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sabato 19 dicembre 2015
la nuova Napoli è uno scugnizzo liberato GIANNI VALENTINO
n Soldi, spazi e contenuti. Un indovinello in replay, a Napoli. La città non può spendere i denari di una volta –sono finiti – ma i cittadini esigono agorà sociali e culturali dove esprimersi. E se la politica è lumaca, ci pensano le persone a capovolgere l’equazione: autori dell’impresa sono collettivi autonomi o di artisti, che dettano nuove regole per vivere la città. E poco importa che i mecenati siano latitanti. Del resto, il Forum universale delle Culture, evento triennale promosso dalla omonima Fundació di Barcellona in diverse città del mondo e chiuso a dicembre 2014, non ha dato i risultati attesi (il budget superava di poco i 10 milioni di euro). E per il Grande Progetto Unesco, in cui molti speravano e sperano – sono 100 milioni di fondi europei destinati tra l’altro al restauro o alla riqualificazione di diversi monumenti, dalla chiesa dei Girolamini all’Ospedale Incurabili, dal Tempiodella Scorziata al Teatro di Neapolis – è troppo presto per
Rinascimento | Dalla danza al cinema, alle installazioni itineranti. La città risorge a partire dai suoi luoghi feriti. Grazie all’arte. E all’impegno dei cittadini, stanchi di aspettare le istituzioni
Nell’ex asilo Filangieri nascono reading, concerti e performance. In pacifica convivenza con i residenti
tirare un bilancio. Insomma, chi non vuole rincorrere gli eurofinanziamenti per produrre contenuti, oggi s’industria in soluzioni alternative e si trova a disposizione una mappa che porta a galla continue sorprese: giardini, palazzi, cave, chiostri. Associazioni e collettivi si lanciano in questo avventuroso compito creando esperienze dal basso. O, quantomeno, scambiando relazioni, conoscenza, umanità. In un territorio che i turisti premiano stagione dopo stagione –Trivago pone il capoluogo campano al terzo posto delle città italiane più ambite (nel 2011 era al nono) e il ponte dell’Immacolata ha segnato un’occupazione delle strutture ricettive al 95 %, per non parlare dei numeri registrati dalla recente Notte d’arte,con concertiemuseiaperti finoanotte – ecco brillare miriadi di operazioni culturali e sociali. Come lo Scugnizzo Liberato, l’ex Asilo Filangieri, la maratona delle Sette stagioni dello spirito. Tra i quartieri Montesanto e Avvocata, nell’ex carcere minorile Filangieri (erail conventoseicentesco delleMonache Cappuccinelle, in Salita Pontecorvo 44) poi casa-famiglia negli anni ’70, che Eduardo De Filippo individuò quale rifugio per educare e difendere i ragazzini dalla minacciadella vita brada(è intatto il teatro con la targa dedicata all’attore e drammaturgo morto nell’ottobre 1984) da alcuni mesi è nato lo Scugnizzo liberato, grazie all’intervento degli attivisti della rete Scaccomatto. Hanno riaperto il portone antico; ripulito cortile, scalinate, stanze e terrazzi (gran parte degli arredi era stata saccheggiata) e adesso offrono la struttura a famiglie del territorio e artisti. Proiezioni per il cineforum – manco a dirlo, tra i titoli c’è Sciusciàdi De Sica –doposcuola, consulenza prelegale agli immigrati, caf per i lavo-
DAVIDE MONTELEONE
DISLIVELLI A Napoli, come la vede in questo scatto il fotografo Davide Monteleone, non c’è il mare e neanche il Vesuvio. Solo una distesa sconfinata di tetti digradanti. In primo piano, la Certosa di San Martino, uno dei più grandi complessi monumentali della città situata sulla collina del Vomero
ratori e sala prove per quattro compagnie teatrali. In più, accoglienza al progetto pedagogico Arrevuoto, nato in seno allo Stabile Mercadante che per questa edizione svilupperà L’ispettore generale di Nikolaj Gogol. Sedicimila metri quadri distribuiti su quattro piani, doppio spettacolare terrazzo che affaccia su Castel Sant’Elmo dal quale si scorge l’intero corpo di Napoli – qui Zilda, neo-star della street-art mondiale, ha lasciato in eredità due dipinti: Tu eri l’ineffabileeL’angelo riabilitato–recuperati per i cittadini. Più la palestra, con danzatori di capoeira a far da maestri ai più piccoli. «C’è ancora da fare», dice Leandro Sgueglia, uno degli attivisti che si occupano dello spazio. «La nostra intenzione è quella di far decidere le sorti del luogo, attraverso assemblee pubbliche, a chi davvero vive il territorio, trasformandolo nella grande piazza che manca al quartiere e organizzando attività sociali e culturali. Oggi l’immobile è di proprietà del Demanio statale ma è in transizione verso il patrimonio del Comune di Napoli. Tra le urgenze, è in fase
