Dal sito: http://www.univ.trieste.it/~zuglio/all/storia/preistoria.introduzione.html
Archaeotopos Learning Library from UTS NetGeoLab - HiReMaLab Last update 2001 Hosted with University of Trieste
Introduzione alla preistoria
L’antichità dell’Uomo e la preistoria Il lungo periodo del passato dell’umanità precedente l’invenzione della scrittura viene comunemente denominato preistoria, in contrapposizione alla storia, il periodo per il quale possediamo documenti scritti. Questa distinzione non è in realtà giustificata, poiché tutto ciò che interessa l’uomo ne costituisce la sua storia, fin dalla sua comparsa sulla terra. La preistoria, come scienza, nacque nella prima metà dell’Ottocento, quando fu acquisita la nozione dell’alta antica dei nostri primi antenati. Le conoscenze attuali sulle origini dell’uomo pongono a 2 milioni di anni fa la comparsa sulla terra del genere Homo, derivato da specie più antiche i cui primi passi possono essere seguiti nelle regioni meridionali e orientali dell’Africa fino a 4-5 milioni di anni fa. La preistoria s’interessa quindi di quel lungo periodo della storia dell’uomo che precede i primi sistemi di scrittura, vale a dire dalle origini fino a 4.000-3.000 anni fa circa. A differenza degli studi storici propriamente detti, l’archeologia preistorica, non disponendo di documenti scritti, prende in considerazione solo gli oggetti prodotti dall’uomo (manufatti) in funzione delle sue attività economiche, artistiche e spirituali. In questa prospettiva rientrano gli studi sull’evoluzione fisica e culturale dell’uomo, sulle sue attività quotidiane, sulle tecniche produttive e sul suo rapporto con l’ambiente circostante. Le ricerche sulla preistoria più antica (Paleolitico) hanno avuto l’avvio in Europa occidentale, e soprattutto in Francia, da parte di ricercatori di formazione prevalentemente naturalistica con il proposito di dare una collocazione cronologica ai resti scheletrici e ai prodotti dell’attività umana rinvenuti in numerose cavità di quelle regioni. Essi svilupparono perciò metodi mutuati dalle scienze geologiche e paleontologiche per inquadrare questi primi resti umani e i manufatti a loro associati. Dopo aver superato la fase iniziale del collezionismo di oggetti strani o inconsueti, l’archeologia preistorica moderna, intesa come mezzo di ricostruzione storica del passato, si propone, con metodologie sempre più perfezionate, di raccogliere e studiare tutti le informazioni utili alla ricostruzione dei modi di vita dei gruppi umani che si sono succeduti nel corso degli ultimi 2 milioni di anni. La ricostruzione degli avvenimenti e degli ambienti nelle varie epoche della preistoria si basa esclusivamente sulla ricerca e l’interpretazione dei resti materiali che si sono conservati, tra cui, in primo luogo, i prodotti delle varie attività umane, quali gli strumenti di pietra, la ceramica, i manufatti d’osso, ecc. Nell’interpretazione di queste, anche labili, testimonianze del passato si rendono indispensabili indagini relative all’ambiente naturale in cui l’uomo ha vissuto e dal quale è stato condizionato, adattandosi al variare del clima e della morfologia del paesaggio. L’analisi della cultura materiale viene pertanto svolta nell’ambito di una più ampia ricerca che prevede l’apporto di altre discipline rivolte allo studio dei terreni (geologia), dei resti ossei umani (paleoantropologia e antropologia fisica), dei resti ossei animali (paleontologia e archeozoologia) e dei resti vegetali (paleobotanica).
Cronologia e inquadramento culturale della preistoria Lo schema cronologico della preistoria europea comprende i seguenti periodi: Paleolitico – è noto anche come antica età della pietra o età della pietra scheggiata; esso include le varie culture dei popoli cacciatori e raccoglitori dalle origini della comparsa del genere Homo, circa 2 milioni di anni fa, sino alla fine dell’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa. Il Paleolitico è suddiviso in inferiore, medio e superiore. La sua durata corrisponde al Pleistocene. Mesolitico – è lo stadio culturale degli ultimi cacciatori-raccoglitori che si adattano alle modificazioni climatiche del Postglaciale; il Mesolitico corrisponde cronologicamente alle fasi iniziali dell’Olocene.
Neolitico – è noto anche come età della pietra nuova o della pietra levigata; esso rappresenta una fase di profondi cambiamenti nel modo di sussistenza delle comunità preistoriche. Durante il Neolitico sono introdotte tre fondamentali innovazioni: l’agricoltura, l’allevamento e la produzione della ceramica. Il Neolitico si sviluppa tra il VII e IV millennio a.C. Età del Rame – durante questo periodo, noto anche come Eneolitico o Calcolitico, l’uomo si appropria della tecnica metallurgica che gli consente di apportare significative modificazioni anche nel sistema di sussistenza; l’età del Rame si sviluppa durante il III millennio a.C. Età del Bronzo – uno sviluppo delle tecniche di lavorazione dei metalli consente la produzione di oggetti in bronzo, l’età del Bronzo vede rilevanti cambiamenti nell’economia e nelle strutture sociali delle comunità preistoriche. L’età del Bronzo si sviluppa dagli ultimi secoli del III millennio a.C. fino al IX-VIII secolo a.C., quando l’età del Ferro segna il passaggio all’età storica. L’età del Bronzo e del Ferro vengono di solito riferite alla protostoria, anziché alla preistoria, poiché, durante questo periodo, in alcune regioni d’Europa hanno avuto origine culture che attestano la conoscenza della scrittura; la contemporaneità tra culture "analfabete" e culture dotate di sistemi di scrittura ha reso necessario un approccio diverso allo studio del passato. Se infatti lo studio della preistoria si fonda quasi esclusivamente sui resti archeologici e quello storico invece sulle fonti scritte, la protostoria, momento intermedio tra i due, necessita di un campo di ricerca che esige la convergenza di discipline molto diverse tra loro, come l’archeologia, la linguistica, l’epigrafia, la critica delle fonti scritte, l’etnologia.
La cronologia del Quaternario I tempi preistorici abbracciano il Pliocene, l’ultimo periodo dell’Era terziaria, e l’Era quaternaria (tavola). La comparsa del genere Homo è fatta coincidere con l’inizio dell’era geologica attuale, detta Quaternario. Questa viene suddivisa in due periodi: Pleistocene e Olocene, il cui limite corrisponde alla fine dell’era glaciale in Europa ed è fissato convenzionalmente a 10.000 anni fa (8.050 ± 150 a.C.). Il Pleistocene viene a sua volta suddiviso in inferiore, medio e superiore. Il passaggio dal Pleistocene inferiore a quello medio è fissato attorno a 700.000 anni fa, quando si verifica un’importante inversione del polo magnetico terrestre che determina una fase climatica temperata. Il limite tra Pleistocene medio e superiore corrisponde alla fine della glaciazione di Riss, tra 130.000-120.000 anni fa circa.
Le glaciazioni Durante il Quaternario il globo terrestre è stato interessato da importanti variazioni climatiche, influenzate da cause astronomiche, che nell’emisfero boreale hanno determinato fasi climatiche particolarmente fredde, dette glaciazioni. Le variazione dell’insolazione della superficie terrestre in conseguenza delle variazioni dell’eccentricità della terra, dell’inclinazione dell’asse terrestre e per effetto della precessione degli equinozi hanno determinato un generale irrigidimento del clima che ha causato la formazione di grandi accumuli di ghiaccio sulle terre emerse, divenuti sempre più rilevanti in rapporto all’aumento del clima freddo. La formazione di grandi calotte glaciali è avvenuta, inoltre, a spese delle acque degli oceani e dei mari il cui livello si è abbassato fino a un massimo di 120 metri in corrispondenza dell’acme glaciale verificatori attorno a 20.000 anni fa. I periodi glaciali sono stati intervallati da momenti con clima più temperato, nel corso dei quali il ritiro dei ghiacci e la risalita del livello del mare hanno portato a modifiche anche rilevanti nella morfologia del paesaggio. I periodi di miglioramento climatico tra una glaciazione e l’altra sono detti interglaciali, mentre le fasi di miglioramento climatico durante un periodo glaciale sono dette interstadiali. Nella regione alpina, dove le ricerche sul glacialismo quaternario hanno avuto inizio durante i primi anni del secolo scorso, sono stati distinti quattro periodi glaciali, chiamati rispettivamente Günz, Mindel, Riss e Würm. La glaciazione di Günz è attribuita al Pleistocene inferiore, quella di Mindel e Riss al Pleistocene medio e, infine, la glaciazione di Würm al Pleistocene superiore. Durante i periodi glaciali, la penisola scandinava è stata ricoperta da una calotta glaciale, detta inlandsis, che nel corso dei periodi di massima espansione (periodi pleniglaciali), si estese fino a sud del Mar Baltico, nell’Europa settentrionale. Le variazioni climatiche hanno avuto notevoli conseguenze su tutto il mondo biologico poiché hanno determinato dei mutamenti sia nel tipo di vegetazione sia nelle faune dei territori interessati dal clima glaciale. Queste variazioni hanno inoltre condizionato l’uomo costringendolo ad adattarsi ai nuovi ambienti.
Metodi di datazione Lo scavo di depositi archeologici con serie stratigrafiche rilevanti contenenti in successione più livelli di occupazione fornisce la base di una sequenza cronologica relativa. Tale cronologia misura le differenze di età utilizzando una scala ordinale, nel caso della serie stratigrafica la datazione relativa dei vari livelli si basa sul presupposto che lo strato posto più in basso di tale sequenza sia più antico di quello situato più in alto. La cronologia relativa fornisce quindi l’indicazione di un prima o di un dopo di eventi o materiali correlati tra loro, ma non consente di datare dei manufatti o degli strati in anni dal presente (B.P.) o con gli anni del calendario (a.C./d.C.). Gli archeologi hanno avvertito la necessità di riferire i rinvenimenti preistorici a uno schema cronologico al fine di poterli studiare sotto una prospettiva temporale, per tale motivo hanno rivolto la loro attenzione a vari metodi di datazione che fornissero un indicazione precisa del momento storico in cui un manufatto è stato prodotto o un evento è accaduto. I metodi di datazione assoluti consentono, con l’ausilio di procedimenti chimici o fisici, di determinare le varie epoche dei manufatti analizzati sia come anni dal presente sia come anni del calendario. I metodi più utilizzati in archeologia sono i seguenti: dendrocronologia, metodo del radiocarbonio, metodo del potassio/argon, metodo dell’uranio/torio, termoluminescenza e paleomagnetismo. La dendrocronologia è un metodo di datazione biologica che si basa sull’analisi delle sequenze degli anelli di accrescimento degli alberi; esso consente di datare i manufatti lignei (oggetti e strutture) rinvenuti nei siti archeologici. Il metodo di datazione si basa sul principio secondo cui ogni anno gli alberi aggiungono un anello di crescita che registra le minime variazioni del clima e dell’umidità; l’ampiezza dell’anello è relativamente sottile durante le annate asciutte, mentre essa tende a diventare spessa durante le annate umide. Al momento del taglio dell’albero, queste variazioni dei singoli anelli di accrescimento consentono di determinarne l’età. Pertanto alberi della stessa specie e della stessa età cresciuti in aree con condizioni climatiche simili presentano sequenze degli anelli di crescita più o meno simili. Nel caso di alberi più vecchi e più giovani le cui età si sovrappongono è possibile realizzare una cronologia relativa confrontando gli anelli di crescita dello stesso anno. Le età assolute possono essere ottenute sovrapponendo le sequenze degli anelli di crescita sino agli alberi viventi. La sequenza più lunga e più antica ottenuta sino ad ora è quella fornita dal Pinus aristata per l’America occidentale che risale sino a 9.000 anni fa. Il metodo del radiocarbonio consente di determinare l’età dei materiali organici contenenti carbonio. Il metodo si basa sulla decomposizione radioattiva dell’isotopo 14 contenuto nel campione di azoto, con l’emissione di particelle β che ha inizio allorché un organismo muore e cessa di scambiare carbonio 14 (C14) con l’atmosfera. Nel momento in cui una pianta, un animale o un uomo muoiono viene a cessare l’assunzione di C14, la sua concentrazione, prima costante, comincia a diminuire per effetto del decadimento radioattivo. Conoscendo la velocità di decadimento del C14 e misurandone la quantità rimasta nel campione analizzato, si può determinare l’età di un tessuto, di un manufatto ligneo o di animale morto. Le tracce di C14 sono piccolissime già all’inizio e si riducono alla metà dopo 5.730 anni; dopo 23.000 anni, in un campione rimane perciò solo un sedicesimo della già modesta quantità iniziale di C14. La precisione delle datazioni con il metodo del C14 è condizionata da vari errori: influenza delle radiazioni cosmiche, errori di conteggio e da possibili inquinamenti dei campioni. Per tale motivo le date ottenute sono sempre accompagnate da una stima dell’errore probabile (8.050 ± 150 a. C.). Una delle ipotesi fondamentali del metodo C14 è risultata non del tutto corretta: la concentrazione di C14 nell’atmosfera non è infatti rimasta costante nel corso del tempo, ma è mutata in relazione alle variazioni del campo magnetico terrestre, a conseguenza di ciò è necessaria una calibrazione delle date ottenute. La dendrocronologia fornisce il metro di confronto cronologico di riferimento alle datazioni C14. Le date ottenute con il metodo del radiocarbonio dagli anelli di accrescimento degli alberi indicano che prima del 1.000 a. C. circa le date espresse in anni determinati con il C14 risultano progressivamente più recenti rispetto a quelle espresse in veri anni di calendario. Prima del 1.000 a.C., gli alberi e tutti gli altri organismi viventi erano esposti a concentrazioni atmosferiche maggiori di C14 di quelle a cui sono esposti oggi. L’apporto delle sequenze dendrocronologiche degli anelli di accrescimento del Pinus aristata e della quercia ha consentito per l’Europa e il Nord America la definizione di curve di calibrazione valide fino al 7.000 a. C. (9.000 anni fa). Le curve consentono agli archeologi di calibrare una data con il radiocarbonio traducendola in anni di calendario. Il metodo dell’uranio/torio si basa sul processo di decadimento dell’isotopo radioattivo 238 dell’uranio, solubile nell’acqua, dove si combina con il carbonato di calcio. Il decadimento radioattivo determina la trasformazione dell’isotopo 238 dell’uranio nell’isotopo 234 prima e quindi in torio, insolubile in acqua. Gli organismi viventi nelle acque, come conchiglie e coralli, e gli organismi terrestri che assorbono le acque sotterranee al momento della morte sono ricchi di uranio 234 e poveri di torio; da questo momento in poi inizia il decadimento dell’isotopo instabile dell’uranio determinando un accumulo di torio. La misura del rapporto tra la quantità di uranio e torio presente nel campione analizzato consente la sua datazione, giacché il tempo di decadimento è noto. L’arco cronologico che può essere datato con questo metodo va da alcune migliaia d’anni fino a circa 350.000 anni fa. Il metodo del potassio/argon interessa la datazione delle rocce magmatiche. Esso si basa sul principio che il potassio radioattivo presente al momento del raffreddamento di una roccia magmatica si disintegra producendo argon. La misurazione del rapporto potassio/argon di certi minerali consente quindi di datare il momento del raffreddamento. Con
questo metodo è possibile datare rocce eruttive in relazione con depositi antropici, ottenendo così per questi ultimi dei termini ante quem o post quem. Il metodo viene normalmente applicato per periodi più antichi di 100.000 anni da oggi. La datazione mediante termoluminescenza serve per datare materiali archeologici che hanno subito un trattamento termico. Questo metodo di datazione si basa sul seguente fenomeno: all’interno di un cristallo, al momento della formazione, sono presenti delle cavità elettrostaticamente positive che costituiscono delle trappole per gli elettroni liberi che circolano in esso; gli elettroni occuperanno le cavità esistenti fino a saturarle a meno che non vengano liberati in seguito a riscaldamento. Quando, infatti, il materiale viene riscaldato o esposto alla luce, gli elettroni intrappolati nelle cavità vengono liberati, rilasciando energia sotto forma di luce, detta termoluminescenza. Il segnale è una misura dell’esposizione alle radiazioni che è stata accumulata; più lunga è stata l’esposizione o più forte è stato il livello di radiazione, maggiore è la termoluminescenza emessa dal campione. Le datazioni fino ad ora più antiche ottenute con il metodo della termoluminescenza riportano a circa 300.000 anni fa. La datazione archeomagnetica si basa sul paleomagnetismodelle rocce che sono state naturalmente sottoposte a riscaldamento. Il campo magnetico terrestre ha subito nel tempo numerose variazioni di senso, sia quale conseguenza della variazione dell’asse dei poli magnetici sia per effetto della deriva dei continenti. Poiché le rocce vulcaniche durante il raffreddamento risentono l’influenza del campo magnetico terrestre, misurando il magnetismo residuo, esse consentono di individuare il campo magnetico esistente al momento della solidificazione. Il dato ottenuto viene confrontato con una curva cronologica di riferimento del paleomagnetismo terrestre che consente di ricavare l’epoca in cui è avvenuto il riscaldamento.
Pietre, ossi e vasi: lo studio dei manufatti preistorici L’uomo si differenzia dalle altre specie viventi per la sua capacità di manipolare la materia prima disponibile in natura; anche se alcuni animali, come ad esempio gli scimpanzé o altre scimmie antropomorfe, usano abitualmente oggetti così come li rinvengono in natura in funzione di necessità immediate, l’uomo è l’unico in grado di trasformare la materia prima seguendo un progetto determinato, risultato di un pensiero astratto. L’uomo è inoltre l’unico essere vivente in grado di trasmettere, attraverso un linguaggio articolato, le conoscenze e le scoperte acquisite in modo da incrementare il bagaglio culturale necessario alla sopravvivenza. Molte scimmie antropomorfe, benché durante le sperimentazioni di laboratorio dimostrino capacità alle volte sorprendenti, non sono in grado di trasmettere alle generazioni successive i risultati delle loro, sia pure semplici, conquiste tecnologiche. La conoscenza della storia non scritta dei nostri antenati è perciò condizionata dalla capacità dello studioso di preistoria di interpretare i diversi tipi di resti che si sono conservati sino ad ora nei depositi archeologici. L’uomo preistorico ha infatti utilizzato numerose materie prime disponibili nell’ambiente naturale in cui viveva: pietra, legno, argilla, ossa, pelle, conchiglie. La maggior parte di queste però non si sono conservate e, in particolare per i periodi più antichi, le uniche testimonianze giunte sino a noi sono i manufatti di pietra. I materiali ricavati da materia organica si preservano, infatti, solo in condizioni molto particolari come ad esempio negli ambienti privi di ossigeno, quali le torbiere, o in condizioni di totale mancanza di umidità, come nel deserto. Solo nella preistoria più recente, durante il Neolitico, in seguito a un controllo totale del fuoco l’uomo è riuscito a trasformare l’argilla in terracotta necessaria alla produzione dei vasi. In seguito un’ulteriore sviluppo della produzione artigianale ha portato, durante la prima età dei metalli, alla fabbricazione prima di manufatti di rame e più tardi a produrre il bronzo, una nuova materia non esistente in natura ma ottenuta dalla lega di rame e stagno o arsenico. La facilità di conservazione della pietra e i mutamenti tipologici e tecnologici documentati dalla produzione dei manufatti litici sono risultati determinanti alla comprensione dello sviluppo culturale dei nostri antenati. La produzione di manufatti di pietra fabbricati dall’uomo è detta industria litica. Una prima distinzione, basata sulla tecnica di produzione dei manufatti di pietra, può essere istituita tra l’industria litica in pietra scheggiata e l’industria litica in pietra levigata. Le materie prime più frequentemente utilizzate dall’uomo preistorico nella realizzazione degli strumenti in pietra scheggiata sono: la selce, il calcare, il diaspro, la ftanite, il cristallo di rocca, la quarzite e l’ossidiana. Le rocce metamorfiche, di origine vulcanica e altri tipi di rocce verdi sono state invece impiegate nella produzione di manufatti in pietra levigata. La lavorazione della pietra implica una fratturazione intenzionale mediante percussione con un oggetto solido. Questo manufatto è detto percussore; esso può essere di pietra, di legno duro, d’osso o di corno animale. La percussione di un ciottolo ha lo scopo di ricavare da esso dei margini taglienti (in questo caso si parla di chopper o chopping-tool), mentre la scheggiatura di un blocco di roccia, denominato nucleo la cui forma è stata opportunamente modificata, serve ad ottenere delle schegge o delle lame da utilizzare dopo un’ulteriore lavorazione, detta ritocco, come strumenti. La percussione può essere di quattro tipi (tavola): percussione diretta, realizzata colpendo direttamente il nucleo con un percussore; percussione indiretta, realizzata interponendo tra il percussore e il nucleo uno scalpello (di osso o di corno);
percussione su incudine, realizzata battendo un blocco di pietra o un nucleo su una pietra fissa a terra usata come incudine; percussione bipolare, realizzata colpendo il nucleo con un percussore appoggiato a un’incudine. La fabbricazione di manufatti in pietra scheggiata può essere ottenuta mediante la tecnica a pressione. La tecnica di scheggiatura a pressione comporta l’impiego di un compressore, realizzato in legno duro, in corno o in osso, che imprime una pressione diretta al bordo di un nucleo o di una scheggia; con questo metodo si possono staccare con grande precisione delle lunghe lame regolari da un nucleo o delle sottili schegge piatte da una scheggia o da una lama. Sono detti strumenti tutti quei manufatti litici (lame o schegge) che dopo l’estrazione dal nucleo, sono manipolati con un’ulteriore lavorazione di scheggiatura (ritocco) che ne modifica la morfologia al fine della migliore funzionalità (tavola). Le denominazioni tuttora utilizzate dagli archeologi per indicare gli strumenti è ispirata dall’ipotetica funzione degli strumenti e dalla loro morfologia; in questo modo si parla di grattatoi, bulini, raschiatoi, punte, lame, ecc. (tavola). Le ricerche condotte sulle tracce d’uso degli strumenti, con l’ausilio dell’analisi al microscopio e dell’archeologia sperimentale, rivolta alla riproduzione dei manufatti e al loro utilizzo, hanno in larga parte confermato le denominazioni usate. Lo scavo di depositi archeologici con lunghe sequenze cronologiche d’occupazione ha infine consentito di definire liste tipologiche di strumenti litici che ora vengono utilizzate, grazie anche la disponibilità di serie di datazioni assolute, quali elementi di individuazione di culture diverse o di suddivisioni di culture in fasi distinte dei periodi più antichi della preistoria. L’invenzione della ceramica presuppone la conoscenza che l’argilla sia modellabile quando è allo stato umido e che sottoposta all’azione del fuoco si consolidi conservando la forma ricevuta. Questo procedimento era noto in modo occasionale sin dal Paleolitico superiore, ma esso ha trovato larga diffusione solo a partire del Neolitico. La produzione ceramica prevede una serie di operazioni tecniche differenziate: preparazione dell’argilla, modellazione dell’impasto, essiccazione del manufatto, trattamenti vari di preparazione della superficie del manufatto, cottura. La decorazione del vasellame può essere realizzata sia sull’argilla ancora molle sia dopo la cottura. L’argilla con l’aggiunta di acqua diventa un impasto omogeneo al quale vengono mescolati minerali o sostanze organiche triturate (smagranti o degrassanti) al fine di rendere il prodotto argilloso elastico onde evitare la fratturazione durante l’essiccazione o la cottura del manufatto. Ottenuto l’impasto, si procede nella modellazione che può essere eseguita con tecniche diverse: 1) scavando direttamente un blocco d’impasto; 2) con la tecnica a colombino che consiste nel formare cordoni cilindrici d’impasto avvolti a spirale l’uno sull’altro fino ad ottenere la forma voluta (tavola). Data forma al vaso si possono eseguire decorazioni plastiche, impresse, incise e dipinte. I manufatto viene quindi fatto essiccare affinché l’impasto perda parte dell’acqua. A questo punto le superfici vengono lisciate per togliere loro le irregolarità; esse inoltre possono essere levigate o lucidate in modo da produrre anche un effetto estetico. La cottura costituisce la fase che da rigidità, porosità e stabilità ai manufatti. La decorazione a graffito viene realizzata di solito dopo la cottura. La ceramica, documentata in quasi tutti gli insediamenti dall’età neolitica in poi generalmente in percentuale assai più elevata rispetto ad altre produzioni artigianali, costituisce l’elemento privilegiato per la classificazione delle culture, fasi e correnti culturali della preistoria più recente. La foggia dei vasi da un lato e le tecniche e i motivi decorativi della ceramica dall’altro consentono, infatti, la suddivisione culturale e cronologica del Neolitico e dell’età del Rame. La produzione metallurgica documentata nella tarda preistoria e durante la protostoria comprende manufatti di rame, bronzo e ferro. La prima lavorazione di oggetti metallici ha interessato il semplice martellamento del rame allo stato naturale. In seguito il metallo è stato lavorato arroventandolo e solo successivamente sono stati prodotti manufatti mediante la fusione e colata in stampi o matrici. Il bronzo è una lega di rame (circa 90%) e di stagno o arsenico (10%); i bronzi con meno di 3% di stagno devono essere considerati accidentali, giacché in questo caso la bassa percentuale di stagno ha avuto origine da impurità del minerale di rame. La metallurgia del bronzo ha determinato uno sviluppo tecnologico notevole nella produzione dei manufatti, poiché ha permesso di fabbricare oggetti più resistenti e solidi di quelli di rame, mentre la grande facilità di fusione del bronzo ha portato alla creazione di nuove classi di strumenti che sostituirono quasi del tutto il precedente strumentario litico e in osso. Il ferro si è affermato molto tardi a causa delle complesse tecniche di lavorazione che comportava questo tipo di metallurgia. Il Paleolitico Inferiore
I resti più antichi
Le più antiche testimonianze archeologiche del primo presenza umana nella penisola italiana sembrano collocarsi tra poco meno di 1.000.000 e 800.000 anni fa, in sincronia con quanto avviene nel resto dell’Europa centro-mediterranea; nella loro singolare povertà, le prime fasi del popolamento umano in Italia appaiono tra loro non omogenee, senza apparente continuità rispetto a quanto documentato in epoche successive. Con poche eccezioni, un’analoga scarsità di ritrovamenti, per il periodo considerato, è ricorrente in altri paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, come ad esempio in Francia, Spagna e Portogallo. La presenza di siti importanti le cui datazioni più antiche potrebbero essere collocate tra 600.000 e 500.000 anni fa, suggerisce invece che a un’iniziale, incerta e intermittente presa di contatto, seguirà il primo vero e proprio popolamento di diverse aree della penisola con caratteri di stabilità, di continuità e di intensità di frequentazione. Tre principali episodi possono essere individuati nell’arco dei circa 8-700.000 anni che intercorrono tra il primo popolamento dell’Italia e il momento in cui si assiste alle fasi finali dell’Acheuleano, attorno a 150.000 anni fa (tavola). La fase arcaica corrispondente alle prime, sicure, testimonianze della presenza di gruppi umani nella penisola. La fase di Isernia la Pineta (Molise, Italia centrale). Lo stadio acheuleano. Gli inizi del popolamento: la fase arcaica A partire da circa 1 milione di anni da oggi, nei primi 2-300.000 anni di popolamento sono finora documentati un numero relativamente esiguo di siti all’aperto o di ritrovamenti sporadici di superficie che hanno restituito pochi strumenti in pietra, caratterizzati da un alta percentuale di manufatti ricavati da ciottoli. Una singola schegge di selce rinvenuta in un deposito di ghiaia in località Costa del Forgione a Irsina in Basilicata, datato con il metodo del potassio/argon a 850.000 anni, è la prima muta testimonianza di un manufatto prodotto dall’attività umana della nostra più antica preistoria. Industrie ricavate da ciottoli o prodotte su scheggia sono state inoltre rinvenute in Romagna a Ca’Belvedere di Monte Poggiolo, in Umbria a Monte Peglia, in Toscana a Bibbiona e Collinaia, nel Lazio ad Arce, Fontana Liri, Castro dei Volsci e Colle Marino, in Calabria a Casella di Maida e in Sicilia a Capo Rossello, Bertolino di Mare e Menfi. Con eccezione di Ca’Belvedere (tavola), sito datato tra 1.300.000 e 730.000 anni fa, nessuna o scarse ricerche sistematiche sono state effettuate nelle località sopra citate ai fini di un loro più preciso inquadramento cronologico. L’insieme di questi siti appare grosso modo cronologicamente corrispondente, o di poco precedente, a Isernia La Pineta, la cui industria, come si vedrà, presenta alcuni aspetti arcaici (frequenza e tipologia dei manufatti su ciottolo), associati ad altri più moderni. Un’età tra i 700.000 e 500.000 anni è in generale suggerita per molte di queste industrie riferite alla fase arcaica del Paleolitico inferiore. Gli strumenti utilizzati da questi primi gruppi umani sono ottenuti mediante la scheggiatura di blocchi o ciottoli di forma sferoidale od ovoidale in cui uno o più stacchi determinano un margine tagliente; la scheggiatura può interessare una sola faccia (chopper) o tutte e due (chopping-tools o chopper bifacciali) o infine estendersi a gran parte della superficie con numerosi stacchi multidirezionali (poliedri). Le schegge residue potevano inoltre essere lavorate con un’ulteriore scheggiature dei margini (ritocco) che ne modificavano la forma producendo manufatti di vario tipo, tra quali ad esempio raschiatoi o schegge denticolate. Le materie prime più frequentemente utilizzate sono il quarzo, la quarzite, il calcare e la selce; da ciottoli di queste materie prime attraverso il distacco di poche schegge con la tecnica della percussione diretta vengono ottenuti chopper monofacciali e bifacciali, poliedri, grattatoi carenati, schegge irregolari e rari strumenti che presentano un ritocco irregolare o denticolato. Questi manufatti costituiscono lo strumentario di base dei primi gruppi umani che appartengono alla specie dell’Homo erectus. Il primo popolamento della penisola italiana e dell’Europa lo si deve all’Homo erectus. Si tratta di gruppi umani provenienti dall’Africa o dall’Asia o da entrambi questi continenti, che con penetrazioni successive portarono questa specie, nell’arco di circa mezzo milione di anni, a popolare per la prima volta l’Eurasia dopo aver abbandonato le savane africane, intorno a circa a un milione di anni fa. Le variazioni del volume dei ghiacci continentali determinarono infatti importanti oscillazioni delle linee di costa che influirono sull’assetto delle terre emerse. Queste modificazioni del paesaggio costiero mediterraneo resero possibili, durante il Pleistocene inferiore e l’inizio del medio, in una fase cronologicamente precedente a 500.000 anni fa, migrazioni di gruppi di Homo erectus dall’Africa all’Europa attraverso Gibilterra e la penisola iberica, attraverso la Sicilia e la penisola italiana e dall’Asia occidentale attraverso la penisola balcanica; le evidenze archeologiche sembrano costituire una conferma almeno per quanto concerne i primi due percorsi. In base alla diversa incidenza nelle industrie litiche degli strumenti su ciottolo o su scheggia si può distinguere un insieme di siti caratterizzati dalla presenza più o meno consistente di manufatti su ciottolo, talora associati a strumenti su scheggia, da un gruppo con industrie su scheggia prive di ciottoli. Questa contemporaneità di due tradizioni litiche diverse, o solo apparentemente diverse, può infatti non essere la testimonianza diretta di distinzioni tra gruppi culturali diversi, poiché industrie tra loro differenziate dalla presenza di strumenti su ciottolo o su scheggia possono anche riflettere attività altrettanto differenziate nell’ambito di gruppi umani partecipi della medesima tradizione tecnologica. Per tale motivo è necessario rilevare come le condizioni di giacitura dei reperti archeologici nel terreno e le modalità di
raccolta di essi possano avere notevolmente influito sulla reale rappresentatività di alcune industrie e sull’incidenza di determinati tipi di manufatti. La fase di Isernia La Pineta L’uomo ha dunque stabilito il primo contatto con la penisola. Diversi tipi di ambienti, come le aree costiere, le pianure interne, le sponde di grandi fiumi o di antichi bacini lacustri, sono state frequentate durante la fase arcaica del Paleolitico inferiore. Nessuna struttura di abitato però ci indica l’entità dell’impatto di questi primi gruppi umani sull’ambiente circostante, né il grado di trasformazione che essi dovettero apportarvi per assicurasi la sopravvivenza nei territori occupati. Tutto ciò che appare estremamente confuso, indeterminato e frammentario nella cultura umana, ridotto a pochi strumenti in pietra scheggiata è, alla soglia di 736.000 anni fa, improvvisamente condensato con il massimo dell’evidenza in un sito. A Isernia La Pineta nel Molise, infatti, circostanze favorevoli hanno consentito la conservazione di un vasto abitato del quale è stato possibile ricostruire il contesto paleogeografico, avere datazioni assolute, individuare strutture abitative, definire un’imponente associazione faunistica e i caratteri di un’abbondante industria litica. Il giacimento preistorico in questione risulta così uno tra i più vasti e significativi accampamenti di Homo erectus noti in Europa (tavola). L’ambiente che accolse l’insediamento umano di Isernia era, in base ai molti dati naturalistici recuperati, un’ampia pianura, ricca d’erba e con qualche albero sporadico, solcata da un corso d’acqua che durante la breve stagione delle piogge andava soggetto ad esondazioni. In questo paesaggio vivevano grandi mammiferi che pascolavano nelle aree più aperte muovendosi alla ricerca di macchie verdi necessarie al loro sostentamento. Tra i resti faunistici le specie più rappresentate sono il bisonte e il rinoceronte; è assai frequente anche l’elefante e, in minore entità, l’orso e l’ippopotamo, mentre sono rari i cervidi, il daino, il megacero e il cinghiale. Il clima doveva presentare due stagioni, una lunga arida e una breve umida con precipitazioni annuali, affinché si sviluppassero vaste superfici di pascolo adatte alle mandrie di erbivori. Nonostante il pericolo di inondazioni i gruppi umani tornarono ripetutamente ad accamparsi in questa località, come attesta l’ampiezza dell’area interessata dai resti archeologici; frequentazioni stagionali in un luogo favorevole all’attività di caccia, delimitato da una fiume e da terreni paludosi che proteggevano da animali pericolosi. La presenza dei cacciatori paleolitici è documentata non solo dai resti di caccia, ma dagli strumenti litici che essi usavano per le varie attività quotidiane e dalle strutture abitative dove questi cacciatori vivevano. I manufatti di pietra utilizzano selce e calcare; gli strumenti in selce, rappresentati per la maggior parte da denticolati, ma anche da grattatoi, raschiatoi e becchi, sono molto più numerosi di quelli in calcare, usati nella produzione di chopper e di qualche scheggia ritoccata. Con questi strumenti e senza dubbio con altri, di cui non si sono conservate le tracce, come ad esempio il legno, l’uomo di Isernia provvedeva alla sua sussistenza e alla costruzione di una struttura di bonifica sulle sponde del fiume, atta a consolidare il terreno acquitrinoso. La scelta di grandi ossa, quali crani, zanne, bacini, ossa lunghe di elefante, assieme a numerosi frammenti di travertino fu ben oculata per costituire la base della struttura di bonifica del terreno. La presenza di aree abitative prive di ossa di animali, ma ricche di strumenti, fanno ipotizzare l’esistenza di aree specializzate in attività particolari in diversi punti dell’accampamento Il sito, occupato ripetutamente per brevi periodi in anni successivi, fu abbandonato definitivamente quando le attività vulcaniche e sismiche della zona si fecero intense e pericolose. L’eccezionalità dei resti archeologici riportati in luce a Isernia La Pineta documenta in un’epoca così antica un’organizzazione socio-economica già assai avanzata, come attestano le complesse attività intraprese, quali l’imponente struttura abitativa su bonifica o la caccia collettiva ai grandi mammiferi. I dati faunistici provano infatti che il gruppo umano che occupava il sito di Isernia praticava una caccia sistematica e indirizzata verso un ampio spettro di specie che rispecchia l’esistenza di una collettività socialmente organizzata e di strategie di sussistenza chiaramente innovative nella penisola italiana. A un periodo successivo ad Isernia, ma antecedente lo sviluppo dell’Acheuleano possono essere riferite le industrie dei livelli A-B di Loreto di Venosa in Basilicata e quelle rinvenute nel giacimento di Visogliano sul Carso triestino.
