Alfredo romAno
Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini nuovA edizione rivedutA e AmpliAtA con testo A fronte pa eg iba pa ia maa B
indice
Prefazione di Eugenio Imbriani
9
Introduzione di Alredo Romano
15
Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini
Impaginazione Loredana My Art Director Nino Perrone
© BESA Editrice Via Duca degli Abruzzi, 13/15 73048 Nardò (LE) Tel. +39 0833 871608
Lu attu te lu Nanni Orcu Il atto del Nanni Orcu Quiddhu te la capra Quello della capra Lu attu te li re re ppreti Il atto dei tre preti Ca te cquai passava iu Che di qua passavo io La messa te le villane La messa delle villane Don Toninu Don Tonino Lu attu te San Giorgi Il atto di San Giorgio La meschina La meschina Cumpare m š sciu sciu Tòturu Compare maestro Tòtutu La Chiara Funtana La Chiara Fontana Cesare e Palumbu Cesare e Palombo Lu pa re re Picozzu Il padre Picozzo š ciati Li maccarruni pi š ciati I maccheroni pisciati Lu ju vulìa mmena sìrasa intru mmare Il glio che voleva buttare il padre nel mare La puddhà š cìa cìa sotta la cappa magna La pollastra sotto la cappa magna
22 23 40 41 54 55 66 67 70 71 72 73 76 77 82 83 94 95 98 99 106 107 112 113 118 119 122 123 126 127
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Prefazione di Eugenio Imbriani
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Introduzione di Alredo Romano
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Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini
Lu attu te lu Nanni Orcu Il atto del Nanni Orcu Quiddhu te la capra Quello della capra Lu attu te li re re ppreti Il atto dei tre preti Ca te cquai passava iu Che di qua passavo io La messa te le villane La messa delle villane Don Toninu Don Tonino Lu attu te San Giorgi Il atto di San Giorgio La meschina La meschina Cumpare m š sciu sciu Tòturu Compare maestro Tòtutu La Chiara Funtana La Chiara Fontana Cesare e Palumbu Cesare e Palombo Lu pa re re Picozzu Il padre Picozzo š ciati Li maccarruni pi š ciati I maccheroni pisciati Lu ju vulìa mmena sìrasa intru mmare Il glio che voleva buttare il padre nel mare La puddhà š cìa cìa sotta la cappa magna La pollastra sotto la cappa magna š ce Lu pe š ce s racinatu r acinatu Il pesce strascinato Liberanusdòmine Libera nos domine
Impaginazione Loredana My Art Director Nino Perrone
© BESA Editrice Via Duca degli Abruzzi, 13/15 73048 Nardò (LE) Tel. +39 0833 871608 Fax +39 178 277 6708 6708
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Lu Culàu Culàu A rretu la pila Dietro il lavatoio Turu e tturài Duro e durai Lu cane te Lecce e llu cane te Bari Il cane di Lecce e il cane di Bari Lu jàggiu te nozze Il viaggio di nozze Lu cane cagniscìusu Il cane schiltoso La fja cu lli urri La glia con le bizze Lu pissìnchia Pissinchia
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Li fatti te lu Pieru
Lu bagnu a llu piccinnu Il bagno al ratellino La òccula La chioccia Tira la porta e biéni Tira la porta e vieni
164 165 166 167 170 171
Certi fatti di papa Galeazzo Premessa
175
Lu messone te papa Cajazzu Il missone di papa Galeazzo Li morti vii I morti vivi La ciuccia te papa Cajazzu La somara di papa Galeazzo La con ramizione ramizione La contravvenzione Quistu vale pe' quiddhu ca tegnu in ra ra 'lli cazuni Questo vale per quello che porto nei calzoni
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Ai miei ratelli: lu Aldu, occhi te milampu l’Angiulinu, lu tatai l’Eugeniu, nasu te schia
Lu Culàu Culàu A rretu la pila Dietro il lavatoio Turu e tturài Duro e durai Lu cane te Lecce e llu cane te Bari Il cane di Lecce e il cane di Bari Lu jàggiu te nozze Il viaggio di nozze Lu cane cagniscìusu Il cane schiltoso La fja cu lli urri La glia con le bizze Lu pissìnchia Pissinchia
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Ai miei ratelli: lu Aldu, occhi te milampu l’Angiulinu, lu tatai l’Eugeniu, nasu te schia
Li fatti te lu Pieru
Lu bagnu a llu piccinnu Il bagno al ratellino La òccula La chioccia Tira la porta e biéni Tira la porta e vieni
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Certi fatti di papa Galeazzo Premessa
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Lu messone te papa Cajazzu Il missone di papa Galeazzo Li morti vii I morti vivi La ciuccia te papa Cajazzu La somara di papa Galeazzo La con ramizione ramizione La contravvenzione Quistu vale pe' quiddhu ca tegnu in ra ra 'lli cazuni Questo vale per quello che porto nei calzoni La chièsa pittata La chiesa dipinta Papa Cajazzu 'ncintu Papa Galeazzo incinto
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Prefazione
di Eugenio Imbriani Chi si occupa di tradizioni popolari subisce spesso e volentieri la tentazione di cedere all’intenzione che potremmo denire “del salvataggio”. In particolare, le espressioni orali della cultura popolare sono volatili, fuide. La scrittura si congura, allora, come intervento di salvataggio dei racconti e delle notizie, delle testimonianze rieribili a un modello di vita che, nella sostanza, appartiene al passato. La scrittura risponde anche alle esigenze della comunicazione: la monograa, la restituzione della ricerca tramite il testo scritto, si muovono nella direzione di potenziali lettori per i quali scompare, di atto, o, almeno, si appiattisce, la gura del narratore. Sicché le storie di Hansel e Grätel, di Biancaneve sono dei ratelli Grimm, che le hanno pubblicate, Il gatto con gli stivali s tivali è una aba di Charles Perrault molto più di quanto non appartengano, nell’accezione comune, ai narratori che gliele avevano raccontate. La narratrice di storie più amosa, Sherazade, che, per non morire, ne inventa per mille e una notte e oltre, è essa stessa il personaggio di una aba; ma chi raccontava questa aba? Delle migliaia di voci che per secoli l’hanno tramandata non ne conosciamo alcuna. Sherazade è per noi, innanzitutto, essenzialmente una parola scritta, prima di essere letta, enunciata, prima che la gura della giovane donna acquisti corpo nelle immagini cinematograche, o televisive, o disegnate. Il pregio maggiore della presente raccolta di abe salentine è, a mio parere, costituito dal atto che l’autore di essa leghi i testi alle gure dei narratori, inormatori che gli sono stati molto vicini e di cui conosciamo qualche notizia biograca, e qualche altra sul loro modo di raccontare. L’anziano Pasqualino, il nonno materno, racconta le avventure di papa Galeazzo –
Prefazione
di Eugenio Imbriani Chi si occupa di tradizioni popolari subisce spesso e volentieri la tentazione di cedere all’intenzione che potremmo denire “del salvataggio”. In particolare, le espressioni orali della cultura popolare sono volatili, fuide. La scrittura si congura, allora, come intervento di salvataggio dei racconti e delle notizie, delle testimonianze rieribili a un modello di vita che, nella sostanza, appartiene al passato. La scrittura risponde anche alle esigenze della comunicazione: la monograa, la restituzione della ricerca tramite il testo scritto, si muovono nella direzione di potenziali lettori per i quali scompare, di atto, o, almeno, si appiattisce, la gura del narratore. Sicché le storie di Hansel e Grätel, di Biancaneve sono dei ratelli Grimm, che le hanno pubblicate, Il gatto con gli stivali s tivali è una aba di Charles Perrault molto più di quanto non appartengano, nell’accezione comune, ai narratori che gliele avevano raccontate. La narratrice di storie più amosa, Sherazade, che, per non morire, ne inventa per mille e una notte e oltre, è essa stessa il personaggio di una aba; ma chi raccontava questa aba? Delle migliaia di voci che per secoli l’hanno tramandata non ne conosciamo alcuna. Sherazade è per noi, innanzitutto, essenzialmente una parola scritta, prima di essere letta, enunciata, prima che la gura della giovane donna acquisti corpo nelle immagini cinematograche, o televisive, o disegnate. Il pregio maggiore della presente raccolta di abe salentine è, a mio parere, costituito dal atto che l’autore di essa leghi i testi alle gure dei narratori, inormatori che gli sono stati molto vicini e di cui conosciamo qualche notizia biograca, e qualche altra sul loro modo di raccontare. L’anziano Pasqualino, il nonno materno, racconta le avventure di papa Galeazzo – mitico curato cialtrone di Lucugnano vissuto, pare, nel XVII secolo, protagonista di aneddoti classicabili tra lo scherzoso e il pecoreccio –; sapeva leggere e scrivere, e allora, da giovane,
leggeva nei libri le storie che la sera raccontava alle glie accanto al caminetto; attingeva anche alle rappresentazioni che le compagnie teatrali provenienti dalla Sicilia tenevano nel rantoio di Collemeto. La vicenda personale di Pasqualino meriterebbe di entrare nel ciclo delle narrazioni, e troverebbe degnamente posto tra i cunti del volume. Era un macellaio molto stimato a Neviano, il suo paese (siamo in provincia di Lecce); aveva sette gli di cui sei emmine e, preoccupato dalla necessità di dotarle e collocarle tutte dignitosamente, decise di investire i suoi risparmi in un aare che gli avrebbe reso moltissimo: acquistare un intero carico di asini, per venderne la carne alle macellerie di altri paesi. Si recò in Calabria, qui ece stipare in vagoni merci gli asini provenienti da diversi allevamenti. Ma quelle bestie, assiepate com’erano in uno spazio ridottissimo, si aggredirono reciprocamente a calci e morsi, tanto che, quando il treno arrivò a destinazione, ben poche erano sopravvissute, per di più malconce. Così accadde che Pasqualino, per aver voluto arricchirsi in poco tempo, perdette tutto quello che aveva, u costretto a lasciare il paese, con la numerosa amiglia, a rimboccarsi le maniche e a ricominciare da capo. Maria Neve, la moglie di Pasqualino, aggiungeva alla abilità narrativa una peculiare verve drammatica, per cui imitava con la voce e i gesti suoni, situazioni, personaggi, che dovevano sembrare chissà quanto più veri e chissà quanto più arcani ai giovani spettatori. Altri narratori di primo piano sono i genitori stessi di Alredo Romano, che esercitano la loro arte no allo stremo. Giovannino, sul letto di morte, raccoglieva le orze per dare quel che restava di sé ai visitatori che entravano pietosi nella sua stanza di malato e se ne uscivano divertiti. Lucia dettava al glio che, sul quaderno, trascriveva le parole, ma non poteva ssare la voce, il tono, le cadenze, gli sguardi, i gesti della
endoli, ormai, alla dinamica sempre diversa del racconto orale. La scrittura molte cose conserva, i testi, le parole, molte altre ne perde: l’esperienza del narrante e dell’ascolto seleziona alcune parti del discorso, ne esclude altre: se i dialoghi di Romano con la madre si ossero limitati solo alla narrazione di alcune abe, essi si ridurrebbero a una specie di monologo a puntate complessivamente breve e piuttosto arido. La scrittura, allora, qualcosa conserva, qualcosa perde, qualcosa aggiunge; per esempio, stabilisce un ordine alle storie, interviene sui testi con dei segni di interpunzione e diacritici che ne agevolino la lettura, li dota, come in questo caso, di una godibilissima traduzione in lingua italiana. Ma veniamo brevemente a un’altra questione: che cosa sono le abe, e che cosa ci dicono? Non entrerò nel merito di un dibattito tanto lungo e complesso su questi temi, che sorerò soltanto per ornirne un un’idea. ’idea. Forse molti sanno che la narrativa di tradizione orale è s tata ampiamente analizzata, sezionata, è stata oggetto di classicazione; esistono indici e repertori che scompongono i testi in motivi, i quali rappresentano le unità narrative minime, e per tipi, vale a dire, grosso modo, in base al soggetto, all’argomento che toccano. Le migliaia di motivi che costituiscono le abe si mescolano variamente tra di loro, dando vita a una serie di combinazioni in teoria innita. Poiché si tratta di testi di tradizione orale, come abbiamo già detto, nessuna aba narrata una seconda volta rimane perettamente uguale alla versione precedente. I motivi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al seguito di mercanti, pellegrini, migranti. I motivi viaggiano anche tra la letteratura colta e la letteratura popolare, per cui non c’è da meravigliarsi di trovare nelle abe elementi narrativi riscontrabili, per esempio, nelle novelle di Sacchetti e di Boccaccio; per tacere di Basile che nel Pentamerone raccoglie un patrimonio
leggeva nei libri le storie che la sera raccontava alle glie accanto al caminetto; attingeva anche alle rappresentazioni che le compagnie teatrali provenienti dalla Sicilia tenevano nel rantoio di Collemeto. La vicenda personale di Pasqualino meriterebbe di entrare nel ciclo delle narrazioni, e troverebbe degnamente posto tra i cunti del volume. Era un macellaio molto stimato a Neviano, il suo paese (siamo in provincia di Lecce); aveva sette gli di cui sei emmine e, preoccupato dalla necessità di dotarle e collocarle tutte dignitosamente, decise di investire i suoi risparmi in un aare che gli avrebbe reso moltissimo: acquistare un intero carico di asini, per venderne la carne alle macellerie di altri paesi. Si recò in Calabria, qui ece stipare in vagoni merci gli asini provenienti da diversi allevamenti. Ma quelle bestie, assiepate com’erano in uno spazio ridottissimo, si aggredirono reciprocamente a calci e morsi, tanto che, quando il treno arrivò a destinazione, ben poche erano sopravvissute, per di più malconce. Così accadde che Pasqualino, per aver voluto arricchirsi in poco tempo, perdette tutto quello che aveva, u costretto a lasciare il paese, con la numerosa amiglia, a rimboccarsi le maniche e a ricominciare da capo. Maria Neve, la moglie di Pasqualino, aggiungeva alla abilità narrativa una peculiare verve drammatica, per cui imitava con la voce e i gesti suoni, situazioni, personaggi, che dovevano sembrare chissà quanto più veri e chissà quanto più arcani ai giovani spettatori. Altri narratori di primo piano sono i genitori stessi di Alredo Romano, che esercitano la loro arte no allo stremo. Giovannino, sul letto di morte, raccoglieva le orze per dare quel che restava di sé ai visitatori che entravano pietosi nella sua stanza di malato e se ne uscivano divertiti. Lucia dettava al glio che, sul quaderno, trascriveva le parole, ma non poteva ssare la voce, il tono, le cadenze, gli sguardi, i gesti della madre. La scrittura tradisce sempre la situazione narrativa. La trascrizione salva i testi, rendendoli nel contempo ssi e sottra-
endoli, ormai, alla dinamica sempre diversa del racconto orale. La scrittura molte cose conserva, i testi, le parole, molte altre ne perde: l’esperienza del narrante e dell’ascolto seleziona alcune parti del discorso, ne esclude altre: se i dialoghi di Romano con la madre si ossero limitati solo alla narrazione di alcune abe, essi si ridurrebbero a una specie di monologo a puntate complessivamente breve e piuttosto arido. La scrittura, allora, qualcosa conserva, qualcosa perde, qualcosa aggiunge; per esempio, stabilisce un ordine alle storie, interviene sui testi con dei segni di interpunzione e diacritici che ne agevolino la lettura, li dota, come in questo caso, di una godibilissima traduzione in lingua italiana. Ma veniamo brevemente a un’altra questione: che cosa sono le abe, e che cosa ci dicono? Non entrerò nel merito di un dibattito tanto lungo e complesso su questi temi, che sorerò soltanto per ornirne un un’idea. ’idea. Forse molti sanno che la narrativa di tradizione orale è s tata ampiamente analizzata, sezionata, è stata oggetto di classicazione; esistono indici e repertori che scompongono i testi in motivi, i quali rappresentano le unità narrative minime, e per tipi, vale a dire, grosso modo, in base al soggetto, all’argomento che toccano. Le migliaia di motivi che costituiscono le abe si mescolano variamente tra di loro, dando vita a una serie di combinazioni in teoria innita. Poiché si tratta di testi di tradizione orale, come abbiamo già detto, nessuna aba narrata una seconda volta rimane perettamente uguale alla versione precedente. I motivi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al seguito di mercanti, pellegrini, migranti. I motivi viaggiano anche tra la letteratura colta e la letteratura popolare, per cui non c’è da meravigliarsi di trovare nelle abe elementi narrativi riscontrabili, per esempio, nelle novelle di Sacchetti e di Boccaccio; per tacere di Basile che nel Pentamerone raccoglie un patrimonio di storie popolari. Le migliaia di motivi e le centinaia di tipi riscontrabili nelle abe danno vita in realtà a trame molto semplici che si sus-
seguono e si ripetono secondo sequenze e schemi abbastanza rigidi. Le migliaia di personaggi che l e aollano svolgono tutto sommato poche unzioni; il grande olklorista russo Vladimir Propp, studiando le abe di magia, ha individuato una serie d i azioni che, comunque, i personaggi compiono: c’è una situazione iniziale, il protagonista è chiamato a superare alcune prove, c’è un avversario, un aiutante magico, la soluzione. È come se nelle abe esistesse una sorta di meccanismo narrativo, che i novellatori hanno seguito tramandandolo nello spazio e nel tempo, rincorrendo e intrecciando i motivi. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare, come con chiarezza suggeriscono gli stessi narratori delle storie raccolte da Alredo Romano. Questo universo così articolato e multiorme sembrò semplicemente indominabile a Italo Calvino chiamato a redigere la raccolta delle Fiabe italiane, uscita, poi, nel 1956. Calvino conessava allora che quell’impresa editoriale lo esponeva a una sorta di malessere che nasceva proprio dal rapporto con un elemento non ormalizzato, fuido, qual è la tradizione orale. Eppure l’iniziale didenza svanì nel corso del lavoro, durante il quale lo scrittore si trovò immerso nella precipua logica dell’incantamento: «Ogni poco», scriveva nell’introduzione, «mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle abe si osse scatenata, ritornando a dominare sulla terra». E continuava, parlando di un suo intimo convincimento che giusticava il motivo per cui ciò poteva accadere: cioè, che le abe sono vere. Costituiscono un «catalogo dei destini», una «casistica di vicende umane», un disegno sommario della vita, rappresentano «l’innita possibilità di metamorosi di ciò che esiste». Possiamo immaginare la vertigine di ronte alla s terminata e prodigiosa campionatura di ciò che è narrabile, che egli aveva davanti a sé. Eppure il gioco appariva dotato di regole; come per gli scacchi i movimenti sulla scacchiera sono determinati,
A tutto questo si aggiunge la peculiare abilità dei narratori, che si traduce nell’applicazione di una vera e propria tecnica della narrazione orale. Su questo concetto Calvino s i soermerà ancora nelle Lezioni americane (1988); tra i valori letterari da tramandare al nuovo millennio c’è la rapidità, e il luogo in cui meglio si esprime è proprio la narrazione orale. «La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare», scrive nelle Lezioni, «risponde a criteri di unzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la aba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere inantile di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, rasi, ormule»; e più oltre rivelava di aver incontrato il massimo piacere quando un testo era laconico e doveva cercare di tradurlo in lingua rispettandone la concisione. Credo che Alredo Romano, che si è cimentato nella traduzione delle sue abe, comprenda bene che cosa Calvino intendesse. Eugenio Imbriani
seguono e si ripetono secondo sequenze e schemi abbastanza rigidi. Le migliaia di personaggi che l e aollano svolgono tutto sommato poche unzioni; il grande olklorista russo Vladimir Propp, studiando le abe di magia, ha individuato una serie d i azioni che, comunque, i personaggi compiono: c’è una situazione iniziale, il protagonista è chiamato a superare alcune prove, c’è un avversario, un aiutante magico, la soluzione. È come se nelle abe esistesse una sorta di meccanismo narrativo, che i novellatori hanno seguito tramandandolo nello spazio e nel tempo, rincorrendo e intrecciando i motivi. Non basta raccontare, bisogna saper raccontare, come con chiarezza suggeriscono gli stessi narratori delle storie raccolte da Alredo Romano. Questo universo così articolato e multiorme sembrò semplicemente indominabile a Italo Calvino chiamato a redigere la raccolta delle Fiabe italiane, uscita, poi, nel 1956. Calvino conessava allora che quell’impresa editoriale lo esponeva a una sorta di malessere che nasceva proprio dal rapporto con un elemento non ormalizzato, fuido, qual è la tradizione orale. Eppure l’iniziale didenza svanì nel corso del lavoro, durante il quale lo scrittore si trovò immerso nella precipua logica dell’incantamento: «Ogni poco», scriveva nell’introduzione, «mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle abe si osse scatenata, ritornando a dominare sulla terra». E continuava, parlando di un suo intimo convincimento che giusticava il motivo per cui ciò poteva accadere: cioè, che le abe sono vere. Costituiscono un «catalogo dei destini», una «casistica di vicende umane», un disegno sommario della vita, rappresentano «l’innita possibilità di metamorosi di ciò che esiste». Possiamo immaginare la vertigine di ronte alla s terminata e prodigiosa campionatura di ciò che è narrabile, che egli aveva davanti a sé. Eppure il gioco appariva dotato di regole; come per gli scacchi i movimenti sulla scacchiera sono determinati, eppure è possibile giocare un numero innito di partite diverse, allo stesso modo la aba popolare si modella su strutture sse che consentono innite variabili.
A tutto questo si aggiunge la peculiare abilità dei narratori, che si traduce nell’applicazione di una vera e propria tecnica della narrazione orale. Su questo concetto Calvino s i soermerà ancora nelle Lezioni americane (1988); tra i valori letterari da tramandare al nuovo millennio c’è la rapidità, e il luogo in cui meglio si esprime è proprio la narrazione orale. «La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare», scrive nelle Lezioni, «risponde a criteri di unzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni, per esempio quando la aba consiste in una serie di ostacoli da superare. Il piacere inantile di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, rasi, ormule»; e più oltre rivelava di aver incontrato il massimo piacere quando un testo era laconico e doveva cercare di tradurlo in lingua rispettandone la concisione. Credo che Alredo Romano, che si è cimentato nella traduzione delle sue abe, comprenda bene che cosa Calvino intendesse.
Eugenio Imbriani
Introduzione
Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa un’aringa o cento grammi di ricotta orte, detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata no a ricavarne un mazzo di quadratini sui quali sregare il rasoio con la schiuma da barba. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A are i bravi si guadagnava anche un Ordo missae, l’annuario delle messe che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro. Non c’erano libri da bambino, ma è stata una ortuna non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per i libri. Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti, le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inaerrabili. Quei vecchi narratori che quando muoiono si portano nella tomba una biblioteca orale intera, unica, senza speranza di riedizioni. L’arte del raccontare è stata st ata una prerogativa della mia amiglia. I miei nonni materni, come i miei genitori, erano depositari di una sconnata tradizione orale atta di storie vere e antastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, lastrocche, conte ecc. Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il ‘perder tempo' a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi inernali. La morte era in agguato, i morti non erano morti: tornavano invece a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la
Introduzione
Non ho avuto libri da bambino, non c’erano i libri. La carta era quella paglierina del pizzicagnolo che ti incartava un’aringa un’aringa o cento grammi di ricotta orte, detta schianta. La pagina era quella di un vecchio giornale che trovavi dal barbiere, tagliata no a ricavarne un mazzo di quadratini sui quali sregare il rasoio con la schiuma da barba. Per non dire di quella scritta in latino quando si andava a servire messa a don Salvatore. A are i bravi si guadagnava anche un Ordo missae, l’annuario delle messe che portavo a casa raggiante: era pur sempre un libro. Non c’erano libri da bambino, ma è stata una ortuna non avere libri da bambino, ci sarebbe stato tempo per i libri. Non ho avuto libri… ma ho avuto in casa dei narratori che ricordo come altrettanti libri parlanti, le cui voci mi giungono ora, nel tempo, misteriose, inaerrabili. Quei vecchi narratori che quando muoiono si portano nella tomba una biblioteca orale intera, unica, senza speranza di riedizioni. L’arte del raccontare è stata st ata una prerogativa della mia amiglia. I miei nonni materni, come i miei genitori, erano depositari di una sconnata tradizione orale atta di storie vere e antastiche, satire e lazzi tipici dell’astuzia contadina. E poi canti d’amore e di dispetto, poesie religiose e d’occasione, proverbi, modi di dire, indovinelli, lastrocche, conte ecc. Erano i tempi dell’ozio, inteso come tempo necessario da dedicare allo spirito, allo svuotamento dei pensieri, al comunicare, al tramandare. Era questo il ‘perder tempo' a raccontare. Il momento magico arrivava di sera, quando il buio scatenava le paure sopite, quando il latrare dei cani sembrava provenire dagli abissi inernali. La morte era in agguato, i morti non erano morti: tornavano invece a solleticare i vivi. C’erano strane donne vestite di nero che salivano il sagrato della chiesa per la unzione serale, poi, a rito nito, di loro nessuna traccia. C’era un cane sconosciuto, enorme, vestito di una lanugine bianca, che di notte girava il paese e scompariva all’alba: era l’uomo
pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio. Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni s ogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi, pronti a ghermirti, che pendevano al chiaro di luna, disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla nestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano decise sui cornicioni delle case vestite di lunghissimi camici bianchi, o battevano i talloni al di sopra delle lamie per spaventare i dormienti. A questi stessi non esitavano magari a tirare i piedi, per rimproverarli di non aver posto nella bara tutti gli oggetti dovuti, o per essere trapassate senza le dovute scarpe nuove. Perno a tavola, nell’atto di mangiare un cocomero resco o qualche altra delizia, bisognava augurarsi che allo stesso modo si ‘rerigerassero’ i morti: dderiscu a lli morti (rerigerio ai morti) era l’immancabile ritornello. È in questo clima che si raccontava, trasgurati da una lampada a petrolio, in un gioco di lampi e di ombre che si rincorrevano per la stanza con i mezzibusti degli avi, severi, alle pareti. Mio nonno Pasqualino aveva l’abitudine, d’estate, di recarsi a Rimini. Trascorreva 15 giorni da suo glio Luigi, che si era sposato colà durante la seconda guerra. Così mia nonna Maria Neve restava sola, ed era abitudine, ogni volta, che un nipote le acesse compagnia durante la notte. Questo privilegio toccava a me, perché ero il più grande di quattro ratellini. Bene, si trattava di un’occasione unica. Prima di addormentarmi nel letto matrimoniale, mia nonna si trasormava in un’intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i
nei suoi cicì-cicì dei tanti t anti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orco, nelle bucce di noci di Giovannino; oppure nelle battaglie intorno a Guerrin Meschino, a Genovea di Parigi con la sua capretta e al possente Fioravante. E poi lei, sempre così religiosa, a dirmi di preti e monaci che si volevano ottere le donne pie (Il atto dei tre preti, di San Giorgio ecc.), ma che alla ne, per quante essi stessi ne subivano, risultavano più degni di commiserazione delle loro vittime. Mio padre Giovannino e mia madre Lucia, questa voglia di raccontare l’hanno esercitata no all’ultimo, anche sul letto di morte durante la lunga malattia. Papà, a dire il vero, nella circostanza ci dava come l’illusione che stesse per migliorare. Si usava a Collemeto, quando si veniva a sapere di uno che stava per morire, argli visita ‘per vederlo un’ultima volta’ si diceva. Generalmente l’ora era quella pomeridiana. Mio p adre avvertiva, già dal brusio, la gente approssimarsi alla porta di casa. Come per incanto sgranava gli occhi, si liberava del copricapo di lana e, con un certo sorzo, riusciva a porsi seduto sul letto; chiedeva perno un pettine per darsi una sistemata. Bene, i nuovi arrivati si mettevano seduti tutt’intorno al letto in un’atmosera mesta, come per una veglia unebre. A mio padre invece non sembrava vero trovarsi intorno un pubblico tutto per lui, come lo aveva avuto in t ante altre elici occasioni, quando aveva narrato e sedotto accompagnandosi con grandi gesti. E attaccava: il suo preerito era Don Tonino. Tonino. Incredibile! La gente crepava dal ridere e se ne tornava a casa non certo con l’impressione di aver atto visita a un morente. Ma, usciti che erano tutti, ecco che mio padre tornava a morire: orse, in cambio di un ultimo sorso di vita, aveva combinato qualche scellerato patto con sorella Morte. E noi a illuderci ogni volta. E mia madre. Alcuni dei racconti li ho scritti quasi sotto dettatura. Nel suo letto d’ospedale, in alcune pause del dolore,
pugnalato per sbaglio davanti all’osteria in una sera di lampi e di tuoni, e la moglie, a cercarlo, era inciampata sul corpo nel buio. Al mio paese nessun morto è mai morto, i sogni s ogni erano sempre tempestati di anime, di anime in pena che invocavano i suragi così come gli eroi greci rimasti insepolti invocavano una degna sepoltura. Le anime erano i rami degli ulivi, pronti a ghermirti, che pendevano al chiaro di luna, disegnando strane ombre sulle strade bianche e polverose. Le anime bussavano alla nestra annunciate dal lugubre verso della civetta, oppure camminavano decise sui cornicioni delle case vestite di lunghissimi camici bianchi, o battevano i talloni al di sopra delle lamie per spaventare i dormienti. A questi stessi non esitavano magari a tirare i piedi, per rimproverarli di non aver posto nella bara tutti gli oggetti dovuti, o per essere trapassate senza le dovute scarpe nuove. Perno a tavola, nell’atto di mangiare un cocomero resco o qualche altra delizia, bisognava augurarsi che allo stesso modo si ‘rerigerassero’ i morti: dderiscu a lli morti (rerigerio ai morti) era l’immancabile ritornello. È in questo clima che si raccontava, trasgurati da una lampada a petrolio, in un gioco di lampi e di ombre che si rincorrevano per la stanza con i mezzibusti degli avi, severi, alle pareti. Mio nonno Pasqualino aveva l’abitudine, d’estate, di recarsi a Rimini. Trascorreva 15 giorni da suo glio Luigi, che si era sposato colà durante la seconda guerra. Così mia nonna Maria Neve restava sola, ed era abitudine, ogni volta, che un nipote le acesse compagnia durante la notte. Questo privilegio toccava a me, perché ero il più grande di quattro ratellini. Bene, si trattava di un’occasione unica. Prima di addormentarmi nel letto matrimoniale, mia nonna si trasormava in un’intera compagnia di teatro. Delle volte, per drammatizzare meglio i suoi racconti, si levava in piedi sul letto e gridava e gesticolava a più non posso. Io ero lì come incantato, spettatore ignaro di eventi irripetibili, catapultato in storie che prendevano corpo
nei suoi cicì-cicì dei tanti t anti passeri, nei suoi bum-bum del Nanni Orco, nelle bucce di noci di Giovannino; oppure nelle battaglie intorno a Guerrin Meschino, a Genovea di Parigi con la sua capretta e al possente Fioravante. E poi lei, sempre così religiosa, a dirmi di preti e monaci che si volevano ottere le donne pie (Il atto dei tre preti, di San Giorgio ecc.), ma che alla ne, per quante essi stessi ne subivano, risultavano più degni di commiserazione delle loro vittime. Mio padre Giovannino e mia madre Lucia, questa voglia di raccontare l’hanno esercitata no all’ultimo, anche sul letto di morte durante la lunga malattia. Papà, a dire il vero, nella circostanza ci dava come l’illusione che stesse per migliorare. Si usava a Collemeto, quando si veniva a sapere di uno che stava per morire, argli visita ‘per vederlo un’ultima volta’ si diceva. Generalmente l’ora era quella pomeridiana. Mio p adre avvertiva, già dal brusio, la gente approssimarsi alla porta di casa. Come per incanto sgranava gli occhi, si liberava del copricapo di lana e, con un certo sorzo, riusciva a porsi seduto sul letto; chiedeva perno un pettine per darsi una sistemata. Bene, i nuovi arrivati si mettevano seduti tutt’intorno al letto in un’atmosera mesta, come per una veglia unebre. A mio padre invece non sembrava vero trovarsi intorno un pubblico tutto per lui, come lo aveva avuto in t ante altre elici occasioni, quando aveva narrato e sedotto accompagnandosi con grandi gesti. E attaccava: il suo preerito era Don Tonino. Tonino. Incredibile! La gente crepava dal ridere e se ne tornava a casa non certo con l’impressione di aver atto visita a un morente. Ma, usciti che erano tutti, ecco che mio padre tornava a morire: orse, in cambio di un ultimo sorso di vita, aveva combinato qualche scellerato patto con sorella Morte. E noi a illuderci ogni volta. E mia madre. Alcuni dei racconti li ho scritti quasi sotto dettatura. Nel suo letto d’ospedale, in alcune pause del dolore, al ne di distrarla, le chiedevo di raccontare. Li conoscevo già quei racconti, ma avevo voglia di tornare su p assi ormai caduti nell’oblio, su alcuni ritmi, su dei toni di voce, delle sumatu-
re, perno su dei gesti e smore acciali essenziali al racconto. Avevo voglia, questo sì, di ar restare mia madre nelle parole, di portarmela via in un quaderno di appunti, magico, che poi avrei sregato come la lampada di Aladino. Ma questo, lei, lo aveva capito bene. Verbum caro actum est, la parola si è atta carne. Mai detto evangelico u più vero. Non esiste per me ascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un lm, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preerisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già denita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi l ibrarsi all’innito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano. Tutto questo sento di d i non averlo appreso soltanto s oltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era atto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra. Alfredo Romano
Avvertenze
Il dialetto è quello salentino di Collemeto (2000 ab.), frazione di Galatina in provincia di Lecce. La trascrizione fonetica tiene conto solo dei segni diacritici per i fonemi: - cacuminale1 invertito2 sonoro ddh (beddha), ḍr (nḍrìzzate). - cacuminale invertito sordo r (ràpule), r (quaru), sr (srata). - spirante sordo doppio š (nei gruppi šci e šce, come càšcia e sušcettu ).- spirante sonoro ź (àźate, caźi). Sono generalmente accentate le sdrucciole (parole con l’accento sulla terzultima sillaba) e le bisdrucciole (sulla quartultima); a volte anche le piane (sulla penultima) per venire incontro al lettore che ha poca familiarità con la lettura del dialetto salentino.
re, perno su dei gesti e smore acciali essenziali al racconto. Avevo voglia, questo sì, di ar restare mia madre nelle parole, di portarmela via in un quaderno di appunti, magico, che poi avrei sregato come la lampada di Aladino. Ma questo, lei, lo aveva capito bene. Verbum caro actum est, la parola si è atta carne. Mai detto evangelico u più vero. Non esiste per me ascino più grande della parola. Posso scrivere, posso bearmi con una pittura, un paesaggio, un lm, una sonata di Chopin, per ricondurre poi tutto alla parola. La parola da sola è musica, è poesia. La parola non ha bisogno di supporti per essere bella. Ci sono canzoni che preerisco, proprio così, cantare senza chitarra. Lo strumento ti obbliga in qualche modo a una misura già denita, mentre l’animo ha bisogno di librarsi l ibrarsi all’innito senza catene, come avveniva nel canto gregoriano. Tutto questo sento di d i non averlo appreso soltanto s oltanto a scuola, sono convinto di averlo anche ereditato. E quando a scuola è arrivato il mio primo libro di lettura, ho scoperto che era atto di parole, parole da declamare ad alta voce, per dare anima e corpo a pagine e a segni di per sé morti. Forse è per questo che amo così tanto il libro, questo scrigno che basta scardinare per imbattersi in parole che viaggiano per mari e mondi sconosciuti, parole che concertano suoni e visioni che preludono all’unico paradiso che possiamo sognare su questa bellissima terra.
Avvertenze
Il dialetto è quello salentino di Collemeto (2000 ab.), frazione di Galatina in provincia di Lecce. La trascrizione fonetica tiene conto solo dei segni diacritici per i fonemi: - cacuminale1 invertito2 sonoro ddh (beddha), ḍr (nḍrìzzate). - cacuminale invertito sordo r (ràpule), r (quaru), sr (srata). - spirante sordo doppio š (nei gruppi šci e šce, come càšcia e sušcettu ).- spirante sonoro ź (àźate, caźi). Sono generalmente accentate le sdrucciole (parole con l’accento sulla terzultima sillaba) e le bisdrucciole (sulla quartultima); a volte anche le piane (sulla penultima) per venire incontro al lettore che ha poca familiarità con la lettura del dialetto salentino.
Alfredo Romano
Detto di suono nella cui articolazione la parte anteriore della lingua batte contro la sommità del palato. Dal vocabolario Zingarelli. 2 Quando la consonante si articola nel palato duro con la punta della lingua all’indietro. Dal vocabolario Zingarelli. 1
Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini
Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini
u fattu fattu te te Lu Lu N aNNi Orcu Lu
Nc’era na fata nu cristianu ca se chiamava Giuvanninu. Tenìa tanti fji e lla mujère stia malata in ra ra llu jettu. La ame era tanta mo’ e nnu’ ssapìa comu ia are cu roa roa quarche ppocu te mangiare. Ma, nu giurnu ca acìa riddu e mmutu jentu, tisse: «Nà! mo’ me piju la re rucàrica rucàrica e ba’ bìsciu ci pìju nu pocu te auceddhi 1 pe pe’’ la mujère mia e ppe’ ppe’ lli fji mii ca sta mme mòranu te ame.» Ia šcire mutu luntanu mo’, e ppe’ pruìste se mise ‘n poscia do’ ove ddelessate. Camìna e ccamìna, camìna e ccamìna, rriàu in ru ru nnu ondu te ulìe, ma, àrburi cusì erti mo’, ca parìa ca rriàvanu ‘n cielu. E llu jentu li acìa te cquai e de ddhai e nc’èranu tanti te quiddhi auceddhi ca se sentìa ciciiì-ciciiì-ciciiì… «Beddhi mii!» suspiràu lu Giuvanninu, «ca li fji mii puru hanu mmangiare!» Tittu attu e sse mise sparare, sai? Ppim-ppum ppam! ppim-ppum-ppam! E catìanu ddhi sangu te auceddhi, sai? Tira te cquai, tira te ddhai, ‘nsomma, lu Giuvanninu se nchìu la borsa te auceddhi, e stia cu sse nde torna ccasa, quandu, tuttu te paru, ntise la terra ca ne rimbumbava sotta lli pieti: bum! bum! bum! bum! E, quistu bum-bum, se mbicinava sempre te cchiùi. Cce ggh’èra? ggh’èra? Èranu li passi te lu Nanni Orcu, ca, sentendu sparare te luntanu, era ssutu ‘n cerca te carne umana. Quandu lu pòveru Giuvanninu se ccorse ca era lu Nanni Orcu, addhu nu’ ppotte are ca cu sse rràmpica susu ll’àrburu cchiù ertu ca nc’era. Addhai ca lu Nanni Orcu ne rriàu sotta e acìa cu sse rràmpica puru iddhu: cu rria sse lu mangia mo’. Ma era mutu crossu e scruulava sempre. Lu Giuvanninu, ddha ssusu a ddhunca stia mo’, tenìa la re rucàrica rucàrica sempre a ttirezione te lu Nanni Orcu. Ma quandu quistu tuccàu ccustàta ca nu’ llu putìa propriu zziccare lu Giuvanninu, tuttu rraggiatu pijàu ccritare:
Il fatto del Nanni Orco
C’era una volta un tale che si chiamava Giovannino. Teneva Teneva tanti gli e la moglie stava nel letto ammalata. La ame era tanta e lui non sapeva come are per trovare un po’ da mangiare. Ma un giorno che aceva reddo e c’era vento, disse: «To’! mo’ mi armo di ucile e vado a vedere se piglio un po’ d’uccelli per la moglie mia e per i gli che mi muoiono di ame.» Visto che doveva recarsi lontano, si mise in tasca per provviste due uova sode. Cammina e cammina, cammina e cammina, giunse presso un ondo d’ulivi, ma ulivi così alti che pareva toccassero il cielo. E il vento li scuoteva di qua e di là e c’erano tanti di quegli uccelli che si sentiva un continuo ci-ciiì ci-ciiì ci-ciiì. «Belli miei!» sospirò Giovannino, «che 1 pure i gli miei hanno diritto di mangiare!» Detto atto. Prese subito a sparare, sai? Pim-pum-pam! pimpum-pam! E cadevano gli uccelli, sai? Insomma tira di qua, tira di là, Giovannino si riempì la borsa di uccelli, e stava per ar ritorno a casa, quando, a un tratto, sentì la terra rimbombargli sotto i piedi: bum! bum! bum! bum! E questo bum-bum era sempre più vicino. Cos’era? Erano i passi del Nanni Orco che, avvertiti gli spari da lontano, si era mosso in cerca di carne umana. Quando il povero Giovannino intravide Nanni Orco, altro non potette are che riugiarsi in cima all’albero più alto che c’era. Lì che Nanni Orco gli si ece sotto tentando a più riprese di arrampicarsi, però, ahimè, lui era così grosso che a ogni tentativo scivolava e scivolava lungo il tronco. Ma Giovannino, appollaiato in alto lassù, non smetteva di tenergli il ucile puntato. Quando Nanni Orco si convinse di non poter acchiappare Giovannino, preso dalla rabbia, si mise a urlare: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!»
Il fatto del Nanni Orco
u fattu fattu te te Lu Lu N aNNi Orcu Lu
C’era una volta un tale che si chiamava Giovannino. Teneva Teneva tanti gli e la moglie stava nel letto ammalata. La ame era tanta e lui non sapeva come are per trovare un po’ da mangiare. Ma un giorno che aceva reddo e c’era vento, disse: «To’! mo’ mi armo di ucile e vado a vedere se piglio un po’ d’uccelli per la moglie mia e per i gli che mi muoiono di ame.» Visto che doveva recarsi lontano, si mise in tasca per provviste due uova sode. Cammina e cammina, cammina e cammina, giunse presso un ondo d’ulivi, ma ulivi così alti che pareva toccassero il cielo. E il vento li scuoteva di qua e di là e c’erano tanti di quegli uccelli che si sentiva un continuo ci-ciiì ci-ciiì ci-ciiì. «Belli miei!» sospirò Giovannino, «che 1 pure i gli miei hanno diritto di mangiare!» Detto atto. Prese subito a sparare, sai? Pim-pum-pam! pimpum-pam! E cadevano gli uccelli, sai? Insomma tira di qua, tira di là, Giovannino si riempì la borsa di uccelli, e stava per ar ritorno a casa, quando, a un tratto, sentì la terra rimbombargli sotto i piedi: bum! bum! bum! bum! E questo bum-bum era sempre più vicino. Cos’era? Erano i passi del Nanni Orco che, avvertiti gli spari da lontano, si era mosso in cerca di carne umana. Quando il povero Giovannino intravide Nanni Orco, altro non potette are che riugiarsi in cima all’albero più alto che c’era. Lì che Nanni Orco gli si ece sotto tentando a più riprese di arrampicarsi, però, ahimè, lui era così grosso che a ogni tentativo scivolava e scivolava lungo il tronco. Ma Giovannino, appollaiato in alto lassù, non smetteva di tenergli il ucile puntato. Quando Nanni Orco si convinse di non poter acchiappare Giovannino, preso dalla rabbia, si mise a urlare: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!» «Sì, che sono esso io!» gli rispondeva Giovannino, acendo-
Nc’era na fata nu cristianu ca se chiamava Giuvanninu. Tenìa tanti fji e lla mujère stia malata in ra ra llu jettu. La ame era tanta mo’ e nnu’ ssapìa comu ia are cu roa roa quarche ppocu te mangiare. Ma, nu giurnu ca acìa riddu e mmutu jentu, tisse: «Nà! mo’ me piju la re rucàrica rucàrica e ba’ bìsciu ci pìju nu pocu te auceddhi 1 pe pe’’ la mujère mia e ppe’ ppe’ lli fji mii ca sta mme mòranu te ame.» Ia šcire mutu luntanu mo’, e ppe’ pruìste se mise ‘n poscia do’ ove ddelessate. Camìna e ccamìna, camìna e ccamìna, rriàu in ru ru nnu ondu te ulìe, ma, àrburi cusì erti mo’, ca parìa ca rriàvanu ‘n cielu. E llu jentu li acìa te cquai e de ddhai e nc’èranu tanti te quiddhi auceddhi ca se sentìa ciciiì-ciciiì-ciciiì… «Beddhi mii!» suspiràu lu Giuvanninu, «ca li fji mii puru hanu mmangiare!» Tittu attu e sse mise sparare, sai? Ppim-ppum ppam! ppim-ppum-ppam! E catìanu ddhi sangu te auceddhi, sai? Tira te cquai, tira te ddhai, ‘nsomma, lu Giuvanninu se nchìu la borsa te auceddhi, e stia cu sse nde torna ccasa, quandu, tuttu te paru, ntise la terra ca ne rimbumbava sotta lli pieti: bum! bum! bum! bum! E, quistu bum-bum, se mbicinava sempre te cchiùi. Cce ggh’èra? ggh’èra? Èranu li passi te lu Nanni Orcu, ca, sentendu sparare te luntanu, era ssutu ‘n cerca te carne umana. Quandu lu pòveru Giuvanninu se ccorse ca era lu Nanni Orcu, addhu nu’ ppotte are ca cu sse rràmpica susu ll’àrburu cchiù ertu ca nc’era. Addhai ca lu Nanni Orcu ne rriàu sotta e acìa cu sse rràmpica puru iddhu: cu rria sse lu mangia mo’. Ma era mutu crossu e scruulava sempre. Lu Giuvanninu, ddha ssusu a ddhunca stia mo’, tenìa la re rucàrica rucàrica sempre a ttirezione te lu Nanni Orcu. Ma quandu quistu tuccàu ccustàta ca nu’ llu putìa propriu zziccare lu Giuvanninu, tuttu rraggiatu pijàu ccritare: «Šcindi ca t’àggiu mmangiare! Šcindi ca t’àggiu mmangiare!» «Sì, ca era essa ess a mo’!» mo’!» li rispundìa a ttonu lu Giuvanninu, acen-
Che, nel senso di perché, ha il tono dell’uso popolare e quindi volutamente non accentato. 1
Auceddhi è dialetto di Neviano. A Collemeto si dice ceddhi .
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du ddivedère ca nu’ llu timìa. E ntorna: «Šcindi ca t’àggiu mmangiare! Šcindi ca t’àggiu mmangiare!» «Sienti, Nanni Orcu, cerca cu tte stai quetu quetu. Ca cce tte pensi? Ca iu su’ cchiù orte te tie!» «Comu sarebbe ddire ca sinti cchiù orte te mie. E anne bìsciu comu ete ca sinti cchiù orte te mie!» Lu Giuvanninu, ‘llora, cacciàu te poscia le ddo’ ove ddelessate e nne tisse: «Sta lle viti ‘ste ddo’ ddo’ palle te ferru?» «Sta lle vìsciu! sta lle vìsciu!» «Cuarda: iu azzu cu sse rùmpanu cu nna manu sula.» E nnu’ spicciàu te tire, ca le ddo ddo’’ ove ddelessate èranu già scraazzate. «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu «allora quistu è cchiù orte te mie!» E sse vutàu a llu Giuvanninu e nne tisse: «Sai cce anne? šcindi ‘llora, ca nu’ mboju tte mangiu cchiùi: acìmu pace; anzi, sciamu ccasa mia e nne acìmu na beddha mangiata.» «Parola ca nu’ mme mangi?» «Parola!» tisse lu Nanni Orcu. «Cuarda ca iu šcindu cu lla re rucàrica: r ucàrica: cu stai ccortu. E poi vòju tte vvisu te n’addha cosa, e ttiènila mmente, senò su’ guai pe’ pe’ ttie: se tieni la ventura cu mme tocchi puru cu nnu tìsciatu, te nde uli ‘ll’aria e scumpari te la acce te la terra.» «None none, nu’ tte toccu, nu’ tte toccu!» tisse lu Nanni Orcu. E ppoi ra ra de iddhu: «Sangu te cusì! quistu hae béssere cchiù orte te mie!»
gli credere di non temerlo. E di nuovo: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!» «Senti, Nanni Orco,» più deciso stavolta Giovannino «stattene quieto quieto! Ma che credi: io son più orte di te!» «Come sarebbe a dire che sei più orte di me. E ammi vedere allora come sei più orte!» A questo punto Giovannino tolse dalla tasca le due uova sode, le chiuse in un pugno e gli disse: «Le vedi queste due palle di erro?» «Le vedo, le vedo.» «Stai attento, perché io posso romperle con una mano sola.» E non nì di dire che le due uova erano già schiacciate. «Sangue di così!»2 bestemmiò Nanni Orco, «allora questo è più orte di me!» Quest’ultime parole dette sot tovoce. E si voltò verso Giovannino e gli disse: «Fai una cosa: scendi pure, acciamo la pace, non ti voglio mangiare più. Andiamo a casa mia anzi: lì ci aremo una bella mangiata.» «Parola che non mi mangi?» «Parola!» disse Nanni Orco. «Attento però, che io scendo col ucile. Ti avviso di un altro atto poi, e tienilo in mente se no saranno guai per te: se tu avessi la ventura di sorarmi sia pure p ure con un dito, prenderesti il volo e scompariresti dalla accia della terra.» «No no, non ti tocco! non ti tocco!» disse Nanni Orco. Ma poi tra sé: «Sangue di così! questo deve essere proprio più orte di me!» L’espressione nei racconti sostituiva una bestemmia. Quel “così” poteva essere Dio, la Madonna o qualche santo. Era generalmente usata dal narratore timorato di Dio che, alle prese con un discorso diretto, non se la sentiva di ripetere di pari passo una bestemmia pronunciata da un personaggio del racconto. Gli sarebbe parso di bestemmiare a sua volta. C’è da dire che se era un uomo a narrare non si aceva tanti scrupoli a volte. Se poi c’erano bambini ad ascoltare quel “così” era d’obbligo. Altre nte bestemmie che io ricordi, che della bestemmia conservava2
du ddivedère ca nu’ llu timìa. E ntorna: «Šcindi ca t’àggiu mmangiare! Šcindi ca t’àggiu mmangiare!» «Sienti, Nanni Orcu, cerca cu tte stai quetu quetu. Ca cce tte pensi? Ca iu su’ cchiù orte te tie!» «Comu sarebbe ddire ca sinti cchiù orte te mie. E anne bìsciu comu ete ca sinti cchiù orte te mie!» Lu Giuvanninu, ‘llora, cacciàu te poscia le ddo’ ove ddelessate e nne tisse: «Sta lle viti ‘ste ddo’ ddo’ palle te ferru?» «Sta lle vìsciu! sta lle vìsciu!» «Cuarda: iu azzu cu sse rùmpanu cu nna manu sula.» E nnu’ spicciàu te tire, ca le ddo ddo’’ ove ddelessate èranu già scraazzate. «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu «allora quistu è cchiù orte te mie!» E sse vutàu a llu Giuvanninu e nne tisse: «Sai cce anne? šcindi ‘llora, ca nu’ mboju tte mangiu cchiùi: acìmu pace; anzi, sciamu ccasa mia e nne acìmu na beddha mangiata.» «Parola ca nu’ mme mangi?» «Parola!» tisse lu Nanni Orcu. «Cuarda ca iu šcindu cu lla re rucàrica: r ucàrica: cu stai ccortu. E poi vòju tte vvisu te n’addha cosa, e ttiènila mmente, senò su’ guai pe’ pe’ ttie: se tieni la ventura cu mme tocchi puru cu nnu tìsciatu, te nde uli ‘ll’aria e scumpari te la acce te la terra.» «None none, nu’ tte toccu, nu’ tte toccu!» tisse lu Nanni Orcu. E ppoi ra ra de iddhu: «Sangu te cusì! quistu hae béssere cchiù orte te mie!»