di completamento l’archivio sull’ex carcere che fungerà da osservatorio sulle condizioni odierne dei detenuti. E molto presto saranno pronte le stanze di disegno pedagogico per i bambini». Com’è avvenuto già all’Angelo Mai e al Nuovo Cinema Palazzo a Roma, al Macao di Milano e al Teatro Garibaldi Aperto a Palermo, pure a Napoli esiste, e vive, una struttura abbandonata dal sistema ufficiale e occupata da chi sperimenta nel cinema, nella danza, nella musicae nelteatro. Èl’ex AsiloFilangieri – da non confondere, nonostante l’omonimia, con il precedente – in vico Maffei. Tutt’intorno, erompono le voci degli artigiani di presepi di San Gregorio Armeno, l’odore di babà e bollenti pizze a portafoglio. All’interno dell’edificio, che si sviluppa su tre piani, recitano attori, nascono reading, concerti e performance che finalmente hanno trovato una dimora stabile (ogni rappresentazione termina entro mezzanotte, in unregime di pacifica convivenzacon i residenti dirimpetto). Concessa dal Comune che attraverso un disciplinare
d’uso ne regolamenta le attività (nonostante le polemiche tra consiglieri di opposti schieramenti, le spese per i sei custodi,le puliziee ilconsumo elettricosono a carico dell’amministrazione cittadina), la struttura ha nel tempo ospitato lo scultore/regista belga Jan Fabre e l’artista del suono Bob Ostertag, e qui hanno avuto la loro genesi alcune esperienze teatrali con Enzo Moscato e Davide Iodice. Più metafisica, è l’avventura delle Sette stagioni dello spirito, ispirata al libro Il castello interiore di Teresa d’Ávila, ideata dall’artista e ricercatore ambientale Gian Maria Tosatti con la curatela di Eugenio Viola, che si sviluppa in una serie di installazioniin residenze monumentali: civili o industriali.Tra la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, l’ex Anagrafe comunale, i Magazzini generali della Stazione marittima, l’ex Ospedale militare e la chiesa di Santa Maria della Fede (pure questa occupata di recente da attivisti), in movimento costante tra un quartiere e l’altro – epilogo a marzo 2016 – la sperimentazione del giovane
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romano porta in dono racconti d’infanzia, catapulte di esistenze borderline e isolamento emotivo, con il merito di aver rigenerato, in due anni e mezzo di interventi, immobili da tempo caduti in oblio. «Il mio progetto è una riflessione sul ruolo dell’artista nellasocietà»,spiega Tosatti. «Ho vagato in città fino a rintracciare sette ferite dei suoi quartieri perché ritengo che l’arte possa esprimere le potenzialità di aree dimenticate. Mi sono lasciato ispirare da Camus e da Malaparte, e con il sostegno del gallerista Peppe Morra affronto di volta in volta un esperimento, che coinvolge addetti ai lavori, fasce colte e bambini che mai si avvicinerebbero all’arte. E che talvolta nemmeno frequentano la scuola. Ho sempre pensato che la vera opera sia la performance/reazione del visitatore». A lungo Napoli è stata l’oasi creativa di grandi nomi, da Joseph Beuys a Andy Warhol, a Lucio Amelio. Ha speso milioni –in lire e in euro –per le installazioni natalizie in piazza Plebiscito di artisti di fama mondiale – dalla Montagna di salediMimmo Paladino(1995)alTaratantara di Anish Kapoor (2000) agli Spiriti di madreperla di Rebecca Horn (2002) –senza forse mai davvero annullare la distanza tra le élite dedite all’arte e le persone comuni. Oggi il museo d’arte contemporanea Madre, che insegue un nuovo regimedi produzioni, acquisizioni e mostre della propria collezione, prova a ristabilire un contatto eterogeneo tra cittadini e artisti. E le gallerie? Negli anni ’70, quella di Amelio calamitò nel quartiere Chiaia il talento di Cy Twombly, Robert Rauschenberg, Keith Haring. E ancora Amelio fu l’ideatore della collettiva Terrae Motus in seguito al disastroso sisma del novembre 1980. Commenta Peppe Morra, altro gallerista storico, che alcuni anni fa ha anche creato il Museo Nitsch: «Sono d’accordo su un rapporto partecipato nella gestione degli spazi e approvo eventuali occupazioni di strutture dimenticate. Chi vive i quartieri deve sperimentare una dimensione consa-
