Quante volte aveva sentito dire a Goa e a Macao che paesi protestanti come l’Inghilterra e l’Olanda, e quelli cattolici come la Spagna e il Portogallo erano venuti in Giappone e, gelosi dei successi degli altri, si erano calunniati reciprocamente presso i giapponesi. E anche i missionari, per rivalità, una volta vietavano rigorosamente ai loro convertiti giapponesi di frequentare gli inglesi e gli olandesi. «Padre, se lei pensa che Matsuura era saggio si renderà certo conto che la proscrizione del cristianesimo da parte del Giappone non è irragionevole e sciocca.» Mentre parlava, l’espressione ridente non scompariva mai da quelle guance grasse e sanguigne, e il magistrato fissava intensamente il volto del prete. Per essere un giapponese, aveva occhi stranamente castani mentre le basette (forse erano tinte?) non avevano la minima traccia di bianco. «La nostra Chiesa insegna la monogamia...» Il prete scelse deliberatamente un giro di frase scherzosa. «Se un uomo ha una moglie legale, mi domando se sia saggio che egli si lasci gravare da concubine. E se il Giappone dovesse scegliere una moglie legale tra queste quattro?» «E per moglie legale lei intende il Portogallo?» «No, no! Intendo la nostra Chiesa.» Mentre l’interprete impassibile traduceva la risposta, Inoue abbassò il volto e, alzando la voce, rise. Vista la sua età era una risata stridula, ma negli occhi che ora fissavano il prete non c’era emozione. Gli occhi non ridevano. «Padre, non pensa sia meglio che quest’uomo chiamato Giappone smetta di pensare alle donne di paesi stranieri e si unisca invece a una donna nata nello stesso paese, una donna che comprenda il suo modo di pensare?» Il prete sapeva bene che cosa intendesse Inoue per donna straniera; ma dato che l’altro trattava l’argomento in quel modo apparentemente frivolo, si rese conto che doveva continuare anche lui sulla stessa falsariga. «Nella Chiesa» disse «la nazionalità della donna non è importante. Ciò che conta è la sua fedeltà al marito.» «Capisco. E tuttavia se l’amore tra marito e moglie si basasse unicamente sul sentimento, nessuno dovrebbe soffrire a causa di ciò che definiamo l’amore insistente di una donna brutta.» Il magistrato scosse il capo in segno di assenso come se fosse compiaciuto del modo in cui aveva parlato. «Esistono uomini a questo mondo che si dispiacciono molto per l’amore insistente di una donna brutta.» «Lei considera l’opera dei missionari come una costrizione all’amore?» «Sì, è proprio questo, dal nostro punto di vista. E se l’espressione non le garba, mettiamola così: noi definiamo una donna che non può avere figli sterile, e pensiamo che questa donna non abbia le qualità per essere una moglie.» «Se la nostra dottrina non fa progressi qui in Giappone, non è colpa della Chiesa. È colpa di coloro
che strappano i giapponesi cristiani alla Chiesa come si strappa un marito alla moglie.» L’interprete, alla ricerca delle parole, per un attimo rimase in silenzio. Era quello il momento in cui dalla prigione dei cristiani sarebbe dovuta giungere la preghiera della sera, ma oggi non si udiva alcun canto. All’improvviso il prete pensò alla sentenza di morte di cinque giorni prima: una tranquillità che sembrava simile a questo momento, ma in effetti così diversa. Era stato quando il corpo dell’uomo con un occhio solo era rimasto al suolo sotto il sole lampeggiante e la guardia l’aveva trascinato con indifferenza, dopo averlo afferrato per una gamba, verso la fossa nel terreno, lasciando una scia di sangue, proprio come se fosse stata tracciata una riga con il pennello. “Possibile” si chiese il prete “che l’ordine di esecuzione sia stato dato da questo benevolo vecchio che mi siede davanti?” «Padre» disse il signore di Chikugo «sembra che lei e gli altri missionari non conosciate il Giappone.» «E lei, onorevole magistrato» rispose il prete «sembra che non conosca il cristianesimo.» Al che entrambi risero. «Eppure» disse Inoue «trent’anni fa, quando io ero un seguace di Gamo, ho chiesto consiglio ai padri.» «E poi?» «I motivi per cui mi oppongo al cristianesimo sono diversi da quelli delle altre persone in genere. Non ho mai considerato il cristianesimo una cattiva religione.» L’interprete ascoltava quelle parole con espressione sbalordita sul volto e, mentre lui balbettava cercando le parole, il vecchio continuava a guardare la ciotola che teneva fra le mani con la poca acqua ancora rimastavi, sempre ridendo. «Padre, voglio che lei rifletta su due cose che questo vecchio le ha detto. Una è che l’affetto assillante di una donna brutta è un peso intollerabile per un uomo; l’altra è che una donna sterile non dovrebbe diventare moglie.» Quando il magistrato si alzò per andarsene, l’interprete chinò il capo sino a terra, le mani giunte davanti a sé. La guardia, molto eccitata, porse i sandali nei quali il signore di Chikugo infilò i piedi. Senza degnarsi di girare il capo una sola volta, si dileguò nell’oscurità del cortile. Sulla porta del capanno c’era un nugolo di zanzare; all’esterno si udì il nitrito di un cavallo. Adesso era sera. La pioggia prese a scendere lentamente, come un rumore di ghiaia picchiettante contro gli alberi dietro il capanno. Appoggiando il capo al duro pavimento e ascoltando il rumore della pioggia, il prete pensò a un uomo che era stato posto sotto processo come lui. Era il mattino del 7 aprile quando quell’uomo emaciato era stato portato giù per il pendio verso Gerusalemme. I raggi dell’alba si protendevano oltre il mar Morto inondando la catena di montagne in un biancore dorato, il torrente Cedron continuava il suo cicaleccio e il suo fresco rumore. Nessuno gli dava la possibilità di riposarsi. Dopo che gli scribi e gli anziani ebbero pronunziato la condanna a morte, fu necessario ottenere l’approvazione di Pilato, il governatore romano. Pilato, acquartierato non troppo distante dal tempio, fuori della città, aveva udito la notizia e probabilmente adesso era in attesa. Sin dall’infanzia il prete aveva mandato a memoria ogni particolare di quel decisivo mattino del 7 aprile. Quell’uomo emaciato era il suo perfetto ideale. Gli occhi, come quelli di tutte le vittime, erano pieni di una dolente rassegnazione, mentre guardava con rimprovero la folla che lo scherniva e gli sputava addosso. E in mezzo a quella folla c’era Giuda. Perché Giuda lo aveva seguito? Incitato forse dalla brama di vendetta: per guardare la distruzione finale dell’uomo che aveva venduto? In ogni caso, comunque stessero le cose, quella vicenda era proprio come la sua. Lui era stato venduto da Kichijiro così come Cristo era stato venduto da Giuda, e, come Cristo, ora veniva giudicato dai potenti del mondo. Sì, il suo destino e quello di Cristo erano eguali; e a quel pensiero in quella notte piovosa una eccitante sensazione di gioia gli si gonfiò in petto. Quella era la gioia del cristiano che gioisce della verità di essere unito al Figlio di Dio. D’altro canto, non aveva provato nessuna delle sofferenze fisiche conosciute da Cristo e questo pensiero lo faceva sentire a disagio. Quell’uomo era stato legato, nel palazzo di Pilato, a una colonna alta sessanta centimetri per essere frustato con una frusta dalla punta metallica; e gli erano stati conficcati chiodi nelle mani. Ma da quando lui era stato rinchiuso in prigione, con suo stupore né i funzionari né le guardie lo avevano anche soltanto colpito. Non sapeva se quello fosse o meno il piano di Inoue, ma intuiva che non era improbabile che da quel momento, giorno dopo giorno potesse passare senza la minima molestia fisica. Qual era il motivo di questo? Quante volte aveva sentito dire di innumerevoli missionari catturati in quel paese e delle indescrivibili torture e tormenti ai quali erano stati sottoposti. C’era Navarro, che a Shimabara era stato bruciato vivo dalle fiamme; c’era Carvalho e c’era Gabriel ch’erano stati immersi ripetutamente nell’acqua solforosa bollente di Unzen; c’erano quei missionari, privati del cibo nella prigione di Omura, che erano morti di fame. E invece lui era in prigione, aveva il permesso di pregare, di parlare con i cristiani, di mangiare cibo che, anche se non precisamente abbondante, veniva quanto meno servito tre volte al giorno; e i funzionari e il magistrato, quando venivano a trovarlo, lungi dal mostrarsi severi, si accontentavano di qualche formalità e se ne andavano. A che cosa potevano mirare? Il prete rifletté sui giorni trascorsi nel capanno sulla montagna di Tomogi in compagnia di Garrpe, ricordò quando parlavano della tortura chiedendosi se sarebbero riusciti a sopportarla, se mai fosse capitata a loro. Naturalmente l’unica cosa da fare era pregare per ottenere la grazia del Signore; ma a quell’epoca il suo cuore gli diceva che sarebbe riuscito a battersi sino alla morte. Inoltre nei suoi vagabondaggi sulla montagna aveva nutrito la forte persuasione che, quando lo avessero catturato, lo
avrebbero sottoposto alla tortura fisica. E aveva sentito (era forse un segno della sua tesa commozione?) che qualunque tormento gli fosse toccato, lui sarebbe riuscito a stringere i denti e a sopportarlo. Ma ora la sua risoluzione si era un po’ indebolita. Alzandosi da terra e scuotendo la testa, si chiese se il suo coraggio non stesse cominciando a frantumarsi. Forse questo accadeva per la vita che ora stava conducendo? Poi, all’improvviso, dal più profondo del suo cuore qualcuno gli parlò: “È perché la tua vita qui è così piacevole”. Da quando era venuto in Giappone era stato praticamente soltanto in questo carcere che egli aveva avuto la possibilità di vivere la vita del prete. A Tomogi era stato nascosto, dopo di che non aveva avuto contatti con nessuno dei contadini, tranne Kichijiro. Solo da quando era arrivato nel carcare aveva avuto la possibilità di vivere con la gente e di trascorrere gran parte della sua giornata in preghiera e meditazione, senza soffrire le fitte della fame. Ogni giorno fluiva tranquillo come sabbia in una clessidra. I suoi sentimenti, dapprima tesi e duri come ferro, si erano andati gradatamente ammorbidendo. Cominciò a pensare che la tortura e la sofferenza fisica che aveva ritenute inevitabili alla fin fine non gli sarebbero forse toccate. I funzionari e le guardie erano generosi; il magistrato dal viso angelico continuava la gradevole conversazione su Hirado. Ora che aveva assaporato una volta le tiepide acque della pace e della sicurezza avrebbe avuto di nuovo la forza di vagare per quelle montagne e nascondersi in un capanno? E poi, per la prima volta, si rese conto che i funzionari giapponesi e il loro magistrato non facevano nessuna mossa perché, al pari di un ragno che osserva la preda impigliata nella tela, aspettavano che il suo spirito si indebolisse. Ricordò con amarezza la risata forzata del signore di Chikugo e di come quel vecchio si era sfregato le mani. Ora riusciva a vedere chiaramente perché il magistrato facesse quel gesto. E sullo sfondo di tutte quelle fantasie c’era il fatto che, a partire dal giorno precedente, i due pasti quotidiani erano stati aumentati a tre. Le guardie cordiali, ignare di quanto era in gioco, ridevano mettendo in mostra le gengive e dicevano: «Non vuoi mangiare? Ma come, il magistrato lo desidera. Non sono molti i prigionieri trattati a questo modo». Il prete, guardando la scodella di legno con il riso duro e il pesce secco, scuoteva la testa e li implorava di darla ai cristiani. Le mosche già volavano sul riso. Al calar della sera le guardie portarono due pagliericci. Sì, il prete cominciò piano piano a rendersi conto che cosa comportasse quel cambiamento nel trattamento che gli veniva fatto. Forse semplicemente voleva dire che il giorno della tortura era vicino. Il suo fisico rilassato sarebbe stato ancora più debole nella resistenza al dolore. I funzionari si servivano di quei mezzi subdoli per minare lentamente la sua vitalità poi, all’improvviso, sarebbe arrivata la tortura. Indubbiamente questo era il loro piano. La fossa... La parola che era uscita dalle labbra dell’interprete il giorno in cui lui era stato catturato sull’isola gli tornò alla memoria. Se Ferreira aveva abiurato, lo aveva fatto perché, come lui, inizialmente era stato trattato bene poi, quando si era indebolito nel fisico e nell’anima, all’improvviso gli era stata inflitta la tortura. Altrimenti era impensabile che un uomo tanto grande rinunciasse così all’improvviso alla propria fede. Sì, che diabolico sistema avevano ideato! «I giapponesi sono il popolo più intelligente che abbiamo conosciuto sinora.» Ripensando alle parole di Saverio, rise cinicamente. Aveva rifiutato il cibo offertogli, la notte non aveva usato i pagliericci, indubbiamente ciò doveva esser giunto alle orecchie dei funzionari e dei magistrati attraverso le guardie, eppure non una parola di censura era stata pronunciata. Gli era impossibile sapere se si fossero resi conto o meno del fatto che i loro piani erano stati frustrati. Un mattino, dieci giorni dopo la visita del signore di Chikugo, fu svegliato da rumori in cortile. Appoggiò il viso alle sbarre della finestra e vide i tre cristiani che, spinti da un samurai, venivano portati fuori del carcere. Le guardie li trascinavano nella nebbia del mattino, i polsi incatenati gli uni agli altri. L’ultima dei tre era la donna che gli aveva dato il cetriolo. «Padre» gli dissero, passando davanti alla sua prigione, «stiamo andando ai lavori forzati.» Spingendo le mani fuori delle sbarre, il prete li benedisse a uno a uno con il segno della croce. Le sue dita sfiorarono appena la fronte di Monica, mentre questa alzava il volto in cui aleggiava una punta di tristezza e sorrideva come una bambina. Tutta quella giornata fu silenziosa e tranquilla. Verso mezzogiorno la temperatura cominciò ad alzarsi e i violenti raggi del sole penetravano impietosamente attraverso le sbarre della prigione. Il prete chiese alle guardie che gli portavano il cibo quando sarebbero tornati i tre cristiani, e gli fu risposto che sarebbero rientrati per sera, se il lavoro fosse stato finito. Un certo numero di templi erano in fase di costruzione a Nagasaki per ordine del signore di Chikugo, cosicché la richiesta di operai era quasi illimitata. «Stasera è Urabon, padre. Suppongo lei sappia che cos’è l’Urabon.» Le guardie spiegarono che per l’Urabon la popolazione di Nagasaki appendeva ai cornicioni della propria casa lanterne in cui erano poste candele accese. Il prete rispose che a Occidente c’era la festa di Ognissanti in occasione della quale la gente faceva qualcosa di analogo. In lontananza poteva udire voci infantili che cantavano e, tendendo le orecchie, gli giunsero le parole:
«Oh lanterna, addio, addio, addio, Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce. Oh lanterna, addio, addio, addio, Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce.» Per un certo verso nel canto spezzato dei bambini c’era un che di lamentoso. Era sera. Sulla mortella riccioluta si era insediata una cicala che stava cantando. Poi anche quella voce svanì nella tranquillità della sera... Ma i tre cristiani non erano tornati. Mentre consumava la cena sotto il lume a petrolio, udiva in lontananza le vaghe voci dei bambini. Nel cuor della notte i raggi della luna penetrarono luminosi attraverso le sbarre e lo svegliarono dal suo sonno. La festa era finita, l’oscurità era fonda e fitta, ma lui non sapeva se i cristiani fossero tornati o meno. Il mattino successivo fu svegliato dalle guardie, che gli dissero di vestirsi e di uscire subito. «Di che cosa si tratta?» chiese. E quando chiese dove stessero andando, le guardie risposero di non saperlo esse stesse. Comunque era stata scelta quell’ora mattutina per evitare l’assembramento di spettatori curiosi che si sarebbero certo ammassati per vedere il prete cristiano. Tre samurai lo stavano aspettando. Anch’essi diedero la semplice spiegazione che quello era il desiderio del magistrato e poi, messisi in fila con il prigioniero in mezzo, si avviarono lungo la strada nel silenzio mattutino. Nella bruma dell’alba le case di paglia dei mercanti con le loro porte chiuse facevano pensare a vecchi malinconici. Sui lati delle strade si estendevano risaie, e dappertutto era ammassata la legna. La fresca fragranza del legno mista all’odore della nebbia giungeva alle loro narici. Le strade di Nagasaki erano ancora in fase di costruzione. Mendicanti e derelitti giacevano addormentati e coperti da stuoie di paglia all’ombra dei nuovi edifici. «Dunque questa è la prima volta che vede Nagasaki» disse uno dei samurai con una risata. «Molte colline, vero?» Effettivamente c’erano molte colline. Su alcune erano raggruppate piccole capanne di paglia. Un gallo annunciò l’alba; sotto i cornicioni lanterne spente erano sparpagliate al suolo a ricordo dei festeggiamenti della sera precedente. Proprio sotto il colle si apriva il mare che circondava la lunga penisola. Punteggiato di canne, si estendeva in lontananza come un lago color bianco latte. Mano mano che la nebbia cedeva il passo al cielo limpido, sullo sfondo comparivano molte colline basse. Vicino al mare c’era un boschetto di pini, e qui, accanto a diversi cesti, quattro o cinque samurai scalzi erano accovacciati a mangiare qualcosa. Mentre le bocche si muovevano, gli occhi accesi di curiosità erano fissi sul prete. All’interno del boschetto fu disteso un telo bianco e lì furono sistemati alcuni sgabelli. Uno dei samurai indicò uno sgabello e disse al prete di sedersi. E per il prete, che si aspettava di essere sottoposto a interrogatorio, il gesto costituì una sorpresa. La sabbia grigia si estendeva morbidamente sino alla piccola insenatura, mentre sotto il cielo coperto il mare pigro appariva scuro. Il suono monotono delle onde che aggredivano la sponda rammentò al prete la morte di Mokichi e di Ichizo. Anche quel giorno la pioggia piena di vapori era caduta incessantemente e, in quella giornata piovosa, i gabbiani erano arrivati in volo fino ai pali. Il mare era silenzioso quasi fosse esausto e anche Dio continuava a tacere. Lui non aveva ancora trovato risposta a quel problema che continuava ad agitarglisi nella mente. «Padre!» Una voce risuonò alle sue spalle. Girandosi, vide un uomo dai lunghi capelli che gli scendevano sul collo. Sorrideva giocherellando con un ventaglio. Era tozzo e aveva il volto quadrato. «Ah!» Fu la voce più che il viso a far capire al prete che si trattava dell’interprete con il quale aveva parlato nella capanna sull’isola. «Ricorda? Quanti giorni sono passati dal nostro ultimo incontro? Ma che piacere rivederla! La prigione in cui lei si trova ora è di recente costruzione. Non ci si vive male. Prima che fosse pronta, i missionari cristiani erano quasi sempre rinchiusi nella prigione di Suzuda a Omura. Nei giorni di pioggia entrava l’acqua, in quelli ventosi il vento penetrava e i prigionieri se la passavano davvero male là dentro.» «Il magistrato arriverà presto?» Per far smettere le chiacchiere dell’altro il prete cambiò argomento, ma l’interprete si batté il ventaglio sul palmo della mano e proseguì: «Oh, no, il signore di Chikugo non verrà. Ma che ne pensa di lui? Che ne pensa del magistrato?». «Mi ha trattato con gentilezza. Mi hanno dato da mangiare tre volte al giorno; mi hanno persino dato coperte per il letto. Comincio a pensare che a causa di questo genere di vita il mio corpo abbia tradito la mia anima. Suppongo che sia quello che voi aspettate.» L’interprete scostò distrattamente lo sguardo. «In effetti» disse «dall’ufficio del magistrato è giunto l’ordine di farle incontrare qualcuno che arriverà qui presto. È portoghese, come lei. Avrete molte cose da dirvi, penso.» Il prete fissò intensamente gli occhi gialli dell’interprete dal cui volto il sorriso stava svanendo rapidamente. Gli venne alla mente il nome di Ferreira. Dunque era questo! Quegli individui avevano alla fine condotto lì Ferreira, come mezzo per farlo abiurare. Per molto tempo non aveva quasi provato odio nei confronti di Ferreira, nient’altro se non la compassione che una persona superiore prova per i miserabili. Ma ora che sembrava essere giunto il momento dell’incontro fu colto da una terribile