gli credere di non temerlo. E di nuovo: «Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!» «Senti, Nanni Orco,» più deciso stavolta Giovannino «stattene quieto quieto! Ma che credi: io son più orte di te!» «Come sarebbe a dire che sei più orte di me. E ammi vedere allora come sei più orte!» A questo punto Giovannino tolse dalla tasca le due uova sode, le chiuse in un pugno e gli disse: «Le vedi queste due palle di erro?» «Le vedo, le vedo.» «Stai attento, perché io posso romperle con una mano sola.» E non nì di dire che le due uova erano già schiacciate. «Sangue di così!»2 bestemmiò Nanni Orco, «allora questo è più orte di me!» Quest’ultime parole dette sot tovoce. E si voltò verso Giovannino e gli disse: «Fai una cosa: scendi pure, acciamo la pace, non ti voglio mangiare più. Andiamo a casa mia anzi: lì ci aremo una bella mangiata.» «Parola che non mi mangi?» «Parola!» disse Nanni Orco. «Attento però, che io scendo col ucile. Ti avviso di un altro atto poi, e tienilo in mente se no saranno guai per te: se tu avessi la ventura di sorarmi sia pure p ure con un dito, prenderesti il volo e scompariresti dalla accia della terra.» «No no, non ti tocco! non ti tocco!» disse Nanni Orco. Ma poi tra sé: «Sangue di così! questo deve essere proprio più orte di me!» L’espressione nei racconti sostituiva una bestemmia. Quel “così” poteva essere Dio, la Madonna o qualche santo. Era generalmente usata dal narratore timorato di Dio che, alle prese con un discorso diretto, non se la sentiva di ripetere di pari passo una bestemmia pronunciata da un personaggio del racconto. Gli sarebbe parso di bestemmiare a sua volta. C’è da dire che se era un uomo a narrare non si aceva tanti scrupoli a volte. Se poi c’erano bambini ad ascoltare quel “così” era d’obbligo. Altre nte bestemmie che io ricordi, che della bestemmia conservavano il suono e l’espressione (quindi non sostanziali, inecaci ai ni del peccato) erano: Sangu te la culonna o Sangu te la matombula (invece di Madonna); oppure Mannaggia lu spiritu canuratu (al posto dello Spirito Santo); ancora Sangu te santu nuddhu (sangue di nessun santo). 2
E tutti toi te paru pijàra la s rata rata ca scia a ccasa te lu Nanni Orcu, e quistu caminava e sse tenìa luntanu te lu Giuvanninu. Ca va’ ssacci… cu nnu’ ssia ia bulare ‘ll’aria! Ma lu Giuvanninu lu tenìa sempre t’occhiu t’occhiu lu Nanni Orcu. Ca va’ va’ sacci... quiddhu a llu meju se putìa menare sse lu mangia. Quandu ca èranu ‘ppena rriati a lla casa te lu Nanni Orcu, la mujere, la Nanni Orca mo mo’,’, stia in ru ru ccasa azza servizie, quandu ntise la ndore te carne umana. Essìu te pressa e quandu vitte lu orastieru cu mmarìtusa, tisse sbabata: «Bongiornu, bon omu.» «Bongiornu, bongiornu» rispuse lu Giuvanninu cu nn’aria te omu benorte. Ma la Nanni Orca, ccustànduse a nna ricchia ric chia te lu Nanni Orcu, ne tisse cittu cittu: «Beh, iu sta mmoru te ame, maritu miu: quandu ete ca ne lu mangiamu ‘stu cristianu?» «Nu’’ ccangi mai! «Nu ma i! Pe’ Pe’ mmoi statte queta, àggi nu pocu te canza: ca quistu è cchiù orte te mie, tocca llu pijámu a ll’ampruìsa. Tie ‘ntantu cconza tàula, ca acìmu prima cu mmangia e ccu bia, e ppoi, quandu ca s’hae binchiatu bonu bonu, lu mandamu sse curca. E quandu ca sta dorme ‘n chinu ‘n chinu, ne preparamu nu beddhu carizzu.» E lla Nanni Orca giustàu tàula e tutti re re se mìsera mmangiare. Li Nanni Orchi però mangiàra picca, ca sapìanu ca a llu cramatina s’ìanu binchiare te carne umana. Ca mo’ nu’ bitìanu l’ora, no? La Nanni Orca preparàu la stanza cu ddorma lu Giuvanninu e quistu, pa refjoluspiritusantu, refjoluspiritusantu, sciu sse curca. Quandu ca se fce notte unda, lu Nanni Orcu ddišcitàu la Nanni Orca e nne tisse: «Tie va prepàra lu urnu, ca iu mo’ mo’ vau, lu azzu azzu a stozze e ccrac cramatina ne lu mangiamu beddhu beddhu.» E lla Nanni Orca te
Ed entrambi s’incamminarono per la via che portava alla casa del Nanni Orco. Costui però, a rischio di volare in aria, si teneva ben distante da Giovannino. Erano appena arrivati nei pressi della casa, che la moglie Nanni Orca, intenta alle accende domestiche, utò già l’od ore di carne umana. Per questo uscì di retta e, alla vista del orestiero, ece sorpresa: «Buongiorno, buon uomo.» «Buongiorno!» rispose Giovannino con una accia spavalda. Ma Nanni Orca, accostandosi all’orecchio del Nanni Orco, gli disse zitta zitta: «Quando ce lo mangiamo? Che io sto st o morendo di ame!» «Ma tu non cambi mai!» le sussurrò s ussurrò stizzito, «mo’ te ne stai quieta quieta. Un po’ di pazienza diamine! Sai, questo è più orte di me, e bisogna prenderlo di sorpresa! Ma tu aggiusta tavola intanto: prima lo acciamo mangiare e bere e, una volta sazio, lo manderemo a dormire. E mentre lui dorme io gli preparo… una bella carezza!» 3 E Nanni Orca approntò subito tavola e si misero tutti a mangiare. In verità i due Nanni Orchi mangiarono poco, pregustando più in là un piatto più sostanzioso a base di carne umana. Giovannino invece ne approttò perché aveva ame e, una volta sazio, si avviò a dormire nella camera approntatagli da Nanni Orca. Padregliolospiritosanto e nì a letto. Ma appena si ece notte onda, Nanni Orco svegliò Nanni Orca e le ordinò: «Tuu vai ad accendere il orno, «T orno, io intanto vado e accio a pezzi quel cristiano. Ah ah!, domattina che bella mangiata!» Che ti ece Nanni Orco? Aerrò un’accetta grossa quanto oggi e domani, entrò piano piano nel buio della camera di Giovannino e s’accostò al letto. Qui si mise a menare colpi
E tutti toi te paru pijàra la s rata rata ca scia a ccasa te lu Nanni Orcu, e quistu caminava e sse tenìa luntanu te lu Giuvanninu. Ca va’ ssacci… cu nnu’ ssia ia bulare ‘ll’aria! Ma lu Giuvanninu lu tenìa sempre t’occhiu t’occhiu lu Nanni Orcu. Ca va’ va’ sacci... quiddhu a llu meju se putìa menare sse lu mangia. Quandu ca èranu ‘ppena rriati a lla casa te lu Nanni Orcu, la mujere, la Nanni Orca mo mo’,’, stia in ru ru ccasa azza servizie, quandu ntise la ndore te carne umana. Essìu te pressa e quandu vitte lu orastieru cu mmarìtusa, tisse sbabata: «Bongiornu, bon omu.» «Bongiornu, bongiornu» rispuse lu Giuvanninu cu nn’aria te omu benorte. Ma la Nanni Orca, ccustànduse a nna ricchia ric chia te lu Nanni Orcu, ne tisse cittu cittu: «Beh, iu sta mmoru te ame, maritu miu: quandu ete ca ne lu mangiamu ‘stu cristianu?» «Nu’’ ccangi mai! «Nu ma i! Pe’ Pe’ mmoi statte queta, àggi nu pocu te canza: ca quistu è cchiù orte te mie, tocca llu pijámu a ll’ampruìsa. Tie ‘ntantu cconza tàula, ca acìmu prima cu mmangia e ccu bia, e ppoi, quandu ca s’hae binchiatu bonu bonu, lu mandamu sse curca. E quandu ca sta dorme ‘n chinu ‘n chinu, ne preparamu nu beddhu carizzu.» E lla Nanni Orca giustàu tàula e tutti re re se mìsera mmangiare. Li Nanni Orchi però mangiàra picca, ca sapìanu ca a llu cramatina s’ìanu binchiare te carne umana. Ca mo’ nu’ bitìanu l’ora, no? La Nanni Orca preparàu la stanza cu ddorma lu Giuvanninu e quistu, pa refjoluspiritusantu, refjoluspiritusantu, sciu sse curca. Quandu ca se fce notte unda, lu Nanni Orcu ddišcitàu la Nanni Orca e nne tisse: «Tie va prepàra lu urnu, ca iu mo’ mo’ vau, lu azzu azzu a stozze e ccrac cramatina ne lu mangiamu beddhu beddhu.» E lla Nanni Orca te pressa sciu cu dduma lu urnu. Cce fce lu Nanni Orcu? Pijàu na sorta te ‘ccetta crossa quantu osci-ccrai e šciu cu apre chianu chianu senza azza rumore la por-
Ed entrambi s’incamminarono per la via che portava alla casa del Nanni Orco. Costui però, a rischio di volare in aria, si teneva ben distante da Giovannino. Erano appena arrivati nei pressi della casa, che la moglie Nanni Orca, intenta alle accende domestiche, utò già l’od ore di carne umana. Per questo uscì di retta e, alla vista del orestiero, ece sorpresa: «Buongiorno, buon uomo.» «Buongiorno!» rispose Giovannino con una accia spavalda. Ma Nanni Orca, accostandosi all’orecchio del Nanni Orco, gli disse zitta zitta: «Quando ce lo mangiamo? Che io sto st o morendo di ame!» «Ma tu non cambi mai!» le sussurrò s ussurrò stizzito, «mo’ te ne stai quieta quieta. Un po’ di pazienza diamine! Sai, questo è più orte di me, e bisogna prenderlo di sorpresa! Ma tu aggiusta tavola intanto: prima lo acciamo mangiare e bere e, una volta sazio, lo manderemo a dormire. E mentre lui dorme io gli preparo… una bella carezza!» 3 E Nanni Orca approntò subito tavola e si misero tutti a mangiare. In verità i due Nanni Orchi mangiarono poco, pregustando più in là un piatto più sostanzioso a base di carne umana. Giovannino invece ne approttò perché aveva ame e, una volta sazio, si avviò a dormire nella camera approntatagli da Nanni Orca. Padregliolospiritosanto e nì a letto. Ma appena si ece notte onda, Nanni Orco svegliò Nanni Orca e le ordinò: «Tuu vai ad accendere il orno, «T orno, io intanto vado e accio a pezzi quel cristiano. Ah ah!, domattina che bella mangiata!» Che ti ece Nanni Orco? Aerrò un’accetta grossa quanto oggi e domani, entrò piano piano nel buio della camera di Giovannino e s’accostò al letto. Qui si mise a menare colpi
ta te la cambara a ddhunca sta’ ddurmìa lu Giuvanninu. ṭ rasìu rasìu a llu scuru, sciu a ttirezione te lu jettu e nne zziccàu mmenare susu corpi te ‘ccetta: tiritìnghi e tiritànghi! tiritìnghi e tiritànghi! E lle stozze se nde vulàvanu ‘ll’aria a ddhunca t’ete, ca ne catìanu puru ‘n acce. «Ah, comu sta tte lu cumbinu,» acìa tuttu cuntentu lu Nanni Orcu «sta mme dderiscu propriu. Cramatina vegnu mme ccoju tutte ‘ste beddhe stozze: acchiàtu comu n’imu n’imu binchiare!» E llassàu llass àu tuttu comu se troa e scìu sse curca. Ma se critìa, iddhu mo’, ca lu acìa essa lu Giovanninu! Lu attu oe ca quistu l’ia pensata ca lu Nanni Orcu s’ia s’ia misu quarche ppianu ‘n capu cu llu ccite. Sicché cc’ia attu? Ia pijàtu tante beddhe cucuzze ca ia ruvatu ruvatu in ra ra nnu canišcione e ll’ia giustate susu lu jettu: cu azza ccritìre mo’ mo’ ca iddhu stia intra li jettu. Poi s’ia s’ia misu cu spetta a nn angulu te la càmbara. Quandu se fce matina, lu Nanni Orcu rasìu rasìu in ru ru lla stanza cu nna canìšcia cu sse ccòja le stozze, e… nnu’ ba tte vite lu Giuvanninu, tuttu beddhu mpizzatu, ca sta sse la passaggiava? «Bongiornu,» tisse lu Nanni Orcu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi, «hai turmùtu bonu stanotte?» «Sì, sì, eccòmu! Àggiu turmùtu propriu bonu; sulamente ca a nnu beddhu mumentu m’àggiu m’àggiu sentutu rriare ‘n capu scorze te nuci.» «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu in ra ra te iddhu. «Comu, l’àggiu attu a stozze, l’àggiu attu, e quistu tice scorze te nuci? Sangu! ma quistu ‘llora è cchiù orte or te te mie!» Passàu tuttu lu giurnu. Alla sera, ntorna, mangiàra e llu Giuvanninu scìu scì u sse curca. curca . Ma a llu vutare te la l a men´zanotte, zanotte, lu l u Nanni Orcu tisse n’addha fata a lla Nanni Orca cu bàscia prepàra lu urnu pe’ pe’ llu cramatina. Tenìa Tenìa n addhu pianu ‘sta fata. Cce fce? fce? Sciu cu ppìja na rota te rappitu, rappitu, ca pisava quarche quintale, e sse mise cu lla spinge susu lle scale ca purtàvanu susu lla làmmia te la càmbara a ddhunca turmìa lu Giuvanninu. Susu ‘sta làmmia nc’era nu rabuccu rabuccu ca tia luce e cca stia propriu terittu terittu su llu jettu. Sette camise sutàu lu Nanni Orcu cu lla pozza spingìre, la rota, ddha ssusu. Aprìu ddhu sangu te rabuccu rabuccu e scurumbulàu la
d’accetta: tiritinghi e tiritanghi! tiritanghi e tiritanghi! I pezzi volavano dappertutto e gli ricadevano pure in accia. «Ah, come te lo sto combinando!» ripeteva ripet eva soddisatto Nanni Orco. Quando credette d’averlo atto in mille pezzi, lasciò la camera col proposito di tornarci non appena atto giorno. Giovannino invece non s’era atto regare, perché aveva intuito che Nanni Orco stesse architettando un piano per ucciderlo. Così aveva raccolto un bel po’ di grosse zucche e le aveva adagiate sul letto a comporre una sagoma. Poi s’era posto al riparo in un angolo della camera. E all’alba Nanni Orco varcò la stanza munito di un canestro con l’intento di riempirlo dei pezzi di carne umana. Ma quale sorpresa quando vide Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» disse Nanni Orco che non credeva ai suoi occhi. «Ma… hai dormito bene stanotte?» «Sì, sì, eccome!, ho dormito proprio bene! Solo che a una certa ora della notte mi sono sentito cadere addosso delle bucce di noci.» «Sangue di così! Come…» imprecò Nanni Orco tra sé «l’ho ridotto in pezzi e mi parla di bucce di noci. Sangue! questo allora è più orte di me!» Trascorse il giorno. A sera, dopo la cena consueta, Giovannino si ritirò nuovamente in camera. Ma, a mezzanotte, ecco Nanni Orca pronta di nuovo ad accendere il orno. Nanni Orco stavolta però aveva escogitato un altro piano. Che ti ece? Raccolse una macina in pietra di rantoio, pesantissima, e prese a spingerla sulla scala esterna che portava su al terrazzo, dove un lucernario si apriva proprio sul letto di Giovannino. Sette camicie sudò Nanni Orco per spingervi quella macina, per aprire il lucernario e scaraventarla sul letto di Giovannino. «Stavolta sì che l’ho ammazzato!» ece sicuro tra sé Nanni
In dialetto carizzu (carezza) ha un signicato ironico e tragico nello stesso tempo. Lu Signore m’ha attu ‘nu beddhu carizzu (Il Signore ci ha atto una bella carezza) a volte lo si dice in occasione di un evento tragico. 3
ta te la cambara a ddhunca sta’ ddurmìa lu Giuvanninu. ṭ rasìu rasìu a llu scuru, sciu a ttirezione te lu jettu e nne zziccàu mmenare susu corpi te ‘ccetta: tiritìnghi e tiritànghi! tiritìnghi e tiritànghi! E lle stozze se nde vulàvanu ‘ll’aria a ddhunca t’ete, ca ne catìanu puru ‘n acce. «Ah, comu sta tte lu cumbinu,» acìa tuttu cuntentu lu Nanni Orcu «sta mme dderiscu propriu. Cramatina vegnu mme ccoju tutte ‘ste beddhe stozze: acchiàtu comu n’imu n’imu binchiare!» E llassàu llass àu tuttu comu se troa e scìu sse curca. Ma se critìa, iddhu mo’, ca lu acìa essa lu Giovanninu! Lu attu oe ca quistu l’ia pensata ca lu Nanni Orcu s’ia s’ia misu quarche ppianu ‘n capu cu llu ccite. Sicché cc’ia attu? Ia pijàtu tante beddhe cucuzze ca ia ruvatu ruvatu in ra ra nnu canišcione e ll’ia giustate susu lu jettu: cu azza ccritìre mo’ mo’ ca iddhu stia intra li jettu. Poi s’ia s’ia misu cu spetta a nn angulu te la càmbara. Quandu se fce matina, lu Nanni Orcu rasìu rasìu in ru ru lla stanza cu nna canìšcia cu sse ccòja le stozze, e… nnu’ ba tte vite lu Giuvanninu, tuttu beddhu mpizzatu, ca sta sse la passaggiava? «Bongiornu,» tisse lu Nanni Orcu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi, «hai turmùtu bonu stanotte?» «Sì, sì, eccòmu! Àggiu turmùtu propriu bonu; sulamente ca a nnu beddhu mumentu m’àggiu m’àggiu sentutu rriare ‘n capu scorze te nuci.» «Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu in ra ra te iddhu. «Comu, l’àggiu attu a stozze, l’àggiu attu, e quistu tice scorze te nuci? Sangu! ma quistu ‘llora è cchiù orte or te te mie!» Passàu tuttu lu giurnu. Alla sera, ntorna, mangiàra e llu Giuvanninu scìu scì u sse curca. curca . Ma a llu vutare te la l a men´zanotte, zanotte, lu l u Nanni Orcu tisse n’addha fata a lla Nanni Orca cu bàscia prepàra lu urnu pe’ pe’ llu cramatina. Tenìa Tenìa n addhu pianu ‘sta fata. Cce fce? fce? Sciu cu ppìja na rota te rappitu, rappitu, ca pisava quarche quintale, e sse mise cu lla spinge susu lle scale ca purtàvanu susu lla làmmia te la càmbara a ddhunca turmìa lu Giuvanninu. Susu ‘sta làmmia nc’era nu rabuccu rabuccu ca tia luce e cca stia propriu terittu terittu su llu jettu. Sette camise sutàu lu Nanni Orcu cu lla pozza spingìre, la rota, ddha ssusu. Aprìu ddhu sangu te rabuccu rabuccu e scurumbulàu la rota susu lu jettu te lu Giuvanninu. «Ah, mo’ sì ca l’àggiu ccisu! Cce mmangiata ca m’àggiu are cramatina!»
d’accetta: tiritinghi e tiritanghi! tiritanghi e tiritanghi! I pezzi volavano dappertutto e gli ricadevano pure in accia. «Ah, come te lo sto combinando!» ripeteva ripet eva soddisatto Nanni Orco. Quando credette d’averlo atto in mille pezzi, lasciò la camera col proposito di tornarci non appena atto giorno. Giovannino invece non s’era atto regare, perché aveva intuito che Nanni Orco stesse architettando un piano per ucciderlo. Così aveva raccolto un bel po’ di grosse zucche e le aveva adagiate sul letto a comporre una sagoma. Poi s’era posto al riparo in un angolo della camera. E all’alba Nanni Orco varcò la stanza munito di un canestro con l’intento di riempirlo dei pezzi di carne umana. Ma quale sorpresa quando vide Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» disse Nanni Orco che non credeva ai suoi occhi. «Ma… hai dormito bene stanotte?» «Sì, sì, eccome!, ho dormito proprio bene! Solo che a una certa ora della notte mi sono sentito cadere addosso delle bucce di noci.» «Sangue di così! Come…» imprecò Nanni Orco tra sé «l’ho ridotto in pezzi e mi parla di bucce di noci. Sangue! questo allora è più orte di me!» Trascorse il giorno. A sera, dopo la cena consueta, Giovannino si ritirò nuovamente in camera. Ma, a mezzanotte, ecco Nanni Orca pronta di nuovo ad accendere il orno. Nanni Orco stavolta però aveva escogitato un altro piano. Che ti ece? Raccolse una macina in pietra di rantoio, pesantissima, e prese a spingerla sulla scala esterna che portava su al terrazzo, dove un lucernario si apriva proprio sul letto di Giovannino. Sette camicie sudò Nanni Orco per spingervi quella macina, per aprire il lucernario e scaraventarla sul letto di Giovannino. «Stavolta sì che l’ho ammazzato!» ece sicuro tra sé Nanni Orco. Giovannino invece… se ne stava ancora tranquillo, riugiato nel solito angolo.
Iddhu mo’ se critìa… Lu Giuvanninu ia sciutu, sine, sse curca, ma, cu nn occhiu ia turmùtu e ccu ll’addhu ia statu ddišcitatu. Sicché, quandu ia ntisu lu rumore te quiddha sangu te rota, s’ia misu ntorna a nn angulu te la stanza. Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu scìu sse ccòje ddha beddha carne umana, lu vitte ntorna tuttu mpizzatu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi: «Bongiornu» ne tisse. «Bongiornu, bongiornu» rispundìu lu Giuvanninu. «Beh, comu si’ statu stanotte?» «Ah, bonu bonu! sulamente ca a nnu beddhu mumentu àggiu sentùtu ‘n capu do’ scorze te nuci.» «Do’ scorze te nuci!» tisse in ra ra te iddhu lu Nanni Orcu «Sangu! n’àggiu menatu susu na rota te rappitu rappitu e sta mme cunta te scorze te nuci? Quistu ‘llora hae béssere cchiù orte te mie!» Mo’’ lu Nanni Orcu nu’ ssapìa cchiùi comu ia are cu sse mangia Mo lu Giuvanninu. Pensa e pensa: «Mo’ «Mo’ sa’ cce azzu?» tisse «Lu portu in ra ra llu boscu e bitìmu a cci è capace cu mmena n àrburu ‘n terra cu lle mane sulamente. Ca... bonu bonu, pìju n àrburu, ne lu menu susu e azzu cu mmora!» «Vo’ tte mmisuri cu mmie?» tisse lu Nanni Orcu a llu Giuvanninu «Vitìmu ci è ccapace crai cu mmena n àrburu ‘n terra te in ra ra llu boscu.» «Ca percé:» rispuse lu Giuvanninu «nu’ mme tiru rretu iu.» Ma appena se fce notte, lu Giuvanninu scìu s cìu cu nnu serrettu in ra ra llu boscu e ccuminciàu sserrare n àrburu, quiddhu ttantu però cu rresta ‘ppena ‘ppena tisu. Poi fce do’ busci a llu roncu roncu quantu nu tìsciatu e lli inchìu te ricotta. A llu crai cra i se a´zara zara prestu tutti tu tti toi cu banu ba nu in ra ra llu boscu, e llu Giuvanninu ne rripetìu ntorna a llu ll u Nanni Orcu cu stèscia ttentu e ccu ccamina luntanu te iddhu: se no acchiàtu a ddhu se nde vulava. Rriati ca ora a llu boscu, lu Giuvanninu se mise nnanzi ll’àrburu ca ia serratu, e nne tisse a llu Nanni Orcu: «Vo’ tte azzu biti ca ‘st’àrburu azzu ccàscia ‘n terra cu do’ tìscia-
Quando, attosi giorno, Nanni Orco tornò in camera per portarsi via la sospirata carne umana, non credette ai suoi occhi quando vide di nuovo Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» gli disse. «Buongiorno, buongiorno!» ebbe per tutta risposta. «Ma… come hai dormito stanotte?» «Bene, bene: giusto a una certa ora della notte mi sono sentito cadere in testa delle bucce di noci.» «Bucce di noci!» ece tra sé Nanni Orco «Sangue!… una macina di rantoio... e quello mi parla di bucce di noci! Questo allora è più orte di me!» Mo’ Nanni Nanni Orco non sapeva più che piano inventarsi. Pensa e ripensa… «Sai che accio?» si disse «lo porto nel bosco e lo sdo ad abbattere un albero con le sole mani. Così, sul più bello, gli scaravento l’albero addosso e lo accio morire!» «Vuoi «V uoi misurarti con me?» propose Nanni Orco a Giovannino. «Vediamo chi è più bravo domani ad abbattere un albero del bosco con le sole mani.» «Non mi tiro indietro!» pronto Giovannino. Ma appena si ece notte, Giovannino si munì di una sega e si recò nel bosco. Qui scelse un tronco d’albero e lo segò in basso, ma quel tanto da consentirgli di tenersi ancora in piedi. Poi praticò due buchi proondi sul tronco, giusto per inlarci due dita, e li riempì di ricotta. S’alzarono presto il giorno dopo e, sulla via per il bosco, Giovannino non si stancò di ripetere a Nanni Orco di tenersi sempre distante da lui, a rischio di spiccare il volo e perdersi in aria. Giunti che urono nel bosco, Giovannino prese posto davanti all’albero già segato e disse diss e a Nanni Orco: «Vuoi vedere che quest’albero lo accio cadere a terra spingendolo con due sole dita?»
Iddhu mo’ se critìa… Lu Giuvanninu ia sciutu, sine, sse curca, ma, cu nn occhiu ia turmùtu e ccu ll’addhu ia statu ddišcitatu. Sicché, quandu ia ntisu lu rumore te quiddha sangu te rota, s’ia misu ntorna a nn angulu te la stanza. Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu scìu sse ccòje ddha beddha carne umana, lu vitte ntorna tuttu mpizzatu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi: «Bongiornu» ne tisse. «Bongiornu, bongiornu» rispundìu lu Giuvanninu. «Beh, comu si’ statu stanotte?» «Ah, bonu bonu! sulamente ca a nnu beddhu mumentu àggiu sentùtu ‘n capu do’ scorze te nuci.» «Do’ scorze te nuci!» tisse in ra ra te iddhu lu Nanni Orcu «Sangu! n’àggiu menatu susu na rota te rappitu rappitu e sta mme cunta te scorze te nuci? Quistu ‘llora hae béssere cchiù orte te mie!» Mo’’ lu Nanni Orcu nu’ ssapìa cchiùi comu ia are cu sse mangia Mo lu Giuvanninu. Pensa e pensa: «Mo’ «Mo’ sa’ cce azzu?» tisse «Lu portu in ra ra llu boscu e bitìmu a cci è capace cu mmena n àrburu ‘n terra cu lle mane sulamente. Ca... bonu bonu, pìju n àrburu, ne lu menu susu e azzu cu mmora!» «Vo’ tte mmisuri cu mmie?» tisse lu Nanni Orcu a llu Giuvanninu «Vitìmu ci è ccapace crai cu mmena n àrburu ‘n terra te in ra ra llu boscu.» «Ca percé:» rispuse lu Giuvanninu «nu’ mme tiru rretu iu.» Ma appena se fce notte, lu Giuvanninu scìu s cìu cu nnu serrettu in ra ra llu boscu e ccuminciàu sserrare n àrburu, quiddhu ttantu però cu rresta ‘ppena ‘ppena tisu. Poi fce do’ busci a llu roncu roncu quantu nu tìsciatu e lli inchìu te ricotta. A llu crai cra i se a´zara zara prestu tutti tu tti toi cu banu ba nu in ra ra llu boscu, e llu Giuvanninu ne rripetìu ntorna a llu ll u Nanni Orcu cu stèscia ttentu e ccu ccamina luntanu te iddhu: se no acchiàtu a ddhu se nde vulava. Rriati ca ora a llu boscu, lu Giuvanninu se mise nnanzi ll’àrburu ca ia serratu, e nne tisse a llu Nanni Orcu: «Vo’ tte azzu biti ca ‘st’àrburu azzu ccàscia ‘n terra cu do’ tìsciate?» «Vane! vane! Cce sta’ mme tici? Mo’ sta’ bindi ràpule!» ràpule!» «Statte 'ttentu ‘llora.»
Quando, attosi giorno, Nanni Orco tornò in camera per portarsi via la sospirata carne umana, non credette ai suoi occhi quando vide di nuovo Giovannino tutto bello in piedi. «Buongiorno!» gli disse. «Buongiorno, buongiorno!» ebbe per tutta risposta. «Ma… come hai dormito stanotte?» «Bene, bene: giusto a una certa ora della notte mi sono sentito cadere in testa delle bucce di noci.» «Bucce di noci!» ece tra sé Nanni Orco «Sangue!… una macina di rantoio... e quello mi parla di bucce di noci! Questo allora è più orte di me!» Mo’ Nanni Nanni Orco non sapeva più che piano inventarsi. Pensa e ripensa… «Sai che accio?» si disse «lo porto nel bosco e lo sdo ad abbattere un albero con le sole mani. Così, sul più bello, gli scaravento l’albero addosso e lo accio morire!» «Vuoi «V uoi misurarti con me?» propose Nanni Orco a Giovannino. «Vediamo chi è più bravo domani ad abbattere un albero del bosco con le sole mani.» «Non mi tiro indietro!» pronto Giovannino. Ma appena si ece notte, Giovannino si munì di una sega e si recò nel bosco. Qui scelse un tronco d’albero e lo segò in basso, ma quel tanto da consentirgli di tenersi ancora in piedi. Poi praticò due buchi proondi sul tronco, giusto per inlarci due dita, e li riempì di ricotta. S’alzarono presto il giorno dopo e, sulla via per il bosco, Giovannino non si stancò di ripetere a Nanni Orco di tenersi sempre distante da lui, a rischio di spiccare il volo e perdersi in aria. Giunti che urono nel bosco, Giovannino prese posto davanti all’albero già segato e disse diss e a Nanni Orco: «Vuoi vedere che quest’albero lo accio cadere a terra spingendolo con due sole dita?» «Va’ «V a’ va’! va’! ma che dici: tu mi vendi rottole!» «E guarda allora.» Detto atto. Giovannino ccò le dita nei buchi pieni di ricotta, una leggera spinta e l’albero cadde.
E llu Giuvanninu nflàu do do’’ tisciate in ra ra lli busci chini te ricotta e, quantu pare ca ne tese na spinta, e ll’àrburu catìu. «Sangu te cusì!» tisse lu Nanni Orcu «Ca quistu è cchiù orte te mie!» E ccusì se nde turnàra ccasa. cca sa. Lu bellu ca la Nanni Orca, lu stessu ca piace, ia preparatu lu urnu cu sse rrùstanu lu Giuvanninu e quandu li vitte rriare tutti toi rimase cu ttantu te cannarozzu. «Acquai nu’ sse pote are gnenzi,» ne tisse cittu cittu lu Nanni Orcu a lla Nanni Orca «quistu è cchiù orte te mie!» E passàvane li giurni e llu Giuvanninu pensava sempre a lli fji soi ca sta’ mmurìane te ame e a lla mujère soa ca stia in ra ra nnu undu te jettu. Mo’ nu’ ssapìa comu ia are cu sse la squàja te lu Nanni Orcu. Pensa e pensa, alla fne ne vinne ‘n capu nu pianu. Nc’era Nc ’era nnanzi ccasa te lu Nanni Orcu na palla te ferru ca pisava ci sape quanti quintali. Cce fce? Se piazzàu nnanzi ddha palla e ccuminciàu a critare menandu le razze ‘ll’aria: «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stàu cu ttoccu cu nnu tìsciatu ‘sta palla te feeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» Lu Nanni Orcu ntise. «Ma cce sta ccrita?» tisse «Vo’ «Vo’ tte azzu biti ca sta mme cumbina n’addha n’addha te le soe? Assa cu ba bìsciu, cu nnu’ ssia me mena quarche addhu cazzunculu.» Quandu scìu e llu vitte nnanzi ddha sangu te palla: «‘Nsomma se po’’ capire percé sta’ ccriti?» ne tisse. E llu Giuvanninu ntorna: po «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stau cu toccu cu nu tìsciatu ‘sta palla te feeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» «None none! statte quetu! pe’ ll’amore te Ddiu!» Ma nu’ nc’era gnenzi te are: lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare cristiani te cquai e cristiani te ddhai. «Pe’ ll’amore te Ddiu! pe’ ll’amore te Ddiu!» nsistìa lu Nanni Orcu
«Sangue di così! questo è più orte di me!» tra sé Nanni Orco. E così se ne tornarono a casa. Il bello u che Nanni Orca anche stavolta non aveva mancato di accendere il orno per arrostire Giovannino. Per questo, vedendoli tutti e due di ritorno, rimase con tanto di naso. «Qui non c’è niente da are!» le disse Nanni Orco in un orecchio, «Questo è più orte di me!» Passavano i giorni e Giovannino pensava sempre ai gli suoi che morivano di ame e alla povera moglie che stava ammalata in un ondo di letto. Voleva uggire da Nanni Orco, ma per il momento doveva essere prudente, aveva bisogno di un piano. Pensa e ripensa alla ne ebbe un’idea. V’era nei pressi della casa del Nanni Orco una grossa palla di erro. Che ti ece? Si piazzò davanti alla palla e si mise a gridare acendo grandi gesti: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di eeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» Nanni Orco intese. «Ma che grida!» disse. «Stai a vedere che vuol combinarmi un’altra delle sue? Fammi andare a vedere, ché quello mi vuol mettere qualche altro cavolo in culo.» Così si avvicinò a Giovannino, ma questi continuava imperterrito a gridare. «Si può capire perché gridi?» disse Nanni Orco. Ma Giovannino non smetteva: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di eeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» «No no, cristiano mio, per l’amore di Dio, non toccarmi quella palla di erro! lascia stare! ermo! ermo! che può cadere
E llu Giuvanninu nflàu do do’’ tisciate in ra ra lli busci chini te ricotta e, quantu pare ca ne tese na spinta, e ll’àrburu catìu. «Sangu te cusì!» tisse lu Nanni Orcu «Ca quistu è cchiù orte te mie!» E ccusì se nde turnàra ccasa. cca sa. Lu bellu ca la Nanni Orca, lu stessu ca piace, ia preparatu lu urnu cu sse rrùstanu lu Giuvanninu e quandu li vitte rriare tutti toi rimase cu ttantu te cannarozzu. «Acquai nu’ sse pote are gnenzi,» ne tisse cittu cittu lu Nanni Orcu a lla Nanni Orca «quistu è cchiù orte te mie!» E passàvane li giurni e llu Giuvanninu pensava sempre a lli fji soi ca sta’ mmurìane te ame e a lla mujère soa ca stia in ra ra nnu undu te jettu. Mo’ nu’ ssapìa comu ia are cu sse la squàja te lu Nanni Orcu. Pensa e pensa, alla fne ne vinne ‘n capu nu pianu. Nc’era Nc ’era nnanzi ccasa te lu Nanni Orcu na palla te ferru ca pisava ci sape quanti quintali. Cce fce? Se piazzàu nnanzi ddha palla e ccuminciàu a critare menandu le razze ‘ll’aria: «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stàu cu ttoccu cu nnu tìsciatu ‘sta palla te feeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» Lu Nanni Orcu ntise. «Ma cce sta ccrita?» tisse «Vo’ «Vo’ tte azzu biti ca sta mme cumbina n’addha n’addha te le soe? Assa cu ba bìsciu, cu nnu’ ssia me mena quarche addhu cazzunculu.» Quandu scìu e llu vitte nnanzi ddha sangu te palla: «‘Nsomma se po’’ capire percé sta’ ccriti?» ne tisse. E llu Giuvanninu ntorna: po «Cristiani te quistu mundu e de quiddhaaàddhu... scansaaàtive... rriparàtive a nn angulu te caaàsa... stau cu toccu cu nu tìsciatu ‘sta palla te feeèrru... stàtive tteeènti... mo’ se nde vula ‘ll’aaària... e ba ccate a quarche paaàrte!» «None none! statte quetu! pe’ ll’amore te Ddiu!» Ma nu’ nc’era gnenzi te are: lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare cristiani te cquai e cristiani te ddhai. «Pe’ ll’amore te Ddiu! pe’ ll’amore te Ddiu!» nsistìa lu Nanni Orcu «Nu’ mme tuccare quiddha palla te ferru! làssala stare! ermu, ermu! cu nnu’ ssia va nne cate ‘n capu!» Ma lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare.
«Sangue di così! questo è più orte di me!» tra sé Nanni Orco. E così se ne tornarono a casa. Il bello u che Nanni Orca anche stavolta non aveva mancato di accendere il orno per arrostire Giovannino. Per questo, vedendoli tutti e due di ritorno, rimase con tanto di naso. «Qui non c’è niente da are!» le disse Nanni Orco in un orecchio, «Questo è più orte di me!» Passavano i giorni e Giovannino pensava sempre ai gli suoi che morivano di ame e alla povera moglie che stava ammalata in un ondo di letto. Voleva uggire da Nanni Orco, ma per il momento doveva essere prudente, aveva bisogno di un piano. Pensa e ripensa alla ne ebbe un’idea. V’era nei pressi della casa del Nanni Orco una grossa palla di erro. Che ti ece? Si piazzò davanti alla palla e si mise a gridare acendo grandi gesti: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di eeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» Nanni Orco intese. «Ma che grida!» disse. «Stai a vedere che vuol combinarmi un’altra delle sue? Fammi andare a vedere, ché quello mi vuol mettere qualche altro cavolo in culo.» Così si avvicinò a Giovannino, ma questi continuava imperterrito a gridare. «Si può capire perché gridi?» disse Nanni Orco. Ma Giovannino non smetteva: «Uomini di questo mondo e di quell’aaàltro... scansaaàtevi... riparatevi a un angolo di caaàsa... sto per toccare con un dito questa palla di eeèrro... state atteeènti... adesso prende il vooòlo... va a cadere da qualche paaàrte!» «No no, cristiano mio, per l’amore di Dio, non toccarmi quella palla di erro! lascia stare! ermo! ermo! che può cadere in testa a noi.» Ma Giovannino non sentiva ragioni. Alla ne Nanni Orco:
«Sièntime cquai, sièntime cquai» risulvìu allora lu Nanni Orcu. «Vòju tte tau nu caricu te sordi: basta ca te nde vai. Te tau nu ciucciu e ddo d do’’ visazze chine chi ne chine te tucati t’oru. Vane Vane e nnu’ atte cchiùi bitìre: ca tie quantu cchiùi stai cquai, cchiùi me minti in ru ru lli perìculi.» E llu Giuvanninu ippe lu ciucciu cu le do’ visazze chine te oru, ma, prima cu pparta, tisse a llu Nanni Orcu: «Iu sta mme nde vau, ma nu’ ppozzu salire susu llu ciucciu, senò se nde vula. Vole Vole tire ca iu caminu ‘ll’ampete e llu ciucciu te coste.» Salutàu lu Nanni Orcu e lla Nanni Orca e partìu. Quantu ca fce nu pocu te s rata, r ata, poi, sicuru ca nu’ llu vitìa cchiui nišciunu, pijàu e mmuntàu susu lu ciucciu. E uci ccasa cca sa mo’! mo’! Lu Nanni Orcu però già s’ia attu pentutu te tutti quiddhi sordi ca n’ia tatu. Nu ss’ia datu pe’ vintu ‘ncora. «Cilaccriatu! tocca llu zzaccu!» tisse, e sse mise mmarciare cu llu rria. Addhai ca lu Giuvanninu men re re sta ruttava ruttava cu llu ciucciu sciu ba ssente: bum! bum! bum! bum! «Sangu te ddhu porcu!» tisse «Lu Nanni Orcu sta mme sècuta!» Cusì šcise te lu ciucciu, lu pijàu, lu scuse a rretu a nnu cozzu e se mise ccuardare ‘ll’aria pe’ fnta. Rriàu lu Nanni Orcu e vitte lu Giuvanninu senza ciucciu e cca sta ccuardava ‘ll’aria. «Ma se po’ ccapire cce gh’ete ca sta’ ccuardi?» ne tisse lu Nanni Orcu. «Na! è successu ca senza mmancu cu mme ddunu, àggiu tuccatu lu ciucciu cu nnu tìsciatu e quiddhu se nd’è bulatu ‘ll’aria cu ttutte le visazze. Sta ccuardu ci pe’ ccasu lu vìsciu šcindire a quarche parte.» «Sangu te cusì!» tisse ra ra de iddhu lu Nanni Orcu. «Acquai è mmeju cu mme nde vau, cu nnu’ ssia quiddhu ci va mme tocca cu nnu tìsciatu me ace cu mme nde ulu ll’aria comu lu ciucciu!» E ‘sta fata, lu Nanni Orcu se nde turnàu rretu senza nuddha speranza cchiùi cu sse mangia lu Giuvanninu. E llu Giuvanninu, angrazieteddiu, putìu turnare ccasa soa, ma,
«Stammi a sentire:» gli disse «ti darò un asino con due basti carichi di ducati d’oro, ma voglio che te ne vai! E non arti vedere mai più, perché tu, se continui a star qui, non arai che mettermi nei pericoli.» E Giovannino ebbe l’asino e i due basti carichi di ducati d’oro, ma, prima di mettersi in viaggio, disse al Nanni Orco: «Io me ne vado, ma non monterò sull’asino perché tu sai che, se malauguratamente lo toccassi sia pure con un dito, quello prenderebbe il volo. Farò la strada a piedi quindi, a distanza dall’asino.» Poi salutò i due Nanni Orchi e se ne partì. Ma, atta un po’ di strada, sicuro di non essere più visto, montò sull’asino e... trotta e trotta verso casa mo’!» Nanni Orco però, nel rattempo, s’era pentito della sua generosità e decise di mettersi in marcia per raggiungere Giovannino. Lì che questi, trottando sull’asino, ti andò a sentire di nuovo bum! bum! bum! bum! «Sangue di quel porco!» imprecò «È Nanni Orco!» Scese subito dall’asino allora, lo nascose dietro a un grosso masso e poi prese a ar nta di guardare in aria. Qui che sopraggiunse Nanni Orco: «Si può capire cosa stai guardando?» chiese a Giovannino. «Purtroppo senza avvedermi ho toccato l’asino con un dito ed è sparito in aria con tutte le bisacce. Guardo nella speranza di vederlo cadere da qualche parte.» «Sangue di così!» disse tra sé Nanni Orco «se questo mi toc ca con un dito, mi a are la ne dell’asino!» E si allontanò, e questa volta per sempre. E, ingraziadiddio, Giovannino ece nalmente ritorno a casa dove trovò la moglie e i gli più morti che vivi. Ma quando vuotò le bisacce cariche di ducati d’oro, dovevi vederli tutti saltare di gioia. Così Giovannino chiamò i gli suoi e, a ognuno dando dei soldi, ordinò:
«Sièntime cquai, sièntime cquai» risulvìu allora lu Nanni Orcu. «Vòju tte tau nu caricu te sordi: basta ca te nde vai. Te tau nu ciucciu e ddo d do’’ visazze chine chi ne chine te tucati t’oru. Vane Vane e nnu’ atte cchiùi bitìre: ca tie quantu cchiùi stai cquai, cchiùi me minti in ru ru lli perìculi.» E llu Giuvanninu ippe lu ciucciu cu le do’ visazze chine te oru, ma, prima cu pparta, tisse a llu Nanni Orcu: «Iu sta mme nde vau, ma nu’ ppozzu salire susu llu ciucciu, senò se nde vula. Vole Vole tire ca iu caminu ‘ll’ampete e llu ciucciu te coste.» Salutàu lu Nanni Orcu e lla Nanni Orca e partìu. Quantu ca fce nu pocu te s rata, r ata, poi, sicuru ca nu’ llu vitìa cchiui nišciunu, pijàu e mmuntàu susu lu ciucciu. E uci ccasa cca sa mo’! mo’! Lu Nanni Orcu però già s’ia attu pentutu te tutti quiddhi sordi ca n’ia tatu. Nu ss’ia datu pe’ vintu ‘ncora. «Cilaccriatu! tocca llu zzaccu!» tisse, e sse mise mmarciare cu llu rria. Addhai ca lu Giuvanninu men re re sta ruttava ruttava cu llu ciucciu sciu ba ssente: bum! bum! bum! bum! «Sangu te ddhu porcu!» tisse «Lu Nanni Orcu sta mme sècuta!» Cusì šcise te lu ciucciu, lu pijàu, lu scuse a rretu a nnu cozzu e se mise ccuardare ‘ll’aria pe’ fnta. Rriàu lu Nanni Orcu e vitte lu Giuvanninu senza ciucciu e cca sta ccuardava ‘ll’aria. «Ma se po’ ccapire cce gh’ete ca sta’ ccuardi?» ne tisse lu Nanni Orcu. «Na! è successu ca senza mmancu cu mme ddunu, àggiu tuccatu lu ciucciu cu nnu tìsciatu e quiddhu se nd’è bulatu ‘ll’aria cu ttutte le visazze. Sta ccuardu ci pe’ ccasu lu vìsciu šcindire a quarche parte.» «Sangu te cusì!» tisse ra ra de iddhu lu Nanni Orcu. «Acquai è mmeju cu mme nde vau, cu nnu’ ssia quiddhu ci va mme tocca cu nnu tìsciatu me ace cu mme nde ulu ll’aria comu lu ciucciu!» E ‘sta fata, lu Nanni Orcu se nde turnàu rretu senza nuddha speranza cchiùi cu sse mangia lu Giuvanninu. E llu Giuvanninu, angrazieteddiu, putìu turnare ccasa soa, ma, a llu rasire rasire ca fce ccasa, ruvàu ruvàu la mujère e lli fji cchiù mmorti ca bii. Ma quandu aprìu le visazze e fce cu bìscianu tutti quiddhi tucati t’oru, rate miu! l’ii bitire cumu sartàvanu pe’ lla
«Stammi a sentire:» gli disse «ti darò un asino con due basti carichi di ducati d’oro, ma voglio che te ne vai! E non arti vedere mai più, perché tu, se continui a star qui, non arai che mettermi nei pericoli.» E Giovannino ebbe l’asino e i due basti carichi di ducati d’oro, ma, prima di mettersi in viaggio, disse al Nanni Orco: «Io me ne vado, ma non monterò sull’asino perché tu sai che, se malauguratamente lo toccassi sia pure con un dito, quello prenderebbe il volo. Farò la strada a piedi quindi, a distanza dall’asino.» Poi salutò i due Nanni Orchi e se ne partì. Ma, atta un po’ di strada, sicuro di non essere più visto, montò sull’asino e... trotta e trotta verso casa mo’!» Nanni Orco però, nel rattempo, s’era pentito della sua generosità e decise di mettersi in marcia per raggiungere Giovannino. Lì che questi, trottando sull’asino, ti andò a sentire di nuovo bum! bum! bum! bum! «Sangue di quel porco!» imprecò «È Nanni Orco!» Scese subito dall’asino allora, lo nascose dietro a un grosso masso e poi prese a ar nta di guardare in aria. Qui che sopraggiunse Nanni Orco: «Si può capire cosa stai guardando?» chiese a Giovannino. «Purtroppo senza avvedermi ho toccato l’asino con un dito ed è sparito in aria con tutte le bisacce. Guardo nella speranza di vederlo cadere da qualche parte.» «Sangue di così!» disse tra sé Nanni Orco «se questo mi toc ca con un dito, mi a are la ne dell’asino!» E si allontanò, e questa volta per sempre. E, ingraziadiddio, Giovannino ece nalmente ritorno a casa dove trovò la moglie e i gli più morti che vivi. Ma quando vuotò le bisacce cariche di ducati d’oro, dovevi vederli tutti saltare di gioia. Così Giovannino chiamò i gli suoi e, a ognuno dando dei soldi, ordinò: «Tu to’! vai a comprare il pane; tu to’! vai a comprare la mortadella; tu to’! compra un’aringa; tu to’! le noccioline; tu
cuntentezza. E llu Giuvanninu chiamàu li fji, e a unu a unu li cumandàu: «Tieni ‘sti sordi tie! vane e ccatta lu pane; tie na! vane e ccatta la murtatella, tie ccatta na ringa, tie pija to’ nuceddhe, tie li portacalli, tie la ggiocculata, tie nu beddhu li ru r u te vinu, tie l’òju. E sbricàtive: ca te osci nnanzi in ru ru ‘sta casa la ame nu’ ss’hae mancu nnominare! E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu nu’’ ìppime gnenzi. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.
to’! le arance; tu to’! la cioccolata; tu to’! un bel litro di vino; tu to’! to’! l’olio; tu to’! to’! questo e tu to’! to’! quest’altro. E sbrigatevi, che d’ora innanzi in questa casa la ame non si deve neppure nominare!» E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti. Se volete un altro atto, datemi un tarallo.4
cuntentezza. E llu Giuvanninu chiamàu li fji, e a unu a unu li cumandàu: «Tieni ‘sti sordi tie! vane e ccatta lu pane; tie na! vane e ccatta la murtatella, tie ccatta na ringa, tie pija to’ nuceddhe, tie li portacalli, tie la ggiocculata, tie nu beddhu li ru r u te vinu, tie l’òju. E sbricàtive: ca te osci nnanzi in ru ru ‘sta casa la ame nu’ ss’hae mancu nnominare! E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu nu’’ ìppime gnenzi. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.
to’! le arance; tu to’! la cioccolata; tu to’! un bel litro di vino; tu to’! to’! l’olio; tu to’! to’! questo e tu to’! to’! quest’altro. E sbrigatevi, che d’ora innanzi in questa casa la ame non si deve neppure nominare!» E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti. Se volete un altro atto, datemi un tarallo.4
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In dialetto ‘altro’ e ‘tarallo’ ( addhu e taraddhu) anno rima.
uiddhu te te La La crapa Q uiddhu
Nc’era una ca se chiamava Maria e ia pparturìre. Allora ne tisse lu maritu: «Nu’ è bonu cu nne ccattamu na crapa ca ace latte pe’ quandu našce lu vagnone?» «Mmm… e scia’ ccattàmune la crapa!» tisse la mujère. E ccusì ccattàra la crapa. La crapa criscìu e rriàu lu latte: beddha, cu lli crapetti soi, no? Nc’era nu mònicu picozzu ca passava sempre te casa te la Maria pe’’ la limòsina, quandu ca vitte ddha sangu te crapa. pe «Ah!» tisse ra ra de iddhu, «ddha capra è bona propriu pe’ llu pa re re cuardianu.» «Nu’’ mme aci la limòsina?» ne tisse ‘ntàntu a lla Maria. «Nu «Sine na!» tisse la Maria. E nne tese do’ beddhe rise, rische nurnate, e nnu pocu te pummitori. Allora, quandu ca se fce notte, lu picozzu sciu e rrubàu la crapa, sai? Lu maritu, la matina, se nd’ia sciutu prestu ore cu atica, e nnu’ ssia ccortu ca nu’ nc’era nc’era cchiùi la crapa. Ca va’ ssacci! Bah…quandu è tturnatu: «Ah!» tisse la Maria «maritu miu, n’hanu pijatu la crapa!» «Ci è ppassatu ieri te cquai?» «Na! lu picozzu sulamente è ppassatu, e nn’àggiu attu la limòsina.» «Eh,» tisse lu maritu «viddhu se l’hae pijata!» «Nooòne,» tisse iddha «nu’ pput’èssere. pput’èssere. «Siiìne, lu picozzu se l’ha ppijata: tanne retta a mmie! Vo Vo’ tte azzu biti ca se l’hae pijata pe’ llu pa re re cuardianu? Ca quiddhu ete unu ca vole stae spurdacchiatu. Mo Mo’’ te azzu biti mo’!» Allora, a llu cramatina, se mise ‘n viàggiu pe pe’’ llu cumentu. Rriàu, Rri àu, pijàu te lu sciardinu te la manu te retu, no? se nacciàu te in ru ru e bitte la pelle te la crapa soa mpisa ‘llu sole cu ssicca… Ca la pelle
Quello della capra
Era una che si chiamava Maria ed era in attesa di un bambino. Allora il marito le disse: «Non sarà bene procurarci una capra per il bambino? Ci sarà bisogno di latte.» «Ùmh, e compriamoci pure la capra!» rispose la moglie. E così si comprarono la capra. Capra che diventò bella g rossa, bella con i suoi capretti, no? e che aceva tanto bel latte. Successe che un monaco cercantino, 5 che passava da casa della Maria per la questua, notò quella caspita di capra. «Ah!» disse tra sé «questa capra è proprio buona per il padre guardiano.» «Non mi ai l’elemosina?» chiese intanto alla Maria. «Sì, to’!» disse la Maria. E gli porse due belle rise6 inornate da poco insieme con una manciata di pomodori. Ma venne la notte e il rate cercantino andò a rubare la capra della Maria, sai? Il marito mo’ s’era levato presto per andare in campagna e non s’era avveduto del urto. Ma quando a sera rientrò dalla atica, la Maria gli corse subito incontro e: «Ah!» gridò «marito mio, la capra ci hanno rubato!» «Chi è passato ieri di qua?» «Il rate cercantino è passato: gli ho atto un po’ d’elemosina.» «Eh,» disse il marito «il rate se l’è presa!» «Nooò,» disse lei «non può essere!» «Siiì, se l’è presa, il rate se l’è presa, dài retta a me! L’ha rubata sicuramente per il padre guardiano, che è uno che se ne sta sempre a pancia piena. Mo’ gli accio vedere io!» L’indomani, il marito corse al convento e, giunto sotto il muro di cinta, vi s’arrampicò per aacciarsi sul giardino. E che ti vide? La pelle della capra sua stesa nel bel mezzo al sole ad asciugare. Capì che i monaci, una volta mangiata la capra, si sarebbero venduti pure la pelle.
uiddhu te te La La crapa Q uiddhu
Quello della capra
Nc’era una ca se chiamava Maria e ia pparturìre. Allora ne tisse lu maritu: «Nu’ è bonu cu nne ccattamu na crapa ca ace latte pe’ quandu našce lu vagnone?» «Mmm… e scia’ ccattàmune la crapa!» tisse la mujère. E ccusì ccattàra la crapa. La crapa criscìu e rriàu lu latte: beddha, cu lli crapetti soi, no? Nc’era nu mònicu picozzu ca passava sempre te casa te la Maria pe’’ la limòsina, quandu ca vitte ddha sangu te crapa. pe «Ah!» tisse ra ra de iddhu, «ddha capra è bona propriu pe’ llu pa re re cuardianu.» «Nu’’ mme aci la limòsina?» ne tisse ‘ntàntu a lla Maria. «Nu «Sine na!» tisse la Maria. E nne tese do’ beddhe rise, rische nurnate, e nnu pocu te pummitori. Allora, quandu ca se fce notte, lu picozzu sciu e rrubàu la crapa, sai? Lu maritu, la matina, se nd’ia sciutu prestu ore cu atica, e nnu’ ssia ccortu ca nu’ nc’era nc’era cchiùi la crapa. Ca va’ ssacci! Bah…quandu è tturnatu: «Ah!» tisse la Maria «maritu miu, n’hanu pijatu la crapa!» «Ci è ppassatu ieri te cquai?» «Na! lu picozzu sulamente è ppassatu, e nn’àggiu attu la limòsina.» «Eh,» tisse lu maritu «viddhu se l’hae pijata!» «Nooòne,» tisse iddha «nu’ pput’èssere. pput’èssere. «Siiìne, lu picozzu se l’ha ppijata: tanne retta a mmie! Vo Vo’ tte azzu biti ca se l’hae pijata pe’ llu pa re re cuardianu? Ca quiddhu ete unu ca vole stae spurdacchiatu. Mo Mo’’ te azzu biti mo’!» Allora, a llu cramatina, se mise ‘n viàggiu pe pe’’ llu cumentu. Rriàu, Rri àu, pijàu te lu sciardinu te la manu te retu, no? se nacciàu te in ru ru e bitte la pelle te la crapa soa mpisa ‘llu sole cu ssicca… Ca la pelle poi se l’ìanu buta bindìre puru!