Lo stadio acheuleano Molti complessi litici più recenti della fase di Isernia La Pineta e distribuiti in un arco di tempo compreso tra le epoche glaciali di Mindel e Riss sono stati attribuiti, in base alle caratteristiche tecniche, al Protolevalloisiano e al Clactoniano. Queste industrie, prive di bifacciali, sono prevalentemente caratterizzate da strumenti su scheggia. L’interpretazione delle possibili relazioni tra queste due tradizioni litiche o della loro reciproca indipendenza, ed il significato funzionale della presenza/assenza di bifacciali, caratteristici invece dello stadio acheuleano, rappresentano un difficile argomento di dibattito. Industrie di questo tipo sono state rinvenute nel Gargano in Puglia, in Abruzzo, nei dintorni di Roma, nel Veneto e in Sardegna. Le due tradizioni litiche sono in realtà difficilmente inquadrabili, non solo dal punto di vista cronologico, ma anche culturale. La scarsità dei reperti, le raccolte di superficie parziali e la distinzione basata solo
sullo stato fisico dei manufatti (patina, fluitazione) non consentono al momento un’ulteriore definizione del significato di queste tradizioni litiche nella penisola italiana. Non siamo in grado di fissare con sufficiente precisione quando alle industrie su ciottolo succedono quelle a bifacciali. Nell’Acheuleano vengono generalmente fatte rientrare le industrie con bifacciali di età compresa tra circa 500.000 e 150.000 anni fa; esse sono molto numerose e distribuite su tutto il territorio peninsulare. I termini estremi dello stadio acheuleano si collocano tra i 458.000 anni di Fontana Ranuccio e i 200.000/150.000 anni a cui possono essere riferiti siti dell’Acheuleano finale, quali ad esempio Rosaneto in Calabria. Il manufatto tipico di questo stadio è, come è stato detto, il bifacciale; sotto questa denominazione sono classificate forme differenti di manufatti, derivate da ciottoli o grandi schegge, prodotte mediante ritocco semplice o scagliato in modo da ricavare due facce principali. Un bifacciale può avere un profilo triangolare, cuoriforme, ovale, discoide e a mandorla (amigdala); il ritocco, ad ampi stacchi si estende alle due facce, talora parzialmente, determinando un andamento dei margini sinuoso o rettilineo (tavola tavola). L’ampia distribuzione delle industrie di tradizione acheuleana è l’evidente testimonianza di un incremento demografico rispetto alle fasi precedenti e di una particolare adattabilità dei gruppi umani portatori di questa tradizione culturale alle diverse nicchie ecologiche. Alcune aree privilegiate, come il già ricordato bacino di Venosa, le rive del paleo Sacco nel Lazio meridionale o le coste tirreniche a nord di Roma, presentano in questa epoca una concentrazione particolare di siti. A Venosa, in località Notarchirico, è stata individuata un’eccezionale sovrapposizione di diversi suoli d’abitato molto estesi con addensamenti di manufatti associati a resti di elefanti, bovidi e cervidi. Negli undici livelli messi in luce, significativa è l’alternanza di industria a scarsi bifacciali e di industrie su scheggia totalmente prive di essi. La presenza/assenza di bifacciali nei livelli di abitato suggerisce piuttosto delle diversità di adattamento a condizioni locali, o a momenti particolari dettati da attività diversificate (area di macellazione, area di sosta breve, estese superfici di abitato), o, ancora, appare in relazione alla maggiore o minore frequenza di resti di fauna, mentre è più difficile interpretare tale alternanza come manifestazione di gruppi tecnologicamente o culturalmente diversi. Il sito di Notarchirico è datato a circa 359.000 anni fa. Nel territorio laziale sono state riconosciute nell’ambito dell’Acheuleano tre fasi cronologicamente differenziate e caratterizzate da una limitata estensione territoriale. Le tre fasi sono state riconosciute ad Anagni-Fontana-Ranuccio, in uno dei livelli di Lademagne (Frosinone) e a Torre in Pietra e Pontecorvo. All’Acheuleano sono riferibili molti altri siti distribuiti su buona parte della penisola tra i quali si possono ricordare i rinvenimenti della Grotta del Principe ai Balzi Rossi in Liguria, il giacimento di Monte Conero presso Ancona, i numerosi siti dell’Abruzzo tra i quali si ricordi quello di Le Svolte di Popoli nella Conca Peligna, le numerose presenze acheuleane del Gargano in Puglia, le diverse località di Marina di Camerota presso Palinuro in Campagna ed infine il rinvenimento di bifacciali nell’isola di Capri. Le fasi finali dell’Acheuleano sono caratterizzate dalla comparsa della tecnica Levallois in industrie con rari bifacciali. La scheggiatura può avvenire in maniera non predeterminata, ma anche secondo uno schema prestabilito, al fine di ottenere dei prodotti della scheggiatura di forma regolare adatti alla fabbricazione di strumenti. Uno di questi procedimenti di produzione di schegge di forma regolare è la tecnica Levallois; essa consiste nel preparare il nucleo dandogli una forma regolare, ovalare, triangolare o rettangolare, predeterminando così il distacco di una scheggia, una punta o di una lama di forma predeterminata. Siti di questo momento finale dell’Acheuleano sono presenti in numerose località del Pedeappennino emiliano-romagnolo, nel Veneto nelle Cave di Quinzano e a Monte Gazzo e nelle Marche; a questa fase sono inoltre riferibili anche alcune raccolte di superficie della Toscana a sud dell’Arno, dove l’incidenza dei bifacciali è scarsa, mentre l’industria su scheggia, ottenuta con tecnica Levallois è abbondante. Una bassa incidenza di bifacciali associata a schegge levallois caratterizza pure alcune industrie litiche del Gargano e il complesso di Rosaneto presso Praia a Mare in Calabria. La progressiva evoluzione dalle industrie della fase finale della tradizione acheuleana portò allo sviluppo almeno in parte dei complessi del Paleolitico medio. Nel corso dell’ultimo interglaciale diversi complessi litici presentano infatti una serie importante di modificazioni strutturali. La progressiva scomparsa dei bifacciali, la standardizzazione spinta di determinati tipi di strumenti, come le punte e i raschiatoi, e una maggiore regolarità dei prodotti della scheggiatura preannunciano i caratteri tipologici dei futuri complessi würmiani. La comparsa dell’Homo sapiens neanderthalensis e dei complessi musteriani, nell’Interglaciale riss-würmiano tra 130.000 e 80.000 anni fa, segna convenzionalmente la fine del Paleolitico inferiore.
La vita quotidiana durante il Paleolitico inferiore La presenza dell’Homo erectus è documentata generalmente da concentrazioni di manufatti litici e di resti scheletrici di animali che presentano tracce di macellazione, di taglio o fratture intenzionali. L’organizzazione dello spazio abitato può risultare da alcune evidenze archeologiche come la diversa distribuzione di aree con resti ossei parzialmente separate da aree con manufatti litici e tra questi dalla concentrazione differenziata di alcune categorie di strumenti (ad
esempio dei chopper e degli strumenti su scheggia), dalla presenza di superfici ricoperte di pietre di riporto (acciottolati) e da pavimentazioni ottenute con pietre piatte o infine dall’allineamento di blocchi di pietra. È difficile stabilire il significato reale di tali concentrazioni di reperti; nelle fasi più antiche i resti sono pochi, così è probabile che queste strutture corrispondessero a ripari, tende o a recinti di protezione dagli animali, mentre durante la fase più avanzata del Paleolitico inferiore, come abbiamo visto ad Isernia La Pineta e a Notarchirico, gli abitati diventano più estesi con allineamenti di pietre che delimitano aree di vari metri quadrati, capanne a pianta ovale, di cui ci rimangono le buche dei pali (tavola), e veri fondi di capanna rappresentati da depressioni scavate nel terreno circondate da muriccioli di pietra usati come paravento. Con la comparsa dell’Homo erectus si osserva una ben più grande capacità di adattamento a differenti situazioni. Due fattori hanno favorito questo adattamento: la conoscenza del fuoco; la maggiore importanza assunta dalla caccia e l’applicazione di nuove tecniche venatorie. Le tracce di fuoco più antiche che si conoscano risalgono ad un arco di tempo compreso tra 450.000 e 200.000 anni. I più antichi resti di carboni associati a un suolo d’abitato provengono da Terra Amata presso Nizza in Francia (380.000 anni), da Vértesszöllös in Ungheria (430.000-350.000 anni) e da Torralba in Spagna (250.000-130.000 anni). Il controllo del fuoco aumentò le possibilità di difesa, di conservazione e preparazione dei cibi e consentì la creazione di ambienti artificiali riscaldati, premessa della diffusione dell’uomo nelle regioni fredde. I resti scheletrici degli animali cacciati rinvenuti negli abitati del Paleolitico inferiore provano che le attività venatorie si erano raffinate. Le armi impiegate nella caccia sono, in base a quanto è noto sino ad ora, il giavellotto di legno e forse la zanna di elefante. Prove dell’uso di giavellotti in legno sono state documentate a Clacton-on-Sea in Inghilterra e a Schöningen (400.000 anni) in Germania. In entrambe le località sono stati rinvenuti frammenti di giavellotti in legno: nel primo caso si tratta di un frammento di punta, mentre nel caso tedesco furono rinvenuti i frammenti di ben cinque giavellotti di cui uno rotto in due pezzi e lungo più di due metri. I giavellotti di Schöningen erano utilizzati nella caccia ai cavalli lungo le sponde di un piccolo lago. Accanto alle armi dovevano essere adottate anche altre tecniche, quali le trappole artificiali e il fuoco. Le tecniche di caccia acquisite consentivano l’abbattimento sistematico di grandi mammiferi come l’elefante, il rinoceronte, il cavallo, il cinghiale, lo stambecco e il bue primigenio. La scelta era orientata di preferenza verso gli individui giovani che potevano essere più facilmente isolati e cacciati e davano anche carne di migliore qualità. Mentre si osserva un continuo sviluppo delle pratiche venatorie, sono pochissime le evidenze della raccolta di vegetali; allo stesso modo sono rare le tracce di raccolta di molluschi marini. Nel corso del Paleolitico inferiore muta anche l’utilizzo delle varie parti degli animali cacciati. Se nei primi tempi era sfruttata soprattutto la carcassa, in una seconda fase si osserva una decisa preferenza per le membra. Lo studio dei resti scheletrici in vari siti acheuleani rileva che i cacciatori macellavano gli animali fuori dalle aree abitate quotidianamente, abbandonandone la parte assiale dello scheletro e portando con loro gli arti anteriori e posteriori. È inoltre documentata la pratica di perforazione del cranio per consumare il cervello. L’organizzazione degli accampamenti e la pratica della caccia collettiva a prede di grande taglia, come agli elefanti e ai rinoceronti, suggeriscono un’organizzazione sociale molto sviluppata.
Il Paleolitico Medio
L’ambiente durante il Paleolitico medio Al Paleolitico medio sono generalmente assegnati i complessi riferiti all’Homo di Neanderthal i cui resti scheletrici sono distribuiti nell’Europa meridionale e centrale, nel Vicino e nel Medio Oriente, entro un intervallo cronologico che abbraccia l’Interglaciale Riss-Würm e una parte della glaciazione di Würm all’incirca tra 130.000 e 35.000 anni dal presente. Il miglioramento climatico che si è verificato durante l’Interglaciale Riss-Würm dà origine ad un nuovo sviluppo della vegetazione arborea; buona parte dell’Europa temperata e parte di quella mediterranea viene ricoperta da un fitto bosco di latifoglie. A questa fase temperata, con un clima caldo relativamente umido nel Mediterraneo occidentale ed arido nelle regioni interne del Medio Oriente, segue un raffreddamento generale che segna l’inizio della glaciazione würmiana con una prima fase con clima freddo-umido, seguita da una fase successiva con clima freddo-arido. Durante la glaciazione di Würm il bosco tende a scomparire lasciando spazio a una vegetazione a prateria o a steppa. L’espandersi della calotta glaciale artica determina un netto cambiamento climatico-ambientale che provoca successive ondate migratorie di animali di ambiente steppico. Alcune specie che caratterizzavano il Pleistocene medio, quali
l’elefante antico, il rinoceronte di Merck e l’ippopotamo si spostano verso i territori più meridionali e si estinguono non riuscendo ad adattarsi alle nuove condizioni climatiche. Contemporaneamente a questa migrazione verso territori più temperati, si verifica una lenta occupazione dell’Europa centrale e meridionale da parte di specie artiche, come ad esempio il mammut, il rinoceronte lanoso, la renna, l’alce, il bue muschiato e alcuni roditori (lemming). L’effetto della glaciazione risulta mitigato nell’area mediterranea e tale situazione si ripercuote nella composizione delle faune; durante le prime fasi del raffreddamento, infatti, sopravvivono ancora l’elefante, l’ippopotamo e il rinoceronte assieme a sporadiche presenze di faune fredde.
L’aspetto fisico dell’Homo sapiens neanderthalensis L’uomo di Neanderthal è noto dai resti scheletrici di oltre 300 individui la cui distribuzione si estende dall’Europa occidentale fino all’attuale Uzbekistan in Asia centrale. La parte dello scheletro con caratteristiche più marcate è costituita dal cranio; la sua architettura è, infatti, assai diversa da quella dell’uomo attuale. Il cranio dell’uomo di Neanderthal ha una capacità cranica media pari a 1.520 cc, di poco inferiore a quella dell’uomo di Cro-Magnon (Homo sapiens sapiens), ma superiore alla media dell’uomo attuale. La sua forma si differenzia da quella del sapiens, giacché essa è più lunga, larga e meno alta. L’osso frontale è meno elevato, più sfuggente. Nella parte anteriore si osserva un notevole rigonfiamento continuo (torus) che forma due archi in corrispondenza delle orbite. La faccia è prognata, con grandi orbite rotonde; il mento è spesso assente. Le ossa dello scheletro sono in generale più robuste di quelle dell’Homo sapiens, ma nel caso degli arti è evidente come l’avambraccio e la parte inferiore della gamba fossero relativamente corti. La statura media è pari a 166 cm. La taglia piuttosto piccola, l’ossatura robusta e le estremità corte testimoniano l’adattamento a un clima freddo.
Il Musteriano Il termine Musteriano, derivato dalla località omonima di Le Moustier in Dordogna (Francia), designa l’insieme delle industrie del Paleolitico medio. Le industrie litiche musteriane (tavola) rappresentano lo sviluppo di quelle già note durante il Paleolitico inferiore rispetto alle quali però documentano le seguenti caratteristiche di innovazione tecnologica: perfezionamento della tecnica di scheggiatura levalloisiana; perfezionamento della tecnica di lavorazione dei bifacciali; differenziazione e standardizzazione degli strumenti su scheggia, in particolare modo delle punte e dei raschiatoi; incremento degli strumenti ricavati da supporti laminari. La distinzione delle varie industrie riferibili al Paleolitico medio dell’Europa e del Vicino Oriente si basa sulle differenze riscontrate nella tecnica di scheggiatura dei manufatti di pietra (presenza/assenza della tecnica Levallois) e sulle diverse incidenze di particolari tipi di strumenti (come ad esempio i raschiatoi o i denticolati). Queste caratteristiche consentono di distinguere quattro principali complessi musteriani secondo lo schema classico francese (Musteriano di tradizione acheuleana, Musteriano tipico, Charentiano, suddiviso tra un tipo La Quina e uno Ferrassie, e Musteriano a denticolati). Il Musteriano di tradizione acheuleana è diffuso in un’area limitata, comprendente le regioni europee occidentaliatlantiche. Industrie litiche che presentano generici caratteri del Charentiano sono invece diffuse nelle regioni mediterranee e nell’Europa centrale. Il Musteriano tipico è ampiamente distribuito in tutta l’Europa e nel Vicino Oriente, mentre il Musteriano a denticolati è presente nel Levante spagnolo, Italia settentrionale, Vicino Oriente e litorale transcaucasico. Allo stato attuale delle conoscenze è difficile tracciare un quadro generale del Musteriano italiano a causa dello stato lacunoso dei dati archeologici e soprattutto di quelli paleocologici. Pur nella varietà dei numerosi aspetti documentati, è possibile distinguere due aree principali una centro-settentrionale e una centro-meridionale. Durante il momento iniziale del Paleolitico medio, corrispondente alla fase climatica Würm I, i territori del centro-nord dell’Italia documentano la presenza di complessi riferibili al Musteriano tipico con una forte incidenza nella tecnologia litica della tecnica Levallois soprattutto nel versante alto-adriatico. Nel Lazio costiero e nelle regioni centro-meridionali invece sono attestate industrie litiche riferibili al Charentiano tipo La Quina. Nel corso della fase climatica Würm II, si verifica un processo di unificazione con l’affermarsi su tutto il territorio della penisola italiana, tranne poche eccezioni a livello regionale, di un Musteriano tipico con presenza abbondante di raschiatoi e di strumenti tipici del successivo Paleolitico superiore, quali bulini, grattatoi, becchi, ecc. Alla fine di questa fase e agli inizi del Würm II-III, in diverse regioni
italiane si sviluppa un Musteriano a denticolati, caratterizzato da un generale decadimento tecnologico, con una netta diminuzione della tecnica Levallois che talora scompare del tutto e con una riduzione della varietà tipologica degli strumenti a favore di quelli denticolati. Tra i vari aspetti regionali più interessanti del Paleolitico medio italiano si annovera il Pontiniano presente in accampamenti all’aperto o in grotta del Lazio, delle aree costiere della Toscana, della Campania e della Puglia. Il Pontiniano è considerato una variazione del Charentiano tipo La Quina, condizionato dall’impiego nella fabbricazione degli strumenti di piccoli ciottoli arrotondati. Dai ciottoli, dimezzati dalle prime percussioni, o dalle schegge ricavate successivamente con ripetuti distacchi (calotte, spicchi), si arrivava ai manufatti finiti; gli strumenti risultano di piccole dimensioni e conservano per tale ragione buona parte del cortice.
L’Italia settentrionale durante il Paleolitico medio Nell’Italia settentrionale si possono distinguere tre aree geografiche principali: area ligure, area padana e Carso triestino. La maggiore concentrazione di località che hanno restituito reperti del Paleolitico medio si trova nel Veneto, anche se, con minor frequenza, altri ritrovamenti sono documentati in Liguria, Piemonte, Emilia Romagna e Friuli-Venezia Giulia (tavola). In Liguria le più antiche testimonianze di una frequentazione da parte di gruppi umani del Paleolitico medio sono attestate alla Barma Grande, ai Balzi Rossi e nella grotta della Madonna dell’Arma. Lo strato sottostante al livello con reperti musteriani di quest’ultima località è stato datato, con il metodo dell’uranio-torio, tra 100.000 e 90.000 anni fa. Le industrie litiche sono in calcare, costituite da grosse schegge e nuclei; ad esse è associata un tipo di fauna a grandi pachidermi (elefante, ippopotamo e rinoceronte). Nelle fasi successive, e in particolare durante il Würm I e I-II, si registra un lenta evoluzione delle industrie litiche che mostrano una certa variabilità tecnica e tipologica. Si ricordino a questo proposito i livelli riferibili al Musteriano tipico ricco di raschiatoi presenti nella Barma Grande, nella Grotta del Principe, nella Caverna delle Fate, nella Grotta di Madonna dell’Arma e in quella di S. Lucia di Toirano. Durante il Würm II, fase climatica fredda ed arida, sopravvive tra i grandi pachidermi solo il rinoceronte, mentre sono presenti il cavallo, lo stambecco, il camoscio e la marmotta, in alcuni casi è pure documentata la renna. Il passaggio a un Musteriano a denticolati, riferibile cronologicamente a questa fase climatica, è documentato nel Riparo Mochi e nello strato superiore della Grotta di S. Lucia. Di particolare rilievo infine è l’industria litica rinvenuta nella località S. Francesco di Sanremo, dove la tecnica e la tipologia Levallois presentano manufatti ricavati da supporti laminari; tra gli strumenti, è interessante rilevare la bassa incidenza dei raschiatoi a favore dei denticolati e degli strumenti di tipo Paleolitico superiore, quali bulini e coltelli a dorso. Questa industria è forse riferibile alla fase climatica Würm II-III. Il bacino padano presenta una sostanziale omogeneità ambientale e morfologica a cui fa spesso riscontro una simile omogeneità degli aspetti tipologici e culturali delle industrie del Paleolitico medio. Le località interessate dalla frequentazione di gruppi di musteriani sono, nella quasi totalità dei casi, distribuite sui primi rilievi posti al margine della grande pianura alluvionale del Po. In particolare essi sono concentrati nel territorio veronese (Monti Lessini) e vicentino (Monti Berici), dove numerose sono le grotte e frequenti i ripari sotto roccia. A questo proposito, si ricordino le seguenti località: Riparo Tagliente, Riparo Mezzena, Riparo Zampieri, Grotta A di Veia, Grotta della Ghiacciaia e Riparo di Fumane in provincia di Verona e Grotta del Broion e le grotte Maggiore e Minore di S. Bernardino in provincia di Vicenza. I giacimenti preistorici menzionati sono caratterizzati, in genere, da imponenti depositi archeologici che si sviluppano con serie stratigrafiche anche di vari metri. Le testimonianze della presenza umana si succedono abbondanti, spesso in modo ininterrotto, per lo più rappresentate da manufatti litici e da resti ossei degli animali cacciati dall’uomo. La sequenza messa in luce nel Riparo Tagliente in Valpantena presso Verona rappresenta un valido riferimento per un inquadramento generale del Musteriano della valle Padana. Le industrie litiche del Paleolitico medio sono contenute in un deposito dello spessore complessivo di tre metri. Tre cicli principali sono stati riconosciuti nella storia della sua formazione; essi abbracciano un arco di tempo piuttosto lungo riferibile alla fase climatica Würm II. Le industrie litiche, sempre ricavate dalla selce, si caratterizzano per la presenza della tecnica di scheggiatura Levallois, con un’incidenza più elevata nei livelli archeologici più antichi ed una progressiva diminuzione di questa tecnica in quelli più recenti. Tra le varie classi tipologiche degli strumenti, quella dei raschiatoi risulta essere la classe che incide maggiormente. La maggiore parte dei depositi citati con resti del Paleolitico medio del Veneto è riferibile a un Musteriano tipico, mentre l’industria litica della Grotta Maggiore di San Bernardino sui Colli Berici, riferibile cronologicamente alla fase climatica Würm I, presenta un carattere che l’avvicina al Charentiano. L’incidenza della tecnica Levallois è ridotta; gli strumenti sono di piccole dimensioni e comprendono molti tipi caratteristici del successivo Paleolitico superiore, quali
bulini, grattatoi, troncature e becchi. I raschiatoi sono sempre numerosi, anche se nei livelli più recenti della sequenza stratigrafica riducono la loro incidenza a favore degli strumenti denticolati. Il caso specifico delle località del Carso triestino che hanno restituito manufatti musteriani verrà trattato nel paragrafo dedicato al Paleolitico medio nel Friuli-Venezia Giulia.
La vita quotidiana dell’Homo sapiens neanderthalensis La grande quantità di resti ossei di animali, presente nei depositi del Paleolitico medio, prova l’importanza fondamentale della caccia quale attività di sostentamento dell’uomo di Neanderthal. Durante i periodi con un clima più temperato, la composizione dei mammiferi cacciati riflette la varietà degli ambienti circostanti le località dove erano posti gli accampamenti. Gli studi dei resti ossei degli animali rivelano la presenza di specie diverse, tra le quali grandi pachidermi, equidi e cervidi; le prede cacciate dai Musteriani erano quindi in prevalenza erbivori. In condizioni di maggiore rigidità climatica, che si verifica soprattutto nel Würm II, la caccia tende a specializzarsi fino al punto di spingere alcuni gruppi musteriani a basare la loro economia e la loro cultura materiale sullo sfruttamento intensivo di una sola specie. Tale adattamento a particolari condizioni ambientali è ben documentato sia nel caso dei gruppi di cacciatori penetrati nelle regioni montane dell’Europa centrale e specializzatisi prevalentemente nella caccia all’orso delle caverne sia nel caso delle comunità musteriane delle regioni steppiche dell’Europa orientale dove la specializzazione della caccia si era orientata esclusivamente verso il mammut. I metodi di caccia dei musteriani sono attualmente difficili da ricostruire. Si può ipotizzare che i cacciatori del Paleolitico medio praticassero sistematicamente la caccia collettiva, utilizzando come arma da getto, una lancia dotata di punta di pietra. Erano sicuramente impiegate nella caccia ad animali con comportamento gregario anche trappole costituite da rilievi naturali, quali dirupi e crepacci; gli animali di grande taglia invece venivano catturati spingendoli in terreni paludosi dove, dopo averli abbattuti, erano macellati. Per alcune regioni, quale la Francia meridionale, è stata prospettata l’esistenza di territori di caccia definiti, entro i quali i Musteriani si spostavano ciclicamente da un abitato principale corrispondente al campo base ad altri secondari, usati come accampamenti temporanei frequentati stagionalmente. In regioni più ricche di risorse, il modo di vita potrebbe essere stato più sedentario. Pochissimi sono i dati che si riferiscono al ruolo della raccolta dei vegetali, della raccolta dei molluschi e della pesca. L’alimentazione, a quanto si può affermare sulla base dei risultati degli studi sull’usura dentaria, era prevalentemente carnea. In alcuni siti costieri sono stati raccolti anche molluschi marini, ma solo per ricavarne degli strumenti. Gli abitati dell’uomo di Neanderthal sono di vario tipo; anche se, rispetto al Paleolitico inferiore, quelli in grotta o sotto ripari rocciosi risultano più numerosi. Le cavità vennero probabilmente frequentate durante la stagione fredda, e i rigori della glaciazione würmiana giustificherebbero, almeno in parte, tale mutamento di abitudini. Queste sedi attestano spesso la presenza di strutture abitative diversificate con aree delimitate da blocchi di pietra con focolari al centro che dovrebbero costituire ciò che rimane delle capanne addossate alle pareti delle grotte e dei ripari. Nelle pianure dell’Europa centro-orientale sono frequenti invece gli accampamenti all’aperto con strutture abitative costituite da cumuli di ossa di mammut con andamento circolare che dovevano assicurare al suolo una probabile copertura di pelli (tavola). L’approvvigionamento delle materie prime necessarie alla produzione degli strumenti litici avveniva di solito entro un raggio di 10-20 chilometri dagli accampamenti residenziali. Aree dove si lavorava la pietra (officine litiche) sono note sia nei pressi delle strutture abitative sia isolate, in prossimità degli affioramenti di selce. Assieme alla selce alcuni gruppi musteriani hanno prodotto degli strumenti dalle materie dure animali: schegge appuntite d’osso sono state lavorate in modo da ricavare dei punteruoli; in altri casi i margini di schegge d’osso sono stati ritoccati, con metodi simili a quelli usati nella lavorazione della selce, ottenendone raschiatoi. In alcuni siti costieri della penisola italiana, come nelle caverne dei Balzi Rossi in Liguria, nella Grotta dei Moscerini nel Lazio e nelle grotte del Cavallo, di Uluzzo, Bernardini e di Serra Cicora nel Salento in Puglia, è attestata la presenza di raschiatoi ricavati dalle valve di conchiglie di Callista chiome.
Sepolture, cannibalismo ed astrazione dell’uomo di Neanderthal Nel Paleolitico medio compaiono le prime testimonianze di riti funerari. Il culto dei morti da parte dell’Homo neanderthalensis è, infatti, ben documentato da un numero discreto di sepolture distribuite nell’Europa meridionale, nel
Vicino e Medio Oriente; in particolare, sepolture intenzionali di individui di Neanderthal sono state messe in luce in grotte della Francia, dell’Iraq e della Palestina. Le sepolture sono prevalentemente in fossa, sotto tumulo o in anfratti della parete della grotta; il corpo veniva deposto sul dorso o su un fianco con gli arti inferiori più o meno flessi. In alcuni casi la presenza di ossa di animali trovate presso lo scheletro umano sono state interpretate come un’offerta funeraria. Di particolare importanza, quale testimonianza dell’attenzione riservata ai defunti dall’uomo di Neanderthal, è la sepoltura di nove scheletri, sette adulti e due bambini, rinvenuti nella Grotta di Shanidar in Iraq. In un caso un individuo maschile di 30-45 anni, deposto in posizione flessa entro un circolo di pietre, era disteso, in base a quanto rilevato dall’analisi dei pollini fossili, su un letto di fiori con i quali era stato anche ricoperto. Relativamente al culto dei morti, oltre alle sepolture intenzionali, sono stati riconosciuti anche rituali particolari, quale l’usanza di conservare parti dello scheletro dei defunti. L’esempio classico è quello della Grotta Guattari a S. Felice Circeo nel Lazio (tavola). In un anfratto interno di questa grotta fu scoperto, al centro di un cerchio di pietre, il cranio di un neanderthaliano che presentava il foro occipitale allargato e rivolto verso l’alto. L’allargamento del forame, praticato per estrarne il cervello, è stato considerato la prova di un atto intenzionale di cannibalismo rituale. La recente riconsiderazione dei dati ha sollevato molti dubbi su questa interpretazione e ha prospettato l’ipotesi secondo la quale il cranio sarebbe stato introdotto nella grotta da carnivori che la frequentavano come tana. La disarticolazione e scarnificazione delle ossa umane e l’estrazione del midollo osseo, attestate ad esempio a Krapina in Croazia e nella Grotta dell’Hortus in Francia, proverebbero invece che una forma di cannibalismo era praticata da parte dell’uomo di Neanderthal. Il rinvenimento di resti di orsi sepolti sotto tumuli, in ciste litiche o in fosse ricoperte da lastre hanno portato alcuni studiosi a ipotizzare un vero e proprio culto dell’orso praticato dai Musteriani. Tali interpretazioni vanno però assunte con cautela, anche se è innegabile che questo animale abbia assunto in determinate regioni dell’Europa un ruolo di un certo rilievo nella sussistenza e nella cultura materiale dei neanderthaliani. Senza voler postulare quindi una vera e propria religione dell’orso sembra evidente che questo plantigrado dovesse ricevere una certa importanza anche nella cultura spirituale dei Musteriani, specialmente nelle aree dove la caccia a questo animale era più intensa. Prove archeologiche di comportamenti simbolici o attestanti una certa astrazione sono il rinvenimento in strati riferibili all’ultima fase del Musteriano di sostanze coloranti o di oggetti tinti con ocra, di fossili e minerali raccolti al di fuori dell’accampamento e di ossa incise con motivi geometrici (linee parallele, zig-zag). Si deve infine segnalare il rinvenimento nella Grotta di Divje Babe I in Slovenia di un frammento di femore di orso delle caverne con tre fori artificiali che lo scopritore interpreta come flauto. Se questo oggetto è una forma di flauto primordiale ciò prova che l’uomo di Neanderthal era in grado di concepire e creare dei suoni musicali e tale ipotesi proverebbe che l’invenzione della musica è molto più antica di quanto si pensi.
Il Paleolitico Superiore
La comparsa dell’Homo sapiens sapiens Il Paleolitico superiore viene comunemente collegato alla diffusione dell’Homo sapiens sapiens. Il problema della reale determinazione del limite tra Paleolitico medio e superiore interessa la comparsa di gruppi umani con caratteristiche fisiche simili a quelle dell’uomo attuale. La discussione è centrata su due tesi opposte: quella di un’origine africana recente dell’Homo sapiens sapiens che mediante una migrazione verso nord-est avrebbe popolato il resto del Vecchio Mondo (modello della sostituzione) e quella di un’origine antica attraverso una lenta evoluzione dalle forme precedenti in Africa, in Asia e in Europa (modello multiregionale). La collocazione cronologica e geografica dei resti più antichi di uomo moderno sembra dare più credito alla prima tesi. I risultati di una recente analisi genetica condotta su 147 popolazioni attuali confermerebbero il modello della sostituzione. 133 popolazioni di questo campione presentano infatti tipi di DNA mitondriale derivati per mutazioni successive da un unico ceppo, che varie considerazioni ritengono africano. La comparsa di questo comune progenitore di un uomo geneticamente moderno, che potremmo identificare con una ipotetica Eva africana, poiché il DNA mitocondriale si trasmette lungo la linea femminile, è collocata tra 290.000 e 140.000 anni fa nelle regioni dell’Africa centro-meridionali. La sua prima migrazione fuori dai territori africani sarebbe quindi avvenuta tra 180.000 e 90.000 anni fa, in tale modo i dati che attribuiscono circa 100.000 anni ai più antichi reperti di Homo sapiens sapiens della Palestina e meno di 40.000 anni a quelli più antichi europei confermerebbero quanto ottenuto dai risultati della ricerca genetica.