inquietudine e il cuore, in preda allo smarrimento, gli batteva forte. Ma lui stesso non ne capiva il motivo. «Sa chi è questa persona?» chiese l’interprete. «Sì, lo so.» «Capisco.» L’interprete, con un vago sorriso sulle labbra, agitò il ventaglio guardando attentamente la sponda grigia. E là, molto lontano, comparvero le minuscole figure di un gruppo di uomini che avanzava verso di loro. «È in quel gruppo.» Il prete non voleva far trapelare la propria agitazione, ma inconsapevolmente si sollevò dallo sgabello sul quale sedeva. Lentamente il gruppo si andava avvicinando al boschetto di pini, e ora egli riusciva a distinguere le singole persone. Due samurai che fungevano da sentinelle camminavano davanti... dietro seguivano tre prigionieri incatenati l’uno all’altro... Poi Monica che barcollava e inciampava. E dietro i tre, il prete riconobbe il suo compagno Garrpe. «Ah!» esclamò l’interprete con espressione di trionfo. «È quello che si aspettava, padre?» Gli occhi del prete seguivano Garrpe, osservando ogni particolare. Probabilmente Garrpe non sapeva chi fosse ad aspettarlo in quel bosco. Come lui, anche Garrpe portava abiti da contadino, e dalle ginocchia in giù anche le gambe bianche di Garrpe, proprio come le sue, sporgevano goffamente; camminava dietro gli altri cercando di tendere le gambe il più possibile e di respirare profondamente. Per il prete non fu una sorpresa che il suo vecchio amico fosse stato catturato. Dal momento in cui erano sbarcati sulla spiaggia di Tomogi, erano stati entrambi persuasi che sarebbe venuto il giorno in cui li avrebbero presi. Quello che il prete voleva sapere era dove venisse portato Garrpe e quali fossero ora i suoi pensieri in cattività. «Vorrei parlare con Garrpe» disse. «Lo vorrebbe, eh? Ma la giornata è lunga. È ancora mattina. Non c’è fretta.» Come se volesse tormentarlo, l’interprete sbadigliò deliberatamente e prese a rinfrescarsi il volto col ventaglio. «Tra l’altro, padre, quando ho parlato con lei sull’isola mi sono dimenticato di chiederle una cosa. Mi dica: che cos’è questa pietà di cui parlano i cristiani?» «Lei è come un gatto che tormenta un animaletto» mormorò il prete guardando l’altro con occhi infossati. «Prova una sensazione di meschino godimento a parlare con me. Mi dica, dov’è stato catturato Garrpe, e in che modo?» «Se non c’è un motivo, non abbiamo l’autorizzazione a rivelare ai prigionieri quello che fa l’ufficio del magistrato.» Ma all’improvviso la processione si era fermata nella sabbia grigia. I funzionari stavano scaricando una pila di stuoie dal mulo in fondo alla fila. «Ah!» l’interprete guardava la scena con un sorriso felice. «Sa a che cosa serviranno quelle stuoie?» I funzionari presero ad arrotolare le stuoie attorno ai corpi dei prigionieri, lasciando libero solo Garrpe. Di lì a poco, con la sola testa che sporgeva dalle stuoie i prigionieri sembravano vermi in un cesto. «Ora saranno messi nelle barche e portati verso le secche. In quell’insenatura l’acqua è così profonda che non se ne vede il fondo.» Le acque pigre facevano sempre lo stesso fragore monotono quando venivano a mordere la riva. Nubi coprivano il cielo plumbeo che si abbassava sulla terra e sul mare. «Guardi! Uno dei funzionari sta parlando con padre Garrpe!» L’interprete sembrava cantasse tanto era gioioso. «Che cosa sta dicendo? Probabilmente dice qualcosa del genere: “Se lei è un padre dotato di vera pietà cristiana, dovrebbe provare pena per questi tre poveri infelici avvolti in mantelli di paglia. Non dovrebbe starsene lì senza far nulla e guardare mentre vengono uccisi”.» Ora il prete capiva fin troppo bene dove volesse arrivare l’interprete, e la collera gli scosse il corpo come una raffica di vento. Se non fosse stato un prete, avrebbe torto il collo a quell’individuo. «E il magistrato dice che se padre Garrpe abiura... be’, per farla breve quelle tre vite saranno risparmiate. In ogni caso quei tre hanno già abiurato. Ieri, nell’ufficio del magistrato, hanno calpestato il fumie.» «L’hanno calpestato... e tuttavia adesso questa crudeltà... persino adesso.» Il prete parlava balbettando, ma le parole non volevano uscirgli dalle labbra. «Le persone che noi desideriamo vedere abiurare non sono quella gente che non conta nulla. Nelle isole al largo della costa ci sono ancora moltissimi contadini che sono segretamente fedeli al cristianesimo. È per metter le mani su quelli che vogliamo l’abiura dei padri.» «Vitam praesta puram, iter para tutum.» Il prete tentò di recitare l’Ave Maris Stella, ma invece delle parole della preghiera nella sua mente si levarono vivide l’immagine della cicala sulla mortella riccioluta, la scia di sangue rosso cupo sul terreno del cortile sotto il sole cocente. Era venuto in quel paese per offrire la propria vita per altri uomini, e invece erano i giapponesi a dare la loro vita uno a uno per lui. Che cosa doveva fare? Secondo la dottrina che aveva appreso sino a quel momento, era possibile giudicare certe azioni distinguendo il giusto dall’ingiusto, il male dal bene. Se Garrpe avesse scosso la testa per rifiutare, quei tre cristiani sarebbero affondati come sassi nelle acque della baia. Se
avesse ceduto alle sollecitazioni dei funzionari, avrebbe tradito tutta la sua vita. Che cosa doveva fare? «Che risposta darà Garrpe? Mi è stato detto che nel cristianesimo la prima cosa è la pietà e che Dio è la pietà stessa... Oh, guardi la barca!» All’improvviso due cristiani, pur così rinchiusi nelle stuoie, barcollarono in avanti, come se volessero fuggire. Ma i funzionari diedero loro una spinta dal dietro, facendoli cadere in avanti, cosicché finirono distesi sulla sabbia. Soltanto Monica, simile a un verme in un cesto, rimase ferma a guardare il mare indolente. Nel cuore del prete si levò il profumo del cetriolo che si era tolto dal seno per lui, e la sua voce ridente. “Abiura! Abiura!” urlò nel suo cuore a Garrpe che stava ascoltando i funzionari, con la schiena voltata al prete. “Abiura! Devi abiurare!” Sentendo il sudore colare sulla fronte, chiuse gli occhi e poi, per quanto potesse essere da vile, girò le spalle alla scena che avrebbe dovuto vedere. “Tu taci! Persino in questo momento tu taci?” Quando riaprì gli occhi i tre vermi nel cesto, spinti dai funzionari, erano già fermi di fronte alla barca. “Io abiurerei. Io abiurerei.” Le parole gli salirono alla gola ma, stringendo i denti, cercò di impedirsi di pronunciarle ad alta voce. Ora due funzionari armati di fiocine seguirono i prigionieri e, arrotolando i kimono sino alla cintola, salirono sulla barca che, cullata dalle onde, prese ad allontanarsi dalla sponda. “C’è ancora tempo! Non imputare tutto ciò a Garrpe e a me! Questa responsabilità devi prendertela tu stesso.” Ma ora Garrpe si era avventato in avanti e alzando le braccia si era tuffato in mare. Schizzando nuvolette di schiuma, si stava avvicinando alla barca e, mentre nuotava, gridava qualcosa. «Signore, senti la nostra preghiera...» In quella voce non c’era un tono di rimprovero, non c’era collera e si sarebbe spenta mentre la testa nera affondava tra le onde... «Signore, ascolta la nostra preghiera...» Sporgendosi dalla barca, i funzionari ridevano mettendo in mostra i denti bianchi. Uno di loro, passando la fiocina da una mano all’altra, sbeffeggiava Garrpe che tentava di avvicinarsi alla barca. Ma poi all’improvviso la testa non si vide più nel mare e la voce si azzittì. Poi, di colpo ricomparve come un frammento di polvere nera, sospinta dalle onde. La voce era più debole di prima, ma continuava a urlare. In quel momento un funzionario fece avvicinare uno dei cristiani al bordo della barca e lo spinse forte con la punta della fiocina. La figura di paglia cadde come una marionetta nel mare e scomparve alla vista. Poi, con drammatica fulmineità, anche la seconda figura finì sott’acqua. Infine anche Monica fu inghiottita dalle onde. Soltanto la testa di Garrpe, come un pezzo di relitto, fluttuò ancora per un po’ sull’acqua, fino a che le onde smosse dalla barca la sommersero. «Questa è una scena orribile. Non importa quante volte la si veda, è orribile» disse l’interprete alzandosi dallo sgabello. Poi, girandosi all’improvviso verso il prete, disse con occhi pieni d’odio: «Padre, ha pensato alla sofferenza che ha inflitto a tanti contadini solo per il suo sogno, solo perché vuole imporre al Giappone il suo sogno egoista? Guardi! Il sangue scorre di nuovo. Il sangue di quella gente ignorante sta scorrendo di nuovo!» Poi, come se volesse sputare le successive parole, disse: «Per lo meno Garrpe era pulito. Ma lei... lei... è quello che ha la volontà più debole. Non merita il nome di “padre”». Oh lanterna, addio, addio, addio, Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce. Oh lanterna, addio, addio, addio, Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce. La festa dell’Urabon era finita, ma in lontananza i bambini continuavano a cantare. Nelle case di Nagasaki ora ai mendicanti e ai derelitti si offrivano ogni sorta di verdure per dare conforto agli spiriti dei morti. La mortella riccioluta non mostrava tracce di cambiamento; le cicale continuavano il loro canto diuturno, ma gradatamente queste voci andavano perdendo il loro potere. «Come sta?» chiese uno dei funzionari che stava facendo il giro quotidiano. «Nessun cambiamento. Se ne sta lì a fissare il muro tutto il giorno.» Rispondendo a bassa voce, la guardia indicò la stanza in cui era rinchiuso il prete. Attraverso la finestra sbarrata il funzionario guardò il prete che sedeva per terra al sole, la schiena alla finestra. Tutto il giorno, guardando la parete, aveva fissato il mare scuro e la piccola testa nera di Garrpe che fluttuava sulla sua superficie. Ora i tre cristiani, tutti avvoltolati nelle stuoie, affondavano come massi. Quando scuoteva la testa la visione scompariva, ma quando chiudeva gli occhi tornava caparbiamente sotto le sue palpebre. «Lei è quello che ha la volontà più debole» aveva detto l’interprete alzandosi dallo sgabello. «Non merita il nome di “padre”.» Non era riuscito a salvare i cristiani, e nemmeno era riuscito, come Garrpe, ad affondare sotto le onde per inseguirli. La sua compassione per loro era stata travolgente, ma la compassione non era l’azione. Non era amore. La compassione, come la passione, era solo una sorta di istinto. L’aveva imparato molto tempo prima, seduto sui duri banchi del seminario, ma a quell’epoca era stata soltanto
un’esperienza appresa dai libri. «Guardi, guardi! Per lei sta scorrendo sangue. Il sangue dei contadini sta scorrendo al suolo!» Poi nel giardino della prigione inondata dal sole la scia di sangue si prolungava. L’interprete aveva affermato che era stato il sogno egoista dei missionari a tracciare quella scia di sangue. Il signore di Chikugo aveva raffrontato quel sogno egoista all’amore assillante di una donna brutta. Aveva detto che l’amore assillante di una donna brutta era un peso insopportabile per un uomo. «E tuttavia» davanti ai suoi occhi fluttuava l’immagine del volto ridente dell’interprete e il volto grosso e carnoso del signore di Chikugo, l’uno sovrapposto all’altro, «è venuto in questo paese per offrire loro la sua vita. Ma in effetti sono loro a offrire la vita per lei.» La voce sprezzante apriva le ferite del prete, perforandolo come uno spillo. Scosse il capo debolmente. No, non era per lui che i contadini morivano da tanto tempo. Avevano scelto la morte perché avevano la fede; ma questa risposta non aveva più il potere di guarire le sue ferite. E così i giorni passavano, a uno a uno. Nella mortella riccioluta il frinire privo di vita delle cicale continuava come sempre. «Come sta?» Era uno degli ufficiali che parlava durante il suo giro d’ispezione giornaliero. «Nessun cambiamento. Se ne sta lì a fissare il muro tutto il giorno.» La guardia indicò la stanza rispondendo a bassa voce. «Ho avuto ordini dal magistrato di venire a vedere come vanno le cose. Tutto procede secondo il piano del signore di Chikugo.» Il funzionario ritrasse il volto dalle sbarre e un sorriso soddisfatto gli aleggiò sulle labbra, come quello di un medico che controlli i progressi del paziente. Ora l’Urabon è finito. Le strade di Nagasaki sono silenziose. Alla fine del mese si terrà la giornata del ringraziamento, e i capi dei villaggi da Nagasaki e da Urukami inviano in dono all’ufficio del magistrato cesti di riso precoce. Il primo agosto tutti i funzionari e rappresentanti di ogni città devono presentarsi al magistrato con le vesti bianche da cerimonia. Lentamente arriva la luna piena. Nel boschetto dietro la prigione il gufo e la tortora si rispondono a vicenda cantando nella notte. Sopra il boschetto la luna, tutta rotonda, è immersa in un sinistro color rosso, mentre sbuca dalle nubi scure e poi si nasconde di nuovo. I vecchi bisbigliano inquietanti previsioni su quello che di infausto l’anno in arrivo potrebbe portare. È il 13 agosto. Nelle case di Nagasaki la gente prepara insalata di pesce e cuoce patate dolci e fagioli. Quel giorno i funzionari che lavorano nell’ufficio del magistrato offrono pesce e biscotti al magistrato che, a sua volta, offre loro sake, minestra e focaccia. Quella notte le guardie bevvero sake fino a tardi. Le voci roche e il tintinnio delle ciotole gli arrivavano continuamente alle orecchie. Il prete stava accovacciato al suolo, le spalle abbassate erano soffuse della argentea luce lunare che penetrava attraverso le sbarre della sua cella. Sul muro si rifletteva il suo corpo macilento; di tanto in tanto sussultava nell’udire un insetto frusciare tra gli alberi. Chiudendo gli occhi infossati godeva della fitta oscurità che lo avviluppava. Quella notte, in cui tutti coloro che conosceva dormivano profondamente, sentì una fitta dolorosa attraversargli il petto e ripensò a un’altra notte. Sì, accovacciato sulla terra cinerina di un Getsemani che aveva assorbito tutto il calore della giornata, solo e diviso dai suoi discepoli addormentati, un uomo aveva detto: «La mia anima è triste sino alla morte». E il suo sudore era diventato come gocce di sangue. Quello era il volto che aveva ora davanti agli occhi. Gli era apparso nel sogno centinaia di volte, ma perché soltanto ora quel volto sofferente e sudato sembrava tanto lontano? Eppure aveva concentrato tutta la propria attenzione sull’espressione emaciata di quelle guance. Quella notte anche quell’uomo aveva avvertito il silenzio di Dio? Era anche rabbrividito per la paura? Il prete non voleva pensarlo. Eppure all’improvviso quel pensiero gli si levò nel cuore e lui cercò di non ascoltare la voce che glielo diceva e scosse freneticamente il capo, due o tre volte. Il mare in un giorno di pioggia, dove Mokichi e Ichizo erano affondati legati ai pali! Il mare sul quale la testa nera di Garrpe, nel tentativo di raggiungere la piccola barca, aveva lottato disperatamente e poi fluttuato come un pezzo di legno alla deriva! Il mare in cui quei corpi avvoltolati in stuoie di paglia erano piombati di colpo! Quel mare si estendeva senza fine, mestamente e in tutto questo frattempo, sopra il mare, Dio si limitava a mantenere il suo impietoso silenzio. «Eloi, Eloi, lama sabachtani!» Con il ricordo del mare plumbeo queste parole all’improvviso irruppero alla sua coscienza. «Eloi, Eloi, lama sabachtani!» Sono le tre di quel venerdì e dalla croce questa voce si leva verso un cielo coperto di oscurità. Il prete aveva sempre pensato che quelle parole fossero la preghiera di quell’uomo, e non che sgorgassero provocate dal terrore per il silenzio di Dio. Dio esisteva veramente? E se non esisteva, quanto era ridicola quella metà della vita che aveva speso attraversando il mare infinito per venire a piantare quel minuscolo seme in quest’isola arida! Quanto era ridicola la vita dell’uomo con un occhio solo, giustiziato mentre le cicale cantavano nella piena luce del giorno! Quant’era ridicola la vita di Garrpe che nuotava per raggiungere i cristiani su quella barchetta! Rivolto al muro, il prete rise forte.