Era una che si chiamava Maria ed era in attesa di un bambino. Allora il marito le disse: «Non sarà bene procurarci una capra per il bambino? Ci sarà bisogno di latte.» «Ùmh, e compriamoci pure la capra!» rispose la moglie. E così si comprarono la capra. Capra che diventò bella g rossa, bella con i suoi capretti, no? e che aceva tanto bel latte. Successe che un monaco cercantino, 5 che passava da casa della Maria per la questua, notò quella caspita di capra. «Ah!» disse tra sé «questa capra è proprio buona per il padre guardiano.» «Non mi ai l’elemosina?» chiese intanto alla Maria. «Sì, to’!» disse la Maria. E gli porse due belle rise6 inornate da poco insieme con una manciata di pomodori. Ma venne la notte e il rate cercantino andò a rubare la capra della Maria, sai? Il marito mo’ s’era levato presto per andare in campagna e non s’era avveduto del urto. Ma quando a sera rientrò dalla atica, la Maria gli corse subito incontro e: «Ah!» gridò «marito mio, la capra ci hanno rubato!» «Chi è passato ieri di qua?» «Il rate cercantino è passato: gli ho atto un po’ d’elemosina.» «Eh,» disse il marito «il rate se l’è presa!» «Nooò,» disse lei «non può essere!» «Siiì, se l’è presa, il rate se l’è presa, dài retta a me! L’ha rubata sicuramente per il padre guardiano, che è uno che se ne sta sempre a pancia piena. Mo’ gli accio vedere io!» L’indomani, il marito corse al convento e, giunto sotto il muro di cinta, vi s’arrampicò per aacciarsi sul giardino. E che ti vide? La pelle della capra sua stesa nel bel mezzo al sole ad asciugare. Capì che i monaci, una volta mangiata la capra, si sarebbero venduti pure la pelle. Un rate incaricato di are la questua per il convento. È un pane tostato a orma di ciambella, ma senza buco, caratteristico del Salento. 5 6
«Aaah! be l’iti scurciata e be l’iti mangiata, ah? Àggiu are cu be saccia beddha sapurita! Bah, mo mo’’ be ggiustu iu!» Quistu era cristianu ca nde sapìa cchiù iddhu te lu tiàvulu. Cce fce ‘llora? Se vestìu te signurina e, quandu ca scurìu, sciu e sse presentàu a llu cumentu. Tuzzàu e nne aprìu nu monicu, ca… quandu vitte ddha signurina, rimase cu ttanta te ucca perta… Ca quandu mai s’ia vista na emmana cu ttuzza te notte a llu cumentu? «Sta begnu te luntanu, s’hae atta notte e mm mm’àggiu ’àggiu persa in ra ra ‘ste ripe» tisse la signurina. «Tàtime nu jettu cu ppozzu turmire.» Addhai ca rriàu pa re re cuardianu, e, bitèndu la signurina, fju miu, sùbitu ne ‘ssira l’occhi te ore, sai? «Suntu lu pa re re cuardianu, quale ientu te porta?» tisse tuttu presciàtu quandu rriàu nnanzi ‘lla signurina. «Pa re re cuardianu miu, hae tuttu lu giurnu ca sta ccamìnu, m’hae pijàta notte e mm mm’àggiu ’àggiu persa. Vau s racca r acca te morte. Vulìa nu jettu cu mme stendu, a ‘st’ora ‘st’ora nu’ ssacciu propriu a ddhu àggiu sbattire la capu. Fanne cu rasu, rasu, pe’ pe’ ll’anima te li morti toi!» Li mònici, però, senza mancu spéttanu la risposta te lu pa re re cuardianu, se ìcera nnanzi e ddìssera: «None, signurina, nu’ ppoti turmire in ra ra ‘llu cumentu: nu’ ss’hae mai vista na èmmana cu ddorma cquai.» Ma lu pa re re cuardianu (urbu iddhu!) te pressa ne tisse a lli mònici: «Ma cce imu ttenire paura mo’ mo’ te na signurina? Cu ttante càmbere ca tenìmu, lampu! Cce nn’hanu ddire: ca cacciàmu li cristiani te lu cumentu quandu tènanu bisognu? Sia, acìmula pe’ ll’amore te lu Signore.» Ti motu ca la signurina ippe na càmbera cu ppozza turmire. Ma lu pa re re cuardianu tenìa malote ‘n capu. Chiamàu li mònici e nne tisse: «Frati mii, iu stanotte àggiu šcire ba rou la signurina, ca m’hae
«Ah, l’avete scuoiata per mangiarla la mia capra eh? Farò in modo che vi sappia proprio saporita! Bah, ora v’aggiusto io!» disse tra sé. Questo era un uomo che ne sapeva più lui del diavolo. Che cosa ece quindi? Si travestì da donna e si presentò al convento. Bussò e aprì un monaco che, alla vista della orestiera, rimase con la accia di esso: che quando mai s’era vista una donna bussare di notte al convento? «Vengo da lontano,» prese a dire la nuova arrivata «s’è atta notte e mi sono perduta da queste parti. Datemi un letto che possa dormire.» Lì che giunse il padre guardiano che, alla vista della donna, sgranò gli occhi, sai? «Sono il padre guardiano, qual buon vento ti porta?» disse con aria sorridente. «Padre guardiano mio, tutto il giorno che cammino, m’ha preso notte e mi sono persa. Sono stracca da morire e vorrei un letto per dormire. A quest’ora non so proprio dove sbattere la testa. Fammi entrare, te lo chiedo per le anime di tutti i morti.» «No, signorina, non puoi proprio dormire nel convento: non s’è mai vista una donna dormire qui» si arettarono a rispondere i monaci precedendo il padre guardiano. Ma questi, urbo, disse ai monaci: «Macché, dobbiamo aver paura di una donna? Diamine, con tante stanze! Che ci devono dire, che non diamo ospitalità alla gente che chiede aiuto? Facciamola entrare per l’amore di Dio!» Fu così che la orestiera ebbe una camera per la notte. Ma il padre guardiano aveva piattole per la testa, chiamò i monaci e disse loro:
«Aaah! be l’iti scurciata e be l’iti mangiata, ah? Àggiu are cu be saccia beddha sapurita! Bah, mo mo’’ be ggiustu iu!» Quistu era cristianu ca nde sapìa cchiù iddhu te lu tiàvulu. Cce fce ‘llora? Se vestìu te signurina e, quandu ca scurìu, sciu e sse presentàu a llu cumentu. Tuzzàu e nne aprìu nu monicu, ca… quandu vitte ddha signurina, rimase cu ttanta te ucca perta… Ca quandu mai s’ia vista na emmana cu ttuzza te notte a llu cumentu? «Sta begnu te luntanu, s’hae atta notte e mm mm’àggiu ’àggiu persa in ra ra ‘ste ripe» tisse la signurina. «Tàtime nu jettu cu ppozzu turmire.» Addhai ca rriàu pa re re cuardianu, e, bitèndu la signurina, fju miu, sùbitu ne ‘ssira l’occhi te ore, sai? «Suntu lu pa re re cuardianu, quale ientu te porta?» tisse tuttu presciàtu quandu rriàu nnanzi ‘lla signurina. «Pa re re cuardianu miu, hae tuttu lu giurnu ca sta ccamìnu, m’hae pijàta notte e mm mm’àggiu ’àggiu persa. Vau s racca r acca te morte. Vulìa nu jettu cu mme stendu, a ‘st’ora ‘st’ora nu’ ssacciu propriu a ddhu àggiu sbattire la capu. Fanne cu rasu, rasu, pe’ pe’ ll’anima te li morti toi!» Li mònici, però, senza mancu spéttanu la risposta te lu pa re re cuardianu, se ìcera nnanzi e ddìssera: «None, signurina, nu’ ppoti turmire in ra ra ‘llu cumentu: nu’ ss’hae mai vista na èmmana cu ddorma cquai.» Ma lu pa re re cuardianu (urbu iddhu!) te pressa ne tisse a lli mònici: «Ma cce imu ttenire paura mo’ mo’ te na signurina? Cu ttante càmbere ca tenìmu, lampu! Cce nn’hanu ddire: ca cacciàmu li cristiani te lu cumentu quandu tènanu bisognu? Sia, acìmula pe’ ll’amore te lu Signore.» Ti motu ca la signurina ippe na càmbera cu ppozza turmire. Ma lu pa re re cuardianu tenìa malote ‘n capu. Chiamàu li mònici e nne tisse: «Frati mii, iu stanotte àggiu šcire ba rou rou la signurina, ca m’hae tittu ca nu’ stae bona e ca tene bisognu te mie. Ma me raccumandu, na cosa be ticu: ci sentiti critàre, o ca sentiti èra o ca sentiti
«Ah, l’avete scuoiata per mangiarla la mia capra eh? Farò in modo che vi sappia proprio saporita! Bah, ora v’aggiusto io!» disse tra sé. Questo era un uomo che ne sapeva più lui del diavolo. Che cosa ece quindi? Si travestì da donna e si presentò al convento. Bussò e aprì un monaco che, alla vista della orestiera, rimase con la accia di esso: che quando mai s’era vista una donna bussare di notte al convento? «Vengo da lontano,» prese a dire la nuova arrivata «s’è atta notte e mi sono perduta da queste parti. Datemi un letto che possa dormire.» Lì che giunse il padre guardiano che, alla vista della donna, sgranò gli occhi, sai? «Sono il padre guardiano, qual buon vento ti porta?» disse con aria sorridente. «Padre guardiano mio, tutto il giorno che cammino, m’ha preso notte e mi sono persa. Sono stracca da morire e vorrei un letto per dormire. A quest’ora non so proprio dove sbattere la testa. Fammi entrare, te lo chiedo per le anime di tutti i morti.» «No, signorina, non puoi proprio dormire nel convento: non s’è mai vista una donna dormire qui» si arettarono a rispondere i monaci precedendo il padre guardiano. Ma questi, urbo, disse ai monaci: «Macché, dobbiamo aver paura di una donna? Diamine, con tante stanze! Che ci devono dire, che non diamo ospitalità alla gente che chiede aiuto? Facciamola entrare per l’amore di Dio!» Fu così che la orestiera ebbe una camera per la notte. Ma il padre guardiano aveva piattole per la testa, chiamò i monaci e disse loro: «Fratelli miei, io stanotte andrò a t rovare la signorina, mi ha condato di non star bene e che ha bisogno di me. Mi raccomando, però, una cosa vi dico: se sentite gridare, ossero grida o
rimòri, nu’ be vegna ‘mmente cu be nacciati. ‘Nsomma nu’ biti pproccupare propriu: aciti fnta te gnenzi.» E llu pa re re cuardianu scìu ba roa roa la signurina. Tuzzàu, Tuzzàu, rasìu rasìu e sse ccumatàu in ra ra ‘lla càmbera. E ccunta te cquai e ccunta te ddhai, alla fne lu pa re re cuardianu (ca nu’ resistìa cchiùi mo’), a llu cchiù bellu, cce fce? Na! se ‘zzàu la tonaca e nne mmušciàu ‘lla signurina tutti li quarnamienti. Acquai te voju… Ca la signuri ruare: na sciu sse caccia la barrucca… Addhai mo mo’’ t’eri ruare: tiritinghi e tiritanghe, tiritinghi e tiritanghe. E tte lu s runcunisciàu r uncunisciàu bonu bonu te mazzate, sai? Mazzate e mmazzate, fju miu: ddhu poveru pa re re cuardianu te lu fce a re re ore te notte. E cca se mi mise ccritare puru, ca sia ca sta’ sta’ ccitìanu lu porcu! Li mònici sentìanu tuttu, ma addhu nu nu’’ nn’ia tittu lu pa re re cuardianu: cu sse stèscianu ‘llu postu loru. ‘Nsomma, lu maritu te la Maria, dopu ca te ncofnàu bonu bonu lu pa re re cuardianu, lu zziccàu te na ricchia e nne tisse: «T’hae saputa sapurita la crapa, ah?» «Ma ci sinti, rate miu, ci sinti?» «Ci suntu? Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, quiddhu te la crapa! quiddhu te la crapa!» A llu vutare te la matina, però, lu pa re re cuardianu tardava sse azza bitìre. Li mònici ‘llora se rratunàra e ddìssera: «Quarche càulu hae butu rricapitare lu pa re re cuardianu: sciàmu te pressa bitìmu.» E di atti lu ruàra ruàra tuttu s runcunisciàtu r uncunisciàtu te mazzate. E nne tìssera: «Ma se po’ ccapire ci ete ca t’t’hae hae rritottu te quista manera?» «Quiddhu te la craaàpa!» tisse lu pa re re cuardianu cu nna stizza te voce. Lu pa re re cuardianu mo’ mo’ nu’ stia mai bonu, stia sempre s empre curcatu. E lli mònici scìanu sempre ‘n cerca te nu tuttore. Allora iddhu, lu maritu te la Maria, cce fce? Se vestìu beddhu beddhu comu nu signuru, se pijàu nu bastone, nu cappieddhu ‘n
rumori, statevene al vostro posto, ate nta di non sentire.» E il padre guardiano u ben presto nella camera della orestiera. E parla di questo e parla di quell’altro, alla ne non seppe più resistere. E sul più p iù bello, sai che ti ece? To’! To’! si sollevò la tonaca e le mostrò tutti gli attributi. Qui ti voglio, perché la donna si tolse la parrucca e il padre guardiano scoprì di trovarsi di ronte a un uomo. «Ma chi sei?» gli ece tutto spaventato. «Chi sono? Sono quello della capra!» disse l’uomo. Qui ti dovevi trovare mo’: tiritìnghi e tiritànghe, tiritìnghi e tiritànghe. E te lo conciò ben bene di mazzate, mazzate e mazzate, tanto che quel povero padre guardiano u ridotto a tre ore di notte. E che si mise a gridare pure, come se stessero sc annando il maiale. I monaci mo’ sentivano tutto, ma gli ordini erano ordini. E, nite le mazzate, l’uomo sollevò per un orecchio il padre guardiano e gli disse: «Ti è saputa saporita la capra ah?» «Ma chi sei ratello mio, chi sei?» «Chi sono? Sono quello della capra!» «Uuùh, quello della capra! quello della capra!» E l’uomo se la lò. Al volgere del mattino, però, il padre guardiano tardava a arsi vedere. Sicché i monaci si radunarono e dissero: «Qualche diavolo deve essere successo al padre guardiano: corriamo a vedere.» E inatti lo trovarono tutto stramazzato. E gli dissero: «Ma si può capire chi è che ti ha ridotto a questo modo?» «Quello della caaàpra!» rispose il padre guardiano con un l di voce. Il padre guardiano mo’ stava così male che u messo a letto. Lui allora, il marito della Maria, che ti combinò? Si vestì bello bello da gran signore, si munì di un bastone di gran classe, un cappello in testa, la borsa da dottore e si mise a passeggiare
rimòri, nu’ be vegna ‘mmente cu be nacciati. ‘Nsomma nu’ biti pproccupare propriu: aciti fnta te gnenzi.» E llu pa re re cuardianu scìu ba roa roa la signurina. Tuzzàu, Tuzzàu, rasìu rasìu e sse ccumatàu in ra ra ‘lla càmbera. E ccunta te cquai e ccunta te ddhai, alla fne lu pa re re cuardianu (ca nu’ resistìa cchiùi mo’), a llu cchiù bellu, cce fce? Na! se ‘zzàu la tonaca e nne mmušciàu ‘lla signurina tutti li quarnamienti. Acquai te voju… Ca la signuri ruare: na sciu sse caccia la barrucca… Addhai mo mo’’ t’eri ruare: tiritinghi e tiritanghe, tiritinghi e tiritanghe. E tte lu s runcunisciàu r uncunisciàu bonu bonu te mazzate, sai? Mazzate e mmazzate, fju miu: ddhu poveru pa re re cuardianu te lu fce a re re ore te notte. E cca se mi mise ccritare puru, ca sia ca sta’ sta’ ccitìanu lu porcu! Li mònici sentìanu tuttu, ma addhu nu nu’’ nn’ia tittu lu pa re re cuardianu: cu sse stèscianu ‘llu postu loru. ‘Nsomma, lu maritu te la Maria, dopu ca te ncofnàu bonu bonu lu pa re re cuardianu, lu zziccàu te na ricchia e nne tisse: «T’hae saputa sapurita la crapa, ah?» «Ma ci sinti, rate miu, ci sinti?» «Ci suntu? Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, quiddhu te la crapa! quiddhu te la crapa!» A llu vutare te la matina, però, lu pa re re cuardianu tardava sse azza bitìre. Li mònici ‘llora se rratunàra e ddìssera: «Quarche càulu hae butu rricapitare lu pa re re cuardianu: sciàmu te pressa bitìmu.» E di atti lu ruàra ruàra tuttu s runcunisciàtu r uncunisciàtu te mazzate. E nne tìssera: «Ma se po’ ccapire ci ete ca t’t’hae hae rritottu te quista manera?» «Quiddhu te la craaàpa!» tisse lu pa re re cuardianu cu nna stizza te voce. Lu pa re re cuardianu mo’ mo’ nu’ stia mai bonu, stia sempre s empre curcatu. E lli mònici scìanu sempre ‘n cerca te nu tuttore. Allora iddhu, lu maritu te la Maria, cce fce? Se vestìu beddhu beddhu comu nu signuru, se pijàu nu bastone, nu cappieddhu ‘n capu, na beddha borsa te tuttore, e sse mise ppasseggiare nnanti llu cumentu acendu la mmossa cu llu bastone: nu’ ssai comu annu li signuri?
rumori, statevene al vostro posto, ate nta di non sentire.» E il padre guardiano u ben presto nella camera della orestiera. E parla di questo e parla di quell’altro, alla ne non seppe più resistere. E sul più p iù bello, sai che ti ece? To’! To’! si sollevò la tonaca e le mostrò tutti gli attributi. Qui ti voglio, perché la donna si tolse la parrucca e il padre guardiano scoprì di trovarsi di ronte a un uomo. «Ma chi sei?» gli ece tutto spaventato. «Chi sono? Sono quello della capra!» disse l’uomo. Qui ti dovevi trovare mo’: tiritìnghi e tiritànghe, tiritìnghi e tiritànghe. E te lo conciò ben bene di mazzate, mazzate e mazzate, tanto che quel povero padre guardiano u ridotto a tre ore di notte. E che si mise a gridare pure, come se stessero sc annando il maiale. I monaci mo’ sentivano tutto, ma gli ordini erano ordini. E, nite le mazzate, l’uomo sollevò per un orecchio il padre guardiano e gli disse: «Ti è saputa saporita la capra ah?» «Ma chi sei ratello mio, chi sei?» «Chi sono? Sono quello della capra!» «Uuùh, quello della capra! quello della capra!» E l’uomo se la lò. Al volgere del mattino, però, il padre guardiano tardava a arsi vedere. Sicché i monaci si radunarono e dissero: «Qualche diavolo deve essere successo al padre guardiano: corriamo a vedere.» E inatti lo trovarono tutto stramazzato. E gli dissero: «Ma si può capire chi è che ti ha ridotto a questo modo?» «Quello della caaàpra!» rispose il padre guardiano con un l di voce. Il padre guardiano mo’ stava così male che u messo a letto. Lui allora, il marito della Maria, che ti combinò? Si vestì bello bello da gran signore, si munì di un bastone di gran classe, un cappello in testa, la borsa da dottore e si mise a passeggiare davanti al convento, acendo mosse col bastone come anno i signori no? Non passò molto che vide i monaci uscire in tutta retta dal convento. Lui allora li ermò e disse loro:
Nu’ ppassàu mutu ca s’acchiàra šcindìre li mònici ‘n retta ‘n uria. Allora li ermàu e nne tisse: «Vehi, a ddhu sta’ šciàti? Cce b’hae rricapitatu ca sciati tantu te pressa?» «Eh,» ìcera li mònici «lu pa re re cuardianu stae mutu faccu e sta scia’’ cchiamamu lu tuttore.» scia «Vehi,» «V ehi,» tisse «e peccé: iu cce ssuntu? Nu’ ssuntu tuttore iu?» «Uh! tuttore nòšciu,» te pressa li mònici «ca ci te mandàu! Sciamu sciamu!» Fuci iddhu! Nchianàu te susu bàscia bìscia lu pa re re cuardianu mo’. E cquai se mise cu llu visita cu tutte le mmosse te lu tuttore, no? Poi aprìu la borsa e ppijàu le li ź źette. «Eh,» tisse «quistu hae bisognu te tante meticine. Ma quanti mònici siti?» «Eh, tuttore, simu undici a ‘stu cumentu.» «Ma cu ttuttu lu pa re re cuardianu?» «Sì, cu ttuttu lu pa re re cuardianu.» Allora pijàu tece li ź ź ette ette e sse mise ssegna meticine. «Le meticine ca sta be òrdinu,» ne tisse tiss e ‘lli mònici «nu’ stanu in ra ra llu paese: iti šcire luntanu, cchiù lluntanu te zzimpogna.» Iddhu, prima sse lluntànanu li mònici, cu llu pa re re cuardianu acìa ca lu vegliava, ca lu ncarizzava. Quandu se reculàu bonu bonu ca li mònici s’ìanu lluntanati, fju miiìu… se mbicinàu nnanzi ‘llu pa re re cuardianu e nne tisse cittu cittu: «Ma sai ci suntu iu?» «Ci sinti, cristianu miu?» «Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, rate miu, nu’ ssacciu gnenti te la crapa toa,» tisse lu pa re re cuardianu cu ll’anima cchiù ore ca te in ra. ra. «Moi m’ha m’ha’’ ddire li sordi àddhu stanu, se no te cciu te mazzate!»
«Ehi, dove state andando? È successo qualcosa? Come mai correte così di retta?» «Eh,» ecero i monaci «sta molto male il padre guardiano e corriamo a cercare un dottore.» «Ehi,» disse «e perché… io che cosa sono? Non sono un dottore?» «Uuùh, dottore nostro,» presto i monaci «quale Angelo ti mandò? Andiamo subito dal padre guardiano.» Detto atto, il dottore era già in camera del malato. E qui si mise a tastarlo con tutte quelle mosse che anno i dottori, no? Dopo aprì la borsa ed estrasse il ricettario. «Eh,» disse ai monaci presenti «costui ha bisogno di molte medicine. Ma quanti monaci siete?» «Eh, dottore, siamo undici in questo convento.» «Ma con tutto il padre guardiano?» «Sì, con tutto il padre guardiano.» Allora prese dieci ricette e si mise a segnare strane medicine. Quindi si rivolse loro e disse: «Le medicine che ho segnato non si trovano al paese. Dovete andare lontano: più lontano di una zampogna. 7 Per il padre guardiano però state tranquilli: ci penserò io a vegliare su di lui.» E inatti cominciò a lisciarlo e ad avere per lui tante premure, ma, quando si assicurò che i monaci erano andati via tutti, glio mio… si avvicinò all’orecchio del padre guardiano e gli disse zitto zitto: «Ma lo sai chi sono io?» «Chi sei, cristiano mio?» «Sono quello della capra!» «Uuùh, non so niente della capra tua» disse il padre guardiano con l’anima più uori che dentro. de ntro. «Mo’ mi devi dire dove nascondi i soldi, se no t’ammazzo di botte!»
Nu’ ppassàu mutu ca s’acchiàra šcindìre li mònici ‘n retta ‘n uria. Allora li ermàu e nne tisse: «Vehi, a ddhu sta’ šciàti? Cce b’hae rricapitatu ca sciati tantu te pressa?» «Eh,» ìcera li mònici «lu pa re re cuardianu stae mutu faccu e sta scia’’ cchiamamu lu tuttore.» scia «Vehi,» «V ehi,» tisse «e peccé: iu cce ssuntu? Nu’ ssuntu tuttore iu?» «Uh! tuttore nòšciu,» te pressa li mònici «ca ci te mandàu! Sciamu sciamu!» Fuci iddhu! Nchianàu te susu bàscia bìscia lu pa re re cuardianu mo’. E cquai se mise cu llu visita cu tutte le mmosse te lu tuttore, no? Poi aprìu la borsa e ppijàu le li ź źette. «Eh,» tisse «quistu hae bisognu te tante meticine. Ma quanti mònici siti?» «Eh, tuttore, simu undici a ‘stu cumentu.» «Ma cu ttuttu lu pa re re cuardianu?» «Sì, cu ttuttu lu pa re re cuardianu.» Allora pijàu tece li ź ź ette ette e sse mise ssegna meticine. «Le meticine ca sta be òrdinu,» ne tisse tiss e ‘lli mònici «nu’ stanu in ra ra llu paese: iti šcire luntanu, cchiù lluntanu te zzimpogna.» Iddhu, prima sse lluntànanu li mònici, cu llu pa re re cuardianu acìa ca lu vegliava, ca lu ncarizzava. Quandu se reculàu bonu bonu ca li mònici s’ìanu lluntanati, fju miiìu… se mbicinàu nnanzi ‘llu pa re re cuardianu e nne tisse cittu cittu: «Ma sai ci suntu iu?» «Ci sinti, cristianu miu?» «Suntu quiddhu te la crapa!» «Uuùh, rate miu, nu’ ssacciu gnenti te la crapa toa,» tisse lu pa re re cuardianu cu ll’anima cchiù ore ca te in ra. ra. «Moi m’ha m’ha’’ ddire li sordi àddhu stanu, se no te cciu te mazzate!»
«Ehi, dove state andando? È successo qualcosa? Come mai correte così di retta?» «Eh,» ecero i monaci «sta molto male il padre guardiano e corriamo a cercare un dottore.» «Ehi,» disse «e perché… io che cosa sono? Non sono un dottore?» «Uuùh, dottore nostro,» presto i monaci «quale Angelo ti mandò? Andiamo subito dal padre guardiano.» Detto atto, il dottore era già in camera del malato. E qui si mise a tastarlo con tutte quelle mosse che anno i dottori, no? Dopo aprì la borsa ed estrasse il ricettario. «Eh,» disse ai monaci presenti «costui ha bisogno di molte medicine. Ma quanti monaci siete?» «Eh, dottore, siamo undici in questo convento.» «Ma con tutto il padre guardiano?» «Sì, con tutto il padre guardiano.» Allora prese dieci ricette e si mise a segnare strane medicine. Quindi si rivolse loro e disse: «Le medicine che ho segnato non si trovano al paese. Dovete andare lontano: più lontano di una zampogna. 7 Per il padre guardiano però state tranquilli: ci penserò io a vegliare su di lui.» E inatti cominciò a lisciarlo e ad avere per lui tante premure, ma, quando si assicurò che i monaci erano andati via tutti, glio mio… si avvicinò all’orecchio del padre guardiano e gli disse zitto zitto: «Ma lo sai chi sono io?» «Chi sei, cristiano mio?» «Sono quello della capra!» «Uuùh, non so niente della capra tua» disse il padre guardiano con l’anima più uori che dentro. de ntro. «Mo’ mi devi dire dove nascondi i soldi, se no t’ammazzo di botte!» Un’espressione Un ’espressione che usava mia madre per dire il più lontano possibile. La zampogna, che per noi veniva da chissà quali montagne (che da noi non c’erano), dava certamente un’idea di lontananza. 7
«Uuùh, rate miu, a ddhai stanu li sordi, vane e ppijatèli.» Ntorna: «Moi m’hai ddire la tale cosa àddhu stae: ca àggiu šcire mme la piju!» Nsomma lu rrubàu bonu bonu, lu dderiscàu bonu bonu te mazzate e sse nde scappàu. Mo’, quandu s’acchiàra ccuijre li mònici, lu pa re re cuardianu lu ruara ruara cchiù mmortu ca biu, no? «Uh! pa re re cuardianu, comu stai, pa re re cuardianu? Ci t’hae ccunzatu a ttale motu?» «Ah! fji mii» tisse. «Ma ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» suspiràu cu c u ll’ànima te ore. «Acquai tocca sse pruvvèta» tìssera li mònici. «Acquai lu pa re re cuardianu nu’ llu putìmu lassare cchiùi te sulu. Puru quandu sciàmu ‘lla cerca ne l’ìmu ppurtare cu nnui.» E di atti, quandu a llu crai li mònici se ‘ ź ara ara cu banu ‘lla cerca, cce ìcera? Se caricàra an coddhu lu pa re re cuardianu, tuttu s runcunisciàtu, r uncunisciàtu, e ppartìra. Ma lu maritu te la Maria ncora nu’ ss’ia flu binchiatu te tuttu quiddhu ca n’ia attu a ‘llu pa re re cuardianu. Iddhu mo’ era unu ca sapìa cu sse cangia e cu sse scangia, e spettava sempre lu bonu mumentu cu nde cumbìna n’addha te le soe. E cusì oe. Di atti vinne cu ssàccia ca li mònici passàvanu te na carrara ore ore, cu pa re re cuardianu ‘n coddhu, sai? Cce fce? Se mise n addhu custume, se pittàu tuttu te acce, se fce addhe subracìje e sse vestìu te vecchiu. Ca nu’ sse canuscìa mancu ca era iddhu ‘nsomma, no? Poi se pijàu na zzappa e sse mise zzappare nnanzi ‘llu campu, a ‘ddhune ìanu ppassare li mònici. Quandu li vitte cu ppa re re cuardianu an coddhu, ne tisse: «A ddhu ete ca sta šciàti cu ddhu cristianu an coddhu tuttu s runcunisciàtu? r uncunisciàtu? nu’ bitìti ca sta be ccitìti te atìa? Lassatimèlu cquai ci vulìti, ca a iddhu nci pensu iu: ca quandu be ccujti te la cerca, be lu pijati ntorna.»
«Uuùh, là si trovano i soldi: prenditeli pure.» E di nuovo: «Mo’ mi devi dire dove sta la tal cosa, e quella e quell’altra, che mi devo prendere tutto!» Insomma te lo rubò bene bene, lo prese a mazzate e se ne scappò. Mo’, quando si trovarono a tornare i monaci, il padre g uardiano u trovato più morto che vivo, no?» «Oh, padre guardiano, come stai, padre guardiano? Chi ti ha conciato in questa maniera?» «Ah, gli miei!» disse. «Chi è stato?» «Quello della caaàpra!» sospirò con l’anima di uori. «Qui bisogna provvedere,» dissero i monaci «non possiamo lasciare da solo il padre guardiano. Anche quando si parte per la questua occorre tirarcelo dietro.» All’indomani inatti, quando i monaci si levarono per recarsi alla questua, che ti ecero? Si caricarono il padre guardiano tutto racassato sulle spalle e partirono. Ma il marito della Maria non era ancora soddisatto delle continue vendette ai danni del padre guardiano. Certo lui era uno che sapeva vestirsi e travestirsi e aspettava sempre il momento opportuno per combinarne una delle sue. Momento che arrivò. Venne a sapere inatti che i monaci, durante la questua, attraversavano un viottolo di campagna a lui conosciuto, sai? Che ti combinò? Si travestì da vecchio, truccandosi la accia e i sopracciglia, si munì di una zappa e si mise ad aspettare i monaci acendo nta di zappare nei pressi di quel viottolo. Poco dopo inatti passarono i monaci con sulle spalle il padre guardiano. Allora si rivolse loro e disse: «Dove andate con quel cristiano così malridotto? Non v’accorgete che vi state ammazzando di atica? Lasciatelo qui se volete, che ci penserò io a lui. Potrete riprendervelo al vostro ritorno.» Furbo lui, no? camuato da vecchio c on la barba, che
«Uuùh, rate miu, a ddhai stanu li sordi, vane e ppijatèli.» Ntorna: «Moi m’hai ddire la tale cosa àddhu stae: ca àggiu šcire mme la piju!» Nsomma lu rrubàu bonu bonu, lu dderiscàu bonu bonu te mazzate e sse nde scappàu. Mo’, quandu s’acchiàra ccuijre li mònici, lu pa re re cuardianu lu ruara ruara cchiù mmortu ca biu, no? «Uh! pa re re cuardianu, comu stai, pa re re cuardianu? Ci t’hae ccunzatu a ttale motu?» «Ah! fji mii» tisse. «Ma ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» suspiràu cu c u ll’ànima te ore. «Acquai tocca sse pruvvèta» tìssera li mònici. «Acquai lu pa re re cuardianu nu’ llu putìmu lassare cchiùi te sulu. Puru quandu sciàmu ‘lla cerca ne l’ìmu ppurtare cu nnui.» E di atti, quandu a llu crai li mònici se ‘ ź ara ara cu banu ‘lla cerca, cce ìcera? Se caricàra an coddhu lu pa re re cuardianu, tuttu s runcunisciàtu, r uncunisciàtu, e ppartìra. Ma lu maritu te la Maria ncora nu’ ss’ia flu binchiatu te tuttu quiddhu ca n’ia attu a ‘llu pa re re cuardianu. Iddhu mo’ era unu ca sapìa cu sse cangia e cu sse scangia, e spettava sempre lu bonu mumentu cu nde cumbìna n’addha te le soe. E cusì oe. Di atti vinne cu ssàccia ca li mònici passàvanu te na carrara ore ore, cu pa re re cuardianu ‘n coddhu, sai? Cce fce? Se mise n addhu custume, se pittàu tuttu te acce, se fce addhe subracìje e sse vestìu te vecchiu. Ca nu’ sse canuscìa mancu ca era iddhu ‘nsomma, no? Poi se pijàu na zzappa e sse mise zzappare nnanzi ‘llu campu, a ‘ddhune ìanu ppassare li mònici. Quandu li vitte cu ppa re re cuardianu an coddhu, ne tisse: «A ddhu ete ca sta šciàti cu ddhu cristianu an coddhu tuttu s runcunisciàtu? r uncunisciàtu? nu’ bitìti ca sta be ccitìti te atìa? Lassatimèlu cquai ci vulìti, ca a iddhu nci pensu iu: ca quandu be ccujti te la cerca, be lu pijati ntorna.» Furbu iddhu mo’, mo’, vestutu te vecchiu cu lla barba, acìa ca zzappa no? Ca quiddhi, cce llu putìanu canušcire a quiddhu motu ca scia?
«Uuùh, là si trovano i soldi: prenditeli pure.» E di nuovo: «Mo’ mi devi dire dove sta la tal cosa, e quella e quell’altra, che mi devo prendere tutto!» Insomma te lo rubò bene bene, lo prese a mazzate e se ne scappò. Mo’, quando si trovarono a tornare i monaci, il padre g uardiano u trovato più morto che vivo, no?» «Oh, padre guardiano, come stai, padre guardiano? Chi ti ha conciato in questa maniera?» «Ah, gli miei!» disse. «Chi è stato?» «Quello della caaàpra!» sospirò con l’anima di uori. «Qui bisogna provvedere,» dissero i monaci «non possiamo lasciare da solo il padre guardiano. Anche quando si parte per la questua occorre tirarcelo dietro.» All’indomani inatti, quando i monaci si levarono per recarsi alla questua, che ti ecero? Si caricarono il padre guardiano tutto racassato sulle spalle e partirono. Ma il marito della Maria non era ancora soddisatto delle continue vendette ai danni del padre guardiano. Certo lui era uno che sapeva vestirsi e travestirsi e aspettava sempre il momento opportuno per combinarne una delle sue. Momento che arrivò. Venne a sapere inatti che i monaci, durante la questua, attraversavano un viottolo di campagna a lui conosciuto, sai? Che ti combinò? Si travestì da vecchio, truccandosi la accia e i sopracciglia, si munì di una zappa e si mise ad aspettare i monaci acendo nta di zappare nei pressi di quel viottolo. Poco dopo inatti passarono i monaci con sulle spalle il padre guardiano. Allora si rivolse loro e disse: «Dove andate con quel cristiano così malridotto? Non v’accorgete che vi state ammazzando di atica? Lasciatelo qui se volete, che ci penserò io a lui. Potrete riprendervelo al vostro ritorno.» Furbo lui, no? camuato da vecchio c on la barba, che aceva nta di zappare no? Che quelli l’avrebbero mai scoperto travestito a quel modo?
«Ca quale santu t’hae mandatu, cristianu nòšciu» ne tìssera li mònici. «Ca te lu lassamu cquai e venìmu nne llu pijamu stasera quandu n’acchiàmu tturnare. Allora, fju miu, iddhu, quandu s’hanu lluntanati, cce hae attu? Hae attu na oggia, hae precàtu sotta terra lu pa re re cuardianu e nn’hae lassatu te ore sulamente menź a ucca, na ricchia e nnu pocu te capiddhi. E llu pa re re cuardianu perdìa te respiru e acìa: «Fiji mii! rati mii! fji mii!» E iddhu, lu maritu te la Maria, poi se la squajàu, no? Quandu a llu scurìre li mònici se cchiara tturnare, scira a llu postu a ddhunca ìanu lassatu lu pa re re cuardianu, ma nu’ bitìanu né llu vecchiu e mmancu lu pa re re cuardianu. E dicìane: «Ma... cce sse l’hae purtatu ‘ccasa?» E giràvanu te cquai e giràvanu te ddhai. E gh gh’èra ’èra scurùtu ormai. Ma tuttu te paru, cerca cerca, nnutàra ‘n terra na cosa ca, ddhai pe’ ddhai, nu’ ssapìanu cce ggh’era. «Na! acquai ungi hae. Ha’ bèssere na beddha munìtula» tisse nu monicu. E stise la l a manu cu ttira la munìtula. Ma tira e ttira, ddha munìtula nu’ sse nde venìa. Sicché, chiamàu puru l’addhi mònici cu llu iùtanu. E ttira te cquai e ttira te ddhai, alla fne essìu la capu te lu pa re re cuardianu. Addhai mo’ t’ii ruàre. ruàre. «Pa re re cuardianu, ci è statu? ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» «Quiddhu te la crapa!» tìssera li mònici cuardànduse unu cu ll’addhu. E sse lu caricàra ntorna an coddhu e tturnara a llu cumentu. Nsomma, fne te li cunti, lu maritu te la Maria, ogni ttantu se cangiava e sse scangiava, e ddhu pòuru pa re re cuardianu nu’ llu lassava an pace, sai? Quandu se ccorse ca li mònici nu’ nde putìanu cchiùi, scìu a llu cumentu e nne tisse a tutti: «M’iti nducìre tuttu, m’iti are pa runu runu te lu cumentu, vui iti scappare te cquai, ci no nu’ be azzu tteniti bene: rria ca be cciu a ttutti.»
«Quale santo ti ha mandato, cristiano nostro,» gli dissero i monaci «te lo lasciamo volentieri il padre guardiano. Ce lo prenderemo al nostro ritorno.» Allora, glio mio, lui, quando i monaci si allontanarono… che gli venne in mente? Fece una ossa e seppellì il padre guardiano, lasciandogli allo scoperto soltanto mezza bocca, un orecchio e un po’ di capelli. E il padre guardiano perdeva di respiro e chiamava: «Figli miei! ratelli miei!» Lui poi se la squagliò, no? Quando i monaci all’imbrunire tornarono a riprendersi il padre guardiano, sul posto non trovarono anima viva. E dicevano tra sé: «Ma che per caso quel vecchio se l’è portato a casa?» E giravano di qua e giravano di là e ormai s’era atto buio. Ma d’un tratto, continuando a cercare, uno di loro notò per terra qualcosa che lì per lì non riusciva a riconoscere. «To’! ci sono unghi qui: deve essere una bella munìtula» 8 disse. E stese la mano per raccoglierla. Ma tira e t ira, la munìtula non se ne veniva e perciò chiese aiuto agli altri monaci. E tira di qua e tira di là tutti insieme, alla ne venne uori la testa del padre guardiano. Lì mo’ ti dovevi trovare! «Padre guardiano, chi è stato? chi è stato?» «Quello della caaàpra!» «Quello della capra!» dissero i monaci guardandosi atterriti. E non restò loro che caricarsi di d i nuovo in collo il padre guardiano e tornarsene al convento mosci mosci. Insomma, per arla breve, il marito della Maria ogni tanto si travestiva dando lo da torcere a quel povero padre guardiano. Quando capì che i monaci non ne potevano proprio più, si recò al convento e disse loro minaccioso: «Dovete armi padrone del convento! dovete scapparvene via
«Ca quale santu t’hae mandatu, cristianu nòšciu» ne tìssera li mònici. «Ca te lu lassamu cquai e venìmu nne llu pijamu stasera quandu n’acchiàmu tturnare. Allora, fju miu, iddhu, quandu s’hanu lluntanati, cce hae attu? Hae attu na oggia, hae precàtu sotta terra lu pa re re cuardianu e nn’hae lassatu te ore sulamente menź a ucca, na ricchia e nnu pocu te capiddhi. E llu pa re re cuardianu perdìa te respiru e acìa: «Fiji mii! rati mii! fji mii!» E iddhu, lu maritu te la Maria, poi se la squajàu, no? Quandu a llu scurìre li mònici se cchiara tturnare, scira a llu postu a ddhunca ìanu lassatu lu pa re re cuardianu, ma nu’ bitìanu né llu vecchiu e mmancu lu pa re re cuardianu. E dicìane: «Ma... cce sse l’hae purtatu ‘ccasa?» E giràvanu te cquai e giràvanu te ddhai. E gh gh’èra ’èra scurùtu ormai. Ma tuttu te paru, cerca cerca, nnutàra ‘n terra na cosa ca, ddhai pe’ ddhai, nu’ ssapìanu cce ggh’era. «Na! acquai ungi hae. Ha’ bèssere na beddha munìtula» tisse nu monicu. E stise la l a manu cu ttira la munìtula. Ma tira e ttira, ddha munìtula nu’ sse nde venìa. Sicché, chiamàu puru l’addhi mònici cu llu iùtanu. E ttira te cquai e ttira te ddhai, alla fne essìu la capu te lu pa re re cuardianu. Addhai mo’ t’ii ruàre. ruàre. «Pa re re cuardianu, ci è statu? ci è statu?» «Quiddhu te la craaàpa!» «Quiddhu te la crapa!» tìssera li mònici cuardànduse unu cu ll’addhu. E sse lu caricàra ntorna an coddhu e tturnara a llu cumentu. Nsomma, fne te li cunti, lu maritu te la Maria, ogni ttantu se cangiava e sse scangiava, e ddhu pòuru pa re re cuardianu nu’ llu lassava an pace, sai? Quandu se ccorse ca li mònici nu’ nde putìanu cchiùi, scìu a llu cumentu e nne tisse a tutti: «M’iti nducìre tuttu, m’iti are pa runu runu te lu cumentu, vui iti scappare te cquai, ci no nu’ be azzu tteniti bene: rria ca be cciu a ttutti.»
«Quale santo ti ha mandato, cristiano nostro,» gli dissero i monaci «te lo lasciamo volentieri il padre guardiano. Ce lo prenderemo al nostro ritorno.» Allora, glio mio, lui, quando i monaci si allontanarono… che gli venne in mente? Fece una ossa e seppellì il padre guardiano, lasciandogli allo scoperto soltanto mezza bocca, un orecchio e un po’ di capelli. E il padre guardiano perdeva di respiro e chiamava: «Figli miei! ratelli miei!» Lui poi se la squagliò, no? Quando i monaci all’imbrunire tornarono a riprendersi il padre guardiano, sul posto non trovarono anima viva. E dicevano tra sé: «Ma che per caso quel vecchio se l’è portato a casa?» E giravano di qua e giravano di là e ormai s’era atto buio. Ma d’un tratto, continuando a cercare, uno di loro notò per terra qualcosa che lì per lì non riusciva a riconoscere. «To’! ci sono unghi qui: deve essere una bella munìtula» 8 disse. E stese la mano per raccoglierla. Ma tira e t ira, la munìtula non se ne veniva e perciò chiese aiuto agli altri monaci. E tira di qua e tira di là tutti insieme, alla ne venne uori la testa del padre guardiano. Lì mo’ ti dovevi trovare! «Padre guardiano, chi è stato? chi è stato?» «Quello della caaàpra!» «Quello della capra!» dissero i monaci guardandosi atterriti. E non restò loro che caricarsi di d i nuovo in collo il padre guardiano e tornarsene al convento mosci mosci. Insomma, per arla breve, il marito della Maria ogni tanto si travestiva dando lo da torcere a quel povero padre guardiano. Quando capì che i monaci non ne potevano proprio più, si recò al convento e disse loro minaccioso: «Dovete armi padrone del convento! dovete scapparvene via di qua! v’ammazzo tutti se no!» 8
È un tipo di ungo porcino della macchia salentina.
E oe te cusì ca rrimanìu pa runu runu te tuttu lu cumentu. E iddhu e lla Maria vìssera beddhi e ccuntiènti, e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.
E u così che rimase padrone del convento. E lui e la Maria vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti . Se vuoi che te ne racconti un altro, mi dai un tarallo.
E oe te cusì ca rrimanìu pa runu runu te tuttu lu cumentu. E iddhu e lla Maria vìssera beddhi e ccuntiènti, e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu, me tai nu taraddhu.
E u così che rimase padrone del convento. E lui e la Maria vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti . Se vuoi che te ne racconti un altro, mi dai un tarallo.
u fattu fattu te te Li Li ṭṭ re ppreti re ppreti Lu
A nnu paese, na fata, ia na beddha èmmana mmaritàta ca se chiamava Maria. Vista era mutu tevota, e šcia sempre ‘lla chèsia. Addhai ca lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciàtu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau centu tucati, basta ca aci begnu na notte cu tte rou rou sula sula ‘ccasa toa.» La Maria pe’ llu scornu se nde scappàu senza ddice ddi ce nu’ isti, nu’ asti e nnu’ bonasera2. E ccu nnu’ sse senta maisiasignòre 3 tire tequistupassa4, pijàu bàscia a mmessa a nn’addha chèsia. Ma puru cquai lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciatu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau tocentu tucati, basta ca c a aci begnu na notte cu tte rou rou sula sula ‘ccasa toa.» «Cce mmalesorte àggiu rricapitàtu,» tisse la Maria, «mo’ mancu messa me pozzu vitire cchiùi.» E ttuccàu ntorna ccàngia chèsia la Maria. Ma oe lustessucapiace 5, ca cquai lu prete, anzi, ne prumise recentu recentu tucati, e a rretu llu prete se ruau ruau puru lu sacristanu. Ca ne tisse: «Iu suntu cchiù ppoerieddhu, Maria mia, apposta te pozzu tare sulamente quaranta tucati.» Mo’ la Maria a llu paese nu’ ttenìa addhe chèsie cu bàscia: ca se l’ia passate tutte. Allora ne vinne la stizza e šciu e spumpàu tuttu a llu maritu. Quistu, a pprimu mumentu, se mise ccastimare scuddhàndu Gesucristu, la Vergine e ttutti li santi te lu paratisu, tantu ca la Maria cchiùi se dispiacìu, ma poi pensàu bonu cu ppruftta te l’occasione cu sse busca quarche ssordu. E nne tisse a lla Maria: 2
Per dire nulla.
Il fatto dei tre preti
C’era una volta in un paese una bella donna di nome Maria. Questa era molto devota e si recava sempre in chiesa. Accadde però che il prete della chiesa prese a guardare la Maria con una certa attenzione, tanto che un bel giorno, nito che ebbe di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò cento ducati, se mi arai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» La Maria, per la vergogna, se ne scappò senza dire una parola. E per il motivo che in paese non nascessero maldicenze, decise di cambiare chiesa. Ma anche qui il prete cominciò a guardare la Maria in un certo modo, e così un bel giorno, nito anch’egli di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò duecento ducati se mi arai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» «Che malasorte mi è capitata,» disse la Maria «mo’ neanche a messa posso più andare!» E alla Maria toccò trovarsi ancora un’altra chiesa. Ma nulla cambiò, anzi il nuovo prete le promise addirittura trecento ducati, e dietro di lui si ece avanti pure il sacrestano. Che le disse: «Io sono più povero, Maria mia, perciò ti posso dare solamente quaranta ducati.» Adesso però non c’erano altre chiese al paese per la Maria, e questo le ece talmente dispiacere che decise di spiattellare tutto al marito. Costui in un primo momento diede in escandescenze, bestemmiando Gesucristo, la Vergine e tutti i santi del paradiso, tanto da provocare un doppio dispiacere alla Maria, che era così devota, poi, però, pensò bene di approttare dell’occasione e ece alla Maria una proposta.
u fattu fattu te te Li Li ṭṭ re ppreti re ppreti Lu
Il fatto dei tre preti
A nnu paese, na fata, ia na beddha èmmana mmaritàta ca se chiamava Maria. Vista era mutu tevota, e šcia sempre ‘lla chèsia. Addhai ca lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciàtu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau centu tucati, basta ca aci begnu na notte cu tte rou rou sula sula ‘ccasa toa.» La Maria pe’ llu scornu se nde scappàu senza ddice ddi ce nu’ isti, nu’ asti e nnu’ bonasera2. E ccu nnu’ sse senta maisiasignòre 3 tire tequistupassa4, pijàu bàscia a mmessa a nn’addha chèsia. Ma puru cquai lu prete ne zziccàu mmenare l’occhiu a lla Maria, tantu ca nu bellu giurnu, spicciatu ca ia te messa, la chiamàu te scusu e nne tisse: «Maria mia, te tau tocentu tucati, basta ca c a aci begnu na notte cu tte rou rou sula sula ‘ccasa toa.» «Cce mmalesorte àggiu rricapitàtu,» tisse la Maria, «mo’ mancu messa me pozzu vitire cchiùi.» E ttuccàu ntorna ccàngia chèsia la Maria. Ma oe lustessucapiace 5, ca cquai lu prete, anzi, ne prumise recentu recentu tucati, e a rretu llu prete se ruau ruau puru lu sacristanu. Ca ne tisse: «Iu suntu cchiù ppoerieddhu, Maria mia, apposta te pozzu tare sulamente quaranta tucati.» Mo’ la Maria a llu paese nu’ ttenìa addhe chèsie cu bàscia: ca se l’ia passate tutte. Allora ne vinne la stizza e šciu e spumpàu tuttu a llu maritu. Quistu, a pprimu mumentu, se mise ccastimare scuddhàndu Gesucristu, la Vergine e ttutti li santi te lu paratisu, tantu ca la Maria cchiùi se dispiacìu, ma poi pensàu bonu cu ppruftta te l’occasione cu sse busca quarche ssordu. E nne tisse a lla Maria: Per dire nulla. Mai sia Signore è un intercalare, sta per ‘non sia mai’ con l’aggiunta del vocativo ‘Signore’ che lo sottolinea. 4 Altro intercalare: tire te quistu passa , nel senso di ‘dire maldicenze’. 5 Lu stessu ca piace nel senso di ‘come prima’. 2
C’era una volta in un paese una bella donna di nome Maria. Questa era molto devota e si recava sempre in chiesa. Accadde però che il prete della chiesa prese a guardare la Maria con una certa attenzione, tanto che un bel giorno, nito che ebbe di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò cento ducati, se mi arai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» La Maria, per la vergogna, se ne scappò senza dire una parola. E per il motivo che in paese non nascessero maldicenze, decise di cambiare chiesa. Ma anche qui il prete cominciò a guardare la Maria in un certo modo, e così un bel giorno, nito anch’egli di dir messa, la chiamò in disparte e le disse: «Maria mia, ti darò duecento ducati se mi arai entrare una notte a casa tua: è un sogno poterti trovare sola soletta.» «Che malasorte mi è capitata,» disse la Maria «mo’ neanche a messa posso più andare!» E alla Maria toccò trovarsi ancora un’altra chiesa. Ma nulla cambiò, anzi il nuovo prete le promise addirittura trecento ducati, e dietro di lui si ece avanti pure il sacrestano. Che le disse: «Io sono più povero, Maria mia, perciò ti posso dare solamente quaranta ducati.» Adesso però non c’erano altre chiese al paese per la Maria, e questo le ece talmente dispiacere che decise di spiattellare tutto al marito. Costui in un primo momento diede in escandescenze, bestemmiando Gesucristo, la Vergine e tutti i santi del paradiso, tanto da provocare un doppio dispiacere alla Maria, che era così devota, poi, però, pensò bene di approttare dell’occasione e ece alla Maria una proposta.
3
«Mujère mia, sai cce anne? anne? Vane Vane e ddinne a lli preti, e ppuru a llu sacristanu, cu pprepàranu li tucati e ccu bègnanu pe’ stasera. A quiddhu te centu tucati, tinne begna alle nove; a quiddhu te tocentu, alle dece; a quiddhu te recentu, recentu, alle undici; lu sacristanu, a menź anotte. anotte. Tie ne apri la porta e nne tici cu sse spójanu e cu spéttanu, ca poi a llu restu ci pensu iu.» re E oe cusì ca la mujère scìu e sse mise t’accordu cu lli re ppreti e ccu llu sacristanu, cu bègnanu a quiddh’ore quiddh’ore ca n’ia tittu lu maritu. Alle nove te la sera, sai? tuzzàu ‘lla porta lu primu prete: «Ci ete?» tisse la Maria. «Maria, iu suntu, àprime.» «ṭ rasi, rasi, rasi» rasi» tisse iddha. «Me l’hai ndutti li centu tucati?» «Sine, comu nu’ tte l’àggiu ndutti: ècculi, beddha mia! beddha mia!» ne fce lu prete. «Chianu… chianu!» se parau la Maria «cu nnu’ nne senta ciujèddhi. ‘Ntantu vane e sténdite susu llu canapé. E spòjate ca mo’ vegnu.» E llu prete se spujàu e sse stise s tise susu lu canapé, spettandu la Maria: ca quiddhu mo’, mo’, fju miu… nu nu’’ bitìa l’ora no? A ddhai, però, e nnu nnu’’ mboi ca se sentìu tuzzare ‘lla porta? «Ci ete?» ntorna la Maria. «Iu suntu, Maria, marìtuta suntu.» «Uuùh, sorta mia, marìtuma ete!» tisse la Maria critandu cu lla senta lu prete. «Marìtuma, sorta mia!» «Cce-àggiu are, cce-àggiu are!» zziccàu ddire lu prete, ‘ ź ź ànduse ànduse te lu canapé tuttu culinutu comu stia. «Sa’’ cce anne, cristianu miu? Vane e scùndite ‘rretu a quiddhu «Sa patu te tàccari sotta lu jettu. Ca ci marìtuma va tte vite cquai… su’ dduluri!» E llu prete scìu e sse scuse ‘rretu lu patu te tàccari. ‘Ntantu lu maritu nsistìa: ttu-ttú! ttu-ttú! «‘Nsomma, Maria, ’ mme apri, sì o no? Àggiu mmenare la porta por ta ‘n terra?»