Resta da stabilire dove e quando l’uomo moderno abbia sviluppato l’insieme dei comportamenti che lo differenziano da quelli dell’uomo di Neanderthal. In Europa, parallelamente all’estinzione dei Neanderthaliani e alla comparsa dei primi uomini moderni, si realizza il passaggio dal Paleolitico medio al Paleolitico superiore, caratterizzato da mutamenti comportamentali che interessano il modo di vita, le strutture abitative, l’economia, l’organizzazione sociale e la spiritualità. I due fenomeni, biologico e culturale sono in stretta connessione: il Musteriano, inteso come l’insieme dei complessi del Paleolitico medio, è espressione dell’uomo di Neanderthal; l’Aurignaziano, primo complesso del Paleolitico superiore, è la prima evidente testimonianza dell’Homo sapiens sapiens. Le più recenti scoperte hanno tuttavia dimostrato che i complessi più arcaici dell’Europa occidentale tradizionalmente attribuiti all’inizio del Paleolitico superiore, quali il Castelperroniano in Francia e nella Spagna nord-occidentale e l’Uluzziano nell’Italia centro-meridionale, appaiono in continuità con gli ultimi aspetti del Musteriano riferibili ancora a gruppi di Neanderthaliani di cui rappresentano le ultime manifestazioni culturali. In Europa il passaggio dal Musteriano all’Aurignaziano è sempre brusco nelle regioni in cui questo primo complesso del Paleolitico superiore compare precocemente; in aree marginali invece si interpongono i cosiddetti complessi di transizione, quali il Castelperroniano e l’Uluzziano. Le più antiche datazioni di località dell’Europa meridionale con presenze aurignaziane sono attestate nella Penisola balcanica (39.000-35.000 anni fa), nell’Italia settentrionale, in Veneto e Liguria (38.000-35.000 anni fa), in Spagna nella Catalogna attorno a 39.000-38.000 anni da oggi e in Francia nella Dordogna tra 34.000-33.000 anni fa. Sembra che l’uomo moderno sia comparso in un momento precoce nelle regioni meridionali dell’Europa e da qui si sia poi diffuso verso le regioni centrali e verso i territori dell’Europa occidentale-atlantica.
Le caratteristiche fisiche dell’Homo sapiens sapiens Come è stato indicato in precedenza il periodo glaciale di Würm è caratterizzato da due stadi freddi separati da una lunga fase più temperata (che si protrae tra 50.000 e 25.000 anni fa), durante la prima parte del quale l’uomo di Neanderthal scomparve dall’Europa e fu sostituito dall’uomo moderno. I rapporti cronologici e genetici tra queste due sottospecie non sono ancora chiari, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che i neanderthaliani rappresentino una forma troppo specializzata per dare origine in poche migliaia di anni all’uomo moderno. L’Homo sapiens sapiens potrebbe pertanto essere comparso in Europa per migrazione da territori diversi del Vicino Oriente. Il nuovo tipo umano si diffonde in tutti i continenti, anche in Australia e nelle Americhe; rispetto alle forme precedenti si differenzia per il cranio alto, l’assenza del toro sopraorbitario, la fronte diritta, la faccia piatta, il mento prominente, l’occipitale arrotondato, la statura più alta e una diversa proporzione tra gli arti. Come prototipo di questo nuovo tipo umano è stato considerato l’individuo "anziano", di circa 50 anni d’età, rinvenuto nel 1868 nel riparo di Cro-Magnon in Dordogna (Francia), che ha dato il nome ai resti più antichi di Homo sapiens sapiens. Le innovazioni comportamentali dell’uomo moderno investono tutte le sfere della sua attività quotidiana e spirituale. Tali comportamenti, che solo in pochi casi erano già attestati nell’uomo di Neanderthal, sembrano avere origine dalle nuove e più complesse facoltà cerebrali dell’Homo sapiens sapiens, che consentirono lo sviluppo del linguaggio articolato e di capacità simboliche e cognitive. Con l’uomo moderno il processo di encefalizzazione giunge al suo culmine e il nostro cervello raggiunge un volume compreso in media tra 1.500 e 1.600 cc. Si tratta di un organo dalle dimensioni notevoli in relazione alle dimensioni corporee complessive e che necessita di un apporto energetico altrettanto ragguardevole. L’ampliamento delle capacità intellettive non dipende naturalmente solo dal volume metrico del cervello, ma anche dai suoi processi di riorganizzazione interna. L’espansione del volume inoltre non è uniforme, ma interessa alcune aree particolari come ad esempio quella destinata alle capacità associative e linguistiche. La particolare architettura cranica dell’Homo sapiens arcaico e dell’Homo sapiens moderno può aver consentito lo sviluppo della parte frontale del cervello destinata all’elaborazione di tali capacità. Una volta che il linguaggio e le capacità cognitive simboliche sono entrate a fare parte dell’universo umano ne deriva una conseguenza di portata incalcolabile: la possibilità di trasmissione per via non genetica del patrimonio di conoscenze, di capacità tecniche, di modi di vita e di sapere rituale da una generazione all’altra. Tale trasmissione non biologica delle capacità acquisite risulta così il punto di partenza dell’evoluzione culturale. Nessun mutamento di carattere biologico ed anatomico ci differenzia dall’Homo sapiens sapiens di 40.000-35.000 anni fa. È superfluo sottolineare quanto comportamenti, modi di organizzazione sociale e abitudini di vita si siano succeduti e modificati nell’arco di tempo che ci divide dalle fasi più antiche del Paleolitico superiore e come queste modificazioni siano la conseguenza dell’evoluzione culturale che ha segnato la nostra storia, ma che potrà subire anche dei nuovi cambiamenti nel corso del suo sviluppo futuro.
Cronologia del Paleolitico superiore europeo I complessi del Paleolitico superiore europeo si sviluppano nella parte recente dell’interstadio würmiano, nel II Pleniglaciale e nel Tardiglaciale, lungo un arco cronologico compreso tra 35.000 e 10.000 anni circa da oggi (tavola). L’Aurignaziano è, come abbiamo visto, il primo complesso europeo espressione dell’Homo sapiens sapiens che, affermatosi in vario modo tra 39/38.000 e 33.000 anni fa, termina attorno a 26.000 anni dal presente. Ad esso segue in tutta Europa il Gravettiano, che si afferma durante il II Pleniglaciale fino alla fase fredda caratterizzata dall’acme glaciale attorno a 20.000 anni fa. L’abbassamento generale della temperatura determina un estensione delle grandi masse delle nevi e dei ghiacci presenti nelle catene montagnose europee che vanno a costituire così delle barriere naturali tra regioni vicine. I complessi che si affermano durante questa fase climatica subiscono, anche forse a conseguenza di ciò, una netta differenziazione culturale. Nell’area occidentale atlantica si sviluppa dapprima il Solutreano, compreso tra 20.000 e 18.000 anni da oggi a cui segue il Maddaleniano, tra 18.000 e circa 11.000 anni fa; nella penisola iberica, italiana e balcanica e nell’Europa orientale le tradizioni gravettiane regionali persistono fino al Tardiglaciale würmiano, dando origine ai complessi epigravettiani. L’Epigravettiano italico è suddiviso in una fase antica, corrispondente all’ultima fase del Pleniglaciale (all’incirca tra 20.000 e 15.000 anni da oggi), e in due ulteriori fasi, un momento evoluto ed uno finale, che corrispondono al Tardiglaciale würmiano (tra 15.000 e 10.000 anni fa). La fine della glaciazione würmiana è fissata per convenzione a 10.000 anni da oggi, data che corrisponde in cronologia radiocarbonica calibrata a 8050 ± 150 anni a.C. Questo limite cronologico non solo segna la fine del Paleolitico superiore e il passaggio al successivo Mesolitico, ma coincide anche con il limite tra il Pleistocene e l’Olocene che si riferisce al momento in cui il ritiro della calotta glaciale consentì l’entrata dell’acqua salata del Mare del Nord nell’area del Baltico.
Ambiente e territorio durante il Paleolitico superiore nell’Italia settentrionale Durante la glaciazione di Würm, in conseguenza della regressione marina, la configurazione del territorio era ben diversa dall’attuale, e la possibilità di contatti e di scambi tra la penisola italiana e parte di quella balcanica era ben maggiori (tavola). Nell’Interpleniglaciale, fase calda dell’era glaciale che si estende tra 50.000 e 25.000 anni dal presente, le aree interessate dalla presenza dei ghiacciai erano un po’ più estese delle attuali, poiché nelle regioni montuose il limite delle nevi perenni era un centinaio di metri più basso di quello odierno. Le linee di costa si trovavano circa venti metri più in basso di quelle attuali. Il clima era generalmente freddo e arido, con dei momenti moderatamente più temperati e umidi. Il II Pleniglaciale würmiano, tra 25.000 e 15.000 anni da oggi, segna un generale irrigidimento climatico che culminerà verso 20.000 anni fa con l’acme glaciale in cui i ghiacciai continentali dell’Europa settentrionale e i ghiacciai alpini raggiungeranno la massima espansione. La ritenzione di un’enorme massa d’acqua (regressione marina) determina un abbassamento generale dei mari di circa 120 metri al di sotto del livello odierno. A conseguenza di ciò, tutto l’Alto Adriatico emerse e la Pianura Padana si estese fino alle Alpi Giulie, al Carso, alle pendici dei rilievi istriani e alle Alpi Dinariche. A nord di questa grande pianura, la cui linea di costa più meridionale si estendeva tra Ancora e Zara, le Prealpi Venete, le Alpi Dolomitiche e Carniche e le Caravanche in Slovenia furono intensamente ricoperte dalle masse nevose perenni, mentre le Alpi Giulie e Dinariche, caratterizzate da rilievi meno elevati, non costituirono una barriera naturale tra le regioni balcaniche e quelle mediterranee. Nel Pleniglaciale il clima, generalmente freddo e con tendenza a divenire sempre più continentale (con temperature medie estremamente rigide nel mese di gennaio e relativamente alte in luglio) e arido determina, attorno alle aree glacializzate, la formazione di un paesaggio di tundra e più a sud di steppe fredde e di steppe arborate. Nelle aree più lontane dalle masse dei ghiacciai prevale una foresta di conifere, mentre la foresta mista è confinata in ristrette aree di rifugio. Le influenze continentali-balcaniche dovettero essere particolarmente marcate nelle regioni alto adriatiche della penisola italiana come è confermato dalla presenza di mammiferi, quali il mammut, il bisonte e la lepre fischiante. Il ritiro definitivo delle masse glaciali dalle regioni dell’Europa settentrionale in relazione a un lento, ma progressivo innalzamento della temperatura, segna l’inizio del Tardiglaciale würmiano. Durante il Tardiglaciale, che interessa un arco cronologico compreso tra 15.000 e 10.000 anni dal presente, vengono distinte delle fasi a clima freddo e arido (Dryas I-III) intervallate da momenti temperato-umidi (Pre-Bølling, Bølling e Allerød), nel corso dei quali la vegetazione, gli animali e quindi anche l’uomo si diffondono nuovamente in territori in cui in precedenza era impossibile accedere, come ad esempio nell’ambiente montano.
Il Paleolitico superiore nell’Italia nord-orientale L’Aurignaziano è segnalato nel Veneto nei Monti Lessini, nella Grotta di Fumane e al Riparo Tagliente, nei Colli Berici, nella Grotta di Paina, in area prealpina e nelle Dolomiti Venete sul Monte Avena a 1430 metri di quota. Nella vicina Slovenia sono inoltre note alcune località che attestano la frequentazione aurignaziana nelle Caravanche, nelle grotte di Potočka Zijalka a 1.700 metri di quota e di Mokriška a 1.500 metri, e nell’altopiano di Šebrelje nella Grotta di Divje Babe. L’Aurignaziano più antico del Veneto presenta delle industrie litiche che si differenziano nettamente da quelle del precedente Musteriano, a partire dal modo di sfruttamento della materia prima, nelle modalità di preparazione dei nuclei, e dalla morfologia dei prodotti della scheggiatura (lame), fino alle forme degli strumenti e delle armature (tavola). Esso mostra degli aspetti innovativi anche dal punto di vista comportamentale, quali la presenza di strumenti ricavati dal corno o dall'osso, di oggetti ornamentali e di oggetti decorati. Nella Grotta di Fumane, dove i più antichi livelli aurignaziani hanno un’età superiore ai 35.000 anni, anche le strutture abitative presentano caratteristiche nuove; tali elementi portano quindi a sottolineare la mancanza di una continuità tra Musteriano finale e Aurignaziano, confermando la constatazione di netta rottura nella cultura materiale dei due complessi. Gli insiemi aurignaziani del Riparo Tagliente e della Grotta di Paina sembrano appartenere al medesimo complesso; tuttavia il forte inquinamento dello strato del primo, sia dal Musteriano sottostante sia dall’Epigravettiano che si sovrappone nella stratigrafia, e l’esiguità numerica dei reperti rinvenuti nel secondo non consentono ulteriori considerazioni. Nella sezione più orientale delle Alpi, le Caravanche, i depositi delle grotte Potočka e Mokriška hanno messo in evidenza più livelli di occupazione aurignaziana. I complessi di queste due cavità delle alpi slovene sono caratterizzati nella cultura materiale oltre che dagli strumenti litici tipici dell’Auriganziano anche da un numero cospicuo di punte d’osso. I resti faunistici indicano che i cacciatori aurignaziani frequentavano ambienti al limite tra bosco e prateria alpina. Delle tre località slovene con presenze aurignaziane l’unica che è stata datata è la Grotta di Divje Babe, cui è stata attribuita un’età di circa 35.000 anni dal presente. I ritrovamenti della Slovenia, riferibili a un momento successivo rispetto a quelli del Veneto e privi di riscontri diretti con essi, sono attribuibili a un’Aurignaziano classico. Se si accetta la tesi di una formazione dell’Aurignaziano nell’area balcanico-danubiana, e della sua successiva diffusione verso occidente, le località venete potrebbero indicare un percorso di questa diffusione lungo una direttrice sudalpina. Presenze riferibili a questa prima fase aurignaziana e contemporanee, o di poco successive, a quelle venete sono inoltre attestate al Riparo Mochi in Liguria. Tale constatazione spiegherebbe inoltre la precoce comparsa dell’Aurignaziano in Provenza e in Linguadoca, rispetto ad altre regioni della Francia. I rinvenimenti gravettiani ed epigravettiani antichi, collocabili cronologicamente tra 25.000 e 15.000 anni dal presente, sono circoscritti a tre grotte dei Colli Berici nel Veneto, dove sono limitati a pochi manufatti. Le analisi dei pollini fossili e dei resti faunistici hanno messo in evidenza come gli ambienti del Gravettiano e dell’Epigravettiano antico siano associati a paesaggi steppici, freddi e aridi. I dati relativi al Gravettiano sono purtroppo ancora scarsi perché si possano fare considerazioni che non si limitino a registrare la presenza di questi complessi sia nel Veneto sia nella vicina Slovenia. I confronti tra le industrie litiche dei due territori sono invece più puntuali durante l’Epigravettiano antico, in particolare per la tipologia delle armi da getto che caratterizzano questa fase. È interessante sottolineare come nelle due aree le prede cacciate dai cacciatori epigravettiani siano differenziate. Nei siti veneti gli animali che incidono maggiormente tra i resti faunistici sono l’alce, lo stambecco, il cervo e forse la marmotta, mentre in quelli sloveni la cacciagione sembra prevalentemente orientata verso la renna. La relativa frequenza e la qualità dei ritrovamenti della fine del Paleolitico superiore, che si colloca nel Tardiglaciale würmiano, tra 15.000 e 10.000 anni dal presente, consentono di stabilire le linee fondamentali dell’evoluzione della cultura materiale dell’Epigravettiano evoluto e finale nei territori dell’Italia nord-orientale (tavola). La sequenza cui si fa riferimento è quella messa in luce dalla stratigrafia del Riparo Tagliente in Valpantena nei Monti Lessini. Le datazioni radiometriche e i dati paleoambientali collocano la parte più recente della stratigrafia del Riparo Tagliente in un lasso di tempo compreso tra la fase climatica fredda del Dryas Ib e l’oscillazione di Allerød, in termini di cronologia assoluta tra 13.700 e 10.900 anni dal presente. Altri ritrovamenti, costituiti da industrie che per le loro caratteristiche possono essere inquadrate nella sequenza del Riparo Tagliente oppure posso essere considerate posteriori, estendono la successione dei complessi epigravettiani fino alla fine del Dryas III, all’incirca fino a 10.200 anni da oggi. Resti epigravettiani importanti, oltre a quelli del Riparo Tagliente, sono stati individuati nelle grotte del Ponte di Veia anch’esso nei Monti Lessini, nel Riparo Battaglia e ai Fiorentini negli altopiani vicentini, in alcune località montane del Trentino, quali Le Viotte del Monte Bondone, Terlago e Andalo, nel Riparo Soman in Val d’Adige e nei Ripari Villabruna nella Valle del Cismon. Nel Friuli possiamo citare le località con resti epigravettiani, quali Piancavallo, le Grotte Verdi di Pradis e il Bus de la Lum in provincia di Pordenone e il Riparo di Biarzo nella Valle del Natisone in provincia di Udine.
Le industrie litiche trovate in queste località hanno permesso di ricostruire la sequenza dell’Epigravettiano italico dell’Italia nord-orientale. La successione cronologico-culturale dell’Epigravettiano è suddivisa in tre fasi. Essa è stata elaborata in base alla serie dei livelli più antichi (16-11) del Riparo Tagliente, alla serie dei livelli più recenti dello stesso riparo (10-4) e all’esistenza di un momento più recente, non presente al Riparo Tagliente, ma documentato in alcuni siti del Trentino e del Friuli. La fase più antica dell’Epigravettiano italico dell’Italia nord-orientale, presenta un paesaggio steppico con vegetazione pioniera di clima freddo e arido che corrisponde nei momenti iniziali al Dryas Ib, è caratterizzata da un’industria litica in cui prevalgono i bulini sui grattatoi ed abbondano le troncature e le punte a dorso (microgravettes). I resti faunistici rivelano la predominanza dello stambecco sull’alce e sui bovidi. Questa fase, presente solo al Riparo Tagliente nei livelli 16-11, può essere attribuita ancora ad un Epigravettiano evoluto anche se, in base alle datazioni radiometriche disponibili, può essere inserita invece nell’Epigravettiano finale. La seconda fase, che si evolve durante le oscillazioni climatiche di Bølling e di Allerød, è caratterizzata da un’industria litica in cui prevalgono i grattatoi sui bulini, diminuiscono le troncature e le punte a dorso e compaiono per la prima volta i geometrici. L’ambiente evolve verso una prateria arborata a conifere e caducifoglie, mentre gli animali più cacciati in questo tipo di paesaggio sono il cervo, il capriolo, il cinghiale e il camoscio. A questa seconda fase, presente nei livelli 10-4 del Riparo Tagliente, sono inoltre attribuiti i siti dei Fiorentini, del Riparo Battaglia e delle Grotte Verdi di Pradis. Questi insediamenti sono riferiti a un pieno Epigravettiano finale. Durante la fase climatica di Allerød, tra 11.700 e 10.900 anni dal presente, i cacciatori epigravettiani cominciano a penetrare nella montagna medio-bassa delle Prealpi, ponendo i loro accampamenti all’aperto in prossimità di zone umide o in ripari, tra i 1.000 e 1.600 metri di quota. Nella terza fase, documentata a Le Viotte di Bondone, Terlago e Andalo in Trentino e a Piancavallo e nel Riparo di Biarzo in Friuli, prevalgono ancora i grattatoi sui bulini; incrementa inoltre l’incidenza dei dorsi e troncatura. Uno sviluppo delle armature geometriche, della tecnica del microbulino nella fabbricazione dei geometrici e dei manufatti di piccole e piccolissime dimensioni (microlitismo) caratterizza questo ultimo momento dell’Epigravettiano finale collocato tra la fine del Dryas III e l'inizio del Preboreale, tra 10.500 e 9.900 anni dal presente. Nei siti sloveni i mutamenti climatici del Tardiglaciale portano a una modificazione dell’ambiente che vede la scomparsa della renna, sostituita dal cervo e dal capriolo. Le industrie litiche presentano un’evoluzione simile a quella riscontrata nell’Italia nord-orientale.
La vita quotidiana durante il Paleolitico superiore Durante il Paleolitico superiore l’economia è ancora fortemente incentrata sulla caccia. La differenziazione ambientale che si verifica durante il II Pleniglaciale, tra 50.000 e 25.000 anni fa, determina una diversificazione dei modi sostentamento dei gruppi di cacciatori-raccoglitori in relazione alle diverse risorse disponibili. Nell’Europa occidentale la renna diviene la preda dominante, mentre nelle regioni mediterranee la composizione della fauna appare varia e differenziata in base alle specifiche caratteristiche ambientali. Nella fase finale dell’Epigravettiano i mutamenti climatici determinati dalla fine dell’era glaciale consentirono la diffusione del bosco fino a quote prossime a quelle attuali. Tali nuove condizioni ambientali permisero alle bande di cacciatori che vivevano in pianura e nella fascia prealpina dell’Italia settentrionale di spingersi alla ricerca delle loro prede fino a quote sempre più elevate. Gli spostamenti avvenivano su base stagionale, passando dai campi invernali situati in grotte e ripari delle Prealpi o nelle grandi valli alpine, la Valle dell’Adige ad esempio, a insediamenti estivi situati nella media montagna, tra 1.000 e 1.600 metri di quota. Questi accampamenti estivi, posti all’aperto o sotto piccoli ripari di grandi massi, vicino a laghetti e pozze d’acqua, servivano alla caccia a cervi e stambecchi che migravano stagionalmente in senso altitudinale verso le praterie poste al di sopra del limite del bosco. Le tecniche di caccia nella fase più antica del Paleolitico superiore erano probabilmente analoghe a quelle del Paleolitico medio; le armi più comunemente usate erano ancora lance, munite ora anche di punte di osso o di avorio. Nella fase più evoluta alle zagaglie si associano gli arponi, utilizzati anche nelle attività di pesca. Durante questo periodo si perfezionano inoltre i sistemi di immanicatura delle armi da getto e si sviluppa la pratica, che verrà ampiamente adottata nel Mesolitico, di fissare elementi litici di piccole dimensioni in serie (armature) su un’asta di legno o di osso usata come arma da getto. Il Paleolitico superiore vede anche l’invenzione di un congegno atto a scagliare le lance con maggiore efficacia e potenza: questo nuovo strumento è il propulsore (tavola). Non è invece accertato l’uso dell’arco, anche se alcune rappresentazioni artistiche ne potrebbero suggerire la comparsa. La raccolta e la pesca sono documentati nel territorio europeo fin dalla fase più antica del Paleolitico superiore, in particolare nelle regioni mediterranee, dove la raccolta di molluschi marini si intensifica nell’Epigravettiano finale, come è attestato dai cumuli di conchiglie (chiocciolai) presenti in numerose località situate in prossimità delle coste.
Durante il Paleolitico superiore l’insediamento tipo è prevalentemente in grotta o in ripari sotto roccia; nell’Europa centro-orientale sono invece noti numerosi accampamenti all’aperto. Nell‘ambito degli accampamenti ve ne sono alcuni più semplici con una o due abitazioni, ed altri più complessi, con una notevole quantità di strutture. Questi abitati sono costituiti tende o capanne, sia seminterrate sia al livello del suolo, a pianta circolare od ovale (tavola; tavola). La presenza di aree specifiche destinate alla lavorazione della selce o di altre rocce dure all’interno degli abitati suggerisce una divisione del lavoro, determinata dall’abilità di alcuni individui del gruppo nella fabbricazione di particolari strumenti litici. Anche la realizzazione delle grandi opere d’arte parietale potrebbe essere attribuita ad artigiani specializzati mantenuti da ampie collettività. Pare probabile che persone addette a pratiche di culto o a pratiche magiche, con funzioni simili a quelle degli sciamani, godessero di una posizione privilegiata nella comunità. L’indicazione della mobilità dei gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore può essere determinata, oltre che dai territori sfruttati stagionalmente durante le battute di caccia, anche dal rinvenimento di particolari materie prime usate nella fabbricazione degli utensili, da conchiglie fossili o marine impiegate come ornamenti e da altri reperti di varia natura provenienti da località situate a grande distanza dagli accampamenti. Queste presenze, che alle volte provano distanze anche di centinaia di chilometri, possono essere state il risultato di lunghe migrazioni o di contatti occasionali tra gruppi diversi, almeno nella fase più antica del Paleolitico superiore. La continuità di approvvigionamento di una determinata materia prima, durante un momento più avanzato del Paleolitico superiore, prova invece l’esistenza di scambi realizzati attraverso contatti sistematici tra gruppi diversi o spedizioni ripetute alla località di estrazione o di raccolta.
Le pratiche funerarie Le testimonianze di sepolture del Paleolitico superiore sono molto più abbondanti di quelle del Paleolitico medio. Esse mostrano una notevole varietà di riti, una più complessa struttura delle sepolture e certa è la funzione di corredo degli oggetti associati ai defunti. I cadaveri sono stati deposti in fosse appositamente scavate, più o meno profonde, in posizione allungata (supina), fortemente rattratta o leggermente ripiegata. La maggior parte delle sepolture presentano un corredo, costituito prevalentemente da strumenti litici, generalmente di pregevole fattura, da manufatti in osso e corno, quali bastoni forati e zagaglie, da oggetti ornamentali, quali conchiglie forate, denti di animali anch’essi con foro di sospensione, vaghi in pietra e in osso, vertebre di piccoli mammiferi e di pesci. Tali oggetti potevano formare collane, bracciali, cavigliere, copricapi e talvolta associati in vario modo ornavano le vesti. Frequente è l’uso di ocra rossa, con cui veniva cosparso il fondo della fossa o il corpo dell’inumato. In qualche caso venivano collocati dei blocchi o lastre di pietra in corrispondenza della testa o di altre parti del corpo. La maggior parte delle sepolture del Paleolitico superiore sono ritrovamenti isolati, in rari casi si tratta di sepolture bisome di due individui, mentre nella parte finale di questo periodo il rinvenimento di numerose sepolture concentrate in un’area riservata specificamente ad esse, suggeriscono l’esistenza di vere e proprie necropoli. In questo senso possono essere interpretati alcuni rinvenimenti fatti in Italia in depositi attribuibili all’Epigravettiano finale, come ad esempio le quindici sepolture delle Arene Candide in Liguria, le quattro sepolture della grotta del Romito in Calabria e le cinque sepolture della Grotta di San Teodoro in Sicilia.
Le manifestazioni artistiche del Paleolitico superiore I cacciatori del Paleolitico superiore hanno prodotto un numero molto elevato di opere d’arte, che in circostanze favorevoli si sono preservate sino ai nostri giorni. Tradizionalmente si distingue tra una produzione d’arte mobiliare (tavola) e una produzione d’arte parietale (tavola). Le manifestazioni artistiche paleolitiche hanno avuto una vasta diffusione nel continente europeo, penetrando nelle regioni orientali talvolta fino nei territori siberiani. Gli oggetti d’arte mobiliare sono stati ricavati da supporti ottenuti da ciottoli, lastre e blocchi di pietra o ricavati dall’osso, avorio e corno ed eccezionalmente dal legno che sono stati incisi, scolpiti o dipinti; più raramente sono stati modellati con l’argilla e quindi cotti. Essa è nota in tutte le regioni europee ove vi siano testimonianze del Paleolitico superiore; giacché gli oggetti d’arte mobiliare sono spesso rinvenuti durante gli scavi archeologici, essi sono quindi riferibili a un preciso contesto cronologico e culturale. L’arte mobiliare è documentata in numerosi paesi, con frequenza maggiore nella Francia sud-occidentale e nei Pirenei, in Moravia e nella Russia centrale.
L’arte parietale, limitata alle regioni con grotte e ripari sotto roccia, è maggiormente concentrata nell’area francocantabrica tra Francia centro-meridionale e Spagna settentrionale, anche se alcune località con testimonianze artistiche sono note in Italia meridionale, Portogallo, Romania e Russia. Le tecniche di realizzazione delle incisioni e delle pitture parietali sono varie. In tutte le età sono state utilizzate l’incisione, il bassorilievo e la scultura a tutto tondo, mentre la martellinatura è limitata all’Auriganziano. In taluni casi è stata adottata la tecnica della raschiatura della superficie argillosa delle pareti, creando effetti di contrasto tra la superficie più scura dell’argilla e quella più chiara delle pareti calcaree. Frequentemente sono state utilizzate come supporto delle opere d’arte parietale anche morfologie naturali di massi o pareti delle grotte. Nella pittura sono stati usati soprattutto ossidi di ferro (ocra gialla, rossa e violetta), ossidi di manganese (nero), carbone (nero) sotto forma di matita o di polvere applicati con spatole e pennelli. Problematica appare l’attribuzione delle opere d’arte parietale, generalmente realizzate nelle parti più interne delle grotte lontane dalle aree abitative poste all’ingresso e quindi distanti dai depositi archeologici. Solo in rari casi le opere d’arte sono apparse ricoperte da un deposito, la cui attribuzione cronologica ne ha consentito una datazione. Ad eccezione di questi casi, l’inquadramento cronologico delle opere d’arte rupestre può essere realizzato solo con l’analisi stilistica, attraverso il confronto con i pochi documenti parietali e gli oggetti d’arte mobiliare databili. Su base stilistica dei siti dell’area franco-cantabrica sono stati distinti: un periodo pre-figurativo, corrispondente al Castelperroniano, nel quale la produzione artistica è limitata a bande di tratti incisi; un periodo primitivo, riferibile all’Aurignaziano e Gravettiano, nel corso del quale compaiono le prime opere figurative, sia mobiliari sia parietali; un periodo arcaico, attribuito al Solutreano e Maddalenniano antico, al quale risalgono gli insiemi di grandi blocchi scolpiti e i maggiori complessi di pitture e incisioni parietali; un periodo classico, attribuito al Maddaleniano recente, con la ricchissima produzione mobiliare, i grandi fregi scolpiti e molte grotte dipinte e incise. Con la fine del Paleolitico superiore l’arte decade rapidamente. I temi trattati dall’arte parietale sono in prevalenza naturalistici; riproducono vari tipi di mammiferi (quali mammut, cavalli, bisonti, uri, cervi, renne, stambecchi, camosci, cinghiali, leoni, lupi e orsi), pesci (salmoni e trote), anguille, rettili. Accanto ad essi si devono ricordare animali immaginari, quali il liocorno. Tra le figure umane, nettamente inferiori nell’incidenza, vi sono: figure maschili e femminili, figure di genitali femminili, mani riprodotte sia in negativo sia in positivo e figure in parte umane in parte animali. La terza categoria di figure riguarda i cosiddetti segni: punti, tratti lineari, claviformi, frecce, scutiformi, tettiformi e rettangoli campiti. Le associazioni di figure documentate nell’arte parietale hanno avuto varie interpretazioni. Due sono quelle principali: la presenza di scene di caccia (con animali feriti da giavellotti o da frecce, animali catturati in trappola), di accoppiamento e di morte ha portato alcuni studiosi ad attribuire a quest’arte una valenza magica, rivolta a propiziare la caccia, la riproduzione degli animali e la fertilità umana; altri ricercatori hanno sostenuto invece il significato simbolico delle rappresentazioni, che non sarebbero quindi delle semplici scene evocatrici di fatti reali o accaduti, ma associazioni di simboli riprodotti secondo un determinato sistema di significato. L’Italia è situata relativamente ai margini rispetto al fenomeno dell’arte dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore. La gran parte dell’arte parietale paleolitica italiana è concentrata in due grotte della Puglia (Paglicci, Romanelli), nella Grotta Genovesi nelle isole Egadi, in alcune grotte della Sicilia (Niscemi, dell’Addaura, della Za Minica, dei Puntali e Racchio), nel Riparo del Romito in Calabria e nelle Grotte dei Balzi Rossi in Liguria. Gli animali maggiormente rappresentati sono equidi, bovidi e cervidi; nel caso della Grotta dell’Addaura è presente una scena eccezionale riproducente una decina di personaggi maschili in atteggiamenti vari che sembrano partecipare a una danza o a un rito di iniziazione. Per quanto riguarda l’arte mobiliare sono note diverse figurine femminili, dette veneri, rinvenute in varie località italiane. Le caratteristiche tipologiche sono quelle peculiari di queste piccole sculture che si ritrovano nel resto d’Europa: testa poco definita, braccia appena accennate, masse adipose sviluppate con seni, ventre e glutei molto in evidenza. Le altre manifestazioni di oggetti d’arte mobiliare possono essere suddivise in due categorie: graffiti e dipinti di animali e graffiti e dipinti geometrici. Normalmente le rappresentazioni sono su pietra e, in misura minore, su osso. Tra le figure animali predominano i bovidi, equidi e cervidi, anche se non mancano rappresentazioni di felini, lupi, lepri e uccelli; raramente è documentata la figura umana. Molto più abbondanti sono invece le raffigurazioni di motivi geometrici su ciottoli o lastre di pietra e su supporti d’osso; in alcuni rari casi i motivi sono dipinti.
Il Mesolitico
Gli ultimi cacciatori-raccoglitori dell’Olocene antico
Il termine Mesolitico è stato adottato all’inizio del secolo scorso nell’Europa occidentale per indicare i complessi attribuibili al periodo compreso tra la fine del Paleolitico superiore e il Neolitico. Nelle prime suddivisioni cronologiche della Preistoria questo periodo non veniva contemplato, poiché gli studiosi dell’epoca ritenevano che l’Europa occidentale fosse stata spopolata tra la fine dell’era glaciale, quando gli ultimi cacciatori del Maddaleniano si spostarono seguendo i branchi di renne verso le regioni più settentrionali, e l’arrivo dei primi gruppi di agricoltori e allevatori neolitici dall’area danubiano-balcanica e dal Mediterraneo orientale. Le ricerche archeologiche condotte durante il secolo XX misero invece in luce l’esistenza di complessi intermedi. Oggi si designa con il termine di Mesolitico il periodo, durato alcuni millenni, nel corso del quale si assiste a un processo di adattamento da parte degli ultimi gruppi di cacciatori-raccoglitori ai cambiamenti ambientali verificatisi, dopo la fine dell’ultima era glaciale, all’inizio dell’Olocene, a partire da circa 10.000 anni fa. Non tutti gli studiosi concordano sull’uso di questo termine; alcuni adottano per indicare lo stesso fenomeno il termine di Epipaleolitico, evidenziando la continuità culturale con il Paleolitico superiore, e assegnano al Mesolitico solo i complessi nei quali si sta realizzando il processo di transizione all’agricoltura e all’allevamento (processo di neolitizzazione). A una definizione dei complessi mesolitici sulla base della cronologica e delle caratteristiche tipologiche delle industrie litiche è contrapposto un modo diverso di interpretare il reale significato del Mesolitico in relazione soprattutto ai cambiamenti economici e del modo di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori; tali considerazioni sono tuttora argomento di discussione.