«Padre, com’è la storiella?» Le voci roche delle guardie si erano azzittite, e uno di loro pose la domanda mentre passava davanti alla porta. Tuttavia, quando venne il mattino e i forti raggi solari ancora una volta penetrarono attraverso le sbarre, il prete riacquistò un po’ di vigore e si riprese dalla solitudine della notte precedente. Allungando le gambe e appoggiando il capo al muro, bisbigliò parole dai salmi con voce dolente: «Il mio cuore è forte. Oh Signore, il mio cuore è forte! Canterò melodiosi canti! Svegliati, anima mia! Svegliatevi, arpa e lira! Risveglierò l’alba». Quelle parole gli erano sempre venute alla mente quando era ragazzo, allorché guardava il vento soffiare nel cielo azzurro e attraverso gli alberi; ma quello era un tempo in cui Dio non era come adesso un oggetto di paura e perplessità, bensì qualcuno vicino alla terra, qualcuno che dava armonia e gioia di vivere. Di tanto in tanto funzionari e guardie lo osservavano attraverso le sbarre, con occhi accesi di curiosità; ma il prete non li degnava più nemmeno di uno sguardo. A volte non toccava neppure il cibo che gli veniva offerto tre volte al giorno. Adesso era settembre. Un pomeriggio in cui l’aria era già un po’ più fresca ricevette all’improvviso la visita dell’interprete. «Oggi voglio che lei veda una persona.» L’interprete parlava nel suo solito modo scherzoso giocherellando con il ventaglio. «No, no, non il magistrato, non i funzionari. Una persona che credo lei desideri incontrare.» Il prete rimase in silenzio, gli occhi spenti fissi sull’altro. Ricordava nitidamente le parole che l’interprete gli aveva rivolto in un’altra occasione, ma anche se era piuttosto strano, non riusciva a odiare quell’uomo e neppure a essere in collera con lui. Si sentiva troppo stanco anche solo per odiare. «Ho saputo che non mangia molto» disse l’interprete con il solito sorriso teso. «Sarebbe meglio non rimuginare troppo.» Nel dire quelle parole piegò il capo di lato, poi uscì, quindi rientrò, avanti e indietro varie volte. «Come mai il palanchino è in ritardo? Avrebbe dovuto già essere qui» disse. Ma il prete ormai non era più interessato a sapere chi avrebbe visto. I suoi occhi indifferenti si limitavano a fissare l’instancabile interprete che continuava a correre dentro e fuori. Poi si udirono all’ingresso le voci degli uomini che reggevano il palanchino. Di lì a poco conversavano con l’interprete. «Padre, andiamo.» Senza dire una parola il prete si alzò e uscì con passo lento e pigro. I raggi accecanti del sole gli ferirono gli occhi iniettati di sangue e gialli per la stanchezza. Due uomini con il solo perizoma addosso stavano fermi con il palanchino sulle spalle e lo guardavano con intensità. «È pesante! È grande e grosso!» borbottarono mentre il prete saliva. Avevano abbassato la tendina per evitare la curiosità frivola dei passanti, e lui non poteva vedere nulla di quello che succedeva all’esterno. Alle sue orecchie giungevano soltanto ogni genere di rumori e di suoni. Le grida dei bambini, le campane dei bonzi, il rumore dei lavori di costruzione. Ogni tanto il sole del crepuscolo penetrava attraverso la tenda e gli illuminava il viso. Ma non c’era soltanto il rumore, ogni genere di odori arrivava lì dove stava seduto. L’odore degli alberi e del fango, delle galline, delle mucche e dei cavalli. Chiudendo gli occhi per un momento, assorbì profondamente in petto la vita delle persone che lo circondavano. Poi a un tratto in lui si accese il desiderio di parlare con altri, di essere come gli altri, di sentire le parole di altri uomini, di tuffarsi nella vita quotidiana degli uomini. Sì, ne aveva avuto abbastanza di tutto questo: di nascondersi nella capanna del carbone, di vagare per le montagne nel terrore di essere inseguito, della vista dei cristiani massacrati giorno dopo giorno davanti ai suoi stessi occhi. Non aveva più la forza di resistere a tutto questo. E tuttavia... «Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza...» Era diventato prete per poter mirare a una cosa, una cosa sola. Soltanto i rumori diversi gli fecero capire che adesso erano entrati in città. Prima aveva sentito il chiocciare delle galline e il muggito delle mucche, ma ora il fruscio incessante di piedi strascicati penetrava attraverso la tenda dietro la quale egli era seduto; voci stridule che vendevano e acquistavano, ruote di carri e voci levate in litigio. Dove stesse andando e chi avrebbe incontrato erano cose che ora non gli importavano. Chiunque fosse stato, gli avrebbe rivolto l’antica consueta domanda; il medesimo interrogatorio sarebbe ricominciato. Tutte quelle domande erano solo una formalità. Come Erode quando si era trovato di fronte a Cristo, quella gente poneva domande senza avere il minimo interesse per le risposte. Inoltre, perché il signore di Chikugo si era rifiutato di ucciderlo e, senza assolverlo, lo aveva tenuto in vita? Ma comunque, addentrarsi in quella faccenda non faceva altro che turbarlo e agitarlo. «Siamo arrivati.» Asciugandosi il sudore con la mano, l’interprete fermò il palanchino e sollevò la tendina. Quando scese, gli occhi del prete furono improvvisamente accecati dal sole crepuscolare e vide davanti a sé la guardia che in prigione si era occupata di lui. Probabilmente avevano portato dietro quell’uomo nel timore che lui potesse liberarsi e tentar di fuggire durante il viaggio. In cima a una rampa di scale c’era un cancello a due piani dietro il quale sorgeva un minuscolo tempio illuminato dalla luce crepuscolare e dietro di esso sorgevano montagne e scogliere color marrone. Nel tempio buio e offuscato due o tre galli si aggiravano con andatura arrogante. Un giovane
bonzo uscì dal tempio e, dopo aver lanciato al prete un’occhiata piena di ostilità, scomparve alla vista senza degnarsi di dire una sola parola di saluto... nemmeno all’interprete. «Ai bonzi voi preti non siete simpatici» disse l’interprete con voce soddisfatta, accovacciandosi al suolo e guardando in direzione del giardino. «Starsene lì tutto il giorno a guardare il muro e a rimuginare per lei è veleno» proseguì. «La faccia finita con queste sciocchezze, a nessuno serve provocare guai inutili.» Ma il prete, come al solito, non badava a quel seccatore. Quello che ora lo distraeva era che in quel tempio che odorava di incenso e di cibo giapponese, chissà come, le sue narici avevano all’improvviso avvertito in mezzo a tutti gli odori un odore estraneo. Era odore di carne. Carne, dalla quale era stato costretto ad astenersi da tanto tempo che era diventato sensibile al più fievole odore. Poi in lontananza udì un rumore di passi. Qualcuno si stava avvicinando per il lungo corridoio. «Ha indovinato chi incontrerà adesso?» Stavolta il volto del prete si contrasse e, per la prima volta, egli annuì. Sentì che le ginocchia erano scosse da un tremito incontrollabile. Sì, sapeva che un giorno o l’altro avrebbe dovuto incontrare quell’uomo ma non aveva mai pensato che sarebbe avvenuto in un luogo come quello. «Be’, è ora che lei lo incontri» disse l’interprete parlando con voce piena di allegria e guardando la figura tremante del prete. «Per ordine del magistrato.» «Inoue?» «Sì. E l’altra persona, anche questa vorrebbe vederla.» Vestito con un kimono nero, tenendo gli occhi bassi, Ferreira entrò alle spalle di un vecchio monaco. Questi, un tipo tozzo e piccolo, gonfiava il petto con aria sicura di sé, il che accentuava ancora di più il servilismo di Ferreira, che era alto e che, con gli occhi bassi, sembrava proprio un animale con una corda al collo che si lasci tirare con riluttanza. Il vecchio monaco si fermò e Ferreira senza dire una parola guardò il prete, poi sedette in un angolo del pavimento illuminato da un raggio del sole al tramonto. Per un po’ di tempo vi fu un silenzio di morte. «Padre!» disse alla fine Rodrigues con voce tremante. «Padre!» Alzando un poco la testa china, Ferreira diede un’occhiata al prete. Per un attimo nel suo sguardo lampeggiò un sorriso servile e una momentanea vergogna, ma poi, con gli occhi bene aperti, fissò l’altro con deliberazione e sfida. Rodrigues però, conscio della propria condizione di prete, non trovava le parole da dire. Aveva il cuore troppo colmo per riuscire a parlare; qualunque cosa avesse detto, sarebbe stata una menzogna; tanto meno voleva ravvivare ancora di più la accondiscendente curiosità del bonzo e dell’interprete che lo fissavano con attenzione. In petto gli si agitavano ogni sorta di sentimenti contrastanti: nostalgia, collera, tristezza, odio. “Perché fai quella faccia” gridò nel profondo del proprio cuore. “Non sono venuto qui come tuo giudice. Non sono meglio di te.” Cercò di forzare le labbra a un sorriso, ma invece del sorriso una lacrima bianca gli scese dall’occhio, colando lenta sulla guancia. «Padre, quanto tempo è passato da quando ci siamo visti...» finalmente la voce tremula di Rodrigues ruppe il silenzio. E mentre parlava capiva quanto sciocche e assurde risuonassero quelle parole, ma alle sue labbra non ne volevano venire altre. E Ferreira rimase silenzioso, con il sorriso di sfida ancora fisso sulle labbra. Il prete capiva benissimo come il sorriso debole e servile potesse essere sostituito da quell’espressione di sfida. Ed era proprio perché capiva che avrebbe voluto crollare a terra come un albero rinsecchito. «La prego... la prego... dica qualcosa.» Rodrigues parlava quasi ansimando. «Se ha pietà di me... la prego... dica qualcosa.» All’improvviso seppe quello che egli stesso voleva dire, e strane parole parvero salirgli alle labbra. “Ti sei rasato la barba” era quello che voleva dire. Ma egli stesso non riusciva a capire come simili sentimenti potessero venirgli in mente. Il fatto era che, ai vecchi tempi, quel Ferreira che lui e Garrpe avevano conosciuto, aveva una barba molto ben curata. Era una cosa che aveva dato a tutto il suo aspetto un’espressione gentile e insieme austera. Ma ora il mento e il labbro superiore erano lisci e sbarbati. Il prete si rese conto che i propri occhi erano attratti da quella parte del viso di Ferreira. Per un certo verso, esprimeva una tremenda sensualità. «Che posso dirle in un’occasione simile?» chiese Ferreira. «Sta ingannando se stesso.» «Ingannando me stesso? Come posso spiegare la parte di me che non è tutta un inganno di se stessa?» L’interprete ora si stava alzando sulle ginocchia per accertarsi di non perdere una parola di portoghese. Due o tre galline balzarono da terra sulla veranda e sbatterono le ali. «Vive qui da molto tempo?» «Da circa un anno, credo.» «Che cos’è questo luogo?» «Un tempio chiamato Saishoji.» Nell’udire la parola “Saishoji” dalle labbra di Ferreira il vecchio monaco, che guardava fisso davanti a sé come un Budda di pietra, girò il viso verso di loro. «Anch’io sono rinchiuso in una prigione da qualche parte a Nagasaki. Nemmeno io so con precisione dove.» «Lo so io. Alle porte della città.»
«Che cosa fa tutto il giorno, Ferreira?» Una smorfia di dolore contrasse il volto di Ferreira, mentre lui portava la mano alla guancia ben rasata. «L’onorevole Sawano passa la sua giornata a scrivere.» Stavolta era stato l’interprete a interrompere, parlando in vece di Ferreira. «Per ordine del magistrato sto traducendo un libro di astronomia.» Ferreira pronunciò le parole in fretta, come se volesse chiudere la bocca all’interprete. «Sì, ecco quello che faccio. E sono abbastanza utile, sono abbastanza utile alla gente di questo paese. I giapponesi hanno già conoscenze di ogni genere e sanno molte cose, ma nel campo dell’astronomia e della medicina un occidentale come me è in grado di aiutarli. Naturalmente, in questo paese esiste la medicina appresa dai cinesi, che è molto avanzata, ma non è affatto inutile aggiungervi le nostre conoscenze di chirurgia. Lo stesso vale per l’astronomia. Per questo motivo ho chiesto al comandante olandese di esser tanto gentile da prestarci lenti e telescopi. Così non sono inutile in questo paese, posso prestare qualche servizio, certo!» Il prete fissava Ferreira che continuava a parlare senza sosta. Non riusciva a capire come mai fosse diventato d’un tratto tanto eloquente. E pur tuttavia riusciva a comprendere la psicologia dell’altro quando continuava a far rilevare che lui era utile a quel paese. Ferreira non parlava solo per lui. C’erano anche il bonzo e l’interprete, e Ferreira voleva che sentissero. Inoltre continuava a cianciare per giustificare ai propri occhi la propria esistenza: «Sono utile a questo paese!» Il prete sbatteva penosamente le palpebre, mentre guardava Ferreira. Sì, essere utile agli altri, aiutare gli altri, questo era l’unico desiderio e l’unico sogno di chi si era dedicato al sacerdozio. La solitudine della vita sacerdotale era tale soltanto quando si era inutili agli altri. Il prete si rese conto che nemmeno ora, dopo l’abiura, Ferreira era riuscito a sfuggire alla vecchia spinta psicologica che lo aveva motivato. Sembrava basarsi sul suo vecchio sogno di aiutare gli altri, così come una donna pazza offre il proprio seno a un neonato. «È felice?» chiese in un bisbiglio Rodrigues. «Chi?» «Lei.» Di nuovo una fiamma lampeggiò nello sguardo provocatorio di Ferreira. «Nel concetto di felicità vi sono ogni sorta di fattori soggettivi.» “Non è quello che eri solito dire...” furono le parole che salirono alle labbra del prete per essere però subito soffocate. In fin dei conti lui non era lì per censurare Ferreira perché aveva abiurato e tradito i discepoli. Non provava alcun desiderio di irritare la profonda ferita che si annidava sotto la superficie della mente dell’altro e che questi tentava di celare. «È vero. Aiuta noi giapponesi. Ha persino un nome giapponese: Sawano Chuan.» Aveva parlato l’interprete che stava in mezzo ai due e guardava con un sorriso sarcastico le facce di entrambi. «E sta scrivendo un altro libro» proseguì. «Un libro in cui confuta gli insegnamenti di Deus e mostra gli errori del cristianesimo. Il titolo è Gengiroku.» Questa volta Ferreira non aveva fatto in tempo a chiudere la bocca dell’interprete. Per un attimo rivolse lo sguardo alle galline svolazzanti, cercando di non dare a vedere che aveva sentito quello che l’altro aveva detto. «Il magistrato ha letto il suo manoscritto» proseguì l’interprete. «Lo elogia. Dice che è ben fatto. Dovrebbe dargli anche lei un’occhiata; in prigione ha tutto il tempo che vuole.» Ora il prete capiva perché Ferreira aveva parlato tanto affrettatamente della sua traduzione di astronomia. Ferreira: l’uomo che, su ordine del signore di Chikugo, doveva sedere tutti i giorni alla scrivania. Ferreira, che stava scrivendo che il cristianesimo cui aveva dedicato la vita era una falsità. Gli parve quasi di vedere la schiena ricurva di Ferreira intento a maneggiare la penna. «Crudele!» disse Rodrigues. «Che cos’è crudele?» «Crudele! Peggio di qualsiasi tortura! Non riesco a pensare a niente di più ignobile!» All’improvviso, mentre Ferreira cercava di distogliere lo sguardo, il prete vide che nei suoi occhi luccicava una lacrima bianca. Il kimono nero giapponese! I capelli castani legati alla maniera giapponese! Il nome: Sawano Chuan! Eppure quest’uomo è ancora vivo! Signore, tu taci. Continui a mantenere il tuo silenzio profondo in una vita come questa! «Sawano Chuan, oggi non abbiamo portato qui il padre solo per una lunga conversazione.» Aveva parlato l’interprete ora e, voltandosi verso il vecchio bonzo che, simile a un Budda di pietra, se ne stava accovacciato sul pavimento illuminato dai raggi del sole al tramonto: «Sul» disse. «Anche il bonzo ha da fare. Finisca in fretta quello che ha da fare.» Ora Ferreira parve aver perso lo spirito combattivo di prima. La lacrima bianca riluceva ancora sul ciglio, ma il prete sentì che la sua statura si era di colpo rimpicciolita, tanto da farlo apparire molto piccolo. «Mi è stato detto di convincerla ad abiurare» disse Ferreira con voce stanca. «Guardi qui!» E indicò con gesto lento una cicatrice dietro l’orecchio. Era una cicatrice scura come quelle che restano dopo una bruciatura. «Si chiama la fossa. Forse ne ha sentito parlare. Ti legano in modo che non riesci a muovere piedi e mani e poi ti appendono a testa in giù in una fossa.» L’interprete allargò le mani con un gesto di paura come se rabbrividisse a quel solo pensiero. Disse: «Quei piccoli tagli dietro l’orecchio vengono fatti affinché la persona non muoia subito. Il sangue esce
goccia a goccia. È una tortura inventata dal magistrato Inoue». Davanti agli occhi del prete fluttuò l’immagine di Inoue: le grandi orecchie, il colorito acceso, il volto carnoso. Davanti a lui c’era quel volto come gli era apparso quando Inoue giocherellava con la ciotola, rigirandola tra le mani mentre sorseggiava l’acqua calda. Era il volto sul quale era aleggiato un sorriso di assenso quando il prete aveva argomentato la propria difesa. Allorché un altro uomo era stato torturato, si disse che Erode si fosse seduto a mangiare a un tavolo addobbato con fiori. «Ci pensi su» proseguì l’interprete. «Lei è l’unico prete cristiano rimasto in questo paese. Adesso è stato catturato e non c’è più nessuno a insegnare ai contadini e a diffondere la sua dottrina. Non le sembra di essere inutile?» Ma ora l’interprete socchiuse gli occhi e la sua voce assunse d’un tratto un tono gentile e buono: «Ha sentito quello che ha detto Chuan. Traduce libri di astronomia e di medicina. Aiuta i malati, lavora per gli altri. Pensi anche a questo: come continua a rammentare il vecchio bonzo a Chuan, il cammino della pietà significa semplicemente che si abbandona l’io. Nessuno dovrebbe preoccuparsi di indurre gli altri a entrare nella propria setta religiosa. Aiutare gli altri è la strada di Budda e l’insegnamento del cristianesimo... su questo punto le due religioni sono eguali. Quello che conta è camminare o meno per il sentiero della verità. Sawano sta scrivendo proprio questo nel suo Gengiroku». Quando ebbe finito di parlare, guardò Ferreira per avere una convalida. La luce piena del sole crepuscolare ricadeva sulla schiena esile dell’invecchiato Ferreira vestito con abiti giapponesi. Guardando quella schiena esile il prete cercò inutilmente quel Ferreira che tanto tempo prima a Lisbona si era conquistato il suo rispetto al seminario. Eppure ora, strano a dirsi, la sua mente non nutriva alcun sentimento di disprezzo. Si sentiva semplicemente gonfiare il petto di quella pena che si prova per un essere vivente il quale abbia perso vita e intelletto. «Per vent’anni...» Abbassando gli occhi Ferreira bisbigliò flebilmente: «Ho faticato per vent’anni in questo paese. Lo conosco meglio di lei». «Durante questi vent’anni come Superiore lei ha fatto un lavoro magnifico» disse il prete, alzando la voce nel tentativo di incoraggiarlo. «Ho letto con grande rispetto le lettere che lei mandava alla sede centrale della Compagnia.» «Bene, davanti a lei ora c’è la figura di un vecchio missionario sconfitto dal lavoro missionario.» «Nessuno può essere sconfitto dal lavoro missionario. Quando lei e io saremo morti, un altro missionario salirà a bordo di una giunca a Macao e sbarcherà segretamente in questo paese, da qualche parte.» «Sarà sicuramente catturato.» Stavolta era stato l’interprete che si era affrettato a interrompere. «E ogni volta che ne sarà catturato uno, sgorgherà sangue giapponese. Quante volte le ho detto che sono i giapponesi a dover morire per il vostro sogno egoista? È ora che ci lasciate in pace.» «Ho faticato vent’anni alla missione.» Ferreira ripeté le stesse parole con voce priva di emozione. «La sola cosa che so è che la nostra religione non mette radici in questo paese.» «Non è che non metta radici» esclamò Rodrigues con voce alta e scuotendo il capo. «È che le radici vengono divelte.» Ferreira non alzò neppure la testa nell’udire la violenta affermazione del prete. Con gli occhi bassi rispose impassibile come un pupazzo: «Questo paese è una palude. È ora che lo capisca anche lei. Questo paese è una palude più tremenda di quanto lei possa immaginare. Quando si pianta un alberello, in questa palude le radici cominciano a marcire, le foglie diventano gialle e avvizziscono. E noi abbiamo piantato l’alberello del cristianesimo in questa palude.» «C’era un tempo in cui l’alberello cresceva e metteva le foglie.» «Quando?» Per la prima volta Ferreira fissò negli occhi il prete, mentre sulle guance infossate aleggiava il vago sorriso di chi compatisce un giovane che non conosce il mondo. «Quando lei giunse in questo paese, si erigevano chiese ovunque, la fede era fragrante come i freschi fiori del mattino e molti giapponesi facevano a gara tra loro per ricevere il battesimo, come gli ebrei che convenivano sul Giordano.» «E se il Dio in cui quei giapponesi credevano non fosse stato il Dio dell’insegnamento cristiano...» Ferreira mormorò quelle parole lentamente, il sorriso compassionevole ancora aleggiante sulle labbra. Sentendosi crescere dal profondo del cuore una collera incomprensibile, il prete strinse inconsapevolmente i pugni. “Sii ragionevole” si disse con disperazione. “Non lasciarti ingannare da questo sofisma. L’uomo sconfitto inganna se stesso con qualunque lusinga per difendersi.” «Lei nega ciò che è innegabile» disse ad alta voce. «Niente affatto. Quello in cui i giapponesi di allora credevano non era il nostro Dio. Erano i loro dei. Per molto tempo non lo abbiamo capito e abbiamo fermamente creduto che fossero diventati cristiani.» Ferreira sedette per terra con un gesto di stanchezza. Il fondo del kimono si aprì rivelando le gambe nude e sporche, sottili come bastoni. «Non lo dico per difendermi e nemmeno per persuadere lei. Penso che nessuno crederà a quello che dico. Non solo lei, ma anche i missionari di Goa e di Macao e tutti i preti europei si rifiuteranno di credermi. Eppure dopo vent’anni di fatica, io i giapponesi li ho conosciuti. Ho visto marcire a poco a poco, quasi impercettibilmente, le radici dell’alberello che avevamo piantato.» «San Francesco Saverio...» Non riuscendo più a trattenersi Rodrigues interruppe l’altro con un gesto. «San Francesco Saverio, quando era in Giappone, non la pensava così.» «Nemmeno quel santo» disse Ferreira annuendo «lo ha capito. Ma i giapponesi hanno liberamente cambiato la stessa parola “Deus” in “Dainichi” (Il Grande Sole). Per i giapponesi che adoravano il sole