«Sai che hai da are, moglie mia? Rècati dai preti e dal sacrestano e ai capire loro che tu ci stai. Quello dei cento ducati, lo arai venire alle nove; quello dei duecento, alle dieci; quello dei trecento, alle undici; il sacrestano a mezzanotte. Li arai accomodare in camera, li arai spogliare e dirai loro di aspettare. Che al resto ci penso io.» E u così che la Maria andò a mettersi d’accordo con i tre preti e col sacrestano, proprio come aveva disposto suo marito. Alle nove in punto della sera, sai? bussò alla porta il primo prete. «Chi è?» « Sono io, Maria, aprimi.» «Entra, entra» disse la Maria aprendogli la porta. «Me li hai portati i cento ducati?» «Sì, certo che te li ho portati: eccoli, bella mia, bella mia!» ece il prete con una certa impazienza. «Piano… piano!» raccomandò la Maria «che potrebbero sentirci! Intanto vai in camera, spogliati e aspettami sul canapé.» E il prete andò in camera, si spogliò e si accomodò sul canapé aspettando la Maria. Che mo’ quello, glio mio… non vedeva l’ora no? A quel punto non vuoi che si sentì di nuovo bussare alla porta? «Chi è?» «Io sono, Maria, il marito tuo.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito!» disse la Maria ad alta voce perché il prete la sentisse «Mio marito! sorte mia!» «E mo’ che ho da are? che ho da are?» prese a raccomandarsi il prete, levandosi dal canapé tutto nudo come si trovava. «Sai che puoi are, cristiano mio? Vai a nasconderti dietro quei ciocchi di legna ammucchiati sotto il letto, che se mio marito ti sorprende qui… sono dolori per te!» E il prete corse a nascondersi sotto il letto dietro quel mucchio di legna. Intanto il marito insisteva:
«Mujère mia, sai cce anne? anne? Vane Vane e ddinne a lli preti, e ppuru a llu sacristanu, cu pprepàranu li tucati e ccu bègnanu pe’ stasera. A quiddhu te centu tucati, tinne begna alle nove; a quiddhu te tocentu, alle dece; a quiddhu te recentu, recentu, alle undici; lu sacristanu, a menź anotte. anotte. Tie ne apri la porta e nne tici cu sse spójanu e cu spéttanu, ca poi a llu restu ci pensu iu.» re E oe cusì ca la mujère scìu e sse mise t’accordu cu lli re ppreti e ccu llu sacristanu, cu bègnanu a quiddh’ore quiddh’ore ca n’ia tittu lu maritu. Alle nove te la sera, sai? tuzzàu ‘lla porta lu primu prete: «Ci ete?» tisse la Maria. «Maria, iu suntu, àprime.» «ṭ rasi, rasi, rasi» rasi» tisse iddha. «Me l’hai ndutti li centu tucati?» «Sine, comu nu’ tte l’àggiu ndutti: ècculi, beddha mia! beddha mia!» ne fce lu prete. «Chianu… chianu!» se parau la Maria «cu nnu’ nne senta ciujèddhi. ‘Ntantu vane e sténdite susu llu canapé. E spòjate ca mo’ vegnu.» E llu prete se spujàu e sse stise s tise susu lu canapé, spettandu la Maria: ca quiddhu mo’, mo’, fju miu… nu nu’’ bitìa l’ora no? A ddhai, però, e nnu nnu’’ mboi ca se sentìu tuzzare ‘lla porta? «Ci ete?» ntorna la Maria. «Iu suntu, Maria, marìtuta suntu.» «Uuùh, sorta mia, marìtuma ete!» tisse la Maria critandu cu lla senta lu prete. «Marìtuma, sorta mia!» «Cce-àggiu are, cce-àggiu are!» zziccàu ddire lu prete, ‘ ź ź ànduse ànduse te lu canapé tuttu culinutu comu stia. «Sa’’ cce anne, cristianu miu? Vane e scùndite ‘rretu a quiddhu «Sa patu te tàccari sotta lu jettu. Ca ci marìtuma va tte vite cquai… su’ dduluri!» E llu prete scìu e sse scuse ‘rretu lu patu te tàccari. ‘Ntantu lu maritu nsistìa: ttu-ttú! ttu-ttú! «‘Nsomma, Maria, vo’’ mme apri, sì o no? Àggiu mmenare la porta vo por ta ‘n terra?» «None, sta begnu, maritu miu, sta begnu tte apru, na!» E nne aprìu.
«Sai che hai da are, moglie mia? Rècati dai preti e dal sacrestano e ai capire loro che tu ci stai. Quello dei cento ducati, lo arai venire alle nove; quello dei duecento, alle dieci; quello dei trecento, alle undici; il sacrestano a mezzanotte. Li arai accomodare in camera, li arai spogliare e dirai loro di aspettare. Che al resto ci penso io.» E u così che la Maria andò a mettersi d’accordo con i tre preti e col sacrestano, proprio come aveva disposto suo marito. Alle nove in punto della sera, sai? bussò alla porta il primo prete. «Chi è?» « Sono io, Maria, aprimi.» «Entra, entra» disse la Maria aprendogli la porta. «Me li hai portati i cento ducati?» «Sì, certo che te li ho portati: eccoli, bella mia, bella mia!» ece il prete con una certa impazienza. «Piano… piano!» raccomandò la Maria «che potrebbero sentirci! Intanto vai in camera, spogliati e aspettami sul canapé.» E il prete andò in camera, si spogliò e si accomodò sul canapé aspettando la Maria. Che mo’ quello, glio mio… non vedeva l’ora no? A quel punto non vuoi che si sentì di nuovo bussare alla porta? «Chi è?» «Io sono, Maria, il marito tuo.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito!» disse la Maria ad alta voce perché il prete la sentisse «Mio marito! sorte mia!» «E mo’ che ho da are? che ho da are?» prese a raccomandarsi il prete, levandosi dal canapé tutto nudo come si trovava. «Sai che puoi are, cristiano mio? Vai a nasconderti dietro quei ciocchi di legna ammucchiati sotto il letto, che se mio marito ti sorprende qui… sono dolori per te!» E il prete corse a nascondersi sotto il letto dietro quel mucchio di legna. Intanto il marito insisteva: «Insomma, Maria, vuoi aprirmi sì o no? Devo scardinare la porta devo?» «No no, vengo subito, marito mio, ti apro, ecco.»
«Nci vulìa tantu cu mme apri?» «Maritu miu, ma cce ssi’ benutu aci a st’ora? Nu’ mm’eri tittu» critandu mo’ cu lla sente lu prete «ca ìi butu šcire ore tuttu stanotte?» «Sine, ma àggiu ddumare lu urnu cramatina mprima, e mm’àggiu mm ’àggiu šcerratu mme pìju na razzata te legna te in ra ra ccasa.» «Maritu miu, ma propriu moi eri benire?» «E quandu se no? T’àggiu tittu ca àggiu ddumare lu urnu e cca me sérvanu li táccari.» Ddhu pòuru prete, scusu sotta lu jettu, ‘ntantu, sentendu lu maritu, s’ia attu comu na coculeddha. E quandu lu maritu mise la capu sotta lu jettu cu sse pija na razzata te legna, e šciu bitte ddha ssotta ddhu d dhu sangu te prete… a ddhai mo mo’’ t’ìi ruare! ruare! «Beh? e cce ggh’ete ca aci qua ssotta a ‘st’ora ‘st’ora a casa mia bruttu porcu!» E cusì tte lu deriscàu bonu bonu te mazzate, e, ccu nna cagge ‘n culu, lu mbarcàu ddha ore. Lu prete, ca stia culinutu, pe’ llu scornu scìu e sse nflàu sotta a nnu raìnu, raìnu, cu nnu’ ssia lu vite ciujèddhi. Quandu se ìcera le tece, ‘rriàu lu secondu prete. “Ttu-ttú!” «Ci ete?». «Maria, iu suntu.» «L’hai «L ’hai purtati li tocentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» E fce cu rasa, rasa, se nerràu li tocentu tucati e nne tisse cu bàsci a in ru ru ‘ll’addha stanza cu sse spòja e cu lla spetta susu llu canapé. E llu prete, ca nu’ bitìa l’ora puru iddhu, ucendu sciu sse spòja. Addhai ca tuzzàu ntorna lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh, sorta mia: marìtuma ete! Sai cce cc e anne?» ne tisse a ‘llu prete «Scùndite in ra ra llu canišcione ca stae sotta lu jettu, ca ci te
«Ci voleva tanto per aprirmi?» «Marito mio, come mai sei tornato così presto? Non mi avevi detto che per tutta stanotte avresti avuto da are in campagna?» «Sì, ma domattina sul presto mi tocca accendere il orno per il pane e mi occorre una bracciata di legna, quella stipata sotto il letto.» «Marito mio, ma proprio adesso dovevi tornare?» t ornare?» «E quando?» rispose adirato il marito. Quel povero prete intanto, che sentiva tutto, s’era atto p iccolo piccolo dalla paura. Così il marito ccò la testa sotto il letto per prendere la legna… e non ti andò a scoprire quel cavolo di prete? Mo’ là ti dovevi trovare, glio mio! «Beh? cosa ai là sotto brutto porco a quest’ora a casa mia?» E te lo suonò ben bene di botte, e con un calcio in culo lo ece volare uori di casa. Il prete, tutto malconcio, andò a ripararsi sotto un carretto nei pressi della casa. Alle dieci in punto bussò il secondo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi.» «Li hai portati i duecento ducati?» «Sì che li ho portati.» E lo ece entrare, aerrò i duecento ducati e propose anche a lui di andare in camera a spogliarsi e aspettarlo sul canapé. E il prete, anche lui con una certa impazienza, corse subito in camera a spogliarsi. Lì che bussò di nuovo il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito! Sai cosa puoi are?» disse al prete «Nasconditi nel canestro grande che si trova sotto il letto, che se ti vede qui mio marito… sono dolori per te!» E il prete, senza un vestito addosso, andò a nascondersi nel cane-
«Nci vulìa tantu cu mme apri?» «Maritu miu, ma cce ssi’ benutu aci a st’ora? Nu’ mm’eri tittu» critandu mo’ cu lla sente lu prete «ca ìi butu šcire ore tuttu stanotte?» «Sine, ma àggiu ddumare lu urnu cramatina mprima, e mm’àggiu mm ’àggiu šcerratu mme pìju na razzata te legna te in ra ra ccasa.» «Maritu miu, ma propriu moi eri benire?» «E quandu se no? T’àggiu tittu ca àggiu ddumare lu urnu e cca me sérvanu li táccari.» Ddhu pòuru prete, scusu sotta lu jettu, ‘ntantu, sentendu lu maritu, s’ia attu comu na coculeddha. E quandu lu maritu mise la capu sotta lu jettu cu sse pija na razzata te legna, e šciu bitte ddha ssotta ddhu d dhu sangu te prete… a ddhai mo mo’’ t’ìi ruare! ruare! «Beh? e cce ggh’ete ca aci qua ssotta a ‘st’ora ‘st’ora a casa mia bruttu porcu!» E cusì tte lu deriscàu bonu bonu te mazzate, e, ccu nna cagge ‘n culu, lu mbarcàu ddha ore. Lu prete, ca stia culinutu, pe’ llu scornu scìu e sse nflàu sotta a nnu raìnu, raìnu, cu nnu’ ssia lu vite ciujèddhi. Quandu se ìcera le tece, ‘rriàu lu secondu prete. “Ttu-ttú!” «Ci ete?». «Maria, iu suntu.» «L’hai «L ’hai purtati li tocentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» E fce cu rasa, rasa, se nerràu li tocentu tucati e nne tisse cu bàsci a in ru ru ‘ll’addha stanza cu sse spòja e cu lla spetta susu llu canapé. E llu prete, ca nu’ bitìa l’ora puru iddhu, ucendu sciu sse spòja. Addhai ca tuzzàu ntorna lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh, sorta mia: marìtuma ete! Sai cce cc e anne?» ne tisse a ‘llu prete «Scùndite in ra ra llu canišcione ca stae sotta lu jettu, ca ci te vite marìtuma… su’ dduluri pe’ pe’ ttie!» E llu prete, culinutu, scìu e sse scuse sotta lu jettu in ra ra ‘llu canišcione. E a llu maritu, ca nu’ sse la binchiava te tuzzare:
«Ci voleva tanto per aprirmi?» «Marito mio, come mai sei tornato così presto? Non mi avevi detto che per tutta stanotte avresti avuto da are in campagna?» «Sì, ma domattina sul presto mi tocca accendere il orno per il pane e mi occorre una bracciata di legna, quella stipata sotto il letto.» «Marito mio, ma proprio adesso dovevi tornare?» t ornare?» «E quando?» rispose adirato il marito. Quel povero prete intanto, che sentiva tutto, s’era atto p iccolo piccolo dalla paura. Così il marito ccò la testa sotto il letto per prendere la legna… e non ti andò a scoprire quel cavolo di prete? Mo’ là ti dovevi trovare, glio mio! «Beh? cosa ai là sotto brutto porco a quest’ora a casa mia?» E te lo suonò ben bene di botte, e con un calcio in culo lo ece volare uori di casa. Il prete, tutto malconcio, andò a ripararsi sotto un carretto nei pressi della casa. Alle dieci in punto bussò il secondo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi.» «Li hai portati i duecento ducati?» «Sì che li ho portati.» E lo ece entrare, aerrò i duecento ducati e propose anche a lui di andare in camera a spogliarsi e aspettarlo sul canapé. E il prete, anche lui con una certa impazienza, corse subito in camera a spogliarsi. Lì che bussò di nuovo il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh, sorte mia, è mio marito! Sai cosa puoi are?» disse al prete «Nasconditi nel canestro grande che si trova sotto il letto, che se ti vede qui mio marito… sono dolori per te!» E il prete, senza un vestito addosso, andò a nascondersi nel canestro grande. E al marito che non la smetteva di bussare:
«Maritu miu, pròpriu moi ìi benire? Nu’ mm’eri tittu» orte mo’ cu lla senta lu prete «ca tuttu stanotte ìi butu stare ore?» mo’ «Sine, ma m’àggiu šcerratu lu canišcione pe’ ccramatina mprima: ca àggiu ccujìre le ulìe.» ‘Nsomma lu maritu rasìu, rasìu, aź àu àu le cuperte te lu jettu, ruvàu ruvàu lu prete, te lu ncofnàu bonu bonu te mazzate, ne tese na cagge ‘n culu e llu mbarcàu ddha ore. E ppuru quistu sciu ucendu sse scunde sotta ‘llu raìnu raìnu azza cumpagnìa a llu primu prete. Alle ùndici tuzzàu lu terzu terzu prete. «Ci ete?» «Iu suntu.» «L’hai «L ’hai purtati li recentu recentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» Ntorna lu fce rasa rasa e se nerràu li recentu recentu tucati. E nne tisse cu ba sse spòja in ru ru ll’addha stanza, e ccu lla spetta susu llu canapé. E ttuzzàu lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh sorta mia, marìtuma ete! Sai cce anne?» ne tisse a llu prete «Mìntite ‘sta veste e ‘stu azzulettu te la nonna mia, ssèttate susu ‘sta séggia e anne fnta ca sinti na vecchia poereddha ca tice rusari e cca cc a si’ benuta cquai pe’ pe’ lla limòsina. Ca ci va ssape gnenzi marìtuma ne ccite!» E llu prete fce comu ne tisse la Maria. Addhai ca rasìu rasìu lu maritu e sse ccorse te ddha vecchia. Ma pe’ llu attu ca ‘stu prete ia purtatu cchiù ssordi te l’addhi, ‘sta fata voź e nne risparmia le mazzate. «E quista ci ete?» ne tisse rasendu rasendu a lla mujère. «Nà! maritu miu, è nna pòera vecchia ca cercava la limòsina: sta mmurìa te ame. Ddha cristiana l’àggiu atta rase rase e sta nne tice tante recumaterne.» «Va be’, tanne nu pocu te rise e anne cu sse nde vae: ca cce boju ssentu recumaterne!»
«Marito mio, proprio adesso dovevi venire? Non mi avevi detto che saresti stato occupato tutta la notte in campagna?» «Sì, ma ho dimenticato il canestro grande per domattina, quando sul presto mi toccherà raccogliere le ulive.» Insomma il marito entrò, ccò la testa sotto il letto, tirò a sé il canestro grande e vi scovò il prete. E te lo suonò di santa ragione. Quindi gli diede un calcio in culo e lo ece volare uori di casa. E pure questo, così conciato, corse a darsi riparo sotto lo stesso carretto a ar compagnia al primo prete. Alle undici bussò il terzo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi» «Li hai portati i trecento ducati?» «Sì che li ho portati.» Lo ece entrare, s’aerrò i trecento ducati e gli disse di andare a spogliarsi sul canapé. E bussò il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh sorte mia, è mio marito! Fai come ti dico:» disse al prete «indossa questa veste e copriti il capo con un azzoletto, siediti e ai nta di essere una povera vecchierella che dice il rosario e che sei venuta qui per l’elemosina. Che, se s’accorge mio marito... sono dolori per tutti!» E il prete ece quanto gli raccomandò la Maria. Lì che ece ingresso il marito e si accorse della vecchia. «Ma chi è questa?» disse. «To’! «T o’! marito mio, è una povera vecchia vec chia che cercava l’elemosina, stava morendo di ame, le ho dato da mangiare e ora, in compenso, dice il rosario a suragio dei morti nostri.» «Vaa bene, dagli pure un po’ di rise, ma che se ne vada! Che «V non ho voglia di sentire suragi!» Stavolta al terzo prete urono risparmiate le botte, per via
«Maritu miu, pròpriu moi ìi benire? Nu’ mm’eri tittu» orte mo’ cu lla senta lu prete «ca tuttu stanotte ìi butu stare ore?» mo’ «Sine, ma m’àggiu šcerratu lu canišcione pe’ ccramatina mprima: ca àggiu ccujìre le ulìe.» ‘Nsomma lu maritu rasìu, rasìu, aź àu àu le cuperte te lu jettu, ruvàu ruvàu lu prete, te lu ncofnàu bonu bonu te mazzate, ne tese na cagge ‘n culu e llu mbarcàu ddha ore. E ppuru quistu sciu ucendu sse scunde sotta ‘llu raìnu raìnu azza cumpagnìa a llu primu prete. Alle ùndici tuzzàu lu terzu terzu prete. «Ci ete?» «Iu suntu.» «L’hai «L ’hai purtati li recentu recentu tucati?» «Sine, l’àggiu purtati.» Ntorna lu fce rasa rasa e se nerràu li recentu recentu tucati. E nne tisse cu ba sse spòja in ru ru ll’addha stanza, e ccu lla spetta susu llu canapé. E ttuzzàu lu maritu. «Ci ete?» «Marìtuta suntu, Maria, àprime.» «Uuùh sorta mia, marìtuma ete! Sai cce anne?» ne tisse a llu prete «Mìntite ‘sta veste e ‘stu azzulettu te la nonna mia, ssèttate susu ‘sta séggia e anne fnta ca sinti na vecchia poereddha ca tice rusari e cca cc a si’ benuta cquai pe’ pe’ lla limòsina. Ca ci va ssape gnenzi marìtuma ne ccite!» E llu prete fce comu ne tisse la Maria. Addhai ca rasìu rasìu lu maritu e sse ccorse te ddha vecchia. Ma pe’ llu attu ca ‘stu prete ia purtatu cchiù ssordi te l’addhi, ‘sta fata voź e nne risparmia le mazzate. «E quista ci ete?» ne tisse rasendu rasendu a lla mujère. «Nà! maritu miu, è nna pòera vecchia ca cercava la limòsina: sta mmurìa te ame. Ddha cristiana l’àggiu atta rase rase e sta nne tice tante recumaterne.» «Va be’, tanne nu pocu te rise e anne cu sse nde vae: ca cce boju ssentu recumaterne!» E lla vecchia se nde ssìu te casa e šciu azza cumpagnìa a ll’addhi ddo’ preti preti ca stíanu sotta llu raìnu. raìnu.
«Marito mio, proprio adesso dovevi venire? Non mi avevi detto che saresti stato occupato tutta la notte in campagna?» «Sì, ma ho dimenticato il canestro grande per domattina, quando sul presto mi toccherà raccogliere le ulive.» Insomma il marito entrò, ccò la testa sotto il letto, tirò a sé il canestro grande e vi scovò il prete. E te lo suonò di santa ragione. Quindi gli diede un calcio in culo e lo ece volare uori di casa. E pure questo, così conciato, corse a darsi riparo sotto lo stesso carretto a ar compagnia al primo prete. Alle undici bussò il terzo prete. «Chi è?» «Sono io, Maria, aprimi» «Li hai portati i trecento ducati?» «Sì che li ho portati.» Lo ece entrare, s’aerrò i trecento ducati e gli disse di andare a spogliarsi sul canapé. E bussò il marito. «Chi è?» «Sono il marito tuo, Maria, aprimi.» «Ooòh sorte mia, è mio marito! Fai come ti dico:» disse al prete «indossa questa veste e copriti il capo con un azzoletto, siediti e ai nta di essere una povera vecchierella che dice il rosario e che sei venuta qui per l’elemosina. Che, se s’accorge mio marito... sono dolori per tutti!» E il prete ece quanto gli raccomandò la Maria. Lì che ece ingresso il marito e si accorse della vecchia. «Ma chi è questa?» disse. «To’! «T o’! marito mio, è una povera vecchia vec chia che cercava l’elemosina, stava morendo di ame, le ho dato da mangiare e ora, in compenso, dice il rosario a suragio dei morti nostri.» «Vaa bene, dagli pure un po’ di rise, ma che se ne vada! Che «V non ho voglia di sentire suragi!» Stavolta al terzo prete urono risparmiate le botte, per via che in quanto a ducati era stato il più generoso. E la ‘vecchia’ se ne uscì di casa e andò a are compagnia agli altri due preti sotto il carretto.
E sse fce menź anotte, anotte, e ddhai ca tuzzàu lu sacristanu. La Maria ne aprìu, se nerràu li quaranta tucati e nne tisse puru a iddhu bàscia sse spòja susu lu canapé. Acquai ca tuzzàu lu maritu. «Sai cce anne?» ne tisse la Maria a llu sacristanu, ca s’ia misu già culinutu «Cu nnu’ tte canusca marìtuma, vane e ttaccate susu a quiddha scala ca stae a ll’addha càmbara e anne fnta ca aci lu Crucifssu. E ccusì fce lu sacristanu. ṭ rasìu rasìu lu maritu ‘ntantu e ddisse ‘lla Maria ca ne servìa la scala pe’ lla matina, ca ia šcire spruca ulìe. Ntorna: «Propriu moi, maritu miu!» orte mo’ cu senta lu sacristanu. Nsomma ne aprìu, ma cu lli picca tucati ca ia nduttu, lu sacristanu ‘sta fata se mmeritava nu bellu serviziu. Quandu lu maritu scìu ba ppija la scala, se ddunàu ca era mutu pisante. Nu’ Nu’ bitìa però, ca era scuru, e sse fce tare na candela te la Maria. La dumàu e la aź àu àu scendu lla minte propriu sotta lu culu te lu sacristanu. Acquai t’ìi ruàre, ruàre, fju miu… ca quantu cchiùi critava lu sacristanu, tantu cchiùi quiddhu ne mbicinava la candela ‘n culu. Nsomma puru lu sacristanu scìu azza la fne te l’addhi preti sotta ‘llu raìnu. raìnu. Allu crai mo’, era tuménica, la Maria voź e bàscia a mmessa a lla chèsia te lu primu prete. Quistu, tuttu nassatu te capu pe’ lle mazzate ca ia pijatu, quandu se vutàu dica dominuvubiscu, comu vitte la Maria ssettata propriu te nanzi, ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, centu tucati me costa!» «Bah, è mmeju mme nde vau te ‘sta chèsia,» tisse la Maria «ca ci no quistu sempre mmaleparole me canta. E šciu a lla chèsia te lu secondu prete. Ntorna quistu quandu la vitte, a llu dominuvubiscu ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, tocentu tucati me costa!» «Bah, mancu cquai pozzu venire cchiùi» tisse la Maria. E ppruàu bàscia a lla chèsia ch èsia te lu terzu prete, a ddhunca nc nc’era ’era puru
E giunse mezzanotte e bussò il sacrestano. La Maria gli aprì, s’aerrò i quaranta ducati e disse pure a lui di spogliarsi di là sul canapé. Al solito bussò il marito e la Maria questa volta raccomandò al sacrestano, che era già senza vestiti addosso: «Vaii nella stanza accanto, attàccati sulla scala in alto e ai n«Va ta di essere un crocesso: così mio marito non ti riconoscerà.» E così ece il sacrestano. Entrò il marito e disse alla Maria che l’indomani gli serviva giusto la scala per le ulive da abbacchiare. Di nuovo: «Marito mio, marito mio, perché sei venuto a quest’ora?» Ma il marito, per il sacrestano che di ducati ne aveva portati pochi, aveva riserbato un trattamento part icolare. Quando andò a sollevare la scala alla quale era attaccato il sacrestano, trovò che era troppo pesante. Era quasi buio nella stanza, ci vedeva poco, perciò si ece ec e portare una candela accesa dalla Maria per vedere il da arsi. E che ti ece? To’! To’! sollevò in aria la candela accesa e avvicinò la amma al culo del sacrestano. Qui mo’ ti dovevi trovare, glio mio, che quanto più urlava il sacrestano, tanto più il marito gli ccava la candela sotto il culo. E anche il sacrestano andò a nire sotto il carretto con gli altri preti. L’indomani era domenica mo’ e la Maria volle recarsi a messa nella chiesa del primo prete. Costui, tutto asciato in testa per le botte, voltandosi, nel dire messa, con le braccia aperte per dire Dominus vobiscum 9, ti andò a scorgere la Maria seduta proprio in prima la. Al che recitò invece: «E tu sei venuta apposta, cento ducati mi costa!» «Beh, è meglio andar via da questa chiesa,» disse la Maria «se no questo mi canterà sempre malparole. E si recò alla chiesa del secondo prete. Ma anche questi al Dominus vobiscum le recitò: «E tu sei venuta apposta, duecento ducati mi costa!» «Beh, mi tocca andar via!» disse la Maria. E provò a recarsi alla chiesa del terzo prete dove c’era pure il sacrestano.
E sse fce menź anotte, anotte, e ddhai ca tuzzàu lu sacristanu. La Maria ne aprìu, se nerràu li quaranta tucati e nne tisse puru a iddhu bàscia sse spòja susu lu canapé. Acquai ca tuzzàu lu maritu. «Sai cce anne?» ne tisse la Maria a llu sacristanu, ca s’ia misu già culinutu «Cu nnu’ tte canusca marìtuma, vane e ttaccate susu a quiddha scala ca stae a ll’addha càmbara e anne fnta ca aci lu Crucifssu. E ccusì fce lu sacristanu. ṭ rasìu rasìu lu maritu ‘ntantu e ddisse ‘lla Maria ca ne servìa la scala pe’ lla matina, ca ia šcire spruca ulìe. Ntorna: «Propriu moi, maritu miu!» orte mo’ cu senta lu sacristanu. Nsomma ne aprìu, ma cu lli picca tucati ca ia nduttu, lu sacristanu ‘sta fata se mmeritava nu bellu serviziu. Quandu lu maritu scìu ba ppija la scala, se ddunàu ca era mutu pisante. Nu’ Nu’ bitìa però, ca era scuru, e sse fce tare na candela te la Maria. La dumàu e la aź àu àu scendu lla minte propriu sotta lu culu te lu sacristanu. Acquai t’ìi ruàre, ruàre, fju miu… ca quantu cchiùi critava lu sacristanu, tantu cchiùi quiddhu ne mbicinava la candela ‘n culu. Nsomma puru lu sacristanu scìu azza la fne te l’addhi preti sotta ‘llu raìnu. raìnu. Allu crai mo’, era tuménica, la Maria voź e bàscia a mmessa a lla chèsia te lu primu prete. Quistu, tuttu nassatu te capu pe’ lle mazzate ca ia pijatu, quandu se vutàu dica dominuvubiscu, comu vitte la Maria ssettata propriu te nanzi, ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, centu tucati me costa!» «Bah, è mmeju mme nde vau te ‘sta chèsia,» tisse la Maria «ca ci no quistu sempre mmaleparole me canta. E šciu a lla chèsia te lu secondu prete. Ntorna quistu quandu la vitte, a llu dominuvubiscu ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, tocentu tucati me costa!» «Bah, mancu cquai pozzu venire cchiùi» tisse la Maria. E ppruàu bàscia a lla chèsia ch èsia te lu terzu prete, a ddhunca nc nc’era ’era puru lu sacristanu.
E giunse mezzanotte e bussò il sacrestano. La Maria gli aprì, s’aerrò i quaranta ducati e disse pure a lui di spogliarsi di là sul canapé. Al solito bussò il marito e la Maria questa volta raccomandò al sacrestano, che era già senza vestiti addosso: «Vaii nella stanza accanto, attàccati sulla scala in alto e ai n«Va ta di essere un crocesso: così mio marito non ti riconoscerà.» E così ece il sacrestano. Entrò il marito e disse alla Maria che l’indomani gli serviva giusto la scala per le ulive da abbacchiare. Di nuovo: «Marito mio, marito mio, perché sei venuto a quest’ora?» Ma il marito, per il sacrestano che di ducati ne aveva portati pochi, aveva riserbato un trattamento part icolare. Quando andò a sollevare la scala alla quale era attaccato il sacrestano, trovò che era troppo pesante. Era quasi buio nella stanza, ci vedeva poco, perciò si ece ec e portare una candela accesa dalla Maria per vedere il da arsi. E che ti ece? To’! To’! sollevò in aria la candela accesa e avvicinò la amma al culo del sacrestano. Qui mo’ ti dovevi trovare, glio mio, che quanto più urlava il sacrestano, tanto più il marito gli ccava la candela sotto il culo. E anche il sacrestano andò a nire sotto il carretto con gli altri preti. L’indomani era domenica mo’ e la Maria volle recarsi a messa nella chiesa del primo prete. Costui, tutto asciato in testa per le botte, voltandosi, nel dire messa, con le braccia aperte per dire Dominus vobiscum 9, ti andò a scorgere la Maria seduta proprio in prima la. Al che recitò invece: «E tu sei venuta apposta, cento ducati mi costa!» «Beh, è meglio andar via da questa chiesa,» disse la Maria «se no questo mi canterà sempre malparole. E si recò alla chiesa del secondo prete. Ma anche questi al Dominus vobiscum le recitò: «E tu sei venuta apposta, duecento ducati mi costa!» «Beh, mi tocca andar via!» disse la Maria. E provò a recarsi alla chiesa del terzo prete dove c’era pure il sacrestano. Signica ‘Il Signore sia con voi’. Fino agli anni sessanta, il prete celebrava la messa voltando le spalle al pubblico, sicché al Dominus vobiscum usava girarsi verso il pubblico allargando le braccia. 9
Ma puru cquai, quandu lu prete se la vitte vi tte ssettata te nanzi, a llu dominuvubiscu ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, recentu recentu tucati me costa!» Ma nu’ fce ttiempu cu spiccia, ca lu sacristanu, cu llu campanièddhu ‘mmanu, se mise ccantare puru iddhu: «E mmie puru e mmie puru, quaranta tucati e nna brusciata te culu!» E oe cusì ca la Maria nu’ ppotte scire cchiùi sse vite messa a nnuddha chèsia. E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
Ma anche qui, quando il prete se la vide seduta in prima la, nel voltarsi al Dominus vobiscum: «E tu sei venuta apposta, trecento ducati mi costa!» Ma non ece in tempo a nire, che il sacrestano, sbatacchiando il campanello in mano, si mise a salmodiare più orte: «E io puru e io puru10, quaranta ducati e una bruciata di culu!» E u così che la Maria, da quel giorno, non potette requentare più alcuna chiesa. E il racconto nisce qui, morirono loro e campammo noi.
Ma puru cquai, quandu lu prete se la vitte vi tte ssettata te nanzi, a llu dominuvubiscu ne fce cantandu: «E ttie si’ benuta ‘mposta, recentu recentu tucati me costa!» Ma nu’ fce ttiempu cu spiccia, ca lu sacristanu, cu llu campanièddhu ‘mmanu, se mise ccantare puru iddhu: «E mmie puru e mmie puru, quaranta tucati e nna brusciata te culu!» E oe cusì ca la Maria nu’ ppotte scire cchiùi sse vite messa a nnuddha chèsia. E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
Ma anche qui, quando il prete se la vide seduta in prima la, nel voltarsi al Dominus vobiscum: «E tu sei venuta apposta, trecento ducati mi costa!» Ma non ece in tempo a nire, che il sacrestano, sbatacchiando il campanello in mano, si mise a salmodiare più orte: «E io puru e io puru10, quaranta ducati e una bruciata di culu!» E u così che la Maria, da quel giorno, non potette requentare più alcuna chiesa. E il racconto nisce qui, morirono loro e campammo noi.
10
Pure in dialetto è puru.
te cQuai cQuai passava iu c a te
Na fata, nu urese scìu ore ‘n cavaddhu lla ciùccia cu azza la munda te le ulìe. Topu ca ttaccàu la ciùccia sotta nn àrburu, salìu susu nna ulìa e sse mise ssettatu propriu susu lla cima ca ia ttajàre. Addhai ca se ruàu ruàu ppassare nu cristianu ca se ddunàu te ddhu urese ssettatu propriu susu lla cima ca sta tajàva. E nne tisse: «Bon omu, essi te ddhai, se no cati te ddha ssusu paru cu ttutta la cima!» Nu’ fce ttiempu cu spiccia la parola, ca la cima se spezzàu e llu urese catìu cu tutta la cima. Ma nu’ nd’ìppe nd’ìppe roppu roppu male, anzi, se ‘ ź ź àu àu te pressa e nne tisse a llu cristianu ca l’ia ‘vvertutu: «Vistu ca m’hai nduvinatu ca ia ccatire, sai ‘llora nduvini puru quandu moru? Moi me l’hai ddire, sangu te cusì!» «Ddha ciuccia toa ete?» ne dumandàu lu cristianu. «Sine» tisse lu urese. «E ‘llora quandu ace re re ppìrate la ciùccia, tandu mori.» Lu urese ‘llora, tuttu scustulisciatu (ca mo mo’’ ia catutu te susu nn àrberu!), restaccàu la ciùccia e ppijàu cu mmonta susu cu sse nde vae ‘ccasa. Ma nu’ fce ttiempu cu ssale, ca la ciùccia ccuminciàu ttirare caggi. E cquai ca ne scappàu lu primu pìratu. Se zzaccàu ppijare pena ‘llora lu rese. E ddisse: «Do’’ addhe pìrate su’ rrimaste: allora è bicina la morte «Do mor te mia!» E ccusì nu’ bitìa l’ora cu ‘rria ‘ccasa. Dopu nu pocu, la ciùccia fce n addhu pìratu. Tisse ‘llora lu urese: «N addhu nde tegnu, sorta mia!» E sse mise ttirare caggi a lla ciùccia ‘llora, e nne tia puru cu lu scurisciatu, ‘mmotu cu ‘rria prestu ccasa soa. La ciùccia, cu ttuttu ddhu scumbussulamèntu, sùbitu fce lu terzu pìratu. Lu urese, a ‘stu puntu, tuttu nu corpu,
Che di qua passavo io
Una volta, un contadino si recò al suo podere in groppa all’asina. Era tempo di monda degli ulivi. Legata che ebbe l’asina a un tronco, diede inizio alla monda arrampicandosi sul primo albero. Il caso volle che andò a porsi cavalcioni proprio sulla cima dell’albero che si accingeva a segare. Lì che si trovò a passare un cristiano, il quale, avendo notato che il contadino stava in quell’assurda posizione, pensò bene di avvisarlo del pericolo: «Buon uomo,» rivolgendosi al contadino «levati di lì, se no rischi di cadere con tutta la mondatura!» Ma non nì di dire che la cima cadde trascinandosi dietro anche il contadino. Questi ortunatamente non si ece tanto male, tanto che ben presto si rimise in piedi. Solo che non riusciva a spiegarsi come quel cristiano avesse potuto indovinare la sua caduta. E gli disse: «Cristiano mio, visto che hai predetto la mia caduta, saprai pure quando mi toccherà morire allora. Mo’ tocca che me lo dici, sangue di quel porco!» «È tua quell’asina?» chiese il cristiano. «Sì» rispose il contadino. «Quando l’asina tua avrà atto tre scoregge, a quel punto morirai» sentenziò. A queste parole il contadino rimase tutto rastornato e così decise di slegare l’asina e di tornarsene subito a casa. Ma non ece in tempo a montarci sopra che l’asina prese a serrare calci. E qui le scappò la prima scoreggia. Il contadino cominciò a prendersi pena allora. «Altre due scoregge sono rimaste:» disse «la morte mia è vicina allora.» Così non vedeva l’ora di arrivare a casa. Ma, appena a metà strada, all’asina scappò una seconda scoreggia. Disse allora il contadino: «Ne è rimasta una sola, sorte mia!» E per arrivare a casa più in retta si mise a menare calci all’asina e a darle pure di scudi-
te cQuai cQuai passava iu c a te
Che di qua passavo io
Na fata, nu urese scìu ore ‘n cavaddhu lla ciùccia cu azza la munda te le ulìe. Topu ca ttaccàu la ciùccia sotta nn àrburu, salìu susu nna ulìa e sse mise ssettatu propriu susu lla cima ca ia ttajàre. Addhai ca se ruàu ruàu ppassare nu cristianu ca se ddunàu te ddhu urese ssettatu propriu susu lla cima ca sta tajàva. E nne tisse: «Bon omu, essi te ddhai, se no cati te ddha ssusu paru cu ttutta la cima!» Nu’ fce ttiempu cu spiccia la parola, ca la cima se spezzàu e llu urese catìu cu tutta la cima. Ma nu’ nd’ìppe nd’ìppe roppu roppu male, anzi, se ‘ ź ź àu àu te pressa e nne tisse a llu cristianu ca l’ia ‘vvertutu: «Vistu ca m’hai nduvinatu ca ia ccatire, sai ‘llora nduvini puru quandu moru? Moi me l’hai ddire, sangu te cusì!» «Ddha ciuccia toa ete?» ne dumandàu lu cristianu. «Sine» tisse lu urese. «E ‘llora quandu ace re re ppìrate la ciùccia, tandu mori.» Lu urese ‘llora, tuttu scustulisciatu (ca mo mo’’ ia catutu te susu nn àrberu!), restaccàu la ciùccia e ppijàu cu mmonta susu cu sse nde vae ‘ccasa. Ma nu’ fce ttiempu cu ssale, ca la ciùccia ccuminciàu ttirare caggi. E cquai ca ne scappàu lu primu pìratu. Se zzaccàu ppijare pena ‘llora lu rese. E ddisse: «Do’’ addhe pìrate su’ rrimaste: allora è bicina la morte «Do mor te mia!» E ccusì nu’ bitìa l’ora cu ‘rria ‘ccasa. Dopu nu pocu, la ciùccia fce n addhu pìratu. Tisse ‘llora lu urese: «N addhu nde tegnu, sorta mia!» E sse mise ttirare caggi a lla ciùccia ‘llora, e nne tia puru cu lu scurisciatu, ‘mmotu cu ‘rria prestu ccasa soa. La ciùccia, cu ttuttu ddhu scumbussulamèntu, sùbitu fce lu terzu pìratu. Lu urese, a ‘stu puntu, tuttu nu corpu, zziccàu e sse lassàu ccatìre te susu lla ciùccia pe’ mmortu ‘n terra. E men re re ca stia menatu ‘n terra critava: «Pòvera mmie! pòvera mmie! su’ mmortu! a ccasa mia nu’ ‘rriai
Una volta, un contadino si recò al suo podere in groppa all’asina. Era tempo di monda degli ulivi. Legata che ebbe l’asina a un tronco, diede inizio alla monda arrampicandosi sul primo albero. Il caso volle che andò a porsi cavalcioni proprio sulla cima dell’albero che si accingeva a segare. Lì che si trovò a passare un cristiano, il quale, avendo notato che il contadino stava in quell’assurda posizione, pensò bene di avvisarlo del pericolo: «Buon uomo,» rivolgendosi al contadino «levati di lì, se no rischi di cadere con tutta la mondatura!» Ma non nì di dire che la cima cadde trascinandosi dietro anche il contadino. Questi ortunatamente non si ece tanto male, tanto che ben presto si rimise in piedi. Solo che non riusciva a spiegarsi come quel cristiano avesse potuto indovinare la sua caduta. E gli disse: «Cristiano mio, visto che hai predetto la mia caduta, saprai pure quando mi toccherà morire allora. Mo’ tocca che me lo dici, sangue di quel porco!» «È tua quell’asina?» chiese il cristiano. «Sì» rispose il contadino. «Quando l’asina tua avrà atto tre scoregge, a quel punto morirai» sentenziò. A queste parole il contadino rimase tutto rastornato e così decise di slegare l’asina e di tornarsene subito a casa. Ma non ece in tempo a montarci sopra che l’asina prese a serrare calci. E qui le scappò la prima scoreggia. Il contadino cominciò a prendersi pena allora. «Altre due scoregge sono rimaste:» disse «la morte mia è vicina allora.» Così non vedeva l’ora di arrivare a casa. Ma, appena a metà strada, all’asina scappò una seconda scoreggia. Disse allora il contadino: «Ne è rimasta una sola, sorte mia!» E per arrivare a casa più in retta si mise a menare calci all’asina e a darle pure di scudiscio. Fu così che all’asina, per via di questo scombussolamento, scappò la terza scoreggia. A questo punto il contadino si lasciò cadere a terra per morto. E stando disteso al suolo gridava:
cchiui!» A ‘stu puntu nu’ ccuntàu cchiui: ca se critìa ca era mortu mo’. Mo’’ nc’era Mo nc’era ggente ca passava, e llu primu ca lu vitte an terra se ermàu e ddisse all’addhi cristiani ca rriàvanu: «A cquai nc’ete nu mortu: purtàmulu a llu paese e bitìmu ci ete.» L’hanu zziccatu e ll’hanu misu pe’ ccurtu, tuttu mortu ca era, susu la ciùccia, e poi s’hanu misi ttirare la ciùccia a ttirezione te lu paese. Ma, rriati ca ora te nanzi a do’ s rate, rate, quando sta šcìanu cu ppìjanu quiddha sbaijata, lu urese ca stia pe’ mmortu susu la ciùccia se vutàu e ddisse a quiddhi cristiani: «Ca quandu era viu iu, te cquai passava!» mmušciàndune l’addha s rata r ata ca ìanu ppijàre.
«Povero me! povero me! sono morto! a casa non ci arrivo più!» E si mise in testa di essere morto. Sopraggiunse della gente intanto e guardava l’uomo per terra. Uno disse agli altri: «C’è un morto qui, portiamolo al paese, vediamo di chi si tratta.» Quindi lo rimossero e lo sistemarono di traverso, accia sotto, in groppa all’asina, poi tirarono in direzione del paese. Ma, giunti che urono di ronte a un bivio, stavano per imboccare la strada sbagliata, quando il contadino alzò la testa e: «Attenti! che quand’io ero vivo di qua passavo» disse indicando a tutti la strada da imboccare.
cchiui!» A ‘stu puntu nu’ ccuntàu cchiui: ca se critìa ca era mortu mo’. Mo’’ nc’era Mo nc’era ggente ca passava, e llu primu ca lu vitte an terra se ermàu e ddisse all’addhi cristiani ca rriàvanu: «A cquai nc’ete nu mortu: purtàmulu a llu paese e bitìmu ci ete.» L’hanu zziccatu e ll’hanu misu pe’ ccurtu, tuttu mortu ca era, susu la ciùccia, e poi s’hanu misi ttirare la ciùccia a ttirezione te lu paese. Ma, rriati ca ora te nanzi a do’ s rate, rate, quando sta šcìanu cu ppìjanu quiddha sbaijata, lu urese ca stia pe’ mmortu susu la ciùccia se vutàu e ddisse a quiddhi cristiani: «Ca quandu era viu iu, te cquai passava!» mmušciàndune l’addha s rata r ata ca ìanu ppijàre.
«Povero me! povero me! sono morto! a casa non ci arrivo più!» E si mise in testa di essere morto. Sopraggiunse della gente intanto e guardava l’uomo per terra. Uno disse agli altri: «C’è un morto qui, portiamolo al paese, vediamo di chi si tratta.» Quindi lo rimossero e lo sistemarono di traverso, accia sotto, in groppa all’asina, poi tirarono in direzione del paese. Ma, giunti che urono di ronte a un bivio, stavano per imboccare la strada sbagliata, quando il contadino alzò la testa e: «Attenti! che quand’io ero vivo di qua passavo» disse indicando a tutti la strada da imboccare.
a messa messa te te Le Le viLLaNe viLLaNe L a
Nònnuma lu Pascalinu, quandu abitava a Nevianu, a ddhunca acìa l’uccièri, tenìa casa propriu te runte a nnu palazzu te signuri, a via Roma. Addhai ca na tuménica mmatina, nacciata a llu balcone te sti signuri, nc’era tonna Rusina, ca, vitendu vi tendu nònnuma ca sta s ta’’ ‘ssia te casa, aź àu àu voce e llu chiamau: «Pascalinu? Pascalinu?» «Cumandi! 6 tonna Rusina,» prontu nònnuma. «Sai gnenzi ci è bessuta la messa te le villane?» «Sine,» ne rispuse nònnuma «ca mo’ ccumìncia quiddha te le bbuttane!» 7 Il cumandi , che sta per ‘sì’, era una orma di riverenza che si usava non soltanto verso i ‘signori’, ma anche verso i genitori e le persone più grandi d’età. Nella mia inanzia era ancora d’uso. 7 Mio nonno materno Pasqualino, come pure mia nonna Maria Neve, era di Neviano, in provincia di Lecce. Era nato nel 1887 ed era emigrato a Collemeto intorno al 1935 con tutta la amiglia per la coltivazione del tabacco. Aveva sette gli, di cui sei emmine. Altri quattro bambini gli erano morti di spagnola durante la prima guerra mondiale, mentre lui stava al ronte. A Collemeto tuttavia non smise di esercitare il mestiere di macellaio, lasciando le incombenze del tabacco alle tante glie emmine. Fu proprio una disavventura economica a portarlo via da Neviano, dove pare osse stato un macellaio aermato e stimato. Si gloriava spesso di un suo antenato, un Giustizieri, che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve di Neviano. Andò tutto bene no a quando un giorno pensò di investire tutti i suoi risparmi in un treno carico di asini. Si recò personalmente in Calabria per trattare l’aare, l’aare, e, dopo essersi assicurato una serie di vagoni merci stracolmi di asini, quanto bastava per riempire le macellerie dell’intero Salento, arontò il viaggio di ritorno. Gli asini però non venivano tutti da uno stesso allevamento, perciò non avevano amiliarità tra di loro. Fu così che durante il tragitto, questi asini, assiepati insieme per orza, presero a darsela di santa ragione, serrandosi calci e morsicandosi a sangue a più non posso. Quando alla stazione d’arrivo urono aperti i vagoni, lo spettacolo u impressionante: la maggior parte degli asini era morta, i pochi rima-
La messa delle villane
Mio nonno Pasqualino, quando abitava a Neviano, dove di mestiere aceva il macellaio, aveva casa proprio di ronte a un palazzo di ricchi signori, in via Roma. Lì che una domenica mattina, aacciata al balcone di questi signori, c’era una certa donna Rosina, che, notando mio nonno uscire di casa, lo chiamò a gran voce: «Pasqualino? Pasqualino?» «Comandi! donna Rosina,» pronto mio nonno. «Sai niente se è nita la messa delle villane?» «Sì,» rispose mio nonno «e mo’ comincia quella delle puttane!»
6
tabacco. Ma urono quattro anni di inruttuoso lavoro e si convinse a tornare a coltivarlo in provincia di Lecce. Non a Neviano, però, ma a Collemeto, distante 15 chilometri. Lo assicurarono che qui c’era della terra buona e andò a riugiarsi in una masseria in località Molinari. Il tabacco tabacco a quei tempi era pur sempre una risorsa. Mia madre mi raccontava che, quando partirono da Neviano per Monteparano, era il 13 dicembre, Santa Lucia, proprio il giorno del suo onomastico. Aveva requentato appena tre mesi della prima elementare. Da quel giorno mia madre non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontare. Molto più tardi, però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo ece per amore di mio padre che stava in guerra a Ventimiglia. Ventimiglia. Non sopportava che altri le leggessero le lettere che lui spediva dal ronte. Così si armò di sillabario e, da sola, piano
La messa delle villane
a messa messa te te Le Le viLLaNe viLLaNe L a
Nònnuma lu Pascalinu, quandu abitava a Nevianu, a ddhunca acìa l’uccièri, tenìa casa propriu te runte a nnu palazzu te signuri, a via Roma. Addhai ca na tuménica mmatina, nacciata a llu balcone te sti signuri, nc’era tonna Rusina, ca, vitendu vi tendu nònnuma ca sta s ta’’ ‘ssia te casa, aź àu àu voce e llu chiamau: «Pascalinu? Pascalinu?» «Cumandi! 6 tonna Rusina,» prontu nònnuma. «Sai gnenzi ci è bessuta la messa te le villane?» «Sine,» ne rispuse nònnuma «ca mo’ ccumìncia quiddha te le bbuttane!» 7 Il cumandi , che sta per ‘sì’, era una orma di riverenza che si usava non soltanto verso i ‘signori’, ma anche verso i genitori e le persone più grandi d’età. Nella mia inanzia era ancora d’uso. 7 Mio nonno materno Pasqualino, come pure mia nonna Maria Neve, era di Neviano, in provincia di Lecce. Era nato nel 1887 ed era emigrato a Collemeto intorno al 1935 con tutta la amiglia per la coltivazione del tabacco. Aveva sette gli, di cui sei emmine. Altri quattro bambini gli erano morti di spagnola durante la prima guerra mondiale, mentre lui stava al ronte. A Collemeto tuttavia non smise di esercitare il mestiere di macellaio, lasciando le incombenze del tabacco alle tante glie emmine. Fu proprio una disavventura economica a portarlo via da Neviano, dove pare osse stato un macellaio aermato e stimato. Si gloriava spesso di un suo antenato, un Giustizieri, che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve di Neviano. Andò tutto bene no a quando un giorno pensò di investire tutti i suoi risparmi in un treno carico di asini. Si recò personalmente in Calabria per trattare l’aare, l’aare, e, dopo essersi assicurato una serie di vagoni merci stracolmi di asini, quanto bastava per riempire le macellerie dell’intero Salento, arontò il viaggio di ritorno. Gli asini però non venivano tutti da uno stesso allevamento, perciò non avevano amiliarità tra di loro. Fu così che durante il tragitto, questi asini, assiepati insieme per orza, presero a darsela di santa ragione, serrandosi calci e morsicandosi a sangue a più non posso. Quando alla stazione d’arrivo urono aperti i vagoni, lo spettacolo u impressionante: la maggior parte degli asini era morta, i pochi rimasti avevano erite in tutto il corpo. Così, l’aare, per così dire, andò in umo e mio nonno, che si era indebitato nell’investimento, si ridusse sul lastrico. Ma aveva sette gli e non si perse d’animo: si traserì con tutta la amiglia a Monteparano, nei pressi di Taranto, per la coltivazione del
Mio nonno Pasqualino, quando abitava a Neviano, dove di mestiere aceva il macellaio, aveva casa proprio di ronte a un palazzo di ricchi signori, in via Roma. Lì che una domenica mattina, aacciata al balcone di questi signori, c’era una certa donna Rosina, che, notando mio nonno uscire di casa, lo chiamò a gran voce: «Pasqualino? Pasqualino?» «Comandi! donna Rosina,» pronto mio nonno. «Sai niente se è nita la messa delle villane?» «Sì,» rispose mio nonno «e mo’ comincia quella delle puttane!»