«C’è una separazione, mai colmata, tra le megaopere del Plebiscito e la gente», dice il gallerista Morra
pevole dell’arte. Come Fondazione Morra già nel 2003 abbiamo presentato una manifestazione d’interesse per avere in comodato d’uso l’ex Convento Cappuccinelle. Ma la presa di possesso dell’immobile non basta, servono progetti di lunga durata. Gli spazi richiedono manutenzione e contenuti. Insieme agli attivisti si potrebbe dar vita a laboratori di formazione per artigiani e giovani creativi, alimentando le speranze sociali in questa fase storica di stasi produttiva. Sosteniamo le Sette stagioni di Tosatti perché crediamo nel dialogo tra la comunità e le responsabilità degli artisti». Ma rispetto a dieci o vent’anni fa la situazione a Napoli è migliorata sul fronte dell’arte? Prosegue Morra: «Dal mio punto di vista, attualmente i giovani hanno più spazi in cui esprimersi, ma le istituzioni, meno consapevoli rispetto a valutazioni di estetica, si limitano a sporadiche apparizioni dal tenore meramente politico. Per le Sette stagioni, però,il Comunecista afiancoperché ilsindaco de Magistris crede nel risanamento delle aree sprecate. Quello che è grave secondo me, ragionando a posteriori, è la separazione mai colmata tra le megainstallazioni del Plebiscito e la gente, anche se non discuto gli artisti scelti o i loro contenuti. Il punto è che gran parte di quelle installazioni costosissime erano vissute da turisti o spettatori colti. E non comunicavano. Anzi, venivano spesso scambiate per un luna park in cui andare a giocare un paio d’ore».
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SABRINA MEROLLA
Prove di danza nel refettorio dell’ex Asilo Filangieri
ANDREA PORCHEDDU
n Bisogna venire a Napoli per capire il teatro italiano: quel coacervo ribollente di passione e frustrazione, di genio e improvvisazione o – per dirla con Eduardo – di miseria e nobiltà che è alla base di una cultura secolare. Per le strade come sui palcoscenici si rappresenta la vita, alla meno peggio: e la vita teatrale di Napoli è bellissima. Qua il teatro sembra questione degna di tifo calcistico e oggi che il Mercadante è diventato Nazionale – per il rotto della cuffia – tutti hanno qualcosa da (ri)dire. La riforma di settore voluta dal Mibact di Dario Franceschini ha ridisegnato la mappa geografica delle eccellenze e sotto il Vesuvio è successo di tutto: a fronte del riconoscimento dell’ex Stabile come Nazionale, è mancato quello del Bellini come Tric (Teatri di rilevante interesse culturale), relegato a Centro di produzione (uno dei grandi scandali di questa riforma). Non solo: il Teatro Diana, dallo spirito apertamente privato e commerciale ancorché di qualità, è diventato Centro di produzione, ripescato dopo una bocciatura. E lo è anche la neonata Casa del Contemporaneo (che a sua volta accorpa tre strutture). Un bel papocchio che ha strascichi in termini di ricorsi amministrativi e infinite discussioni. Alla guida del Mercadante c’è Luca De Fusco, uomo con un passato politico nella Prima Repubblica che ancora oggi vanta illustri sostegni. Lo Stabile ha fatto il salto di qualità, diventando l’unico Nazionale per il Sud Italia, anche grazie all’avallo nobile di Luca De Filippo, chiamato alla guida della Scuola: ora che il maestro se n’è prematuramente andato, si temporeggia prima di trovare un nuovo responsabile. De Filippo aveva preparato il piano didattico e l’offerta formativa:
teatro riformato in casa Cupiello Palchi | All’ombra del Vesuvio il Mercadante diventa Nazionale. E rischia di oscurare il resto della vivacissima scena partenopea «Per ora la Scuola va avanti così – dice De Fusco – poi si vedrà». Così, nonostante il parere sostanzialmente negativo della “commissione di qualità” del ministero, si è moltiplicato il finanziamento del Fondo Unico dello Spettacolo: è bassino, 1,2 milioni di euro, ma molto più alto rispetto al passato e l’azienda ha oggi un budget di circa 9 milioni. Sul futuro del Nazionale, comunque, si interrogano tutti, in primis lo stesso direttore: «Altri teatri, con la riforma, devono mantenere o aumentare di poco l’attività che facevano. Noi saremo studiati come modello di possibile sviluppo perché dobbiamo raddoppiare fatturato, pubblico, attività in un anno. E ce la stiamo facendo». Di fatto, però, la gestione del Nazionale è stata al centro di feroci prese di posizione politiche. Il sindaco De Magistris e il neo eletto governatore De Luca hanno preso di mira non solo la direzione, ma anche la presidenza dell’economista Adriano Giannola. «Ci sono problemi economici», ammette De Fusco, «non di bilancio, poiché possiamo contare su fondi europei, ma di cassa, dovuti ai ritardi di pagamenti dei soci, ossia Comune e Regione. Questa è una città ris-