la pronuncia di “Deus” e quella di “Dainichi” erano quasi eguali. Non ha letto la lettera di Saverio in cui egli parla di questo errore?» «Se Saverio avesse avuto un buon interprete, un errore così strano e poco rilevante non sarebbe avvenuto.» «Niente affatto. Non capisce quello che sto dicendo.» Per la prima volta le tempie di Ferreira ebbero una pulsazione irritata mentre rispondeva. «Lei non capisce niente. E non capisce nulla nemmeno la massa di persone che vengono a visitare questo paese dai monasteri di Goa e di Macao, e che si definiscono apostoli. Sin dall’inizio quegli stessi giapponesi che avevano confuso “Deus” con “Dainichi” hanno deformato e cambiato il nostro Dio e cominciato a creare qualcosa di diverso. Anche quando la confusione del vocabolario è scomparsa, la deformazione e il cambiamento sono continuati in segreto. Persino durante il glorioso periodo missionario da lei citato i giapponesi non credevano nel Dio cristiano, bensì nella distorsione che loro ne avevano fatta.» «Hanno deformato e cambiato il nostro Dio e ne hanno fatto qualcosa di diverso!» Il prete scandì adagio le parole quasi macinandole tra i denti. «E non è anche questo il nostro Deus?» «No. Nella mente dei giapponesi il Dio cristiano è stato completamente cambiato.» «Che cosa dice mai?» A quell’esclamazione violenta del prete la gallina che stava tranquillamente bezzicando il cibo sul nudo suolo volò in un angolo. «Quello che dico è semplice. Lei e quelli come lei guardate solo il lato esteriore del lavoro missionario. Non considerate l’essenza. È vero, come afferma lei, che nei miei vent’anni di fatiche a Kyoto, Kyushu, a Chigoku, a Sendai e altrove sono state costruite chiese; che ad Arima e ad Azuchi sono stati creati seminari e che i giapponesi facevano a gara gli uni con gli altri per diventare cristiani. Lei ha appena detto che c’erano duecentomila cristiani, ma persino questa cifra è calcolata con prudenza. C’è stato un periodo in cui ne avevamo quattrocentomila.» «È una cosa di cui si può essere fieri.» «Fieri? Sì, se i giapponesi fossero giunti a credere nel Dio che noi predicavamo. Ma nelle chiese che noi abbiamo costruito in questo paese i giapponesi non pregavano il Dio cristiano. Deformavano Dio secondo il loro modo di pensare come noi non riusciremo mai a immaginare. Se lei chiama questo Dio...» Ferreira abbassò gli occhi e mosse le labbra, come se gli fosse venuto qualcosa in mente. «No. Quello non è Dio. È come una farfalla imprigionata nella tela di un ragno. Inizialmente certo è una farfalla, ma il giorno successivo solo la parte esterna, le ali e il tronco sono quelli di una farfalla; ha perso la sua vera realtà ed è diventata uno scheletro. In Giappone il nostro Dio è come quella farfalla impigliata nella ragnatela; resta soltanto la forma esteriore di Dio ma è già diventata uno scheletro.» «Niente affatto! Non voglio ascoltare le sue chiacchiere insensate! Non sono in Giappone da tanto tempo come lei, ma ho visto i martiri con i miei stessi occhi.» Il prete si coprì il volto con le mani e la voce filtrò attraverso le dita. «Con i miei occhi, li ho visti morire, brucianti di fede.» Il ricordo del mare greve di pioggia con i due pali neri fluttuanti sulla superficie si levò dolorosamente davanti ai suoi occhi. Né riusciva a dimenticare l’uomo con un occhio solo ucciso in piena luce del giorno; mentre gli era rimasta indelebilmente impressa nella mente l’immagine della donna che gli aveva dato il cetriolo: era stata rinchiusa in una cesta e affogata in mare. Se quelle persone non erano morte per la loro fede, quale empietà per l’uomo! Ferreira stava mentendo. «Non credevano nel Dio cristiano.» Ferreira parlava con chiarezza e sicurezza, accentuando deliberatamente ogni parola. «Finora i giapponesi non hanno mai avuto il concetto di Dio e non l’avranno mai.» Quelle parole calarono sul cuore del prete come un masso gigantesco e inamovibile, con quella sorta di potere che aveva avvertito quando, bambino, aveva sentito per la prima volta dell’esistenza di Dio. «I giapponesi non sono capaci di pensare a Dio completamente scisso dall’uomo; i giapponesi non riescono a pensare a un’esistenza che trascenda quella umana.» «Il cristianesimo e la Chiesa sono verità che trascendono tutti i paesi e i territori. Altrimenti quale significato ci sarebbe nel nostro lavoro missionario?» «I giapponesi immaginano un uomo bello ed esaltato ed è questo che chiamano Dio. Chiamano con il nome di Dio qualcosa che ha lo stesso genere di esistenza dell’uomo. Ma quello non è il Dio della Chiesa.» «È la sola cosa che ha imparato dai suoi vent’anni in questo paese?» «Solo questa.» Ferreira annuì con gesto sconsolato. «E quindi la missione ha perso il suo significato per me. L’alberello che avevo portato è marcito in fretta sino alle radici in questa palude. E per molto tempo io non l’ho saputo né notato.» Alle ultime parole di Ferreira il prete fu sopraffatto da un incontrollabile senso di amara rassegnazione. La luce serotina cominciò a indebolirsi, le ombre si allungarono sul terreno a poco a poco. Lontano riusciva a sentire il suono monotono del tamburo di legno e la voce dei bonzi che cantavano i tristi sutra. «Lei» disse, bisbigliando e guardando Ferreira, «lei non è il Ferreira che io ho conosciuto.» «È vero, non sono Ferreira. Sono un uomo che ha ricevuto dal magistrato il nome di Sawano Chuan» rispose Ferreira, abbassando gli occhi. «E non soltanto il nome. Ho ricevuto la moglie e i figli dell’uomo giustiziato.» È l’ora del cinghiale. Di nuovo sul palanchino lui è in viaggio, circondato da funzionari e da guardie. È
notte fonda; non c’è da preoccuparsi che passanti casuali guardino nel palanchino. I funzionari avevano dato al prete il permesso di sollevare la tendina. Sarebbe potuto scappare se lo avesse voluto, ma non aveva più desiderio di farlo. La strada era terribilmente stretta e contorta e, sebbene le guardie gli avessero detto che erano già entrati in città, c’erano ancora gruppi di fattorie che sembravano capanne; quando però le superavano vedevano qua e là i lunghi recinti di templi e boschetti di alberi: Nagasaki non aveva ancora assunto la forma di una città. La luna si levò al di sopra degli alberi scuri e sembrava avanzare a occidente insieme con il palanchino. «Si sente meglio adesso?» gli chiese il funzionario che gli cavalcava al fianco, rivolgendogli la parola con gentilezza. Arrivato alla prigione, il prete pronunciò parole di gratitudine nei confronti delle guardie e dei funzionari, poi entrò. Udì il rumore sordo del chiavistello che veniva abbassato. Era passato molto tempo da quando era stato lì e adesso finalmente era tornato. Gli sembrava un secolo da quando aveva sentito il canto intermittente della tortora nel boschetto. In raffronto ai dieci giorni trascorsi in carcere questa unica giornata era stata lunga e dolorosa. Avere finalmente incontrato Ferreira non era cosa che lo sorprendesse molto. E i lineamenti e i modi cambiati del vecchio, ora che ci pensava, erano una cosa che si era aspettato da quando era arrivato in quel paese. La figura emaciata di Ferreira che avanzava da lontano traballante per quel corridoio non era poi così terrificante. Ora non importava. Non importava. Ma fino a che punto quello che aveva detto era vero? Il prete sedeva immobile fissando la parete nuda, mentre i raggi della luna penetravano attraverso le sbarre inondandogli la schiena di luce. Ferreira aveva forse parlato in quel modo per difendere il proprio torto e la propria debolezza? Sì, era così, certo che era così. Una parte di lui continuava a insistere su questo ma poi, all’improvviso, veniva colto da una ventata di paura, e si chiedeva se quanto aveva detto Ferreira non fosse vero. Ferreira aveva affermato che il Giappone era una palude senza fondo. L’alberello marciva alle radici e avvizziva. Il cristianesimo era come quell’alberello; del tutto impercettibilmente era avvizzito ed era morto. «Il cristianesimo è perito non perché è stato proibito o perseguitato. In questo paese c’è qualcosa che soffoca totalmente la crescita del cristianesimo.» Le parole di Ferreira pronunciate lentamente, sillaba per sillaba, perforavano le orecchie del prete. «Il cristianesimo in cui credono è come lo scheletro di una farfalla impigliata in una ragnatela: esso contiene soltanto la forma esterna; il sangue e la carne sono scomparsi.» Così aveva proseguito Ferreira con occhi fiammeggianti. E, in certo qual modo, nelle sue parole c’era una certa sincerità che non aveva nulla a che vedere con la lusinga con cui si inganna un uomo sconfitto. Ora si udivano in lontananza i passi delle guardie. E quando si furono spenti, l’unico rumore rimasto fu il roco ronzio degli insetti nell’oscurità notturna. “Non può essere vero. È impossibile.” Rodrigues non aveva sufficiente esperienza missionaria per poter confutare le parole di Ferreira, ma accettare le parole di costui significava perdere tutto ciò per cui lui era venuto in quel paese. Battendo la testa contro il muro, continuava a mormorare monotonamente: «Non può essere. È impossibile». Sì, è impossibile, impossibile. Come ci si poteva sacrificare per una falsa fede? Aveva visto con i suoi occhi quei contadini, quei martiri colpiti dalla miseria. Se non avessero sinceramente creduto nella salvezza come sarebbero potuti sprofondare nel mare coperto di brume? In ogni caso, erano cristiani forti. Anche se la loro fede era semplice e rozza, essa infondeva una convinzione che era stata seminata in Giappone non da quei funzionari e tanto meno dal buddismo, ma dalla Chiesa cristiana. Il prete ricordò la tristezza di Ferreira. Durante la loro conversazione Ferreira non aveva detto una parola su quei poveri martiri giapponesi. Naturalmente aveva evitato quel problema con deliberazione; aveva cercato di evitare qualsiasi pensiero sulla gente che era più forte di lui, gente che aveva sopportato eroicamente la tortura e la fossa. Ferreira cercava di aumentare, anche di uno solo, il numero dei deboli come lui... per dividere con altri la propria viltà e solitudine. Nell’oscurità si chiese se ora Ferreira stesse dormendo. No, non poteva essersi addormentato. Il vecchio se ne stava seduto in qualche parte della stessa città, al buio come lui, con gli occhi aperti a fissare davanti a sé, disperando per la profondità di quella solitudine. E questa solitudine era molto più fredda, molto più terribile di quella che subiva lui nella cella di quel carcere. Per ammassare debolezza su debolezza cercava di trascinare gli altri per il cammino che lui stesso aveva percorso. Dio, non lo salverai? Voltandoti verso Giuda hai detto: Quello che devi fare, fallo al più presto. Collocherai anche quest’uomo tra le pecore smarrite? E così, raffrontando la propria solitudine e la propria tristezza con quella di Ferreira, per la prima volta provò un po’ di rispetto per se stesso e di soddisfazione... e riuscì a ridere sommessamente. Poi, stendendosi sul duro e nudo suolo, attese l’abbraccio del sonno.
8.
Il giorno successivo l’interprete tornò da lui. «Allora, ci ha ripensato?» chiese. Questa volta non parlava come il gatto che gioca con il topo; la sua espressione era, in certo qual modo, severa. «Sawano glielo ha detto! Metta da parte la testardaggine. Non le diciamo di calpestare con sincerità. Non vuole farlo anche solo formalmente? Poi tutto andrà bene.» Il prete rimase silenzioso, gli occhi fissi su un punto nella parete. Non che l’eloquenza dell’altro lo irritasse, gli passava semplicemente attraverso le orecchie senza evocare alcun significato. «Andiamo, via! Non provochi altri guai! Glielo chiedo in tutta sincerità. Nemmeno per me è piacevole.» «Perché non mi appendete nella fossa?» «Il magistrato continua a dire che è meglio indurla a ragionare e ad accettare il nostro insegnamento.» Allacciando le mani intorno alle ginocchia, il prete scosse il capo come un bambino. L’interprete trasse un sospiro profondo e rimase in silenzio per un po’. Una mosca svolazzava con un basso ronzio di ali. «Capisco... bene, allora non si può far nulla.» Il rumore sordo del chiavistello rimbombò nelle orecchie del prete, e a quel rumore egli si rese conto che qualsiasi discorso ragionevole era finito. Non sapeva fino a che punto sarebbe riuscito a sopportare la tortura. Tuttavia, per un certo verso, essa non suscitava più nel suo corpo stremato il terrore che aveva risvegliato in lui quando vagava per le montagne. Adesso era onnubilato dal dolore. Sentiva che sarebbe stato meglio che la morte fosse giunta al più presto, se questo era l’unico modo per sfuggire a quella dolorosa tensione quotidiana. Persino vivere con l’angoscia nei confronti di Dio e della fede era una prospettiva triste. Nel suo cuore pregava segretamente affinché la stanchezza mentale e corporea gli portasse in fretta la morte. Dietro le palpebre, come un’allucinazione, fluttuava la testa di Garrpe che affondava nel mare. Come invidiava il suo compagno! Sì, come invidiava Garrpe ormai liberato da una simile angoscia! Il giorno dopo, come si era aspettato, non gli fu portata la prima colazione. La porta fu aperta verso mezzogiorno e un individuo grosso che non aveva mai visto, nudo sino alla cintola, mise la faccia inespressiva dentro la cella. Legò le sue mani dietro la schiena così strettamente che, non appena accennava a muovere il corpo, la corda gli tagliava i polsi e un grido involontario di dolore gli sfuggiva dai denti serrati. Mentre gli legava le mani, l’altro borbottava insulti che il prete non capiva bene. “Finalmente è giunto il momento” pensò, ma strano a dirsi, quel sentimento fu accompagnato da una freschezza e da un senso di esultanza che non aveva mai provato prima d’allora. Fu trascinato fuori. Nel cortile soffuso di luce solare c’erano tre funzionari, quattro guardie e l’interprete, tutti in fila in piedi, che lo fissavano. Il prete li guardò, soprattutto l’interprete, e un sorriso di trionfo gli aleggiò sul viso. Si disse che, quali che fossero le circostanze, nessun uomo riusciva a sfuggire completamente alla vanità, poi gioiosamente ricordò che fino a quel momento non aveva neppure notato quel particolare. L’individuo grosso prese senza fatica il prete tra le braccia e lo mise a cavalcioni di un cavallo senza sella. Più che un cavallo però, sembrava un mulo magro e affamato. L’animale prese a trotterellare seguito dai funzionari, dalle guardie e dall’interprete. La strada era già affollata di giapponesi che aspettavano di veder passare la fila e il prete sorrise loro dalla sua posizione a cavalcioni dell’animale. Vecchi, a bocca spalancata per lo stupore, bambini intenti a mordicchiare cetrioli, donne che inizialmente ridevano, lo fissavano come ebeti, poi, quando i loro occhi si incontravano con i suoi, si ritraevano terrorizzate. La luce gettava un’ombra diversa su ciascuna di quelle facce. Poi qualcosa, una specie di zolla marrone, lo colpì dietro l’orecchio: era un pezzo di sterco di cavallo che qualcuno gli aveva lanciato. Decise che non avrebbe lasciato che il sorriso abbandonasse le sue labbra. Stava cavalcando in groppa a un mulo per le vie di Nagasaki. Un altro uomo era entrato in Gerusalemme, anch’egli a cavallo di un mulo. Ed era stato quell’uomo a insegnargli che l’espressione più nobile sul volto di un uomo è l’accettazione gioiosa del male e dell’insulto. Avrebbe mantenuto quell’espressione sino alla fine. Era il volto di un cristiano in mezzo agli infedeli. Un gruppo di monaci buddisti, in segno di manifesta ostilità nei suoi confronti, si radunarono all’ombra di un gigantesco albero poi, avvicinatisi e affollatisi attorno al mulo, brandirono bastoni quasi a minacciarlo e a spaventarlo. Il prete guardò i volti che lo attorniavano, chiedendosi se tra questi avrebbe potuto trovare qualche segreto credente, ma fu inutile. Non c’era volto sul quale non fossero stampati ostilità, odio o curiosità. Poi, in mezzo a costoro, intravide qualcuno che sembrava proprio un cane implorante pietà. Inconsapevolmente il prete si irrigidì. Era Kichijiro. Vestito di stracci, Kichijiro stava nella prima fila in attesa. Quando i suoi occhi incontrarono quelli