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tabacco. Ma urono quattro anni di inruttuoso lavoro e si convinse a tornare a coltivarlo in provincia di Lecce. Non a Neviano, però, ma a Collemeto, distante 15 chilometri. Lo assicurarono che qui c’era della terra buona e andò a riugiarsi in una masseria in località Molinari. Il tabacco tabacco a quei tempi era pur sempre una risorsa. Mia madre mi raccontava che, quando partirono da Neviano per Monteparano, era il 13 dicembre, Santa Lucia, proprio il giorno del suo onomastico. Aveva requentato appena tre mesi della prima elementare. Da quel giorno mia madre non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontare. Molto più tardi, però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo ece per amore di mio padre che stava in guerra a Ventimiglia. Ventimiglia. Non sopportava che altri le leggessero le lettere che lui spediva dal ronte. Così si armò di sillabario e, da sola, piano piano, cominciò a scrivere a mio padre. Di lettere poi ne avrebbe scritte tante. A me, sempre lontano da casa, tantissime. Leggeva molto anche, specie i libri sacri e quelli popolari.
uNiNu dON t uNiNu
Nc’era nu prete ca se chiamava don Tuninu. Tenìa na beddha cantina china te vinu, te oju e dde sardizze. Ogni giurnu ca passava, però, vitìa ca tuttu ‘stu beneteddìu chianu chianu se ssutti jàva. A ddire la verità, don Tuninu Tuninu nu suspettu su cci lu rrubava r rubava lu tenìa: lu Tore, lu sacristanu sou. Tante fate n’ia attu la fla, ma nu’ ss’era mai ftatu cu llu scopre e nnu’ ssapìa comu ia are cu lu spompa. E ccomu ia are e ccomu nu’ nn’ia are, alla fne pensàu ca l’unicu motu era azza sse cunessa: acquai lu Tore tuccava pe’ orza cu ddica li peccati soi. Sicché alla prima occasione, don Toninu pruvàu nne dice a llu Tore: «Tore, ma comu ete ca nu’ tte cunessi mai? Pussibile ca nu’ ttieni mancu nu peccatu? Ca simu tutti peccatori!» «Iu nu’ ttegnu propriu bisognu,» tisse lu Tore. «Cce mm’àggiu ccunessare se stau sempre in ra ra la chiesa, servu messa, sonu le campane, ticu rusari... Peccati nu’ nu’ nde tegnu propriu!» «Nu’ è ppussibile!» nsistia don Tuninu «Sciàmu tte cunessi! Cce tte custa? Sciamu, ca poi te tau na beddha ‘ssoluzione.» ‘Nsomma don Tuninu, quantu fce quantu nu’ fce, riuscìu ccunvince lu Tore Tore cu sse cunessa. E ‘ppena lu Tore Tore se nginucchiàu nnanzi ‘llu cunessiunile, don Tuninu Tuninu zzaccàu: «Beh, Tore, Tore, timme cce ppeccati hai attu.» «Nuddhu, don Tuninu, te l’àggiu titta ca nu’ ttegnu nuddhu peccatu: quante fate te l’àggiu ddire?» «Ma pussibile, Tore? E ddimme ‘llora: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te in ra ra la cantina mia?» «Don Tuninu, nu’ sse sente!» «Comu nu’ sse sente, Tore, ca iu sta tte sentu! Tornu cu dicu: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le
Don Tonino
C’era un prete che si chiamava don Tonino. Tonino. Teneva Teneva una bella cantina piena di vino, di olio e di salsicce. Col passare del tempo, però, s’avvide che tutto questo bendiddio andava man mano assottigliandosi. A dire il vero un sospetto don Tonino ce l’aveva su chi lo rubava: Tore, il sacrestano suo. Tante Tante volte gli aveva atto la la, l a, ma non era mai riuscito a trovarlo con le mani nel sacco. E come are e come non are per scoprirlo, alla ne gli venne in mente che l’unico modo era quello di portarlo in conessionale: solo così inatti avrebbe potuto ammettere le sue maleatte. Sicché alla prima occasione, don Tonino Tonino provò a dire al sacrestano: «Tore, «T ore, ma com’è che tu non ti conessi mai? Possibile che tu sia senza peccato? Che tutti abbiamo qualche peccatuccio.» «Io non tengo bisogno, don Tonino:» rispose Tore «come accio a commettere peccati se non accio che stare in chiesa, servire messa, dire rosari, accendere candele, suonare campane?» «Non è possibile,» insisteva don Tonino «dài, vieni al conessionale! In ondo che ti costa? Vedrai che dopo ti darò una bella assoluzione.» Insomma don Tonino, Tonino, quanto ece e quanto non ece, convinse nalmente il sacrestano a conessarsi. E non appena Tore Tore si inginocchiò davanti alla grata del conessionale, don Tonino Tonino cominciò: «Beh, Tore, Tore, dimmi che peccati hai atto.» «Nessuno, don Tonino, te l’ho già detto che io non tengo peccati. Ma quante volte te lo devo dire?» «Possibile, Tore? E dimmi allora: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che c he si ruba le salsicce della cantina
uNiNu dON t uNiNu
Don Tonino
Nc’era nu prete ca se chiamava don Tuninu. Tenìa na beddha cantina china te vinu, te oju e dde sardizze. Ogni giurnu ca passava, però, vitìa ca tuttu ‘stu beneteddìu chianu chianu se ssutti jàva. A ddire la verità, don Tuninu Tuninu nu suspettu su cci lu rrubava r rubava lu tenìa: lu Tore, lu sacristanu sou. Tante fate n’ia attu la fla, ma nu’ ss’era mai ftatu cu llu scopre e nnu’ ssapìa comu ia are cu lu spompa. E ccomu ia are e ccomu nu’ nn’ia are, alla fne pensàu ca l’unicu motu era azza sse cunessa: acquai lu Tore tuccava pe’ orza cu ddica li peccati soi. Sicché alla prima occasione, don Toninu pruvàu nne dice a llu Tore: «Tore, ma comu ete ca nu’ tte cunessi mai? Pussibile ca nu’ ttieni mancu nu peccatu? Ca simu tutti peccatori!» «Iu nu’ ttegnu propriu bisognu,» tisse lu Tore. «Cce mm’àggiu ccunessare se stau sempre in ra ra la chiesa, servu messa, sonu le campane, ticu rusari... Peccati nu’ nu’ nde tegnu propriu!» «Nu’ è ppussibile!» nsistia don Tuninu «Sciàmu tte cunessi! Cce tte custa? Sciamu, ca poi te tau na beddha ‘ssoluzione.» ‘Nsomma don Tuninu, quantu fce quantu nu’ fce, riuscìu ccunvince lu Tore Tore cu sse cunessa. E ‘ppena lu Tore Tore se nginucchiàu nnanzi ‘llu cunessiunile, don Tuninu Tuninu zzaccàu: «Beh, Tore, Tore, timme cce ppeccati hai attu.» «Nuddhu, don Tuninu, te l’àggiu titta ca nu’ ttegnu nuddhu peccatu: quante fate te l’àggiu ddire?» «Ma pussibile, Tore? E ddimme ‘llora: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te in ra ra la cantina mia?» «Don Tuninu, nu’ sse sente!» «Comu nu’ sse sente, Tore, ca iu sta tte sentu! Tornu cu dicu: ci ete ca se rruba lu vinu, ci ete ca se rruba l’oju, ci ete ca se rruba le sardizze te in ra ra la cantina mia?» «Don Tuninu, Tuninu, te l’aggiu titta: nu nu’’ sse sente!»
C’era un prete che si chiamava don Tonino. Tonino. Teneva Teneva una bella cantina piena di vino, di olio e di salsicce. Col passare del tempo, però, s’avvide che tutto questo bendiddio andava man mano assottigliandosi. A dire il vero un sospetto don Tonino ce l’aveva su chi lo rubava: Tore, il sacrestano suo. Tante Tante volte gli aveva atto la la, l a, ma non era mai riuscito a trovarlo con le mani nel sacco. E come are e come non are per scoprirlo, alla ne gli venne in mente che l’unico modo era quello di portarlo in conessionale: solo così inatti avrebbe potuto ammettere le sue maleatte. Sicché alla prima occasione, don Tonino Tonino provò a dire al sacrestano: «Tore, «T ore, ma com’è che tu non ti conessi mai? Possibile che tu sia senza peccato? Che tutti abbiamo qualche peccatuccio.» «Io non tengo bisogno, don Tonino:» rispose Tore «come accio a commettere peccati se non accio che stare in chiesa, servire messa, dire rosari, accendere candele, suonare campane?» «Non è possibile,» insisteva don Tonino «dài, vieni al conessionale! In ondo che ti costa? Vedrai che dopo ti darò una bella assoluzione.» Insomma don Tonino, Tonino, quanto ece e quanto non ece, convinse nalmente il sacrestano a conessarsi. E non appena Tore Tore si inginocchiò davanti alla grata del conessionale, don Tonino Tonino cominciò: «Beh, Tore, Tore, dimmi che peccati hai atto.» «Nessuno, don Tonino, te l’ho già detto che io non tengo peccati. Ma quante volte te lo devo dire?» «Possibile, Tore? E dimmi allora: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che c he si ruba le salsicce della cantina mia?» «Don Tonino, Tonino, non si s i sente!»
«Nu’’ è pussibile, Tore, «Nu Tore, cu nnu’ sse senta. Sai cce acimu ‘llora? Passa ‘llu postu miu e bitimu ci se sente!» E ccusì lu Tore e don Tuninu se cangiàra te postu. «Cunta tie moi e bitimu ci se sente,» tisse don Tuninu a llu sacristanu. E llu sacristanu zzaccàu: «Don Tuninu, timme na cosa: ma ci ete ca se utte mujèrama?» «Na! Tore, Tore, tieni ragione sai? Tici bonu ca nu nu’’ sse sente.» E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
«Come non si sente, Tore! Tore! Io ti sento benissimo invece. Torno a dirti: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che si ruba le salsicce della cantina mia?» «Don Tonino, Tonino, te l’ho già detto: non si sente!» «Mi sembra impossibile, Tore! Facciamo una cosa allora: passa al posto mio e vediamo se si sente o no.» E così il sacrestano e don Tonino Tonino si scambiarono il posto. «Parla tu adesso» disse don Tonino Tonino al sacrestano. «Don Tonino, Tonino, dimmi una cosa:» cominciò il sacrestano «ma… chi è che si otte la moglie mia?» «Già, Tore, Tore, tieni ragione sai? s ai? Dici bene che c he non si sente.» E il racconto non u più, morirono loro e campammo noi.
«Nu’’ è pussibile, Tore, «Nu Tore, cu nnu’ sse senta. Sai cce acimu ‘llora? Passa ‘llu postu miu e bitimu ci se sente!» E ccusì lu Tore e don Tuninu se cangiàra te postu. «Cunta tie moi e bitimu ci se sente,» tisse don Tuninu a llu sacristanu. E llu sacristanu zzaccàu: «Don Tuninu, timme na cosa: ma ci ete ca se utte mujèrama?» «Na! Tore, Tore, tieni ragione sai? Tici bonu ca nu nu’’ sse sente.» E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
«Come non si sente, Tore! Tore! Io ti sento benissimo invece. Torno a dirti: chi è che si ruba il vino, chi è che si ruba l’olio, chi è che si ruba le salsicce della cantina mia?» «Don Tonino, Tonino, te l’ho già detto: non si sente!» «Mi sembra impossibile, Tore! Facciamo una cosa allora: passa al posto mio e vediamo se si sente o no.» E così il sacrestano e don Tonino Tonino si scambiarono il posto. «Parla tu adesso» disse don Tonino Tonino al sacrestano. «Don Tonino, Tonino, dimmi una cosa:» cominciò il sacrestano «ma… chi è che si otte la moglie mia?» «Già, Tore, Tore, tieni ragione sai? s ai? Dici bene che c he non si sente.» E il racconto non u più, morirono loro e campammo noi.
te saN saN G iOrGi iOrGi Lu fattu te
Nc’era Nc ’era na fata na piarella ca era mutu beddha. E abitava a ccasa paru cu ràtusa. Scia sempre ‘lla chèsia ddha cristiana, e ccusì, lu prete, chianu chianu, ne ccuminciàu mmenare l’occhiu, sai? E nnu beddhu giurnu, tittu ca ia messa, la chiamàu te sparte e nne tisse: «Tonna pia8, ti devo dire na cosa, na cosa che t’ha ppiàcere di sicuro. È benuto a rovarmi rovarmi san Giorgi e mm’ha mm’ha dditto ca ‘ole arti visita allo catìre della menź anotte. anotte. A nna condizione però: che devi stare sola, non ci-ha bèssere nišciuno al ro, r o, manco il rate tuo.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce urtuna! Nu’ ppozzu critìre: san Giorgi ca šcinde te lu cielu e bene roa roa na tonna cumu mmie, ca nu’ ssu ddegna mancu llu mantunu.» Foe cusì ca la piarella, turnata a ccasa, ne cuntàu a llu rate sou te ‘sta visita te san Giorgi. E nne tisse puru ca, pe pe’’ lla notte ca venìa, se nd’ia ‘ssire te casa, ca ia šcire se roa r oa cu ddorma a nn nn’addha ’addha parte, percé cusì vulìa san Giorgi. E llu rate tisse a lla soru: «Nu’’ tte nde ncaricare! Tici, lampu! ca pe’ «Nu pe’ llu tesitèriu te nu santu, nu’ mme lluntanu na notte te casa?» E lla piarella se tese te are cu ppuli ź ź a tutta la casa mo’. Mise puru te cquai e de ddhai quarche mazzu te furi e se ggiustàu beddha beddha puru iddha pe’ la venuta te lu santu. Quandu ca se fce menź anotte, anotte, ntise tuzzare ‘lla porta. «Ci ete?» tisse tutta remulandu. remulandu. «San Giorgi sono! Apri, donna pia.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce urtuna! ṭ rasi, rasi, rasi, rasi, san Giorgi miu!» E san Giorgi rasìu rasìu tuttu vestutu te curone e de tutti li paramenti ca pòrtanu li santi. E lla piarella se nginucchiàu cu nne vasa le mane e lli pieti. E sse raccumandava: «San Giorgi miu, sàlvame tie, salva l’anima mia!»
Il fatto di san Giorgio
C’era una volta una che, essendo una donna molto pia, non mancava di recarsi in chiesa per assistere a tutte le unzioni. Era anche molto bella e abitava in una casa che divideva col ratello. Il prete della chiesa, tuttavia, pian piano se ne innamorò, no a che un giorno, nito che ebbe di dire messa, la chiamò in disparte e le disse: «O cara donna pia, devo svelarti un segreto che credo ti arà elice. È venuto a trovarmi san Giorgio per dirmi che desidera scendere apposta dal paradiso per venire a arti visita. Potrà arlo però solo al cadere della mezzanotte e alla condizione che in casa tua non ha da esserci es serci nessuno, neppure tuo ratello.» «San Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che ortuna! Non posso credere che san Giorgio scenda dal cielo per una donna povera come me, io che non sono degna neppure di nominarlo.» Fu così che la bella donna pia se ne tornò a casa e raccontò tutta entusiasta al ratello di questa visita. Lo p regò pure, per la notte che veniva, di andare a dormire altrove, perché così voleva san Giorgio.» E il ratello disse alla sorella: «Non preoccupartene! Dici mo’ che per il desiderio di un santo non m’allontano una notte da casa?» E la donna pia, per l’occasione, s’arettò a pulire tutta la casa, non mancando di porre qua e là anche dei mazzi di ori. Lei stessa si ece ancora più bella per la venuta del santo. Lì che si ece mezzanotte e sentì bussare alla porta. «Chi è?» disse tutta tremante. «San Giorgio sono. Aprimi, donna pia.» «Oh, san Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che ortuna! Avanti, avanti, san Giorgio mio.» E san Giorgio entrò tutto vestito delle corone e dei para-
te saN saN G iOrGi iOrGi Lu fattu te
Il fatto di san Giorgio
Nc’era Nc ’era na fata na piarella ca era mutu beddha. E abitava a ccasa paru cu ràtusa. Scia sempre ‘lla chèsia ddha cristiana, e ccusì, lu prete, chianu chianu, ne ccuminciàu mmenare l’occhiu, sai? E nnu beddhu giurnu, tittu ca ia messa, la chiamàu te sparte e nne tisse: «Tonna pia8, ti devo dire na cosa, na cosa che t’ha ppiàcere di sicuro. È benuto a rovarmi rovarmi san Giorgi e mm’ha mm’ha dditto ca ‘ole arti visita allo catìre della menź anotte. anotte. A nna condizione però: che devi stare sola, non ci-ha bèssere nišciuno al ro, r o, manco il rate tuo.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce urtuna! Nu’ ppozzu critìre: san Giorgi ca šcinde te lu cielu e bene roa roa na tonna cumu mmie, ca nu’ ssu ddegna mancu llu mantunu.» Foe cusì ca la piarella, turnata a ccasa, ne cuntàu a llu rate sou te ‘sta visita te san Giorgi. E nne tisse puru ca, pe pe’’ lla notte ca venìa, se nd’ia ‘ssire te casa, ca ia šcire se roa r oa cu ddorma a nn nn’addha ’addha parte, percé cusì vulìa san Giorgi. E llu rate tisse a lla soru: «Nu’’ tte nde ncaricare! Tici, lampu! ca pe’ «Nu pe’ llu tesitèriu te nu santu, nu’ mme lluntanu na notte te casa?» E lla piarella se tese te are cu ppuli ź ź a tutta la casa mo’. Mise puru te cquai e de ddhai quarche mazzu te furi e se ggiustàu beddha beddha puru iddha pe’ la venuta te lu santu. Quandu ca se fce menź anotte, anotte, ntise tuzzare ‘lla porta. «Ci ete?» tisse tutta remulandu. remulandu. «San Giorgi sono! Apri, donna pia.» «Uuùh, san Giorgi ccasa mia! Cce onore! Cce urtuna! ṭ rasi, rasi, rasi, rasi, san Giorgi miu!» E san Giorgi rasìu rasìu tuttu vestutu te curone e de tutti li paramenti ca pòrtanu li santi. E lla piarella se nginucchiàu cu nne vasa le mane e lli pieti. E sse raccumandava: «San Giorgi miu, sàlvame tie, salva l’anima mia!» Nel dare voce al prete, che è persona colta, il narratore si sorza (invano) di arlo parlare in lingua italiana. 8
C’era una volta una che, essendo una donna molto pia, non mancava di recarsi in chiesa per assistere a tutte le unzioni. Era anche molto bella e abitava in una casa che divideva col ratello. Il prete della chiesa, tuttavia, pian piano se ne innamorò, no a che un giorno, nito che ebbe di dire messa, la chiamò in disparte e le disse: «O cara donna pia, devo svelarti un segreto che credo ti arà elice. È venuto a trovarmi san Giorgio per dirmi che desidera scendere apposta dal paradiso per venire a arti visita. Potrà arlo però solo al cadere della mezzanotte e alla condizione che in casa tua non ha da esserci es serci nessuno, neppure tuo ratello.» «San Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che ortuna! Non posso credere che san Giorgio scenda dal cielo per una donna povera come me, io che non sono degna neppure di nominarlo.» Fu così che la bella donna pia se ne tornò a casa e raccontò tutta entusiasta al ratello di questa visita. Lo p regò pure, per la notte che veniva, di andare a dormire altrove, perché così voleva san Giorgio.» E il ratello disse alla sorella: «Non preoccupartene! Dici mo’ che per il desiderio di un santo non m’allontano una notte da casa?» E la donna pia, per l’occasione, s’arettò a pulire tutta la casa, non mancando di porre qua e là anche dei mazzi di ori. Lei stessa si ece ancora più bella per la venuta del santo. Lì che si ece mezzanotte e sentì bussare alla porta. «Chi è?» disse tutta tremante. «San Giorgio sono. Aprimi, donna pia.» «Oh, san Giorgio a casa mia! Ma che onore! Ma che ortuna! Avanti, avanti, san Giorgio mio.» E san Giorgio entrò tutto vestito delle corone e dei paramenti che usano indossare i santi. E la donna pia si inginocchiò per baciargli le mani e i piedi. E gli si raccomandava: «San Giorgio mio, salvami tu, salva l’anima mia.»
«Ca io apposta so’ so’ venuto: cu tte sarvo l’anima. Anzi ti dico che mme.» «Uuùh, san Giorgi miu, a ddevèru sta’ ddici?» Ma propriu a ddhu rattiempu, se ntise tuzzare ‘lla porta. E quistu mo’ mo’ era lu rate sou, ca, pe’ ll’occasione, s’ia s’ia vestutu te san Pie ru ru e ttenìa ‘mmanu puru nu beddhu paru te chiài. «Ci ete ca tuzza?» tisse la l a piarella tutta rasturnata. «San Pietro sono! Aprite! 9» «Uuùh, tutti li santi ccasa mia! Ca iu nu’ ssu’ ddegna!» Mo’,’, a san Giorgi, ca s’ia ‘ppena ssettatu susu llu canapé, ne zzic Mo càra remulare remulare l’anche. San Pie ru, ru, ‘llora, ne se mbicinàu e nne tisse a ttonu: «Giorgi, come hai potuto are per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» 10 E nne aź ava ava ‘ll’aria ddhe sangu te chiài puru cu lle vìscia. Iddhu mo’, san Giorgi, nu’ rrefatava. E ntorna san Pie ru: r u: «Giorgi, me vuoi dire ‘nsomma come hai potuto are per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» Ma san Giorgi nu’ rrespundìa, sai? Allora, fju miu, san Pie ru r u se nde sciu te capu e nne ccuminciàu mmenare corpi ‘n capu cu ddhe sangu te chiài, ritucendulu a re re ore te notte. E lla piarella: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate s'ae buscatu!» E san Pie ru r u ntorna a san Giorgi: «Mo’ ti pigli la via e te nde vieni co’ me: che mo’ che sciàmo an paratiso, dobbiamo are ancora li conti!» E lli santi se nde scira s cira te casa, cu ddha povera piarella ca nu’ acìa addhu ca cu ddica: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate sta sse buuùsca!»! Purieddhu lu san Giorgi miiìu!»
«Io sono venuto apposta per salvarti l’anima. Voglio dirti anzi che tra poco ti porterò con me in paradiso.» «Oh, san Giorgio mio, stai dicendo sul serio?» Ma proprio in quel rattempo, glio mio, si udì bussare alla porta, sai? Era il ratello mo’ che bussava, e si era vestito da san Pietro con un bel paio di chiavi in mano. «Chi è che bussa?» disse la donna pia tutta rastornata. «San Pietro sono. Aprimi!» «Oh, san Pietro! Tutti i santi a casa mia! Che io non sono neppure degna.» Mo’, a san Giorgio, che s’era appena seduto sul canapé, gli presero a tremare le gambe. San Pietro allora gli si avvicinò e gli disse in tono di rimprovero: «Giorgio, come ti è stato possibile uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» E gli brandiva in alto quelle caspita di chiavi perché le vedesse meglio. Lui mo’, san Giorgio, non atava. E di nuovo san Pietro: «Giorgio, mi vuoi dire insomma come sei potuto uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» San Giorgio, però, non rispondeva e san Pietro allora se ne uscì di testa e, glio mio, prese a dargli c olpi in capo con quelle caspita di chiavi, riducendolo a tre ore di notte.11 E la donna pia: «Oh, sorte mia, pure i santi si danno le botte! Povero san Giorgio mio quante mazzate si sta buscando!» E san Pietro a san Giorgio in tono più deciso: «E adesso sloggia! Andiamo via! Che aremo i conti in paradiso!» E i santi uscirono di casa, e lasciarono la donna pia in una grande costernazione. «Oh, sorte mia!» non aceva che dire la poveretta «pure i santi si danno le botte! pure i santi si danno le botte!» E diceva pure: «Poveroo san Giorgio mio quante mazzate si è buscato! Pove«Pover
ra ra poco te porto an paradiso co’ co’
«Ca io apposta so’ so’ venuto: cu tte sarvo l’anima. Anzi ti dico che mme.» «Uuùh, san Giorgi miu, a ddevèru sta’ ddici?» Ma propriu a ddhu rattiempu, se ntise tuzzare ‘lla porta. E quistu mo’ mo’ era lu rate sou, ca, pe’ ll’occasione, s’ia s’ia vestutu te san Pie ru ru e ttenìa ‘mmanu puru nu beddhu paru te chiài. «Ci ete ca tuzza?» tisse la l a piarella tutta rasturnata. «San Pietro sono! Aprite! 9» «Uuùh, tutti li santi ccasa mia! Ca iu nu’ ssu’ ddegna!» Mo’,’, a san Giorgi, ca s’ia ‘ppena ssettatu susu llu canapé, ne zzic Mo càra remulare remulare l’anche. San Pie ru, ru, ‘llora, ne se mbicinàu e nne tisse a ttonu: «Giorgi, come hai potuto are per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» 10 E nne aź ava ava ‘ll’aria ddhe sangu te chiài puru cu lle vìscia. Iddhu mo’, san Giorgi, nu’ rrefatava. E ntorna san Pie ru: r u: «Giorgi, me vuoi dire ‘nsomma come hai potuto are per uscire dallo paratiso senza le chiavi mie?» Ma san Giorgi nu’ rrespundìa, sai? Allora, fju miu, san Pie ru r u se nde sciu te capu e nne ccuminciàu mmenare corpi ‘n capu cu ddhe sangu te chiài, ritucendulu a re re ore te notte. E lla piarella: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate s'ae buscatu!» E san Pie ru r u ntorna a san Giorgi: «Mo’ ti pigli la via e te nde vieni co’ me: che mo’ che sciàmo an paratiso, dobbiamo are ancora li conti!» E lli santi se nde scira s cira te casa, cu ddha povera piarella ca nu’ acìa addhu ca cu ddica: «Uuùh, sorte miiìa, puru li santi se vaaàttanu! Purieddhu lu san Giorgi miu quante mazzate sta sse buuùsca!»! Purieddhu lu san Giorgi miiìu!» ra ra poco te porto an paradiso co’ co’
Il ratello qui deve parlare da santo: anche lui quindi azzarda la lingua italiana. I santi stanno in paradiso e arli parlare in dialetto sarebbe stato come smitizzarli. Anche qui allora ne viene uori una lingua pasticciata. 9
«Io sono venuto apposta per salvarti l’anima. Voglio dirti anzi che tra poco ti porterò con me in paradiso.» «Oh, san Giorgio mio, stai dicendo sul serio?» Ma proprio in quel rattempo, glio mio, si udì bussare alla porta, sai? Era il ratello mo’ che bussava, e si era vestito da san Pietro con un bel paio di chiavi in mano. «Chi è che bussa?» disse la donna pia tutta rastornata. «San Pietro sono. Aprimi!» «Oh, san Pietro! Tutti i santi a casa mia! Che io non sono neppure degna.» Mo’, a san Giorgio, che s’era appena seduto sul canapé, gli presero a tremare le gambe. San Pietro allora gli si avvicinò e gli disse in tono di rimprovero: «Giorgio, come ti è stato possibile uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» E gli brandiva in alto quelle caspita di chiavi perché le vedesse meglio. Lui mo’, san Giorgio, non atava. E di nuovo san Pietro: «Giorgio, mi vuoi dire insomma come sei potuto uscire dal paradiso senza le chiavi mie?» San Giorgio, però, non rispondeva e san Pietro allora se ne uscì di testa e, glio mio, prese a dargli c olpi in capo con quelle caspita di chiavi, riducendolo a tre ore di notte.11 E la donna pia: «Oh, sorte mia, pure i santi si danno le botte! Povero san Giorgio mio quante mazzate si sta buscando!» E san Pietro a san Giorgio in tono più deciso: «E adesso sloggia! Andiamo via! Che aremo i conti in paradiso!» E i santi uscirono di casa, e lasciarono la donna pia in una grande costernazione. «Oh, sorte mia!» non aceva che dire la poveretta «pure i santi si danno le botte! pure i santi si danno le botte!» E diceva pure: «Poveroo san Giorgio mio quante mazzate si è buscato! Pove«Pover ro san Giorgio mio!»
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Per dire che lo ece nero come la notte.
A llu crai, iddha mo’ sciu te pressa ‘lla chèsia cu bàscia sse cunessa, ma nu’ ruàu ruàu lu prete cu nne tica lu attu, lu ruàu ruàu sulamente a lli re re giurni, cu lla capu tutta nassata. E nne lu cuntàu lu attu. E men re re ca cuntava chiangìa pe’ san Giorgi. E llu prete cittu, sai? Sulamente ca ogni tantu bàšciava la capu cu ddica sine. E quandu iddha spicciàu lu cuntu, lu prete tisse a lla beddha piarella: «Pe’ ‘stu attu mo’ san Giorgi nu’ bene cchiui ccasa toa!» E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
L’indomani mo’ lei non vedeva l’ora di recarsi in chiesa c hiesa per raccontare tutto al prete. Ma non c’era il prete alla messa: lo trovò solo il terzo giorno e notò che aveva la testa tutta asciata. Si mise allora a raccontargli del brutto episodio, e mentre raccontava non aceva che piangere per san Giorgio. E il prete zitto, sai? Solo che ogni tanto annuiva con la testa. E quando lei nì di dire, il prete nalmente parlò: «O donna pia, per questo atto mo’ san Giorgio non verrà più a casa tua.» E il atto non u più, morirono loro e campammo noi.
A llu crai, iddha mo’ sciu te pressa ‘lla chèsia cu bàscia sse cunessa, ma nu’ ruàu ruàu lu prete cu nne tica lu attu, lu ruàu ruàu sulamente a lli re re giurni, cu lla capu tutta nassata. E nne lu cuntàu lu attu. E men re re ca cuntava chiangìa pe’ san Giorgi. E llu prete cittu, sai? Sulamente ca ogni tantu bàšciava la capu cu ddica sine. E quandu iddha spicciàu lu cuntu, lu prete tisse a lla beddha piarella: «Pe’ ‘stu attu mo’ san Giorgi nu’ bene cchiui ccasa toa!» E llu attu nu’ oe cchiùi, mòrsera iddhi e ccampamme nui.
L’indomani mo’ lei non vedeva l’ora di recarsi in chiesa c hiesa per raccontare tutto al prete. Ma non c’era il prete alla messa: lo trovò solo il terzo giorno e notò che aveva la testa tutta asciata. Si mise allora a raccontargli del brutto episodio, e mentre raccontava non aceva che piangere per san Giorgio. E il prete zitto, sai? Solo che ogni tanto annuiva con la testa. E quando lei nì di dire, il prete nalmente parlò: «O donna pia, per questo atto mo’ san Giorgio non verrà più a casa tua.» E il atto non u più, morirono loro e campammo noi.
a meschiNa meschiNa L a
Nu carusu, te nome Ntoni, ia menatu l’occhiu a nna vagnone te ore paese. Maria se chiamava. E sse tecìse bàscia ‘ccasa soa cu nne manda. Sciu ccunta prima cu lla mamma, però, pe’ ducazione. E nne tisse: «Fìjata vòju! M’àggiu ncapunutu te la fja toa e vvòju mme la sposu!» Ma la mamma te la Maria ne rispuse: «Beddhu giòvine, nu’ tte cunviene tte la sposi la fja mia: ca ete meschina11.» «Cce bene ddire?» tumandàu lu carusu. «Ca nu’ ssape azza gnenzi, fju miu12. Cuarda ca te roi roi pentutu ci te la sposi.» «Nu’’ tte pijàre pena, ca iu ne voju bene lu stessu: chianu «Nu chia nu chianu se mpara no?» «Cuarda ca è mmutu meschina» tisse ntorna la mamma. «E iu ne voju bene lu stessu!» turnàu rripetere lu Ntoni. ‘Nsomma, alla fne te li cunti, lu Ntoni s’era s’era propriu ncapunutu te la Maria. E sse la pijàu. Se spusàra ngrazieteddiu, la sera se curcàra e lla matina lucišcìu. Iddha se fce li capiddhi, se llavàu la acce e sse ssettàu a rretu la porta cu ccuarda ddha ore la gente ca scia benìa. Ma nu’ giustava jettu, nu’ scupava ‘n terra, nu’ lavava: nu’ acìa gnenzi ‘nsomma. Lu Ntoni ‘ntantu ia bardatu lu ciucciu, ia muntatu susu e ia pijatu la s rata r ata cu bàscia ore atìa. A llu cchiù tardu, la mamma te lu Ntoni sciu bìscia cce sta acìa la nora e bitte ca stia ddhai ssettata innanzi la porta e nnu’ sta sse proccupava mancu cu ccucina pe’ llu maritu. «Ddhu fju roa miu» ticia mo mo’’ «quandu vene te ore, comu ace se nu’ roa quarche ccone te cucinatu?» Quandu vitte ca la nora nu’ sse risulvìa propriu cu ccucina, cce
La meschina
Un giovane di nome Antonio aveva gettato lo sguardo su una ragazza di uori paese: Maria si chiamava. Un bel giorno si decise a dichiarare nalmente le sue intenzioni e si recò a casa della Maria. Dovette, però, per educazione, presentarsi dapprima alla madre di lei e chiederle il consenso. «Mi sono proprio incaponito della glia tua» le disse «e me la voglio sposare.» Ma la mamma della Maria rispose all’Antonio: «Bel giovane, non ti conviene sposare la glia mia: è meschina.» «Che signica?» domandò l’Antonio. «Che non sa are niente, glio mio. Stai attento, anzi, che t i troveresti pentito.» «Non prenderti pena, che io le voglio bene lo stesso. Pian piano imparerà no?» «Guarda che è proprio meschina!» gli ripeté la mamma. «A me non importa, la voglio sposare lo stesso» ece l’Antonio alzando un po’ la voce stavolta. Insomma la Maria e l’Antonio si sposarono e la sera delle nozze andarono a letto ingraziadiddio. L’indomani, quando si levò il sole, lei si pulì la accia, si pettinò i capelli e poi si sedette presso la soglia a mirare dai vetri della portanestra la gente che passava per la via. Ma non riece il letto, non scopò per terra, non lavò, non ece nessuna accenda insomma. L’Antonio intanto aveva bardato l’asino, vi era montato sopra e si era diretto in campagna a aticare. Sul tardi la mamma dell’Antonio si recò a ar visita alla nuora e la trovò che non solo se ne stava lì seduta, ma non si dava neppure pensiero di preparare qualcosa di cucinato per il marito. E pensò: «Poveroo glio mio, come arà quando, di ritorno dalla cam«Pover
a meschiNa meschiNa L a
La meschina
Nu carusu, te nome Ntoni, ia menatu l’occhiu a nna vagnone te ore paese. Maria se chiamava. E sse tecìse bàscia ‘ccasa soa cu nne manda. Sciu ccunta prima cu lla mamma, però, pe’ ducazione. E nne tisse: «Fìjata vòju! M’àggiu ncapunutu te la fja toa e vvòju mme la sposu!» Ma la mamma te la Maria ne rispuse: «Beddhu giòvine, nu’ tte cunviene tte la sposi la fja mia: ca ete meschina11.» «Cce bene ddire?» tumandàu lu carusu. «Ca nu’ ssape azza gnenzi, fju miu12. Cuarda ca te roi roi pentutu ci te la sposi.» «Nu’’ tte pijàre pena, ca iu ne voju bene lu stessu: chianu «Nu chia nu chianu se mpara no?» «Cuarda ca è mmutu meschina» tisse ntorna la mamma. «E iu ne voju bene lu stessu!» turnàu rripetere lu Ntoni. ‘Nsomma, alla fne te li cunti, lu Ntoni s’era s’era propriu ncapunutu te la Maria. E sse la pijàu. Se spusàra ngrazieteddiu, la sera se curcàra e lla matina lucišcìu. Iddha se fce li capiddhi, se llavàu la acce e sse ssettàu a rretu la porta cu ccuarda ddha ore la gente ca scia benìa. Ma nu’ giustava jettu, nu’ scupava ‘n terra, nu’ lavava: nu’ acìa gnenzi ‘nsomma. Lu Ntoni ‘ntantu ia bardatu lu ciucciu, ia muntatu susu e ia pijatu la s rata r ata cu bàscia ore atìa. A llu cchiù tardu, la mamma te lu Ntoni sciu bìscia cce sta acìa la nora e bitte ca stia ddhai ssettata innanzi la porta e nnu’ sta sse proccupava mancu cu ccucina pe’ llu maritu. «Ddhu fju roa miu» ticia mo mo’’ «quandu vene te ore, comu ace se nu’ roa quarche ccone te cucinatu?» Quandu vitte ca la nora nu’ sse risulvìa propriu cu ccucina, cce Nel senso di indolente, priva di idee. Non si tratta di suo glio, ma è d’uso l’appellativo di glio rivolto a uno molto più giovane, specie quando si vuol dare qualche consiglio. 11 12
Un giovane di nome Antonio aveva gettato lo sguardo su una ragazza di uori paese: Maria si chiamava. Un bel giorno si decise a dichiarare nalmente le sue intenzioni e si recò a casa della Maria. Dovette, però, per educazione, presentarsi dapprima alla madre di lei e chiederle il consenso. «Mi sono proprio incaponito della glia tua» le disse «e me la voglio sposare.» Ma la mamma della Maria rispose all’Antonio: «Bel giovane, non ti conviene sposare la glia mia: è meschina.» «Che signica?» domandò l’Antonio. «Che non sa are niente, glio mio. Stai attento, anzi, che t i troveresti pentito.» «Non prenderti pena, che io le voglio bene lo stesso. Pian piano imparerà no?» «Guarda che è proprio meschina!» gli ripeté la mamma. «A me non importa, la voglio sposare lo stesso» ece l’Antonio alzando un po’ la voce stavolta. Insomma la Maria e l’Antonio si sposarono e la sera delle nozze andarono a letto ingraziadiddio. L’indomani, quando si levò il sole, lei si pulì la accia, si pettinò i capelli e poi si sedette presso la soglia a mirare dai vetri della portanestra la gente che passava per la via. Ma non riece il letto, non scopò per terra, non lavò, non ece nessuna accenda insomma. L’Antonio intanto aveva bardato l’asino, vi era montato sopra e si era diretto in campagna a aticare. Sul tardi la mamma dell’Antonio si recò a ar visita alla nuora e la trovò che non solo se ne stava lì seduta, ma non si dava neppure pensiero di preparare qualcosa di cucinato per il marito. E pensò: «Poveroo glio mio, come arà quando, di ritorno dalla cam«Pover pagna, non troverà manco un boccone?» E quando capì che la nuora non si risolveva, che ti ece? Tornò a casa sua e impastò della arina per un po’ di lasagne; quindi le ece bollire, le
fce? Na! scìu ccasa e fce le sagne, le cucinàu, le ccunzàu cu llu sucu bone bone, na crattata te casu, le mise in ra ra nnu piattu, le mbucciàu e lle purtàu a lla Maria. Rriàu, puggiàu lu piattu susu ‘lla banca e poi pijàu la via cu sse nde torna ccasa. A mmenź atìa atìa rriàu lu Ntoni te la atìa e, nnanzi rasa rasa ccasa, scaricàu lu ciucciu comu te sòlitu. La Maria, però, stia sempre ssettata nnanzi lla porta e nnu’ sse cotulàu mancu quandu vitte nu cane rasire rasire in ru ru ccasa ca ssartàu susu lla banca e sse nca uddhàu le sagne cu tuttu lu core. Iddha mo’ vitìa lu cane ca se mangiava le sagne, ma nu’ sse resulvìa propriu cu sse aź a. a. A llu cane, però, ne acìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à’!» à’!» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! Ca la mbesti ca sta azzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à!» à!» Ma lu cane ormai s’era s’era lliccatu puru lu piattu. Addhai ca rasìu rasìu lu Ntoni e šciu bitte ddhu piattu susu la banca beddhu puli ź ź atu atu te lu cane e la Maria ssettata ca chiangìa. «Beh,» tisse «e cce ccosa ete cquai?» «Na! la mamma toa n’ia purtatu nu piattu te sagne, ma è rasutu rasutu lu cane e sse l’hae mangiate. Iu però n’àggiu attu: “Zza, zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź źà!” à !” Ma iddhu se l’hae mangiate lu stessu.» «Vaa bene,» tisse iddhu «nu’ tte pijare pena.» «V Ddu cristianu mo’ lu tenìa ame. Mah, se racimulàu nu stozzu te pane e šciu sse lu mangia rretu ccasa sulu sulu ngrazieteddiu. E lla Maria? Puru iddha mo’ la tenìa ame, ma nu’ nc’era gnenzi cu mmangia. E ddicìa in ru ru te iddha: «Acquai nu’ sse mangia! Ah sorta mia!» Ma nu’ ete mancu ca se ź ava: ava: spettava mo’ ca lu maritu n’ia ppurtare cu mmangia! [Quest’ultimo, un commento di mia madre, uori campo, nel raccontare]. A llu crai, la Maria se ‘ ź ź au, au, se llavàu la acce, se fce li capiddhi e šciu sse ssetta ntorna rretu lla porta: sempre mo’ cu ccuarda la
scodellò in un piatto e le condì con un bel sugo di pomodori reschi, cospargendole di ormaggio. E col piatto coperto, avvolto nel grembiule, si avviò dalla Maria. Qui poggiò il piatto in tavola e se ne ripartì. All’ora di pranzo giunse l’Antonio dalla campagna e, prima di are ingresso in casa, scaricò come al solito il basto dell’asino. La Maria, intanto, continuava a star seduta presso la soglia, ma, proprio in quel mentre, non ti andò a inlarsi un cane dentro casa, che saltò sulla tavola e prese a divorare il piatto di lasagne? La Maria non si smuoveva d’un dito, tuttavia lanciava qualche strillo in direzione del cane. E aceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Ma il cane, tranquillo, continuava a mangiarsi le buone lasagne. «Zza! zza! Buon per te che io accio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Il cane, ormai, aveva nito di leccarsi pure il piatto. Entrò l’Antonio e trovò la Maria seduta che piangeva. «Beh!» disse «che è questa cosa? Perché piangi?» «To’! «T o’! la mamma tua ci aveva portato por tato un piatto di lasagne, è entrato un cane e se l’è mangiate tutte. Io gli ho atto pure zza zza, ma lui se l’è mangiate lo stesso.» «Vaa bene,» disse lui «non prenderti pena.» «V Quel cristiano mo’ aveva ame. Mah, s’è racimolato un pezzo di pane, si è ritirato dietro casa e se l’è mangiato solo solo. E la Maria? Pure lei aveva ame, ma non c’era niente da mangiare. E diceva tra sé: «Qui non si mangia, ah sventura mia!» All’indomani, la Maria si pulì, si pettinò e andò a sedersi di nuovo a rimirare la gente che passava. La suocera, andandola sul tardi a trovare, notò che la nuora ancora una volta non si dava pensiero di cucinare per il glio suo. Tornò a casa, cucinò nuovamente le lasagne, ritornò col piatto dalla Maria e lo
fce? Na! scìu ccasa e fce le sagne, le cucinàu, le ccunzàu cu llu sucu bone bone, na crattata te casu, le mise in ra ra nnu piattu, le mbucciàu e lle purtàu a lla Maria. Rriàu, puggiàu lu piattu susu ‘lla banca e poi pijàu la via cu sse nde torna ccasa. A mmenź atìa atìa rriàu lu Ntoni te la atìa e, nnanzi rasa rasa ccasa, scaricàu lu ciucciu comu te sòlitu. La Maria, però, stia sempre ssettata nnanzi lla porta e nnu’ sse cotulàu mancu quandu vitte nu cane rasire rasire in ru ru ccasa ca ssartàu susu lla banca e sse nca uddhàu le sagne cu tuttu lu core. Iddha mo’ vitìa lu cane ca se mangiava le sagne, ma nu’ sse resulvìa propriu cu sse aź a. a. A llu cane, però, ne acìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à’!» à’!» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! Ca la mbesti ca sta azzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à!» à!» Ma lu cane ormai s’era s’era lliccatu puru lu piattu. Addhai ca rasìu rasìu lu Ntoni e šciu bitte ddhu piattu susu la banca beddhu puli ź ź atu atu te lu cane e la Maria ssettata ca chiangìa. «Beh,» tisse «e cce ccosa ete cquai?» «Na! la mamma toa n’ia purtatu nu piattu te sagne, ma è rasutu rasutu lu cane e sse l’hae mangiate. Iu però n’àggiu attu: “Zza, zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź źà!” à !” Ma iddhu se l’hae mangiate lu stessu.» «Vaa bene,» tisse iddhu «nu’ tte pijare pena.» «V Ddu cristianu mo’ lu tenìa ame. Mah, se racimulàu nu stozzu te pane e šciu sse lu mangia rretu ccasa sulu sulu ngrazieteddiu. E lla Maria? Puru iddha mo’ la tenìa ame, ma nu’ nc’era gnenzi cu mmangia. E ddicìa in ru ru te iddha: «Acquai nu’ sse mangia! Ah sorta mia!» Ma nu’ ete mancu ca se ź ava: ava: spettava mo’ ca lu maritu n’ia ppurtare cu mmangia! [Quest’ultimo, un commento di mia madre, uori campo, nel raccontare]. A llu crai, la Maria se ‘ ź ź au, au, se llavàu la acce, se fce li capiddhi e šciu sse ssetta ntorna rretu lla porta: sempre mo’ cu ccuarda la gente ca scia benìa. La socra, puru ‘sta fata, quando vitte la nora ca stia sempre ssettata senza azza gnenzi, ne portàu ntorna nu piattu te sagne
scodellò in un piatto e le condì con un bel sugo di pomodori reschi, cospargendole di ormaggio. E col piatto coperto, avvolto nel grembiule, si avviò dalla Maria. Qui poggiò il piatto in tavola e se ne ripartì. All’ora di pranzo giunse l’Antonio dalla campagna e, prima di are ingresso in casa, scaricò come al solito il basto dell’asino. La Maria, intanto, continuava a star seduta presso la soglia, ma, proprio in quel mentre, non ti andò a inlarsi un cane dentro casa, che saltò sulla tavola e prese a divorare il piatto di lasagne? La Maria non si smuoveva d’un dito, tuttavia lanciava qualche strillo in direzione del cane. E aceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Ma il cane, tranquillo, continuava a mangiarsi le buone lasagne. «Zza! zza! Buon per te che io accio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà!» Il cane, ormai, aveva nito di leccarsi pure il piatto. Entrò l’Antonio e trovò la Maria seduta che piangeva. «Beh!» disse «che è questa cosa? Perché piangi?» «To’! «T o’! la mamma tua ci aveva portato por tato un piatto di lasagne, è entrato un cane e se l’è mangiate tutte. Io gli ho atto pure zza zza, ma lui se l’è mangiate lo stesso.» «Vaa bene,» disse lui «non prenderti pena.» «V Quel cristiano mo’ aveva ame. Mah, s’è racimolato un pezzo di pane, si è ritirato dietro casa e se l’è mangiato solo solo. E la Maria? Pure lei aveva ame, ma non c’era niente da mangiare. E diceva tra sé: «Qui non si mangia, ah sventura mia!» All’indomani, la Maria si pulì, si pettinò e andò a sedersi di nuovo a rimirare la gente che passava. La suocera, andandola sul tardi a trovare, notò che la nuora ancora una volta non si dava pensiero di cucinare per il glio suo. Tornò a casa, cucinò nuovamente le lasagne, ritornò col piatto dalla Maria e lo adagiò sul tavolo. Ma, all’ora di pranzo, non s’inlò di nuovo quel caspita di
e sse nde turnàu ccasa. Ma, a llu cchiù tardu, eccu ca va rase rase te nou lu cane, sale susu ‘lla banca e, men re re ca se nghiuttìa le sagne, la Maria ne acìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź źà!» à !» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! La mbesti ca sta azzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à!» à!» A ddhu rattiempu, rriàu lu maritu. Lustessucapiace: ddhu cristianu se giustàu nu pocu te pane e sse lu mangiàu sulu sulu ngrazieteddiu. E iddha china te chianti mo’ e morta te ame. A llu terzu giurnu, la socra, sapendo comu scìane le cose, le purtàu le sagne, ma spettàu cu ttorna lu fju sou te la atìa e ccu sse ssetta ‘n tàula: ca se no a parere? se se l’ia mmangiare ntorna lu cane? ṭ rasutu rasutu lu maritu, la Maria, quandu vitte lu piattu susu lla banca, se ssettàu ‘n tàula e sse menàu cu mmàngia pe’ lla ame. Ma ia ppena ssaggiatu lu primu ccone, ca lu maritu ne tisse: «Altu!» «Percene?» tisse iddha «Ca iu sta mmoru te ame!» «Quante servizie hai attu osce?» «Na! m’àggiu m’àggiu llavata la acce e mm’àggiu atti li capiddhi.» ca piddhi.» «E ppe’ cquiddhu ca hai attu te basta nu ccone sulamente» tisse iddhu. «Uuùh, sorta mia!» fce la Maria in ru ru te iddha. Ma, a llu quartu giurnu, la Maria se ‘ ź ź au au te pressa, se llavàu, se fce li capiddhi e poi scupàu ccasa e giustàu lu jettu. Vitendu quistu, la socra ne ssiu nnanzi ‘llu fju e nne tisse: «Cuarda ca osci mujèrata sta sse cumporta bona: prima hae scupatu ccasa, poi hae ggiustatu lu jettu e ss’hae ssettata rretu lla porta sulamente quandu hae spicciatu.» Quandu lu Ntoni rasìu rasìu ccasa, ruàu ruàu susu lla banca lu piattu te la mamma soa e sse mise mmangiare paru cu mujèrasa. La Maria ia ‘ppena pruatu re ccuni, quandu ntorna marìtusa:
cane? Si mangiava le lasagne e la Maria aceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» Ma il cane mangiava, altro che contento. «Zza! zza! Buon per te che io accio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» A quel rattempo arrivò il marito. Stessa canzone: quel cristiano si condì un po’ di pane e se lo mangiò solo solo. Lei piena di pianti e morta di ame. Terzo giorno. La suocera stavolta, per via di quel maledetto cane, pensò bene di ar trovare il piatto di lasagne sul tavolo solo all’arrivo del glio. Quando nalmente le lasagne urono in tavola, la Maria, morsa dalla ame, s’accostò al piatto in un baleno, ma, stava per assaggiare il secondo boccone, quando il marito l’interruppe: «Alt!» le disse. «Perché?» disse lei «Io sto morendo di ame!» «Quante accende hai sbrigato oggi?» «To’! «T o’! mi sono lavata la accia e pettinata.» «E per ciò che hai sbrigato, un boccone ti basta» disse lui. «Oh, sventura mia!» ece lei tra sé. Ma il quarto giorno, la Maria si levò in retta, si lavò, si pettinò, poi riece il letto e scopò pure per casa. La suocera notò stavolta la buona volontà della Maria, tanto che uscì incontro al glio che tornava per dirgli della novità: «Guarda che oggi la moglie tua si porta bene, sai? Dopo essersi pulita e pettinata, ha scopato tutte le stanze e ha riatto il letto.» Entrato in casa, l’Antonio trovò sulla tavola il piatto della mamma sua e si mise a mangiare insieme con la Maria. Ma quando la Maria stava per mettere in bocca il quarto bocco-
e sse nde turnàu ccasa. Ma, a llu cchiù tardu, eccu ca va rase rase te nou lu cane, sale susu ‘lla banca e, men re re ca se nghiuttìa le sagne, la Maria ne acìa: «Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź źà!» à !» Ma lu cane mancu pe’ lla capu. «Zza! zza! La mbesti ca sta azzu la signora. Zza! zza! Ca su’ ssignura e nnu’ mme pozzu ‘ ź ź à!» à!» A ddhu rattiempu, rriàu lu maritu. Lustessucapiace: ddhu cristianu se giustàu nu pocu te pane e sse lu mangiàu sulu sulu ngrazieteddiu. E iddha china te chianti mo’ e morta te ame. A llu terzu giurnu, la socra, sapendo comu scìane le cose, le purtàu le sagne, ma spettàu cu ttorna lu fju sou te la atìa e ccu sse ssetta ‘n tàula: ca se no a parere? se se l’ia mmangiare ntorna lu cane? ṭ rasutu rasutu lu maritu, la Maria, quandu vitte lu piattu susu lla banca, se ssettàu ‘n tàula e sse menàu cu mmàngia pe’ lla ame. Ma ia ppena ssaggiatu lu primu ccone, ca lu maritu ne tisse: «Altu!» «Percene?» tisse iddha «Ca iu sta mmoru te ame!» «Quante servizie hai attu osce?» «Na! m’àggiu m’àggiu llavata la acce e mm’àggiu atti li capiddhi.» ca piddhi.» «E ppe’ cquiddhu ca hai attu te basta nu ccone sulamente» tisse iddhu. «Uuùh, sorta mia!» fce la Maria in ru ru te iddha. Ma, a llu quartu giurnu, la Maria se ‘ ź ź au au te pressa, se llavàu, se fce li capiddhi e poi scupàu ccasa e giustàu lu jettu. Vitendu quistu, la socra ne ssiu nnanzi ‘llu fju e nne tisse: «Cuarda ca osci mujèrata sta sse cumporta bona: prima hae scupatu ccasa, poi hae ggiustatu lu jettu e ss’hae ssettata rretu lla porta sulamente quandu hae spicciatu.» Quandu lu Ntoni rasìu rasìu ccasa, ruàu ruàu susu lla banca lu piattu te la mamma soa e sse mise mmangiare paru cu mujèrasa. La Maria ia ‘ppena pruatu re re ccuni, quandu ntorna marìtusa: «Altu!» «Percene? Ca sta mmoru te ame!»
cane? Si mangiava le lasagne e la Maria aceva: «Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» Ma il cane mangiava, altro che contento. «Zza! zza! Buon per te che io accio la signora. Zza! zza! Che io sono signora e non mi posso alzà.» A quel rattempo arrivò il marito. Stessa canzone: quel cristiano si condì un po’ di pane e se lo mangiò solo solo. Lei piena di pianti e morta di ame. Terzo giorno. La suocera stavolta, per via di quel maledetto cane, pensò bene di ar trovare il piatto di lasagne sul tavolo solo all’arrivo del glio. Quando nalmente le lasagne urono in tavola, la Maria, morsa dalla ame, s’accostò al piatto in un baleno, ma, stava per assaggiare il secondo boccone, quando il marito l’interruppe: «Alt!» le disse. «Perché?» disse lei «Io sto morendo di ame!» «Quante accende hai sbrigato oggi?» «To’! «T o’! mi sono lavata la accia e pettinata.» «E per ciò che hai sbrigato, un boccone ti basta» disse lui. «Oh, sventura mia!» ece lei tra sé. Ma il quarto giorno, la Maria si levò in retta, si lavò, si pettinò, poi riece il letto e scopò pure per casa. La suocera notò stavolta la buona volontà della Maria, tanto che uscì incontro al glio che tornava per dirgli della novità: «Guarda che oggi la moglie tua si porta bene, sai? Dopo essersi pulita e pettinata, ha scopato tutte le stanze e ha riatto il letto.» Entrato in casa, l’Antonio trovò sulla tavola il piatto della mamma sua e si mise a mangiare insieme con la Maria. Ma quando la Maria stava per mettere in bocca il quarto boccone: «Alt!» le disse. «Perché? Io sto morendo di ame!»