Il bosco riconquista il territorio: l’ambiente durante l’Olocene antico La fine del Tardiglaciale würmiano determina un miglioramento climatico che porta lentamente a condizioni ambientali simili a quelle attuali. Gli effetti più importanti di questo mutamento sono vari: l’arretramento dei ghiacciai apre nuovi spazi alla penetrazione umana in territori prima disabitati; l’innalzamento progressivo del livello del mare determina un arretramento delle linee di costa; le zone a steppa e a tundra riducono la loro estensione in concomitanza dello sviluppo delle foreste; le grandi mandrie di erbivori delle praterie sono sostituite da piccoli branchi di animali il cui ambiente ideale è la foresta e la macchia, quali cervi, caprioli, buoi selvatici e cinghiali. La cronologia del Postglaciale si fonda sulla successione di fasi climatiche determinata dall’analisi dei pollini fossili dell’Europa centro-settentrionale. Secondo questa successione, l’Olocene inizia con il Preboreale a clima temperato arido (10.200/9.900-8.700 anni dal presente), cui segue il Boreale con un clima caldo-umido (8.700-7.500 anni dal presente) e l’Atlantico a clima caldo-umido (7.500-4.500 anni dal presente). Il Mesolitico si sviluppa durante questo lasso di tempo fino alla comparsa durante l’Atlantico delle culture neolitiche (tavola). Il processo di neolitizzazione costituisce un fenomeno complesso che si verifica in tempi differenti nelle diverse aree, cosicché il momento finale del Mesolitico varia da zona a zona, talora anche nell’ambito della stessa regione. Durante il Preboreale e il Boreale si registra un progressivo inaridimento del clima, determinato dall’aumento delle temperature non compensato da un incremento di umidità. Tuttavia in alcune regioni, ad esempio nell’area alpina, le foreste si espandono raggiungendo la massima estensione alla fine del Preboreale. L’aridità del clima crea nelle regioni mediterranee un paesaggio prevalentemente steppico; la vegetazione, in prevalenza pino marittimo e leccio, si diffonde dalle aree rifugio costiere, dove si era preservata durante l’ultima fase del Tardiglaciale. Nell’area prealpina durante il Preboreale si sviluppano boschi a pino silvestre, mentre nel successivo Boreale predominano le latifoglie, soprattutto il querceto misto. Durante le prime due fasi climatiche dell’Olocene, il paesaggio di pianura vede un progressivo sviluppo verso un ambiente più steppico, con scarsa vegetazione arborea, che verrà sostituito dalla foresta soltanto nel corso dell’Atlantico.
I complessi mesolitici europei Nella vasta area europea che comprende le regioni occidentali-atlantiche, il Mediterraneo centro-occidentale e l’area alpina sono documentati complessi mesolitici relativamente omogenei. Nell’area che si estende tra la Francia settentrionale, il bacino del Reno, l’alto bacino del Danubio e il versante settentrionali delle Alpi si sviluppano, in successione cronologica prima della neolitizzazione di queste regioni, i complessi di Beuron-Coincy e di Montbani. L’area che comprende la Spagna orientale, la Francia meridionale, l’Italia centro-settentrionale, la Slovenia e probabilmente parte dela Slovacchia vede diffondersi, durante il Preboreale e il Boreale, i complessi sauveterriani, seguiti nell’Atlantico dai complessi castelnoviani. I complessi di Beuron-Coincy e sauveterriano durante il Mesolitico antico e i complessi di Montbani e castelnoviano, durante il Mesolitico recente, sono considerati contemporanei.
Nell’Europa nord-occidentale sono attestati alcuni complessi che presentano elementi comuni; sono stati distinti tre complessi principali: il complesso di Duvesee si estende nella grande pianura tedesca e nella Polonia, oltre che nell’Inghilterra, tra la fine del IX millennio e la fine del VIII millennio a. C.; il complesso di Maglemose si sviluppa nella Scandinavia meridionale a partire dalla fine del VII millennio a. C.; il complesso Post-Maglemose ha origine alla fine del Boreale, a seguito della migrazione di gruppi maglemosiani verso sud, nei territori compresi tra il fiume Reno e la Vistola.
Il Mesolitico nella penisola italiana Il Mesolitico italiano rientra, come è stato messo in luce poc’anzi, in un fenomeno molto più vasto che interessa buona parte dell’Europa occidentale e meridionale. Le differenze principali rispetto al precedente Epigravettiano finale si riscontrano nelle caratteristiche delle industrie litiche (tavole XXIV e XXV). Durante il Mesolitico, infatti, i fenomeni che erano già stati documentati in precedenza, come la riduzione delle dimensioni dei manufatti (microlitismo), la comparsa del ritocco bipolare, l’impiego della tecnica del microbulino e la standardizzazione delle tipologie degli strumenti e, in particolare, delle armature geometriche, si moltiplicano e si accentuano. Dal punto di vista economico incrementa la varietà delle risorse naturali sfruttate dai gruppi mesolitici nelle pratiche di sussistenza; le attività di sostentamento si basano su una diversificazione della caccia a grandi e piccoli mammiferi, sulla raccolta di vegetali, sull'uccellagione, sulla raccolta di molluschi terrestri e marini e, infine, sulla pesca. Le differenze riscontrate tra le industrie litiche di alcune località dell’Italia nord-orientale con presenza riferibili alla fase terminale dell’Epigravettiano finale, quali Andalo, Piancavallo e Biarzo e quelle della fase più antica del Mesolitico sono più a livello quantitativo che qualitativo. In base a ciò è stato possibile formulare l’ipotesi di una derivazione dei complessi sauveterriani dalle varie industrie epigravettiane locali. Le località italiane che presentano una successione stratigrafica con una frequentazione dell’Epigravettiano finale seguita da una frequentazione riferibile al Mesolitico antico sono relativamente poche. Tale situazione è documentata nel Riparo di Biarzo nella Valle del Natisone in Friuli, nell’insediamento all’aperto dell’Isola Santa nelle Alpi Apuane in Toscana, nella Grotta della Madonna di Praia a Mare in Calabria e nella Grotta della Serratura a Marina di Camerota in Campania. Il riconoscimento nell’Italia settentrionale di complessi sauveterriani e castelnoviani, caratterizzanti il Mesolitico dell’Europa occidentale e meridionale, è la conseguenza degli scavi effettuati in diversi ripari sotto roccia della conca di Trento, quali Romagnano Loc III, Vatte di Zambana e Pradestel. Le serie stratigrafiche individuate nelle località citate hanno fornito una grande quantità di informazioni sull’inquadramento cronologico e sullo sviluppo culturale dei gruppi di cacciatori-raccoglitori dell’Olocene antico, al punto da divenire il riferimento di confronto più affidabile, tuttora valido, dell’evoluzione dei complessi mesolitici dell’Italia settentrionale. Il Mesolitico dell’Italia settentrionale è caratterizzato da un periodo Sauveterriano, corrispondente cronologicamente alle fasi climatiche Preboreale e Boreale, e da un periodo Castelnoviano, corrispondente al momento iniziale della fase climatica Atlantica. Le informazioni ricavate dalle serie stratigrafiche dei ripari trentini consentono di suddividere ulteriormente, in base alla cronologia e alle caratteristiche tipologiche principali dell’industria litica, questi periodi nelle fasi seguenti: a) fase sauveterriana antica, 7.950-7.400 a. C.; caratterizzata da armature triangolari di forma isoscele a tre lati ritoccati e da lamelle a dorso e troncatura. b) fase sauveterriana media, 7.400-6.550 a. C.; caratterizzata dall’associazione di armature, quali segmenti di cerchio, triangoli e punte a due dorsi allungati. c) fase sauveterriana recente, 6.550-6.200 a. C.; caratterizzata dall’incremento delle armature di forma triangolare tra le quali dominano gli scaleni. d) fase sauveterriana finale, 6.200-5.800 a. C.; caratterizzata dalle armature triangolari di forma scalena allungata con tre lati ritoccati e dalle punte corte a base larga a due dorsi. e) fase castelnoviana antica e media, 5.800-4.500 a. C.; caratterizzata dalla progressiva diminuzione delle armature sauveterriane a favore di quelle trapezoidali e delle lame denticolate. f) fase castelnoviana finale, attorno al 4.500 a. C.; durante questa fase compaiono le prime ceramiche anche se l’industria litica continua a presentare una tradizione di tipo castelnoviano. La fase più antica del Mesolitico dell’Italia settentrionale inizia cronologicamente con il Preboreale attorno all’8.000 anni a. C.; essa documenta degli importanti mutamenti che hanno interessato la cultura materiale e il modo di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori, dopo la fine del Tardiglaciale würmiano e del Paleolitico superiore. Uno dei cambiamenti più evidenti interessa la tecnica di scheggiatura e di produzione dei manufatti litici; tale mutamento è, infatti, la conseguenza di nuove forme di sfruttamento della materia prima. Tra gli strumenti più caratteristici si devono ricordare i bulini corti e massicci, vari tipi di grattatoi molto corti e i coltelli a dorso (tavola). Le armature (tavola), benché già utilizzate nell’Epigravettiano, vedono la diffusione di nuovi tipi, quali punte troncate, punte a dorso, dorsi e troncature,
segmenti di cerchio e triangoli. La tecnica di produzione dei manufatti microlitici non risente della forma del supporto (lama o scheggia) da cui verrà ricavata l’armatura, mentre la regolarità della lama sarà fondamentale nella produzione delle armature trapezoidali castelnoviane. Nei primi secoli del VI millennio a. C. alla tradizione sauveterriana segue quella castelnoviana, caratterizzata da significative modificazioni nella tecnologia e tipologia dell’industria litica. A partire dal Mesolitico recente si nota una modificazione dei prodotti della scheggiatura che si manifesta nell’incremento delle dimensioni dei manufatti e nella creazione di lame di forma regolare; la scelta di lame più regolari implica un controllo delle sezioni, ora trapezoidali, una sagoma più regolare, margini della lama paralleli. La produzione di lame di forma regolare è tecnologicamente legata inoltre ad una più accurata preparazione e diversa morfologia dei nuclei. Le modificazioni nella tecnica di scheggiatura, riconosciute a partire dal Castelnoviano, si collegano a innovazioni tipologiche che interessano gli strumenti comuni, ma soprattutto alla comparsa e diffusione delle armature trapezoidali. La necessità quindi di lame regolari per la fabbricazione dei trapezi ha probabilmente determinato questa evoluzione delle tecniche di scheggiatura. Tra gli strumenti si registra un forte incremento delle lame ritoccate, soprattutto lame a incavi e denticolate, incrementano inoltre le lame troncate e i grattatoi su supporto laminare. Nell’ambito delle armature diminuiscono progressivamente i tipi caratteristici del Sauveterriano (segmenti di cerchio, triangoli e punte a due dorsi), mentre si sviluppano notevolmente i trapezi. La sequenza cronologica e le modificazioni culturali presentate sono considerate valide per tutte le aree del nord Italia che abbiano restituito testimonianze del Mesolitico: il Carso triestino, il Friuli, la valle dell’Adige, le Alpi Aurine e Sarentine, le Dolomiti, le Prealpi e Alpi lombarde, la Pianura Padana lombarda ed emiliana e, infine, l’Appennino tosco-emiliano. Anche nell’Italia centro-meridionale sono attestati complessi riferibili, al momento più antico del Mesolitico, sia lungo l’intero versante tirrenico (Toscana, Lazio e Campania) sia lungo quello adriatico (Marche, Abruzzo, Puglia); ulteriori presenze del Sauveterriano sono note anche in Sicilia, tuttavia i dati a disposizione sono in gran parte lacunosi e parziali e per tale motivo essi non permettono di definire eventuali suddivisioni più dettagliate dello sviluppo cronologico e culturale del Mesolitico peninsulare. Un carattere che differenzia alcune regioni centro-meridionali e la Sicilia riguarda la contemporanea presenza di complessi sauveterriani con altri che trovano le loro radici nei locali aspetti dell’Epigravettiano finale; per questi complessi che continuano la cultura materiale e le tradizioni del tardo Paleolitico superiore durante l’Olocene antico è impiegato il termine di Epipaleolitico indifferenziato. Un ulteriore complesso che si differenzia da quelli mesolitici di tradizione sauveterriana, presente soltanto in Liguria e nel Salento, è il Romanelliano. La sua posizione cronologica è tuttora controversa, poiché alcuni studiosi lo collocano ancora nel momento finale nel Tardiglaciale e quindi riferibile all’Epigravettiano finale, mentre altri lo attribuiscono già all’Olocene antico. Il Romanelliano sembra continuare anch’esso una tradizione culturale del tardo Paleolitico superiore. Alcuni ricercatori interpretano la presenza di complessi di tradizione sauveterriana nell’Italia centro-meridionale quale risultato di un processo di diffusione da nord verso sud di questi gruppi del Mesolitico antico; la prova di questo movimento potrebbe essere identificata dalla presenza di un mutamento nell’industria litica, evidenziata dalla produzione delle armature geometriche. La persistenza nell’Italia peninsulare di gruppi mesolitici di tradizione sauveterriana e di gruppi continuatori della tradizione tardo-epigravettiana, quali i complessi dell’Epipaleolitico indifferenziato e del Romanelliano, confermerebbero quindi questa ipotesi. Nelle regioni meridionali della penisola mancano quasi completamente evidenze archeologiche che attestino la presenza del Castelnoviano. Il Mesolitico recente a trapezi è infatti noto solo in due località della Basilicata, la Grotta n° 3 di Latronico e il Tuppo dei Sassi di Matera.
La vita quotidiana durante il Mesolitico In tutte le regioni d’Europa la caccia ai mammiferi di media e grossa taglia continua a essere l’attività predominante, anche se tra le specie cacciate prevalgono quelle legate all’ambiente forestale come il cervo, il capriolo e il cinghiale. Ad esse si aggiungono l’uro e l’alce nell’Europa centro-settentrionale, lo stambecco e il camoscio nelle regioni montuose. I piccoli mammiferi quali conigli, tassi, lontre e castori, pur presenti, incidono in minor misura sulla dieta carnea. La caccia, in base alle rappresentazioni di arte rupestre mesolitica del Levante spagnolo, doveva essere di tipo collettivo. Nella caccia era largamente impiegato l’arco, il cui uso è attestato dai numerosi ritrovamenti dell’Europa centrosettentrionale, dove le vaste distese di aree umide hanno consentito di recuperare diversi archi interi o frammentari e numerose frecce lignee. Le frecce erano costituite da un’asta di legno la cui estremità era dotata di una cuspide di selce fissata con mastice (resina mescolata con argilla) associata a uno o più denti laterali ricavati da armature geometriche (lamelle a dorso, segmenti di cerchio, triangoli o trapezi) inserite e fissate lungo una scanalatura; l’altra estremità era
provvista di una cocca necessaria al bilanciamento dell’arma da getto. In alcune raffigurazioni rupestri gli arcieri sono riprodotti anche con il turcasso contenente le frecce. La pesca fu largamente praticata nelle località prossime ai laghi, ai fiumi e lungo le coste dei mari. Un caso interessante è rappresentato dalla Grotta dell’Uzzo in Sicilia, dove i Mesolitici praticavano, assieme alla caccia ai mammiferi e alla raccolta dei molluschi, la pesca di grossi pesci dei fondali rocciosi, come la cernia di scoglio, la cernia nera, il dentice, l’orata e la murena. Come è stato esposto in precedenza, la pratica della pesca è documentata in due grotte del FriuliVenezia Giulia, ma secondo due modi di sfruttamento diversificati: nel caso del Riparo di Biarzo, vista anche la localizzazione in area pedemontana, i pesci catturati sono specie di fiume, quali trote, temoli e delle varietà di ciprinidi; nel caso della Grotta Azzurra, situata nell’area carsica, l’incidenza delle specie d’acqua dolce (luccio, scardola, carpa e naso) o salata (orata) è in relazione all’avvicinamento della linea di costa conseguente all’innalzamento del mare Adriatico. Resti di piroghe sono stati rinvenuti nei depositi di torba dell’Europa settentrionale; tali scoperte confermerebbero che i corsi d’acqua dovettero costituire le principali vie di comunicazione durante il Mesolitico. La raccolta di molluschi marini o terrestri è documentata in molti insediamenti mesolitici. In particolare, molte località costiere europee presentano grandi depositi di conchiglie che hanno portato alla formazione di cumuli detti chiocciolai. La raccolta è pure orientata verso i vegetali; alcuni depositi mesolitici, infatti, hanno restituito nocciole, noci e altri frutti spontanei come castagne d’acqua, mirtilli e fragole. In alcuni depositi sono documentate anche la raccolta delle uova e la caccia alle tartarughe palustri. Una scena dipinta dell’arte mesolitica del Levante spagnolo riproduce la raccolta del miele. Questi ritrovamenti rimangono in ogni caso rari, perciò è ancora difficile definire l’incidenza reale della raccolta nell’economia mesolitica, anche se essa risulta sicuramente molto più importante di quanto non lo fosse nel precedente Paleolitico superiore. La materia prima usata prevalentemente nella produzione dei manufatti litici è la selce; a questa vanno aggiunti il quarzo ialino (cristallo di rocca), la ftanite e il diaspro. Il cristallo di rocca già usato durante l’Epigravettiano trova una distribuzione alle aree dove manca la selce di buona qualità, come ad esempio nelle Alpi Aurine, in alcune zone delle Dolomiti e nell’Alpe Veglia nel Piemonte. La ftanite e il diaspro sono utilizzati nella zona appenninica in sostituzione della selce. Gli abitati mesolitici sono costituiti in prevalenza da una struttura isolata, raramente da due o tre. Nell’Europa centrosettentrionale gli insediamenti, in prossimità di laghi o fiumi, venivano posti su suoli sabbiosi, più asciutti, nel caso di abitati situati in ambienti umidi, i cui resti sono ora sepolti in depositi limosi o torbosi, sono documentate piattaforme e pavimentazioni lignee e allineamenti di pali interpretati come strutture di sostegno di tende o capanne. Nell’Europa meridionale sono frequenti gli abitati in ripari sotto roccia. Le numerose ricerche svolte nel versante meridionale delle Alpi, e in particolare nel Bacino dell'Adige, hanno consentito di ricostruire un ipotetico modello di sfruttamento del territorio in cui si muovevano i gruppi di cacciatoriraccoglitori mesolitici. Dai ripari sotto roccia posti nel fondovalle a quote di circa 200 metri s.l.m. dove i gruppi mesolitici risiedevano durante i mesi invernali e primaverili, le bande di cacciatori risalivano nei mesi estivi fino al limite del bosco e della prateria alpina a quote comprese tra 1900 e 2300 metri s.l.m. La sussistenza degli accampamenti di fondovalle era diversificata in quanto si basava sulla caccia a prede di piccola e grande taglia, sulla raccolta di molluschi terrestri, sulla pesca e l’uccellagione, mentre quella dei campi stagionali in montagna era fondata prevalentemente sulla caccia allo stambecco nelle praterie alpine o al cervo nei boschi sottostanti. Gli insediamenti situati in montagna possono essere suddivisi tra campi residenziali, posti al di sotto di pareti aggettanti di grandi massi erratici o su piccoli dossi in prossimità dei laghetti alpini, e bivacchi di caccia, collocati su alture e in posizione dominante in prossimità di pozze d’acqua e passaggi obbligati. Le industrie litiche rinvenute nei due tipi di insediamenti montani si differenziano in relazione alle pratiche svolte nel sito: i campi residenziali presentano associazioni di strumenti e armature simili a quelle degli abitati di fondovalle, mentre nei bivacchi di caccia gli strumenti sono sempre molto rari al contrario delle armature che sono invece numerosissime. Le dimensioni e le caratteristiche degli abitati suggeriscono che durante il Mesolitico le comunità di cacciatoriraccoglitori fossero organizzate in gruppi relativamente poco numerosi, dotati di grande mobilità all’interno di territori definiti.
Sepolture e spiritualità La spiritualità nel Mesolitico è documentata, come nel precedente Paleolitico superiore, dall’esistenza di sepolture isolate o riunite in necropoli. I rituali funebri sono sostanzialmente omogenei; si tratta di sepolture singole, bisome (spesso di un adulto con un bambino) e in alcuni casi anche trisome (maschio, femmina e bambino). Il cadavere è deposto in una fossa semplice scavata nel terreno, talora circondata da corna di cervo, da lastre di pietra o ricoperta da un cumulo di pietre. Spesso è
stata usata l’ocra rossa e il corredo funerario che accompagna il defunto è costituito da oggetti di ornamento, strumenti di selce o d’osso e da altri oggetti di uso quotidiano. Le sepolture mesolitiche note dell’Italia settentrionale sono tre: due sepolture d’età sauveterriana, rispettivamente una donna a Borgonuovo di Mezzocorona presso Trento (i resti sono in corso di studio) e una seconda donna di cinquanta anni nel Riparo di Vatte di Zambana nella valle dell’Adige, e una sepoltura d’età castelnoviana, un adulto maschio di circa quarant’anni, datato a 7.425±55 anni dal presente, nella località di Mondeval de Sora in Val Fiorentina nelle Dolomiti. Nel Riparo di Mondeval a 2.150 metri di quota l’individuo maschio fu deposto supino in una fossa ricoperta da pietre, il corpo era probabilmente avvolto in un sudario di pelle fissato da punteruoli d’osso, il corredo composto da oggetti d’uso e di prestigio era deposto in sacche di materia organica. Tra i sessanta elementi di corredo rinvenuti erano presenti anche due blocchi di materia vegetale compatta che le successive analisi hanno riconosciuto essere rispettivamente propoli (sostanza resinosa adoperata dalle api per rivestire le arnie) e resina quasi pura, di pino silvestre e abete rosso.
L’arte mesolitica Scomparsa la grande arte naturalistica del Paleolitico superiore, la produzione artistica durante il Mesolitico risulta assai scarsa. Tra le opere d’arte mobiliare compaiono ossa incise, generalmente con motivi geometrici, e qualche rara figurina femminile, come ad esempio quella, ricavata da un corno di cervo, rinvenuta nel Riparo Gaban in Trentino, la cui datazione, riferita genericamente al Mesolitico, risulta però difficile a causa del contesto di rinvenimento. È generalmente attribuita al Mesolitico l’arte pittorica che appare documentata in moltissimi ripari sotto roccia del Levante spagnolo, nel tratto di costa compreso tra Barcellona e Madrid. Si tratta di pitture monocrome in rosso, raramente in nero, a tinta piena. Sono riprodotte complesse scene di caccia, di combattimento, di vita familiare; le figure animali sono riprodotte con stile naturalistico a differenza di quelle umane che risultano invece stilizzate. Queste figure non sono mai in posizione statica. Le figure umane sono riprodotte in modo da evidenziare alcuni particolari dell’acconciatura o dell’abbigliamento, quali la pettinatura, gli ornamenti piumati della testa o i copricapi con corna di animali; a volte sono indicate anche le vesti, lunghe gonne a campana per le donne e pantaloni lunghi fino al ginocchio per gli uomini.
Il Neolitico
La rivoluzione neolitica Il Neolitico segna un nuovo stadio culturale della storia dell’umanità che grazie all’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento muta in modo radicale il proprio sistema di sussistenza. Durante questa tappa, nel corso della quale l’uomo ha imparato a produrre il proprio cibo, si verifica un fenomeno generale e irreversibile che ha consentito di nutrire nel corso di diversi millenni la quasi totalità della popolazione mondiale e ne ha favorito il suo incremento demografico. Il termine Neolitico, indicante la recente età della pietra, fu coniato nel 1865 dal naturalista e archeologo inglese J. Lubbock. Lo studioso inglese introdusse questo termine nella sua suddivisione lineare di tipo evoluzionista della preistoria europea; il Neolitico indicava l’età della pietra levigata posteriore al Paleolitico e anteriore all’età del Bronzo. I termini Mesolitico, età del Rame, Calcolitico o Eneolitico furono introdotti più tardi verso la fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento. Il significato di Neolitico si è modificato nel corso dello scorso secolo fino a inglobare tutta una serie di fenomeni articolati e complessi che videro profondi mutamenti non solo negli aspetti tecnologici delle comunità preistoriche, ma anche negli aspetti economici, sociali ed ideologici. Fu a partire dagli anni trenta dello scorso secolo che anche gli studiosi di preistoria iniziarono a occuparsi delle origini dell’agricoltura e dell’allevamento. La figura più significativa di questo periodo fu l’archeologo australiano Gordon Childe. Egli, influenzato dal pensiero dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan e dalla dialettica marxista, ritenne che l’origine e lo sviluppo della civiltà si fondasse su due grandi rivoluzioni di carattere economico e sociale: la rivoluzione agricola e la rivoluzione urbana. Con la prima, l’uomo, attraverso la domesticazione delle piante e degli animali, diventava produttore dei mezzi di sussistenza e acquisiva la possibilità di accumulare surplus che, a sua volta,
determinava cambiamenti nei rapporti di produzione. La stratificazione sociale, la specializzazione del lavoro e l’accumulazione di beni da parte di un ceto dominante ponevano le condizioni della successiva rivoluzione urbana. Nell’interpretazione di Childe il passaggio al sistema economico agricolo fu indotto dai cambiamenti climatici che, con la fine della glaciazione, misero fine al periodo pleistocenico, determinando, durante l’inizio dell’Olocene, una maggiore aridità nei territori del Vicino Oriente. Il progressivo inaridimento spinse i gruppi umani che vivevano in queste regioni, le piante e gli animali potenzialmente domesticabili in poche aree umide situate in prossimità di oasi e fiumi. Questa contiguità ecologica determinò lo sviluppo delle prime forme di agricoltura e allevamento. Ora quasi tutti gli elementi essenziali del modello di Childe sono stati oggetto di critica; resta il fatto che ci si continua a misurare con la sua visione di ampio respiro culturale, poiché egli non si limitò a stabilire delle semplici cronologie e successioni climatiche o a descrivere collezioni di strumenti, ma ebbe la grande capacità di utilizzare tutti i dati allora a disposizione al fine di definire un quadro complessivo del passato preistorico europeo. In base ai numerosi studi e ricerche svolti durante la seconda metà dello scorso secolo si può affermare che il processo di neolitizzazione non si trattò né di un fenomeno semplice e lineare né di un fenomeno improvviso che si realizzò in pochi decenni, ma ci vollero alcuni secoli prima che la rivoluzione neolitica potesse radicarsi nel Vicino Oriente e quindi affermarsi nel corso di alcuni millenni in tutti i territori europei. Gli elementi più importanti della neolitizzazione, oltre all’addomesticamento delle piante e degli animali, sono la formazione di insediamenti stanziali in alcuni casi anche di notevoli dimensioni, la produzione di oggetti in pietra levigata, la fabbricazione di vasi ceramici, lo scambio di materie prime e di manufatti anche su lunghe distanze e, infine, un nuovo sistema ideologico e religioso. I più evidenti indicatori materiali dell’avvenuta neolitizzazione dei gruppi umani sono la presenza di strumenti in pietra levigata e di recipienti ceramici, ma questi manufatti, pur importanti, non sono ritenuti essere gli unici indicatori del passaggio al Neolitico, poiché oggi si può parlare di effettiva neolitizzazione solo quando sono documentate determinate pratiche economiche. I nuovi sistemi di sussistenza, basati sulla coltivazione dei cereali e delle leguminose e sull’allevamento di alcune specie di animali, fornirono la prima vera indipendenza alimentare all’uomo preistorico. La conseguenza diretta di tale mutamento nelle pratiche di sussistenza fu un’alterazione irreversibile dell’equilibrio nel rapporto uomo-ambiente. L’influenza umana fu tale che alcune specie vegetali e animali uscirono profondamente modificate nella loro morfologia; questo cambiamento determinò metaforicamente l’uscita dal giardino dell’Eden della caccia e raccolta e implicò "la condanna a lavorare la terra con il sudore della fronte".
Le piante coltivate Lo studio dell’origine dell’agricoltura nelle diverse regioni del mondo si fonda naturalmente sulla documentazione archeologica costituita da tutti quei resti della cultura materiale che consentono di ricostruire la tecnologia, i modi di insediamento e i sistemi sociali di quelle comunità che adottarono il nuovo modo di vita basato sulla coltivazione delle piante. Un ruolo assolutamente centrale in questo tipo di ricerca sulla nascita dell’agricoltura è costituito dall’esame dei resti botanici. Gli studi botanici hanno individuato un numero elevato di piante coltivate nelle varie parti del mondo che, nel complesso, ammontano a circa 300. Nei vari sistemi agricoli noti però ci si è concentrati su un numero relativamente ridotto di piante più produttive e in grado di assicurare una resa maggiore rispetto all’investimento energetico necessario a coltivarle. Vi sono due tipi fondamentali di attività agricole legate alla sussistenza: un’agricoltura basata sui cereali, come grano, orzo, riso o miglio e un’agricoltura basata su radici e tuberi, come patata, taro o manioca. Diverse sono nei due casi le tecniche agricole, come differente è il potenziale alimentare, giacché le radici e i tuberi forniscono un supporto alimentare piuttosto basso che necessita di una integrazione dietetica notevole. Le piante che hanno riscosso il maggior successo sono state però i cereali, poiché essi hanno numerose virtù: crescono in fretta, sono molto produttivi e sono ricchi di carboidrati necessari a una buona alimentazione. Per tali motivi, al giorno d’oggi, più delle metà delle calorie consumate nel mondo proviene dai cereali, in particolare dalle cinque specie principali: grano, mais, riso, orzo e sorgo. L’agricoltura degli ultimi decenni ha visto, inoltre, un’accelerazione senza limiti dello sviluppo di queste poche specie o di alcune di esse in particolare (monocoltura) a sfavore delle forme più primitive di agricoltura di sussistenza basate su una diversificazione dei prodotti coltivati e maggiormente integrate nell’ambiente. I cereali da soli sono alimenti relativamente poveri che hanno bisogno di essere integrati dagli elementi nutritivi di altre piante. Nelle varie aree di origine dell’agricoltura, il successo dei sistemi di sussistenza fu la conseguenza sia delle alte rese di alcune piante di importanza centrale (cereali), sia della presenza di altre piante meno importanti (leguminose), ma in grado di compensare le carenze dietetiche delle prime. A tale proposito, un alimentazione basata su cereali e
legumi fornisce quasi tutti gli ingredienti di una dieta bilanciata. La conoscenza di questa relazione cereali-legumi è nota sin dalle prime sperimentazioni agricole del Vicino . La coltivazione dei cereali, che ha avuto origine nelle parti del mondo aride a latitudini tropicali o subtropicali, riguarda generalmente poche specie altamente produttive. I semi duri dei cereali possono essere immagazzinati per lunghi periodi senza perdere il valore nutritivo o la capacità di germogliare. L’adozione di un’agricoltura basata su cereali dovette implicare delle trasformazioni notevoli della struttura genetica delle piante. Le forme domestiche dei cereali si distinguono facilmente dalle varietà selvatiche innanzi tutto per i chicchi più grandi e rotondi, ma soprattutto per il sistema di riproduzione non spontaneo. Le graminacee selvatiche hanno infatti delle spighe fragili che rendono facile la propagazione spontanea dei chicchi attraverso la dispersione. Il punto di partenza della selezione operata dall’uomo è stata la raccolta delle piante con le spighe meno fragili ancora piene di chicchi; in questo modo il primo agricoltore ha favorito un carattere patologico della pianta, rendendo le piante totalmente dipendenti dalla semina artificiale. I cereali più importanti per lo sviluppo dell’agricoltura neolitica del Vicino Oriente e dell’Europa furono l’orzo (Hordeum disticum e Hordeum vulgare), il farro piccolo (Triticum monococcum), il farro grande (Triticum dicoccum) e i cosiddetti frumenti nudi, come il frumento tenero, il frumento duro e simili (Triticum aestivum, Triticum durum, Triticum turgidum ). Al fine di ottenere una dieta ben equilibrata, l’alto valore nutritivo dei cereali deve essere integrato con cibi che forniscono un alto apporto di proteine vegetali o animali. I legumi costituiscono quindi la migliore integrazione alle graminacee, poiché sono una delle maggiori fonti esistenti di proteine vegetali e hanno aminoacidi complementari a quelli dei cereali. Anche nel caso delle leguminose la domesticazione porta a una mutazione genetica che determina due cambiamenti fondamentali nella vita della pianta: la riduzione del tempo di dormienza dei semi e la perdita delle capacità dei baccelli di aprirsi spontaneamente per disperdere i semi. Le più importanti leguminose addomesticate sin dal Neolitico antico sono la lenticchia (Lens culinaris), il pisello (Pisum sativum), la veccia (Vicia sativa) e il favino (Vicia faba minor). Occasionalmente nei siti neolitici sono state rinvenute due tipi di piante oleose: il papavero e il lino. La coltivazione del papavero (Papaver somnifer) può aver fornito un’importante fonte di olio, anche se non è da escludere la possibilità della produzione di oppio, mentre il lino (Linum usitatissimum) è stato coltivato per la produzione di fibre, utili alla produzione di tessuti.
La domesticazione degli animali L’Asia occidentale (tavola - B -), oltre ad essere uno dei più importanti centri d’origine delle prime forme di domesticazione di alcune specie vegetali divenute la base della nostra alimentazione quotidiana, è la regione dove erano presenti allo stato selvatico alcune specie animali che risultarono facilmente domesticabili dall’uomo. La domesticazione di alcune specie (tavola - C -), quali la pecora selvatica (Ovis orientalis), la capra selvatica (Capra aegagrus), il cinghiale (Sus scrofa) e l’uro (Bos primigenius), può essere spiegata con la necessità di disporre di una riserva costante e controllabile di nutrimento in forma di proteine animali. L’intervento dell’uomo tuttavia non si limita ad un generico controllo degli animali in spazi chiusi, poiché le prime forme di interazione con gli animali implicano: 1) la cattura e l’addomesticamento di quelle specie che presentano caratteristiche particolari di comportamento; 2) l’allontanamento dal loro ambiente naturale e dal gruppo d’origine; 3) il controllo della loro riproduzione per assicurare un vantaggio economico. Gli animali selvatici sottoposti nel tempo a tali pratiche subiscono delle modificazioni morfologiche che portano alla creazione di nuove forme. Le specie che si sono adattate alle pratiche di addomesticamento si differenziano perciò notevolmente nei caratteri fisici dai loro predecessori selvatici. Una delle modificazioni più evidente conseguenti all’addomesticazione è la riduzione delle dimensioni della taglia dell’animale che è spesso però associata al mutamento del colore del pelo, alla quantità di grasso prodotto e a una generale riduzione delle strutture di offesa (corna, zanne). Recenti studi hanno messo in evidenza come delle 148 specie selvatiche potenzialmente addomesticabili nel mondo, solo 14 sono state realmente addomesticate dall’uomo. Questo processo ha avuto luogo infatti solo nei casi in cui le specie selvatiche presentavano caratteristiche favorevoli alla cattività quali la scarsa aggressività, un certo grado di adattabilità al cibo, la disponibilità a nutrirsi anche di rifiuti umani, una territorialità non particolarmente rigida, il fatto di essere animali gregari e quindi sociali con una forte organizzazione gerarchica del gruppo. Il primo animale a essere addomesticato è il cane che compare in numerose località del Vicino Oriente e dell’Europa forse sin dal Paleolitico superiore, ma sicuramente dal Mesolitico.