del prete, si fece piccolo e subito cercò di nascondersi tra la folla. Ma il prete, dalla sua posizione sul mulo traballante, si rese conto di tutta la lunga strada che l’altro aveva fatto per seguirlo. Tra tutti gli infedeli quella era l’unica persona che conosceva. (“Va bene! Va bene! Ora non sono adirato. Nostro Signore non è adirato.”) Il prete fece un cenno in direzione di Kichijiro, quasi a dargli la consolazione che si dà al penitente dopo la confessione. Secondo i registri, quel giorno la folla scortò il prete da Hataka a Tasuyama e oltre, attraversando Goto. Quando i missionari venivano catturati, il magistrato, il giorno prima della punizione, li faceva trascinare per tutta Nagasaki in quel modo, come uno spettacolo. Il luogo che la processione attraversava era sempre il vecchio mercato di Nagasaki dove le case sono l’una a ridosso dell’altra e la gente si ammassa. Il giorno dopo quello spettacolo, venivano portati sul posto dell’esecuzione. Ai tempi di Omura Sumitada, quando fu aperto il porto di Nagasaki, Goto-machi era il territorio dove vivevano gli immigrati delle isole Goto e di lì si poteva vedere la baia di Nagasaki splendere al sole pomeridiano. La folla, che seguiva la processione facendosi strada a gomitate, si comportava come se si trattasse di una qualche festa e cercava di vedere lo strano barbaro straniero a cavalcioni di un cavallo senza sella. Quando il prete cercava di raddrizzare il corpo torturato, l’urlo di derisione si levava ancor più festante. Dapprima lui aveva cercato di sforzarsi a sorridere, ma il suo viso si era contratto e non gli era più possibile farlo. L’unica cosa che riusciva a fare era chiudere gli occhi e cercare di non vedere le facce che lo schernivano, le facce dai denti sporgenti. Si domandò se quell’uomo avesse sorriso dolcemente allorché la folla aveva circondato la residenza di Pilato con urla e ululati di furia. Si disse che anche lui non era riuscito a fare una cosa simile. «Hoc passionis tempore...» Le parole della preghiera gli caddero dalle labbra come sassi e, mentre continuava, gli venivano alle labbra con difficoltà sempre più grande. Era distrutto dal dolore tormentoso provocato dalla corda che gli dilaniava i polsi ogni volta che si muoveva, ma quello che più lo affliggeva era la sua incapacità di amare quella gente come l’aveva amata Cristo. «Bene, padre, come va? Nessuno viene ad aiutarla?» Era l’interprete che, avvicinatosi, urlò improvvisamente: «Solo voci piene di derisione alla sua destra e alla sua sinistra? E pensare che era venuto per loro in questo paese, eppure nessuno di loro sente di aver bisogno di lei. È un individuo inutile... inutile». «Eppure...» Per la prima volta il prete urlò con voce forte, mentre dalla groppa del cavallo guardava irosamente l’interprete, con occhi iniettati di sangue. «Eppure in questa folla forse c’è qualcuno che sta pregando nel silenzio del proprio cuore.» «Adesso le dirò una cosa, d’accordo? Molto tempo fa qui a Nagasaki c’erano undici chiese e duecentomila cristiani. E dove sono tutti ora? Dove si nascondono ora? Ci sono persone in mezzo a questa folla che un tempo erano cristiane, ma adesso si beffano di lei con tutte le loro forze per dimostrare agli altri che non sono cristiane.» «Mi insulti pure quanto vuole, non fa altro che infondermi coraggio.» «Stasera...» L’interprete rise battendo il palmo della mano sul ventre del cavallo. «D’accordo? Stasera abiurerà. Inoue lo ha detto molto chiaramente. Finora ogni volta che Inoue ha affermato che uno dei padri abiurerà non si è mai sbagliato. Ha avuto ragione per Sawano... avrà ragione anche per lei...» L’interprete si sfregò le mani con un gesto di totale fiducia, poi si ritrasse. «Per Sawano...» Quelle furono le ultime parole che rimasero nelle orecchie del prete. Sulla groppa nuda dell’animale tremò e tentò di scacciare quelle parole dalla mente. Al di là della baia un’enorme colonna di nubi bordate d’oro luccicavano nella luce pomeridiana. Per un motivo che il prete non riusciva a comprendere quelle nubi, nel loro grande candore rigonfio, sembravano un gigantesco castello sospeso nel cielo. Aveva visto spesso colonne di nubi bianche, ma mai prima d’ora avevano risvegliato tanta commozione nel suo cuore. Cominciò a capire la bellezza dell’inno cristiano che aveva sentito quando era arrivato in quel paese: «Siamo in cammino, siamo in cammino. Siamo in cammino verso il tempio del Paradiso... Verso il grande Tempio». La sua unica consolazione e il suo unico sostegno consistevano nel pensare che anche quell’uomo aveva provato il sapore della paura e aveva tremato. E poi c’era gioia nel pensiero di non essere solo. In quello stesso mare quei due contadini giapponesi legati a un palo avevano provato le stesse sofferenze per un giorno intero prima di giungere al lontano tempio del Paradiso. All’improvviso si sentì il petto pieno di gioia sfrenata all’idea di essere unito a quei due giapponesi, unito a Garrpe, unito a quell’uomo inchiodato sulla croce. E il volto di quell’uomo lo inseguiva come un’immagine vivida, vivente. Il Cristo sofferente! Il Cristo della sopportazione! Nelle profondità del cuore pregò perché il proprio volto potesse avvicinarsi al volto di quell’altro uomo. Alzando le fruste, i funzionari allontanarono la folla e la gente si sparpagliò come mosche, docilmente, senza opporre resistenza, con il terrore negli occhi; scostandosi per lasciar passare la processione, la guardarono allontanarsi. Finalmente il pomeriggio si concluse. Il sole del crepuscolo brillava sul tetto rosso di un tempio sulla sinistra della strada. Poco oltre la città, una montagna sembrava veleggiare nel cielo. Di nuovo sassi e pezzi di sterco volarono nell’aria e colpirono il prete sulla guancia. Camminando a fianco del cavallo, l’interprete insisteva sullo stesso argomento. «Via! Non insisto
perché faccia qualcosa di brutto. Abiuri! Dica una sola parola. La prego. Se lo farà, il cavallo non la riporterà più in prigione.» «Dove mi portate adesso?» «Nell’ufficio del magistrato. Non voglio farla soffrire. La prego! Non sto dicendo nulla di sbagliato. Basta che lei pronunci la parola “Abiuro”.» Mordendosi il labbro, il prete rimase silenzioso in groppa al cavallo. Il sangue colava dalla guancia lungo il mento. L’interprete lo guardò e continuò a camminare, tenendo una mano sul ventre del cavallo, con un’espressione triste sul volto. Chinatosi, il prete avanzò nella stanza completamente buia. All’improvviso fu bloccato da un lezzo orrendo. Era odore di urina. Il pavimento ne era tutto ricoperto e per un attimo lui rimase immobile cercando di padroneggiare il vomito. Dopo un po’, nell’oscurità, riuscì finalmente a distinguere le pareti dal pavimento e, mentre tastava con le dita sulla parete, avanzando e brancolando attorno alla stanza, andò a sbattere di colpo contro un’altra parete. Protese le braccia e si rese conto che riusciva a toccare entrambe le pareti con la punta delle dita. Questo gli diede una idea approssimativa di quanto misurasse la stanza. Tese l’orecchio, ma non riuscì a udire voci. Impossibile sapere in che parte dell’edificio si trovasse, ma il silenzio di morte gli dava la certezza che non c’era nessuno nei pressi. Le pareti erano di legno e, toccando la parte superiore, le sue dita trovarono una fessura grande e profonda. Dapprima pensò trattarsi di un varco tra le assi, ma in certo qual modo aveva anche la sensazione che non potesse essere così. Continuò a tastare e si rese conto che si trattava della lettera “L”. La lettera successiva era una “A”. Come un cieco continuò a tastare cercando le altre lettere e trovò «Laudate Eum». Oltre a questo le dita non trovarono altro. Probabilmente qualche missionario, gettato in prigione, aveva inciso quelle parole in latino per la persona che sarebbe venuta dopo di lui. Fintanto che era rimasto in quel luogo, quel missionario non aveva abiurato, era stato un uomo che bruciava di fede. E ora lì, tutto solo nell’oscurità, il prete, pensando a quello che era successo, provò una commozione che quasi lo fece piangere. Sentì di essere egli stesso protetto in qualche modo sino alla fine. Non sapeva che ora fosse della notte. Durante il lungo viaggio attraverso le strade verso l’ufficio del magistrato, l’interprete e i funzionari che lui non conosceva, avevano continuato a porgli le stesse domande. Da dove era venuto, a quale ordine apparteneva; quanti missionari c’erano a Macao. Ma non facevano pressioni perché rinunciasse alla sua fede. Persino l’interprete parve cambiare completamente musica, perché, con volto privo d’espressione, si era semplicemente limitato a compiere il proprio dovere traducendo le parole ai funzionari. Quando quell’assurdo interrogatorio ebbe fine, lo ricondussero nella sua cella. «Laudate Eum.» Appoggiando il capo al muro il prete ancora una volta ricominciò a pensare all’uomo che amava. Come un giovane potrebbe immaginare il volto di un caro amico lontano nei momenti di solitudine, il prete da molto tempo usava immaginare il volto di Cristo. E da quando era stato catturato – soprattutto durante le notti in cui era stato prigioniero nel boschetto dove aveva ascoltato il fruscio delle foglie – provava in petto una sensazione diversa non appena il volto di quell’uomo gli compariva dietro le palpebre abbassate. Ora nell’oscurità quel volto gli sembrava vicino. Dapprima rimase silenzioso, ma lo trafisse con uno sguardo addolorato. Quindi parve parlargli: “Quando soffri, io soffro con te. Ti sarò vicino sino alla fine”. Pensando a quel volto il prete pensava anche a Garrpe. Di lì a poco sarebbe stato di nuovo con Garrpe. La notte, nei suoi sogni, a volte aveva visto quella testa nera che inseguiva la barca e affondava in mare; e poi si vergognava moltissimo a pensare a se stesso che aveva abbandonato i cristiani. Quel pensiero era tanto intollerabile che a volte cercava di non pensare affatto a Garrpe. In lontananza udì una voce. Faceva pensare a due cani che stessero uggiolando e si azzannassero. Tese l’orecchio, ma il rumore era già finito e poi ricominciò continuando a lungo. Inconsapevolmente rise sommessamente, si era reso conto che si trattava di qualcuno che russava. Probabilmente una delle guardie si era profondamente addormentata, ubriaca di sake. Per qualche tempo l’uomo continuò a russare a intermittenza. Ora forte ora piano, come il suono di un flauto suonato male. E lui era lì in quella buia cella, sopraffatto dalla commozione di chi si trovi davanti alla morte, mentre un altro uomo stava russando spensieratamente: quel pensiero gli parve del tutto assurdo. Tra sé bisbigliò: “Perché la vita è così piena di grottesca ironia?” L’interprete aveva fiduciosamente affermato che lui quella sera avrebbe abiurato. (“Se solo conoscesse quali sono i miei veri sentimenti...”) Mentre quei pensieri gli sfrecciavano per la mente, il prete staccò il capo dal muro e rise dolcemente. Davanti ai suoi occhi fluttuò il volto tranquillo della guardia che russava in un sonno profondo. “Se russa in tal modo” si disse “non teme che io tenti di fuggire.” In ogni caso non aveva più la minima intenzione di fuggire. Solo per offrirsi un attimo di distrazione, spinse la porta con le mani, ma il saliscendi era chiuso dall’esterno e lui non riuscì a muoverla. In teoria sapeva che la morte era vicina ma, abbastanza stranamente, sembrava che il sentire non andasse al passo con il ragionare. Sì, la morte si stava avvicinando. Quando la guardia smise di russare, il prete fu circondato dal terribile silenzio della notte. Non che il silenzio della notte fosse del tutto privo di rumore. Così come l’oscurità fluttua sopra gli alberi, all’improvviso l’orrore della morte calò su di lui, riempiendolo di
terrore. Torcendosi le mani urlò, e poi il terrore indietreggiò come la marea. Ma ancora, come la marea, si avventò verso di lui. Cercò ardentemente di pregare Nostro Signore e a intermittenza gli tornavano alla mente le parole: «Il suo sudore divenne gocce di sangue». Mentre guardava il viso emaciato di quell’uomo, non c’era consolazione nel fatto che anche lui aveva provato lo stesso terrore davanti alla morte. Asciugandosi la fronte con la mano, il prete si alzò e cominciò a camminare per la stretta cella per distrarsi. Non poteva star fermo, doveva muoversi. Alla fine in lontananza udì una voce. Anche se quello fosse stato il boia venuto a torturarlo, era meglio della fredda oscurità che incideva nelle sue carni più profondamente di qualsiasi spada. Il prete appoggiò l’orecchio alla porta per sentire qualcosa di quello che diceva quella voce. Sembrava che qualcuno stesse rimproverando qualcun altro. Si udì la voce piena di derisione mischiata a una voce supplichevole. La discussione si interruppe per un po’, poi sembrò riprendere più vicino alla sua cella. Mentre ascoltava le voci, all’improvviso i suoi pensieri presero una direzione affatto diversa. Si disse che il motivo per cui l’oscurità era terrorizzante era ciò che restava della istintiva paura provata dall’uomo primitivo quando ancora non c’era luce. Era quello il pensiero folle che gli venne alla mente. «Non ti avevo detto di andartene subito?» Un uomo stava rimproverando qualcuno. Poi la persona che era stata rimproverata esclamava con voce lamentosa: «Sono cristiano» urlava. «Lasciatemi vedere il padre.» «Stai zitto! Se continui a urlare così, ti frusto!» «Frustami! Frustami!» La voce era continuamente mischiata a un’altra voce. «Chi è?» chiese un’altra voce ancora. «Mi sembra un matto. Sembra un mendicante, ma da ieri continua a ripetere che è cristiano.» Poi d’un tratto la voce di Kichijiro risuonò forte: «Padre, mi perdoni! Sono venuto a confessarmi e a ricevere l’assoluzione! Mi perdoni!» «Che cosa dici?» Seguì un tonfo come di un albero abbattuto, mentre Kichijiro veniva colpito dal carceriere. «Padre, mi perdonil» Il prete chiuse gli occhi e silenziosamente pronunciò le parole di assoluzione. Sulla lingua aveva un sapore amaro. «Sono nato debole. Chi è debole nel profondo del cuore non può morire da martire. Che cosa devo fare? Ahimè, perché sono nato?» La voce si spense come una brezza che va svanendo, e poi la si udì vagamente lontana. D’un tratto, davanti agli occhi del prete, aleggiò la visione di Kichijiro come era stato quando era ritornato a Goto: un uomo popolare presso i compagni cristiani. Se non vi fosse stata la persecuzione quell’uomo avrebbe senz’altro vissuto la sua vita da cristiano, felice e contento. «Perché sono nato? Perché?... Perché?...» Il prete si cacciò le dita nelle orecchie per scacciare quella voce che sembrava l’uggiolìo di un cane. Sì, aveva bisbigliato le parole di assoluzione per Kichijiro, ma la preghiera non era venuta dal profondo del suo cuore. Si era limitato a recitare le parole per un senso di dovere religioso. Per questo se le sentiva ancora pesare sulla lingua come un resto amaro di cibo. Era vero, il suo risentimento per Kichijiro adesso era svanito e tuttavia, nel profondo della sua memoria, era ancora inciso il ricordo del tradimento, l’odore del pesce essiccato che quell’individuo lo aveva costretto a mangiare, la sete bruciante che era seguita. Anche se non nutriva più sentimenti d’odio e di collera, non riusciva a cancellare dalla propria mente un senso di disprezzo. Di nuovo scandì con forza quelle parole di avvertimento che Cristo aveva rivolto a Giuda. Erano parole che, nel leggere la Bibbia tanto tempo prima, non aveva capito mai. E non soltanto quelle parole, ma tutto il ruolo di Giuda nella vita di quell’uomo era una cosa che non era mai riuscito a comprendere. Perché egli aveva incluso tra i discepoli l’uomo che alla fine lo avrebbe tradito? Pur sapendo quali fossero le vere intenzioni di Giuda, perché per tanto tempo aveva finto di non sapere nulla? Non era forse Giuda solo una marionetta di cui ci si serviva per la crocifissione di quell’uomo? E tuttavia... e tuttavia... se quell’uomo era amore, perché alla fine aveva respinto Giuda? Giuda si era impiccato nel campo di sangue; era stato messo da parte per sprofondare nell’oscurità eterna? Anche quando era stato seminarista e prete, quei dubbi erano sorti nella sua mente come bollicine sporche che si levano sulla superficie d’acqua di una palude. E in quei momenti aveva cercato di pensare a quelle bollicine come a cose che sporcavano la purezza della sua fede. Ma ora gli tornavano alla mente con un’insistenza cui non si poteva resistere. Sospirò, scuotendo la testa. Sarebbe venuto il Giudizio Universale. A nessun uomo era dato di comprendere tutti i misteri delle Scritture. Eppure lui voleva sapere, voleva scoprire. «Stasera sicuramente lei abiurerà» aveva detto in tono fiducioso l’interprete. Quanto somigliavano queste parole a quelle che quell’uomo aveva rivolto a Pietro: «Prima che il gallo canti stanotte mi rinnegherai tre volte». L’alba era ancora lontana; non era ancora l’ora del canto del gallo. Ah, la guardia aveva ricominciato a russare! Era come il rumore di un mulino a vento le cui pale girano nella brezza. Il prete sedette sul pavimento inzuppato di urina e rise come un idiota. Che strana cosa era l’uomo! Là fuori un ignorante che non temeva la morte russava stupidamente, ora piano ora forte, lì, addormentato come un maiale, apriva la grossa bocca e russava così. Gli pareva di vedere con i propri occhi la faccia di quella guardia. Una faccia grassa, piena di sake e chiazzata – la salute personificata – ma per le vittime quella faccia era terribilmente crudele. Per di più, quell’uomo non aveva una crudeltà aristocratica, era piuttosto la crudeltà di un uomo di basso ceto verso le bestie e gli animali più deboli di lui. Aveva visto uomini simili nelle campagne del Portogallo, e li conosceva bene.
Questo individuo non aveva la minima idea della sofferenza che sarebbe stata inflitta ad altri a causa del suo comportamento. Un simile uomo aveva ucciso quell’uomo il cui volto era il migliore e il più bello che si potesse sognare. Sì, e il fatto di essere disturbato quella notte, che era la notte più importante della sua vita, da un rumore così meschino e discordante, a un tratto lo riempì di collera. Sentì che giocavano con la sua vita e quando quel verso cessò per un momento lui picchiò sul muro ma le guardie, come quei discepoli che nel Getsemani dormivano del tutto indifferenti al tormento di quell’uomo, non si svegliarono. Di nuovo ricominciò a picchiare freneticamente sul muro. Poi si udì il rumore della porta che veniva aperta, e da lontano l’eco di piedi che si avvicinavano in fretta alla cella. «Padre, che cos’è successo? Che cosa c’è?» Era l’interprete. Faceva venire in mente un gatto che gioca con la preda. «È terribile! È terribile! Non sarebbe meglio se lei non fosse così testardo? Basterebbe che lei dicesse “abiuro”. Poi riuscirà a rilassare la sua mente tesa e si sentirà bene.» «È solo quell’uomo che russa!» rispose il prete nell’oscurità. All’improvviso l’interprete tacque, come stupito. «Lei pensa che qualcuno stia russando... voglio dire, Sawano, ha sentito quello che ha detto. Pensava che quel rumore fosse qualcuno che russa...» Il prete non sapeva che Ferreira era a fianco dell’interprete. «Sawano, gli dica di che cosa si tratta!» Il prete udì la voce di Ferreira, quella voce che tanto tempo prima aveva sentito così spesso... ora bassa e mesta. «Nessuno russa! Quello è il lamento dei cristiani appesi nella fossa!» Ferreira rimase immobile, la testa bassa come un vecchio animale. L’interprete, non smentendo quello che era, infilò il capo nella porta socchiusa e scrutò all’interno a lungo. Continuò ad attendere, ma non udì alcun rumore e, preoccupato, bisbigliò con voce roca: «Non penso che sia morto... Oh, no! Non è lecito a un cristiano porre fine alla vita che Dio gli ha dato. Sawano, il resto tocca a lei». E con quelle parole si voltò e scomparve alla vista, mentre i suoi passi echeggiavano nell’oscurità. Quando l’eco dei passi si fu spenta del tutto, Ferreira, silenziosamente, la testa bassa, non fece il minimo movimento. Il suo corpo sembrava fluttuare nell’aria come un fantasma. Sembrava sottile come un foglio di carta, piccolo come quello di un bambino. Sarebbe parso quasi impossibile anche solo stringergli la mano. «Eh!» disse mettendo il capo entro la fessura della porta. «Eh? Mi sente?» Non vi fu risposta e Ferreira continuò a ripetere le stesse parole. «Da qualche parte in quel muro» disse «dovrebbe trovare le lettere che io ho incise. “Laudate Eum.” Se non sono state cancellate dovrebbero essere sul muro di destra... sì, al centro... non vuole toccarle con le dita?» Ma dall’interno della cella non veniva il minimo rumore. C’era solo l’oscurità fonda in cui il prete giaceva accovacciato e attraverso la quale non sembrava possibile penetrare. «Ero anch’io qua dentro come lei» disse Ferreira pronunciando le parole chiaramente, separando le sillabe l’una dall’altra. «Ero imprigionato qui e quella notte è stata la più buia e la più fredda di qualunque altra notte della mia vita.» Il prete appoggiò pesantemente il capo alla parete di legno e ascoltò distratto le parole del vecchio. Anche senza che questi glielo dicesse, sapeva che quella notte era stata più buia di tutte le altre precedenti. In effetti, lo sapeva fin troppo bene. Il problema non era questo. Il problema era che non doveva lasciarsi sconfiggere dalle tentazioni di Ferreira, che era stato rinchiuso nell’oscurità come lui, e ora cercava di attirarlo sul suo stesso cammino. «Anch’io ho sentito quelle voci. Ho sentito i rantoli degli uomini appesi nella fossa.» E, proprio mentre stava finendo di parlare, di nuovo giunsero alle loro orecchie quelle voci che sembravano russare, ora piano ora forte. Ma adesso il prete conosceva la verità. Era il rantolo e il sussulto di uomini impotenti appesi nella fossa. Mentre lui se ne stava lì accovacciato al buio, qualcuno rantolava e il sangue gli sgocciolava dal naso e dalla bocca. E lui non aveva neppure volto la propria attenzione a questo, non aveva pronunciato neppure una preghiera, aveva riso. E quel pensiero lo sbalordì enormemente. Aveva trovato ridicolo il suono di quella voce e aveva riso forte. Nel suo orgoglio aveva creduto che soltanto lui quella notte fosse partecipe delle sofferenze di quell’uomo. Ma ecco che proprio accanto a lui c’erano esseri umani che partecipavano a quella sofferenza molto più di lui. “Perché questa follia” mormorò una voce che non era la sua. “E tu ti definisci un prete! Un prete che prende su di sé le sofferenze del suo prossimo!” Ad alta voce esclamò: «Signore, fino a questo momento ti sei dunque preso gioco di me?» «“Laudate Eum.” Sono stato io a incidere queste parole nel muro» ripeté Ferreira. «Non riesce a trovarle? Cerchi ancora.» «Lo so.» Preso dall’ira il prete urlò più forte di prima. «Taccia! Non ha il diritto di parlare così.» «Non ho il diritto. Questo è sicuro. Non ho il diritto. Ascoltando quei rantoli tutta la notte, non riuscii più a render grazia al Signore. Non ho abiurato perché mi hanno sospeso nella fossa. Io che ora le sto davanti sono stato appeso per tre giorni nella fossa piena di fetidi escrementi, ma non ho detto una sola parola che potesse tradire il mio Signore.» Ferreira alzò una voce che era un grugnito mentre urlava: «Il motivo per cui ho abiurato... È pronto? Ascolti! Sono stato messo qui e ho sentito le voci di quella gente per cui Dio non ha fatto nulla. Dio non ha fatto assolutamente nulla. Ho pregato con tutte le mie forze, ma Dio non ha fatto nulla». «Taccia!»