«Quante servìzie hai attu osce?» «M’àggiu attu li capiddhi, àggiu scupatu ‘n terra e àggiu giustatu lu jettu.» «E ‘llora te bàstane re re ccuni. E, de osce nnanzi, quante servìzie aci, tanti ccuni te mangi. Pe’ Pe’ ttenire lu cuntu, pe’ ogne servìzia ca aci, minti na pajuzza susu la seggia ca stae rretu la porta, cusì, quandu tornu, mmesùru le servìzie.» A llu quintu giurnu, la Maria ormai nu’ bitìa cchiùi pe’ lla ame. Se ‘ ź ź au au prestu ‘sta fata, senza mmancu sse azza li capiddhi, e zziccàu are terramotu in ru ru ccasa. Poi mise la pignata nnanzi llu ocu e, comu scia scia, fatava cu nnu’ sse stuta: na beddha pignata te pasuli cu sse bìnchianu! E lla socra ntorna ne ssiu nnanzi a llu fju sou cu nne tica: «Ah, osce sta sse tae te are la Maria! La ame l’hae rriata sai?» A menź atìa, atìa, eccu lu Ntoni cu llu ciucciu. E nnu’ mboi ca lu ciucciu sciu ba mminte la capu in ru ru ccasa e sse mangiàu le pa juzze ca la Maria ia raccoddu susu la seggia? E lla Maria chianti? chianti? Nu’ spicciava cchiùi te chiangire. Lu Ntoni ne tisse ‘llora: «Maria, comu ete ca sta cchiangi?» «Uuùh, sorta mia! Mancu osce mangiu! Sta mmoru te ame! Ca iu m’ia misa de parte le pajuzze e mo mo’’ lu ciucciu se l’hae man giate.» «Vaa bene, va bene: osce mangi» tisse lu Ntoni. «V Allora mmenešciàra li pasuli ‘n tàula, se ssettàra e mmangiàra ngrazieteddiu. Iddhu mo’ rritìa sottamusi. Chianu chianu ‘nsomma la Maria mparàu ccucina. La mamma de la Maria, mo’, nu’ bitìa l’ora cu bae ore paese cu’ ba roa roa la fja spusata. E šciu te tuménica, alli quindici giurni, e lla ruàu ruàu ca sta temperava arina cu azza sagne. Cumu stai comu nu’ stai, poi la mamma se ssettàu ‘lla seggia. A cquai ca la Maria, a nnu certu mumentu ca nu’ lla vitìa nišciunu, men re re acìa sagne, zzic-
«Quante accende hai sbrigato oggi?» «Mi sono pulita e pettinata, ho scopato per t erra e ho riatto il letto.» «E allora ti bastano tre bocconi. E, d’ora in avanti, quante accende sbrigherai, tanti bocconi mangerai. Per avere il conto, per ogni accenda metti una pagliuzza sulla sedia che sta dietro la porta d’ingresso, così, quando torno, misuro le pagliuzze.» Al quinto giorno, la Maria, che ormai non ci vedeva più dalla ame, si alzò presto e, senza perdere tempo a pettinarsi, cominciò a ar terremoto dentro casa, pulendo di qua e sbrigando di là. Preparò perno una pignatta di agioli che pose accanto al uoco del ocolare, e stava talmente attenta che, amma o non amma, soava sempre sul uoco per p er alimentarlo. Stavolta la suocera andò incontro al glio per dirgli: «Ah, oggi la Maria si dà proprio da are: la otte la ame ormai.» All’ora di pranzo, ecco l’Antonio di ritorno con l’asino. E non vuoi che l’asino mette la testa dentro c asa e va a mangiarsi le pagliuzze che la Maria aveva adagiato in ordine sulla sedia? E la Maria, Mari a, pianti? pianti? Non niva più di piangere. L’Antonio L’Antonio le disse allora: «Maria, com’è che piangi?» «Oh, sventura mia! Neppure oggi mangio: avevo messo da parte le pagliuzze e l’asino se l’è mangiate!» «Vaa bene, va bene: oggi mangi» disse l’Antonio. «V Allora la Maria scodellò in retta i agioli nei piatti e prese posto a tavola col marito. E mangiarono ingraziadiddio, mentre lui se la rideva sotto il muso. E così pian piano la Maria imparò a sbrigare accende e a cucinare. La mamma della Maria, mo’, non vedeva l’ora di andare a trovare la glia sposata. E, passati i quindici giorni, le ece visita una domenica. Trovò Trovò la glia che impastava la arina per are i maccheroni col erro. Come stai e come non stai, la mamma poi si mise a sedere. Ma, a un certo momento, senza arsi vede-
«Quante servìzie hai attu osce?» «M’àggiu attu li capiddhi, àggiu scupatu ‘n terra e àggiu giustatu lu jettu.» «E ‘llora te bàstane re re ccuni. E, de osce nnanzi, quante servìzie aci, tanti ccuni te mangi. Pe’ Pe’ ttenire lu cuntu, pe’ ogne servìzia ca aci, minti na pajuzza susu la seggia ca stae rretu la porta, cusì, quandu tornu, mmesùru le servìzie.» A llu quintu giurnu, la Maria ormai nu’ bitìa cchiùi pe’ lla ame. Se ‘ ź ź au au prestu ‘sta fata, senza mmancu sse azza li capiddhi, e zziccàu are terramotu in ru ru ccasa. Poi mise la pignata nnanzi llu ocu e, comu scia scia, fatava cu nnu’ sse stuta: na beddha pignata te pasuli cu sse bìnchianu! E lla socra ntorna ne ssiu nnanzi a llu fju sou cu nne tica: «Ah, osce sta sse tae te are la Maria! La ame l’hae rriata sai?» A menź atìa, atìa, eccu lu Ntoni cu llu ciucciu. E nnu’ mboi ca lu ciucciu sciu ba mminte la capu in ru ru ccasa e sse mangiàu le pa juzze ca la Maria ia raccoddu susu la seggia? E lla Maria chianti? chianti? Nu’ spicciava cchiùi te chiangire. Lu Ntoni ne tisse ‘llora: «Maria, comu ete ca sta cchiangi?» «Uuùh, sorta mia! Mancu osce mangiu! Sta mmoru te ame! Ca iu m’ia misa de parte le pajuzze e mo mo’’ lu ciucciu se l’hae man giate.» «Vaa bene, va bene: osce mangi» tisse lu Ntoni. «V Allora mmenešciàra li pasuli ‘n tàula, se ssettàra e mmangiàra ngrazieteddiu. Iddhu mo’ rritìa sottamusi. Chianu chianu ‘nsomma la Maria mparàu ccucina. La mamma de la Maria, mo’, nu’ bitìa l’ora cu bae ore paese cu’ ba roa roa la fja spusata. E šciu te tuménica, alli quindici giurni, e lla ruàu ruàu ca sta temperava arina cu azza sagne. Cumu stai comu nu’ stai, poi la mamma se ssettàu ‘lla seggia. A cquai ca la Maria, a nnu certu mumentu ca nu’ lla vitìa nišciunu, men re re acìa sagne, zziccàu are segnu cu ll’occhi a lla mamma soa: «Psss psss!» ne acìa. Ma la mamma nu’ ccapìa. La fja ntorna ne acìa segnu e: «Psss psss!»
«Quante accende hai sbrigato oggi?» «Mi sono pulita e pettinata, ho scopato per t erra e ho riatto il letto.» «E allora ti bastano tre bocconi. E, d’ora in avanti, quante accende sbrigherai, tanti bocconi mangerai. Per avere il conto, per ogni accenda metti una pagliuzza sulla sedia che sta dietro la porta d’ingresso, così, quando torno, misuro le pagliuzze.» Al quinto giorno, la Maria, che ormai non ci vedeva più dalla ame, si alzò presto e, senza perdere tempo a pettinarsi, cominciò a ar terremoto dentro casa, pulendo di qua e sbrigando di là. Preparò perno una pignatta di agioli che pose accanto al uoco del ocolare, e stava talmente attenta che, amma o non amma, soava sempre sul uoco per p er alimentarlo. Stavolta la suocera andò incontro al glio per dirgli: «Ah, oggi la Maria si dà proprio da are: la otte la ame ormai.» All’ora di pranzo, ecco l’Antonio di ritorno con l’asino. E non vuoi che l’asino mette la testa dentro c asa e va a mangiarsi le pagliuzze che la Maria aveva adagiato in ordine sulla sedia? E la Maria, Mari a, pianti? pianti? Non niva più di piangere. L’Antonio L’Antonio le disse allora: «Maria, com’è che piangi?» «Oh, sventura mia! Neppure oggi mangio: avevo messo da parte le pagliuzze e l’asino se l’è mangiate!» «Vaa bene, va bene: oggi mangi» disse l’Antonio. «V Allora la Maria scodellò in retta i agioli nei piatti e prese posto a tavola col marito. E mangiarono ingraziadiddio, mentre lui se la rideva sotto il muso. E così pian piano la Maria imparò a sbrigare accende e a cucinare. La mamma della Maria, mo’, non vedeva l’ora di andare a trovare la glia sposata. E, passati i quindici giorni, le ece visita una domenica. Trovò Trovò la glia che impastava la arina per are i maccheroni col erro. Come stai e come non stai, la mamma poi si mise a sedere. Ma, a un certo momento, senza arsi vedere da nessuno, la Maria, nell’atto di cavare i maccheroni, prese a strizzare l’occhio alla mamma e, nello stesso tempo: «Psss!
A ‘stu puntu la mmamma se ‘ ź ź au, au, se ncucchiàu nnanzi lla fja e nne tisse cittu cittu: «Ma cce ggh’ete ca voi, fja mia, se po’ ccapire?» E lla fja scusu scusu: «Mamma, nu’ stare ssettata, sai? Cerca cu tte aź i e ccu mme juti azzu sagne: ca cquai ete lu paese a ddhunca ci atìa man gia.» «Ah,» tisse la mamma «te l’hanu ruata ruata l’acqua ‘llora!» E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu me tai nu taraddhu.
psss!» le bisbigliava a distanza. La mamma però non capiva. Di nuovo la glia le strizzava l’occhio e: «Psss psss!» insisteva. A questo punto la mamma si levò dalla sedia, si accostò alla glia e le chiese zitta zitta: «Ma che cosa vuoi, glia mia, si può capire?» E la glia misteriosa: «Mamma, non startene lì seduta, sai? Vedi di alzarti e di aiutarmi a are la pasta, perché questo è il paese dove chi lavora mangia!» «Ah,» disse la mamma «te l’hanno trovata l’acqua12 allora!» E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti . Se vuoi che te ne racconto un altro, portami un tarallo.
A ‘stu puntu la mmamma se ‘ ź ź au, au, se ncucchiàu nnanzi lla fja e nne tisse cittu cittu: «Ma cce ggh’ete ca voi, fja mia, se po’ ccapire?» E lla fja scusu scusu: «Mamma, nu’ stare ssettata, sai? Cerca cu tte aź i e ccu mme juti azzu sagne: ca cquai ete lu paese a ddhunca ci atìa man gia.» «Ah,» tisse la mamma «te l’hanu ruata ruata l’acqua ‘llora!» E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime nienti. Ci voi tte cuntu n addhu me tai nu taraddhu.
psss!» le bisbigliava a distanza. La mamma però non capiva. Di nuovo la glia le strizzava l’occhio e: «Psss psss!» insisteva. A questo punto la mamma si levò dalla sedia, si accostò alla glia e le chiese zitta zitta: «Ma che cosa vuoi, glia mia, si può capire?» E la glia misteriosa: «Mamma, non startene lì seduta, sai? Vedi di alzarti e di aiutarmi a are la pasta, perché questo è il paese dove chi lavora mangia!» «Ah,» disse la mamma «te l’hanno trovata l’acqua12 allora!» E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti . Se vuoi che te ne racconto un altro, portami un tarallo.
12
Nel senso di rimedio.
umpare mèšciu t òturu òturu c umpare mèšciu
Na banda te la ri ri sonaturi, pprufttandu ca li mmassari èranu ssuti te casa, scira a lla mmasserìa cu rrùbanu l’àuni. Mo’, cu ppòzzanu rrubare, tuccàa cu sbàrianu le mmassare, e, ppe’ cquistu, lu pianu era ca unu ia ssunare, l’addhu ia ccantare e llu tièrzu (ca se chiamava mèšciu Tòturu) a llu rattiempu ia rrubare. Addhai ca li primi toi, men re re ca sbariàvanu le mmassare cu ccanti e ssoni, se ddunàra ca mešciu Tòturu, men re re ca sta rrubava, ne se vitìa la coppula. Rroba ca se se ccurgìanu le mmassare èrane cuai. Cu llu vvèrtanu te lu perìculu, ‘llora, se nventàra ‘sta canzone: Cumpare mèšciu Tòturu, la coppula te pare li janchi janchi pìjali li nìuri làssali stare 13. Li niuri su’ capretti suggetti a llu schiamare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare.
Compare maestro Tòturu
Una banda di ladri suonatori, approttando del atto che i massari erano partiti, si recarono alla masseria per rubare gli agnelli. Mo’, per poterli rubare, toccava distrarre le massare, e, per questo, avevano elaborato un piano: uno suonava, l’altro cantava e il terzo, che si chiamava maestro Tòturu, nel rattempo rubava. Lì che i primi due, mentre distraevano le massare con suoni e canti, notarono che a maestro Tòturu, mentre rubava, gli si intravedeva la coppola. Roba che, se se ne ossero accorte le massare, sarebbero stati guai. Per avvertirlo del pericolo, allora, s’inventarono questa canzone: Compare mastro Tòturu la coppola ti pare i bianchi bianchi pigliali i neri lasciali stare. I neri son capretti soggetti al belare io suono un altro poco distraggo le massare io suono un altro poco distraggo le massare.
umpare mèšciu t òturu òturu c umpare mèšciu
Compare maestro Tòturu
Na banda te la ri ri sonaturi, pprufttandu ca li mmassari èranu ssuti te casa, scira a lla mmasserìa cu rrùbanu l’àuni. Mo’, cu ppòzzanu rrubare, tuccàa cu sbàrianu le mmassare, e, ppe’ cquistu, lu pianu era ca unu ia ssunare, l’addhu ia ccantare e llu tièrzu (ca se chiamava mèšciu Tòturu) a llu rattiempu ia rrubare. Addhai ca li primi toi, men re re ca sbariàvanu le mmassare cu ccanti e ssoni, se ddunàra ca mešciu Tòturu, men re re ca sta rrubava, ne se vitìa la coppula. Rroba ca se se ccurgìanu le mmassare èrane cuai. Cu llu vvèrtanu te lu perìculu, ‘llora, se nventàra ‘sta canzone: Cumpare mèšciu Tòturu, la coppula te pare li janchi janchi pìjali li nìuri làssali stare 13. Li niuri su’ capretti suggetti a llu schiamare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare iu sonu n addhu picca cu sbàriu ‘ste mmassare.
Una banda di ladri suonatori, approttando del atto che i massari erano partiti, si recarono alla masseria per rubare gli agnelli. Mo’, per poterli rubare, toccava distrarre le massare, e, per questo, avevano elaborato un piano: uno suonava, l’altro cantava e il terzo, che si chiamava maestro Tòturu, nel rattempo rubava. Lì che i primi due, mentre distraevano le massare con suoni e canti, notarono che a maestro Tòturu, mentre rubava, gli si intravedeva la coppola. Roba che, se se ne ossero accorte le massare, sarebbero stati guai. Per avvertirlo del pericolo, allora, s’inventarono questa canzone: Compare mastro Tòturu la coppola ti pare i bianchi bianchi pigliali i neri lasciali stare. I neri son capretti soggetti al belare io suono un altro poco distraggo le massare io suono un altro poco distraggo le massare.
Conveniva rubare gli agnelli bianchi, piuttosto che i neri capretti, perché quest’ultimi, si sa, essendo meno mansueti, e potendo belare, avrebbero dato l’allarme. 13
hiara f uNtaNa uNtaNa L a c hiara
Nc’era Nc ’era na fata na èmmana ca se chiamava Maria. Era mutu beddha e ttenia lu nnamuratu. Cu llu maritu mo’ se mmušciava sempre bona, ma quandu ia rasire rasire ccasa lu nnamuratu, cu nna scusa nde lu mandava a quarche banda. Rrivàu, però, ca lu maritu nu’ ippe cchiùi vòja cu sse nd’esse te casa, puru ca la mujere lu cumandava. Sicché lu nnamuratu, cu llu attu ca nu’ sse putìa vitire cu lla Maria, sciu perdendo te pacienza. E runtàndula a mmienzu lla s rata, rata, ne tisse: «Ma quistu maritu tou, quandu ete ca se nd’esse te in ru ru ccasa? Ca iu nun ci resistu cchiùi. Acquai tocca acìmu cu scumpare pe’ pe’ sempre, ca quista nu’ è ccosa ca se pote secutare» E iddha: «E iu cce ppozzu are? Tici mo’ mo’ ca lu cacciu te casa?» «Tie anne ca te zzìccane tulori, ca iu te mandu lu tale tuttore. Tie tici ca voi lu tale tuttore, cusì vene e tte ordina la meticina ca ticu iu.» Nsomma, cce fce ‘llora la Maria? Zziccàu e sse stise susu llu jettu pe’ mmalata. «Ahi! ahi! ahi! Mamma mia mooòru! mooòru! va’ cchiama lu tale tuttooòre! lu tale tuttooòre!» A ddhai ca lu maritu scìu ba’ cchiama lu tale tuttore. E binne ‘stu tuttore, visitàu la mujère e ddisse a llu l lu maritu: «Beh, a cquái, bon omu, nci vole l’acqua te la Chiara Funtana.» «Sì? E a ddhu ete ca stae ‘st’acqua te la Chiara Funtana?» «Eh, bon omu… Te Te tocca bai luntanu… luntanu!» «Vau puru ‘n capu a llu mundu, basta ca la mujère mia stae bona» tisse lu maritu. Lu tuttore allora ne spiecàu comu ia rrivare a lla Chiara
La Chiara Fontana
C’era una volta una donna che si chiamava Maria. Era molto bella e aveva l’innamorato. A dire il vero si mostrava sempre aettuosa col marito, ma, quando doveva entrare in casa l’innamorato, con qualche scusa gli trovava sempre qualche commissione da are. Capitò che il marito, un certo giorno, non ebbe più voglia di uscire di casa a piacimento della moglie, e così ebbero ne gli appuntamenti con l’innamorato, che, non potendo più vedere la Maria, cominciò a dare segni di impazienza, e, incontrandola per strada, le disse: «Maria mia, ma questo marito tuo quand’è che esce di casa? Lo sai che non ci resisto più! Bisogna che lo acciamo scomparire bisogna, non è cosa che possa seguitare!» E lei: «Ma che ci posso are? Che, lo caccio di casa?» E l’innamorato: «Ho un piano: tu ai nta di avere un attacco di dolori, così io ti mando il tale dottore che ti ordinerà una certa medicina.» Insomma, che ti ece lei? Prese e si stese sul letto morta di dolori: «Ahi! ahi! ahi! mamma mia muooòio… muooòio!» strillava. «Chiamatemi il tale dottooòre… il tale dottooòre!» Lì che il marito andò a chiamare il tale dottore. E il dottore arrivò e ece una bella visita alla Maria. Poi si rivolse al marito e disse: «Beh… qui, buon uomo, ci vuole l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, la sola che possa guarire tua moglie.» «E dove si trova quest’acqua della Chiara Fontana?» «Eh… ti tocca andare lontano… tanto lontano!» «Vado pure in capo al mondo, purché stia bene la moglie mia» rispose il marito. Il dottore allora spiegò al marito come poteva raggiungere
hiara f uNtaNa uNtaNa L a c hiara
La Chiara Fontana
Nc’era Nc ’era na fata na èmmana ca se chiamava Maria. Era mutu beddha e ttenia lu nnamuratu. Cu llu maritu mo’ se mmušciava sempre bona, ma quandu ia rasire rasire ccasa lu nnamuratu, cu nna scusa nde lu mandava a quarche banda. Rrivàu, però, ca lu maritu nu’ ippe cchiùi vòja cu sse nd’esse te casa, puru ca la mujere lu cumandava. Sicché lu nnamuratu, cu llu attu ca nu’ sse putìa vitire cu lla Maria, sciu perdendo te pacienza. E runtàndula a mmienzu lla s rata, rata, ne tisse: «Ma quistu maritu tou, quandu ete ca se nd’esse te in ru ru ccasa? Ca iu nun ci resistu cchiùi. Acquai tocca acìmu cu scumpare pe’ pe’ sempre, ca quista nu’ è ccosa ca se pote secutare» E iddha: «E iu cce ppozzu are? Tici mo’ mo’ ca lu cacciu te casa?» «Tie anne ca te zzìccane tulori, ca iu te mandu lu tale tuttore. Tie tici ca voi lu tale tuttore, cusì vene e tte ordina la meticina ca ticu iu.» Nsomma, cce fce ‘llora la Maria? Zziccàu e sse stise susu llu jettu pe’ mmalata. «Ahi! ahi! ahi! Mamma mia mooòru! mooòru! va’ cchiama lu tale tuttooòre! lu tale tuttooòre!» A ddhai ca lu maritu scìu ba’ cchiama lu tale tuttore. E binne ‘stu tuttore, visitàu la mujère e ddisse a llu l lu maritu: «Beh, a cquái, bon omu, nci vole l’acqua te la Chiara Funtana.» «Sì? E a ddhu ete ca stae ‘st’acqua te la Chiara Funtana?» «Eh, bon omu… Te Te tocca bai luntanu… luntanu!» «Vau puru ‘n capu a llu mundu, basta ca la mujère mia stae bona» tisse lu maritu. Lu tuttore allora ne spiecàu comu ia rrivare a lla Chiara Funtana:
C’era una volta una donna che si chiamava Maria. Era molto bella e aveva l’innamorato. A dire il vero si mostrava sempre aettuosa col marito, ma, quando doveva entrare in casa l’innamorato, con qualche scusa gli trovava sempre qualche commissione da are. Capitò che il marito, un certo giorno, non ebbe più voglia di uscire di casa a piacimento della moglie, e così ebbero ne gli appuntamenti con l’innamorato, che, non potendo più vedere la Maria, cominciò a dare segni di impazienza, e, incontrandola per strada, le disse: «Maria mia, ma questo marito tuo quand’è che esce di casa? Lo sai che non ci resisto più! Bisogna che lo acciamo scomparire bisogna, non è cosa che possa seguitare!» E lei: «Ma che ci posso are? Che, lo caccio di casa?» E l’innamorato: «Ho un piano: tu ai nta di avere un attacco di dolori, così io ti mando il tale dottore che ti ordinerà una certa medicina.» Insomma, che ti ece lei? Prese e si stese sul letto morta di dolori: «Ahi! ahi! ahi! mamma mia muooòio… muooòio!» strillava. «Chiamatemi il tale dottooòre… il tale dottooòre!» Lì che il marito andò a chiamare il tale dottore. E il dottore arrivò e ece una bella visita alla Maria. Poi si rivolse al marito e disse: «Beh… qui, buon uomo, ci vuole l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, la sola che possa guarire tua moglie.» «E dove si trova quest’acqua della Chiara Fontana?» «Eh… ti tocca andare lontano… tanto lontano!» «Vado pure in capo al mondo, purché stia bene la moglie mia» rispose il marito. Il dottore allora spiegò al marito come poteva raggiungere la Chiara Fontana:
«Pìja ‘sta š rata, rata, poi quist’addha, vane prima te cquái, poi te ddhai e de cquái e de ddhai…» ‘Nsomma ddhu cristianu se mise camina e ccamina e, topu giurni e giurni te s rata, rata, a nnu certu puntu ne se presentàu te nanzi san Giseppu vestutu te mònicu. Ca tisse: tiss e: «Bon omu, a ddhu vai?» «Eh, la mujère mia nu nu’’ stae bona e llu tuttore hae tittu ca ci nu’ nne portu l’acqua te la Chiara Funtana, nu’ sse cuarišce mai.» «Ah, bon omu,» fce san Giseppu «cu lle atiche toe mujèrata sta banchetta e sta sse tiverte cu llu nnamuratu propriu in ra ra ccasa toa.» «Vane! «V ane! camina! nu nu’’ ppote èssere!» tisse iddhu. «Nu’’ ddai retta? Allora pòrtame ‘ccasa toa. Cu nnu pattu però: «Nu ci è beru quiddhu ca te ticu, me tai re re ttùmani te cranu, ci nu’ nn’è’è beru, iu li tau a ttie.» nn «T’accordu.» Sicché turnàra ‘ccasa te paru, e quandu ca èranu quasi rriati, già se sentìa la baldoria ca venia te casa. Lu mònicu allora tisse a llu maritu: mar itu: «Tie mìntite in ra ra llu saccu. Iu mo’ tuzzu a ccasa toa cu llu saccu ‘n coddhu e ccercu la limòsina.» Allora: ttú-ttú-ttù. Addhai ca la Maria ne aprìu la porta mmušciànduse tutta llecra mo’. mo’. «Nu pocu te limòsina, an grazia te lu Signore» tisse lu mònicu. «Cce bai cercandu, mònicu, vane ca nui nu’ ttenimu tiempu te pèrdere!» «Eh, sta begnu te tantu luntanu e ttegnu muta ame. Armenu tàtime quarche cosa te quiddhu ca sta mmangiati vui.» «Vabè, rasi, rasi, mònicu, rasi. rasi. A nnu pattu, però, ca ne canti na canzone.»
«Prendi questa strada, poi quest’altra, vai prima di qua, poi di là e di qua e di là…» Insomma il marito, quel cristiano, si mise in cammino. Ma cammina e cammina, dopo giorni e giorni di strada, ecco che a un certo punto s’imbatté in un uomo di passaggio. Questi era san Giuseppe travestito da monaco. Che disse: «Buon uomo, dove vai?» «Eh, la moglie mia non sta bene e il dottore mi ha ordinato di trovarle l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, che però sta tanto lontana. Solo che è l’unica che possa guarirla.» «Ah, buon uomo,» ece san Giuseppe «con le atiche tue, la moglie tua se ne sta a casa che banchetta, canta e a baldoria con l’innamorato.» «Vai! «V ai! cammina! non può essere! » ece lui. «Non dai retta? Allora portami a casa tua. A un patto però: 13.. se sarà vero quel che dico, mi darai la raccolta di tre tùmani 13 di grano; diversamente, sarò io a darli a te.» «D’accordo.» Sicché presero la strada del ritorno e, quando giunsero nei pressi della casa, già si sentiva cantare e are baldoria dalla casa. E il monaco disse al marito: «Tu chiuditi nel sacco, io busso col sacco in spalla e chiedo l’elemosina.» E il monaco bussò: ttú-ttú-ttú. Fu la Maria ad aprire, ed era tutta allegra mo’. «Un po’ di elemosina, per grazia del Signore» ece il monaco. «Stiamo a tavola e non abbiamo nulla da darti! E poi qui non c’è tempo da perdere!» rispose la Maria. «Eh, vengo da lontano, sorella mia, ho tanta ame. Datemi almeno qualcosa di quello che mangiate voi.» «E va bene, monaco, entra pure, ma a un patto: che ci canti una canzone!»
«Pìja ‘sta š rata, rata, poi quist’addha, vane prima te cquái, poi te ddhai e de cquái e de ddhai…» ‘Nsomma ddhu cristianu se mise camina e ccamina e, topu giurni e giurni te s rata, rata, a nnu certu puntu ne se presentàu te nanzi san Giseppu vestutu te mònicu. Ca tisse: tiss e: «Bon omu, a ddhu vai?» «Eh, la mujère mia nu nu’’ stae bona e llu tuttore hae tittu ca ci nu’ nne portu l’acqua te la Chiara Funtana, nu’ sse cuarišce mai.» «Ah, bon omu,» fce san Giseppu «cu lle atiche toe mujèrata sta banchetta e sta sse tiverte cu llu nnamuratu propriu in ra ra ccasa toa.» «Vane! «V ane! camina! nu nu’’ ppote èssere!» tisse iddhu. «Nu’’ ddai retta? Allora pòrtame ‘ccasa toa. Cu nnu pattu però: «Nu ci è beru quiddhu ca te ticu, me tai re re ttùmani te cranu, ci nu’ nn’è’è beru, iu li tau a ttie.» nn «T’accordu.» Sicché turnàra ‘ccasa te paru, e quandu ca èranu quasi rriati, già se sentìa la baldoria ca venia te casa. Lu mònicu allora tisse a llu maritu: mar itu: «Tie mìntite in ra ra llu saccu. Iu mo’ tuzzu a ccasa toa cu llu saccu ‘n coddhu e ccercu la limòsina.» Allora: ttú-ttú-ttù. Addhai ca la Maria ne aprìu la porta mmušciànduse tutta llecra mo’. mo’. «Nu pocu te limòsina, an grazia te lu Signore» tisse lu mònicu. «Cce bai cercandu, mònicu, vane ca nui nu’ ttenimu tiempu te pèrdere!» «Eh, sta begnu te tantu luntanu e ttegnu muta ame. Armenu tàtime quarche cosa te quiddhu ca sta mmangiati vui.» «Vabè, rasi, rasi, mònicu, rasi. rasi. A nnu pattu, però, ca ne canti na canzone.» «Ca comu nu’ lla cantu! La cantu, la cantu!» tisse lu mònicu. E rasìu rasìu in ra ra ‘ccasa cu ttuttu lu saccu ‘n coddhu. E lli nnamurati
«Prendi questa strada, poi quest’altra, vai prima di qua, poi di là e di qua e di là…» Insomma il marito, quel cristiano, si mise in cammino. Ma cammina e cammina, dopo giorni e giorni di strada, ecco che a un certo punto s’imbatté in un uomo di passaggio. Questi era san Giuseppe travestito da monaco. Che disse: «Buon uomo, dove vai?» «Eh, la moglie mia non sta bene e il dottore mi ha ordinato di trovarle l’acqua della Chiara Fontana, un’acqua miracolosa, che però sta tanto lontana. Solo che è l’unica che possa guarirla.» «Ah, buon uomo,» ece san Giuseppe «con le atiche tue, la moglie tua se ne sta a casa che banchetta, canta e a baldoria con l’innamorato.» «Vai! «V ai! cammina! non può essere! » ece lui. «Non dai retta? Allora portami a casa tua. A un patto però: 13.. se sarà vero quel che dico, mi darai la raccolta di tre tùmani 13 di grano; diversamente, sarò io a darli a te.» «D’accordo.» Sicché presero la strada del ritorno e, quando giunsero nei pressi della casa, già si sentiva cantare e are baldoria dalla casa. E il monaco disse al marito: «Tu chiuditi nel sacco, io busso col sacco in spalla e chiedo l’elemosina.» E il monaco bussò: ttú-ttú-ttú. Fu la Maria ad aprire, ed era tutta allegra mo’. «Un po’ di elemosina, per grazia del Signore» ece il monaco. «Stiamo a tavola e non abbiamo nulla da darti! E poi qui non c’è tempo da perdere!» rispose la Maria. «Eh, vengo da lontano, sorella mia, ho tanta ame. Datemi almeno qualcosa di quello che mangiate voi.» «E va bene, monaco, entra pure, ma a un patto: che ci canti una canzone!» «Ve la canto, ve la canto!» disse il monaco entrando col sac-
ìcera cu sse ssetta an tàula. «Iu be la cantu na canzone, ma nu’ è mmeju cu zziccati prima vui ca siti pa runi runi te casa?» «E va bene,» tisse la Maria «Zzicca tie!» tisse ri vulgénduse a llu nnamuratu. E llu nnamuratu zziccàu: «Sonu a casa te riccu villanu mangiu e bevu te cavalieri mangiu pane te lu cistaru bevu vino te cantinaru.» E iddha appriessu: «Tengu un marito totorotó 14 comu vogliu lu mbarderò l’hu mmandatu ‘lla Chiara Funtana longa la s rada rada nu’ ttorna pe’ mmo’.» Lu mònicu cotulava la capu mo’, e sta šcìa cu ccanta, ma lu maritu ne ervìa lu sangu mo mo’’ e, tuttu chiusu in ra ra llu saccu, zziccàu ccantare iddhu: «E re re ttùmani ora lu pattu e iu qua ru ru te nde tò càcciame mònicu t’in ra ra llu saccu quantu nne sonu lu totorotó.» A cquái ca lu mònicu te pressa restaccàu lu saccu e llu maritu essìu e tte s runcunisciàu r uncunisciàu la mujère bona bona te mazzate, e lla sunàu puru pe’ llongu e ppe’ ccurtu. E llu nnamuratu se cco ź e lu restu.
co in spalla, che depositò in un angolo di casa. Dopodiché gli innamorati gli ecero prendere posto a tavola. «Io ve la canto una canzone,» prese a dire il monaco «ma non è meglio che cominciate voi a cantare, visto che siete i padroni di casa?» «E va bene!» disse lei, e rivolto all’innamorato: «Comincia tu a cantare.» E l’innamorato: «Sono a casa di ricco villano mangio e bevo da cavaliere mangio il pane del cestaro bevo il vino del cantinaro.» E la Maria dappresso: «Tengo «T engo un marito totorotò come voglio lo imbroglierò l’ho mandato alla Chiara Fontana lunga la strada non torna per mo’.» Il monaco scuoteva la testa e stava per mettersi a cantare, ma il marito, col sangue che gli bolliva, tutto chiuso nel sacco, sbottò lui a cantare: «E tre tùmani urono il patto e io quattro te ne darò tirami monaco da questo sacco per suonar loro il totorotò.» A questo punto al monaco non restò che slegare il sacco in tutta retta. Il marito venne uori e prese a suonarle di santa ragione alla Maria, che le prese per lungo e per corto. E l’innamorato raccolse il resto.
13 .
Tùmanu: misura di supercie che corrisponde a 85 are.
ìcera cu sse ssetta an tàula. «Iu be la cantu na canzone, ma nu’ è mmeju cu zziccati prima vui ca siti pa runi runi te casa?» «E va bene,» tisse la Maria «Zzicca tie!» tisse ri vulgénduse a llu nnamuratu. E llu nnamuratu zziccàu: «Sonu a casa te riccu villanu mangiu e bevu te cavalieri mangiu pane te lu cistaru bevu vino te cantinaru.» E iddha appriessu: «Tengu un marito totorotó 14 comu vogliu lu mbarderò l’hu mmandatu ‘lla Chiara Funtana longa la s rada rada nu’ ttorna pe’ mmo’.» Lu mònicu cotulava la capu mo’, e sta šcìa cu ccanta, ma lu maritu ne ervìa lu sangu mo mo’’ e, tuttu chiusu in ra ra llu saccu, zziccàu ccantare iddhu: «E re re ttùmani ora lu pattu e iu qua ru ru te nde tò càcciame mònicu t’in ra ra llu saccu quantu nne sonu lu totorotó.» A cquái ca lu mònicu te pressa restaccàu lu saccu e llu maritu essìu e tte s runcunisciàu r uncunisciàu la mujère bona bona te mazzate, e lla sunàu puru pe’ llongu e ppe’ ccurtu. E llu nnamuratu se cco ź e lu restu.
co in spalla, che depositò in un angolo di casa. Dopodiché gli innamorati gli ecero prendere posto a tavola. «Io ve la canto una canzone,» prese a dire il monaco «ma non è meglio che cominciate voi a cantare, visto che siete i padroni di casa?» «E va bene!» disse lei, e rivolto all’innamorato: «Comincia tu a cantare.» E l’innamorato: «Sono a casa di ricco villano mangio e bevo da cavaliere mangio il pane del cestaro bevo il vino del cantinaro.» E la Maria dappresso: «Tengo «T engo un marito totorotò come voglio lo imbroglierò l’ho mandato alla Chiara Fontana lunga la strada non torna per mo’.» Il monaco scuoteva la testa e stava per mettersi a cantare, ma il marito, col sangue che gli bolliva, tutto chiuso nel sacco, sbottò lui a cantare: «E tre tùmani urono il patto e io quattro te ne darò tirami monaco da questo sacco per suonar loro il totorotò.» A questo punto al monaco non restò che slegare il sacco in tutta retta. Il marito venne uori e prese a suonarle di santa ragione alla Maria, che le prese per lungo e per corto. E l’innamorato raccolse il resto.
Sostantivo inesistente, inesistente, ma è un suono onomatopeico che rende l’idea di scemo e che soprattutto a rima col verso successivo. 14
esare e p aLumbu c esare e
La Orpe e llu Lupu na fata èranu cumpari. La cummare Orpe tenìa do’ àuni, Cesare e Palumbu, ca ne servìanu cu ttìranu lu carrettu. Nu beddhu giurnu, la cummare Orpe e llu cumpare Lupu pensàra bonu cu bàscianu intra llu boscu cu sse àzzanu le pruiste te legna. Ttaccara Cesare e Palumbu a lle do do’’ stanghe te lu carrettu, nu corpu te scurisciatu e partira. A llu scire, però, e nnu’ mboi ca sciu sse spezza na stanga te lu carrettu? Sicché la cummare Orpe tisse a llu cumpare c umpare Lupu: «Cumpare Lupu, sai cce anne? Fuci in ra ra llu boscu, tàjame la stanga cchiù dderitta ca c a nc’ete e portamèla.» Lu cumpare Lupu nu sse la fce ripetere do’ fate: ucìu in ra ra llu boscu e tturnàu cu lla stanga, ma cu lla stanga cchiù storta ca nc’era. «Lu sapìa già ca nu’ nde cumbìni mai una bona,» ne tisse la cummare Orpe «ma va’ ssacci ca nu’ ssai mancu a ddhu stae te casa lu terittu! Fanne na cosa: spettame cquai tie, ca vau iu lla rou rou na stanga teritta. Tie cerca cu mme stai ‘ttentu a Cesare e Palumbu.» E la cummare Orpe scìu a llu boscu cu roa roa la stanga cchiù deritta ca nc’era. Lu cumpare Lupu mo’ sta’ spettava propriu ‘st’occasione. Ap pena la cummare Orpe se lluntanàu in ra ra llu boscu, cce tte fce? Scannàu li do’ àuni e sse li mangiàu… ca restàra sulamente le pelli. Cu azza lu urbu poi, cusìu le pelli e lle inchìu cu na razzata te paja. Cu ppòzzanu restare tisi l’àuni, poi, rinurzàu l’anche cu lli zzippi e se la squajàu. Cesare e Palumbu, mpizzati ‘n terra comu stíanu, parìanu comu vii. Nu ppassàu mutu ca turnàu la cummare Orpe cu lla stanga la cchiù deritta ca nc’era. Vitte l’àuni belli tisi, ma, nu bitendu lu cumpare Lupu se mise cu llu chiama. E ccritava: «Cumpare Luuùpu, cumpare Luuùpu!» Ma lu cumpare Lupu nu’ rrispundìa. «Addhu ete ca s’hae cacciatu? Ne tissi cu mme
Cesare e Palombo
La Volpe Volpe e il Lupo una volta erano compari. Comare Volpe Volpe possedeva due agnelli, Cesare e Palombo, buoni a trainare il carretto. Un bel giorno, comare Volpe e compare Lupo p ensarono bene di recarsi col carretto nel bel mezzo di un bosco per arsi le provviste di legna. Legarono Cesare e Palombo alle due stanghe, diedero di scudiscio e partirono. All’andare, però, e non vuoi che venne a rompersi una stanga del carretto? Sicché comare Volpe Volpe disse a compare Lupo: «Sai che hai da are? Corri nel bosco, tagliami il ramo più dritto che c’è e portamelo.» Compare Lupo non se lo ece ripetere due volte: corse nel bosco e tornò col ramo, ma col ramo più storto che c’era. «Lo sapevo già che non ne combini mai una buona,» gli disse comare Volpe «ma vai a immaginare che non sai neanche dove sta di casa il dritto! Fai na cosa: aspettami qui, che vado io a trovare il ramo più dritto che c’è. E stammi attento a Cesare e Palombo.» Così comare Volpe si recò nel bosco a cercare il ramo più dritto che c’era. Compare Lupo, mo’, non aspettava che questa l’occasione. Appena comare Volpe si allontanò per il bosco, che ti ece? Scannò i due agnelli e se li mangiò… che restarono solamente le pelli. Per mascherare il atto poi, cucì le pelli e le riempì con una manciata di paglia. Perché restassero in piedi gli agnelli, poi, rinorzò le zampe con dei bastoni e se la squagliò. Cesare e Palombo, tenuti così in piedi, sembravano come v ivi. Di lì a non molto, comare Volpe u di ritorno col ramo il più dritto che c’era. Vide gli agnelli in piedi e il carretto, ma, stranamente, non c’era compare Lupo. Così prese a chiamarlo a gran voce: «Compare Luuùpo, compare Luuùpo!» Ma compare Lupo
esare e p aLumbu c esare e
Cesare e Palombo
La Orpe e llu Lupu na fata èranu cumpari. La cummare Orpe tenìa do’ àuni, Cesare e Palumbu, ca ne servìanu cu ttìranu lu carrettu. Nu beddhu giurnu, la cummare Orpe e llu cumpare Lupu pensàra bonu cu bàscianu intra llu boscu cu sse àzzanu le pruiste te legna. Ttaccara Cesare e Palumbu a lle do do’’ stanghe te lu carrettu, nu corpu te scurisciatu e partira. A llu scire, però, e nnu’ mboi ca sciu sse spezza na stanga te lu carrettu? Sicché la cummare Orpe tisse a llu cumpare c umpare Lupu: «Cumpare Lupu, sai cce anne? Fuci in ra ra llu boscu, tàjame la stanga cchiù dderitta ca c a nc’ete e portamèla.» Lu cumpare Lupu nu sse la fce ripetere do’ fate: ucìu in ra ra llu boscu e tturnàu cu lla stanga, ma cu lla stanga cchiù storta ca nc’era. «Lu sapìa già ca nu’ nde cumbìni mai una bona,» ne tisse la cummare Orpe «ma va’ ssacci ca nu’ ssai mancu a ddhu stae te casa lu terittu! Fanne na cosa: spettame cquai tie, ca vau iu lla rou rou na stanga teritta. Tie cerca cu mme stai ‘ttentu a Cesare e Palumbu.» E la cummare Orpe scìu a llu boscu cu roa roa la stanga cchiù deritta ca nc’era. Lu cumpare Lupu mo’ sta’ spettava propriu ‘st’occasione. Ap pena la cummare Orpe se lluntanàu in ra ra llu boscu, cce tte fce? Scannàu li do’ àuni e sse li mangiàu… ca restàra sulamente le pelli. Cu azza lu urbu poi, cusìu le pelli e lle inchìu cu na razzata te paja. Cu ppòzzanu restare tisi l’àuni, poi, rinurzàu l’anche cu lli zzippi e se la squajàu. Cesare e Palumbu, mpizzati ‘n terra comu stíanu, parìanu comu vii. Nu ppassàu mutu ca turnàu la cummare Orpe cu lla stanga la cchiù deritta ca nc’era. Vitte l’àuni belli tisi, ma, nu bitendu lu cumpare Lupu se mise cu llu chiama. E ccritava: «Cumpare Luuùpu, cumpare Luuùpu!» Ma lu cumpare Lupu nu’ rrispundìa. «Addhu ete ca s’hae cacciatu? Ne tissi cu mme cuarda l’àuni, ma quiddhu addhu ntise. Eh, spalisciatu comu ete, quiddhu ci sape a ddhu è šciutu mminta nsurti!»
La Volpe Volpe e il Lupo una volta erano compari. Comare Volpe Volpe possedeva due agnelli, Cesare e Palombo, buoni a trainare il carretto. Un bel giorno, comare Volpe e compare Lupo p ensarono bene di recarsi col carretto nel bel mezzo di un bosco per arsi le provviste di legna. Legarono Cesare e Palombo alle due stanghe, diedero di scudiscio e partirono. All’andare, però, e non vuoi che venne a rompersi una stanga del carretto? Sicché comare Volpe Volpe disse a compare Lupo: «Sai che hai da are? Corri nel bosco, tagliami il ramo più dritto che c’è e portamelo.» Compare Lupo non se lo ece ripetere due volte: corse nel bosco e tornò col ramo, ma col ramo più storto che c’era. «Lo sapevo già che non ne combini mai una buona,» gli disse comare Volpe «ma vai a immaginare che non sai neanche dove sta di casa il dritto! Fai na cosa: aspettami qui, che vado io a trovare il ramo più dritto che c’è. E stammi attento a Cesare e Palombo.» Così comare Volpe si recò nel bosco a cercare il ramo più dritto che c’era. Compare Lupo, mo’, non aspettava che questa l’occasione. Appena comare Volpe si allontanò per il bosco, che ti ece? Scannò i due agnelli e se li mangiò… che restarono solamente le pelli. Per mascherare il atto poi, cucì le pelli e le riempì con una manciata di paglia. Perché restassero in piedi gli agnelli, poi, rinorzò le zampe con dei bastoni e se la squagliò. Cesare e Palombo, tenuti così in piedi, sembravano come v ivi. Di lì a non molto, comare Volpe u di ritorno col ramo il più dritto che c’era. Vide gli agnelli in piedi e il carretto, ma, stranamente, non c’era compare Lupo. Così prese a chiamarlo a gran voce: «Compare Luuùpo, compare Luuùpo!» Ma compare Lupo non rispondeva. «Ma dove si è cacciato? Gli raccomandai di guardarmi gli agnelli, ma quello intese altro. Eh, tonto com’è, quello chissà dove è andato a ar danno!»
A ‘stu puntu, la cummare Orpe, senza ssuspetta te gnenzi, se mise ccangia la stanga te lu carrettu. Quandu ca spicciàu, muntàu te susu e ddese nu fschiu all’àuni cu sse mòvanu. Ma Cesare e Palumbu stíanu ddhai mpizzati e nnu’ sse risulvìanu. Pijàu ‘llora lu scurisciatu e nne menàu do’ corpi. «Sciàmu!» critàu, ma quiddhi mancu pe’ pe’ lla capu. «Acquai cosa passa» tisse la cummare Orpe. Šcise te lu carrettu, car rettu, se mbicinàu a Cesare e Palumbu e macari ca li cotulava e lli critava, quiddhi sempre mpizzati stíanu. Addhai ca se ddunàu ca Cesare e Palumbu l’ia ccisi e mmangiati lu cumpare Lupu. E ccritàu: «Cumpare Luuùpu, a ddhunca stai me l’hai ppacare tie e cci sinti!» Passàu bonu tiempu. Nu giurnu, caminandu a mmienź u nna via, la cummare Orpe vitte passare nu raìnu raìnu caricu te pešce beddhu riscu. Cce fce? Furba iddha mo’, zziccàu ucire, rrivàu cchiù nnanzi te lu raìnu raìnu e sse stise an terra pe’ pe’ mmorta mmienź u la s rata. r ata. Lu rainieri, rainieri, quandu rriàu nnanzi lla orpe morta, ermàu te pressa lu cavaddhu e ddisse: «Beddha mia ‘sta orpe, ca me vindu la pelle e mme cuatagnu quarche ssordu.» Šcise, la pijàu e lla mbarcàu susu llu raìnu. raìnu. «Aaah! aaah! Sciamu, ca osci la sciurnata è bona!» critàu a llu cavaddhu. E partìu cu nna botta te scurisciatu. Ma la cummare Orpe, mbarcata su ttuttu ddhu beddhu pešce, aprìu l’occhi e cce fce? Na! men re re lu rainieri rainieri tia corpi te scurisciatu a llu cavaddhu, iddha brancava pešce e mmenava mmienź u ‘lla via. Quandu ca lu menàu tuttu, sartàu puru iddha, id dha, se raccoź e e lu pešce in ra ra lle visazze e uci ccasa mo’. mo’. Rriàta a ccasa te pressa se mise ricìre r icìre a lla perduta, ca la ndore rriava puru an cielu. E lla ntise puru lu cumpare Lupu la ndore te pešce, e ndurandu te cquai e ndurandu te ddhai, ddha i, rriàu propriu a ccasa te la cummare Orpe. Quista mo’, a mmienź u a llu umu te pešce, acia ricendu mangiandu. «Cummare Orpe,» tisse lu cumpare Lupu «e nnu’ mme tai nu
Comare Volpe, Volpe, non sospettando di nulla, si mise a sostituire la stanga del carretto. Finito che ebbe, montò sul sedile e, con un schio, ordinò ai due agnelli di muoversi, muoversi, ma Cesare e Palombo se ne stavano lì immobili e non si muovevano. Prese allora lo scudiscio e li rustò: «Andiamo!» gridò, ma niente da are. «Qui cosa passa» disse comare Volpe. Volpe. Scese dal carretto, s’avvicinò a Cesare e Palombo e prese a sgridarli e a scuoterli. Niente, quelli erano come piantati per terra. Fu lì che dovette constatare che Cesare e Palombo erano stati uccisi e mangiati da compare Lupo. E urlò: «Compare Luuùpo, dovunque tu sia me la pagherai tu e chi sei!» Trascorse un bel po’ di tempo. Un giorno, camminando per una strada, comare Volpe vide passare un traino carico di pesce bello resco. Furba lei mo’, che ti ece? Si mise a correre, superò di un buon tratto il traino e si stese sulla strada ngendosi morta. Il carrettiere, non appena sopraggiunse davanti alla volpe morta, s’arrestò ulmineo col cavallo. «Bella mia questa volpe,» disse «che mi vendo la pelle e mi guadagno un po’ di soldi.» Così scese, raccolse la volpe e la lanciò tra le sponde del traino. «Aaàh! aaàh! Andiamo, che oggi è giornata buona!» urlò al cavallo. E lo spronò spronò con un colpo di scudiscio. Ma comare Volpe, allungata in mezzo a tutto quel pesce, aprì gli occhi e, mentre il carrettiere dava al cavallo di scudiscio, abbrancava pesce e man mano lo lanciava sulla strada. Svuotato che ebbe interamente il traino, saltò giù, raccolse il pesce e si riempì le bisacce. Dopo di che, corri a casa! Giunta che u a casa si mise a riggere pesce a iosa, sì che l’odore arrivava no in cielo e lo avvertì perno c ompare Lupo. Questi, seppur lontano, utando di qua e utando di là, giunse, con sua sorpresa, proprio davanti alla casa di comare Volpe, Volpe, la quale mo’, in un alone di umo, aceva riggendo mangiando.
A ‘stu puntu, la cummare Orpe, senza ssuspetta te gnenzi, se mise ccangia la stanga te lu carrettu. Quandu ca spicciàu, muntàu te susu e ddese nu fschiu all’àuni cu sse mòvanu. Ma Cesare e Palumbu stíanu ddhai mpizzati e nnu’ sse risulvìanu. Pijàu ‘llora lu scurisciatu e nne menàu do’ corpi. «Sciàmu!» critàu, ma quiddhi mancu pe’ pe’ lla capu. «Acquai cosa passa» tisse la cummare Orpe. Šcise te lu carrettu, car rettu, se mbicinàu a Cesare e Palumbu e macari ca li cotulava e lli critava, quiddhi sempre mpizzati stíanu. Addhai ca se ddunàu ca Cesare e Palumbu l’ia ccisi e mmangiati lu cumpare Lupu. E ccritàu: «Cumpare Luuùpu, a ddhunca stai me l’hai ppacare tie e cci sinti!» Passàu bonu tiempu. Nu giurnu, caminandu a mmienź u nna via, la cummare Orpe vitte passare nu raìnu raìnu caricu te pešce beddhu riscu. Cce fce? Furba iddha mo’, zziccàu ucire, rrivàu cchiù nnanzi te lu raìnu raìnu e sse stise an terra pe’ pe’ mmorta mmienź u la s rata. r ata. Lu rainieri, rainieri, quandu rriàu nnanzi lla orpe morta, ermàu te pressa lu cavaddhu e ddisse: «Beddha mia ‘sta orpe, ca me vindu la pelle e mme cuatagnu quarche ssordu.» Šcise, la pijàu e lla mbarcàu susu llu raìnu. raìnu. «Aaah! aaah! Sciamu, ca osci la sciurnata è bona!» critàu a llu cavaddhu. E partìu cu nna botta te scurisciatu. Ma la cummare Orpe, mbarcata su ttuttu ddhu beddhu pešce, aprìu l’occhi e cce fce? Na! men re re lu rainieri rainieri tia corpi te scurisciatu a llu cavaddhu, iddha brancava pešce e mmenava mmienź u ‘lla via. Quandu ca lu menàu tuttu, sartàu puru iddha, id dha, se raccoź e e lu pešce in ra ra lle visazze e uci ccasa mo’. mo’. Rriàta a ccasa te pressa se mise ricìre r icìre a lla perduta, ca la ndore rriava puru an cielu. E lla ntise puru lu cumpare Lupu la ndore te pešce, e ndurandu te cquai e ndurandu te ddhai, ddha i, rriàu propriu a ccasa te la cummare Orpe. Quista mo’, a mmienź u a llu umu te pešce, acia ricendu mangiandu. «Cummare Orpe,» tisse lu cumpare Lupu «e nnu’ mme tai nu pocu te pešce, ca sta aci aci cu mmoru? Armenu cu llu l lu prou. Ca tuttu tie te l’hai mmangiare?»
Comare Volpe, Volpe, non sospettando di nulla, si mise a sostituire la stanga del carretto. Finito che ebbe, montò sul sedile e, con un schio, ordinò ai due agnelli di muoversi, muoversi, ma Cesare e Palombo se ne stavano lì immobili e non si muovevano. Prese allora lo scudiscio e li rustò: «Andiamo!» gridò, ma niente da are. «Qui cosa passa» disse comare Volpe. Volpe. Scese dal carretto, s’avvicinò a Cesare e Palombo e prese a sgridarli e a scuoterli. Niente, quelli erano come piantati per terra. Fu lì che dovette constatare che Cesare e Palombo erano stati uccisi e mangiati da compare Lupo. E urlò: «Compare Luuùpo, dovunque tu sia me la pagherai tu e chi sei!» Trascorse un bel po’ di tempo. Un giorno, camminando per una strada, comare Volpe vide passare un traino carico di pesce bello resco. Furba lei mo’, che ti ece? Si mise a correre, superò di un buon tratto il traino e si stese sulla strada ngendosi morta. Il carrettiere, non appena sopraggiunse davanti alla volpe morta, s’arrestò ulmineo col cavallo. «Bella mia questa volpe,» disse «che mi vendo la pelle e mi guadagno un po’ di soldi.» Così scese, raccolse la volpe e la lanciò tra le sponde del traino. «Aaàh! aaàh! Andiamo, che oggi è giornata buona!» urlò al cavallo. E lo spronò spronò con un colpo di scudiscio. Ma comare Volpe, allungata in mezzo a tutto quel pesce, aprì gli occhi e, mentre il carrettiere dava al cavallo di scudiscio, abbrancava pesce e man mano lo lanciava sulla strada. Svuotato che ebbe interamente il traino, saltò giù, raccolse il pesce e si riempì le bisacce. Dopo di che, corri a casa! Giunta che u a casa si mise a riggere pesce a iosa, sì che l’odore arrivava no in cielo e lo avvertì perno c ompare Lupo. Questi, seppur lontano, utando di qua e utando di là, giunse, con sua sorpresa, proprio davanti alla casa di comare Volpe, Volpe, la quale mo’, in un alone di umo, aceva riggendo mangiando. «Comare Volpe,» Volpe,» disse compare Lupo «e non mi dai un po’ di pesce, che mi stai acendo morire? Almeno per provarlo. Che tutto tu te lo devi mangiare?»
«Cumpare Lupu, na! ca nc’ete lu mare ca è cchinu te pešce: cu gnenzi lu pischi.» «E ttimme tie comu àggiu are, cummare Orpe.» «T’àggiu tittu ca nu’ nci vole gnenzi: basta tte piji do’ capase e tte le ttacchi an coddhu, una te nanzi e una te retu. Poi te cali in ra ra mmare e a na-nná se ìnchianu te pešce.» «E šciamu, cummare Orpe, sciamu! Vieni puru tie, armenu cu mme mmošci a ddhu ete ca m’àggiu ccalare, ca voju cu mme azzu puru iu na beddha mangiata!» E llu cumpare Lupu ruàu ruàu le capase e šciu ‘mmare paru cu lla cummare Orpe. Rriara nnanzi nnu scòju te mare beddhu undu e lla cummare Orpe tisse a llu cumpare Lupu: «Cumpare Lupu, acquai… acquai t’hai mmenare. Propriu acquai àggiu piscatu tantu beddhu pešce.» Lu cumpare Lupu nu’ sse la fce rripetere do’ fate: se mpise le capase ‘n coddhu, una te nanzi e ll’addha te retu, e sse menàu ‘mmienź u mmare. A ddhai ca le capase chianu chianu se ccuminciara nchire t’acqua mo’, e llu cumpare Lupu se sentìa tirare sottaundu. E ccritava: «Cummare Orpe, cummare Orpe, sta mme nucu!» «None, none, nu’ sta tte nuchi: hai šcire cchiù ssotta cu roi roi lu pešce» ne acìa la cummare Orpe. «Cummare Orpe, sta mme nucu, sta mme nucu, cummare Orpe, sta mme nu... mme n... mm...» «Cumpare Lupu, quantu cchiù sotta vai cchiù ppecure e pporci roi. roi. Comu te sippe Cesare e Palumbu? Cusì tte saccia l’acqua te lu undu!»