La pecora fu addomesticata nell’Asia occidentale nel corso del XI millennio da oggi; la pecora selvatica (Ovis orientalis) vive in Anatolia, Tibet e Mongolia. Nel caso della capra, addomesticata per la prima volta nell’Iran e in Anatolia tra X e IX millennio dal presente, le prime forme allevate non dovevano essere molto diverse dalla specie selvatica (Capra aegagrus). Sebbene vi siano evidenti indicazioni di una precoce addomesticazione delle pecore rispetto alle capre, è noto che, almeno nelle prime fasi di allevamento, le capre erano usate più comunemente delle pecore come fonte di carne. Inoltre, le capre, poiché brucano nelle macchie spinose, completano spesso dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse disponibili un gregge di pecore che di solito necessita invece di ampie distese erbose. Pecore e capre furono importate in Europa forse già nel IX millennio dal presente. I maiali domestici discendono tutti dal cinghiale selvatico (Sus scrofa) che è ancora relativamente comune in molti paesi d’Europa, Asia e Africa settentrionale. Le prime forme di addomesticamento di questo animale nel Vicino Oriente va ricercata nell’Anatolia e nella Palestina attorno al X millennio dal presente. Durante il processo di neolitizzazione dell’Europa, i maiali e i bovini acquisirono un ruolo molto più importante rispetto a capre e pecore. Il favore di questi animali rispetto agli ovi-caprini è sicuramente dovuto alle caratteristiche del territorio europeo al tempo fittamente ricoperto da foreste, dove peraltro il cinghiale e il bue selvatico erano già presenti e costituivano preda dei cacciatori mesolitici. A conseguenza di ciò non si può escludere che l’addomesticazione del maiale si sia verificata più volte in momenti ed in aree diverse del continente europeo e quindi non sia un semplice risultato della diffusione dal Vicino Oriente come nel caso delle pecore e delle capre. Tutti i bovini domestici, tranne quelli dell’Asia sud-orientale, discendono da una sola specie selvatica, l’uro (Bos primigenius); questo animale, ormai estinto, era diffuso dappertutto e ben adattato ai vari ambienti del tardo Pleistocene e del primo Olocene. I primi bovini domestici sono attestati in Anatolia nel IX millennio dal presente e in un momento successivo nell’Europa sud-orientale. L’ampia diffusione del bue selvatico nei territori forestali dell’Europa non esclude la possibilità, come nel caso del maiale di una sua addomesticazione indipendente in queste regioni. Altri animali domestici, come il cavallo, l’asino, il cammello, il dromedario, il bufalo, il bue gibboso, il pollame e il gatto, furono addomesticati in regioni diverse dell’Euroasia in momenti differenti ma, in ogni caso, di molto posteriori cronologicamente a quelli citati in precedenza.
Il processo di neolitizzazione nel continente europeo Uno dei capisaldi del modello di rivoluzione agricola di Gordon Childe si fonda sulla convinzione che le comunità dei primi agricoltori, grazie alla loro superiorità numerica e alle conoscenze tecnologiche, si fossero lentamente allontanati dai territori del Vicino Oriente, dove effettivamente sono documentati i resti più antichi, e nel loro spostamento avessero finito con il sostituire o con lo spingere in aree marginali le più deboli comunità di cacciatori-raccoglitori mesolitici. Anche nei decenni successivi il modello classico di neolitizzazione dell’Europa continuava a basarsi sull’idea di un progressivo processo di colonizzazione di nuovi territori necessari alle pratiche agricole. Se certi episodi isolati di domesticazione animale e vegetale dovettero forse realizzarsi anche in Europa, varie considerazioni concorrono a rendere improbabile l’ipotesi di un’origine indipendente in quest’area dell’agricoltura e dell’allevamento. È possibile che nella zona della foresta temperata europea si sviluppassero alcune forme di domesticazione isolata di alcuni animali (bue selvatico e cinghiale) e di alcuni vegetali (noci), ma si deve escludere che un’effettiva economia agricola si fosse originata a partire dalle risorse locali a disposizione. La mancanza di una domesticazione autonoma nei territori europei non esclude in ogni caso che tra i gruppi di cacciatori-raccoglitori mesolitici non vi fossero conoscenze botaniche e zoologiche approfondite e anche capacità di protezione e controllo di alcune specie. A tale proposito alcuni studiosi, nel tentativo di ricostruire le modalità con le quali il Neolitico si affermò, hanno elaborato il modello dell’onda di avanzamento. I ricercatori che sostengono tale modello propendono per una lenta e continua espansione di gruppi di agricoltori che determina la frequente formazione di nuovi insediamenti neolitici a breve distanza dai precedenti luoghi di origine. Tale ipotesi è fortemente influenzata dal presupposto che sottolinea la stretta relazione tra modo di sussistenza neolitico e incremento demografico della popolazione di agricoltori. La colonizzazione di nuove terre consentì, in questo modo, uno sfogo all’incremento della popolazione determinato da un tipo di economia agricola e da un genere di vita di tipo stanziale. È interessante rilevare che il periodo di tempo medio tra i parti di una stessa donna, che si suole chiamare intervallo intergenetico, è in genere di poco superiore ai quattro anni presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori che seguono uno genere di vita nomade o seminomade; la loro continua mobilità infatti non consente alla donna di trasportare più di un bambino per volta. Presso le popolazioni stanziali, che basano la loro sussistenza prevalentemente sulle attività agricole, l’intervallo intergenetico scende intorno ai due anni e mezzo circa; variazione che comporta un notevole incremento della natalità e un parallelo aumento della mortalità, in assenza del quale la crescita demografica sarebbe ben superiore a quella normalmente registrata. I dati ricavati da numerosi studi etnografici rivelano che un elevato incremento demografico in una società di agricoltori di tipo tradizionale può determinare una situazione di crisi; questa
situazione può essere risolta con la scissione di parte della comunità, la migrazione e la creazione di insediamenti in nuovi territori posti a non grande distanza dai villaggi d’origine (circa 20-30 chilometri). L’interpretazione di tipo diffusionista fonda le sue basi principali nella riconosciuta origine vicino orientale dei cereali principali e di alcuni animali, nonché sulle datazioni radiometriche che mostrano un’evidente posteriorità degli insediamenti neolitici dell’area occidentale europea rispetto a quelli della penisola balcanica e dell’Europa sud-orientale più vicini ai centri dell’Asia occidentale. Altri ricercatori preferiscono sottolineare il contributo dato al fenomeno della neolitizzazione dalle precedenti popolazioni di cacciatori-raccoglitori; tale substrato indigeno sarebbe stato in qualche modo assorbito dai nuovi gruppi di agricoltori attraverso un processo di acculturazione. Testimonianza di tale acculturazione sarebbe la persistenza di elementi mesolitici nella cultura materiale delle prime popolazioni neolitiche e il ritardo con cui in alcuni territori un’economia pienamente produttiva si manifesterebbe. Recenti riletture delle conoscenze a disposizione sui processi che hanno portato alla neolitizzazione hanno determinato un superamento della semplice contrapposizione tra un modello diffusionista e un modello che sostenga l’acculturazione, giacché la realtà, influenzata da numerosi fattori ambientali, culturali e ideologici, dovette essere ben più complessa. La varietà ambientale e le grosse differenze geografiche dei territori determinarono inoltre situazioni articolate e complesse al momento difficilmente inquadrabili secondo rigidi schemi interpretativi Le prime comunità di agricoltori ed allevatori sono caratterizzate nella cultura materiale dalla presenza di vasi in ceramica, da macine, mortai e pestelli per la molitura dei cereali, da strumenti in pietra levigata, quali asce e accette usate nel disboscamento e per la lavorazione del legno, da nuove tecniche e nuovi strumenti in pietra scheggiata, quali le lame dei falcetti messori. I campi vengono dissodati con strumenti di pietra, corno e osso, è diffusa inoltre la posa delle sementi con l’ausilio del bastone da semina. Le granaglie vengono conservate in grandi giare ceramiche o in pozzetti scavati nel suolo (silos). L’agricoltura è generalmente di tipo itinerante, con rioccupazione ciclica delle sedi per il riposo e la rigenerazione della fertilità dei terreni. Il processo di neolitizzazione dell’Europa segue sostanzialmente tre direttrici principali dando luogo ad altrettante correnti culturali: la cultura di Starčevo nella penisola balcanica; la cultura della Ceramica Impressa nelle regioni mediterranee; la cultura della Ceramica a Bande (Bandkeramik) nelle pianure dell’Europa centrale. Il Neolitico della penisola balcanica, dai suoi centri sud-orientali, quali la Grecia la Bulgaria e la zona costiera della Romania, si afferma gradualmente seguendo le direttrici del Danubio e dei suoi affluenti ricchi di terre fertili fino alla Pannonia, dando luogo nel corso della seconda metà del VI e V millennio a.C. a una vasta compagine culturale con caratteristiche simili che va sotto il nome di cultura di Criş in Romania, cultura di Starčevo nell’attuale Jugoslavia e cultura di Körös in Ungheria. Lo sviluppo dell’economia produttiva nell’Europa centrale è associato alla cultura della Ceramica a Bande (Bandkeramik). Questo complesso ha avuto origine nelle zone settentrionali della grande pianura ungherese e nella Slovacchia sud-orientale dove sono documentati i suoi aspetti più antichi databili tra il VI e gli inizi del V millennio a.C. Nei secoli successivi, gruppi di agricoltori portatori della cultura Bandkeramik si diffondono dal bacino del Danubio attraverso l’Europa centrale fino ai Paesi Bassi e al bacino di Parigi, mentre altri gruppi della stessa cultura dall’Ungheria settentrionale raggiungono la Polonia meridionale. Nel corso del V millennio a.C. l’agricoltura e l’allevamento raggiungono le isole britanniche e la Scandinavia. La corrente della Ceramica Impressa o Cardiale trasmette il modo di vita neolitico lungo le coste del Mediterraneo tra la fine del VII e il VI millennio a.C. da centri egeo-anatolici non ancora identificati. Essa, formatasi anche grazie all’apporto delle realtà mesolitiche locali, si diffonde lungo le due sponde dell’Adriatico, dove le sedi più antiche sono attestate in Puglia, investe l’Italia meridionale, la Sicilia, la Sardegna, raggiunge le coste liguri e si propaga lungo le coste del mediterraneo occidentale fino alla penisola iberica, investendo anche le coste dell’Africa settentrionale.
Lo sviluppo del Neolitico Nel corso del V e IV millennio a.C. le grandi correnti culturali che hanno caratterizzato il primo Neolitico europeo si dissolvono consentendo la formazione di varie culture regionali, che realizzano un’ulteriore spinta dalle fertili pianure nei territori montani non occupati in precedenza, nell’Europa occidentale atlantica e nelle regioni più settentrionali del continente. Questa espansione determina la definitiva scomparsa delle ultime comunità mesolitiche, sopravvissute nelle regioni settentrionali non interessate dalla prima colonizzazione neolitica. Le principali componenti culturali del Neolitico medio dell’Europa mediterranea e centro-orientale sono la cultura di Vinča e di Butmir nei Balcani e quella di Danilo lungo la costa orientale adriatica, la cultura Stichbandkeramik e di Lengyel nell’Europa centro-orientale, la cultura di Egolzwil e di Rössen nei territori elvetici e germanici, la cultura dei Vasi a Bocca Quadrata nell’Italia settentrionale e la cultura Ripoli e di Serra d’Alto nell’Italia peninsulare e i complessi Chassey nella Francia meridionale.
Nel corso del IV millennio a.C., durante il Neolitico recente e finale, il quadro delle culture tende a frantumarsi ulteriormente in numerose entità regionali quali la cultura di Hvar lungo il versante orientale adriatico, la cultura del tardo Vinča nei Balcani, la cultura di Lasinje in Ungheria, la cultura di Altheim e di Cortaillod nei versante settentrionale delle Alpi, la cultura della Lagozza nell’Italia nord-occidentale e gli ultimi aspetti dei Vasi a Bocca Quadrata nell’Italia nord-orientale, la cultura di Diana nell’Italia peninsulare e la cultura di Chassey nella Francia meridionale e nella Liguria e Toscana settentrionale. Alla fine del Neolitico e nella successiva età del Rame è documentata un’evoluzione della struttura socio-economica dei vari gruppi culturali. Nell’agricoltura compare l’aratro, la diffusione della ruota e del carro trainato dagli animali agevola i trasporti, così le comunicazioni e i rapporti tra le varie comunità incrementano. La rivoluzione dei prodotti animali secondari che si afferma nel sistema di sussistenza incrementa le attività pastorali con produzione di latticini e lana. Lo sviluppo dell’agricoltura e della pastorizia determinano estesi disboscamenti. Nell’Egeo e nei Balcani si formano le prime culture dell’età del Rame che diffondono nel Mediterraneo occidentale le tecniche metallurgiche durante il III millennio a.C. La nuova metallurgia del rame, che si esprime nelle prime fasi soprattutto in oggetti ornamentali e di prestigio, induce forme di tesaurizzazione e di possesso che gettano le basi di differenziazioni sociali e pongono fine al mondo sostanzialmente unitario del Neolitico.
Cronologia e inquadramento del Neolitico italiano Il processo di neolitizzazione che si è realizzato in buona parte delle regioni costiere del Mediterraneo occidentale ad opera della cultura della Ceramica Impressa ha interessato anche la penisola italiana. La comprensione del fenomeno della neolitizzazione in Italia, con le sue numerose culture e i vari aspetti regionali, solleva ancora numerosi problemi. Le zone più importanti da cui si possano ricavare elementi utili alla comprensione della prima economia produttiva sono la Puglia e il versante adriatico, le grandi isole del versante tirrenico e l’Italia settentrionale (tavola). È possibile distinguere un processo di colonizzazione marittima e uno di diffusione continentale dell’Italia peninsulare in cui sono evidenti elementi di chiara provenienza esterna (le piante coltivate, i caprovini, il popolamento di isole prima disabitate, quali le Tremiti, le Eolie e le isole dell’arcipelago toscano). La situazione risulta invece un po’ diversa nell’area padana e nel versante meridionale alpino dove il processo di neolitizzazione ha avuto luogo grazie a molteplici impulsi, quali la diffusione di oggetti ed idee da regioni già neolitizzate, l’acculturazione dei gruppi mesolitici indigeni e lo sviluppo di tradizioni mesolitiche precedenti. A conseguenza di ciò il quadro generale del Neolitico antico dell’Italia settentrionale risulta caratterizzato da numerosi gruppi con tradizioni culturali autonome, ma in relazione tra loro sin dai momenti iniziali della neolitizzazione (tavola). Le prime comunità agricole, portatrici della cultura della Ceramica Impressa compaiono nell’Italia sud-orientale con tutti gli elementi caratteristici della neolitizzazione negli ultimi due secoli del VII millennio a.C. e si diffondono dalle zone costiere della Puglia verso l’interno. Il popolamento del territorio avviene rapidamente e vede il fiorire di numerose comunità non solo nella fascia costiera pugliese tra Bari e Brindisi e lungo il golfo di Taranto, ma anche verso il Tavoliere foggiano. Il resto dell’Italia meridionale, alcune aree della Basilicata, la Calabria settentrionale e parte della Campania, risente degli influssi culturali del Neolitico pugliese e materano, mentre il versante tirrenico calabrese, le isole Eolie e la Sicilia rientrano in quel vasto ambito culturale, caratteristico di un momento avanzato del Neolitico a Ceramica Impressa, che investe il Mediterraneo occidentale fino alla Penisola Iberica e alle coste nordafricane. Attorno al 5.800-5.700 a.C. la Ceramica Impressa compare nella Liguria occidentale, da dove si irradiano i suoi influssi nell’area padano-alpina occidentale (tavola - lett. a -). In un momento relativamente più recente, verso la metà del VI millennio a.C., elementi della stessa cultura si propagano lungo il versante medio-adriatico, dando origine agli aspetti abruzzese-marchigiani della stessa cultura. Negli ultimi secoli dello stesso millennio la diffusione della Ceramica Impressa adriatica raggiunge la Romagna e tende ad espandersi verso l’interno della pianura padana lungo la fascia pedeappenninica fino al Reggiano; tale penetrazione risulta però ostacolata dalla presenza di gruppi già pienamente neolitizzati della cultura di Fiorano. Nell’ambito della Ceramica Impressa sono documentati nell’Italia meridionale e in Sicilia villaggi trincerati, mentre insediamenti all’aperto sono noti nell’Italia centrale, dove, come in Liguria, sono pure frequentate le grotte. Le testimonianze funerarie consistono in sepolture, spesso prive di corredo, all’interno degli abitati o in grotte e ripari sotto roccia. L’economia neolitica dell’Italia meridionale attesta un’agricoltura ben sviluppata fin dai momenti più antichi, con presenza di orzo, farro, frumento tenero/duro, lenticchie e veccia; in alcuni casi è testimoniata anche la raccolta di frutti spontanei. In tutti i siti delle regioni meridionali l’allevamento è dominato dai caprovini, seguiti da bovini e suini, mentre la caccia ha scarsa incidenza. È documentata inoltre l’attività mineraria per l’estrazione della selce nel
Gargano al pari dello sfruttamento dell’ossidiana nelle isole del versante tirrenico la cui ricerca sembra aver motivato i primi insediamenti nelle isole Eolie. Nell’Italia settentrionale il processo di neolitizzazione si prefigura alquanto complesso, poiché le diverse condizioni ambientali presenti in territori relativamente ristretti e gli influssi culturali dall’area costiera adriatica, dall’area balcanica e da quella nordalpina vengono assorbiti in maniera e misura variabili e rielaborati in modo differente dai gruppi mesolitici indigeni, dando origine a diverse entità culturali sviluppatesi contemporaneamente (tavola). I gruppi neolitici dell’Italia settentrionale sono i seguenti: cultura di Fiorano presente in Veneto, Emilia-Romagna e Toscana settentrionale (tavola - lett. b -); gruppo del Vhò in Lombardia ed Emilia occidentale (tavola - lett. a -); gruppo dell’Isolino nell’area prealpina della Lombardia (tavola - lett. a -); gruppo del Gaban nella valle dell’Adige (tavola lett. b -); gruppo friulano (tavola - lett. b -) suddiviso rispettivamente tra gli aspetti di Fagnigola nel Friuli occidentale e di Sammardenchia nel Friuli centrale; gruppo di Vlaška o dei Vasi a Coppa nel Carso triestino. Sin dal momento più antico del Neolitico dell’Italia settentrionale, datato tra 5.600-5.300 a.C., risultano praticati, in particolare nella cultura di Fiorano e nel gruppo friulano, un’agricoltura a base di cinque cereali e legumi e l’allevamento di bovini e suini; la sussistenza delle prime comunità neolitiche, benché in alcuni casi la produzione alimentare fosse ben sviluppata, attestano ancora una forte incidenza delle attività di caccia, pesca e raccolta di frutti spontanei. Durante il Neolitico antico è attestata la circolazione di materie prime, quali le pietre verdi piemontesi utilizzate nella produzione di asce, accette ed elementi di ornamento in pietra levigata (tavola) e la selce alpina necessaria alla fabbricazione degli strumenti in pietra scheggiata. Il gran numero di oggetti caratteristici della cultura materiale di Fiorano rinvenuti in molti siti del Neolitico antico settentrionale e, in particolare, la tipica tazza carenata con decorazione incisa lineare è l’espressione più peculiare dell’importanza di questa cultura nel vasto sistema di scambi neolitici. Queste esportazioni mettono in luce contatti attivi con alcune direttrici preferenziali, quali l’area del gruppo del Vhò, il gruppo friulano e, in minor misura, con entrambi i versanti dell’Italia centrale. Alla pluralità di tradizioni culturali caratteristiche del Neolitico antico dell’Italia settentrionale segue nei primi secoli del V millennio a.C. una vasta unificazione culturale che si realizza con la cultura dei Vasi a Bocca Quadrata (tavola). Lo sviluppo di questa cultura vede tre fasi caratterizzate da componenti stilistiche diverse nella realizzazione delle decorazioni ceramiche che si articolano nel corso del V e nella prima metà del IV millennio a.C. nel modo seguente: stile geometrico-lineare (tavola - lett. a -), stile meandro-spiralico (tavola - lett. b -) e stile a incisioni e impressioni (tavola - lett. a -). Gli elementi formativi di tale cultura sono riconoscibili solo in Liguria, mentre nell’area padano-alpina pare che gli aspetti culturali della prima fase si diffondano già pienamente costituiti e senza apporti significativi dei precedenti gruppi del Neolitico antico. Connessioni con l’area balcanica sono evidenti durante la fase dello stile meandro-spiralico nel tipo di motivi decorativi dei vasi, nella presenza di figurine femminili e di pintaderas, una sorta di timbri di terracotta. I contatti con il mondo transalpino sono invece documentati nella successiva fase dello stile a incisioni e impressioni, quando si interrompono i contatti con il mondo balcanico. I modelli di insediamento della cultura dei Vasi a Bocca Quadrata documentano una notevole varietà di situazioni; ai siti in grotta della Liguria si affiancano abitati in area umida e insediamenti all’aperto in pianura, su collina, terrazzi e pendici montane. I diversi tipi di insediamento rivelano un buona capacità di adattamento alle più diverse condizioni ambientali e geomorfologiche, attestando indirettamente un profilo economico diversificato in base alle risorse naturali disponibili. L’agricoltura diviene predominante sulle attività di raccolta, mentre diminuisce l’incidenza della caccia in relazione a un netto incremento, nelle fasi finale della cultura, dell’allevamento. I costumi funerari sono ben documentati da sepolture in grotta e da necropoli con tombe a inumazione in fossa semplice, in fossa con recinto di pietra e in cista litica (tavola). Verso la fine del V e all’inizio del IV millennio a.C. cominciano ad affermarsi tradizioni culturali di tipo occidentale affini a quelle dello Chassey della Francia meridionale; dalla Liguria, dove l’aspetto locale è denominato Chassey ligure, si verifica una vasta propagazione verso la pianura padana occidentale, l’Emilia e l’Italia centrale (tavola). Durante i primi secoli del IV millennio a.C., nella Lombardia occidentale si forma la cultura della Lagozza (tavola - lett. b -) che si estende verso oriente nel corso della prima metà dello stesso millennio influenzando le ultime manifestazioni della cultura dei Vasi a Bocca Quadrata. Le conoscenze sullo sviluppo cronologico e culturale del Neolitico finale o Tardoneolitico dell’Italia settentrionale sono ancora lacunose. Il problema della sopravvivenza di elementi ancora decisamente neolitici si interseca con quello della comparsa di nuove entità culturali che possono essere definite eneolitiche, giacché attestano la conoscenza della lavorazione del rame, ma che al momento assumono una consistenza geografica molto frammentaria; tale situazione attualmente assai confusa pare interessare la seconda metà del IV e i primi secoli del III millennio a.C.
L’Età del Rame
Il primo stadio dell’età dei metalli viene tradizionalmente definito come età del Rame, oppure come Eneolitico (dal latino aes=rame) o, infine, come Calcolitico (dal greco chalkós=rame). I termini usati per indicare l’età del Rame variano in relazione alla diversa fortuna che hanno avuto durante lo scorso secolo a seconda dei paesi dove sono stati impiegati. In Italia è prevalso l’uso del termine Eneolitico, introdotto da G. Chierici nel 1884, che designa il periodo successivo alle culture tardoneolitiche della Lagozza e di Diana e anteriore a quelle culture che segnano tradizionalmente il Bronzo antico, Polada, Protoappenninico, Capo Graziano e Castelluccio. Nei paesi anglosassoni è prevalso invece il termine Calcolitico, mentre in Germania, Austria e in parte della Francia l’età del Rame viene definita Neolitico recente e finale per indicare che la metallurgia non ha apportato ancora significativi mutamenti nella società neolitica. Nelle presenti dispense, seguendo quanto è correntemente in uso tra gli studiosi di preistoria italiana, si useranno in modo ambivalente sia età del Rame sia Eneolitico. L’età del Rame costituisce l’ultimo dei periodi della tradizionale suddivisione della preistoria europea, mediterranea e del Vicino Oriente; essa designa un periodo nel corso del quale accanto al perdurare di armi e strumenti di pietra scheggiata e levigata, compaiono i primi manufatti di metallo (lesine, pugnali, asce, alabarde ed elementi d’ornamento). Il tipo di economia dominante rimane ancora di tradizione neolitica basato sull’agricoltura e l’allevamento, anche se, durante questo periodo, sono documentati il perfezionamento delle tecniche agricole con l’introduzione dell’aratro e lo sviluppo della pastorizia e delle attività ad essa associate. La prima metallurgia sorse tra il VI e V millennio a.C. in seno alle ricche società neolitiche del Vicino Oriente e dei Balcani, da dove essa si diffuse durante il IV e il III millennio a.C. nel Mediterraneo occidentale e nel resto del continente europeo. La conoscenza della lavorazione del metallo portò le comunità neolitiche nelle quali si sperimentava la nuova attività artigianale a dei rilevanti mutamenti di carattere economico e sociale: aumenta la richiesta di beni di prestigio, si sviluppa una produzione artigianale specializzata che determina una divisione del lavoro (ceramista, metallurgo, ecc.), nascono le prime forme di differenziazione sociale basate sul controllo di beni (metallo, bestiame, ecc.), la classe dei guerrieri sembra acquisire una sempre maggiore importanza in relazione allo sviluppo della produzione di armi di metallo (pugnali, asce, alabarde, lance). L’età del Rame è caratterizzata perciò dall’innovazione tecnologica e dai cambiamenti sociali dovuti a queste mutazioni tecnologiche. All’origine di tali cambiamenti si trova il rame, conosciuto certamente da molto tempo, ma la cui produzione, solo in questo momento raggiunge una dimensione tale da fornire a questo metallo un ruolo significativo sul piano economico e culturale. La forza di questa innovazione tecnologica risiede perciò non tanto nelle qualità particolari del materiale quanto piuttosto nelle conseguenze economiche e sociali che derivano dalla sua estrazione e dal suo impiego
Fuoco e minerale: la produzione metallurgica Il minerale di rame è largamente diffuso in alcune aree europee, come nella penisola balcanica (Serbia, Bulgaria), nei monti Carpazi e lungo la catena alpina, in alcune di queste zone metallifere è presente anche il rame nativo, vale a dire un tipo di rame molto puro che compare sotto forma di pepite. Non vi è dubbio che il rame utilizzato nelle prime sperimentazioni artigianali fosse il rame nativo, poiché esso poteva essere raccolto in pepite e quindi lavorato senza grandi conoscenze metallurgiche. Il ciclo di lavorazione del rame ricavato dal minerale grezzo, e non quindi la semplice purificazione e lavorazione del rame nativo, comprende una serie di reazioni chimiche da ottenersi in fornaci ad una temperatura di circa 1.100°C. A complicare tale processo di lavorazione è la mancata purezza del minerale di partenza, che può essere formato da più composti e che contiene quasi sempre impurità inerti e non metalliche. I primi minerali che possono essere stati usati sono gli ossidi di rame (cuprite), la malachite e l’azzurrite, presenti nei depositi superficiali e facilmente individuabili dai prospettori per i loro colori, rispettivamente rosso, verde e azzurro. Questi minerali nel caso siano puri possono essere fusi direttamente. Il rame utilizzato nella prima lavorazione metallurgica poteva essere quindi sia di tipo nativo, che non necessita di fusione, sia estratto dal minerale, come è provato dalla persistenza nei manufatti metallici di piccole quantità di altri elementi che ne costituiscono le impurità. Le recenti scoperte nel campo delle conoscenze relative all’origine della lavorazione dei metalli e allo sviluppo della metallurgia rivelano vari stadi successivi nell’acquisizione di questa fondamentale attività artigianale: 1) semplice uso
del rame nativo; 2) martellamento a freddo del rame nativo; 3) riscaldamento del rame nativo; 4) estrazione del rame per fusione dei suoi minerali (cuprite, azzurrite e malachite); 5) fusione del rame (1.083°C) in uno stampo aperto; 6) preparazione del modello ed uso di uno stampo a due valve; 7) creazione di leghe con arsenico e stagno; 8) preparazione del modello con cera a perdere. Ogni stadio di sviluppo delle tecniche di lavorazione del metallo è indipendente da quello precedente, giacché l’intera sequenza può essere considerata un progredire di competenza nella tecnologia del fuoco e nella capacità di maneggiare materiali ad elevate temperature. È opportuno non sottovalutare la qualità e l’efficacia dei manufatti metallici ricavati dal rame, poiché da esso si possono ottenere oggetti di qualsiasi forma. I manufatti difettosi o usurati possono venire facilmente rifusi. A contrario la materia prima, il minerale di rame, proviene da giacimenti esauribili, non è indefinitamente rinnovabile e richiede un notevole investimento di lavoro. La storia della metallurgia si confonde perciò con la ricerca incessante di nuovi giacimenti destinati a rimpiazzare quelli esauriti. I manufatti prodotti grazie alla lavorazione del rame sono oggetti molto preziosi la cui fabbricazione implica un notevole consumo di energia. La ricerca dei giacimenti presuppone prospettori sperimentati. Il controllo delle zone metallifere può generare situazioni conflittuali. Queste zone devono essere preparate per l’estrazione del minerale grezzo. L’estrazione necessita un grosso lavoro di sistemazione dei pozzi e delle gallerie. In seguito la preparazione del minerale e la produzione dei manufatti necessitano di un ulteriore apporto di energia. Tutte queste attività richiedono perciò una manodopera numerosa, grosse quantità di legname e conoscenze specialistiche. L’adozione e lo sviluppo della metallurgia presuppone dunque un grande potenziale in termini di materia prima, di conoscenze e di risorse umane; l’importanza dello sforzo implica che la forza umana venga dispensata dalle attività primarie di sussistenza, con enormi ripercussioni per la comunità. Si tratta in primo luogo di intensificare la produzione alimentare al fine di ricavare un surplus destinato al mantenimento della manodopera incaricata dell’attività metallurgica. Si assiste di conseguenza alla formazione di gruppi di specialisti, prospettori, minatori e artigiani, che porta a una suddivisione dei ruoli professionali svolti nella società. Il metallo ottenuto era dunque portatore di un valore economico e sociale nuovo, poiché esso consentiva l’accumulazione di un capitale, sotto forma di oggetti, che si poteva raccogliere in quantità relativamente piccole. I manufatti metallici costituivano così beni di grande valore che potevano essere tesaurizzati con relativa facilità.
Lo sviluppo della metallurgia La semplice raccolta del rame è documentata solo in poche località del Neolitico antico del Vicino Oriente (Shanidar e Ali Kosh) nel corso del IX millennio a.C. e a Lepenski Vir nella penisola balcanica durante il VII millennio a.C. La prima fase di lavorazione è attestata ancora nel Vicino Oriente tra VIII e VI millennio a.C. In Europa il primo manufatto metallico è un punteruolo di rame rinvenuto nel sito rumeno di Balomir (5.900-5.300 a.C.) cui fanno seguito, nella seconda metà del VI millennio a.C., altri manufatti rinvenuti in Grecia, nelle località di Sitagroi e di Dikili Tash. Nel Vicino e Medio Oriente la presenza di officine metallurgiche o la prova evidente della fusione in stampi monovalvi e della forgiatura a caldo e a freddo di manufatti metallici è limitata, nel corso del V millennio a.C., a poche località distribuite tra Anatolia (Degirmentepe), Asia centrale (Namazga), Iran (Tepe Yahya) e Pakistan (Mergarh). Sin dagli inizi del V millennio a.C. la fusione e la forgiatura di oggetti di rame e, contemporaneamente, la comparsa di manufatti in oro e in argento sono attestate in alcune regioni dell’area compresa tra la penisola balcanica, la Moldavia e l’Ucraina. La ricchezza, la qualità e la varietà delle testimonianze indicano che l’Europa sud-orientale, pur essendo lontana dal centro d’origine della prima lavorazione dei metalli, costituisce la prima vera provincia metallurgica del Vecchio Mondo. A tale proposito va sottolineato come, almeno durante l’età del Rame della penisola balcanica, fu la tecnologia della produzione della ceramica ad indicare la via da seguire nello sviluppo delle attività metallurgiche. Le comunità neolitiche di queste regioni disponevano infatti di forni per la cottura della ceramica che consentivano di raggiungere temperature elevate (700-800°C e anche superiori). Le conoscenze tecnologiche acquisite nella fabbricazione dei vasi risultarono perciò fondamentali nella lavorazione del rame, poiché le condizioni necessarie per estrarre e fondere questo metallo, temperatura di 1.100°C e controllo dell’aria per ottenere un’atmosfera riducente, non erano molto diverse da quelle richieste dalla produzione dei vasi. A partire dalla fine del V millennio a.C. si moltiplicano in Europa e in Asia, gli oggetti in cui è possibile riscontrare l’impiego dell’arsenico, aggiunto per ottenere una lega che, per le sue migliori qualità di resistenza, sostituirà quasi ovunque l’uso del solo minerale di rame. Le leghe metalliche migliorano non solo la durezza, ma anche il processo di modellamento, poiché evitano la formazione di bolle d’aria create dai gas dissolti nella colata e usciti dalla soluzione durante il raffreddamento. Le testimonianze di un’ampia diffusione della metallurgia incrementano notevolmente nel corso del IV millennio a.C.
Alla prima metà del IV millennio a.C. risalgono numerose prove della prima lavorazione del rame nelle Alpi settentrionali e in Slesia, concentrate soprattutto nell’area occupata dagli abitati palafitticoli svizzeri e associate all’evidenza di importazioni dall’area balcanica. A un periodo compreso tra il 4.300 e il 3.850 circa a.C. sono datate le prime testimonianze di manufatti di rame sulle due sponde del mare Adriatico, in Dalmazia, in Albania e in Italia (Fossacesia e S. Maria in Selva nell’Italia centrale, riferibili entrambe al tardo Ripoli, e Martinelle di Malvezzi in Basilicata, tomba a cista contenente tra i vari oggetti del corredo anche un vaso nello stile tardo di Serra d’Alto). Nel periodo compreso tra il 3.850 e il 3.500 a.C. manufatti e scorie metalliche sono attestati nell’Italia settentrionale e in Sardegna, mentre il grumo di scorie metalliche aderenti alle pareti di un crogiuolo da contrada Diana, nell’isola di Lipari, rappresenta la prima inequivocabile testimonianza durante il Neolitico finale di una lavorazione in loco del metallo.