«D’accordo. Preghi! Ma quei cristiani sopportano sofferenze così terribili che lei non riesce neppure a comprendere. Da ieri – nel futuro – ora, in questo momento. Perché debbono soffrire in tal modo? E mentre tutto ciò accade, lei non fa nulla. E nemmeno Dio... fa nulla.» Il prete scosse freneticamente il capo, mettendosi le dita sulle orecchie. Ma la voce di Ferreira insieme con i lamenti dei cristiani penetravano impietosamente. “Basta! Basta! Signore, è adesso che tu dovresti infrangere il silenzio. Non devi rimanere in silenzio. Dimostrami che tu sei giustizia, che tu sei bontà, che tu sei amore. Devi dire qualcosa per mostrare al mondo che tu sei l’augusto.” Una grande ombra gli sfiorò il cuore come le ali di un uccello che voli sopra l’albero maestro di una nave. Le ali dell’uccello ora gli portarono alla mente il ricordo dei vari modi in cui erano morti i cristiani. E anche allora Dio era rimasto in silenzio. Quando la pioggia piena di vapori fluttuava sul mare lui era rimasto in silenzio. Quando l’uomo con un occhio solo era stato ucciso sotto i raggi cocenti del sole, lui non aveva detto nulla. Ma allora il prete era riuscito a sopportare o, più che a sopportare, a scacciare il terribile dubbio dalle soglie della propria mente. Ma adesso era diverso. Perché Dio continua a tacere mentre quelle voci gemebonde continuano? «Adesso sono nel cortile.» (Era la voce lamentosa di Ferreira che gli bisbigliava quelle parole.) «Quei tre disgraziati cristiani sono lì sospesi. Lo sono da quando lei è arrivato qui.» Il vecchio non mentiva. Mentre lui tendeva le orecchie, il rantolo che gli era parso proveniente da una sola bocca ad un tratto rivelò che era duplice: un rantolo alto (che rimase sempre tale) e che si univa a una voce bassa mescolandosi con quella. «Quando ho passato qui la notte, c’erano cinque persone sospese nella fossa. Cinque voci che il vento portava alle mie orecchie. Il funzionario diceva: “Se abiurerai quella gente sarà tolta immediatamente dalla fossa, sarà slegata e le loro ferite saranno medicate”. E io ho risposto: “Perché quella gente non abiura?” E il funzionario ha riso e mi ha risposto: “Hanno già abiurato varie volte. Ma fintanto che non abiuri tu, i contadini non potranno essere salvati”.» «E lei...» disse il prete tra le lacrime «avrebbe dovuto pregare...» «Ho pregato. Ho continuato a pregare. Ma la preghiera non è servita affatto ad alleviare le loro sofferenze. Dietro le orecchie è stata praticata loro una minuscola incisione: il sangue sgocciola lentamente attraverso questa incisione e attraverso la bocca e il naso, lo so perché ho provato questa stessa sofferenza sul mio corpo. La preghiera non serve affatto ad alleviare la sofferenza.» Il prete ricordò che, quando aveva visto per la prima volta Ferreira a Saishoji, aveva notato una cicatrice che sembrava una bruciatura alle tempie. Ricordò finanche il colore marrone della ferita, e ora tutta la scena gli apparve dietro le palpebre. Per scacciare quell’immagine continuava a picchiare il capo contro il muro. «In cambio di queste sofferenze terrene quella gente riceverà la ricompensa dell’eterna gioia» disse. «Non inganni se stesso» disse Ferreira. «Non mascheri la sua debolezza con belle parole.» «La mia debolezza?» Il prete scosse la testa. Ma non aveva fiducia in se stesso. «Che cosa vuol dire? Io credo nella salvezza di questi uomini...» «Lei si mette al disopra di loro. È preoccupato della sua salvezza. Se dice che abiurerà, questa gente sarà tolta dalla fossa. Sarà salvata dalla sofferenza. E lei rifiuta di farlo. È perché teme di tradire la Chiesa. Teme di diventare la feccia della Chiesa, come me.» Finora le parole di Ferreira erano esplose come un unico iroso respiro, ma poi la sua voce si affievolì poco a poco, mentre diceva: «Eppure io ero come lei. In quella fredda buia notte anch’io ero come è lei adesso. E tuttavia è amore il suo modo di comportarsi? Un prete dovrebbe vivere a imitazione di Cristo. Se Cristo fosse qui...» Per un momento Ferreira rimase in silenzio poi, all’improvviso, proruppe con voce forte: «Certamente Cristo per loro avrebbe abiurato». Poco a poco la notte cedeva il passo all’alba. La cella, che fino a quel momento era stata solo una massa di fonda oscurità, cominciò a illuminarsi fiocamente di una luce biancastra. «Cristo certamente avrebbe abiurato per aiutare gli uomini.» «No, no» rispose il prete coprendosi il volto con le mani e sforzandosi di parlare attraverso le dita. «No, no!» «Per amore, Cristo avrebbe abiurato. Anche se ciò avrebbe significato rinunciare a tutto quello che aveva.» «La smetta di tormentarmi. Se ne vada, via!» gridò violentemente il prete. Ma in quel momento il saliscendi fu aperto e la porta spalancata... e la luce bianca del mattino irruppe nella cella. «Ora lei compirà l’atto più doloroso d’amore che sia mai stato compiuto» disse Ferreira prendendo delicatamente il prete per una spalla. Barcollando mentre camminava, il prete trascinò i piedi per il corridoio. Passo dopo passo, avanzava come se le gambe fossero state legate a catene pesanti e plumbee, e Ferreira lo conduceva. Nella luce dolce del mattino il corridoio sembrava non finire mai, ma là in fondo, simili a tre bambole nere, c’erano l’interprete e due guardie. «Sawano, è finita? Dobbiamo tirar fuori il fumie?» Mentre parlava l’interprete posò al suolo la scatola che aveva in mano e, apertala, ne tolse una grande asse di legno. «Ora lei compirà l’atto più doloroso d’amore che sia mai stato compiuto» ripeté Ferreira con dolcezza. «I suoi confratelli nella Chiesa la giudicheranno come hanno giudicato me, ma c’è qualcosa di più importante della Chiesa, di più importante dell’opera missionaria: quello che lei ora sta per fare.» Ora il fumie era ai suoi piedi.
Una semplice lastra di rame fissata alla grigia asse di legno sporco sul quale le venature fanno pensare a piccole onde. Davanti a lui il volto contorto di Cristo, incoronato di spine e le braccia sottili aperte. Con occhi confusi e smarriti il prete abbassa silenziosamente il volto a guardare quell’altro volto, che vede per la prima volta da quando è giunto in questo paese. «Ah!» dice Ferreira. «Coraggio!» “Signore, da molto, molto tempo, innumerevoli volte ho pensato al tuo volto. L’ho fatto decine di volte, soprattutto da quando sono giunto in questo paese. Quando mi nascondevo nelle montagne di Tomogi; quando attraversavo le acque sulla piccola imbarcazione; quando erravo per le montagne; quando la notte giacevo in prigione... ogni volta che pregavo, il tuo volto mi compariva davanti; quando ero solo pensavo al tuo volto che impartiva una benedizione; quando mi hanno catturato il tuo volto, quello che avevi quando portavi la croce, mi ha dato vita. Questo volto è profondamente scolpito nel mio animo: nel mio cuore ha vissuto la cosa più bella e più preziosa che esista al mondo... E adesso con questo mio piede io ti calpesterò.” Compaiono i primi raggi di sole. La luce splende sul suo lungo collo proteso come quello di un pollo e sulle spalle ossute. Il prete afferra il fumie con le mani e lo avvicina agli occhi. Vorrebbe premersi sul volto quel volto calpestato da tanti piedi. Con espressione rattristata fissa intensamente l’uomo al centro del fumie, logorato e scavato perché calpestato di continuo. Una lacrima sta per cadergli dall’occhio. «Ah!» dice tremando. «Quanto dolore!» «È soltanto una formalità! Che cosa contano le formalità.» L’interprete lo incita con voce concitata. «Compia solo il gesto esteriore di calpestare.» Il prete solleva il piede. Prova in esso un dolore pesante, sordo. Quella non è una semplice formalità. Ora egli calpesterà ciò che ha considerato la cosa più bella della sua vita, ciò che ha ritenuto più puro, ciò che riempie gli ideali e i sogni di un essere umano. Come gli duole il piede! E poi il Cristo di bronzo gli dice: «Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini». Il prete posò il piede sul fumie. L’alba proruppe. E lontano il gallo cantò.
9.
Durante quell’estate piovve poco. Nella calma della sera Nagasaki era torrida come un bagno turco. Al sopraggiungere del crepuscolo la luce riflessa dalla baia rendeva il caldo ancora più insopportabile. Carri trainati da buoi arrivavano in città con i loro carichi di sacchi di paglia e le ruote luccicavano sollevando nuvole di polvere bianca. Ovunque l’aria era satura del puzzo di concime. È metà estate. Hanno appeso lanterne alle grondaie delle case, anche a quelle delle case commerciali. Le lanterne di queste ultime recano immagini di fiori, uccelli e insetti. Non è ancora calata la sera ma i bambini allegri sono riuniti a cantare la loro canzone: «Oh lanterna, addio, addio, addio Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce. Oh lanterna, addio, addio, addio, Se le lanci un sasso, la tua mano avvizzisce.» Appoggiato alla finestra canticchiava tra sé la canzone. Non capiva il significato di ciò che cantavano i bambini, ma quel canto aveva qualcosa di triste e di lamentoso. Non si capiva se venisse dal canto stesso o dal cuore della persona che stava cantando. Nella casa di fronte una donna con lunghe trecce che scendevano sulla schiena stava sistemando pesche, giuggiole e fagioli su un ripiano. Era il ripiano per gli spiriti dei morti ed era una delle cerimonie che i giapponesi eseguivano per consolare gli spiriti che il quindicesimo giorno si supponeva tornassero alle loro case. Per lui questo non era più uno spettacolo raro. Ricordava vagamente di aver cercato nel dizionario olandese che gli aveva dato Ferreira e la traduzione che vi aveva trovato era la parola “hetterffest”. I bambini ora avevano formato una fila per giocare e lo guardavano mentre lui stava appoggiato alla finestra. «Apostata Paolo! Apostata Paolo!» continuavano a gridare. Alcuni lanciarono persino sassi attraverso la finestra. «Cattivi ragazzi!» Aveva parlato la donna dai capelli lunghi, girandosi per rimproverarli e scacciarli di lì. Lui li guardò correre via ed ebbe un sorriso mesto. Pensò alla festa di Ognissanti a Lisbona, riflettendo su quanto somigliasse ai festeggiamenti Urabon, allorché alle finestre delle case di Lisbona si esponevano candele accese. La sua casa a Sotouramachi sorgeva su uno dei tanti pendii di Nagasaki. Non gli era consentito di uscire senza il permesso del magistrato. La sua unica consolazione era di appoggiarsi alla finestra e guardare la gente che andava e veniva. Al mattino, donne con cassette di verdura sul capo gli passavano davanti per entrare in città arrivando da Omura e da Isahaya. A mezzogiorno passavano uomini con il solo perizoma addosso, cantando con voce tonante e trainavano cavalli magri con carichi sulla groppa. Alla sera scendevano il pendio bonzi che facevano tintinnare le campanelle. Guardava quel paesaggio giapponese assorbendo ogni particolare, come se in seguito dovesse descriverlo a qualcuno nel proprio paese. Ma poi gli veniva in mente che non avrebbe mai più rivisto la sua terra natia e un amaro sorriso di rassegnazione gli aleggiava sulle guance infossate. In tali occasioni, quando rifletteva su tutta quella vicenda, gli si levavano in petto sentimenti di disperazione. Ignorava se i missionari di Macao e di Goa avessero saputo che aveva abiurato. Ma intuiva che la notizia probabilmente li aveva raggiunti attraverso i mercanti olandesi che avevano il permesso di entrare nel paese a Dejima. E questo significava che era stato espulso dalla missione. E non solo era stato espulso dalla missione, ma anche privato di tutti i suoi diritti di prete e forse anche considerato un rinnegato dai missionari. «Che mi importa di tutto questo? Non sono loro che giudicano il mio cuore ma solo Nostro Signore» mormorava, scuotendo il capo e mordendosi le labbra. Eppure c’erano notti in cui una visione gli compariva all’improvviso davanti agli occhi e il pensiero straziante gli lacerava l’animo. Poi, del tutto inconsapevolmente, gridava e sobbalzava sul letto: l’Inquisizione, proprio come il Giudizio Universale nell’Apocalisse, lo stava braccando in modo vivo e realistico. “Che cosa capite, voi superiori di Macao, voi che state in Europa?” Voleva trovarsi faccia a faccia con loro nell’oscurità e parlare per difendersi. “Voi vivete una vita spensierata e tranquilla e sicura in un luogo ove non esistono bufere e non esistono torture... è lì che voi svolgete il vostro apostolato. È lì che siete stimati grandi ministri di Dio. Mandate i vostri soldati nel frenetico tumulto dei campi di battaglia. Ma i generali che se ne stanno al caldo davanti al fuoco in una tenda non dovrebbero rimproverare i soldati che sono fatti prigionieri...” (Ma no, questa è solo una giustificazione per me stesso, mi sto ingannando.) Il prete scuoteva il capo debolmente. (Perché tento ancora questa squallida autodifesa?) “Sono caduto. Ma, oh Signore, tu solo sai che non ho rinunciato alla mia fede. Il clero si chiederà perché sia caduto. Forse perché la tortura della fossa era insopportabile? Sì. Non ho potuto sopportare
i lamenti dei contadini sospesi nella fossa. Mentre Ferreira mi parlava, diceva quelle parole tentatrici, ho pensato che se avessi abiurato, quei poveri contadini sarebbero stati salvi. Sì, è stato così! Eppure, in ultima analisi, mi domando se tutte queste chiacchiere sull’amore non siano alla fin fine solo una scusa per giustificare la mia debolezza. “Lo riconosco. Non nascondo la mia debolezza. Mi chiedo se vi sia differenza tra Kichijiro e me. Eppure, più di questo, so che il mio Signore è diverso da quel Dio che si va predicando nelle chiese.” Il ricordo di quel fumie, un’immagine bruciante, restava sempre dietro le sue palpebre. L’interprete gli aveva messo sotto i piedi un’asse di legno. Su di essa c’era una lastra di rame su cui un artigiano giapponese aveva inciso il volto di quell’uomo. Eppure il volto era diverso da quello che il prete aveva guardato tante volte in Portogallo, a Roma, a Goa e a Macao. Non era un Cristo dal volto soffuso di maestà e di gloria; nemmeno era un volto abbellito dalla sopportazione del dolore e nemmeno era un volto spirante la forza di una volontà che ha respinto la tentazione. Il volto dell’uomo che era giaciuto ai suoi piedi era infossato e completamente stremato. Molti giapponesi lo avevano calpestato, cosicché il bordo di legno della lastra era annerito con le impronte delle loro dita. E lo stesso volto era concavo, smussato da quel continuo calpestare di piedi. Nel dolore quel volto lo aveva guardato e gli occhi avevano detto supplichevoli: “Calpesta! Calpesta! Sono qui per essere calpestato da te”. Ogni giorno l’otona o qualche importante personaggio lo portava fuori per l’ispezione. L’otona era il rappresentante della città. Ogni mese arrivava con un cambio di abiti e poi lo conduceva nell’ufficio del magistrato. C’erano anche volte in cui, attraverso l’otona, egli veniva convocato dai funzionari e riportato all’ufficio del magistrato. Lì gli venivano mostrati certi oggetti sui quali i funzionari non sapevano dare un parere ed era suo compito dire se erano o meno cristiani. Gli stranieri in arrivo da Macao avevano in loro possesso ogni sorta di strane mercanzie e solo lui o Ferreira erano in grado di giudicare subito se quegli oggetti appartenessero o no alla categoria di quelli cristiani proibiti. Fatto questo lavoro, gli davano dei dolci o del denaro come ricompensa. Ogni volta che andava all’ufficio del magistrato a Hakata, trovava lo stesso vecchio interprete e gli stessi funzionari e tutti lo accoglievano sempre cortesemente. Non si accennava nemmeno lontanamente a umiliarlo o a trattarlo come un criminale. Anzi, l’interprete si comportava come se non ricordasse nulla di quanto era successo in passato. Quanto a lui, si limitava a sorridere, come se non fosse successo mai niente. Eppure dal momento in cui poneva piede in quel luogo, provava un dolore lacerante che gli riportava un ricordo cui nessuno avrebbe accennato, ma che sempre doveva essere evitato. Specialmente quando passava per l’anticamera, perché di lì riusciva a vedere il corridoio buio poco più oltre, verso il cortile. Era là che in quella bianca mattina era finito tra le braccia di Ferreira. E allora, frettolosamente e con imbarazzo, scostava lo sguardo. Quanto a Ferreira, non gli era consentito incontrarlo liberamente. Sapeva che Ferreira abitava a Teramachi, vicino a Saishoji, ma non avevano l’autorizzazione a scambiarsi visite. L’unica volta in cui si incontravano era quando venivano con l’otona all’ufficio del magistrato. Anche Ferreira era scortato come lui. Entrambi indossavano le vesti ricevute all’ufficio del magistrato e si limitavano a salutarsi nel loro strano giapponese, in modo che l’otona potesse capire quello che si dicevano. Nell’ufficio del magistrato fingeva la massima sincerità, ma era impossibile esprimere in parole ciò che provava per Ferreira. In effetti nel suo cuore c’era quel miscuglio di sentimenti che alberga nei cuori di due uomini che si affrontano. Entrambi provavano odio e disprezzo per l’altro. Tuttavia, per quanto lo riguardava, se odiava Ferreira non era perché questi lo aveva portato a cedere (per questo non provava né odio né risentimento), ma perché in Ferreira riusciva a ritrovare la propria ferita profonda, intatta. Gli riusciva insopportabile vedere il proprio brutto volto in quello specchio che era Ferreira... Ferreira seduto davanti a lui, vestito con gli stessi abiti giapponesi, Ferreira che usava lo stesso linguaggio giapponese e che, come lui, era stato espulso dalla Chiesa. «Ah! Ah! Ah!» esclamava Ferreira con la sua voce cordiale e servile mentre giungeva davanti ai funzionari. «La ditta olandese è giunta a Edo? Il mese scorso, quando ero a Dejima, avevano detto che sarebbero venuti.» Guardava Ferreira in silenzio, osservandone gli occhi infossati e le spalle cadenti, ascoltando la voce roca. Il sole aveva illuminato quelle spalle. A Saishoji, dove si erano visti per la prima volta, i raggi del sole avevano illuminato quelle spalle. I suoi sentimenti per Ferreira non erano soltanto di disprezzo e di odio; c’era anche un senso di compassione, un senso comune di autocommiserazione di due uomini che dividevano il medesimo destino. Sì, loro erano proprio due brutti gemelli, rifletté all’improvviso guardando la schiena di Ferreira. Ognuno odiava la bruttezza dell’altro, si disprezzavano, ma ecco che cos’erano: due gemelli inseparabili. Quando il lavoro all’ufficio del magistrato era finito, di solito era già sera. I pipistrelli svolazzavano tra il cancello e gli alberi, svolazzavano nel cielo purpureo. Gli otona si facevano un cenno accorto e se ne andavano, l’uno a destra l’altro a sinistra, con quegli stranieri che erano stati affidati alle loro cure. Mentre si allontanava, si voltava furtivamente a guardare Ferreira. Anche Ferreira gli lanciava un’occhiata. Non si sarebbero rivisti fino al mese successivo. E quando si fossero visti, nessuno dei due sarebbe stato in grado di scandagliare quanto fosse profonda la solitudine dell’altro.