«Compare Lupo, to’! sappi che il mare è pieno di pesce: con niente lo peschi.» «E dimmi tu come devo d evo are, comare Volpe.» Volpe.» «Te l’ho già detto che non ci vuol niente: sono sucienti due capase,14 che ti appenderai al collo, una davanti e l’altra dietro. Poi ti butterai in mare e quelle presto presto si riempiranno di pesce.» «E andiamo, comare Volpe, andiamo! Vieni pure tu, così almeno mi mostri il punto dove mi devo buttare: che pure io mi voglio are una bella mangiata!» E compare Lupo trovò le capase e si recò a mare insieme con comare Volpe. Giunsero così davanti a uno scoglio dove il mare era bello proondo. Comare Volpe si ermò e disse: «Compare Lupo, è qui che ti devi buttare, proprio qui ho pescato tanto bel pesce.» Compare Lupo non se lo ece ripetere due volte: s’appese le capase al collo, una davanti, l’altra dietro, e si buttò in mare. Qui che le capase pian piano presero a riempirsi d’acqua mo’, e compare Lupo si sentiva tirare giù nel ondo. E gridava: «Comare Volpe, Volpe, comare Volpe, sto aogando!» «Ma no che non aoghi: devi scendere sempre più giù, ché lì si trova tanto pesce,» gli aceva comare Volpe. «Comare Volpe, Volpe, aogo, aogo comare Volpe, aog... ao... a...» «Compare Lupo, quanto più sotto vai, più pecore e porci trovi. Come ti seppero Cesare e Palombo? Così ti sappia l’acqua del mare ondo!»
«Cumpare Lupu, na! ca nc’ete lu mare ca è cchinu te pešce: cu gnenzi lu pischi.» «E ttimme tie comu àggiu are, cummare Orpe.» «T’àggiu tittu ca nu’ nci vole gnenzi: basta tte piji do’ capase e tte le ttacchi an coddhu, una te nanzi e una te retu. Poi te cali in ra ra mmare e a na-nná se ìnchianu te pešce.» «E šciamu, cummare Orpe, sciamu! Vieni puru tie, armenu cu mme mmošci a ddhu ete ca m’àggiu ccalare, ca voju cu mme azzu puru iu na beddha mangiata!» E llu cumpare Lupu ruàu ruàu le capase e šciu ‘mmare paru cu lla cummare Orpe. Rriara nnanzi nnu scòju te mare beddhu undu e lla cummare Orpe tisse a llu cumpare Lupu: «Cumpare Lupu, acquai… acquai t’hai mmenare. Propriu acquai àggiu piscatu tantu beddhu pešce.» Lu cumpare Lupu nu’ sse la fce rripetere do’ fate: se mpise le capase ‘n coddhu, una te nanzi e ll’addha te retu, e sse menàu ‘mmienź u mmare. A ddhai ca le capase chianu chianu se ccuminciara nchire t’acqua mo’, e llu cumpare Lupu se sentìa tirare sottaundu. E ccritava: «Cummare Orpe, cummare Orpe, sta mme nucu!» «None, none, nu’ sta tte nuchi: hai šcire cchiù ssotta cu roi roi lu pešce» ne acìa la cummare Orpe. «Cummare Orpe, sta mme nucu, sta mme nucu, cummare Orpe, sta mme nu... mme n... mm...» «Cumpare Lupu, quantu cchiù sotta vai cchiù ppecure e pporci roi. roi. Comu te sippe Cesare e Palumbu? Cusì tte saccia l’acqua te lu undu!»
«Compare Lupo, to’! sappi che il mare è pieno di pesce: con niente lo peschi.» «E dimmi tu come devo d evo are, comare Volpe.» Volpe.» «Te l’ho già detto che non ci vuol niente: sono sucienti due capase,14 che ti appenderai al collo, una davanti e l’altra dietro. Poi ti butterai in mare e quelle presto presto si riempiranno di pesce.» «E andiamo, comare Volpe, andiamo! Vieni pure tu, così almeno mi mostri il punto dove mi devo buttare: che pure io mi voglio are una bella mangiata!» E compare Lupo trovò le capase e si recò a mare insieme con comare Volpe. Giunsero così davanti a uno scoglio dove il mare era bello proondo. Comare Volpe si ermò e disse: «Compare Lupo, è qui che ti devi buttare, proprio qui ho pescato tanto bel pesce.» Compare Lupo non se lo ece ripetere due volte: s’appese le capase al collo, una davanti, l’altra dietro, e si buttò in mare. Qui che le capase pian piano presero a riempirsi d’acqua mo’, e compare Lupo si sentiva tirare giù nel ondo. E gridava: «Comare Volpe, Volpe, comare Volpe, sto aogando!» «Ma no che non aoghi: devi scendere sempre più giù, ché lì si trova tanto pesce,» gli aceva comare Volpe. «Comare Volpe, Volpe, aogo, aogo comare Volpe, aog... ao... a...» «Compare Lupo, quanto più sotto vai, più pecore e porci trovi. Come ti seppero Cesare e Palombo? Così ti sappia l’acqua del mare ondo!»
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u pa pat t Ṛ e picOzzu Lu Ṛ e picOzzu
Nc’era a llu cumentu te Calàtune nu pa re re picozzu, unu ca scia tutti li giurni a lla cerca. E dde cquai e dde ddhai, nu giurnu ne menàu l’òcchiu a nna beddha èmmana: Maria se chiamava e gh’era gh ’era spusata, lu maritu tenìa nu rappitu rappitu propriu te coste ccasa. Sicché lu pa re re picozzu na fata scìu ttuzza pe’ lla limosina pro priu a ccasa te la Maria. E appena la Maria ne aprìu, iddhu te pressa: «Maria mia, cce ssi’ s si’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» La Maria sculurìu tutta quanta. Se tisse: «Na! propriu a mmie m’hanu rrecapitare certe cose: mo’ s’hae misu puru nu mònicu; nu’ bastanu tutti l’addhi cristiani: ca cquai tocca tte penti puru ca si’ beddha!» E šciu a llu maritu cu nne tica te quistu passa. Tisse lu maritu: «E brau lu pa re re picozzu, brau: se mmurtala propriu!» Poi a lla Maria: «Beh, quandu torna te nou e tte tice te quistu passa, tie tinne cu tte nduca prima centu tucati, se vole cu llu aci cuntentu. A llu restu ci pensu iu.» A llu crai, lu pa re re picozzu scìu cu ttuzza ntorna a lla porta te la Maria. La Maria aprìu e iddhu ne tisse: «Maria mia, cce ssi’ s si’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» «Tie pòrtame centu tucati,» tisse la Maria «ca poi te ccuntentu iu.» Mo’ ìi bitire lu pa re re picozzu comu se mise ucire, sai? Fuci a llu cumentu cu ppìja li centu tucati. A ùrmine turnàu a ddha lla Maria: «Na! t’àggiu t’àggiu purtatu li centu tucati.» La Maria se gguantàu li tucati e nne tisse bàscia sse spòja in ru ru ll’addha stanza e cu lla spetta susu lu canapé. A ddhu rattiempu però se ntise tuzzare.
Grandi vasi di creta per serbarvi olio e ulive.
Il padre picozzo
C’era nel convento di Galàtone un padre picozzo 15, di quelli che andavano in giro di casa in casa per la questua. E u proprio in uno di questi giri che cominciò a prestare attenzione a una bella donna: Maria si chiamava, era sposata, il marito teneva un rantoio proprio nei pressi dell’abitazione. Un bel giorno, il padre picozzo bussò alla sua porta, e quando la Maria gli aprì: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» Scolorì tutta quanta la Maria. Si disse: «To’! proprio a me dovevano capitare certe cose! Mo’ ci s’è messo pure un monaco; non bastano gli altri cristiani: qui tocca pentirti pure che sei bella!» E andò a spierare tutto al marito. Che disse: «E bravo il padre picozzo, proprio bravo: s’immortala proprio!» Poi rivolto alla Maria: «La prossima volta che bussa il padre picozzo e ti dice maleparole, digli che sei disposta a arlo contento se prima ti porta cento ducati. Al resto ci penso io.» E il giorno dopo, il padre picozzo bussò di nuovo alla porta della Maria e: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» «Tuu portami cento ducati, » s’apprestò a dirgli la Maria «che «T poi ti arò contento.» Bisognava vederlo il padre picozzo come correva al convento per raccattare i cento ducati. Tornò dalla Maria come un ulmine: «Maria mia, eccoti i cento ducati.» La Maria agguantò i ducati e poi consigliò al padre picozzo di andarsi a spogliare nella stanza attigua e aspettare sul divano. Ma in quel rattempo si udì bussare alla porta.
u pa pat t Ṛ e picOzzu Lu Ṛ e picOzzu
Il padre picozzo
Nc’era a llu cumentu te Calàtune nu pa re re picozzu, unu ca scia tutti li giurni a lla cerca. E dde cquai e dde ddhai, nu giurnu ne menàu l’òcchiu a nna beddha èmmana: Maria se chiamava e gh’era gh ’era spusata, lu maritu tenìa nu rappitu rappitu propriu te coste ccasa. Sicché lu pa re re picozzu na fata scìu ttuzza pe’ lla limosina pro priu a ccasa te la Maria. E appena la Maria ne aprìu, iddhu te pressa: «Maria mia, cce ssi’ s si’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» La Maria sculurìu tutta quanta. Se tisse: «Na! propriu a mmie m’hanu rrecapitare certe cose: mo’ s’hae misu puru nu mònicu; nu’ bastanu tutti l’addhi cristiani: ca cquai tocca tte penti puru ca si’ beddha!» E šciu a llu maritu cu nne tica te quistu passa. Tisse lu maritu: «E brau lu pa re re picozzu, brau: se mmurtala propriu!» Poi a lla Maria: «Beh, quandu torna te nou e tte tice te quistu passa, tie tinne cu tte nduca prima centu tucati, se vole cu llu aci cuntentu. A llu restu ci pensu iu.» A llu crai, lu pa re re picozzu scìu cu ttuzza ntorna a lla porta te la Maria. La Maria aprìu e iddhu ne tisse: «Maria mia, cce ssi’ s si’ beddha! Cce ssi’ beddha, Maria mia!» «Tie pòrtame centu tucati,» tisse la Maria «ca poi te ccuntentu iu.» Mo’ ìi bitire lu pa re re picozzu comu se mise ucire, sai? Fuci a llu cumentu cu ppìja li centu tucati. A ùrmine turnàu a ddha lla Maria: «Na! t’àggiu t’àggiu purtatu li centu tucati.» La Maria se gguantàu li tucati e nne tisse bàscia sse spòja in ru ru ll’addha stanza e cu lla spetta susu lu canapé. A ddhu rattiempu però se ntise tuzzare.
C’era nel convento di Galàtone un padre picozzo 15, di quelli che andavano in giro di casa in casa per la questua. E u proprio in uno di questi giri che cominciò a prestare attenzione a una bella donna: Maria si chiamava, era sposata, il marito teneva un rantoio proprio nei pressi dell’abitazione. Un bel giorno, il padre picozzo bussò alla sua porta, e quando la Maria gli aprì: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» Scolorì tutta quanta la Maria. Si disse: «To’! proprio a me dovevano capitare certe cose! Mo’ ci s’è messo pure un monaco; non bastano gli altri cristiani: qui tocca pentirti pure che sei bella!» E andò a spierare tutto al marito. Che disse: «E bravo il padre picozzo, proprio bravo: s’immortala proprio!» Poi rivolto alla Maria: «La prossima volta che bussa il padre picozzo e ti dice maleparole, digli che sei disposta a arlo contento se prima ti porta cento ducati. Al resto ci penso io.» E il giorno dopo, il padre picozzo bussò di nuovo alla porta della Maria e: «Maria mia, quanto sei bella! Quanto sei bella, Maria mia!» «Tuu portami cento ducati, » s’apprestò a dirgli la Maria «che «T poi ti arò contento.» Bisognava vederlo il padre picozzo come correva al convento per raccattare i cento ducati. Tornò dalla Maria come un ulmine: «Maria mia, eccoti i cento ducati.» La Maria agguantò i ducati e poi consigliò al padre picozzo di andarsi a spogliare nella stanza attigua e aspettare sul divano. Ma in quel rattempo si udì bussare alla porta. Padre picozzu: rate del convento che non aveva preso gli ordini, quindi non celebrava messa. Era addetto alla questua e ai lavori manuali. 15
«Ci ete?» fce la Maria. «Maria, marìtuta suntu: àprime ca tocca ppìju la canìšcia te le ulìe, ca me serve in ru ru llu rappitu.» rappitu.» «Maritu miu, cce mme scorci a ‘st’ora!» ‘st’ora!» tisse orte, puru cu ssenta lu pa re re picozzu, cu azza divetère mo’ ca nu’ stia t’accordu cu llu maritu. «Maria, àprime ca li rappitari rappitari sta’ mme spèttanu: la canìšcia me serve, nu nu’’ mme are cu pperdu tiempu!» La Maria ne aprìu e llu pa re re picozzu, ca s’ia già spujatu, scìu sse scunde tuttu culinutu propriu sotta llu jettu a ddhunca nc’era la canìšcia. ṭ rasìu rasìu lu maritu e šcìu terittu sotta lu jettu. Quandu te scuprìu lu pa re re picozzu, a ddhai t’ìi ruàre, ruàre, fju miu. Mazzate, sai? Mazzate a lla perduta: ddhu pòveru pa re re picozzu lu s runcunisciàu runcunisciàu bonu bonu pe’ lle este e ppe’ lle uttisciàne. Poi lu pijàu e llu purtàu, nutu comu l’ia attu la mamma soa, in ra ra lu rappitu. rappitu. Acquai restaccàu lu cavaddhu ca tirava giru giru le màcine te le ulìe, e, allu postu sou, ttaccàu lu pa re re picozzu. E nne tia corpi te scurisciatu cu ttira, mancu sia ca era cavaddhu. E llu nsurtava e ddicìa: «Tira, bruttu malecarne! Mujèrama vulìi tte utti ah? E mmo’ butta lu sangu puru tie e ttira: ca fncu a ccramatina nc’è ttiempu.» Ddhu pòveru pa re re picozzu squjàu tutta la notte e quandu ca se fce matina, lu maritu ne tese la tònaca cu sse veste e llu sbattìu ddha ore. «E nnu’ tte are vitire cchiui!» ne critàu te retu. Acquai ca lu pa re re picozzu, ritottu a re re ore te notte, ‘ssendu te lu rappitu, rappitu, sciu ppassa propriu sotta la fnešcia te la Maria, ca stia nacciata. La Maria, vitendulu passare, aprìu la ucca e nne fce nu pocu ngrugnata: «Uh-uh-uh!»
Ttu-ttú! «Chi è?» ece la Maria. «Tuo «T uo marito sono, Maria: nel rantoio c’è bisogno bisog no del canestro delle ulive.» «Marito mio, proprio a quest’ora mi devi scocciare?» disse a voce alta per arsi sentire dal padre picozzo e argli credere che non s’era accordata col marito. Ma il marito insisteva: «Apri, Maria, mi serve il canestro, al rantoio mi aspettano, non armi perdere tempo.» La Maria gli aprì e il padre picozzo, che era già nudo come l’aveva atto mamma sua, andò a nascondersi proprio sotto il letto dove era situato il canestro. Il marito entrò e si recò dritto dritto sotto il letto, dove scoprì il monaco. Qui mo’ ti dovevi trovare, glio mio. Mazzate, sai? Mazzate senza misura. Quel povero padre picozzo, insomma, te lo conciò bene bene per le este e per le uttisciàne .16 Dopodiché lo spinse, tutto nudo com’era, dentro il rantoio. Qui slegò il cavallo che trainava a giro le pesanti macine delle ulive e, al suo posto, legò il padre picozzo. E come per il cavallo, gli assestava pure colpi di scudiscio. E lo insultava: «Tira, brutto maligno: volevi otterti mia moglie ah? E mo’ butta il sangue pure tu! che no a domattina c’è tempo.» Quel povero padre picozzo u crepato di sudore e di atica tutta la notte. Quando si ece giorno, il marito gli restituì la tonaca e lo sbatté uori del rantoio. «E non arti più vedere!» gli gridò dietro. Qui che il padre picozzo, nero di botte, uscendo dal rantoio si trovò a passare proprio sotto la nestra della Maria, che stava aacciata. La Maria, vedendolo passare, aprì la bocca e gli ece un po’ ingrugnita: «Uh-uh-úh.» Al che il monaco alzò la testa e: «Uh-uh-úh un cazzo!» le disse «che, se vuoi macinarti le
«Ci ete?» fce la Maria. «Maria, marìtuta suntu: àprime ca tocca ppìju la canìšcia te le ulìe, ca me serve in ru ru llu rappitu.» rappitu.» «Maritu miu, cce mme scorci a ‘st’ora!» ‘st’ora!» tisse orte, puru cu ssenta lu pa re re picozzu, cu azza divetère mo’ ca nu’ stia t’accordu cu llu maritu. «Maria, àprime ca li rappitari rappitari sta’ mme spèttanu: la canìšcia me serve, nu nu’’ mme are cu pperdu tiempu!» La Maria ne aprìu e llu pa re re picozzu, ca s’ia già spujatu, scìu sse scunde tuttu culinutu propriu sotta llu jettu a ddhunca nc’era la canìšcia. ṭ rasìu rasìu lu maritu e šcìu terittu sotta lu jettu. Quandu te scuprìu lu pa re re picozzu, a ddhai t’ìi ruàre, ruàre, fju miu. Mazzate, sai? Mazzate a lla perduta: ddhu pòveru pa re re picozzu lu s runcunisciàu runcunisciàu bonu bonu pe’ lle este e ppe’ lle uttisciàne. Poi lu pijàu e llu purtàu, nutu comu l’ia attu la mamma soa, in ra ra lu rappitu. rappitu. Acquai restaccàu lu cavaddhu ca tirava giru giru le màcine te le ulìe, e, allu postu sou, ttaccàu lu pa re re picozzu. E nne tia corpi te scurisciatu cu ttira, mancu sia ca era cavaddhu. E llu nsurtava e ddicìa: «Tira, bruttu malecarne! Mujèrama vulìi tte utti ah? E mmo’ butta lu sangu puru tie e ttira: ca fncu a ccramatina nc’è ttiempu.» Ddhu pòveru pa re re picozzu squjàu tutta la notte e quandu ca se fce matina, lu maritu ne tese la tònaca cu sse veste e llu sbattìu ddha ore. «E nnu’ tte are vitire cchiui!» ne critàu te retu. Acquai ca lu pa re re picozzu, ritottu a re re ore te notte, ‘ssendu te lu rappitu, rappitu, sciu ppassa propriu sotta la fnešcia te la Maria, ca stia nacciata. La Maria, vitendulu passare, aprìu la ucca e nne fce nu pocu ngrugnata: «Uh-uh-uh!» Acquai ca lu pa re re picozzu aź àu àu la capu e: «Uh-uh-uh lu cazzu!» ne tisse «Ca, ci voi tte mmàcini le ulìe cu ba tte ccatti la mula!»
Ttu-ttú! «Chi è?» ece la Maria. «Tuo «T uo marito sono, Maria: nel rantoio c’è bisogno bisog no del canestro delle ulive.» «Marito mio, proprio a quest’ora mi devi scocciare?» disse a voce alta per arsi sentire dal padre picozzo e argli credere che non s’era accordata col marito. Ma il marito insisteva: «Apri, Maria, mi serve il canestro, al rantoio mi aspettano, non armi perdere tempo.» La Maria gli aprì e il padre picozzo, che era già nudo come l’aveva atto mamma sua, andò a nascondersi proprio sotto il letto dove era situato il canestro. Il marito entrò e si recò dritto dritto sotto il letto, dove scoprì il monaco. Qui mo’ ti dovevi trovare, glio mio. Mazzate, sai? Mazzate senza misura. Quel povero padre picozzo, insomma, te lo conciò bene bene per le este e per le uttisciàne .16 Dopodiché lo spinse, tutto nudo com’era, dentro il rantoio. Qui slegò il cavallo che trainava a giro le pesanti macine delle ulive e, al suo posto, legò il padre picozzo. E come per il cavallo, gli assestava pure colpi di scudiscio. E lo insultava: «Tira, brutto maligno: volevi otterti mia moglie ah? E mo’ butta il sangue pure tu! che no a domattina c’è tempo.» Quel povero padre picozzo u crepato di sudore e di atica tutta la notte. Quando si ece giorno, il marito gli restituì la tonaca e lo sbatté uori del rantoio. «E non arti più vedere!» gli gridò dietro. Qui che il padre picozzo, nero di botte, uscendo dal rantoio si trovò a passare proprio sotto la nestra della Maria, che stava aacciata. La Maria, vedendolo passare, aprì la bocca e gli ece un po’ ingrugnita: «Uh-uh-úh.» Al che il monaco alzò la testa e: «Uh-uh-úh un cazzo!» le disse «che, se vuoi macinarti le ulive, vai a comprarti la mula!» 16
Giorni eriali.
maccarruNi pišciati Li maccarruNi
C’era na fata nu rate ca scia ‘lla limòsina, e šciu ba ttuzza a nna casa addhune ne aprìu na vagnone nu’ ttantu giustata te capu. Ca tisse a llu rate: «Spetta, ca vau pìju na cosa.» E šciu ba nne pìja lu tiestu cu nnu picca te maccarruni ca èranu rimasti te la sera prima. Ddhu rate, ca tenìa ame, se zziccàu lu tiestu cu lla cucchiara e sse menàu sse li mangia. Ma topu lu primu nghiuttu, tuccàu lli lassa li maccarruni, ca gh’èranu tutti nnacituti. Addhai ca la vagnone ne tisse: «None, ca te li poti mangiare, sai? Tantu Tantu nui l’imu mbarcare, ca l’hanu pišciati li surgi.» «Ah sì?» tisse lu rate «E nna!» E nne rumpìu lu tiestu an capu. La vagnone mo’ zziccàu cchiangire. E acìa: «Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte. Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava c acava sìrama te notte.» Sentendu te cusine, a llu rate addhu nu’ nne restàu ca cu zzacca ddha vagnone e ccu tte la binchia bona bona te mazzate.
I maccheroni pisciati
C’era una volta un rate che girava per la questua e andò a bussare alla porta di una casa dove gli aprì una bambina che non ci stava molto con la testa. Che disse al rate: «Aspetta, che vado a prenderti una cosa.» E tornò con un tegame di coccio con dentro un po’ di maccheroni avanzati della sera prima. Il rate, che era aamato, agguantò cucchiaio e tegame e si buttò a mangiare i maccheroni. Ma, dopo il primo boccone, dovette lasciar perdere per via che erano tutti inaciditi. Qui che la bambina disse al rate: «Guarda che te li puoi mangiare i maccheroni, tanto noi li buttiamo perché i sorci ci hanno pisciato sopra.» «Ah, è così?» esclamò il rate «E ttié!» E le ruppe il tegame di coccio in testa. La bambina mo’ si mise a piangere. E aceva: «Povera me! povera me! Che m’hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte. Povera me! povera me! Che mi hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte.» Ascoltando la tal cosa, al rate non restò che aerrare la bambina e riempirla buona buona di mazzate.
maccarruNi pišciati Li maccarruNi
I maccheroni pisciati
C’era na fata nu rate ca scia ‘lla limòsina, e šciu ba ttuzza a nna casa addhune ne aprìu na vagnone nu’ ttantu giustata te capu. Ca tisse a llu rate: «Spetta, ca vau pìju na cosa.» E šciu ba nne pìja lu tiestu cu nnu picca te maccarruni ca èranu rimasti te la sera prima. Ddhu rate, ca tenìa ame, se zziccàu lu tiestu cu lla cucchiara e sse menàu sse li mangia. Ma topu lu primu nghiuttu, tuccàu lli lassa li maccarruni, ca gh’èranu tutti nnacituti. Addhai ca la vagnone ne tisse: «None, ca te li poti mangiare, sai? Tantu Tantu nui l’imu mbarcare, ca l’hanu pišciati li surgi.» «Ah sì?» tisse lu rate «E nna!» E nne rumpìu lu tiestu an capu. La vagnone mo’ zziccàu cchiangire. E acìa: «Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava sìrama te notte. Povera mmie! povera mmie! Ca m’hai ruttu lu tiestu a ddhu cacava c acava sìrama te notte.» Sentendu te cusine, a llu rate addhu nu’ nne restàu ca cu zzacca ddha vagnone e ccu tte la binchia bona bona te mazzate.
C’era una volta un rate che girava per la questua e andò a bussare alla porta di una casa dove gli aprì una bambina che non ci stava molto con la testa. Che disse al rate: «Aspetta, che vado a prenderti una cosa.» E tornò con un tegame di coccio con dentro un po’ di maccheroni avanzati della sera prima. Il rate, che era aamato, agguantò cucchiaio e tegame e si buttò a mangiare i maccheroni. Ma, dopo il primo boccone, dovette lasciar perdere per via che erano tutti inaciditi. Qui che la bambina disse al rate: «Guarda che te li puoi mangiare i maccheroni, tanto noi li buttiamo perché i sorci ci hanno pisciato sopra.» «Ah, è così?» esclamò il rate «E ttié!» E le ruppe il tegame di coccio in testa. La bambina mo’ si mise a piangere. E aceva: «Povera me! povera me! Che m’hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte. Povera me! povera me! Che mi hai rotto il tegame dove mio padre cacava di notte.» Ascoltando la tal cosa, al rate non restò che aerrare la bambina e riempirla buona buona di mazzate.
u fiju fiju ca ca vuLìa vuLìa mmeNa mmeNa sìrasa iNtru iNtru mmare mmare Lu
Il figlio che voleva buttare il padre nel mare
A nnu cristianu vecchiu n’ia morta la mujère, e ccusì era sciutu cu stae a ccasa te lu fju spusatu. Vecchiu comu era ormai nu’ era bonu azza gnenzi cchiùi. Tandu la ame era tanta mo’ e nna ucca te cchiùi ticìa mutu, ca nu’ era comu moi, fju miu, ca addhunca màngianu qua ru ru màngianu cinque. La nora mo’ mo’ ticìa sempre ca nu’ sse putía scire innanzi cu ddha situazione, ca lu pane ca se mangiava lu vecchiu tuccàa sse caccia te ucca a lli fji. Cusì, tinne osci e dinne crai, a lla fne cunvinse lu maritu cu bàscia mmena sìrasa a mmare. Lu maritu, allora, se caricàu sìrasa an coddhu e sse mise ccaminare a ttirezione te lu mare. Camina e ccamina, camina e ccamina, prima cu rria a lla r ipa te lu mare, se ermàu sotta a nn alberu bellu runź utu utu cu tanta beddha umbra. Era mutu s raccu raccu e ccusì pensau bonu cu lassa sìrasa ‘n terra cu sse riposa nu pocu. «M’àggiu s raccatu, raccatu, sire miu, ripusàmune nu pocu» tisse. «Eh! fju miu, puru iu cquai lassài lu sire miu!» fce lu sire oramai rassegnatu. A ‘ste parole lu fju nu’ lla pensàu do’ fate, te pressa se mise ntorna sìrasa ‘n coddhu e ppijàu la s rata r ata te casa. «Ca ci nu’ ssi’ bonu aci gnenzi,» tisse «si’ bonu armenu pe’ ccunsìji!»
A un vecchio cristiano era morta la moglie, e così era andato a vivere in casa del glio sposato. Vecchio com’era, non era più in grado di are niente di buono. A quei tempi la ame era tanta mo’ e una bocca in più da samare non era cosa da poco; non era come adesso, glio mio, che dove mangiano quattro mangiano cinque. La nuora mo’ diceva sempre che la situazione era insopportabile, perché il pane che si mangiava il vecchio toccava levarlo di bocca ai gli. Così, dici oggi e dici domani, alla ne convinse il marito a buttare il padre nel mare. Il marito, allora, si caricò il padre sulle spalle e si avviò in direzione del mare. Cammina e cammina, cammina e cammina, prima di arrivare alla riva del mare, si ermò sotto un albero bello rondoso che aceva tanta ombra. Era proprio stracco e così decise di posare a terra suo padre per una breve sosta. «Mi sono stancato, padre mio, riposiamoci un po’» disse. «Eh! glio mio, pure io qui posai il padre mio!» ece il padre ormai rassegnato. A queste parole il glio non ci pensò due volte: sollevò il padre in tutta retta, lo rimise sulle spalle e ripigliò la strada di casa. «Che, se non sei buono a nulla,» gli disse «sarai buono almeno per consigli!»
u fiju fiju ca ca vuLìa vuLìa mmeNa mmeNa sìrasa iNtru iNtru mmare mmare Lu
Il figlio che voleva buttare il padre nel mare
A nnu cristianu vecchiu n’ia morta la mujère, e ccusì era sciutu cu stae a ccasa te lu fju spusatu. Vecchiu comu era ormai nu’ era bonu azza gnenzi cchiùi. Tandu la ame era tanta mo’ e nna ucca te cchiùi ticìa mutu, ca nu’ era comu moi, fju miu, ca addhunca màngianu qua ru ru màngianu cinque. La nora mo’ mo’ ticìa sempre ca nu’ sse putía scire innanzi cu ddha situazione, ca lu pane ca se mangiava lu vecchiu tuccàa sse caccia te ucca a lli fji. Cusì, tinne osci e dinne crai, a lla fne cunvinse lu maritu cu bàscia mmena sìrasa a mmare. Lu maritu, allora, se caricàu sìrasa an coddhu e sse mise ccaminare a ttirezione te lu mare. Camina e ccamina, camina e ccamina, prima cu rria a lla r ipa te lu mare, se ermàu sotta a nn alberu bellu runź utu utu cu tanta beddha umbra. Era mutu s raccu raccu e ccusì pensau bonu cu lassa sìrasa ‘n terra cu sse riposa nu pocu. «M’àggiu s raccatu, raccatu, sire miu, ripusàmune nu pocu» tisse. «Eh! fju miu, puru iu cquai lassài lu sire miu!» fce lu sire oramai rassegnatu. A ‘ste parole lu fju nu’ lla pensàu do’ fate, te pressa se mise ntorna sìrasa ‘n coddhu e ppijàu la s rata r ata te casa. «Ca ci nu’ ssi’ bonu aci gnenzi,» tisse «si’ bonu armenu pe’ ccunsìji!»
A un vecchio cristiano era morta la moglie, e così era andato a vivere in casa del glio sposato. Vecchio com’era, non era più in grado di are niente di buono. A quei tempi la ame era tanta mo’ e una bocca in più da samare non era cosa da poco; non era come adesso, glio mio, che dove mangiano quattro mangiano cinque. La nuora mo’ diceva sempre che la situazione era insopportabile, perché il pane che si mangiava il vecchio toccava levarlo di bocca ai gli. Così, dici oggi e dici domani, alla ne convinse il marito a buttare il padre nel mare. Il marito, allora, si caricò il padre sulle spalle e si avviò in direzione del mare. Cammina e cammina, cammina e cammina, prima di arrivare alla riva del mare, si ermò sotto un albero bello rondoso che aceva tanta ombra. Era proprio stracco e così decise di posare a terra suo padre per una breve sosta. «Mi sono stancato, padre mio, riposiamoci un po’» disse. «Eh! glio mio, pure io qui posai il padre mio!» ece il padre ormai rassegnato. A queste parole il glio non ci pensò due volte: sollevò il padre in tutta retta, lo rimise sulle spalle e ripigliò la strada di casa. «Che, se non sei buono a nulla,» gli disse «sarai buono almeno per consigli!»
cappa maGNa maGNa L a puddhàšcia sOtta La cappa
A nnu paese, na fata, nc’era la prucissione. A llu cchiù bellu, raversava na puddhašcia ca ‘ raversava la s rata r ata sciu sse nfla propriu sotta la cappa magna te lu prete. Cce tte fce lu prete? Na! se la s rinse r inse prima ra ra lli pieti, poi se ngucciàu, la zziccàu, ne torse lu coddhu e se la nflàu sotta lu razzu. E šcìa cantandu: «Sotta la cappa magna, Sdòmine, portu na pinna gènova.15» Lu sacristanu, ca li stía te coste e ss’ia ccortu te la puddhašcia, ne rispuse a llu stessu tonu: «Sciamu in ru ru la sacristia, Sdòmine, e acimu tivisione.» E tutti l’addhi ‘n coru: «Amen!»
La pollastra sotto la cappa magna
In un paese, una volta, c’era la processione. Sul più bello, una pollastrella che traversava la strada andò a inlarsi proprio sotto la cappa magna del prete. Che ti ece il prete? To’! se la strinse prima tra i piedi, poi si abbassò, l’agguantò, le torse il collo e se la nascose sotto il braccio. E andava salmodiando: «Sotto la cappa magna, Domine, porto una penna giovine.» Il sacrestano, che gli stava a anco e s’era accorto della pollastrella, gli rispose nello stesso tono: «Andiamo nella sacrestia, Domine, e acciamo divisione.» E tutti gli altri in coro: «Amen!»
cappa maGNa maGNa L a puddhàšcia sOtta La cappa
A nnu paese, na fata, nc’era la prucissione. A llu cchiù bellu, raversava na puddhašcia ca ‘ raversava la s rata r ata sciu sse nfla propriu sotta la cappa magna te lu prete. Cce tte fce lu prete? Na! se la s rinse r inse prima ra ra lli pieti, poi se ngucciàu, la zziccàu, ne torse lu coddhu e se la nflàu sotta lu razzu. E šcìa cantandu: «Sotta la cappa magna, Sdòmine, portu na pinna gènova.15» Lu sacristanu, ca li stía te coste e ss’ia ccortu te la puddhašcia, ne rispuse a llu stessu tonu: «Sciamu in ru ru la sacristia, Sdòmine, e acimu tivisione.» E tutti l’addhi ‘n coru: «Amen!»
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La pollastra sotto la cappa magna
In un paese, una volta, c’era la processione. Sul più bello, una pollastrella che traversava la strada andò a inlarsi proprio sotto la cappa magna del prete. Che ti ece il prete? To’! se la strinse prima tra i piedi, poi si abbassò, l’agguantò, le torse il collo e se la nascose sotto il braccio. E andava salmodiando: «Sotto la cappa magna, Domine, porto una penna giovine.» Il sacrestano, che gli stava a anco e s’era accorto della pollastrella, gli rispose nello stesso tono: «Andiamo nella sacrestia, Domine, e acciamo divisione.» E tutti gli altri in coro: «Amen!»
A mo’ di salmo.
u pešce pešce s s ṭ r Lu ṭrasciNatu asciNatu
Il pesce strascinato
Na fata, na mujère ddumandàu a llu maritu: «Lu pešce voi tte lu mangi?» «Sine,» tisse lu maritu. «E ccomu te l’àggiu are?» «Ma’, ammélu s rascinatu.» r ascinatu.» Addhai ca la mujère pijàu lu pešce, lu ttaccàu a nnu flu te spacu e llu s rascinàu r ascinàu pe’ ttutta la s rata. r ata. Quandu s rascina r ascina s rascina r ascina lu pešce s’era s’era ormai ritottu a nna spina, tisse: «Ma’, pensu ca moi s’hae cottu.»
Una volta, una moglie chiese al marito: «Il pesce te lo vuoi mangiare?» «Sì,» disse il marito. «E come te lo devo cucinare?» «Ma’,’, ammelo strascinatu.17» «Ma Lì che la moglie prese il pesce, lo legò a un lo di spago e lo strascinò per tutta la strada. Quando strascina strascina il pesce s’era ormai ridotto a una lisca, disse: «Ma’,’, penso che «Ma c he mo’ s’è cotto.»
u pešce pešce s s ṭ r Lu ṭrasciNatu asciNatu
Il pesce strascinato
Na fata, na mujère ddumandàu a llu maritu: «Lu pešce voi tte lu mangi?» «Sine,» tisse lu maritu. «E ccomu te l’àggiu are?» «Ma’, ammélu s rascinatu.» r ascinatu.» Addhai ca la mujère pijàu lu pešce, lu ttaccàu a nnu flu te spacu e llu s rascinàu r ascinàu pe’ ttutta la s rata. r ata. Quandu s rascina r ascina s rascina r ascina lu pešce s’era s’era ormai ritottu a nna spina, tisse: «Ma’, pensu ca moi s’hae cottu.»
Una volta, una moglie chiese al marito: «Il pesce te lo vuoi mangiare?» «Sì,» disse il marito. «E come te lo devo cucinare?» «Ma’,’, ammelo strascinatu.17» «Ma Lì che la moglie prese il pesce, lo legò a un lo di spago e lo strascinò per tutta la strada. Quando strascina strascina il pesce s’era ormai ridotto a una lisca, disse: «Ma’,’, penso che «Ma c he mo’ s’è cotto.»
Strascinati,i, specie di maccheroni atti in casa simili a degli gnocchetti schiacciaStrascinat ti con la punta del coltello. Dopo lessati si condiscono con un soritto di pancetta e con pecorino. In questo caso naturalmente col pesce non c’entrano niente: il termine strascinatu qui viene preso in prestito per un eetto comico. 17
LiberaNusdòmiNe
Libera nos domine
Alla mmasserìa te San Giuvanni, na fata, se ruàu ruàu mmurire lu mmassaru. Addhai ca la mmassara voź e azza li unerali a ppompa magna e cchiamàu li mònici te lu cumentu te la Matonna te le Grazie te Calàtune. Rriàra li mònici e sse mìsera tornu tornu a llu catàaru. Acquai ca zzaccàra ddìcianu prechiere pe’ llu mortu, orazioni e ccanti. La mujère mo’, mo’, ssettata te coste ‘llu mortu, ddha cristiana se lu chiangìa beddhu beddhu lu maritu sou. E nne acìa a mmo’ te lamentazione: «Maritu miu, e mmo’ tuttu lu cranu ci se lu mangia?» «Ne lu mangiamu nui» rispundìanu li mònici, comu sia c a sta ddicìanu sarmi. «Maritu miu, e ttuttu l’òju ci lu cunsuma?» «Lu cunsumamu nui.» «E ttuttu lu vinu ci se lu bie?» «Ne lu bivimu nui.» E ccritandu ‘ncora cchiù orte ‘sta fata: «Maritu miu, e ttuttu lu tèbitu ci lu paca?» «Liberanusdòmine!» cantàra te pressa li mònici.
Alla masseria di San Giovanni, una volta, si trovò a morire il massaio. Lì che la massaia volle are i unerali in pompa magna e chiamò i monaci del convento della Madonna delle Grazie di Galàtone. Arrivarono i monaci e si misero torno torno alla salma. Qui che cominciarono a dire preghiere per il morto, orazioni e cantare i salmi di circostanza. La moglie mo’, seduta di anco al morto, quella povera donna se lo piangeva bello bello il marito suo. E aceva a mo’ di lamentazione: «Marito mio, e mo’ tutto il grano chi se lo mangia?» «Ce lo mangiamo noi» salmodiavano i monaci. «Marito mio, e tutto l’olio chi lo consuma?» «Lo consumiamo noi.» «E tutto il vino chi se lo beve?» «Ce lo beviamo noi.» E alzando il tono stavolta: «Marito mio, e tutto il debito chi lo paga?» «Libera nos, domine!» si sbrigarono a cantare c antare i monaci.
LiberaNusdòmiNe
Libera nos domine
Alla mmasserìa te San Giuvanni, na fata, se ruàu ruàu mmurire lu mmassaru. Addhai ca la mmassara voź e azza li unerali a ppompa magna e cchiamàu li mònici te lu cumentu te la Matonna te le Grazie te Calàtune. Rriàra li mònici e sse mìsera tornu tornu a llu catàaru. Acquai ca zzaccàra ddìcianu prechiere pe’ llu mortu, orazioni e ccanti. La mujère mo’, mo’, ssettata te coste ‘llu mortu, ddha cristiana se lu chiangìa beddhu beddhu lu maritu sou. E nne acìa a mmo’ te lamentazione: «Maritu miu, e mmo’ tuttu lu cranu ci se lu mangia?» «Ne lu mangiamu nui» rispundìanu li mònici, comu sia c a sta ddicìanu sarmi. «Maritu miu, e ttuttu l’òju ci lu cunsuma?» «Lu cunsumamu nui.» «E ttuttu lu vinu ci se lu bie?» «Ne lu bivimu nui.» E ccritandu ‘ncora cchiù orte ‘sta fata: «Maritu miu, e ttuttu lu tèbitu ci lu paca?» «Liberanusdòmine!» cantàra te pressa li mònici.
Alla masseria di San Giovanni, una volta, si trovò a morire il massaio. Lì che la massaia volle are i unerali in pompa magna e chiamò i monaci del convento della Madonna delle Grazie di Galàtone. Arrivarono i monaci e si misero torno torno alla salma. Qui che cominciarono a dire preghiere per il morto, orazioni e cantare i salmi di circostanza. La moglie mo’, seduta di anco al morto, quella povera donna se lo piangeva bello bello il marito suo. E aceva a mo’ di lamentazione: «Marito mio, e mo’ tutto il grano chi se lo mangia?» «Ce lo mangiamo noi» salmodiavano i monaci. «Marito mio, e tutto l’olio chi lo consuma?» «Lo consumiamo noi.» «E tutto il vino chi se lo beve?» «Ce lo beviamo noi.» E alzando il tono stavolta: «Marito mio, e tutto il debito chi lo paga?» «Libera nos, domine!» si sbrigarono a cantare c antare i monaci.
uLàu Lu c uLàu
Nc’era nu sire vecchiu ca stia faccu. Tenìa tanti fji: unu se chiamava Culàu. ’Stu Culàu mo’, cu llu attu ca lu sire stia faccu, lu pensieru ne scìa a lla rroba: ca nu’ mbulìa cu lla sparta cu ll’addhi rati soi. E cce tte combinava? Nu’ ssulamente pijava lu sire sempre pe’ pe’ šcemu ma, quandu stia sulu cu cu iddhu ca nu’ llu vitìa nišciunu, lu dderiscava bonu bonu te mazzate. Lu sire mo’, cu tutte ‘ste mazzate, rriau cu stèscia propriu a ppuntu te morte, tantu ca li fji chiamàra lu nutaru pe’ llu testamentu. Lu nutaru mo’ ne acìa domande te ogne manera a llu sire cu pozza scrivìre le vuluntà soe, ma dhu pòveru cristianu, struncunisciatu comu era, nu’ sse ftava mancu ccunta cchiùi. E rispundìa sulamente: «Lu Culàu… lu Culàu…» quasi vulìa ddica: lu Culàu è statu, iddhu m’hae rritottu te ‘sta manera, pe’ iddhu sta mmoru. E llu nutaru, sentendo tire Culàu, scrivìa Culàu. Ne ddumandava: «E lla mmasserìa a cci vo’ vo’ lla lassi?» Ma quiddhu dicìa sempre: «Lu Culàu… lu Culàu…» pe’ ddire mo’ mo’ ca le curpa lu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu. Ntorna: «E lla tale cosa a cci la lassi? e quiddha? e quiddh’addhna?» Ma ddhu cristianu ticìa sulamente lu Culàu e llu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu e Culàu. E oe cusì ca lu Culàu se fce patrunu te tutta la rroba e ll’addhi rati nu’ ìppera nu cazzu te nienti. E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.
Culàu
C’era un padre vecchio che stava molto male. Teneva tanti gli: uno si chiamava Culàu. Questo Culàu mo’, col atto che il padre stava male, pensava soprattutto all’eredità, che la voleva tutta per sé e non dividerla coi ratelli. E che ti combinava? Non solo se ne stava sempre accanto al letto del padre per raggirarlo, ma, quando non visto, gli dava pure un sacco di mazzate. Il padre mo’, con tutte queste mazzate, arrivò proprio in punto di morte, tanto che i gli chiamarono un notaio per il testamento. Il notaio aceva domande di ogni maniera al genitore per poter stendere stendere le sue volontà, ma quel cristiano, vessato come era, che aticava pure a parlare, diceva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire: Culàu è stato, è per lui che sono ridotto così, è per causa sua che sto morendo. E il notaio registrava Culàu. E gli domandava: «Ma la masseria a chi la lasci?» E quello rispondeva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire che era lui il colpevole. E il notaio scriveva Culàu. Di nuovo: «E la tal cosa a chi la lasci? e quella? e quell’altra?» Ma quel cristiano diceva solamente Culàu e Culàu e il notaio scriveva sempre Culàu e Culàu. Fu così che Culàu s’impadronì di tutta la roba e gli altri ratelli ebbero un cavolo di niente. E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
uLàu Lu c uLàu
Culàu
Nc’era nu sire vecchiu ca stia faccu. Tenìa tanti fji: unu se chiamava Culàu. ’Stu Culàu mo’, cu llu attu ca lu sire stia faccu, lu pensieru ne scìa a lla rroba: ca nu’ mbulìa cu lla sparta cu ll’addhi rati soi. E cce tte combinava? Nu’ ssulamente pijava lu sire sempre pe’ pe’ šcemu ma, quandu stia sulu cu cu iddhu ca nu’ llu vitìa nišciunu, lu dderiscava bonu bonu te mazzate. Lu sire mo’, cu tutte ‘ste mazzate, rriau cu stèscia propriu a ppuntu te morte, tantu ca li fji chiamàra lu nutaru pe’ llu testamentu. Lu nutaru mo’ ne acìa domande te ogne manera a llu sire cu pozza scrivìre le vuluntà soe, ma dhu pòveru cristianu, struncunisciatu comu era, nu’ sse ftava mancu ccunta cchiùi. E rispundìa sulamente: «Lu Culàu… lu Culàu…» quasi vulìa ddica: lu Culàu è statu, iddhu m’hae rritottu te ‘sta manera, pe’ iddhu sta mmoru. E llu nutaru, sentendo tire Culàu, scrivìa Culàu. Ne ddumandava: «E lla mmasserìa a cci vo’ vo’ lla lassi?» Ma quiddhu dicìa sempre: «Lu Culàu… lu Culàu…» pe’ ddire mo’ mo’ ca le curpa lu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu. Ntorna: «E lla tale cosa a cci la lassi? e quiddha? e quiddh’addhna?» Ma ddhu cristianu ticìa sulamente lu Culàu e llu Culàu. E llu nutaru scrivìa Culàu e Culàu. E oe cusì ca lu Culàu se fce patrunu te tutta la rroba e ll’addhi rati nu’ ìppera nu cazzu te nienti. E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.
C’era un padre vecchio che stava molto male. Teneva tanti gli: uno si chiamava Culàu. Questo Culàu mo’, col atto che il padre stava male, pensava soprattutto all’eredità, che la voleva tutta per sé e non dividerla coi ratelli. E che ti combinava? Non solo se ne stava sempre accanto al letto del padre per raggirarlo, ma, quando non visto, gli dava pure un sacco di mazzate. Il padre mo’, con tutte queste mazzate, arrivò proprio in punto di morte, tanto che i gli chiamarono un notaio per il testamento. Il notaio aceva domande di ogni maniera al genitore per poter stendere stendere le sue volontà, ma quel cristiano, vessato come era, che aticava pure a parlare, diceva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire: Culàu è stato, è per lui che sono ridotto così, è per causa sua che sto morendo. E il notaio registrava Culàu. E gli domandava: «Ma la masseria a chi la lasci?» E quello rispondeva sempre: «Culàu… Culàu…» quasi a dire che era lui il colpevole. E il notaio scriveva Culàu. Di nuovo: «E la tal cosa a chi la lasci? e quella? e quell’altra?» Ma quel cristiano diceva solamente Culàu e Culàu e il notaio scriveva sempre Culàu e Culàu. Fu così che Culàu s’impadronì di tutta la roba e gli altri ratelli ebbero un cavolo di niente. E loro vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
rretu La La piLa a rretu
Dietro il lavatoio
Na fata, la Nzina, na beddha vagnone te Nardò, tardava cu sse raccòje ‘ccasa e la mamma stia cu llu pensieri. Quandu fnalmente turnàu ngraziateddiu, la mamma ne tisse nu pocu stizzata: « Ma addhu ete ca si’ stata, fgghia mia? Me aci cu stau sempre cu llu pensieri.» «Na! mamma, a rretu lla pila su’ stata!» rispuse la Nzina. «A rretu la pila! E cce gg’ete ca acìi rretu la pila, fgghia mia? «Na! mamma, sta šciucava cu Ccricòriu mia!» «Ah sì, fgghia mia? E a cce sta šciucàvi cu Ccricòriu tua?» «Na! mamma, cu nna cosa rossa e pponta sta šciucava!» «Figghia mia, statte ttenta, sai? ca cu queddha te vene lu uèmmicu!»16
Una volta, l’Enzina, una bella ragazza di Nardò, tardava a rincasare e la mamma si prendeva pensiero. Quando nalmente rincasò ingraziadidio, la mamma le disse un po’ stizzita: «Ma dove sei stata mia, glia mia? Mi ai stare sempre in pensiero.» «To’! mamma, sono stata dietro il lavatoio!» rispose l’Enzina. «Dietro il lavatoio! E che cosa ci acevi dietro il lavatoio, glia mia?» «To’! «T o’! mamma, giocavo con Gregorio mio!» «Ah sì, glia mia? E a che giocavi con Gregorio tuo?» «To’! «T o’! mamma, giocavo con una cosa rossa a punta!» «Figlia mia, statti attenta, sai? che con quella ti viene il vomito!»
Questa storiella papà ce la raccontava imitando il dialetto di Nardò. Per noi ragazzi l’eetto comico era l’imitazione che gli cambiava la orma acciale con l’uso di suoni ed espressioni per noi inusuali. Ma per questa storia, come per le tante altre in questo libro, solo da grandi avremmo capito che alludevano a situazioni in cui c’entrava il sesso. Gli adulti si divertivano quasi a raccontarle proprio in 16
rretu La La piLa a rretu
Dietro il lavatoio
Na fata, la Nzina, na beddha vagnone te Nardò, tardava cu sse raccòje ‘ccasa e la mamma stia cu llu pensieri. Quandu fnalmente turnàu ngraziateddiu, la mamma ne tisse nu pocu stizzata: « Ma addhu ete ca si’ stata, fgghia mia? Me aci cu stau sempre cu llu pensieri.» «Na! mamma, a rretu lla pila su’ stata!» rispuse la Nzina. «A rretu la pila! E cce gg’ete ca acìi rretu la pila, fgghia mia? «Na! mamma, sta šciucava cu Ccricòriu mia!» «Ah sì, fgghia mia? E a cce sta šciucàvi cu Ccricòriu tua?» «Na! mamma, cu nna cosa rossa e pponta sta šciucava!» «Figghia mia, statte ttenta, sai? ca cu queddha te vene lu uèmmicu!»16
Una volta, l’Enzina, una bella ragazza di Nardò, tardava a rincasare e la mamma si prendeva pensiero. Quando nalmente rincasò ingraziadidio, la mamma le disse un po’ stizzita: «Ma dove sei stata mia, glia mia? Mi ai stare sempre in pensiero.» «To’! mamma, sono stata dietro il lavatoio!» rispose l’Enzina. «Dietro il lavatoio! E che cosa ci acevi dietro il lavatoio, glia mia?» «To’! «T o’! mamma, giocavo con Gregorio mio!» «Ah sì, glia mia? E a che giocavi con Gregorio tuo?» «To’! «T o’! mamma, giocavo con una cosa rossa a punta!» «Figlia mia, statti attenta, sai? che con quella ti viene il vomito!»
Questa storiella papà ce la raccontava imitando il dialetto di Nardò. Per noi ragazzi l’eetto comico era l’imitazione che gli cambiava la orma acciale con l’uso di suoni ed espressioni per noi inusuali. Ma per questa storia, come per le tante altre in questo libro, solo da grandi avremmo capito che alludevano a situazioni in cui c’entrava il sesso. Gli adulti si divertivano quasi a raccontarle proprio in virtù del nostro candore di bambini. In eetti eravamo presi più dai modi e dai toni del raccontare, dalla gestualità, piuttosto che dal signicato delle parole. A proposito del nome Gregorio, a Nardò era il nome più diuso per via del Santo Patrono. 16
uru e tturài tturài t uru e
Duro e durai
Nc’èranu re re sureddhe ca nu’ ruàvanu ruàvanu cu sse nzùranu. Una ticìa sempre: «Turu, «T uru, turu, lu maritu e iu puru.» Ntorna: «Turu, «T uru, turu, lu maritu e iu puru.» Alla fne tisse: «Turu «T uru e tturài e llu maritu mari tu nu’ llu pruài!»
C’erano tre sorelle che non trovavano a maritarsi. Una diceva sempre: «Duro, duro, il marito e io puro.» Di nuovo: «Duro, duro, il marito e io puro.» Alla ne disse: «Duro e durai e il marito non lo l o provai!»
uru e tturài tturài t uru e
Duro e durai
Nc’èranu re re sureddhe ca nu’ ruàvanu ruàvanu cu sse nzùranu. Una ticìa sempre: «Turu, «T uru, turu, lu maritu e iu puru.» Ntorna: «Turu, «T uru, turu, lu maritu e iu puru.» Alla fne tisse: «Turu «T uru e tturài e llu maritu mari tu nu’ llu pruài!»
C’erano tre sorelle che non trovavano a maritarsi. Una diceva sempre: «Duro, duro, il marito e io puro.» Di nuovo: «Duro, duro, il marito e io puro.» Alla ne disse: «Duro e durai e il marito non lo l o provai!»
u caNe caNe te Lecce ecce e e LLu LLu caNe caNe te b ari Lu
Il cane di Lecce e il cane di Bari
Na fata, nu cane te Lecce se runtàu cu nnu cane te Bari. Quistu stringìa n’ossu am bucca. Lu cane te Lecce ‘llora tisse a quiddhu te Bari: «Si’ bonu cu ddici Bari?» «Baaàri,» e a llu cane te Bari ne catìu l’ossu te ucca. Te pressa quiddhu te Lecce se lu nerràu. Mo’, lu cane te Bari, se sentìu pijàre pe’ essa. «Mo’ azzu cu ddica Lecce,» pensàu ra ra de iddhu «e ccusì l’ossu me lu nerru ntorna iu.» «E ttie si’ bonu cu ddici Lecce?» «Leeécce!» ma l’ossu allu cane te Lecce ne rrimase s rittu rittu s rittu r ittu in ru ru lli tienti e quiddhu te Bari rimase cu nnu parmu te nasu.