sosa per natura, però ci sono tensioni che non capisco: perché rimuovere un ottimo presidente come Giannola? Solo perché andiamo d’accordo? Sono abituato al fuoco incrociato contro di me, ma non capisco perché si debba destabi-
Lo Stabile è diretto da De Fusco, uomo dal forte passato politico con illustri sostegni
lizzare una struttura che comincia a funzionare e che cerca di assestarsi per il futuro». Molti non la vedono così. Su tutti un agguerritissimo Carlo Cerciello, regista e anima dello straordinario Teatro Elicantropo: «Non ho ancora capito quale sia la filosofia che guida il Nazionale. La perplessità è sul piano politico: è un teatro pubblico, però non è chiaro il rapporto con il territorio, con gli spettatori. Mi sembra una linea autistica, in cui si rischia di sperperare denaro della collettività pensando solo all’oggi, all’immediato». Gli fa eco Igina Di Napoli, direttrice della Sala Assoli, lo storico spazio ai
Quartieri Spagnoli, e di Casa del Contemporaneo: «Grave è il ritardo degli enti locali nell’erogazione dei fondi, che provoca problemi enormi. Tutto quel che si muove nella creatività, invece, dovrebbe essere reso sistema, rete, per dare nuove opportunità ai giovani di talento. Mi pare, invece, che si stia concentrando tutto sul Nazionale, creando una scissione tra testa e corpo: la testa è del Nazionale, ma il corpo va da un’altra parte». Secondo Gabriele Russo, che con i fratelli dirige il bellissimo Teatro Bellini, la città è in netta ripresa, anche dal punto di vista teatrale. Una ripresa non considerata dalla riforma: «Prima c’era uno Stabile pubblico, il nostro Stabile privato, due centri di innovazione, il circuito. E ora? Abbiamo il Nazionale, va bene, ma il territorio è ben più vivace: penso che Napoli, dopo Milano, sia la realtà d’Italia con maggior creatività, il luogo più interessante in termini di energie, programmazione, produzioni e nella capacità di ripensare la tradizione alla luce del contemporaneo». Il fermento cui tutti fanno riferimento è dunque altrove? Nei tanti teatrini, fortini asserragliati in quartieri difficili, o in esperienze come quella di
Arrevuoto, sviluppata a Scampia, che ha dato vita alla formidabile compagnia Punta Corsara. Il regista e attore Emanuele Valenti non ha dubbi: «Il Nazionale? Ha fatto bene all’altra Napoli, quella non ufficiale, alternativa, che si è organizzata, si è messa in rete. Insomma, la grande vitalità di questa città si sta esprimendo fuori da lì». Anche lo sguardo critico nota possibilità e contraddizioni. Ad Andrea Esposito, giovane giornalista per il seguitissimo sito Fanpage, non dispiace l’idea di un hub «attorno al quale si sviluppino tante attività diverse, dalla formazione alla promozione della nuova drammaturgia. Lo Stabile era sull’orlo del fallimento, adesso si è salvato economicamente e può avviare una nuova fase. Il grande limite è che, superata l’emergenza, sembra mancare un progetto per il futuro, per un nuovo pubblico che non sia quello borghese. Insomma, come al solito, ha da passa’ ‘a nuttata: servono progetti culturali, come sta accadendo per il sistema museale regionale». Giulio Baffi, critico di grande esperienza, aggiunge non senza ironia: «Il Nazionale è il teatro della speranza. Speriamo che dia ossigeno al sistema comunale e regionale. Il nostro è un territorio ampio, produttivo, creativo ma politicamente osservato in modo inadeguato. Il Nazionale non può esaurirsi nelle produzioni più o meno belle, ma deve essere motore che si riverbera in tutto il territorio». Alla fine, per capirlo un po’ meglio il teatro napoletano, occorre attraversare le bancarelle natalizie di San Gregorio Armeno e affacciarsi all’ex Asilo Filangieri, di cui dà conto Gianni Valentino: l’Asilo è diventato una realtà commovente per proposta, passione e generosità di chi gli dà vita. Tutto con autofinanziamento, con entusiasmo: teatro – straordinariamente – di grande intensità..