10. ESTRATTI DAL DIARIO DI JONASSEN IMPIEGATO PRESSO LA COMPAGNIA OLANDESE, DEJIMA, NAGASAKI
Luglio 1644 (giugno, il primo anno di Shoho) 3 luglio. Tre giunche cinesi hanno lasciato il porto. Ottenuto per il Lillo il permesso di partire il 5. Per domani bisogna provvederlo di argento, rifornimenti militari e merci varie, e finire tutti i preparativi. 8 luglio. Regolato gli ultimi conti con i mercanti, esperti di moneta, proprietari di case, e con il signor Shiroemon. Scritto, su disposizione del capo, ordinazioni di merce per Olanda, Costa del Coromandel e Siam, da fornire con il prossimo viaggio. 9 luglio. Nella casa di un cittadino di qui hanno scoperto un’immagine della Vergine Maria. Tutta la famiglia è stata immediatamente mandata in prigione e interrogata. Di conseguenza l’uomo che gliela aveva venduta è stato scovato e interrogato. Si dice che padre Sawano Chuan, un apostata, e padre Rodrigues, un altro apostata portoghese, fossero presenti all’interrogatorio. Tre mesi fa una medaglia con l’immagine di un santo venne trovata in casa di un cittadino del posto. Ho sentito dire che tutti i membri della famiglia furono arrestati e messi alla tortura perché abbandonassero la fede; ma essi rifiutarono l’abiura. Padre Rodrigues, l’apostata portoghese, che era fra i testimoni, più volte si appellò al governo per la grazia, ma non venne ascoltato. Furono condannati a morte. Si dice che l’uomo, la moglie e i due figli ebbero rasata metà del capo e, in groppa a miseri cavalli, vennero mostrati in giro per la città per quattro giorni. Ho sentito che i genitori sono stati giustiziati l’altro giorno mediante impiccagione per i piedi, e che i figli sono stati messi di nuovo in prigione dopo aver assistito a quello spettacolo. Verso sera è arrivata in porto una giunca cinese. Ha un carico di zucchero, vasellame, e una piccola quantità di seta. 1º agosto. È arrivata da Fuchow una giunca cinese con merci varie a bordo. Verso le dieci la sentinella ha avvistato un vascello in navigazione sei miglia al largo della baia di Nagasaki. 2 agosto. Nella mattinata la nave summenzionata ha cominciato a scaricare ed è a buon punto. Verso mezzogiorno il segretario del governatore coi suoi aiutanti è venuto nella mia stanza seguito da un gruppo di interpreti, e mi ha interrogato per un paio d’ore. Questo perché Sawano Chuan, l’apostata, che abita a Nagasaki, e Rodrigues, il prete apostata portoghese, li hanno informati che a Macao avevano stabilito di mandare dei preti in Giappone a bordo di navi olandesi provenienti dall’India. Secondo Sawano, i preti dovrebbero in seguito nascondersi in Giappone, occupati in umili lavori di bordo come dipendenti degli olandesi. Il segretario ci ha messo in guardia, dicendo che la Compagnia si troverebbe in serie difficoltà se dovesse accadere una cosa del genere, e ci ha ammoniti a essere molto guardinghi. Se in futuro un prete dovesse venire in Giappone con una nave nostra e trovando impossibile introdursi di frodo nel paese per via della stretta sorveglianza tentasse di ripartire con una nave nostra, e fosse catturato, questo fatto segnerebbe anche la rovina degli olandesi. Il segretario ha dichiarato che gli olandesi, dal momento che si dicono sudditi di Sua Maestà Imperiale e del Giappone, andrebbero incontro naturalmente alla medesima punizione che spetta ai giapponesi; e mi ha consegnato un documento in lingua giapponese, emesso dal governatore, che dice quanto segue: Traduzione del documento Padre Sawano, che venne arrestato l’anno scorso dal re di Hakata, ha testimoniato a Edo davanti alle autorità supreme che ci sono molti cattolici romani fra gli olandesi e in Olanda. Ha inoltre affermato che in Cambogia gli olandesi avevano incontrato dei preti e si erano dichiarati della medesima fede, e che era stato stabilito che dei preti dovessero entrare nella Compagnia olandese in Europa, come operai o marinai, per imbarcarsi alla volta di Nagasaki, in Giappone, su navi della Compagnia. Il governo era incredulo, e sospettava che Sawano si proponesse di mettere in difficoltà gli olandesi, essendo sia i portoghesi sia gli spagnoli grandi nemici degli olandesi, testimoniando contro di loro. Ma Sawano Chuan ha asserito che questa non era menzogna ma verità. Per questa ragione il governatore ordina al comandante di indagare se vi siano cattolici romani fra gli ufficiali e la ciurma. Nel caso vi siano, lo comunichi. Se dovesse accadere che un cattolico romano venga in Giappone su una nave olandese, senza che il fatto sia comunicato al governatore, il comandante stesso si troverebbe in gravi difficoltà. 3 agosto. Verso sera, finito di scaricare la nave menzionata prima. Il governatore oggi ha chiesto se a
bordo di quella nave ci fosse un cannoniere in grado di manovrare un mortaio. Mandato Paulus Ver, un vicecommesso, a bordo per fare indagini, ma non ce n’era nessuno. Comunicato in tal senso. Il governatore mi ha ordinato di fare indagini a questo proposito in ogni nave che verrà d’ora in poi, e di comunicare se ce ne fosse qualcuno. 4 agosto. In mattinata il signor Honjo, samurai decano presso il governo, ha ispezionato la nave perquisendo minuziosamente in tutti gli angoli, persino in ogni cassa. Ha detto che questa indagine era dovuta agli ex preti di Nagasaki, i quali hanno testimoniato alle autorità supreme che fra gli olandesi ci sono dei cattolici romani, e che questi potrebbero arrivare a bordo di navi olandesi. Se non vi fosse stato questo nuovo sospetto, ha detto, l’ispezione sarebbe stata meno rigorosa rispetto all’anno precedente, e questo ha spiegato anche agli ufficiali della nave. In osservanza alle loro richieste mi sono recato a bordo io stesso e, in loro presenza, ho avvisato la ciurma che se qualcuno aveva nascosto cose che avessero a che fare con la religione cattolica romana, doveva tirarle fuori, e non sarebbe incorso in nessuna punizione. A questo risposero tutti che non avevano nulla di nascosto, e io ho letto ad alta voce le leggi e le regole che la ciurma è tenuta a osservare. Poiché il signor Honjo desiderava sapere che cosa avevo detto, gliel’ho spiegato dettagliatamente. Dopo di che se ne sono andati dicendo che l’avrebbero riferito al governatore per placare la sua preoccupazione. Verso sera è arrivata in porto una giunca cinese, da Chüanchow. Il carico principale era di garza, raso stampato, crêpe-de-chine e altri tessuti, di un valore calcolato in ottanta kan; c’erano inoltre zucchero e merci varie. 7 agosto. I due figli di quei coniugi giustiziati, menzionati prima, legati e caricati assieme a un’altra vittima in groppa a miseri cavalli, sono passati nei pressi della Compagnia, avviati al luogo dell’esecuzione, dove sono stati decapitati. 1645 (novembre, dicembre, secondo anno di Shoho) 19 novembre. Da Nanchino è arrivata una giunca cinese con mercanzia del valore di otto o novecento kan comprendente seta cruda bianca, garza, raso stampato, broccato d’oro, damasco e così via. Ci ha portato notizia che due o tre giunche con carichi pesanti dovrebbero arrivare qui fra un mese e mezzo o due. Ci hanno detto che laggiù potrebbero ottenere facilmente il permesso di salpare per il Giappone se solo pagassero all’alto funzionario le tasse d’uso, che variano da cento a seicento tael in proporzione al quantitativo dei carichi. 26 novembre. Una piccola giunca ha fatto vela qui da Chang-chew (forse Chang-chow) con un carico di lino, allume e vasi in quantità superiore ai due chests. 29 novembre. In mattinata sono venuti alla Compagnia un paio di interpreti dietro richiesta del governatore, e mi hanno mostrato un versetto in lingua olandese stampato sotto un’immagine della Vergine Maria, che dice «Ave, piena di grazia, il Signore è con te, benedetta sii tu fra le donne (Luca 1.28).» Hanno detto che l’immagine proveniva da un bonzo vicino a Shimonoseki e mi hanno chiesto quale fosse la lingua e quale il significato. Hanno anche detto che padre Rodrigues, l’apostata portoghese, e Sawano Chuan avevano affermato di non esser capaci di capire la frase perché non era scritta né in latino né in portoghese né in italiano. Era l’Ave Maria in olandese, ed era stata stampata da un belga che conosce la nostra lingua. Senza dubbio l’immagine deve essere stata importata con la nostra nave, ma ho deciso di non dir nulla finché non si fossero fatte ulteriori indagini. Quanto alle figure ho dato la risposta giusta dal momento che padre Rodrigues e Sawano Chuan dovevano avergliele già spiegate. 30 novembre. Bene. Al mattino presto, fatto portare a bordo il timone e la polvere da sparo e finito di caricare il resto. A mezzogiorno, andato alla nave, fatto l’appello, consegnato i documenti. Tornato alla Compagnia, intrattenuto Bonjoy e i suoi aiutanti con cibo e bevande. Prima dell’imbrunire il vento ha girato a nord-ovest e l’Overschie non è partita. 5 dicembre. Verso mezzogiorno l’interprete è venuto a chiedermi le località d’acquisto delle merci che importiamo. Gli ho risposto che Cina e Olanda sono le fonti principali di approvvigionamento. Voleva sapere se sarebbe seguito qualche inconveniente nell’eventualità che i cinesi smettessero di venire. Ho tentato di ottenere informazioni sui preti apostati sin da quando sono arrivato in Giappone. Si dice che un giapponese di nome Tommaso Araki abbia soggiornato a Roma per parecchio tempo, e sia anche stato per un po’ camerlengo del Papa. Si dichiarò cristiano alle autorità parecchie volte, ma il governatore lo prese per pazzo a causa dell’età e lo lasciò stare. In seguito fu appeso nella fossa per tutt’un giorno e una notte e abiurò. Morì, tuttavia, con la fede nel cuore. Adesso ne rimangono in vita soltanto due: uno è un portoghese chiamato Chuan che fu qui padre provinciale della Compagnia di Gesù e ha un’anima nera; l’altro un prete di nome Rodrigues, di Lisbona, Portogallo, il quale calpestò un’immagine sacra nell’ufficio del governatore. Tutti e due vivono oggi a Nagasaki. 9 dicembre. Offerto al signor Saburozaemon una cassettina contenente gli stessi unguenti assortiti che sono stati donati all’imperatore e al signore di Chikugo, e altri medicamenti, cassettina accettata con piacere. Hanno detto che il governatore è rimasto deliziato nel vedere l’acclusa lista che spiega in giapponese l’effetto di ciascuno. Una nave proveniente da Fuchow è entrata in porto in serata. 15 dicembre. Cinque giunche cinesi hanno lasciato il porto. 18 dicembre. Quattro o cinque membri della ciurma di una giunca proveniente da Nanchino hanno
chiesto il permesso di andare nel Tonkino o Cochin a bordo di un’altra giunca cinese; ma la loro richiesta è stata respinta dal governatore. Uno dei proprietari di case dell’isola ha sentito dire che l’apostata Chuan stava scrivendo diverse cose sul conto di olandesi e portoghesi per mandarle al più presto alla corte imperiale. Io quasi auguro la morte a quella canaglia senza Dio: la nostra Compagnia avrà soltanto dei guai per causa sua. Iddio nondimeno ci proteggerà. Nel pomeriggio due navi giapponesi hanno attraccato davanti alla Compagnia. A bordo di una di esse partiremo noi, l’altra caricherà i cammelli. Verso sera sono arrivati alla Compagnia gli interpreti, portando con loro dei servi per accompagnarci a Kamigata. Fra questi c’era un lavandaio che parlava un po’ di olandese. Volevo che temporaneamente venisse con noi come cuoco, ma Denbe e Kichibe mi han detto che il governatore ci aveva proibito di prendere gente che parlasse olandese. Non gli ho creduto, immaginando che fossero contrari alla presenza di quell’uomo solamente perché volevano condurre gli affari a modo loro. Così gli ho detto che per noi le sole lingue indispensabili sono il giapponese e l’olandese, e che è il portoghese, e non l’olandese, la più aborrita delle lingue. Non c’era mai stato un solo cristiano, gli ho detto, che parlasse olandese, mentre potevo subito nominare dozzine di cristiani che parlano portoghese. 23 dicembre. Ha lasciato il porto una piccola giunca proveniente da Fuchow. Verso sera una grossa giunca cinese è arrivata all’imboccatura della baia, e, a causa del vento contrario, a notte è stata rimorchiata fino a Nagasaki da una miriade di barche a remi. A bordo c’era molta gente che sventolava bandierine di seta, e faceva un gran chiasso con tamburi e charamelas. A Nagasaki, primo giorno di gennaio. Un uomo va in giro per le strade, di casa in casa, battendo su un tamburo che assomiglia a un piccolo tam-tam e suonando il flauto, mentre donne e bambini, affacciati alle finestre, gli regalano dei soldini. È in questo giorno che due o tre mendicanti dei dintorni di Funatsu e Kakuibara si uniscono in gruppo e, con addosso dei cappelli gallonati, vanno in giro a cantare una canzone che si chiama Yara. 2 gennaio. Nelle case dei commercianti hanno inizio i primi affari dell’anno, e allo spuntare del giorno essi adornano le botteghe provvedendo le porte di tendine nuove. Il venditore ambulante di oloturie gira di casa in casa. 3 gennaio. In tutte le città gli anziani vanno all’ufficio del magistrato a chiedere il fumie. 4 gennaio. La gente si prepara alla pratica del fumie. In questo giorno, arrivando da Edo, Imazakara, Funatsu e Fukuro, l’otona e i cittadini più autorevoli vanno a ricevere la piastra del fumie e a controllare che in ogni casa si osservi la pratica di calpestare il fumie. Le famiglie al completo si sono date da fare per pulire la strada, e tutte aspettano ora tranquillamente l’arrivo dell’otona e dei cittadini autorevoli. Infine risuona da lontano l’annuncio, una voce che sembra un canto: «Sono arrivati...»; e in ogni casa, in una stanza adiacente all’ingresso, tutti i membri della famiglia stanno in fila, aspettando diligentemente la cerimonia che sta per compiersi. Il fumie misura da venti a ventun centimetri in lunghezza e da dieci a quindici in larghezza; e su di esso è attaccata un’immagine della Vergine con il Bambino. Il primo a calpestarla è il padre di casa, poi la moglie e i figli. La madre deve calpestarla tenendo il suo piccolo fra le braccia. Se in casa c’è un malato, anche a lui si fa toccare il fumie con i piedi, in presenza dei funzionari, senza rimuoverlo dal letto. Il 4 gennaio ricevette improvvisamente una chiamata dall’ufficio del magistrato. L’interprete era arrivato con un palanchino. Non c’era vento, ma il cielo era cupo e nuvoloso; faceva piuttosto freddo, e dal giorno avanti (forse a causa della cerimonia del fumie?) la strada in declivio aveva cambiato totalmente aspetto. Adesso infatti era diventata mortalmente calma e silenziosa. Nell’ufficio del magistrato di Honhakata era in attesa un funzionario in abito da cerimonia. «Il magistrato ti aspetta» disse. Il signore di Chikugo stava accosciato, il busto eretto, in una stanza dove era posato un unico braciere. Udendo il rumore dei passi, girò verso il prete tutta la testa dalle grosse orecchie. Attorno alle guance e alle labbra vagava un sorriso; ma non c’era riso nei suoi occhi. «Salute!» disse lui tranquillamente. Dopo l’abiura questo era il suo primo incontro con il magistrato; ma adesso non provava nessun senso di vergogna alla presenza di quell’uomo. Non era contro il signore di Chikugo e contro i giapponesi che aveva combattuto. A poco a poco era arrivato a capire che aveva combattuto contro la sua stessa fede. Ma era ben difficile aspettarsi che il signore di Chikugo potesse comprendere una cosa del genere. «È passato molto tempo dacché ci siamo visti» gli rispose Inoue con un cenno del capo, mentre stendeva le mani sopra il braciere. «Immagino che adesso si sarà abituato a Nagasaki.» Poi chiese al prete se patisse qualche disagio: ché, se così era, doveva subito dirlo. Il prete si accorse immediatamente che il magistrato stava cercando di evitare ogni accenno al fatto dell’abiura. Era per un riguardo ai suoi sentimenti? O era semplicemente la sicurezza del vincitore? Il prete alzava di tanto in tanto gli occhi, che teneva abbassati, a scrutare il volto dell’altro, ma la fisionomia senza espressione del vecchio non gli diceva nulla. «Entro il mese, sarà bene che lei vada a Edo ad abitare. Là c’è una casa pronta per lei, padre. È una casa a Kobinatacho, il posto dove abitavo io un tempo.»