L’aratro, il latte e la lana: mutamenti nella vita quotidiana delle comunità dell’età del Rame La fine del Neolitico e la successiva età del Rame sono stati periodi di graduali, ma profonde trasformazioni. Nel volgere di alcuni secoli sono state adottate, infatti, numerose innovazioni tecnologiche ed economiche fondamentali, quali la metallurgia, l’aratro, la ruota e il carro, la trazione animale, lo sfruttamento dei prodotti secondari dell’allevamento, quali la lana, il latte e tutti i suoi derivati, la comparsa di forme specializzate di allevamento come la pastorizia transumante e, infine, il cavallo domestico. Queste innovazioni investirono, come si può immaginare, diverse sfere, quali la sussistenza, il modello di insediamento, l’organizzazione sociale e l’ideologia delle comunità eneolitiche. Nel corso del III millennio a.C. l’intensificazione delle attività artigianali e di quelle di sussistenza e lo sviluppo della complessità sociale appaiono di conseguenza fenomeni strettamente correlati tra loro. L’adozione dell’aratro a trazione animale consentì di lavorare suoli più pesanti di quelli alluvionali, sfruttati dagli agricoltori neolitici, favorì la colonizzazione di nuove aree e di conseguenza il loro disboscamento, mentre l’utilizzo di carri e l’addomesticamento del cavallo favorirono lo scambio dei prodotti, il trasporto e il controllo del territorio. Il cavallo scomparso dalla penisola italiana alla fine dell’età glaciale ricompare nella forma domestica in contesti eneolitici del III millennio a.C. assumendo importanza anche come animale di prestigio. Di particolare rilevanza è lo sviluppo delle pratiche di sussistenza connesse all’allevamento. Le prime comunità di agricoltori neolitici allevavano gli animali come fornitori di carne. Solo in un secondo momento fu possibile sfruttare gli animali per i prodotti secondari (latte, lana) o utilizzarli come fonte di energia per i lavori agricoli e per i trasporti; a conseguenza di ciò gli animali domestici, anziché essere macellati appena raggiunta l’età adulta, cominciarono ad essere tenuti in vita più a lungo al fine di poterne sfruttare tutte le potenzialità La mungitura degli animali domestici implica inoltre una selezione di razze capaci di continuare a fornire latte anche dopo lo svezzamento dei piccoli, ma allo stesso tempo l’assunzione del latte d’origine animale ha portato, in alcune popolazioni umane, a una mutazione genetica che ha determinato la produzione anche in età adulta della lattasi, enzima responsabile della produzione del lattosio. Nelle sue prime fasi di utilizzo il latte veniva probabilmente consumato sotto forma di yoghurt e di formaggio, prodotti in cui il lattosio si riduce a livelli molto bassi. Anche la lavorazione della lana, poiché la pecora inizialmente non era un animale lanoso e veniva sfruttata solo per la carne, è la conseguenza di una mutazione genetica prodotta dalla domesticazione. Il suo vello è infatti formato da due tipi di peli: le fibre primarie, ruvide e di grosso spessore formano il pelame esterno, e le fibre secondarie, più fini e lanose costituiscono il pelame interno. Le mutazioni genetiche hanno determinato una riduzione delle fibre primarie e la conseguente comparsa di un pelo intermedio tra i due tipi che è diventato in seguito identico alla fibra secondaria sostituendola. Il nuovo tipo di pelo costituisce quindi la lana, inoltre nei tempi preistorici le pecore non venivano tosate, perché erano soggette alla muta e la lana veniva strappata a ciuffi nel momento della muta del vello. L’evidenza archeologica indiretta della lavorazione del latte e della lana è confermata dal rinvenimento di pesi da telaio, fuseruole, vasi per la lavorazione del latte e dalle modificazioni osteologiche verificatesi nella morfologia degli animali domestici. Le date della prima comparsa nella preistoria europea di alcune di queste innovazioni nella sfera economica non sono ancora ben definite ed è possibile che alcune di esse risalgano forse già al VI e V millennio a.C., ma è nel periodo compreso tra la metà del IV e gli inizi del III millennio a.C., e forse in un momento anche più tardo nel caso della lavorazione della lana, che queste innovazioni si diffondono e vengono adottate in buona parte delle comunità eneolitiche del continente.
Problemi cronologici dell’Eneolitico italiano Se da un lato la conoscenza della più antica metallurgia in Italia è accertata già dal prima metà del IV millennio a.C. (culture di Diana, tardo Ripoli, Serra d’Alto, Vasi a Bocca Quadrata e Chassey-Lagozza), risulta ancora difficile delineare un quadro complessivo e comprendere l’importanza reale che tale nuova forma di artigianato ha assunto nella società tardoneolitica. La recente scoperta dell’uomo del Similaun (1991) ha sollevato nuovi problemi di ordine cronologico e culturale, giacché la sua datazione, attorno a 3.350-3.120 a.C., e la presenza tra gli oggetti del suo corredo di un’ascia in rame del tipo a margini leggermente rialzati e di un pugnale di selce riferibile dal punto di vista tipologico ai pugnali litici caratteristici della cultura di Remedello hanno portato a una revisione delle conoscenze note sino alla scoperta della mummia del Similaun, sull’inizio dell’età del Rame nell’Italia settentrionale e, in generale, in tutta l’area alpina. Le recenti acquisizioni dendrocronologiche e le nuove serie di datazioni radiocarboniche calibrate relative alla Svizzera, alla Germania e all’eruzione di Thera nell’Egeo hanno inoltre completamente modificato la datazione convenzionale valida sino alla seconda metà degli anni ottanta che fissava l’inizio del Bronzo antico nel XVIII secolo a.C. In base alle nuove date disponibili, l’inizio del Bronzo antico, e di conseguenza la fine dell’età del Rame, è fissato verso il 2.300/2.200 a.C. Fino all’inizio degli anni novanta l’età del rame della penisola italiana si svolgeva nel corso del III millennio a.C., ora, dopo la scoperta dell’uomo del Similaun e l’abbassamento della cronologia del Bronzo antico, l’Eneolitico si sviluppa nell’arco di tempo compreso tra il 3.400/3.300 e il 2.300/2.200 a.C.
Cronologia e inquadramento culturale dell’età del Rame in Italia L’età del Rame dell’Italia settentrionale è suddivisa in un momento più antico (3.400/3.300-2.500 a.C.) caratterizzato dalla presenza di numerosi aspetti culturali tra loro più o meno coevi (tombe collettive, cultura di Remedello, gruppo di Spilamberto, Ceramica White Ware, megalitismo), ma di cui non si riescono ancora a definire i limiti cronologici e le relazioni reciproche, e da un momento più recente (2.500-2.300 a.C.) nel corso del quale si assiste alla diffusione del Vaso Campaniforme. Nell’Italia centrale gli aspetti pieni dell’Eneolitico (3.000-2.500 a.C.) vedono lo sviluppo delle culture di Conelle e di Ortucchio nelle Marche e in Abruzzo e quella di Rinaldone lungo il versante tirrenico tosco-laziale. In un momento avanzato dell’Eneolitico è attestata la diffusione, soprattutto nel versante medio-adriatico, della Ceramica a Squame, presente però solo in contesti d’abitato. La tarda età del Rame (2.500-2.300 a.C.) vede la diffusione, in siti della Toscana e del Lazio, del Vaso Campaniforme. L’avvento e il successivo sviluppo dell’età del Rame nell’Italia meridionale e peninsulare appare caratterizzato da una serie di fermenti culturali che porteranno gradualmente a profonde trasformazioni delle società tardoneolitiche. L’elemento peculiare della fase più antica è la pluralità degli aspetti che si riscontrano nelle regioni meridionali. Nell’Italia meridionale, il momento più antico dell’età del Rame è caratterizzato da una situazione ancora non ben definita, i cui elementi principali sono dati dalla persistenza delle tradizioni neolitiche precedenti; in Puglia e Calabria è attestato l’aspetto Piano Conte. La fase più avanzata dell’Eneolitico rappresenta il vero momento di rottura con gli aspetti tardoneolitici. Nella prima metà del III millennio a.C. si afferma la cultura del Gaudo in Campania e quella di Andria in Puglia, note quasi esclusivamente da contesti funerari. In una fase successiva, verso la metà del III millennio a.C., si diffonde in tutta l’area continentale meridionale la tradizione della Ceramica a Squame, che sembra documentare un momento di unificazione tra i vari aspetti locali. La Ceramica Campaniforme che costituisce nell’ambito europeo e mediterraneo occidentale l’ultimo orizzonte dell’età del Rame (2.500-2.300 a.C.), appare scarsamente attestato nell’Italia meridionale, mentre sempre al momento finale dell’Eneolitico è attestata la comparsa della cultura di Laterza, che avrà ampio sviluppo durante la successiva età del Bronzo antico. In Sicilia, dopo la forte omogeneità della cultura di Diana, l’età del Rame è caratterizzata da una marcata frammentazione culturale. Nell’isola è documentata, durante la fase terminale dell’Eneolitico, la presenza di influenze campaniformi che persistono ancora durante l’antica età del Bronzo con il cosiddetto stile della Moarda. In Sardegna il passaggio dal Neolitico finale all’età del Rame è caratterizzato dalla cultura di S. Michele di Ozieri, anche se la fine di tale cultura non è ancora ben chiara poiché essa è posta da alcuni studiosi alla fine del Neolitico, mentre da altri essa è ritenuta persistere ancora durante l’Eneolitico iniziale. Il pieno Eneolitico, che si sviluppa durante la prima metà del III millennio a.C., è caratterizzato dagli aspetti Filigosa e Abealzu; i due aspetti sembrano terminare prima della formazione della cultura di Monte Claro. Questa cultura attesta una maggiore diffusione in buona parte dell’isola e il suo momento finale (2.500-2.300 a.C.) si sovrappone alla comparsa della Ceramica Campaniforme; la persistenza di motivi decorativi del Campaniforme è inoltre documentata nella successiva antica età del Bronzo
(cultura di Bonnànaro). La comparsa dei primi nuraghi a tholos e delle prime tombe dei giganti va collocata durante la fase più avanzata (2.000-1.700 a.C.) della cultura di Bonnànaro.
L’Eneolitico nell’Italia settentrionale L’unità culturale che aveva caratterizzato l’Italia settentrionale tra il V e il IV millennio a.C. con la cultura dei Vasi a Bocca Quadrata e in seguito durante il IV millennio a.C. con i gruppi Chassey e Chassey-Lagozza sembra concludersi nella seconda metà del IV millennio a.C., quando in buona parte delle regioni della Pianura Padana e del versante meridionale alpino è documentata la comparsa diffusa dei primi manufatti di rame. La conoscenza dell’età del Rame dell’Italia settentrionale risente ancora purtroppo di molti limiti; numerosi sono infatti i problemi che caratterizzano questo periodo, quelli forse più rilevanti sono i seguenti: 1) la mancanza di sequenze stratigrafiche di riferimento determina l’assenza di una scansione cronologica necessaria alla definizione delle culture e delle linee evolutive tra Tardoneolitico e Bronzo antico; 2) il divario tra l’alto numero di necropoli e i corrispettivi pochi insediamenti noti implica una buona conoscenza delle tradizioni funerarie dell’Italia settentrionale a sfavore della vita quotidiana; 3) il numero ridotto di abitati conosciuti limita le conoscenze sui modi di insediamento e di sfruttamento del territorio delle comunità eneolitiche. L’età del Rame dell’Italia settentrionale è suddivisa in un momento più antico (3.400/3.300-2.500 a.C.) caratterizzato dalla presenza di numerosi aspetti culturali contemporanei e in un momento più recente (2.500-2.300 a.C.) nel corso del quale si assiste alla diffusione della Ceramica Campaniforme. La sequenza culturale tipo, valida per l’Italia settentrionale tra tardo Neolitico e antica età del Bronzo, è quella individuata nel sito di Monte Covolo (Brescia), dove lo sviluppo è il seguente: cultura della Lagozza (Neolitico finale), ceramica White Ware (antica e media età del Rame), Vaso Campaniforme (tarda età del Rame), cultura di Polada (Bronzo antico). Una recente analisi della sequenza cronologica e culturale riconosciuta nell’abitato di Isera la Toretta (Trento) associato al riesame dei costumi funerari della necropoli di Remedello Sotto (Brescia), messi a confronto con i dati ricavati dallo studio dell’uomo del Similaun, hanno portato alcuni studiosi a proporre una suddivisione in tre fasi dell’età del Rame dell’Italia settentrionale: età del Rame I (3.400/3.300-2.900/2.800 a.C.), età del Rame II (2.900/2.800-2.400 a.C.) ed età del Rame III (2.400-2.300/2.200 a.C.). Sulla base delle datazioni radiocarboniche e dei confronti con le culture nordalpine viene proposta una contemporaneità tra la fase antica della necropoli di Remedello, la ceramica tipo Tamins-Isera 5 e White Ware, aspetti inquadrabili in una fase arcaica dell’Eneolitico (Rame I). La seconda fase di utilizzo della necropoli di Remedello, durante la quale è attestata la Ceramica Metopale, rappresenta un momento più evoluto dell’età del Rame (II) che può essere correlato cronologicamente con la cultura francese di Fontbouisse e con la diffusione della Ceramica Cordata svizzera. La fase più recente dell’Eneolitico (Rame III) infine è caratterizzata dalla diffusione del Vaso Campaniforme. La suddivisione cronologica proposta per l’Eneolitico dell’Italia settentrionale non risolve in ogni caso tutti i vari problemi connessi alla complessità e alla diversificazione del quadro culturale documentato (tavola), per tale motivo è forse più semplice considerare separatamente i principali aspetti che caratterizzano gli studi sull’età del Rame: 1) i costumi funerari; 3) il megalitismo; 4) la diffusione del Vaso Campaniforme. Da quando nel 1931 fu definita per la prima volta la cultura di Remedello, dalla omonima necropoli eneolitica posta nella provincia di Brescia, l’età del Rame dell’Italia settentrionale era associata a questa cultura, caratterizzata da tombe a inumazione singola e dalla presenza di molti manufatti di rame (asce piatte, pugnali ed elementi di ornamento) (Tavola). La realtà era invece ben diversa giacché alcuni studi degli anni settanta mettevano in luce l’esistenza di numerose sepolture collettive distribuite in gran parte della fascia collinare perialpina del Trentino, della Lombardia, della Liguria, così come lungo la fascia preappenninica emiliano-romagnola e nella Toscana settentrionale. La distinzione tra l’area della sepoltura collettiva (gruppo di Civate in Lombardia, gruppo di Vecchiano nella Toscana settentrionale) e quella dell’inumazione singola (cultura di Remedello nell’area padana lombardo-veneta, gruppo di Spilamberto nel modenese) costituisce perciò un confine culturale. La differenza tra le due tradizioni funerarie è infatti molto evidente non solo nella diversità del rituale funerario (inumazione singola, inumazioni collettive), ma pure nel tipo di oggetti associati ai defunti; nella cultura di Remedello i corredi sono costituiti da diversi oggetti (armi, utensili, ornamenti, vasi) che mettono in rilievo le caratteristiche dell’individuo (sesso, età, posizione sociale) (TAVOLA), mentre nelle tombe collettive, dove il defunto viene deposto perdendo la sua individualità a favore di un’appartenenza più ampia (famiglia, lignaggio, classe d’età, clan, ecc.), gli oggetti rinvenuti più di frequente sono gli elementi di ornamento che sono stati interpretati come la testimonianza di offerte funerarie destinate agli antenati. Un’ipotesi sull’organizzazione sociale dell’età del Rame in Italia settentrionale può essere avanzata a partire dall’analisi della necropoli di Remedello. In essa è evidente infatti la distinzione principale fra maschi adulti armati sepolti in posizione rannicchiata ed infanti, giovani e donne sepolti in posizione supina generalmente senza corredo o
con solo una lama di selce. Risulta poi molto difficile stabilire se la concentrazione di armi ed oggetti di prestigio in alcune tombe di armati testimonino la presenza di personaggi di rango o se semplicemente siano il riflesso di una maggiore articolazione della società. L’importanza degli armati è inoltre ben documentata nella necropoli di Spilamberto (Modena). Il fenomeno del megalitismo (dal greco megas=grande e lithos=pietra), nei suoi diversi aspetti dell’Italia settentrionale, quali le statue-menhir, i massi incisi e le tombe megalitiche, rappresenta un altro importante aspetto dello studio dell’organizzazione sociale dell’età del Rame. Il termine megalitismo è usato per designare grandi pietre isolate (menhir) o strutture monumentali (dolmen, tombe megalitiche, fortificazioni e recinzioni) edificate utilizzando pietre di grandi dimensioni, generalmente poco modellate. Il fenomeno, pur investendo buona parte dei territori del Mediterraneo e dell’Europa occidentale sin dal Neolitico, compare in Italia settentrionale solo durante le fasi più antiche dell’età del Rame. La distribuzione geografica nelle regioni settentrionali interessa prevalentemente l’arco alpino centro-occidentale e la dorsale dell’Appennino liguretoscano; mancano invece le testimonianze nell’area della Pianura Padana. Spesso le manifestazioni megalitiche e l’arte rupestre sono presenti nello stesso territorio. Le statue-menhir, presenti in Trentino-Alto Adige, nella zona di Aosta e in Lunigiana, e le stele e i massi incisi, noti soprattutto in Valtellina e Valcamonica, sono da connettere ad una sfera nella quale culto, riti funerari e ostentazione d’importanza sociale si coniugano in complesse manifestazioni simboliche. Le statue-menhir riproducono iconografie che presentano spesso delle costanti, come il pugnale, l’ascia, il pendaglio a doppia spirale, il cinturone, i caratteri del volto, elementi di ornamento; le rappresentazioni maschili prevalgono generalmente su quelle femminili (TAVOLA). Nei massi incisi, accanto ad elementi che possono essere pertinenti all’armamento o all’abbigliamento personale compaiono raffigurazioni del simbolo solare, associate ad oggetti di prestigio quali alabarde ed asce da combattimento, e rappresentazioni del mondo terreno come l’aratro, il carro, mandrie di bestiame e branchi di animali selvatici. Questo tipo di monumenti, singoli o associati, devono rappresentare l’espressione di particolari attività rituali, propiziatorie o celebrative. Le statue-menhir e i massi incisi vengono datati alla prima metà del III millennio a.C. Le strutture funerarie di tipo megalitico sono estremamente rare nel versante italiano dell’arco alpino; esse si limitano ai monumenti dell’area megalitica di Saint Martin de Corleans (Aosta), di Velturno (Bolzano) e di Sovizzo (Vicenza). I monumenti megalitici di Aosta trovano un riscontro diretto nell’area megalitica del Petit Chasseur di Sion nel Vallese (TAVOLA). Lo scavo del sito di Saint Martin ha permesso di ricostruire una lunga evoluzione nei modi di utilizzo dell’area, le cui tappe principali sono lo scavo di un certo numero di buche contenenti dei pali e resti combusti di crani di ariete, un’aratura di consacrazione dell’area e la semina di denti umani, l’erezione di statue stele e l’offerta di macine e cereali in pozzi appositamente preparati, la costruzione di quattro tombe megalitiche che nella loro struttura utilizzano parti spezzate delle stele. La costruzione delle tombe megalitiche di Aosta è riferibile a una frequentazione della località da parte di comunità del Vaso Campaniforme. Il periodo più recente dell’età del Rame è caratterizzato anche in Italia settentrionale, come in buona parte dell’Europa centro-occidentale, dalla diffusione del Vaso Campaniforme. Attorno alla metà del III millennio a.C., infatti, il vaso a forma di campana decorato a impressione con motivi geometrici, spesso accompagnato dal pugnale di rame, tipo Ciempozuelos, da elementi ornamentali metallici e da una serie di oggetti che costituiscono il kit dell’arciere, punte di freccia a peduncolo ed alette e brassards (piastrine di pietra usate come protezione dell’avambraccio dal contraccolpo della corda dell’arco), è presente dall’Ungheria alla penisola iberica e dalla Sicilia e Sardegna fino alle isole britanniche. La diffusione del Vaso Campaniforme, che a un primo esame lascia intravedere il primo grande fenomeno di unificazione culturale del continente, rivela invece la presenza di diverse tradizioni regionali all’interno di questa cultura. Nell’Italia settentrionale essa è attestata in quattro differenti stili: all over ornament (AOO), europeo, italiano e stile della Tanaccia di Brisighella. Accanto a complessi quali Monte Covolo (Brescia), S. Ilario d’Enza (Reggio), Rubiera (Reggio), dove il campaniforme si presenta con delle caratteristiche che potremmo dire pure, ve ne sono altri dove vasi campaniformi si associano ad elementi di differenti tradizioni culturali, sia dell’età del Rame sia, talvolta, del Bronzo antico. La presenza di vasi campaniformi è sovente rilevata nelle tombe, per tale ragione questo tipo di vaso è stato interpretato come simbolo dell’ideologia maschile del bere e del combattere, come simbolo di rango e quindi testimonianza dell’esistenza di élite e come manifestazione materiale di prestigio individuale e ricchezza. Qualunque sia l’interpretazione del fenomeno campaniforme, l’ampia diffusione prova la sua importanza storica: la creazione del primo grande circuito di scambi di idee, merci e concezioni che rese possibile l’integrazione di diverse comunità e una prima capillare diffusione della metallurgia nel continente europeo. L’età del Rame in Italia settentrionale, come in buona parte d’Europa, vede numerosi mutamenti nella cultura materiale e nell’organizzazione sociale delle comunità eneolitiche. Uno degli aspetti forse più rilevante è l’aumento generale della conflittualità nel corso del III millennio a.C.; tale fenomeno, documentato dall’ampia diffusione di armi metalliche e litiche, si accompagna al ruolo sempre più importante rivestito dall’elemento guerriero nella società. Sebbene nel corso del precedente Neolitico tali evidenze si fossero già manifestate in modo labile, è solo durante l’età del Rame che le sepolture, le rappresentazioni dell’arte preistorica e la diffusione dell’architettura megalitica attestano la crescente importanza sociale dei gruppi di armati e della rilevanza sociale del maschio adulto
L'età del bronzo Nel periodo compreso tra la fine del III millennio a.C. e gli ultimi secoli del I, in Europa centrale, nell'area padana e danubiana-carpatica, si verificano una serie di fenomeni di ordine tecnologico, economico e sociale - come lo sviluppo della metallurgia (prima del bronzo e poi del ferro) e il formarsi di "società complesse", ossia il verificarsi di differenziazioni sociali stabili - che consentono di definire tale epoca come protostoria. All'inizio di questi duemila anni l'Europa e l'Italia sono popolate da piccole comunità di villaggio, per lo più instabili e prive di una stratificazione sociale consolidata, mentre alla conclusione sono costellate da città e stati e caratterizzate da società articolate in classi. L'Europa di quell'epoca ebbe contatti con le società del Vicino Oriente e del Mediterraneo, in cui livelli civile e forme di organizzazione sociale erano totalmente diversi: questi contatti dovettero dovettero offrire occasioni di confronto, esercitando un effetto di stimolo alla trasformazione. Di queste comunità che si sono succedute nel tempo abbiamo testimonianza soprattutto attraverso i resti materiali rinvenuti negli abitati, nei sepolcreti ed in altri tipi di deposizione per seppellimento volontario (ripostigli, deposizioni cultuali). Talvolta, ma solo per il periodo più recente, abbiamo notizie indirettamente da fonti scritte prodotte presso genti che conoscevano la scrittura e che erano entrate in contatto con esse.
Il Bronzo Antico A partire dall'inizio del secondo millennio la produzione metallurgica assume una dimensione quantitativa (in alcune parti d'Europa fino a decuplicarsi o centuplicarsi) e qualitativa mai conosciuta prima. Un tale sviluppo implica una notevole accumulazione di conoscenze tecnologiche e di capacità professionali. Gli oggetti di bronzo fabbricati durante questo periodo erano in prevalenza beni di prestigio rivolti a nuovi ceti emergenti. La creazione di una lega resistente e di facile lavorazione (bronzo) determinò la produzione su larga scala di oggetti metallici di differenti classi e ebbe come conseguenza una serie di miglioramenti economico-sociali quali il potenziamento dell'agricoltura, attraverso l'uso di utensili metallici, l'incremento demografico e la creazione di riserve di ricchezza da distribuire attraverso il commercio. L'età del bronzo segna, dunque, una tappa fondamentale nella storia europea. Uno dei centri più attivi dell'estrazione dei minerali cupriferi e della metallurgia era il territorio alpino orientale intorno alle miniere di rame del Salisburghese (Austria) sicuramente sfruttate sin dal Bronzo Antico (18001600 a.C.). Questi luoghi di approvvigionamento e lavorazione del bronzo divennero punti di incontro di genti di varia provenienza. A partire da questo stesso momento, si verificano due fattori nuovi: in un certo numero di corredi funebri incominciano a ricorrere in modo costante regolari combinazioni di oggetti di prestigio spesso di metallo e di fattura tecnicamente complessa. Da quanto si può dedurre dai sepolcreti, la presenza di alcuni oggetti di corredo particolarmente rari consente di riconoscere alcune figure eminenti, in particolare emergono alcuni elementi maschili, contraddistinti come guerrieri. Le stesse categorie di oggetti di prestigio in metallo (pugnali, alabarde, asce, collari, braccialetti, altri ornamenti [Tavola]) compaiono anche nei ripostigli, gruppi di oggetti la cui interpretazione come risorse tesaurizzate, o offerte alla divinità ritualmente sepolte, è controversa, ma che in entrambi i casi attestano forme di accumulazione di ricchezza che ora si affianca a quella tradizionale costituita dal bestiame. Una terza categoria di rinvenimenti i cui i beni di prestigio si trovano però singolarmente è quella - che comincia proprio ora a comparire, ma che avrà più fortuna in seguito - delle deposizioni cultuali, per le quali il significato di offerta alla divinità è evidenziato dalla scelta del luogo (corsi e specchi d'acqua, vette dei monti, valichi, voragini, anfratti rocciosi). Le comunità all'interno delle quali avveniva questo processo di differenziazione sociale avevano dimensioni ridotte, erano piccoli gruppi, dell'ordine di varie decine di individui, legati da rapporti di parentela e aggregati in villaggi sparsi sul territorio. Sebbene queste comunità praticassero una agricoltura piuttosto avanzata, basata sull'uso dell'aratro, i loro stanziamenti non possono ancora considerarsi stabili. Nei sepolcreti europei ed italiani di questo periodo si colgono diverse modalità di seppellimento e di organizzazione dello spazio: una unica tomba, o un piccolo gruppo di tombe a carattere monumentale, aggregarsi di nuclei attorno a tombe di personaggi eminenti o gruppi di maggior spicco. Ciò sembra rispecchiare a
A partire dagli inizi dell'età del bronzo in Europa comincia a moltiplicarsi il numero degli abitati stabili. Le aree che per prime videro una continuità di stanziamento furono quelle sud-orientali della penisola balcanica, del bacino danubianocarpatico e del sud est della Spagna. In Italia esso è documentato solo nella pianura Padana nell'area di Polada. [Tavola]
Il Bronzo Medio A partire dal Bronzo Medio si verificano profondi cambiamenti nell'assetto demografico, economico e sociale delle comunità. Queste si fanno più popolose, dell'ordine di centinaia di individui e più stabili, cioè più sedentari: sono frequenti ora gli stanziamenti che durano diversi secoli. Queste comunità ci appaiono ora strutturate su base territoriale. I corredi delle necropoli denotano una differenziazione sociale ed economiche meno vistosa. Anche la produzione metallurgica cambia carattere: accanto alle armi e agli ornamenti hanno sempre più importanza gli utensili e gli strumenti di lavoro. In Europa compare al passaggio tra Bronzo Antico e Bronzo Medio la falce messoria in bronzo che sostituisce quella lignea con armatura in selce. Nello stesso periodo si assiste in alcune aree dell'Europa, soprattutto nella parte settentrionale, alla suddivisione di vaste superfici di terreno in piccoli appezzamenti di forma quadrangolare (estese fino a un ettaro) delimitate da arginelli o terrazzamenti. Gli abitati presentano di un tessuto insediativo a "scacchiera" con reticolo viario ad assi paralleli. Questi abitati dunque sono costruiti secondo una pianificazione precisa: sono provviste di infrastrutture come fortificazioni a terrapieno e fossati, ciò implica che hanno comportato un investimento di lavoro consistente tale da coinvolgere l'intera comunità. Il rituale funebre, nel quale ora prevale in Europa il costume crematorio, sembra rivelare un sistema di rapporti sociali in cui ciò che conta è la collocazione e la funzione sociale svolta all'interno della comunità. Alcuni studiosi considerano che in questo periodo la terra sia di proprietà comune e venga assegnati a rotazione degli appezzamenti di terreno agricolo alle singole famiglie (come è attestato nelle società arcaiche e barbariche d'Europa). Secondo questo modello anche l'approvvigionamento dei minerali metalliferi era garantita dalla comunità (tribù) stessa. La produzione notevolmente aumentata e l'intensa circolazione da una comunità all'altra di manufatti implica che alcune persone dovevano essere impegnate a tempo pieno alla lavorazione dei metalli. Le tracce di lavorazione del bronzo negli insediamenti sono pressoché generalizzate e la circolazione di metallo grezzo (pani, lingotti, rottami), suddiviso secondo sistemi ponderali, è molto ampia. Nel nuovo assetto sociale il ceto dei guerrieri dominanti si trova al centro di un sistema di forze più complesso. L'importanza delle élites guerriere durante questi secoli è testimoniata dal grande sviluppo delle tecnologie militari, come la comparsa della spada e dalla sua evoluzione da arma da punta ad arma da fendente, o come la diffusione del combattimento a cavallo e su carri a due ruote e al diffondersi della lancia sia da getto, sia impugnata come arma da punta. Un indizio forse va riconosciuto anche nella tendenza a costruire sempre più imponenti fortificazioni degli abitati. Queste élites verosimilmente controllavano anche lo scambio tra comunità e comunità di materiale grezzo, ma anche manufatti di prestigio ormai largamente diffusi, come vaghi d'ambra, pietre pregiate, faïence. In questo periodo aumenta il numero di ripostigli (insieme di manufatti rotti, pani e lingotti) Indipendentemente dalla loro interpretazione, molto discussa, (seppellimento per motivi di sicurezza o rituale deposizione di offerte alle divinità) è il risultato di un processo di accumulazione di riserve di ricchezza il cui proprietario verosimilmente sarà stata la comunità stessa. Nelle manifestazioni religiose tende a scomparire la concezione "terrena" della divinità e si affermano invece gradualmente delle pratiche che collocano il divino in una sfera separata e lo fanno oggetto di offerte analoghe a quelle che competono ad una figura socialmente eminente.
Il Bronzo Medio in Italia
Nel Bronzo Medio dell'Italia settentrionale si distinguono quattro aree archeologicamente distinte: quella transpadana cenro-orientale (Lombardia, orientale, Trentino-Alto Adige e Veneto); quella "terramaricola" (Emilia centro-occidentale, bassa lombarda e veneta), quella nord-orientale (Friuli-Venezia Giulia, parte della Slovenia e della Croazia), quella nord-occidentale (Lombardia a ovest dell'Adda, Piemonte e Liguria). Con il Bronzo Medio il processo di stabilizzazione dell'insediamento, che era iniziato in Italia nell'area centro-orientale e in Sicilia nel periodo precedente, si estende a tutto il resto d'Italia. Aumenta i numero degli abitati su altura in aree collinari e montane, nelle aree di pianura, in particolare nella Pianura Padana, sorgono, in tempi diversi, abitati cinti da fortificazioni. Il numero degli insediamenti diminuisce e aumenta la loro estensione: forse ciò rispecchia una concentrazione della popolazione in alcuni siti. La densità di popolazione viene stimata in una media di 100 persone per ettaro. Il fatto nuovo è l'estensione delle colture agricole nelle zone collinari con la diffusione dell'arboricoltura (fico, melo, pero, noce, olivo e vite vinifera). Riguardo l'allevamento non ci sono dati per distinguere l'allevamento stanziale, pastorizia, alpeggio e transumanza. Sulla base dei resti ossei rinvenuti sappiamo che in pianura le principali specie allevate si equivalgono con un lieve prevalenza del bue; nell'appennino emiliano-romagnolo prevalgono capro-ovini e nelle Alpi centrali sono dominanti capro-ovini e scarso è il maiale. L'Italia in questo periodo è divisa in due ambiti di gusto: l'Italia settentrionale sembra legata, specie nella produzione metallica, all'Europa centrale e danubiana, quella centro-meridionale sviluppa nella produzione ceramica, nella fase avanzata del Bronzo Medio, uno stile proprio denominato "appenninico".
Il Bronzo Recente In questo periodo l'Italia settentrionale è ancora divisa in quattro aree archeologicamente differenziate come nell'epoca precedente: l'area transpadana centro-orientale; terramaricola, castellieri carsico-istriani a nordest, comprendente anche Friuli - Venezia Giulia e parte delle attuali Slovenia e Croazia. L'Europa centrale è caratterizzata dalla presenza di un "frontiera culturale" che la taglia da nord a sud, dividendo una zona a nord ovest delle Alpi, gravitante maggiormente verso l'Europa occidentale, e una zona a nord est delle Alpi, legata all'area danubiano-carpatica. Tale frontiera divide in due anche l'Italia settentrionale. L'elemento unificante è rappresentato alla produzione metallurgica. Le sfere metallurgiche occidentale e orientale costituiscono due aspetti di una medesima unità, la Koinè metallurgica che unisce l'Europa e il Mediterraneo. Le fogge sono assai simili, spesso tipi identici di spade, armi, fibule, spilloni, utensili denunciano una circolazione vastissima di modelli e di prodotti dal mediterraneo alla Scandinavia, dalla Transilvania all'Atlantico. Si assiste ad un grande processo di osmosi. [Tavola] Un aspetto di questo processo è costituito dalla presenza di ceramica micenea (sia di produzione che di imitazione) che risalgono la penisola fino ad arrivare nell'area transpadana centro-orientale lungo la valle dell'Adige. Un altro aspetto è la diffusione di fogge vascolari della facies subappenninica centro-meridionale sia nell'area terramaricola che in quella centro-orientale. Con l'età del Bronzo Recente si completa quel processo di omologazione dell'economia verso forme organizzate iniziata nel Bronzo Medio: marginalizzazione della caccia, pesca, raccolta, evoluzione graduale di alcune specie di animali domestici attraverso forme di allevamento più stanziali. Aumentano il numero di insediamenti. Nella produzione artigianale si va verso una standardizzazione nella realizzazione di modelli: nel campo della metallurgia si generalizza la fusione in serie a scapito di tecniche e risultati raffinati precedenti. In Italia ed in Europa si afferma una nuova produzione di oggetti, in questo periodo viene introdotto il coltello evoluzione del pugnale, e vengono prodotti oggetti di ornamenti in vetro in sostituzione di quelli in faïance. [Tavola] E' un periodo contraddistinto da una intensa circolazione di cose, persone e idee. Sono diagnostici in questo senso le ceramiche di importazione e i traffici a lunga distanza anche per via marittima. Anche nella produzione ceramica la circolazione di oggetti e persone è un fenomeno talmente generalizzato da lasciare poco spazio a differenziazioni locali. La sfera metallurgica assume dimensioni continentali. A partire dal Bronzo Recente i ripostigli sono caratterizzati da una straordinaria eterogeneità dagli oggetti sia interi che frammentari: armi da offesa, armi da difesa in lamina, oggetti di ornamento e di abbigliamento, utensili, lingotti e pani (in particolare quella diffusa a piccone), forme di fusione. Per i frammenti intenzionali di pani e asce ed altri oggetti è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di elementi con funzione premonetale, anche se i materiali potevano essere frammentati per facilitarne la rifusione, come conferma la rispondenza a precisi valori ponderali, potevano essere usati anche come mezzi di scambio. E' probabile che in questo periodo l'artigiano dipendesse da un capo locale. Si può supporre che l'emergere dei ceti dell'aristocrazia gentilizia abbia portato alla formazione di nuovi e più complessi rapporti di produzione: attorno ai gruppi gentilizi si formavano delle aggregazioni di tipo clientelare. In molte aree dell'Italia continentale prevale il rito della cremazione. Si estende dunque una concezione sacrificale del rito crematorio: deporre sulla pira un defunto vestito dei suoi ornamenti e accessori rivela l'idea della consacrazione alla divinità. Le raffigurazioni ornitomorfe sia sul motivo della barca solare sia isolate in coppia o in serie sono molto diffuse in questo periodo. [Tavola] Probabilmente sono il simbolo di tramite tra la divinità celeste e l'uomo. La divinità quindi ora è collocata nell'ambito celeste e atmosferico o comunque verso l'alto. Anche le deposizioni cultuali di oggetti di bronzo nei corsi o specchi d'acqua rientrano nelle manifestazioni di religiosità dell'Europa continentale e nordica. Forse legata anche in questo caso agli uccelli acquatici. Non è facile invece interpretare la sfera di appartenenza del culto dell'arma, o meglio dell'ascia rappresentata in molte categorie di oggetti (incisioni rupestri, amuleti, modellini, nelle decorazioni di vasi ecc.) forse legata al fulmine e legata ad una divinità maschile. Alla sfera terrestre e biologica invece rimandano i simboli della protome taurina e le corna appaiate. Legato forse alla forza virile (compare fino all'età del ferro su tazze, rasoi, pendagli, ornamenti delle travature delle urne a capanna). Questi oggetti si ritrovano nelle acque (nei fiumi in particolare armi), o su sommità di alture: pare che il rituale sia quello dell'offerta di oggetti di prestigio e di valore simbolico, normalmente attribuiti ad un personaggio di rango con il quale si stabilisce un vincolo di obbligazione. La divinità viene concepita ora come entità immateriale, staccata dalla sfera biologica e il bene offerto viene concepito come qualcosa di astratto. Quasi i due terzi delle deposizioni cultuali note, si concentrano tra il Bronzo Medio e il Bronzo Recente.