L’aveva usata deliberatamente la parola “padre”, il signore di Chikugo? Essa penetrò crudelmente nella carne del prete. «E poi, dal momento che ormai passerà la vita in Giappone, sarebbe bene che lei prendesse un nome giapponese. Per fortuna, è morto un uomo che si chiamava Okada San’emon. Quando andrà a Edo, potrà prendere il suo nome così come sta.» Il magistrato pronunciò quelle parole d’un fiato, sfregandosi le mani che teneva stese sul braciere. «Quell’uomo aveva una moglie» continuò. «Non è opportuno che lei, padre, rimanga sempre solo; così può prenderla come moglie sua.» Il prete era stato ad ascoltare quelle parole con gli occhi bassi. Dietro le palpebre gli si presentò l’immagine di una china lungo la quale lui prendeva a scivolare senza fine. Resistere, rifiutare, ormai non era possibile. Poteva essergli indifferente adottare il nome di un giapponese, ma non aveva intenzione di prenderne la moglie. «Allora?» domandò Inoue. «Benissimo.» Annuì stringendosi nelle spalle; e un senso di esausta rassegnazione si impadronì di tutto il suo essere. «Lei è ricorso a ogni genere di oltraggi: se lei solo, ora, comprende i miei sentimenti, è sufficiente. Anche se i cristiani e il clero guardano a me come a una macchia nella storia della missione, ormai non mi importa più.» «Gliel’ho detto. Questo nostro paese non è adatto all’insegnamento del cristianesimo. Il cristianesimo qui non può mettere radici, ecco tutto.» Il prete ricordò come Ferreira avesse detto esattamente la stessa cosa a Saishoji. «Padre, lei non è stato sconfitto da me.» Il signore di Chikugo parlava con lo sguardo fisso alla cenere del braciere. «Lei è stato sconfitto da questa palude che è il Giappone.» «No, no...» Il prete parlò alzando involontariamente la voce. «La mia lotta era con il cristianesimo, all’interno del mio stesso cuore.» «Mi sorprende!» Un sorriso cinico passò sul volto di Inoue. «Mi è stato riferito che lei avrebbe detto a Ferreira che è stato il Cristo del fumie a dirle di calpestarlo, e che questa fu la ragione per cui lei lo fece. Non avrà magari voluto ingannare se stesso? Ammantare in tal guisa la sua debolezza? Io, Inoue, non posso credere che queste siano davvero parole cristiane.» «Non mi importa quello che pensa!» disse il prete; abbassò gli occhi e posò entrambe le mani sulle ginocchia. «Può ingannare altre persone, ma non me» replicò Inoue con voce fredda. «Ho già posto la domanda ad altri padri: “Qual è la differenza fra la misericordia del Dio cristiano e quella del Budda?” Perché in Giappone la salvezza viene dalla misericordia del Budda cui l’uomo si affida a causa della sua irrimediabile debolezza. E un padre mi ha dato una risposta chiara: “La salvezza di cui parla il cristianesimo è diversa, perché la salvezza cristiana non è solo questione di affidarsi a Dio: in più il credente deve serbare con tutte le sue forze la fermezza dell’animo. Ma è precisamente su questo punto che l’insegnamento è stato distorto, cambiato, in questa palude chiamata Giappone”.» «Il cristianesimo non è quello che lei crede...!» Il prete voleva gridarlo ad alta voce; ma le parole gli si bloccarono in gola perché si rendeva conto che qualsiasi cosa avesse detto, nessuno avrebbe compreso i suoi sentimenti attuali: nessuno, non Inoue, non l’interprete. Tenendo le mani sulle ginocchia, e sbattendo le palpebre, rimase seduto in silenzio ad ascoltare le parole del magistrato. «Lei probabilmente non lo sa» continuò Inoue «ma a Goto e a Ikitsuki ci sono tuttora numerosi contadini cristiani. Ma non li arrestiamo.» «E perché?» chiese l’interprete. «Perché le radici sono state tagliate. Se dai quattro angoli del mondo arrivassero ancora una volta uomini come questo padre, dovremmo di nuovo arrestare i cristiani» disse ridendo il magistrato. «Ma è una cosa che ormai non temiamo più. Quando la radice è tagliata, il giovane albero inaridisce e le foglie muoiono. La prova è che il dio che i contadini di Goto e Ikitsuki venerano in segreto è mutato gradualmente, fino a non assomigliare più affatto al dio cristiano.» Sollevando il capo, il prete guardò in faccia il magistrato e vide sulle guance e attorno alle labbra un sorriso forzato. Ma gli occhi non stavano ridendo. «Il cristianesimo che avete portato in Giappone ha cambiato forma ed è diventato una cosa strana» disse il signore di Chikugo, traendo un sospiro che gli veniva dal profondo del petto. «Il Giappone è un paese così: non ci si può far nulla. Sì, padre...» Il sospiro del magistrato era genuino, e la sua voce era piena di dolorosa rassegnazione. Con un gesto di commiato si ritirò, accompagnato dall’interprete. Il cielo era tuttora cupo e nuvoloso; in strada faceva freddo. Mentre il palanchino lo trasportava sotto il cielo plumbeo, fissò uno sguardo incerto sulla distesa del mare, grigio come il cielo che gli stava sopra. Presto sarebbe stato mandato a Edo. Il signore di Chikugo gli aveva promesso una casa, ma questo voleva dire che sarebbe stato messo nella prigione cristiana della quale aveva sentito tanto parlare: ed era in quella prigione che avrebbe passato la sua vita. Mai più avrebbe traversato il mare plumbeo per fare ritorno alla terra natale. Quando era in Portogallo, aveva pensato che diventare un missionario voleva dire arrivare ad appartenere al nuovo paese. Si era proposto di andare in Giappone per condurvi la medesima vita dei cristiani giapponesi. E comunque, adesso era veramente così. Aveva ricevuto il nome giapponese Okada San’emon: era diventato un giapponese. Okada San’emon! Si mise a ridere a bassa voce quando pronunciò il nome. Il destino gli aveva dato tutto quello che aveva desiderato, glielo aveva dato in quella maniera beffarda. Lui, un prete votato al celibato, avrebbe preso
moglie. (“Non ho rancore verso di te! Soltanto, sto ridendo del destino dell’uomo. La mia fede in te è differente da quella che era; ma ti amo ancora.”) Fino a sera rimase appoggiato alla finestra, a guardare i bambini. Stringendo la corda attaccata all’aquilone, correvano su per la salita, ma non c’era vento e l’aquilone cadeva pigramente al suolo. Come scese la sera, nelle nuvole si aprì uno squarcio e il sole vi si affacciò pallidamente. I bambini, ora stanchi di giocare con l’aquilone, battevano alle porte delle case con dei bastoncini di bambù, cantando: «Picchiamo la talpa perché non faccia danno! Bo-no-me, bo-no-me, benediciamo questa casa tre volte. Battiamo con un bastoncino: Uno, due, tre, quattro.» Cercò di imitare il canto dei bambini, a bassa voce, ma non riusciva a cantare, e questo pensiero lo rattristò. Nella casa più in là una vecchia sgridò i bambini: era la vecchia che gli portava da mangiare due volte al giorno. Era sera. Soffiava la brezza. Come tese le orecchie, ricordò il rumore del vento che soffiava attraverso la macchia d’alberi, quando era stato in prigione. Allora, come sempre accadeva la sera, il volto di Cristo sorse nel suo cuore. Era il volto dell’uomo che lui aveva calpestato. «Padre, padre...» Con occhio spento guardò verso la porta, sentendo una voce che gli pareva familiare. «Padre, padre. Sono Kichijiro.» «Non sono più “padre”» rispose il prete a bassa voce; serrò le mani alle ginocchia. «Va’ via, presto. Se ti trovano qui la pagherai cara.» «Lei però può ancora ascoltarmi in confessione!» «Me lo domando!» Abbassò la testa. «Io sono un prete caduto!» «A Nagasaki la chiamano l’apostata Paolo. La conoscono tutti con questo nome.» Sempre stringendosi le ginocchia, il prete si mise a ridere. Non era necessario che glielo dicessero: lo sapeva già. Sapeva che chiamavano Ferreira l’apostata Pietro, e lui l’apostata Paolo. Qualche volta i bambini si erano radunati davanti alla sua porta cantilenando il nome ad alta voce. «La prego, ascolti la mia confessione. Se l’apostata Paolo ha solo la facoltà di ascoltare confessioni, la prego di darmi l’assoluzione per i miei peccati.» “Non c’è uomo che possa giudicare. Dio conosce la nostra debolezza più di chiunque altro” pensò il prete. «Padre, io l’ho tradita. Ho calpestato l’immagine di Cristo» disse Kichijiro fra le lacrime. «In questo mondo ci sono i forti e i deboli. I forti non cedono mai alla tortura, e vanno in Paradiso; ma che sarà di quelli come me, che sono nati deboli, quelli che, se torturati e comandati di calpestare l’immagine sacra...» “Anch’io ho calpestato l’immagine sacra. Per un attimo questo piede è stato sopra il suo volto; sopra il volto dell’uomo che è stato sempre nei miei pensieri, sopra il volto che era davanti a me fra le montagne, nei miei vagabondaggi, in prigione; sopra il migliore, il più bel volto che un uomo possa mai conoscere, sopra il volto di colui che ho sempre anelato ad amare. Anche adesso quel volto mi guarda con occhi misericordiosi dalla piastra resa liscia da tanti piedi. Calpestami!, dicevano quegli occhi pieni di compassione. Calpestami! Il tuo piede patisce nel dolore: deve patire come tutti i piedi che si sono posati su questa piastra. Ma questo solo dolore è abbastanza. Io comprendo il tuo dolore e la tua sofferenza. È per questa ragione che sono qui.” “Signore, mi ha afflitto il tuo silenzio.” “Io non tacevo. Soffrivo accanto a te.” “Ma tu hai detto a Giuda di andar via: ’Quello che devi fare, fallo al più presto’. Cosa accadde a Giuda?” “Non dissi questo. Come ho detto a te di camminare sulla piastra, così dissi a Giuda di fare quello che era in procinto di fare. Perché Giuda era in angoscia come sei tu adesso.” Aveva abbassato il piede sopra la piastra, appiccicosa di sudiciume e sangue. Le sue cinque dita avevano premuto il volto di colui che amava. Ancora non poteva capire l’impeto terribile di gioia che l’aveva investito in quell’istante. «Non ci sono né forti né deboli. C’è qualcuno che possa dire che i deboli non soffrono più dei forti?» Il prete parlava in fretta, di fronte all’ingresso. «Poiché in questo paese non c’è adesso nessun altro che possa ascoltare la tua confessione, lo farò io... Dirai le preghiere dopo la confessione... Va’ in pace!» Kichijiro singhiozzava sommessamente; poi lasciò la casa. Il prete aveva somministrato il sacramento che soltanto il prete può somministrare. Senza dubbio i suoi confratelli avrebbero condannato il suo atto come un sacrilegio: ma anche se stava tradendo loro, non stava tradendo il Signore. Adesso lo amava in modo diverso da prima. Tutto quello che era accaduto fino a quel momento era stato necessario per portarlo a questo amore. “Persino ora sono l’ultimo prete in questa terra. Ma Nostro Signore non ha taciuto. Anche se avesse taciuto, la mia vita fino a questo giorno avrebbe parlato di lui.”
APPENDICE DIARIO DI UN FUNZIONARIO DELLA CASA CRISTIANA
Dodicesimo Anno del Kanbun, Topo-Acquaiolo-Maggiore Attualmente viene assegnata a Okada San’emon la razione per dieci persone; a Bokui, Juan, Nanho, Jikan, la razione per sette persone ciascuno. Sottoposto quanto segue a Tōtōminokami il 17 giugno. Elenco: 1 Seibē. Età: 50. Cugino della moglie di San’emon. Maestro d’ascia a Fukagawa. 2 Gen’emon. Età: 55. Cugino del predetto. Servitore di Doi Oinokami. 3 Sannojō. Nipote del predetto. Con Seibē. 4 Shōkurō. Età: 30. Nipote del predetto. Operaio a Esashi-cho. 5 Adachi Gonzaburō. Indicato come apprendista di Bokui, l’artigiano. Nel corso dell’amministrazione di Hōjō. 6 Jin’emon. Zio della figlia di Juan. Abita a Kawagoe. Venne una volta nel corso dell’amministrazione di Hōjō. Tornò a trovare Juan il 26 aprile di quest’anno. Primo Anno dell’Enpō, Bue-Acquaiolo-Minore 9 novembre. Bokui è morto di malattia alle sei del mattino. Sono venuti per il controllo gli ispettori Kimura Yoemon e Ushida Jingobē accompagnati entrambi da viceispettori. Funzionari di polizia: Shōzaemon, Den’emon, Sōbē, Gensuke. Poliziotti presenti: Asakura Saburōemon, Arakawa Kyūzaemon, Kainuma Kan’emon, Fukuda Hachirobe, Hitotsubashi Matabē. Cremato al Tempio Muryōin. Nome buddista postumo: Kogan Shōten Zenjōmon. Endo Hikobē e il Sergente Kidaka Jūzaemon hanno controllato gli effetti di Tokuzaemon, il servo di Bokui, e l’hanno mandato a casa dopo averlo sottoposto alla prova del fumie. Secondo Anno dell’Enpō, Tigre-Maggiore-dei-Boschi Dal 20 gennaio all’8 febbraio. Okada San’emon è impegnato nella stesura di una ritrattazione della sua religione per ordine di Tōtōminokami. Di conseguenza Ukai Shōzaemon, Kayō Den’emon e Hoshino Gensuke sono esonerati dalla responsabilità di vigilare su di lui. 16 febbraio. Okada San’emon è impegnato a scrivere un libro. Kayō Den’emon e Kawara Jingobē vanno entrambi esonerati dalla mansione di scortare San’emon dal 2 febbraio al 5 marzo. Okada San’emon deve scrivere una ritrattazione della sua religione dal 14 giugno al 24 luglio nello Studio della villa di Montagna. Di conseguenza Kayō Den’emon e Kawara Jingobē vanno esonerati dalla mansione di scortarlo. 5 settembre. Juan è stato mandato in carcere. Ci deve restare per qualche tempo per punizione della sua cattiva condotta. Hanno presenziato alla deliberazione Rokuemon, Shōzaemon, Sōbe, Den’emon, Gensuke, Kawara e Kamei. Sono di servizio per il mese Tsukamoto Rokuemon e Kayō Den’emon. Quarto Anno dell’Enpō, Drago-Maggiore-del-Fuoco Anche Kichijirō, il famiglio di Okada San’emon, venuto qui al suo seguito, è stato mandato in carcere a causa del suo comportamento sospetto. Perquisendo la sua tasca, nel recinto del corpo di guardia, è stata trovata, nel porta-amuleti che teneva appeso al collo, un’immagine venerata dai cristiani, recante san Paolo e san Pietro su una faccia, Saverio e un angelo sull’altra. Convocato fuori del carcere, Kichijirō è stato interrogato sul suo luogo d’origine e sui parenti. Egli è di Gotō e avrà cinquantaquattro anni in quest’anno del Drago. C’è qualcosa di sospetto circa la fede di Hitotsubashi Matabé, che è stato in rapporti di confidenza con Kichijirō. Perciò anche Matabē deve stare in carcere finché Kichijirō non darà spiegazioni. (Omissis.) Dato che Matabē è in amicizia con Kichijirō, la sua fede è esposta a sospetti. Di qui il provvedimento suddetto. Quando sono stati interrogati Kurōzaemon e Shinbē, dei quali si dice siano stati in strette relazioni con Matabē, sono stati anche minuziosamente perquisiti nello Studio. Abiti, comprese sciarpa e fascia alla cintura, borsellini per la carta moneta, amuleti, sono stati esaminati senza eccezioni. (Omissis.) Tōtōminokami è venuto qui di persona, ha convocato Kichijirō allo Studio, e gli ha chiesto da chi avesse ricevuto l’oggetto sacro del cristiano. A questo ha risposto: «Un inserviente di nome Saizaburō, venuto in questa residenza tre anni fa, lo portò con sé. Quando venne qui, lo lasciò
cadere e tornò indietro. Così noi lo raccogliemmo e io lo conservai. Lo sa anche Tokuemon, il portinaio». Allora è stato chiamato e interrogato Tokuemon, il quale ha detto di aver assistito alla scena una sera d’estate quando si era fatta prender aria ai panni. Richiesto se non l’avesse ricevuto da Okada San’emon, Kichijirō ha detto: «Non c’è possibilità di ottenere qualcosa da San’emon», il che voleva dire, come lui ha spiegato, che non c’era possibilità perché San’emon era sempre scortato da due guardie in servizio ogni volta che lo vedeva. 17 settembre. Sua signoria Tōtōminokami è venuto di persona alla villa di Montagna, e ha convocato tre inservienti nello Studio per accertare se fossero cristiani. Kichijirō e Tokuemon sono stati convocati più tardi e interrogati. Ha ordinato anche che tutte le abitazioni delle guardie fossero accuratamente perquisite, come pure le tre residenze dei funzionari e i padiglioni. Anche alle mogli e ai figli è stato ordinato di sciogliere le sciarpe e le fasce davanti al funzionario. Naturalmente sono state esaminate le immagini buddiste che tenevano con sé. E poi, perquisendo l’abitazione di Sugiyama Shichirobē, Kobure Juzaemon ha scoperto, in mezzo a vecchi pezzi di carta, un biglietto con parole cristiane, che Kayō Den’emon ha preso per sottoporlo al direttore. Vi si legge: «Padre, Arcivescovo, Vescovo, Papa». 18 settembre. Sua signoria Tōtōminokami è venuto di persona alla villa di Montagna e ha ascoltato nello Studio le spiegazioni dei tre inservienti. Ha convocato anche Hitotsubashi Matabē per interrogarlo. Kichijirō e Tokuemon sono stati interrogati dopo. La moglie di Okada San’emon, la domestica e il garzone di questi sono stati convocati e interrogati più tardi. È stato mandato a chiamare anche lo stesso San’emon, e gli è stato chiesto se non avesse mai cercato di convertire Kichijirō, alla quale domanda egli ha risposto di non avere mai cercato di convertirlo. Gli è stato allora ordinato di apporre un segno di sua mano sulla dichiarazione attestante che non aveva cercato di convertire il predetto. Successivamente è stato convocato Sugiyama Shichirobē e gli è stato chiesto perché avesse conservato l’appunto con la gerarchia cristiana, rinvenuto il giorno avanti. Shichirobé ha detto: «Al tempo dell’amministrazione di Hōjō Awanokami il suo primo aiutante mi disse di imparare a memoria quei nomi dal momento che ero incaricato di tale materia. Così ho ricevuto quell’annotazione da Hattori Sahē, l’ufficiale di polizia». La sua spiegazione è stata considerata convincente, ed egli è stato congedato. Tahē, inserviente di Kasahara Gōemon, che lavora per il ministro Tatebayashi, e Shinbē, il guardiano che in qualità di inserviente fa parte della squadra di Saitō Tanomo, sono stati chiamati e posti entrambi a confronto con Kichijirō, per fare accertamenti circa l’immagine da essi raccolta. È risultato che l’aveva raccolta Shinbē. Lo stesso Tahē ha detto d’aver visto Shinbē che la teneva in mano. Di conseguenza sia Tahē che Shinbē sono stati congedati. Stesso giorno. Hitotsubashi Matabē è stato appeso, dentro il carcere. Funzionari incaricati erano Hisaki Gen’emon, Okuda Tokubē, Kawase Sōbē e Kawara Jingobē. Da quel momento Matabē è stato torturato parecchie volte. 18 ottobre. Ottimamente. Sua signoria è venuto personalmente alla villa di Montagna. Gli ispettori, Sayama Shōzaemon e Tanegusa Tarōemon, sono pure arrivati e hanno torturato Hitotsubashi Matabē e la moglie al cavalletto. Naitō Shinbē è stato convocato allo Studio. Matsui Kurōemon è stato interrogato e ha bruscamente confessato. 24 novembre. Ho fatto inchiodare all’ingresso principale della villa di Montagna il tabellone con l’avviso concernente la denuncia di cristiani. Se ne sono occupati Kawara Jingobē, Ukai Gengoemon e Yamada Jurobe. L’avviso in questione è stato preparato per ordine delle loro signorie. Esso dice: Avviso: La fede cristiana è al bando da molti anni. Tutti sono esortati a denunciare le persone sospette. Le ricompense che saranno corrisposte sono le seguenti: A chi denuncia un Padre: 300 monete d’argento A chi denuncia un Fratello: 200 monete d’argento A chi denuncia un Riconvertito: ibidem A chi denuncia un Catechista o un Cristiano laico: 100 monete d’argento Anche se lo stesso denunciante è un Catechista o un Cristiano laico, riceverà 300 monete d’argento in conformità con la condizione del denunciato. Chi desse ricetto a tali persone che fossero poi trovate su informazione di terzi, verrà severamente punito, e con lui la sua famiglia e i parenti, come pure il capo della zona e le famiglie del vicinato. Quanto sopra è il nostro avviso. 10 dicembre. Juan è stato messo in carcere. Mandati da entrambe le loro signorie sono venuti i direttori, Takahashi Naoemon e Hattori Kin’emon, e in presenza di funzionari di polizia delle signorie loro hanno notificato a Juan il rapporto seguente: «Juan, la cui condotta è sempre cattiva, l’altro giorno ha tenuto un comportamento offensivo verso Kayō Genzaemon, dimostrando di essere un individuo assai insolente. Per punizione deve essere messo in carcere. Gli si ordina di accettare la punizione predetta». Juan ha risposto che questo era anche il suo desiderio e che l’avrebbe accettata di buon grado. Condotto in carcere, ha esibito il suo borsellino e l’ha consegnato ai funzionari. È stato portato al corpo di guardia ed è entrato immediatamente in prigione. Il borsellino predetto è stato esaminato alla presenza dei direttori, dei funzionari di polizia e delle signorie loro; esso conteneva diciassette ryo e un bu in spiccioli. Gli altri oggetti appartenenti a Juan sono stati esaminati e annotati nel registro. I funzionari di polizia vi hanno posto i sigilli e li hanno messi nell’abitazione di Juan. Tra gli oggetti appartenenti a Juan c’erano una catena, due cilici, due rosari e una carta
astronomica. Nono Anno dell’Enpō, Gallo-d’Oro-Minore 25 luglio. Okada San’emon è deceduto per malattia alle due-tre dopo l’ora della Scimmia. Con Ukai Gengoemon e Naruse Jirōzaemon mi sono recato da sua signoria per fare rapporto. Dalla sua residenza sono stati mandati qui immediatamente i direttori, Takahara Sekinojō e Emagari Jūrōemon. Si è provveduto a far vigilare continuamente da tre guardie la salma di San’emon. Il denaro di San’emon consisteva di tredici ryo e tre bu in spiccioli e di cinque ryo in monete d’oro, per un totale di ventotto ryo e tre bu. Gli oggetti di sua proprietà sono stati sigillati dagli inservienti e dai direttori di sua signoria, per essere messi in magazzino il 28. 26 luglio. Le seguenti persone sono venute per l’ispezione alla villa di Montagna: ispettori Omura Yoemon, Murayama Kakudayū, aiuto-ispettori Shimoyama Sōhachirō, Nomura Rihē, Uchida Kanjūrō, Furukawa Kyūzaemon. Alla presenza dei direttori di sua signoria ho consegnato agli ispettori la seguente dichiarazione: Copia della Dichiarazione Okada San’emon, che abitava nella residenza cristiana, è deceduto poco dopo le quattro e mezza nel pomeriggio del 25. Nato in Portogallo, Europa, fu dapprima affidato alla custodia di Inoue Chikugonokami, nell’anno dell’Ariete or sono circa trent’anni, e venne quindi ad abitare qui nell’edificio cintato dove ha vissuto trent’anni, fino a quest’anno del Gallo. Cadde ammalato al principio del mese e perse quasi del tutto l’appetito, peggiorando continuamente nonostante le cure mediche di Ishio Dōteki, il dottore del carcere, finché spirò. Il predetto San-emon aveva sessantaquattro anni. A parte questo non c’è qui nulla d’insolito. 26 luglio. Il gruppo di Hayashi Shinanonokami Okuda Jirōemon Ukai Gengoemon Kawara Jingobē Kawase Sōbē Kayō Den’emon Dopo l’ispezione, la salma di San’emon è stata inumata nel tempio Muryōin a Koishikawa. Da Muryōin è venuto un prete di nome Genshū. La salma di San’emon è stata mandata là con un veicolo, ed è stata cremata. Il nome buddista postumo di San’emon è Myūsen Joshin Shinshi. Sono stati pagati un ryo e due bu per il servizio funebre e cento hiki per le spese di cremazione. Queste spese per il funerale sono state pagate con parte del denaro lasciato da San’emon.
Note
1. Xeraphim: monete d’argento (N.d.T.).
Indice
Presentazione Frontespizio Pagina di copyright Prologo 1. (Lettera di Sebastião Rodrigues) 2. (Lettera di Sebastião Rodrigues) 3. (Lettera di Sebastião Rodrigues) 4. (Lettera di Sebastião Rodrigues) 5. 6. 7. 8. 9. 10. Estratti dal diario di Jonassen impiegato presso la Compagnia Olandese, Dejima, Nagasaki Appendice. Diario di un funzionario della casa cristiana Note Seguici su IlLibraio
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