Il Bronzo Finale in Europa [Tavola, Tavola] Nella tarda età del bronzo (XIII - XII) secolo a.C. l'Europa è coinvolta in una serie di movimenti di popoli: crollano le civiltà degli Ittiti (Asia Minore), quella dei Micenei (Grecia), Trioa viene distrutta, viene anche coinvolto l'impero egiziano. Tra il XII e l'XI secolo l'ambito egeo vede il formarsi di numerose comunità locali che non gestiscono più scambi a vasto raggio e l'inizio di una grave recessione economica e culturale. Si assiste al passaggio da una società tribale ad assetto territoriale a quella gentilizio-clientelare: questo è stato un fenomeno molto variabile a seconda degli ambiti sorico-geografici interessati. Si va da uno spazio di poche generazioni (un secolo o due) in Italia meridionale ad una serie di secoli in certe zone d'Europa (anche un millennio). Il motivo di questa differenza sta nel fatto che fu caratterizzato da dinamiche di parziale dissoluzione o degrado delle vecchie strutture sociali. La comparsa di élites dominanti e la presenza di tensioni antagonistiche all'interno della società ha dato origine a gruppi legati da rapporti di consanguineità (le gentes) che erano aggregazioni gerarchiche di famiglie cellulari. Attorno a ciascun gruppo veniva a formarsi un seguito che avevano dei rapporti di dipendenza di tipo clientelare (fondati su servigi sia economici che militari, forniti in posizione subalterna in cambio di protezione o prestigio sociale). questa struttura sociale si coglie bene nelle necropoli, queste infatti risultano articolate in grandi aggregati tra loro omologhi al centro dei quali si trova un nucleo di portatori del ruolo maschile più significativo. La produzione e la circolazione di beni di prestigio e molte manifestazioni di culto accomunava in cerchie più estese i ceti aristocratici di diverse comunità. Si formarono delle entità federali. Lo sviluppo dell'artigianato, svolto in officine centralizzate, vide solo il potenziamento della produzione di beni di prestigio destinato a circolare all'interno della comunità o nella sfera comune degli aristocratici.
Il Bronzo Finale in Italia Tavola][Tavola] L'età del Bronzo Finale l'Italia settentrionale si sviluppa la facies "protovillanoviana" restano estranee tre facies quella di Luco (Tirolo, Svizzera Orientale e Trentino-Alto Adige), quella di S. Canziano e Leme (Slovenia e Istria) e quella dei Castellieri carsici-istriani. Nell'area transpadana vi sono tre facies metallurgiche occidentale, centrale e orientale in cui è inserito il Friuli e la fascia della pianura veneta. Nell'italia del Nord tra Bronzo Recente e Bronzo Finale si assiste ad un abbandono generalizzato degli abitati, i nuovi abitati che sorgono in questo periodo sono meno numerosi e più instabili. In questo periodo vengono introdotte nuove tecniche di allevamento, più selettive: in alcune specie domestiche si nota un notevole miglioramento sia da un punto di vista qualitativo delle razze sia per quanto riguarda la taglia. La circolazione nel Bronzo Finale mantiene un notevole vitalità: accanto ad alcuni manufatti di circolazione molto ampia, ve ne sono altri importati a distanze minori all'interno dello stesso ambito culturale. Per quanto riguarda la ceramica, troviamo su tutto il territorio italiano le stesse forme vascolari, gli stessi motivi decorativi eseguiti con la stessa sintassi e con le stesse tecniche (stile "protovillanoviano). [Tavola, Tavola] Nella metallurgia si attenua la koiné metallurgica, le diverse cerchie di officine tendono a formare circuiti chiusi che si traducono in vere e proprie facies metallurgiche regionali. Nell'accumulazione della ricchezza, sotto forma di metallo, si verifica un profondo cambiamento: in Italia centro settentrionale vi sono ancora ripostigli con materiali eterogenei, in Italia meridionale si riduce il numero delle classi di oggetti e sono solo interi, fino ad arrivare a comprendere solo asce. Nelle necropoli del nord Italia e della fascia medio-adriatica si colgono delle differenziazioni dei corredi funebri per rango e per ricchezza; queste sono composte da piccoli nuclei, uniformi ciascuno al proprio interno e nettamente contrapposti fra loro. In Italia centromeridionale vi sono tombe a inumazione e tombe collettive a camera, o piccoli nuclei di inumazioni individuali con ricchi corredi, spesso caratterizzate dalla presenza di armi. Il numero dei siti si riduce e si un ingrandiscono le unità territoriali rimaste, nello stesso comprensorio naturale si addensano più siti tra loro complementari strategicamente e economicamente. Le fonti letterarie antiche che si riferiscono in modo più o meno diretto all'Italia protostorica, fanno riferimento a leghe o entità federali, spesso facenti capo ad un santuario, che raggruppano entità politiche minori (vedi ad esempio la lega Latina e il santuario sul Monte Cavo). L'incenerizione diviene in Italia il rito funebre esclusivo, tranne in poche aree del centro-sud. Nel Bronzo Finale si è pienamente compiuto il processo di identificazione della divinità con la sfera celeste e atmosferica su quella terrestre. Si moltiplicano sia le raffigurazioni ornitomorfe, sia del sole talvolta incorporate nel
motivo della barca o del carro solare. Continuano pure le deposizioni cultuali sulle vette delle montagne e negli specchi d'acqua.
L'età del ferro in Europa e in Italia [In Italia intorno al 1000 a.C. si ha la possibilità di distinguere l'identità di molti popoli, stabilizzati nelle loro sedi definitive. Di essi abbiamo notizia dalle fonti classiche. Si formano ora delle culture regionali diverse che distinguiamo col nome delle rispettivi genti (Celti, Illiri, Iberi, Liguri, Reti, Veneti, Etruschi ecc.) oppure con il nome del luogo dove sono state fatte le prime e significative scoperte (cultura di Golasecca estesa all'incirca alla Lombardia attuale, villanoviana in Emilia). E' possibile a partire da questo periodo tentare di identificare le identità etniche con quelle linguistiche e culturali, anche se spesso le facies definibili in base alla cultura materiale non sono sovrapponibili all'area indicata dalle fonti per una determinata etnia. Il passaggio all'età del ferro varia nelle diverse zone d'Europa, in alcune regioni si data all'XI sec. a.C. in Italia intorno al IX, l'uso del ferro però e pienamente diffuso a partire dal VII sec. a.C.. Nel IX secolo si formano in Etruria i primi centri protourbani "villanoviani" (Tarquinia, Cerveteri, Veio ecc.), mentre le prime città furono le prime colonie greche della Sicilia Meridionale fondate circa alla metà dell'VIII sec. a.C.. Gli agglomerati erano costituiti da migliaia di individui, in Italia settentrionale e nelle zone a nord e a est delle Alpi, non vi sono però vere e proprie città prima della romanizzazione. Un processo protourbano si sviluppa nella pianura padana - ma non nell'Italia orientale (Friuli - Venezia Giulia) - tra il VI e il V sec. a.C. Nell'Europa Centrale lo sviluppo protourbano si ha tra il III e II sec. a.C. (oppida celtici). L'effetto di questo processo fu l'intensificazione dei traffici con importazioni soprattutto di oggetti di prestigio dalle aree più progredite, l'emergere di ceti dominanti (aristocrazie) accoglimento di idee religiose e politiche. Agli inizi dell'età del ferro si formano una serie di gruppi locali contraddistinti da elementi culturali particolari. In questo periodo la produzione dei vasi fittili raggiunge una forma di standardizzazione nelle forme e nelle dimensioni. [Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola, Tavola] Vi è una straordinaria ripresa della circolazione di artigiani anche a grande distanza che taglia trasversalmente le facies culturali, si forma una cerchia di artigiani che producono oggetti ad alto valore artistico che si spostano in un raggio molto ampio ma producono per ceti particolarmente elevati. Negli oggetti destinati alla tesaurizzazione compare l'aes rude, a partire da VI secolo compaiono spesso nei ripostigli e nei corredi tombali. Il loro valore premonetale è evidente nella costante misura ponderale. Tra i motivi decorativi che lasciano intravedere aspetti del culto, persiste ancora il motivo della barca solare e degli elementi ornitomorfi. Compaiono gli alari fittili configurati forse legati al culto del fuoco e del focolare, e le figurazioni di cavalieri e di cavalli. Solo a partire dal V sec. a.C. sorgono i primi santuari a carattere comunitario, luoghi di aggregazione di diverse cerchie culturali.
I Veneti
I Veneti emergono dall'anonimato L'etnico Veneti (Enetoí, Ouénetoi, Veneti) ricorre nella tradizione allo scopo di individuare popolazioni stanziate in varie aree del mondo antico, dall'Asia Minore (Veneti "troiani"), alla penisola balcanica (Eneti illirici), dall'Europa settentrionale e centrale (Veneti, Venedi, Venedae, distinti dai Sarmati; Veneti in Bretagna), alla regione laziale (i Venetulani sono ricordati da Plinio come uno dei popoli laziali scomparsi ai suoi tempi). La questione dell'ampia diffusione del termine Veneti è stata affrontata dagli studiosi esclusivamente su base linguistica, mancando l'apporto della documentazione storico-archeologica: G. Devoto, ad esempio, osservava che l'etnico *wenet"non può identificarsi che con la base dei conquistatori, organizzatori, realizzatori" e che "dovunque si trova attestata la parola Veneti, ivi si sono affermati rappresentanti di una organizzazione di tradizione linguistica indoeuropea, meritevole di essere definita e riconosciuta in confronto delle altre come quella sostanzialmente dei vittoriosi". A. L. Prosdocimi, nel tentativo di definire che cosa rappresenti l'etichetta Veneti, precisa che il termine Veneti è sinonimo di Indoeuropei e che, nella fattispecie, "i Veneti del Veneto rappresentano un filone di Indoeuropei il cui etnico era appunto Veneti o era avviato a divenirlo". Mentre gli altri Veneti menzionati dalle fonti letterarie non risultano ancorati
a nessuna realtà storico-culturale, solamente per i Veneti dell'Adriatico si è andata creando una sorta di mitistoria, cui corrisponde una ricchissima documentazione archeologica, supportata dalla conoscenza della lingua e della scrittura.
Il problema delle origini Gli autori antichi concordano nell'attestare una provenienza orientale dei Veneti. L'origine orientale, o più specificamente troiana dei Veneti, prende le mosse da un passo dell'Iliade di Omero (Il. II, 851-852), in cui il poeta ricorda, tra gli alleati dei Troiani, un gruppo di Paflagoni, guidati da Pilemene, dal forte cuore, che vengono dagli Eneti, il paese detto delle mule selvagge. Qualsivoglia sia la corretta interpretazione del termine Eneti, o nome di popolo, o nome di città, è indubbio che a questo luogo omerico faccia riferimento tutta la tradizione classica, greca e latina, che fa provenire i Veneti dall'Asia Minore, nella fattispecie dalla Paflagonia, regione che si snoda lungo le sponde meridionali del Mar Nero. In tale direzione si susseguono le notizie negli autori antichi, dai greci Euripide e Teopompo, ai latini Catone e Cornelio Nepote, informazioni che trovano una codificazione in età augustea (27 a. C.-14 d. C.). Tito Livio e Virgilio, voci ufficiali del nuovo regime instaurato da Ottaviano Augusto, ricollegano i Veneti ad Antenore, eroe scampato alla distruzione di Troia e mitico fondatore di Padova. Tito Livio racconta che morto Pilemene a Troia, gli Eneti, già cacciati dalla Paflagonia, senza una patria e una guida, si rivolsero ad Antenore (Liv. I, 2-3): "con un gruppo di Eneti, ... Antenore pervenne nella parte più interna dell'Adriatico, e cacciati gli Euganei, che abitavano fra il mare e le Alpi, gli Eneti e i Troiani occuparono quelle terre... L'intera gente prese il nome di Veneti". Nell'Eneide virgiliana (Virg. Aeneide. I, 242-249), Venere, angosciata per il lungo peregrinare del figlio Enea, contrappone a quest'ultimo la felice sorte di Antenore che, sfuggito dalle mani degli Achei, si addentrò nei golfi dell'Illiria, si spinse nel regno dei Liburni e, superata la fonte del Timavo, fondò in quelle terre la città di Padova e stabilì la sede dei Troiani. L'affiancare Antenore, nel suo viaggio verso Occidente, ad Enea , illustre esule troiano e leggendario fondatore di Roma, tradisce l'intento propagandistico di voler legittimare anche su base, per così dire, mitistorica, quella secolare amicitia fra i due popoli, Veneti e Romani, documentata dalle fonti antiche quantomeno a partire dalla guerra gallica del 225-222 a. C., in cui, secondo Polibio, i Veneti avrebbero scelto di stare dalla parte dei Romani (Pol. II, 23, 2-3: "Veneti e Cenomani, cui i Romani avevano inviato un'ambasceria, preferirono allearsi con quest'ultimi; perciò i re dei Celti furono costretti a lasciare una parte delle loro forze a difendere il paese dalla minaccia costituita da costoro"; lo stesso Polibio (II, 18, 2-3) ricorda il precedente aiuto fornito dai Veneti ai Romani in occasione del sacco di Roma del 390 a. C.: [i Celti...] "presero la stessa Roma, tranne il Campidoglio... avendo i Veneti invaso il loro territorio, conclusero un trattato con i Romani, restituirono loro la città e ritornarono in patria". Tale notizia è stata interpretata da alcuni studiosi come una proiezione nel passato dell'allenza veneto-romana del 225 a. C. Plinio il Vecchio, che scrive nel primo secolo d. C., si richiama a Catone, autore vissuto tra III e II secolo a. C., per qualificare i Veneti di stirpe troiana (Plin. Nat. Hist. III, 130: Venetos troiana stirpe ortos auctor est Cato). Risulta significativo che Plinio citi Catone, un autore alquanto antico, piuttosto che Virgilio o Livio, letterati vissuti nel I secolo a. C., che, nel clima di esaltazione politica e di propaganda della grandezza di Roma, promossa dall'imperatore Augusto, fanno provenire i Veneti dalla Paflagonia dopo la distruzione di Troia: in tale scelta si potrebbe ravvisare la volontà di Plinio di dare maggiore spessore storico alla sua definizione, ignorando volutamente la propaganda corrente a lui ben nota. Sebbene in un passato nemmeno tanto lontano la tendenza della critica era quella di cancellare secoli di tradizioni connesse all'origine dei popoli italici, tacciandole frutto di favole e di leggende, allo stato attuale della ricerca si assiste ad un interessante recupero delle tradizioni antiche e della mitologia. Nella fattispecie, la ricca documentazione archeologica pertinente alla civiltà dei Veneti, letta e valutata nell'ambito di quella vasta e fitta rete di scambi che contraddistingue le vicende del Mediterraneo dagli inizi del mondo greco, conferisce valore al mito. Il Veneto, fin dagli albori della sua storia, si è sempre rivelato una terra di passaggio, di scambi (si pensi al commercio dell'ambra, dei metalli, del sale, del vino, della ceramica di provenienza attica), di accoglienza, e di commistione di civiltà, fra l'Egeo e l'Europa centrale, fra il mondo dei Greci e la civiltà etrusca, fra i Celti ed i Romani.
La civiltà atestina, la cultura paleoveneta, i Veneti Nel 1876, presso la stazione dell'odierna cittadina di Este, nel corso di lavori agricoli emersero due tombe di cremati, dotate di un ricchissimo corredo di vasi fittili e bronzei (fra i materiali vanno senz'altro segnalati due splendidi vasi di bronzo decorati con animali fantastici e figure umane). L'allora Conservatore del piccolo Museo estense, Alessandro Prosdocimi, diede il via ad una serie di campagne di scavo che, fra il 1876 e il 1882, portarono alla luce centinaia di sepolture: i ricchissimi materiali rinvenuti in quei contesti sepolcrali costituiscono ancor'oggi la maggior parte del patrimonio archeologico della protostoria atestina. Nel 1882 lo stesso Prosdocimi pubblicò nelle Notizie degli Scavi un ampio articolo in cui, dopo sei anni di incessanti indagini di scavo e clamorose scoperte, tracciò il quadro di una nuova
civiltà: la civiltà veneta preromana poteva dirsi uscita dal mondo dell'intuizione e dell'erudizione leggendaria, per entrare a pieno titolo nella vasta problematica della protostoria italiana ed europea. A partire dai primi anni del Novecento, grazie a nuove scoperte, gli studiosi appurarono che la cosiddetta civiltà atestina, definità così da Prosdocimi dal nome antico di Este (Ateste), non era limitata al centro estense, bensì risultava attestata in un ambito geografico particolarmente vasto, esteso a occidente fino al lago di Garda e al fiume Mincio, a mezzogiorno fino al fiume Po, a settentrione fino al crinale alpino e ad oriente fino al Livenza e al Tagliamento e anche oltre, fino alla necropoli di S. Lucia di Tolmino, scoperta alla fine dell'800 dal noto Carlo Marchesetti. A questa cultura, contraddistinta da caratteri peculiari, venne attribuito il nome di paleoveneta, meno restrittivo di atestina, e al popolo la denominazione di Paleoveneti, per non creare equivoci con i Veneti moderni. Tuttavia, allo stato attuale della ricerca, sembra più corretto recuperare la storicità del nome Veneti, ben documentato nelle fonti letterarie.
Il topos dei cavalli veneti Alcmane, autore greco vissuto alla metà del VII secolo a. C., ricorda "un cavallo vigoroso corsiero [...] enetico" e dei "puledri enetidi [...] dalla Enetide, regione dell'Adriatico" (Alcman. fr. 1, 46-51; 172 = Voltan 4-5). Alcmane, che si ricollega ad Omero quando definisce la terra di origine degli Eneti il paese delle mule selvagge, è il primo autore a menzionare quello che diventerà il topos dei cavalli veneti e che avrà un largo seguito presso i successivi autori greci e latini. Il frequente ricorrere nelle fonti antiche di questo tema sottintende un'attività economica, quella dell'allevamento equino, particolarmente apprezzata dai contemporanei; attività che da semplice fonte economica primaria divenne, nel corso del tempo, fonte competitiva di ricchezza nell'ambito degli scambi e delle relazioni commerciali fra Europa e Italia. Per citare un esempio, in seguito alla conclusione delle guerre istriche, il regulus dei Galli transalpini Cincibilo, assieme a Carni, Giapidi ed Istri, inviò, nel 171 a. C, un'ambasceria a Roma per lamentare che il console Caio Cassio Longino aveva intrapreso, di sua iniziativa, una spedizione per raggiungere la Macedonia via terra, e che, dopo aver ottenuto la loro collaborazione (probabilmente in base ai patti esistenti), li aveva trattati come nemici (pro hostibus), saccheggiando i loro territori. Anche in questa occasione, il senato deprecò il comportamento del console, che fu richiamato a Roma, e inviò ambasciatori al di là delle Alpi con doni per i reguli, in modo da ristabilire le buone relazioni. In occasione della medesima ambasceria a Roma, i notabili gallici chiesero il permesso ai Romani di acquistare dai Veneti fino ad un massimo di dieci cavalli di razza a testa e di esportarli nel Norico.
Il panorama archeologico Fin dai primi anni del Novecento, importanti scoperte archeologiche, unite a rinvenimenti occasionali, contribuirono a delineare la fisionomia del Veneto protostorico: la realtà preromana di Padova, che solo in questi ultimi decenni è stata realmente compresa; la necropoli di Montebelluna, terzo polo geografico dei Veneti ; le tombe di Mel, lungo la valle del Piave; il luogo di culto di Lagole di Calalzo (che ha rivelato una documentazione linguistica analoga a quella rinvenuta alla fine dell'800 oltralpe, a Gurina, al di là del passo di Monte Croce Carnico, nella valle della Gail); il Veneto orientale con i centri di Altino, Oderzo, Concordia, fino ai territori compresi fra il Tagliamento e l'Isonzo.
a) Prima età del ferro (VIII-VI secolo a. C.) A partire dall'VIII secolo a. C. compaiono i caratteri di una poleografia organizzata, con centri di pianura di primaria importanza, posti al controllo dei principali fiumi del territorio (dall'Adige al Tagliamento), uniti a centri comprimari o minori, situati presso i medesimi corsi d'acqua. Un aspetto da segnalare è lo stretto rapporto delle città venete con l'acqua, ben rilevato dalle fonti antiche. Strabone, geografo greco vissuto in età augustea, qualifica i centri veneti come "città simili ad isole", circondate dall'acqua e poste su importanti vie di transito. Anche le necropoli, situate esternamente ai centri urbani, risultano essere spesso dislocate in aree attigue all'acqua: anzi talvolta sono proprio i corsi d'acqua a marcare il confine fra la città dei vivi e quella dei morti, corsi d'acqua che devono essere attraversati nell'ultimo viaggio dal mondo terreno all'al di là. Nell'VIII secolo a. C., quando al popolamento sparso e diffuso tipico del IX secolo subentra la nascita di nuovi centri, che sorgono in aree nuove o con uno spostamento areale rispetto ai precedenti, i poli del nuovo sistema sono i centri di Este e Padova (Veneto euganeo); la loro centralità nell'ambito del panorama italico ed europeo sembra aver determinato la crisi del Veneto orientale, che risulta invece caratterizzato, nel
passaggio fra la fine del bronzo-inizio ferro, da una generalizzata continuità di occupazione e da una decisa vitalità, quale area di raccordo fra il comparto circumadriatico e la fascia alpina e transalpina. Dalla metà dell'VIII secolo inizia a manifestarsi un'articolazione in classi, distinte in base al rango e al ruolo: i corredi funerari risultano contraddistinti da una diversa qualità e quantità dei materiali. Nel VI secolo a. C. si registrano delle trasformazioni nel quadro degli insediamenti, che sfociano in una fase decisamente urbana. Nascono nuovi poli d'attrazione quali Vicenza, a cui si connette il ripopolamento delle colline circostanti, Altino, Adria.
b) Seconda età del ferro (V-II secolo a. C.) Nella seconda età del ferro, se da un lato si realizza la massima espansione territoriale dei Veneti, dall'altro comincia a verificarsi una certa dissoluzione legata alla pressione esercitata da altre realtà etnico-culturali, quali gli Etuschi padani, i Celti, i Reti. Indizi primari del passaggio alla fase urbana sono la trasformazione dell'edilizia domestica (le capanne vengono sostituite da strutture in muratura), il cambiamento del rituale funerario (si accentua il rituale del simposiobanchetto, mutuato dall'ambito greco-etrusco), l'attestazione di luoghi di culto (eco della religiosità pubblica della civiltà etrusca fra VII-VI secolo a. C.), spesso ubicati presso corsi d'acqua e-o direttrici commerciali, la nascita del concetto di confine, la diffusione della scrittura. Alle importazioni ceramiche (ceramica attica e-o etrusco-padana; precoci materiali di matrice celtica o cetizzante, quali fibule di tipo tardohalstattiano centroccidentale e ganci traforati) si affianca una produzione locale di imitazione (ad esempio la ceramica fine da mensa in argilla semidepurata e grigia).
L'arte delle situle Le situle sono vasi di bronzo a forma di secchio, attestati anche nel mondo orientale e centroeuropeo, che i Veneti producono largamente e sono soliti decorare con motivi geometrici e figurati. La provenienza di questi manufatti è prevalentemente funeraria, in quanto essi venivano usati come recipienti per contenere i resti della cremazione dei defunti. Questi vasi bronzei venivano lavorati con la tecnica dello sbalzo, o a stampo o a incisioni: nella fase più antica la decorazione fu esclusivamente geometrica, successivamente figurata (ad esempio nella nota situla Benvenuti, rinvenuta nella necropoli nord ad Este e datata alla fine del VII secolo a. C., sono rappresentati uomini intenti in varie attività della vita quotidiana, animali reali, esseri fantastici, fiori e virgulti).
Gli ex voto Gli ex voto, connessi ai luoghi di culto, possono rivelare dei caratteri comuni, ma possono anche manifestare delle diversità, delle specifiche diversità da centro a centro. Nella fattispecie gli ex voto (prevalentemente di bronzo) e alcune caratterische cultuali evidenziano una netta dicotomia fra l'area sud-occidentale (che gravita sul territorio di pertinenza atestina) e l'area nord-orientale (di pertinenza patavina). Caratteristica dell'area di gravitazione altinate è la presenza di una forte componente femminile, contraddistinta, ad esempio, dalla divinità Pora-Reitia, dalle immagini e dalle dediche femminili, dai doni legati alla filatura-tessitura e dai riti di passaggio che coinvolgono le giovani fanciulle (ad esempio quello della scrittura). Tipica dell'area soggetta all'influenza patavina è l'assenza di immagini femminili e la preminenza di dediche e offerte maschili. Di raccordo appare l'area altinate-trevigiana.
Il costume dei Veneti dalla documentazione figurata E' soprattutto dalla documentazione iconografica di natura cultuale (bronzetti e oggetti ex voto), attestata a partire dal V secolo a. C., che si ricavano informazioni utili circa il costume degli antichi Veneti. Complessivamente si può affermare che il costume veneto doveva differenziarsi, oltre che nei colori e nei modelli degli abiti, anche nelle guarnizioni, nel numero e nel tipo dei monili e nella foggia della cintura. Il costume non mutava solamente in base al tipo di occasione pubblica in cui veniva indossato, ma anche secondo lo status sociale che era in grado di qualificare. Al riguardo è stata formulata l'ipotesi che l'atto del vestirsi doveva essere non una semplice scelta privata, bensì doveva corrispondere ad un sistema di comunicazione sociale.
Le fonti epigrafiche. Lingua e scrittura L'identità etnico-culturale dei Veneti è contraddistinta, oltre che dalle espressioni di cultura materiale, anche da una lingua comune, definita "venetico". Il venetico risulta attestato nel Veneto centrale e meridionale (Este, Padova, Vicenza, Adria); nell'area dolomitica cadorina (Lagole di Calalzo, Belluno); nella valle della Gail (Würmlach, Gurina); nel Veneto orientale (Montebelluna, Altino, Oderzo); man mano che ci si muove verso Est, le testimonianze, seppur presenti, si fanno sporadiche (allo stato attuale della ricerca nell'area friulana si contano circa una ventina di iscrizioni). Se il riconoscimento del venetico come una lingua appartenente al ceppo indoeuropeo è stato un dato acquisito fin dagli inizi degli studi linguistici, meno univoca è stata la classificazione di questa lingua: da ultimo, in base alle recenti acquisizioni, è stata riconosciuta una rilevante affinità del venetico con il latino. La documentazione della lingua venetica si deve esclusivamente alle iscrizioni (allo stato attuale delle conoscenze si possiedono oltre quattrocento testi). Esse sono redatte in un alfabeto di derivazione etrusca, adattato alle esigenze fonologiche della lingua venetica: l'acquisizione dell'alfabeto etrusco è avvenuta in due fasi, una più antica (inizi del VI secolo a. C.) di matrice settentrionale (Chiusi), e una più recente (di poco posteriore) di matrice meridionale (Veio). Una caratteristica della scrittura venetica è l'uso della puntuazione, cioé di punti che, secondo regole complesse, precedono e seguono le lettere, quando queste si trovano in posizioni particolari. La puntuazione ha una funzione connessa all'insegnamento della scrittura, che pare basato sulla sillaba (proprio dalla città di Este provengono le testimonianze più complete di tutta l'Italia antica per quanto riguarda l'insegnamento della scrittura). La constatazione che le iscrizioni più antiche sono prive di puntuazione (la più antica iscrizione finora nota, databile al VI secolo a. C., il cosiddetto Kantharos di Lozzo, attesta una prima fase di scrittura senza puntuazione), e rivelano delle differenze nell'uso e nella forma di alcune lettere confermerebbe la tesi che i Veneti mutuarono per almeno due volte l'alfabeto dagli Etruschi, in tempi diversi e da aree geografiche diverse (Chiusi e Cerveteri o Veio). Altri aspetti singolari sono che la scrittura procede da destra verso sinistra e che le parole vengono scritte tutte di seguito, senza essere divise (la puntuazione, come si è accennato, non aveva una funzione divisoria). Circa l'ambito cronologico, le iscrizioni vanno dal VI secolo a. C. al periodo della romanizzazione. Per quanto riguarda i contenuti, si tratta quasi esclusivamente di iscrizioni funerarie o votive, ad eccezione di alcune iscrizioni confinarie e pubbliche. I testi sono brevi e ripetitivi, in quanto redatti secondo stereotipi relativi a ciascuna classe testuale. Ciò inevitabilmente condiziona la conoscenza del venetico: lessico e morfologia si conoscono in misura ristretta, mentre è noto un ampio repertorio onomastico, da cui si desumono interessanti informazioni di natura sociale ed istituzionale. Di analoga derivazione etrusca è anche la formula onomastica binomia: essa in genere è caratterizzata da un nome individuale e un appositivo derivato dal nome del padre, con suffisso -io o ko; per le donne il patronimico può essere sostituito dal gamonimico proveniente dal nome del marito con suffisso -na. Non mancano le attestazioni di una formula onomastica trinomia, che nel caso delle donne è stata spiegata con la presenza sia del patronimico che del gamonimico. Rimangono tuttoggi al vaglio degli studiosi alcuni aspetti del sistema onomastico venetico, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni di natura giuridico-sociale.
Precoci rapporti fra Veneti e Celti Proprio dall'onomastica emergono indizi non solo dei precoci rapporti fra i due popoli, ma anche dell'inserimento dei Celti nell'ambito della società veneta. Da segnalare una serie di ciottoloni iscritti, rinvenuti a Padova, i quali hanno consentito di ricostruire una sorta di prosopografia che ci illumina sulle modalità dell'integrazione. Altro caso interessante è quello di Este, dove dai documenti epigrafici risultano attestati dei sistemi onomastici di donne venete con gamonimico (nome del marito) celtico, e di donne celte con gamonimico veneto. L'elemento celtico risulta particolarmente documentato in località quali Oderzo, Altino e la valle del Piave.
Il passaggio alla romanità a) Aspetti storico-archeologici I Veneti, i cui contatti con i Romani risultano documentati quantomeno a partire dalla fine del terzo secolo, furono sempre in buoni rapporti con Roma, e questo risulta in modo esplicito dalle fonti letterarie che li citano come alleati dell'Urbe nei più importanti eventi bellici del tempo (ricordiamo che Polibio fa entrare i Veneti nella storia di Roma in occasione del tumultus gallicus del 390 a. C.: i Galli senoni, guidati da Brenno, avrebbero desistito dall'assedio dell'Urbe in quanto minacciati dai Veneti nelle loro sedi padane). Nel catalogo polibiano dei milites messi a
disposizione dei Romani dagli alleati alla vigilia della guerra gallica del 225-222 a. C., i Veneti compaiono con un contingente di circa 10.000 uomini. Durante la guerra annibalica (218-201 a. C.), Asconio Pediano, un veneto dell'aristocrazia di Patavium (Padova), si distinse nelle operazioni condotte da Marco Claudio Marcello sotto le mura di Nola, durante l'assedio cartaginese della città. Nella guerra sociale (dai socii, alleati; 90-88 a. C.), i Veneti rimasero a fianco dei Romani, come risulta da alcune interessanti testimonianze epigrafiche. Una doppia serie di ghiande missili, con iscrizione, rispettivamente, venetica e romana (Opitergin(orum), degli Opitergini) fu scagliata da un reparto di frombolieri (funditores) provenienti da Oderzo (Opitergium) durante l'assedio di Asculum (Ascoli Piceno). Un altro genere di proiettile, una sorta di campana di piombo con due iscrizioni venetiche, fu lanciata da un librator, probabilmente di Ateste (Este), contro qualche reparto di insorti presso Montemanicola (L'Aquila), nel territorio degli antichi Vestini. Quando Roma, dunque, diede il via al processo di espansione nella valle Padana, nell'ultimo venticinquennio del III secolo a. C., i Veneti, accomunati dalla comune politica antigallica, non ostacolorano tale avanzata, e, in seguito alla riconquista della Cisalpina dopo il passaggio di Annibale, non subirono confische o fondazioni di colonie, ad eccezione di un settore collocato ai loro confini orientali, che, dopo aver subito nel 186 a. C. un'occupazione da parte di 12.000 Galli Transalpini, ed essere divenuto ager Gallorum, fu, dopo la loro espulsione, ridotto ad ager publicus e destinato all'impianto della colonia di diritto latino di Aquileia (181 a. C.). La fondazione di Aquileia, la presenza di Marco Emilio Lepido a Padova per dirimere dei conflitti interni, i cippi confinari fra Este-Padova e tra Este-Vicenza, che documentano un concetto prettamente romano di controllo del territorio, la costruzione nel 148 a. C. della via Postumia , la grande arteria padana che metteva in collegamento Genova ad Aquileia, sancirono via via la fine dell'autonomia e dell'indipendenza dei Veneti, pur nel nome dell'amicizia con il popolo romano (come risulta ad esempio attestato dalla stele di Ostiala Gallenia, moglie veneta di un romano). La realizzazione di un'importante rete viaria facilitò la creazione di intensi rapporti fra l'Italia centrale e le regioni a nord del Po, la cui ricchezza e fertilità, ben decandate da autori antichi quali Catone e Polibio, attrassero cittadini romani e alleati latini e italici. Questa immigrazione spontanea favorì in modo lento e graduale l'acculturazione romana. Tale fenomeno procedette in modo pacifico e "indolore" tanto che pian piano i Veneti abbandonarono le loro tradizioni politiche, economiche, artistiche e religiose in favore della cultura romana. Un notevole impulso al processo di romanizzazione venne dal provvedimento attribuito a Pompeo Strabone, noto come lex Pompeia de Transpadaniis (legge Pompea sui Transpadani), con cui gli abitanti dei territori a nord del Po ricevettero lo ius Latii, ossia il diritto latino. Un ulteriore passo verso la piena romanizzazione fu compiuto fra il 49 e il 42 a. C., quando a tutto il territorio fra le Alpi e il Po fu estesa la cittadinanza romana.
b) Aspetti linguistici Anche dal punto di vista linguistico il passaggio dal venetico al latino fu lento e graduale. Un elemento che presumibilmente favorì questo trapasso fu la stretta somiglianza della lingua venetica con quella latina, che doveva suonare all'orecchio dei Veneti non del tutto estranea: il venetico infatti presenta a tutti i livelli (fonetica, morfologia, lessico) notevoli affinità con il latino (ciò ha portato a formulare l'ipotesi che in un'epoca molto antica, precedente gli stanziamenti nelle rispettive sedi storiche, i due popoli fossero insediati in aree vicine e parlassero due lingue molto simili, quasi due dialetti della stessa lingua). Sono ancora una volta i documenti epigrafici a consentirci di osservare questo passaggio dal venetico al latino: in una prima fase assistiamo all'abbandono dell'alfabeto venetico, mentre la lingua può dirsi ancora venetica. Segue l'abbandono della formula onomastica locale per l'adozione del sistema onomastico romano (prenome, gentilizio, cognome); infine vengono abbandonati gli idionimi propriamente venetici, che talvolta sopravvivono nella forma di cognome. Ad esempio, nel santuario di Lagole nel Cadore le dediche alla divinità encoria vengono gradualmente sostituite con le dediche ad Apollo. Ancora, il trapasso alla romanizzazione si può seguire da vicino negli epitaffi delle necropoli di Ateste (Este): da una fase di piena veneticità, caratterizzata da una scrittura, lingua, formulario e onomastica venetici, si passa, attraverso fasi intermedie in cui coesistono moduli dell'una e dell'altra cultura (alfabeto latino con formulario venetico; alfabeto e formulario latini con onomastica venetica), ad una fase in cui si accetta totalmente il modello portato dai Romani negli epitaffi che sono ormai latini (solamente il permanere di basi onomastiche locali tradisce il legame con la tradizione degli antichi Veneti).
I Celti
I Celti emergono dall'anonimato Le prime notizie sui Celti le desumiamo dagli antichi Greci, come risulta da alcuni frammenti di Ecateo di Mileto (frr. 21-22) e da alcuni passi delle Storie di Erodoto (II, 33, 3; IV, 49, 3). Della produzione di Ecateo di Mileto, autore vissuto nel VI secolo a. C., rimangono solo alcuni frammenti sopravvissuti in autori più tardi: nel frammento 22 Ecateo
localizza la colonia focese di Marsiglia nei pressi del paese dei Kéltoi e ricorda, nel fr. 21, una città celtica, Nurax, la cui individuazione topografica risulta tuttoggi difficoltosa e controversa. Da alcuni luoghi delle Storie di Erodoto, storico greco vissuto nel V secolo a. C., ricaviamo che l'autore è venuto a conoscenza di nuclei diversi di popolazioni celtiche, situate geograficamente in parte nella Germania meridionale (egli colloca le sorgenti dell'Istro, ossia del Danubio, nel paese dei Kéltoi e nella città di Pirene (?): IV, 49, 3) e in parte nella penisola iberica o nella francia meridionale (l'autore sostiene che i Kèltoi confinano con i Kynésioi, ossia i Cinesii o Cineti, una popolazione stanziata nell'estremo Occidente europeo, oltre le colonne d'Ercole: II, 33, 3). Tali scarne notizie, che gli antichi Greci ricavano presumibilmente dai racconti di mercanti e di viaggiatori, ci consentono di individuare alcuni stanziamenti celtici nell'Europa centrale e nell'estremo Occidente d'Europa a cavallo fra VI e V secolo a. C. Ma tali stanziamenti non corrispondono alle sedi originarie dei Celti, bensì sono il risultato di movimenti migratori che coinvolsero vaste aree d'Europa, fra cui la Germania meridionale, il Sud della Francia e la penisola iberica. Tale fase di espansione fu naturalmente preceduta da una fase di formazione di quell'ethnos che i Greci, da esterni, identificano come celtico, ethnos che ancora oggi risulta difficile distinguere e individuare nell'ambito delle varie culture protostoriche dell'Europa continentale.
IL PROBLEMA DELLE ORIGINI a) La cultura di Halstatt Se da un lato l'identificazione dei primi Celti rimane tuttoggi controversa, ad essi viene concordemente attribuita una facies archeologica, convenzionalmente chiamata halstattiana centroccidentale, che nel VI secolo a. C. contraddistinse l'area compresa fra la Francia centrale e la Boemia. La civiltà halstattiana deve la propria denominazione ad un grande sepolcreto di tombe a tumulo scoperto alla metà dell'800 ad Halstatt, nella zona alpina delle miniere di sale (odierna Austria). La cosiddetta cultura halstattiana, caratterizzata da affinità culturali, forse anche linguistiche ed etniche, non deve essere confusa con una unità di ordine politico: i Celti non conobbero un'unità politica in nessuna fase della loro storia. Risultano piuttosto attestati diversi clans guidati da una ristretta aristocrazia (principi e principesse), di cui si sono conservate le ricche tombe a tumulo e in qualche caso le residenze dotate di fortificazione. Nel 1872 l'archeologo svedese Hans Hildebrand propose di suddividere l'età del Ferro in due periodi: se alla fase più antica attribuì il nome di Halstatt, dalla ricca necropoli austriaca, a quella più recente diede il nome di La Tène, dal nome di una località dell'odierna Svizzera, situata presso l'uscita della Thielle (in tedesco Zihl) dal lago di Neuchâtel, dove si rinvennero numerosi oggetti pertinenti ad una cultura attribuita ai Celti.
b) La cultura di La Tène (o lateniana) Tra il crinale alpino e il limite meridionale delle pianure del Nord si sviluppò, nel V secolo a. C., una cultura archeologica detta di La Tène, o lateniana. Nelle acque del lago di Neuchâtel furono rinvenuti, a partire dalla metà dell'800, numerosi materiali (armi, oggetti d'ornamento, utensili, monete) riconosciuti come caratteristici di una cultura dell'età del Ferro, inquadrabile cronologicamente dal V al I secolo a. C., fino alla dominazione romana o germanica. Nell'ambito del V Congresso di Archeologia e Antropologia Preistoriche tenutosi a Bologna nel 1871, al quale parteciparono numerosi studiosi transalpini, fra cui il francese Gabriel de Mortillet (scavatore delle tombe della Champagne) e lo svizzero Emil Dresor (direttore delle prospezioni nelle acque del sito di La Tène), venne riconosciuta la stretta somiglianza fra le armi (le spade con le catene di sospensione) e i corredi (fibule e bracciali) rinvenuti in alcuni nuclei sepolcrali emersi negli scavi del sito etrusco di Marzabotto (Bologna) e quelli che provenivano da contesti d'oltralpe, qualificati poco dopo come lateniani, ben conosciuti agli archeologi. I materiali lateniani divennero così una sorta di spia della presenza dei Celti in Italia, quei Celti "storici" che, secondo alcuni autori antichi, avrebbero invaso l'Italia agli inizi del IV secolo a. C. L'equazione Celti = cultura lateniana, con il procedere delle ricerche archeologiche e degli studi, si rivelò ben presto inadeguata: i Celti non potevano essersi costituiti come etnia soltanto nella prima metà del V secolo a. C. Il problema delle origini non poteva nemmeno venir risolto facendo riferimento all'antecedente culturale immediato, quello della cultura halstattiana, la quale, nelle sue numerose varianti, deriva dalle manifestazioni locali dell'età del Bronzo. Per quanto riguarda le migrazioni celtiche in Italia, un altro aspetto del problema è quello connesso all'analisi delle iscrizioni del Piemonte e della Lombardia, qualificate come lepontiche: i testi, datati a partire dal VI secolo a. C., risultano redatti in caratteri presi a prestito dagli Etruschi ma in lingua celtica. Tali iscrizioni testimoniano la presenza di gruppi celtici di cultura diversa rispetto a quelli halstattiani, che pertanto si trovano a non essere gli unici rappresantanti, nel VI secolo, delle antiche etnie celtofone. Per quanto concerne la celtizzazione dell'Europa, allo stato attuale della ricerca si può affermare che il fenomeno si realizzasse ben prima dell'ingresso dei Celti nella storia e della nascita della cultura di La Tène. In relazione alla nostra penisola, siamo in grado di sostenere che i Celti cosiddetti storici, ossia i portatori della cultura lateniana, costituirono presumibilmente il gruppo di invasori più cospicuo, che si inserì però in un contesto di movimenti migratori sia precedenti che successivi.
c) La cultura di Golasecca Poco dopo la metà dell'800 si rinvenne un importante complesso di tombe ad incinerazione lungo le rive del Ticino, al suo sbocco nel lago Maggiore. Tali tombe erano ubicate nei pressi di Castelletto Ticino, sulla sponda piemontese, Sesto Calende e Golasecca, sulla riva lombarda. Uno di questi centri principali, quello di Golasecca, diede il nome ad una cultura che si sviluppò nella prima età del Ferro (IX-V secolo a. C.) in area, appunto, lombarda e piemontese (area che comprende i laghi subalpini di Orta-Verbano-Lario, tutto il bacino del Ticino, la pianura fra Sesia, ad ovest, Serio-Adda, ad est, e il Po a sud). Dal comprensorio Sesto Calende-Golasecca-Castelletto Ticino e i dintorni di Como provengono delle iscrizioni in alfabeto etrusco, definito convenzionalmente di Lugano o lepontico, due delle quali hanno consentito l'analisi della lingua. La prima conserva per intero un nome proprio in genitivo, graffito su un bicchiere deposto in una tomba maschile di Castelletto Ticino, databile alla metà del VI secolo a. C. La seconda, proveniente da Prestino (Como) e inquadrabile cronologicamente fra la fine del VI e la prima metà del V secolo a. C., è un'iscrizione incisa su un blocco di arenaria lungo quattro metri, la cui funzione rimane controversa (architrave, gradino ?): si tratta della dedica di un personaggio con una formula onomastica bimembre, il cui oggetto e destinatario rimangono oscuri. Gli studiosi di linguistica hanno dimostrato che la lingua di queste due iscrizioni è sicuramente celtica, ossia appartenente al ceppo delle lingue celtiche. Tale riconoscimento è di rilevante importanza, in quanto presuppone la presenza, nell'ambito della società golasecchiana di VI-V secolo a. C., di una componente celtica in grado di leggere e di comprendere il significato di quei testi.
I Celti in Italia Nonostante i Celti fossero presenti, seppur in modo parziale, nella società golasecchiana, e quindi nel tessuto etnico dell'area occidentale dell'Italia settentrionale, attorno al VI secolo a. C., essi irruppero in modo assai più consistente nella penisola a partire dal IV secolo a. C.. Tale irruzione si realizzò sostanzialmente attraverso due canali: quello più massiccio dell'invasione, che comportò lo stanziamento di alcune centinaia di migliaia di individui nella valle Padana e lungo la riva dell'Adriatico fino ad Ancona (sostituendosi al controllo del territorio agli Etruschi e agli Umbri), e quello secondario del mercenariato, ossia del mettersi a servizio, a pagamento, delle potenze che in quel momento miravano all'egemonia nel Mediterraneo (i Cartaginesi e i Greci di Sicilia). Secondo la tradizione tramandata da alcune fonti letterarie, Tito Livio (V, 33, 2-4) e Plinio (N. H., 12, 5), i Celti avrebbero abbandonato le sedi europee e avrebbero invaso le aree più settentrionali della penisola perché attratti inesorabilmente dal vino e dalla frutta, soprattutto dei fichi, di cui erano particolarmente ghiotti. Nella fattispecie Tito Livio, nel raccontare l'assedio posto dai Celti alla città etrusca di Chiusi nel 391 a. C., preludio al sacco di Roma del 390 a. C., individua la causa scatenante l'arrivo dei Celti in Italia in una tresca amorosa fra un lucumone etrusco, di nobili origini, e la moglie di un certo Arrunte, cittadino di Chiusi. Secondo la versione liviana dei fatti Arrunte, bramoso di vendetta e consapevole di non potere avere la meglio su un rivale tanto più potente di lui, si sarebbe recato oltralpe e, diffondendo in Gallia il vino, avrebbe convinto i Galli ad invadere l'Italia e a stringere d'assedio Chiusi. La leggenda tramandata dallo storico patavino può celare un sostrato di informazioni autentiche, ossia il ricordo di contatti e di relazioni commerciali fra il mondo etrusco e la realtà transalpina, in cui forse il vino giocò un ruolo non certo secondario. A partire dal VI secolo a. C., a ondate successive, i Celti, da aree differenti del continente europeo (Francia nordorientale, Boemia, regione danubiana), invasero l'Italia. Nella memoria scolastica, la presenza celtica in Italia si connette al sacco di Roma del 390 a. C.: Brenno alla testa di truppe galliche irruppe nella città di Roma, la saccheggiò e la occupò per alcuni mesi, sottoponendo ad una cocente umiliazione i Romani (Liv. V, 48, 8).
Cronologia dell'invasione celtica dell'Italia Il problema è dibattuto, in quanto divergenti sono le testimonianze degli storici antichi. Tito Livio, storico romano vissuto nel I secolo a. C., sostiene che i Celti sarebbero arrivati in Italia a partire dal VI secolo a. C. Lo storico patavino per ben tre volte ribadisce tale cronologia: quando la connette al regno di Tarquinio Prisco (616-578 a. C.); quando la collega alla fondazione di Marsiglia (600); quando precisa che i primi Galli sarebbero scesi in Italia duecento anni prima del sacco del 390 a. C. Diversamente Dionigi di Alicarnasso e Appiano riferiscono la conquista di Roma del 390 a. C. ai primi Celti venuti in Italia. Più vaghi risultano altri due autori greci, Polibio e Plutarco, che non danno indicazioni cronologiche precise: Polibio sostiene che "dopo qualche tempo" dal loro arrivo in Italia i Galli si sarebbero impadroniti di Roma; Plutarco ("Vita di Camillo") afferma che avrebbero invaso la penisola "molto tempo prima" dell'attacco di Brenno. Sulla base di queste divergenze hanno preso le mosse due cronologie sulla calata dei Celti in Italia: la cronologia "lunga" liviana (a partire dal VI secolo) e quella "corta" degli storici di lingua greca (a partire dagli
inizi del IV secolo). La fortuna avuta dalla cronologia corta, nella storia degli studi, seppur con autorevoli voci di dissenso, deve sostanzialmente essere imputata alle vicende che condussero al primo riconoscimento archeologico dei Celti in Italia, avvenuto nel V Congresso di Archeologia e di Antropologia Preistoriche, tenutosi a Bologna nel 1871. Come ho precedentemente sostenuto, i materiali lateniani divennero una sorta di spia della presenza celtica in Italia: sporadici durante il V e buona parte del IV secolo a. C., diventano più cospicui a partire dalla fine del IV secolo a. C. Pertanto, l'equazione Celti = cultura La Tène; lo sbaglio di Livio che, unico, anticipa di due secoli l'arrivo dei Celti in Italia; l'assenza di materiale archeologico "celtico" riferibile al VI secolo favorirono l'accettazione della cosiddetta cronologia corta: le invasioni celtiche in Italia dovevano ascriversi alla forcella cronologica compresa fra la fine del V e gli inizi del IV secolo a. C. Al contrario, attualmente si assiste ad una parziale inversione di tendenza: nuovi risultati emersi dalle indagini archeologiche e nuovi studi sembrano confermare la versione liviana dei fatti e hanno, dunque, riportato alla ribalta la cosiddetta cronologia lunga. Infiltrazioni di tribù o confederazioni di tribù sembrano avvenire a partire dal VI secolo, e sono destinate a protrarsi ancora per secoli. I Celti che introducono in Italia la cultura lateniana (V-IV secolo a. C.) costituiscono senza dubbio il gruppo più cospicuo, ma non sono certamente né i primi né gli ultimi ad invadere la penisola.
La presa di Roma e il metus Gallicus La presa di Roma da parte delle truppe senoni guidate da Brenno rimane come uno degli episodi più traumatici della storia millenaria di Roma, tanto da rimanere registrata negli annali con il nome di clades Gallica, ossia catastrofe gallica. Ne danno testimonianza Polibio (II, 18, 2), Livio (V, 35-55), Diodoro Siculo (XIV, 113-117) e Plutarco (Camillo, 15, 32). Il tentativo romano di fermare i Galli a sole undici miglia da Roma, presso la confluenza nel Tevere del fiume Allia (da identificare con il Fosso della Bettina o della Regina - il Fosso Maestro o della Marcigliana), un corso d'acqua situato al 18 Km della via Salaria, si risolse in una tragica sconfitta delle truppe romane. Il giorno della bruciante umiliazione, il dies Alliensis (18 luglio), divenne sinonimo di sciagura e fu registrato nei calendari imperiali come dies nefastus. Dopo la vittoria, i Galli saccheggiarono Roma e occuparono la città per alcuni mesi. Infine stremati dalla carestia e dalle epidemie, Galli e Romani strinsero un accordo: i Romani si impegnarono al pagamento di un riscatto di mille libbre d'oro per la liberazione della città, l'aurum Gallicum, che però, secondo la tradizione, venne recuperato quando Marco Furio Camillo sconfisse i nemici e li cacciò dall'Urbe. Dal punto di vista politico e militare, l'assalto dei Galli si inquadra in un più ampio contesto, che vede impegnati da un lato i Greci di Siracusa, che approfittando dell'indebolimento etrusco a sud avevano intrapreso una politica di espansione nell'Adriatico, e dall'altro gli Etruschi. Sul piano ideologico, la conseguenza immediata dell'increscioso sacco della città fu la demonizzazione dei Celti, che da allora vengono dipinti dalle fonti antiche come mortali nemici, selvaggi sanguinari da annientare. Illuminante al riguardo è la testimonianza di Diodoro Siculo (V, 26, 31): "... essi hanno corpi immani, carne soda e bianca, ed una capigliatura rossiccia, il cui colore è aumentato ad arte, poiché la sogliono lavare con lisciva di calce e poi ritorcela dalla fronte alla sommità del capo e di là alla nuca. Somigliano così a Pan o a dei satiri, con capelli spessi come criniere di cavallo... Lasciano crescere i baffi, così da nascondere la bocca, sicché, quando mangiano, il cibo si trattiene nei peli e quando bevono pare che il liquido scoli da un colatoio... Disprezzano a tal punto la morte che molti combattono nudi.... Appendono ai colli dei cavalli le teste mozze dei nemici e mentre i servi ne prendono le spoglie insanguinate, innalzano il loro grido di vittoria. Tengono quelle spoglie come trofei di caccia, negli ingressi delle loro abitazioni e le teste in casse di legno di cedro unte con grasso per mostrarle agli ospiti... Le loro trombe barbariche emanano un muggito orribile, terrorizzante... Portano lunghe spade, aste... e giavellotti con rilievi in modo da dilaniare e slabbrare le ferite. Terribili d'aspetto emettono suoni gravi e orridi ma parlano breve ed oscuro con involuzioni e doppi sensi.... Usano un rito straordinario e incredibile per trarre auspici su cose importanti: trapassano con la spada il corpo di un uomo destinato al sacrificio e da come cade, dalle convulsioni delle membra, dal fiotto di sangue, presagiscono l'avvenire. Ubbidiscono anche in guerra ai filosofi e ai poeti che, entrando tra le schiere dei combattenti, dirimono i conflitti, come se placassero delle belve con incantesimi." (tr. it. di V. Kruta, V. M. Manfredi, I Celti in Italia, 1999, p. 64). In seguito all'abbandono di Roma, i Galli, secondo Polibio, ripiegarono verso le sedi padane minacciate dai Veneti, mentre Diodoro Siculo e Giustino fanno ritenere che proseguissero verso sud, per mettersi al servizio di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa.
Storiografia antica e moderna Anche gli studiosi moderni, fino a pochi anni fa, ritenevano, sulla scia degli autori antichi, che l'arrivo dei Galli in Italia si fosse realizzato come una sorta di invasione selvaggia e violenta, in grado di annientare le culture preesistenti per imporre la propria. Allo stato attuale della ricerca non ci sono evidenze archeologiche in val Padana tali da giustificare
l'ipotesi di uno scontro frontale e generalizzato fra Etruschi e Celti. Al contrario, a partire dal IV secolo a. C. risulta evidente, dai contesti sepolcrali, una certa commistione dei riti funerari e dei corredi che induce ad ipotizzare una notevole integrazione. In alcune necropoli dell'Emilia, di Bologna e di Monte Bibele sembra agli archeologi di poter riconoscere sepolture miste fra capi galli e spose etrusche. Di ben altra natura pare siano state le relazioni con i Veneti. Gli autori antichi raccontano non solo di una certa resistenza dell'ethnos veneto, ma anche di una lotta armata contro i Celti. Nella fattispecie, in relazione al tumultus gallico del 390 a. C., Polibio ci tramanda che le truppe di Brenno si ritirarono da Roma a causa di un attacco dei Veneti nei loro territori settentrionali. Fu presumibilmente nell'ambito di questa contrapposizione fra Celti e Veneti che si cementò la ben nota alleanza fra Romani e Veneti, in chiara funzione anticeltica. Non a caso nella guerra Gallica del 225 a. C., truppe venete andarono a rimpinguare l'esercito romano.
Il panorama archeologico Il panorama dell'archeologia celtica in Italia è complessivamente scarno, non solo per quanto concerne il VI -V secolo a. C., ma anche per quanto riguarda il IV-I secolo a. C. Tale stato di cose si può presumibilmente imputare alle modalità delle invasioni; gli individui che compongono le tribù, più o meno consistenti, si muovono rapidamente per la penisola, saccheggiano, rapinano o si offrono come mercenari al migliore offerente, ma non occupano stabilmente un territorio secondo gli schemi e i modelli delle cosiddette società civili: non bonificano, non fondano città, non costruiscono strade, non impongono la propria cultura agli indigeni, e quindi difficilmente lasciano tracce, archeologicamente verificabili, del loro passaggio. Per citare un esempio, gli Insubri, a detta di Polibio la più grande tribù celtica, sono quasi inesistenti sotto il profilo archeologico: di essi rimangono esclusivamente dei contesti sepolcrali databili fra la fine del II e gli inizi del I secolo a. C., ossia in piena fase di romanizzazione, quando le tradizioni culturali celtiche iniziano a scomparire, occultate dall'acculturazione romana. Un altro aspetto da tener presente, circa l'esiguità dei rinvenimenti archeologici 'celtici', è la posizione di subalternità culturale dei Celti nei confronti delle popolazioni italiche. L'adozione, ad esempio, di tradizioni funerarie caratteristiche delle più evolute culture mediterranee (si comprendono in questo termine la cultura etrusco-italica, greca e magnogreca) sembra adirittura cancellare, in alcuni casi, le cosiddette tradizioni culturali nazionali dei Celti, rendendone gravoso il riconoscimento. Per concludere, le testimonianze archeologiche relative ai Celti in Italia si riferiscono quasi esclusivamente a contesti funerari o a tombe isolate, con alcune eccezioni, quale la recente si coperta dell'abitato etrusco-celtico di Monte Bibele, insediamento d'altura ubicato sull'appennino bolognese, illuminante per chiarire le modalità di inserimento dell'elemento celtico in una realtà insediativa padana (Monte Bibele è un castellum fondato dagli Etruschi quando essi si ritirarono sulle alture in seguito all'occupazione celtica della pianura emiliana).
Il torques Il torques, la collana rigida spesso a estremità espanse, è senza dubbio il gioiello più tipico della civiltà dei Celti. Questo oggetto di ornamento viene ricordato sia dalle fonti antiche che dalle testimonianze archeologiche. Va tuttavia segnalato che fra le fonti letterarie e le fonti archeologiche c'è un'incongruenza che non ha ancora trovato una valida spiegazione. Mentre gli autori antichi ricordano i torques come oggetti d'ornamento tipici dei guerrieri celtici, che li indossano al collo durante le battaglie (nei bottini di guerra romani compaiono spesso quantità consistenti di torques strappati al nemico), essi vengono rinvenuti di norma nei corredi tombali femminili. Come mai il torques, che si ritrova al collo dei guerrieri anche in numerose statue e rilievi (ad es. nel fregio di Civitalba, località vicina al Sentino, in cui nel 295 a. C. si svolse la battaglia decisiva dei Romani contro la coalzione di Sanniti-Umbri-Etruschi-Galli Senoni), non viene indossato dai guerrieri anche nella tomba? Al di là delle possibili congetture, non rimane che constatare il divario fra l'utilizzo pratico dell'oggetto (maschile) e la destinazione funeraria (femminile).
Le popolazioni celtiche della penisola e l'intervento romano In relazione all'etnografia della Cisalpina, la componente più numerosa era quella gallica sia a nord che a sud del fiume Padus (Po): all'interno di essa le tribù dominanti erano quelle cispadane dei Boi (dal Taro al Montone) e dei Senoni (dal Marecchia all'Esino e anche oltre), e quelle transpadane degli Insubri e dei Cenomani.
a) I Senoni
Recentissimi advenarum, ossia gli ultimi arrivati nella penisola italiana, i Senoni, secondo le indicazioni di Tito Livio, occuparono il territorio compreso fra i fiumi Utens (Montone) e Aesis (Esino), area corrispondente all'attuale Romagna e alle Marche settentrionali. Dalle evidenze archeologiche pare che l'occupazione senone si sia concentrata in area marchigiana, mentre rimane tuttoggi problematica la definizione di una facies archeologica attribuibile ai Senoni in area romagnola. L'arrivo degli invasori non determinò la scomparsa delle comunità indigene preesistenti, ossia quelle picene, che sembrano convivere con i centri senoni fino alla metà del III secolo a. C. (come emerge dalle necropoli di Camerano e Numana). Nell'ambito del IV secolo a. C. i Senoni risultano bene integrati nello scacchiere politico-militare della penisola, ma pare sia più corretto interpretare le alleanze che tale tribù stipula con piccole e grandi potenze non come accordi finalizzati alla realizzazione di una politica unitaria, piuttosto come dei contratti per la fornitura di contingenti militari di natura mercenaria. L'attività del mercenariato, garantito soprattutto al tiranno di Siracusa Dionigi I, che proprio nel IV secolo, periodo di arrivo dei Senoni nelle Marche, si espande nell'alto Adriatico (ad es. la fondazione della colonia di Ancona), garantì una notevole ricchezza dei gruppi senoni, la cui connotazione militare risulta evidente dall'analisi dei corredi funebri maschili, contraddistinti quasi sempre dalla presenza delle armi. Una delle tappe fondamentali dell'avanzata romana verso il Nord fu proprio la campagna del 285-283 a. C. contro i Galli Senoni, capeggiata da Manio Curio Dentato. In ambito gallico, dal punto di vista etnico, accanto alle tribù predominanti dei Senoni e dei Boi, rinveniamo anche le genti degli Anari, nella zona di Piacenza, e dei Lingoni, nella Romagna. Studi recenti hanno messo in evidenza come tra tutti questi gruppi gallici ci fossero delle ostilità, delle tensioni e dei dislivelli culturali, che non consentirono una reale fusione e una seria unità d'azione contro i Romani. Fu così che, proprio per quest'assenza di collegamenti fra i Senoni e i Boi, le operazioni militari del 285-283 a. C. ebbero esito positivo per i Romani e portarono alla riduzione del territorio senone ad ager publicus. L'acquisizione dell'ager Gallicus, al più tardi nel 283 a. C. pose le basi per un'occupazione del territorio e un programma di colonizzazione realizzati in momenti diversi e con differenti modalità. Il denominatore comune di questa politica di predominio fu che i Romani la realizzarono in modo assai immediato e diretto, procedendo a stermini, deportazioni di massa, confische e distribuzioni viritane e coloniarie dei territori conquistati. Secondo Polibio, dopo la vittoria di Manio Curio Dentato, i Romani uccisero la maggior parte dei Senoni, e cacciarono i rimanenti. Le recenti indagini archeologiche ed epigrafiche hanno ridimensionato queste notizie, attestando, per ciò che riguarda la componente senone, una qualche sopravvivenza di tale tribù durante il processo di romanizzazione, se pur in contesti marginali. La prima colonia che i Romani dedussero in Gallia Cisalpina fu Sena Gallica (odierna Senigallia; 289 o 283 a. C.), che rimase per tutto il III secolo a. C. l'unica fondazione di diritto romano dell'Adriatico. Il reale passo in avanti, nel processo di consolidamento delle posizioni romane in Cisalpina, fu però la deduzione della colonia latina di Ariminum (odierna Rimini) nel 268 a. C., impiantata all'estremità settentrionale dell'ager Gallicus, presso la foce del fiume Ariminus (odierno Marecchia), da cui ricavò il nome.
b) I Boi Dagli autori antichi ricaviamo che la confederazione dei Boi, che contava centododici tribù, fu una delle più potenti confederazioni celtiche calate nella penisola. Dalle regioni dell'Europa centrale, presumibilmente dalla Boemia e dalla Baviera, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a. C., i Boi invasero l'Italia settentrionale, e oltrepassato il Po con le zattere, occuparono la pianura emiliana, cacciando Etruschi e Umbri. Probabilmente non furono gli unici Celti ad oltrepassare il fiume Po, ma solamente di essi è rimasta una traccia archeologica. Risulta complesso definire con precisione quali fossero i limiti del territorio occupato, che comprendeva sicuramente l'area circostante Bologna fino a Modena ad ovest e parte della Romagna ad est. Ad un primo periodo conflittuale con l'ethnos etrusco (Felsina (Bologna), definita da Plinio princeps Etruriae, decade; Marzabotto viene abbandonata) subentra una fase di integrazione e convivenza. Sembra, come risulta dalle evidenze archeologiche, che Celti ed Etruschi coabitarono pacificamente nei centri urbani esistenti: a Bologna e a Monte Bibele, abitato d'altura etrusco-celtico, sono emerse sepolture miste fra capi galli e spose etrusche. Pertanto l'affermazione degli autori antichi secondo cui gli Etruschi sarebbero stati cacciati dall'irruzione gallica va ridimensionata: a Monte Bibele convissero guerrieri celtici e mercanti etruschi.
c) I Cenomani Secondo le affermazioni di Tito Livio, i Cenomani si insediarono nell'area dove poi sorsero le città di Brescia e di Verona. Le evidenze archeologiche pertinenti alla tribù dei Cenomani si concentrano infatti nelle regioni pianeggianti a mezzogiorno delle suddette città, tra i fiumi Oglio e Adige. A differenza delle altre tribù celtiche i Cenomani mantenerro un buon rapporto con i Romani, e nelle guerre di III-II secolo a C. scelsero quasi sempre di stare dalla loro parte.
d) Gli Insubri Definiti da Polibio la più importante tribù celtica della penisola, gli Insubri, secondo la versione liviana dei fatti, sarebbero stati i primi Celti ad invadere la cisalpina, agli inizi del VI secolo a. C. Avrebbero occupato il territorio corrispondente all'odierna Lombardia centroccidentale, il cui unico confine sicuro sembra essere quello meridionale,
ossia il fiume Po: il territorio degli Insubri si distingue dagli altri territori insediati dai Celti, in quanto rivela la presenza di una capitale, Mediolanum, centro politico-religioso di una certa rilevanza per la confederazione insubre. La marcia di Annibale attraverso l'Italia settentrionale, agli esordi della seconda guerra punica, riuscì ad annullare gli effetti della conquista romana in Cisalpina, realizzata con la guerra del 225-222 a. C.: i Galli Boi e gli Insubri, sconfitti, appunto, da poco, insorsero, mentre i Galli Cenomani, in un primo tempo, rimasero fedeli a Roma. Alla fine del conflitto annibalico, le pianure dell'Italia settentrionale vennero riprese secondo le linee precedenti. Nel 197 a. C., per primi si arresero i Cenomani che, qualche anno prima, senza troppa convinzione, avevano tradito la ventennale alleanza con i Romani. Seguirono nel 196 a. C. gli Insubri e, solamente nel 191 a. C. fecero atto di deditio (resa incondizionata) i Boi. Per quanto concerne gli esiti della riconquista, a mezzogiorno del fiume Po i Boi sopravvissuti, relegati nelle zone più ingrate del loro territorio, continuarono a vivere precariamente, mentre nelle ampie distese di terreno confiscato ai vinti e divenuto ager publicus vennero dedotte nel 189 a. C. la colonia di diritto latino di Bononia (Bologna), e nel 183 a. C. le colonie di diritto romano di Mutina (Modena) e Parma. Diversamente, nelle regioni poste a settentrione del fiume Po le confische furono più circoscritte e nei territori sottratti agli Insubri e ai Cenomani non vennero dedotte colonie.
La testimonianza di Polibio Nel secondo libro delle Storie, Polibio, politico greco in domicilio coatto a Roma, nell'ambito della narrazione degli eventi che portarono alla guerra che i Romani combatterono contro i Galli pochi anni prima dell'arrivo di Annibale in Italia, dedica un ampio spazio alla geografia e all'etnografia della pianura Padana, regione che ebbe modo di visitare personalmente nel II secolo a. C. (Pol. II, 15, 17). Polibio rimase particolarmente colpito dalla ricchezza naturale della Cisalpina (l'abbondanza delle ghiande consente un importante allevamento di maiali: "la grande quantità di suini macellati in Italia per i bisogni dell'alimentazione privata e degli eserciti si ricava tutta dalla pianura padana"), dalla sua notevole fertilità ("ricchissima è in quelle regioni la produzione di panico e di miglio) e dal basso costo dei suoi prodotti alimentari, di cui riporta anche i prezzi. Preziose sono le informazioni che Polibio ci fornisce sugli usi, costumi e abitudini dei suoi abitanti, descritti come li poteva descrivere lui, uomo greco, colto, raffinato, membro dell'esclusivo circolo degli Scipioni, abituato alla cultura mediterranea: "tutti i Celti abitavano in villaggi non fortificati e privi di ogni mezzo di vita civile: dormivano su miseri giagigli, si nutrivano di carni e, non esercitando che la guerra e l'agricoltura, conducevano una vita molto semplice, del tutto ignari di ogni scienza e di ogni arte. Unica sostanza di ciascuno erano il bestiame e l'oro, i soli beni che facilmente si potessero, a seconda delle circostanze, trasportare dovunque e muovere a proprio piacimento. Davano grande importanza al fatto di avere un seguito di clienti, perché presso di loro era più temibile e potente chi avesse una corte possibilmente molto numerosa di seguaci che andassero intorno con lui" (trad. it. di Carla Schick, Polibio. Storie, I, Milano, 1955).