Una volta, un cane di Lecce si incontrò con un cane d i Bari. Questo stringeva un osso in bocca. Il cane di Lecce allora disse a quello di Bari: «Sei buono a dire Bari?» «Baaàri,»18 e al cane di Bari cadde l’osso dalla bocca. Pronto quello di Lecce l’agguantò. Mo’, il cane di Bari si sentì ottere. «Ora gli accio dire Lecce,» pensò tra sé «così mi riprendo l’osso.» «E tu sei buono a dire Lecce?» «Leeécce!» Ma l’osso, al cane di Lecce, rimase stretto stretto tra i denti e quello di Bari rimase con un palmo di naso. 19
Un barese in verità avrebbe detto Beeèri, ma da ragazzi, raccontandoci la storiella, pronunciavamo Baaàri, anche perché nessuno di noi aveva ancora sentito 18
u caNe caNe te Lecce ecce e e LLu LLu caNe caNe te b ari Lu
Il cane di Lecce e il cane di Bari
Na fata, nu cane te Lecce se runtàu cu nnu cane te Bari. Quistu stringìa n’ossu am bucca. Lu cane te Lecce ‘llora tisse a quiddhu te Bari: «Si’ bonu cu ddici Bari?» «Baaàri,» e a llu cane te Bari ne catìu l’ossu te ucca. Te pressa quiddhu te Lecce se lu nerràu. Mo’, lu cane te Bari, se sentìu pijàre pe’ essa. «Mo’ azzu cu ddica Lecce,» pensàu ra ra de iddhu «e ccusì l’ossu me lu nerru ntorna iu.» «E ttie si’ bonu cu ddici Lecce?» «Leeécce!» ma l’ossu allu cane te Lecce ne rrimase s rittu rittu s rittu r ittu in ru ru lli tienti e quiddhu te Bari rimase cu nnu parmu te nasu.
Una volta, un cane di Lecce si incontrò con un cane d i Bari. Questo stringeva un osso in bocca. Il cane di Lecce allora disse a quello di Bari: «Sei buono a dire Bari?» «Baaàri,»18 e al cane di Bari cadde l’osso dalla bocca. Pronto quello di Lecce l’agguantò. Mo’, il cane di Bari si sentì ottere. «Ora gli accio dire Lecce,» pensò tra sé «così mi riprendo l’osso.» «E tu sei buono a dire Lecce?» «Leeécce!» Ma l’osso, al cane di Lecce, rimase stretto stretto tra i denti e quello di Bari rimase con un palmo di naso. 19
Un barese in verità avrebbe detto Beeèri, ma da ragazzi, raccontandoci la storiella, pronunciavamo Baaàri, anche perché nessuno di noi aveva ancora sentito parlare un barese. 19 È un classico del campanilismo tra Lecce e Bari. Qui entra in gioco un atto linguistico e si prende in giro il parlare dei baresi a bocca aperta, al contrario dei Leccesi che parlano a denti stretti. 18
jàGGiu te NOzze NOzze Lu jàGGiu te
Na fata, doi se spusàra e šcira an viàggiu te nozze cu llu renu. renu. La mujère mo’ mo’ nu’ ssapìa ccunta lu talianu. Lu maritu, prima cu ppàrtanu, addhu nu’ ss’ia ’ia raccumandatu cu nnu’ ccunta flu in ra ra llu renu, renu, cu nnu’ àzzanu brutte fcure. Addhai ca in ra ra llu scumpartimentu nc’era addha ggente paru cu iddhi; acia mutu caddu e llu fnes rinu r inu era puru chiusu. Sicché lu maritu se aź àu àu e ddisse: «Sta nne nucàmu cquai! È mmeju cu apru lu fnes rinu.» rinu.» A llu aprire ca fce, rasìu rasìu nu jentu beddhu riscu, e a lla mu jère ne scappàu cu ddica: «Oh che bel ventotto!» E llu maritu prontamente: «Vintinove e renta renta àź ate ate e tturnamu a ccasa!»
Il viaggio di nozze
Una volta, due si sposarono e partirono col treno in viaggio di nozze. La moglie mo’ non sapeva parlare in italiano. Il marito, prima di partire, altro non s’era raccomandato che non acesse parola in treno, a scanso di brutte gure. Nello scompartimento c’era gente oltre a loro; aceva un gran caldo e i nestrini erano pure chiusi. «Si sooca qua dentro!» disse il marito «Conviene che apro il nestrino.» All’aprire che ece, spirò nello scompartimento un bel vento resco, tanto che la moglie le scappò di dire: «Oh che bel ventotto!» E il marito prontamente: «Ventinove «V entinove e trenta alzati e torniamo a casa!»
jàGGiu te NOzze NOzze Lu jàGGiu te
Il viaggio di nozze
Na fata, doi se spusàra e šcira an viàggiu te nozze cu llu renu. renu. La mujère mo’ mo’ nu’ ssapìa ccunta lu talianu. Lu maritu, prima cu ppàrtanu, addhu nu’ ss’ia ’ia raccumandatu cu nnu’ ccunta flu in ra ra llu renu, renu, cu nnu’ àzzanu brutte fcure. Addhai ca in ra ra llu scumpartimentu nc’era addha ggente paru cu iddhi; acia mutu caddu e llu fnes rinu r inu era puru chiusu. Sicché lu maritu se aź àu àu e ddisse: «Sta nne nucàmu cquai! È mmeju cu apru lu fnes rinu.» rinu.» A llu aprire ca fce, rasìu rasìu nu jentu beddhu riscu, e a lla mu jère ne scappàu cu ddica: «Oh che bel ventotto!» E llu maritu prontamente: «Vintinove e renta renta àź ate ate e tturnamu a ccasa!»
Una volta, due si sposarono e partirono col treno in viaggio di nozze. La moglie mo’ non sapeva parlare in italiano. Il marito, prima di partire, altro non s’era raccomandato che non acesse parola in treno, a scanso di brutte gure. Nello scompartimento c’era gente oltre a loro; aceva un gran caldo e i nestrini erano pure chiusi. «Si sooca qua dentro!» disse il marito «Conviene che apro il nestrino.» All’aprire che ece, spirò nello scompartimento un bel vento resco, tanto che la moglie le scappò di dire: «Oh che bel ventotto!» E il marito prontamente: «Ventinove «V entinove e trenta alzati e torniamo a casa!»
u caNe caNe caGNisciùsu Lu
Na fata, nu pa runu runu tenìa nu’ cane ca nu nu’’ mmangiava gnenzi. Non c’era versu: tuttu quiddhu ca ne tia se lu cagnisciava. Ia ttenire quarche mmalatìa, pensava iddhu mo’, e nnu’ ssapìa mo’ comu ia are cu azza nne passa. Capitàu nu giurnu, men re re ca passeggiava cu llu cane in ru ru lli puteri soi, ca ncun ràu ràu nu culonu e nne cuntàu te ‘stu cane ca nu’ ttenìa piacere cu mmangia. «Lassamélu cquai,» tisse lu culonu «puru iu tenìa nu cane te cusìne, ma an capu a nna semana fci mpara cu mmangia tuttu.» «Uh! lu Signore cu ddici lu giustu! ca nu’ ssacciu cchiùi cce nn’àggiu nn ’àggiu ddare, culonu miu. mi u. Te Te lu lassu e ttornu mme lu piju ra ra na settimana: ca ci ete te rrecalu puru.» «Vane ngrazieteddiu, pa runu runu miu. Quandu torni, statte ranquillu ranquillu ca ‘sta mmalatìa lu cane tou nu’ lla tene cchiùi.» E llu pa runu runu lassàu lu cane a llu culonu, e sse nde sciu. Ma lu culonu, ‘ppena se vitte sulu cu llu cane, lu zziccàu e llu ttaccàu a nnu palu. E cquai lu lassàu senza cu mmangia. Ddhu sangu te cane, dopu qualche giurnu mo’, lu uttìa la ame, ma lu culonu nu’ sse nde curava. Giustu quandu vitte pro priu ca se tisperava, zziccàu na cipuddha e nne la menàu. A ddhai ìi bitire lu cane, fju miu, comu se nerràu ddha cipuddha e sse la mangiàu cu ttuttu lu core! A llu scatire te la semana, lu culonu lu restaccàu lu cane, ca mo’ nu’ era cosa bona lu pa runu runu cu llu vìscia ttaccatu. E ‘n capu a nna semana lu pa runu runu vinne sse pìja lu cane. «Beh, comu vae lu cane miu?» tisse a llu culonu. «Ah, vae propriu bonu!» ne rispuse ri spuse lu culonu «Mo «Mo’’ s’hae mparatu cu mmangia puru le cipuddhe.» Se mbicinara tutti ddoi a llu cane e llu culonu ne lanciàu
Il cane schifilt schifiltoso oso
Una volta, un padrone di terre teneva un cane che non mangiava niente. Non c’era verso: tutto quello che gli dava, il cane se lo schiava. Doveva essere una malattia, pensava lui mo’, e non sapeva come argliela passare. Accadde che un giorno, passeggiando col cane nei suoi poderi, incontrò un colono e gli parlò di questo cane che non aveva piacere a mangiare. «Lasciamelo qui,» disse il colono «anch’io avevo un cane simile, ma in capo a una settimana imparò a mangiare tutto.» «Oh, che tu dica il giusto come è vero il Signore! perché non so più cosa dargli, colono mio. Te lo lascio e torno a riprendermelo tra una settimana: che, se sarà come dici, ti darò una ricompensa.» «Vai ingraziadiddio, padrone mio, al tuo ritorno stai pur tranquillo che il cane sarà guarito.» E il padrone lasciò il cane al colono e se ne partì. Ma il colono, appena si vide solo col cane, l’acchiappò e lo legò al palo. E qui lo lasciò senza mangiare. Quel caspita di cane mo’, dopo qualche giorno lo otteva la ame, ma il colono non se ne curava, giusto quando vide che il cane si disperava, prese una cipolla e gliela buttò. Qui dovevi vedere, glio mio, come il cane s’agguantò la cipolla e se la mangiò con tutto il cuore! Allo scadere della settimana, il colono slegò il cane: beh, non stava bene arlo vedere al padrone p adrone legato al palo. In capo alla settimana il padrone tornò a riprendersi il cane. «Beh, come va il cane mio?» domandò al colono. «Ah, proprio bene!» rispose il colono «Adesso ha imparato a mangiare perno le cipolle.» Si avvicinarono entrambi al cane e il colono gli lanciò una
u caNe caNe caGNisciùsu Lu
Il cane schifilt schifiltoso oso
Na fata, nu pa runu runu tenìa nu’ cane ca nu nu’’ mmangiava gnenzi. Non c’era versu: tuttu quiddhu ca ne tia se lu cagnisciava. Ia ttenire quarche mmalatìa, pensava iddhu mo’, e nnu’ ssapìa mo’ comu ia are cu azza nne passa. Capitàu nu giurnu, men re re ca passeggiava cu llu cane in ru ru lli puteri soi, ca ncun ràu ràu nu culonu e nne cuntàu te ‘stu cane ca nu’ ttenìa piacere cu mmangia. «Lassamélu cquai,» tisse lu culonu «puru iu tenìa nu cane te cusìne, ma an capu a nna semana fci mpara cu mmangia tuttu.» «Uh! lu Signore cu ddici lu giustu! ca nu’ ssacciu cchiùi cce nn’àggiu nn ’àggiu ddare, culonu miu. mi u. Te Te lu lassu e ttornu mme lu piju ra ra na settimana: ca ci ete te rrecalu puru.» «Vane ngrazieteddiu, pa runu runu miu. Quandu torni, statte ranquillu ranquillu ca ‘sta mmalatìa lu cane tou nu’ lla tene cchiùi.» E llu pa runu runu lassàu lu cane a llu culonu, e sse nde sciu. Ma lu culonu, ‘ppena se vitte sulu cu llu cane, lu zziccàu e llu ttaccàu a nnu palu. E cquai lu lassàu senza cu mmangia. Ddhu sangu te cane, dopu qualche giurnu mo’, lu uttìa la ame, ma lu culonu nu’ sse nde curava. Giustu quandu vitte pro priu ca se tisperava, zziccàu na cipuddha e nne la menàu. A ddhai ìi bitire lu cane, fju miu, comu se nerràu ddha cipuddha e sse la mangiàu cu ttuttu lu core! A llu scatire te la semana, lu culonu lu restaccàu lu cane, ca mo’ nu’ era cosa bona lu pa runu runu cu llu vìscia ttaccatu. E ‘n capu a nna semana lu pa runu runu vinne sse pìja lu cane. «Beh, comu vae lu cane miu?» tisse a llu culonu. «Ah, vae propriu bonu!» ne rispuse ri spuse lu culonu «Mo «Mo’’ s’hae mparatu cu mmangia puru le cipuddhe.» Se mbicinara tutti ddoi a llu cane e llu culonu ne lanciàu na cipuddha. Lu cane te pressa se la nerràu e sse la mangiàu a nn’apricchiusa t’occhi.
Una volta, un padrone di terre teneva un cane che non mangiava niente. Non c’era verso: tutto quello che gli dava, il cane se lo schiava. Doveva essere una malattia, pensava lui mo’, e non sapeva come argliela passare. Accadde che un giorno, passeggiando col cane nei suoi poderi, incontrò un colono e gli parlò di questo cane che non aveva piacere a mangiare. «Lasciamelo qui,» disse il colono «anch’io avevo un cane simile, ma in capo a una settimana imparò a mangiare tutto.» «Oh, che tu dica il giusto come è vero il Signore! perché non so più cosa dargli, colono mio. Te lo lascio e torno a riprendermelo tra una settimana: che, se sarà come dici, ti darò una ricompensa.» «Vai ingraziadiddio, padrone mio, al tuo ritorno stai pur tranquillo che il cane sarà guarito.» E il padrone lasciò il cane al colono e se ne partì. Ma il colono, appena si vide solo col cane, l’acchiappò e lo legò al palo. E qui lo lasciò senza mangiare. Quel caspita di cane mo’, dopo qualche giorno lo otteva la ame, ma il colono non se ne curava, giusto quando vide che il cane si disperava, prese una cipolla e gliela buttò. Qui dovevi vedere, glio mio, come il cane s’agguantò la cipolla e se la mangiò con tutto il cuore! Allo scadere della settimana, il colono slegò il cane: beh, non stava bene arlo vedere al padrone p adrone legato al palo. In capo alla settimana il padrone tornò a riprendersi il cane. «Beh, come va il cane mio?» domandò al colono. «Ah, proprio bene!» rispose il colono «Adesso ha imparato a mangiare perno le cipolle.» Si avvicinarono entrambi al cane e il colono gli lanciò una cipolla. Il cane l’aerrò al volo e la divorò in un baleno.
«Ha’ vistu? Te Te osce nnanzi, nna nzi, pa runu runu miu, ne poti tare cu mman gia tuttu quiddhu ca voi.» «Mah! nu’ lla critìa mai e ppoi mai!» fce fc e lu pa runu runu «Si’ statu propriu brau cu llu cane miu, e ppe’ cquistu voju tte rrecalu nu quintale te cranu.» E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.
«Hai visto? D’ora in avanti, padrone mio, gli puoi dare da mangiare tutto quello che vuoi.» «Mah! non avrei creduto mai e poi mai!» ece il padrone «Sei stato proprio bravo col cane mio, e per questo ti ricompenserò con un quintale di grano.» E vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
«Ha’ vistu? Te Te osce nnanzi, nna nzi, pa runu runu miu, ne poti tare cu mman gia tuttu quiddhu ca voi.» «Mah! nu’ lla critìa mai e ppoi mai!» fce fc e lu pa runu runu «Si’ statu propriu brau cu llu cane miu, e ppe’ cquistu voju tte rrecalu nu quintale te cranu.» E iddhi vìssera elici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenti.
«Hai visto? D’ora in avanti, padrone mio, gli puoi dare da mangiare tutto quello che vuoi.» «Mah! non avrei creduto mai e poi mai!» ece il padrone «Sei stato proprio bravo col cane mio, e per questo ti ricompenserò con un quintale di grano.» E vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
cu LLi LLi urri urri L a fija cu
La figlia con le bizze
Nc’era na fata na beddha fja ca era rriata all’età cu sse nzura, ma la mamma, a ogni bagnone ca ne se mbicinava, ne ticìa sempre: «Beddhu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji flu la fja mia, sai? Ca quiddha tene li urri.» «Ma cce ssuntu ‘sti urri?» ne rispundìa r ispundìa ogne bagnone. «Li urri… li urri… Nu’ ssai cce ssuntu li urri?» rispundìa sempre la mamma. «Mah! li urri! Ma va’ ssacci cce ssuntu li urri!» E ogni bagnone se nde scia scunsulatu. Nci oe nu giovanottu però ca sia propriu ncapunitu te ‘sta beddha fja e šciu a lla mamma cu sse tichiara. Ma puru a quistu la mamma ne tisse: «Iu te la tia puru la fja mia, beddhu carusu, ma nu’ è pput’èspput’èssere percé tene li urri!» «Ma cce ssuntu li urri?» «Li urri, no? Nu ssai cce ssuntu li urri?». «Vabbè, ma iu la fja toa la vòju lu stessu, cu lli urri e senza urri!» «None, carusu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji, cuarda ca topu te roi roi pentutu!» «Ma ammenu se po’ ssapire quandu ete ca li tene ‘sti sangu te urri?» «Na! ogne tantu ne vènane ‘sti urri, ma vistu ca voi propriu tte la piji, sacci ca quandu ne pìjanu iddha se zzacca lu mantile e sse lu gira nnanzi rretu. Tandu è mmeju cu lla lassi stare e ccu nnu’ nne cunti: quiddha senò acchiàtu azza s rèpiti!» r èpiti!» «E quistu ete tuttu? Ma iu me la sposu, addhu ca nu’ mme la sposu!» E sse spusara. Lu maritu, però, a llu primu giurnu tisse a lla mujère:
C’era una volta una bella glia in età da marito, ma la mamma, ad ogni ragazzo che le si avvicinava, non aceva che dirgli: «Bello mio, non ti consiglio di prenderti la glia mia, sai? Che quella tiene le bizze.» E ogni ragazzo a dirle: «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze… le bizze… Non sai cosa sono le bizze?» diceva sempre la mamma. «Mah le bizze! Vai a sapere che cosa sono le bizze!» E ogni ragazzo se ne partiva sconsolato. Ci u un ragazzo, però, che della d ella glia s’era innamorato assai, proprio cotto, e quando si recò dalla mamma per dichiararsi, anche a lui: «Io ti darei pure la glia mia, bel giovanotto, ma non può essere perché tiene le bizze.» «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze, no? Non sai cosa sono le bizze?» «Vabbene, ma io la glia tua la voglio lo stesso, con le bizze e senza bizze!» «No, ragazzo mio, non te lo consiglio, guarda che dopo ti troverai pentito!» «Ma almeno si può sapere quand’è che le tiene queste bizze?» «To’! le vengono ogni tanto queste bizze, ma, visto che te la vuoi proprio sposare, devi sapere che, quando le succede, prende e si mette il grembiule a rovescio. È segno questo che la devi lasciar perdere, guai se le rivolgi la parola: quella se no hai voglia a are strepiti!» «E questo è tutto? Ma io me la sposo, altroché se non me la sposo!» E si sposarono. Ma il marito già il primo giorno disse alla moglie:
cu LLi LLi urri urri L a fija cu
La figlia con le bizze
Nc’era na fata na beddha fja ca era rriata all’età cu sse nzura, ma la mamma, a ogni bagnone ca ne se mbicinava, ne ticìa sempre: «Beddhu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji flu la fja mia, sai? Ca quiddha tene li urri.» «Ma cce ssuntu ‘sti urri?» ne rispundìa r ispundìa ogne bagnone. «Li urri… li urri… Nu’ ssai cce ssuntu li urri?» rispundìa sempre la mamma. «Mah! li urri! Ma va’ ssacci cce ssuntu li urri!» E ogni bagnone se nde scia scunsulatu. Nci oe nu giovanottu però ca sia propriu ncapunitu te ‘sta beddha fja e šciu a lla mamma cu sse tichiara. Ma puru a quistu la mamma ne tisse: «Iu te la tia puru la fja mia, beddhu carusu, ma nu’ è pput’èspput’èssere percé tene li urri!» «Ma cce ssuntu li urri?» «Li urri, no? Nu ssai cce ssuntu li urri?». «Vabbè, ma iu la fja toa la vòju lu stessu, cu lli urri e senza urri!» «None, carusu miu, te cunsìju cu nnu’ tte la pìji, cuarda ca topu te roi roi pentutu!» «Ma ammenu se po’ ssapire quandu ete ca li tene ‘sti sangu te urri?» «Na! ogne tantu ne vènane ‘sti urri, ma vistu ca voi propriu tte la piji, sacci ca quandu ne pìjanu iddha se zzacca lu mantile e sse lu gira nnanzi rretu. Tandu è mmeju cu lla lassi stare e ccu nnu’ nne cunti: quiddha senò acchiàtu azza s rèpiti!» r èpiti!» «E quistu ete tuttu? Ma iu me la sposu, addhu ca nu’ mme la sposu!» E sse spusara. Lu maritu, però, a llu primu giurnu tisse a lla mujère: «Voju «V oju tte ticu na cosa, mujère mia: sacciu ca quandu te vènanu li urri, usi cu tte giri lu mantile nnanzi rretu, e cca pe’ pe’ quistu tocca tte lassu stare. Statti ccorta però ca puru iu tegnu l i urri e quandu
C’era una volta una bella glia in età da marito, ma la mamma, ad ogni ragazzo che le si avvicinava, non aceva che dirgli: «Bello mio, non ti consiglio di prenderti la glia mia, sai? Che quella tiene le bizze.» E ogni ragazzo a dirle: «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze… le bizze… Non sai cosa sono le bizze?» diceva sempre la mamma. «Mah le bizze! Vai a sapere che cosa sono le bizze!» E ogni ragazzo se ne partiva sconsolato. Ci u un ragazzo, però, che della d ella glia s’era innamorato assai, proprio cotto, e quando si recò dalla mamma per dichiararsi, anche a lui: «Io ti darei pure la glia mia, bel giovanotto, ma non può essere perché tiene le bizze.» «Ma che sono queste bizze?» «Le bizze, no? Non sai cosa sono le bizze?» «Vabbene, ma io la glia tua la voglio lo stesso, con le bizze e senza bizze!» «No, ragazzo mio, non te lo consiglio, guarda che dopo ti troverai pentito!» «Ma almeno si può sapere quand’è che le tiene queste bizze?» «To’! le vengono ogni tanto queste bizze, ma, visto che te la vuoi proprio sposare, devi sapere che, quando le succede, prende e si mette il grembiule a rovescio. È segno questo che la devi lasciar perdere, guai se le rivolgi la parola: quella se no hai voglia a are strepiti!» «E questo è tutto? Ma io me la sposo, altroché se non me la sposo!» E si sposarono. Ma il marito già il primo giorno disse alla moglie: «Voglio «V oglio dirti una cosa, moglie mia: so che quando ti vengono le bizze tieni l’usanza di metterti il grembiule a rovescio, segno questo che devo lasciarti stare. Stai attenta, però, che anche a me
me viti ca rasu rasu ccasa cu lla còppula a lla mbersa, è mmeju mme lassi stare ca su’ dduluri.» Allora nu giurnu lu mar itu sta tturnava te la atìa e, prima rasa rasa ccasa, cuardàu te la fnešcia e bitte ca la mujère s’ia s’ia giratu lu mantile nnanzi rretu; te pressa iddhu se mise la coppula a lla mbersa e rasìu rasìu ccasa. Quandu la mujère vitte lu maritu rasire rasire cu lla còppula ‘lla mbersa, zziccàu e sse nderizzàu lu mantile, e addhuttantu fce lu maritu cu lla còppula. E, de tandu, la mujère nu’ ttinne cchiui li urri… E mmancu lu maritu li tinne! E vissera elici e ccuntenti c cuntenti e nnui nu’ ìppime gnenti.
vengono le bizze di tanto in tanto e, quando mi vedi entrare in casa con la coppola a rovescio, è meglio che mi lasci perdere che son dolori!» Capitò un giorno che il marito, tornando dal lavoro, notò, spiando dalla nestra, che la moglie portava il grembiule a rovescio; prese e si mise la coppola a rovescio pure lui ed entrò in casa. Quando però la moglie vide il marito sulla soglia con la coppola a rovescio, presto si raddrizzò radd rizzò il grembiule: altrettanto ece il marito con la coppola. E da allora la moglie non ebbe più le bizze. E neppure il marito le tenne. E vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
me viti ca rasu rasu ccasa cu lla còppula a lla mbersa, è mmeju mme lassi stare ca su’ dduluri.» Allora nu giurnu lu mar itu sta tturnava te la atìa e, prima rasa rasa ccasa, cuardàu te la fnešcia e bitte ca la mujère s’ia s’ia giratu lu mantile nnanzi rretu; te pressa iddhu se mise la coppula a lla mbersa e rasìu rasìu ccasa. Quandu la mujère vitte lu maritu rasire rasire cu lla còppula ‘lla mbersa, zziccàu e sse nderizzàu lu mantile, e addhuttantu fce lu maritu cu lla còppula. E, de tandu, la mujère nu’ ttinne cchiui li urri… E mmancu lu maritu li tinne! E vissera elici e ccuntenti c cuntenti e nnui nu’ ìppime gnenti.
vengono le bizze di tanto in tanto e, quando mi vedi entrare in casa con la coppola a rovescio, è meglio che mi lasci perdere che son dolori!» Capitò un giorno che il marito, tornando dal lavoro, notò, spiando dalla nestra, che la moglie portava il grembiule a rovescio; prese e si mise la coppola a rovescio pure lui ed entrò in casa. Quando però la moglie vide il marito sulla soglia con la coppola a rovescio, presto si raddrizzò radd rizzò il grembiule: altrettanto ece il marito con la coppola. E da allora la moglie non ebbe più le bizze. E neppure il marito le tenne. E vissero elici e contenti e noi non avemmo nienti .
u pissìNchia pissìNchia Lu
Nc’era na mamma cu nnu fju ca lu chiamàvanu Pissìnchia. La mmamma nu giurnu tisse a llu fju: «Fiju miu, ca nu’ mme sentu bona: vane tie e ccatta nu picca te rippa.» rippa.» E quiddhu sciu a llu uccièri e ddisse: «Ha tittu la mmamma cu mme tai nu picca te rippa.» rippa.» «None, nu’ nu’ tte la pozzu vindìre ca nu’ ll’àggiu ‘ncora puli ź ź ata» ata» tisse l’uccièri.» «Na! ca tamméla lu stessu» tisse lu Pissìnchia. E ll’ucciéri ne la ncartàu e nne la tese. E lu Pissìnchia purtàu ‘ccasa la rippa rippa e, così comu era, senza puli ź źata, a ta, la mise in ru ru nu caddarottu chinu t’acqua cu lla cucina. E ca men re re la rippa rippa bullìa scìu lla punge puru cu nna urcina e quiddha mandàu spritte te mmerda a ddhunca tete spurcandu e mpuzzunandu tuttu. Allora scìu a ddha lla mamma e nne tisse: «Na! mamma, viti cquai cc’è mm’hae mm’hae rricapitatu!» «Ma vattende tie e tutta la rippa rippa e ba’ mménala a mmare spundatu! 17 Nu’ biti ca nu’ ll’hai mancu llavata? nu’ biti ca è ncora china? M’hai attu la casa a re re ore te notte.» E llu Pissìnchia scìu a mmare spundatu e sse mise llava e llava. Ma topu ca la llavàu tisse: «Mo’ comu azzu cu ssàcciu ci ete puli ź ź ata?» ata?» Ma propriu a ddhu rattiempu vitte luntanu in ru ru mmare nu bastimentu. Allora pijàu na canna, mpizzàu la rippa rippa susu la punta e sse mise ientulisciare de quai e dde ddhai. Li marinai te susu lu bastimentu mo’’ se pensàvanu ca gh mo gh’era ’era na specie te segnale. E ddìssera: d dìssera: «Oh Madonna noscia! quista è rrichiesta te jutu! Fucìmu! ucìmu!» Quandu ca rriàra nnanzi a llu Pissìnchia ne tìssera: «Vagnone, «V agnone, cce ggh ggh’ete ’ete ca hai rricapitatu?» rri capitatu?» «Na! voju ssàcciu ci sta rippa rippa l’àggiu bona lavata» tisse lu Pissìnchia.
Pissinchia
C’era una mamma con un glio che chiamavano Pissinchia. Un giorno la mamma disse al glio: «Figlio mio, non sto aatto bene, rècati tu dal macellaio e compra un po’ di trippa.» E Pissinchia si recò dal macellaio e disse: «Ha detto la mamma che mi dài un po’ di trippa.» «Non posso vendertela, che non l’ho ancora pulita» ece il macellaio. «Ma sì, dammela lo stesso» disse Pissinchia. E il macellaio la incartò e gliela diede. Fu così che Pissinchia portò a casa la trippa e, così com’era, senza neppure pulirla, la versò nell’acqua di una pentola messa sul uoco. E quando l’acqua prese a bollire, Pissinchia che ece? Andò a pungerla con una orchetta, la qual cosa causò schizzi dappertutto, sporcando e ammorbando tutta la casa. Dopodiché, preoccupato, si recò dalla mamma per dirle: «Mamma, guarda cosa mi è capitato!» «Ma vattene via con tutta la trippa e buttala nel mare più proondo! Ma non ti sei accorto che era tutta piena di robaccia, sporca, ancora da lavare? Mi hai ridotto la casa a tre ore di notte!» Fu così che Pissinchia si recò alla riva del mare più proondo e si mise lava e lava la trippa. Lì che gli venne un dubbio. Disse: «Mo’ come accio a sapere se è pulita?» In quel mentre avvistò sul mare, in lontananza, un bastimento e pensò bene di issare la trippa sulla punta di una canna e sventolarla di qua e di là. I marinai del bastimento, a quella vista, credettero a un segnale di aiuto. «Oh Madonna nostra! Andiamo, andiamo di corsa!» dissero. E, volta la prua in direzione di Pissinchia, quando gli urono vicini, gli chiesero a gran voce:
u pissìNchia pissìNchia Lu
Pissinchia
Nc’era na mamma cu nnu fju ca lu chiamàvanu Pissìnchia. La mmamma nu giurnu tisse a llu fju: «Fiju miu, ca nu’ mme sentu bona: vane tie e ccatta nu picca te rippa.» rippa.» E quiddhu sciu a llu uccièri e ddisse: «Ha tittu la mmamma cu mme tai nu picca te rippa.» rippa.» «None, nu’ nu’ tte la pozzu vindìre ca nu’ ll’àggiu ‘ncora puli ź ź ata» ata» tisse l’uccièri.» «Na! ca tamméla lu stessu» tisse lu Pissìnchia. E ll’ucciéri ne la ncartàu e nne la tese. E lu Pissìnchia purtàu ‘ccasa la rippa rippa e, così comu era, senza puli ź źata, a ta, la mise in ru ru nu caddarottu chinu t’acqua cu lla cucina. E ca men re re la rippa rippa bullìa scìu lla punge puru cu nna urcina e quiddha mandàu spritte te mmerda a ddhunca tete spurcandu e mpuzzunandu tuttu. Allora scìu a ddha lla mamma e nne tisse: «Na! mamma, viti cquai cc’è mm’hae mm’hae rricapitatu!» «Ma vattende tie e tutta la rippa rippa e ba’ mménala a mmare spundatu! 17 Nu’ biti ca nu’ ll’hai mancu llavata? nu’ biti ca è ncora china? M’hai attu la casa a re re ore te notte.» E llu Pissìnchia scìu a mmare spundatu e sse mise llava e llava. Ma topu ca la llavàu tisse: «Mo’ comu azzu cu ssàcciu ci ete puli ź ź ata?» ata?» Ma propriu a ddhu rattiempu vitte luntanu in ru ru mmare nu bastimentu. Allora pijàu na canna, mpizzàu la rippa rippa susu la punta e sse mise ientulisciare de quai e dde ddhai. Li marinai te susu lu bastimentu mo’’ se pensàvanu ca gh mo gh’era ’era na specie te segnale. E ddìssera: d dìssera: «Oh Madonna noscia! quista è rrichiesta te jutu! Fucìmu! ucìmu!» Quandu ca rriàra nnanzi a llu Pissìnchia ne tìssera: «Vagnone, «V agnone, cce ggh ggh’ete ’ete ca hai rricapitatu?» rri capitatu?» «Na! voju ssàcciu ci sta rippa rippa l’àggiu bona lavata» tisse lu Pissìnchia. «Na ‘stu sangu te vagnone! E cca n’hae atti rriare fncu quai 17
Spundatu, nel senso di quanto più proondo.
pe’’ nnienti: quistu è propriu šcemu e spergugnatu!» E lli mari pe mari nai šcìsera te la nave e nne tèsera qua ru ru schiaf in ra ra lla acce. E nne tìssera: «Nui ne nde sciamu, ma tie mo’ mo’ vattènde caminandu, e de ora nnanzi sai comu hai ddire?» «Comu àggiu ddire?» «Jèntu in fore! jèntu in fore!» Allora lu Pissìnchia, sempre cu lla rippa rippa mmanu, se mise ccaminare e šcìa ticendu sempre jèntu ‘n fore, jèntu ‘n fore.18 Addhai ca nu cacciatore ca passava vicinu, sentèndulu tire te cusìne, scìu e nne tese nu scaraone. E nne tisse: «Ma cce sta’ ddici jèntu in fore! Ca iu nu’ mbòju jèntu, ca cu llu jèntu nu’ mme aci ppìju mancu nu ceddhu!» «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» tisse lu Pissìnchia. «Carne e ssangu! carne e ssangu!» Allora lu Pissìnchia scìa caminandu e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Addhai ca rriàu in ra ra nnu paese e nc’èranu do’ cristiani ca sta sse vattìanu e la gente cercàva cu lli scùcchia. Lu Pissìnchia se mbicinàu a quisti toi e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Mo’ Mo’ la gente ticìa: «Na ‘stu šcemu! Sta acìmu tantu cu lli scucchiamu e quistu tice carne e ssangu, carne e ssangu.» E nne ìcera na ncofnata te mazzate. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cristu scùcchiali! Cristu scùcchiali!» E llu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. Addhai ca rriàu in ra ra nnu paese a ddhunca nc’era nu sposalìź iu. iu. Iddhu mo’ era curiositusu, vulìa bìscia tuttu. Cusì se mbicinàu a lli sposi e ddicìa sempre Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. La gente allora ne critava: «Ma tie si’ ppròpriu šcemu cu ddici te cusìne!» E nne tèsera na beddha scòppula. «E ccomu àggiu ddire allora?»
C’era una mamma con un glio che chiamavano Pissinchia. Un giorno la mamma disse al glio: «Figlio mio, non sto aatto bene, rècati tu dal macellaio e compra un po’ di trippa.» E Pissinchia si recò dal macellaio e disse: «Ha detto la mamma che mi dài un po’ di trippa.» «Non posso vendertela, che non l’ho ancora pulita» ece il macellaio. «Ma sì, dammela lo stesso» disse Pissinchia. E il macellaio la incartò e gliela diede. Fu così che Pissinchia portò a casa la trippa e, così com’era, senza neppure pulirla, la versò nell’acqua di una pentola messa sul uoco. E quando l’acqua prese a bollire, Pissinchia che ece? Andò a pungerla con una orchetta, la qual cosa causò schizzi dappertutto, sporcando e ammorbando tutta la casa. Dopodiché, preoccupato, si recò dalla mamma per dirle: «Mamma, guarda cosa mi è capitato!» «Ma vattene via con tutta la trippa e buttala nel mare più proondo! Ma non ti sei accorto che era tutta piena di robaccia, sporca, ancora da lavare? Mi hai ridotto la casa a tre ore di notte!» Fu così che Pissinchia si recò alla riva del mare più proondo e si mise lava e lava la trippa. Lì che gli venne un dubbio. Disse: «Mo’ come accio a sapere se è pulita?» In quel mentre avvistò sul mare, in lontananza, un bastimento e pensò bene di issare la trippa sulla punta di una canna e sventolarla di qua e di là. I marinai del bastimento, a quella vista, credettero a un segnale di aiuto. «Oh Madonna nostra! Andiamo, andiamo di corsa!» dissero. E, volta la prua in direzione di Pissinchia, quando gli urono vicini, gli chiesero a gran voce: «Ehi ragazzo! cosa mai ti è capitato?» E Pissinchia mettendo bene in vista la trippa, disse: «Volevo «V olevo sapere da voi se s e questa trippa è ben lavata.» l avata.»
«Ma guarda ‘sto ragazzo disgraziato e scemo!» dissero stizziti i marinai «E dire che per quella caspita di trippa ci ha atti venire n qui con tutto il bastimento!» Fu così che scesero dal bastimento e andarono a dargli quattro schia sulla accia. E gli dissero: «Adesso noi ci rimettiamo in viaggio, ma tu d’ora in poi, camminando, devi sempre dire vento in ore! vento in ore!» E Pissinchia, con la sua trippa ben stretta st retta tra le mani, andava camminando e diceva sempre vento in ore, vento in ore. Fu lì che gli passò vicino un cacciatore, il quale, a quel sentire, non mancò di dargli un manrovescio. «Ma che dici vento in ore! Io non voglio vento, perché col vento non becco neppure un uccello.» «E come devo dire allora?» «Carne e sangue! carne e sangue!» E Pissinchia camminava e ripeteva sempre carne e sangue, carne e sangue. E così dicendo si trovò in un paese dove c’erano due che se le davano di santa ragione, mentre taluni ce la mettevano tutta per separarli. Pissinchia si avvicinò ai due e continuava a dire carne e sangue, carne e sangue. «To’! «T o’! ‘sto scemo!» ecero indignati quei taluni «Noi ci diamo d iamo da are per separarli e questo li aissa.» E non si risparmiarono dal dargli quei quattro ceoni. «E come devo dire allora?» «Cristo separali! Cristo separali!» E Pissinchia, che non si staccava mai dalla sua trippa, cominciò quest’altra canzone del Cristo separali, Cristo separali. E giunse in un paese dove si celebrava un matrimonio e lui, anche quando u vicino agli sposi, proseguiva a dire Cristo separali, Cristo separali. «Ma sei proprio scemo a dire così!» cos ì!» lo redarguirono alcuni. E gli diedero uno scappellotto come si conveniva.
pe’’ nnienti: quistu è propriu šcemu e spergugnatu!» E lli mari pe mari nai šcìsera te la nave e nne tèsera qua ru ru schiaf in ra ra lla acce. E nne tìssera: «Nui ne nde sciamu, ma tie mo’ mo’ vattènde caminandu, e de ora nnanzi sai comu hai ddire?» «Comu àggiu ddire?» «Jèntu in fore! jèntu in fore!» Allora lu Pissìnchia, sempre cu lla rippa rippa mmanu, se mise ccaminare e šcìa ticendu sempre jèntu ‘n fore, jèntu ‘n fore.18 Addhai ca nu cacciatore ca passava vicinu, sentèndulu tire te cusìne, scìu e nne tese nu scaraone. E nne tisse: «Ma cce sta’ ddici jèntu in fore! Ca iu nu’ mbòju jèntu, ca cu llu jèntu nu’ mme aci ppìju mancu nu ceddhu!» «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» tisse lu Pissìnchia. «Carne e ssangu! carne e ssangu!» Allora lu Pissìnchia scìa caminandu e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Addhai ca rriàu in ra ra nnu paese e nc’èranu do’ cristiani ca sta sse vattìanu e la gente cercàva cu lli scùcchia. Lu Pissìnchia se mbicinàu a quisti toi e ddicìa sempre carne e ssangu, carne e ssangu. Mo’ Mo’ la gente ticìa: «Na ‘stu šcemu! Sta acìmu tantu cu lli scucchiamu e quistu tice carne e ssangu, carne e ssangu.» E nne ìcera na ncofnata te mazzate. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cristu scùcchiali! Cristu scùcchiali!» E llu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. Addhai ca rriàu in ra ra nnu paese a ddhunca nc’era nu sposalìź iu. iu. Iddhu mo’ era curiositusu, vulìa bìscia tuttu. Cusì se mbicinàu a lli sposi e ddicìa sempre Cristu scùcchiali, Cristu scùcchiali. La gente allora ne critava: «Ma tie si’ ppròpriu šcemu cu ddici te cusìne!» E nne tèsera na beddha scòppula. «E ccomu àggiu ddire allora?» «Sette-ottu te quisti llu giurnu! sette-ottu te quisti llu giur nu!» 18
«Ma guarda ‘sto ragazzo disgraziato e scemo!» dissero stizziti i marinai «E dire che per quella caspita di trippa ci ha atti venire n qui con tutto il bastimento!» Fu così che scesero dal bastimento e andarono a dargli quattro schia sulla accia. E gli dissero: «Adesso noi ci rimettiamo in viaggio, ma tu d’ora in poi, camminando, devi sempre dire vento in ore! vento in ore!» E Pissinchia, con la sua trippa ben stretta st retta tra le mani, andava camminando e diceva sempre vento in ore, vento in ore. Fu lì che gli passò vicino un cacciatore, il quale, a quel sentire, non mancò di dargli un manrovescio. «Ma che dici vento in ore! Io non voglio vento, perché col vento non becco neppure un uccello.» «E come devo dire allora?» «Carne e sangue! carne e sangue!» E Pissinchia camminava e ripeteva sempre carne e sangue, carne e sangue. E così dicendo si trovò in un paese dove c’erano due che se le davano di santa ragione, mentre taluni ce la mettevano tutta per separarli. Pissinchia si avvicinò ai due e continuava a dire carne e sangue, carne e sangue. «To’! «T o’! ‘sto scemo!» ecero indignati quei taluni «Noi ci diamo d iamo da are per separarli e questo li aissa.» E non si risparmiarono dal dargli quei quattro ceoni. «E come devo dire allora?» «Cristo separali! Cristo separali!» E Pissinchia, che non si staccava mai dalla sua trippa, cominciò quest’altra canzone del Cristo separali, Cristo separali. E giunse in un paese dove si celebrava un matrimonio e lui, anche quando u vicino agli sposi, proseguiva a dire Cristo separali, Cristo separali. «Ma sei proprio scemo a dire così!» cos ì!» lo redarguirono alcuni. E gli diedero uno scappellotto come si conveniva. «E come devo dire?» «Sette-otto di questi al giorno! sette otto di questi al giorno!»
Qui Ventu in fore non signica vento a avore, ma vento orte.
E lu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. Caminandu caminandu, cu lla rippa rippa ca nu’ llassava mai, rriàu a nnanzi nna chiesa a ddhunca nc’era lu mortu e iddu ticìa sempre sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. «Na! ‘stu šcemu, ma cce ddice mo’!» mo’!» tisse la gente «Ca sette-ottu te quisti lu giurnu, alla fne ci ete ca rrimane susu la terra? Tie lu essa?» E dàlli mazzate ntorna. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cce hai ddire… ca è mmeju cu ba' tte perdi tie e tutta quiddha rippa rippa ca tieni mmanu china te iermi!» E ccusì lu Pissìnchia nu' ssapìa cchiùi cc c c’ia are e se nde turnàu ccasa. Ma quandu la mamma lu vitte, ne tisse: «Ancora cu ddha rippa rippa mpuzzunata mmanu vai caminandu, fju miu? Ah poveru fju miu!» Ci vo’ vo’ tte cuntu n addu me tai nu taraddhu.
E andava così dicendo Pissinchia, quando si trovò in un paese dove si svolgeva un unerale e lui non smetteva di dire sette-otto di questi al giorno, sette-otto di questi al giorno. «Senti questo scemo! Ma che dice mo’!» gli si rivoltarono alcuni «Che con sette-otto di questi al giorno, alla ne chi ci rimane sulla terra? Tu e il essacchiotto che sei?» E dàgli botte di nuovo a Pissinchia. «E come devo dire?» «Ma che devi dire… Che è bene che ti vai a perdere tu e tutta la trippa puzzolente che tieni in mano!» E Pissinchia non sapeva più che cosa are e se ne tornò a casa. Ma quando lo vide la mamma gli disse: «Ancora con quella trippa impuzzonita te ne vai in giro? Ah povero glio mio!» Se vuoi che ti racconti un altro, mi dai un tarallo.
E lu Pissìnchia zzaccàu ntorna ‘st’addha canzone te sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. Caminandu caminandu, cu lla rippa rippa ca nu’ llassava mai, rriàu a nnanzi nna chiesa a ddhunca nc’era lu mortu e iddu ticìa sempre sette-ottu te quisti llu giurnu, sette-ottu te quisti llu giurnu. «Na! ‘stu šcemu, ma cce ddice mo’!» mo’!» tisse la gente «Ca sette-ottu te quisti lu giurnu, alla fne ci ete ca rrimane susu la terra? Tie lu essa?» E dàlli mazzate ntorna. «E ccomu àggiu ddire ‘llora?» «Cce hai ddire… ca è mmeju cu ba' tte perdi tie e tutta quiddha rippa rippa ca tieni mmanu china te iermi!» E ccusì lu Pissìnchia nu' ssapìa cchiùi cc c c’ia are e se nde turnàu ccasa. Ma quandu la mamma lu vitte, ne tisse: «Ancora cu ddha rippa rippa mpuzzunata mmanu vai caminandu, fju miu? Ah poveru fju miu!» Ci vo’ vo’ tte cuntu n addu me tai nu taraddhu.
E andava così dicendo Pissinchia, quando si trovò in un paese dove si svolgeva un unerale e lui non smetteva di dire sette-otto di questi al giorno, sette-otto di questi al giorno. «Senti questo scemo! Ma che dice mo’!» gli si rivoltarono alcuni «Che con sette-otto di questi al giorno, alla ne chi ci rimane sulla terra? Tu e il essacchiotto che sei?» E dàgli botte di nuovo a Pissinchia. «E come devo dire?» «Ma che devi dire… Che è bene che ti vai a perdere tu e tutta la trippa puzzolente che tieni in mano!» E Pissinchia non sapeva più che cosa are e se ne tornò a casa. Ma quando lo vide la mamma gli disse: «Ancora con quella trippa impuzzonita te ne vai in giro? Ah povero glio mio!» Se vuoi che ti racconti un altro, mi dai un tarallo.
LI FATTI TE LU PIERU u baGNu baGNu a a LLu LLu picciNNu picciNNu Lu
Nc’era na mamma ca tenìa do’ fji. Unu era crandiceddhu: Pieru se chiamava; l’addhu, picciccu picciccu. Nu giurnu, prima bàscia ore, tisse a llu Pieru: «Pieru, viti ca sta bau ore, tie ntantu minti la ersura susu llu ocu, pìja to’ legne e scara nu pocu t’acqua cu nne aci lu bagnu a llu piccinnu.» Addhai ca lu Pieru mise la ersura cu ll’acqua susu llu ocu, e dduma e dduma ca l’acqua se fce bullente. Poi cce tte fce? Menàu l’acqua in ru ru la bagnarola, zziccàu lu piccinnu e llu calàu ddhin ru. ru. A quai ca a lu vagnone ne se rrizzàu tutta la pelle e se mise are s répiti. répiti. Lu Pieru allora cuardava lu rate picciccu e ddicìa: «Na! comu sta sse prèscia lu rate miu! cuarda comu sta sse prèscia!» Poi lu zziccàu e llu mise susu llu jettu cu ddorme. Quandu ca la mamma turnàu, ruàu ruàu lu vagnone stisu pe’ mmortu susu llu jettu. «Pieru! ma cce nn nn’hai ’hai attu a llu vagnone! cce nn nn’hai ’hai attu!» «Na! mamma, ca sta dorme tantu beddhu! N’àggiu attu nu bagnu caddu caddu, comu m’ìi tittu ssignurìa, ma cusì caddu ca ìi bitìre comu se presciava in ru ru ll’acqua, e comu la acce ne se rrizzava tutta beddha!» «Eeh, pòvera mmie! pòvera mmie! Ma ci oe ca me tese ‘stu fju!» tisse dha cristiana.
Il bagno al fratelli fratellino no
C’era una mamma che aveva due gli. gli. Uno era grandicello: Piero si chiamava; l’altro, piccino piccino. Un giorno, prima di recarsi in campagna, disse a Piero: «Piero, io vado in campagna. Tu, Tu, nel rattempo, raccatta un po’ di legna, accendi il uoco e scalda l’acqua in un calderotto per are il bagno al tuo ratellino.» Lì che Piero si mise a scaldare l’acqua sul uoco e, accendi accendi, l’acqua alla ne divenne bollente. Poi che ti ece? versò l’acqua nella tinozza, aerrò il ratellino e ce lo immerse dentro. Qui che al ratellino subito la accia gli si arricciò tutta quanta, e dovevi sentire le urla e gli strepiti, di tale maniera che a Piero sembrava che si rallegrasse. E lo osservava divertito e gli aceva: «Guarda come si rallegra il ratellino mio! guarda come si rallegra!» Dopo di che lo prese e lo adagiò sul letto per arlo dormire. Quando la mamma tornò, trovò sul letto il glioletto che non dava segni di vita. «Piero! ma che hai atto al ratellino tuo! che gli hai atto!» «To’! «T o’! mamma, non vedi che dorme tanto bello? Gli ho atto un bel bagno caldo caldo, come m’avevi detto tu, ma così caldo che dovevi vedere come si rallegrava dentro l’acqua, e come la accia gli si arricciava tutta bella!» «Eeh, povera me! Ma chi u a darmi questo glio!» disse quella cristiana.
LI FATTI TE LU PIERU Il bagno al fratelli fratellino no
u baGNu baGNu a a LLu LLu picciNNu picciNNu Lu
Nc’era na mamma ca tenìa do’ fji. Unu era crandiceddhu: Pieru se chiamava; l’addhu, picciccu picciccu. Nu giurnu, prima bàscia ore, tisse a llu Pieru: «Pieru, viti ca sta bau ore, tie ntantu minti la ersura susu llu ocu, pìja to’ legne e scara nu pocu t’acqua cu nne aci lu bagnu a llu piccinnu.» Addhai ca lu Pieru mise la ersura cu ll’acqua susu llu ocu, e dduma e dduma ca l’acqua se fce bullente. Poi cce tte fce? Menàu l’acqua in ru ru la bagnarola, zziccàu lu piccinnu e llu calàu ddhin ru. ru. A quai ca a lu vagnone ne se rrizzàu tutta la pelle e se mise are s répiti. répiti. Lu Pieru allora cuardava lu rate picciccu e ddicìa: «Na! comu sta sse prèscia lu rate miu! cuarda comu sta sse prèscia!» Poi lu zziccàu e llu mise susu llu jettu cu ddorme. Quandu ca la mamma turnàu, ruàu ruàu lu vagnone stisu pe’ mmortu susu llu jettu. «Pieru! ma cce nn nn’hai ’hai attu a llu vagnone! cce nn nn’hai ’hai attu!» «Na! mamma, ca sta dorme tantu beddhu! N’àggiu attu nu bagnu caddu caddu, comu m’ìi tittu ssignurìa, ma cusì caddu ca ìi bitìre comu se presciava in ru ru ll’acqua, e comu la acce ne se rrizzava tutta beddha!» «Eeh, pòvera mmie! pòvera mmie! Ma ci oe ca me tese ‘stu fju!» tisse dha cristiana.
C’era una mamma che aveva due gli. gli. Uno era grandicello: Piero si chiamava; l’altro, piccino piccino. Un giorno, prima di recarsi in campagna, disse a Piero: «Piero, io vado in campagna. Tu, Tu, nel rattempo, raccatta un po’ di legna, accendi il uoco e scalda l’acqua in un calderotto per are il bagno al tuo ratellino.» Lì che Piero si mise a scaldare l’acqua sul uoco e, accendi accendi, l’acqua alla ne divenne bollente. Poi che ti ece? versò l’acqua nella tinozza, aerrò il ratellino e ce lo immerse dentro. Qui che al ratellino subito la accia gli si arricciò tutta quanta, e dovevi sentire le urla e gli strepiti, di tale maniera che a Piero sembrava che si rallegrasse. E lo osservava divertito e gli aceva: «Guarda come si rallegra il ratellino mio! guarda come si rallegra!» Dopo di che lo prese e lo adagiò sul letto per arlo dormire. Quando la mamma tornò, trovò sul letto il glioletto che non dava segni di vita. «Piero! ma che hai atto al ratellino tuo! che gli hai atto!» «To’! «T o’! mamma, non vedi che dorme tanto bello? Gli ho atto un bel bagno caldo caldo, come m’avevi detto tu, ma così caldo che dovevi vedere come si rallegrava dentro l’acqua, e come la accia gli si arricciava tutta bella!» «Eeh, povera me! Ma chi u a darmi questo glio!» disse quella cristiana.
L a òccuLa
La chioccia
N’addha fata, ntorna, la mamma te lu Pieru, prima bàscia ore, ne tisse a llu fju: «Pieru, viti ca iu sta bau ore. Cuarda ca nc’ete nc’ete la òccula ca sta ccova l’oe e cerca cu nne stai ttentu. Viti ca ogne ttantu se aź a e bae ‘n giru cu mmangia, ma tie, dopu nu pocu, la pìji e lla ssetti ntorna susu ll’oe: se no se dderìddanu.» La mamma essìu te nanzi e la òccula se a ź àu àu te retu bàscia ‘n giru e ccu mmangia. Lu Pieru, topu nu pucu, la zziccàu e lla ssettàu susu ll’oe, ma quiddha nun ci stia, e sse nde scappava sem pre. Allora lu Pieru cce fce? scìu e sse ssettàu iddhu susu ll’oe e lle scraazzàu tutte bone bone. Quandu ca la mamma turnàu vitte lu Pieru ssettatu susu ll’oe a ppostu te la òccula. «Pieru, na! ma cce sta aci ssettatu susu ll’oe!» «Na! mamma, ca la l a òccula nu’ mbulìa stèscia e mm’àggiu mm’àggiu ssettatu iu susu ll’oe cu nnu’ ssia se dderìddanu.» «E mmo’ cce àggiu aaàre!» tisse dha cristiana cuardandu an cielu «Tegnu «Tegnu nu fju cchiù essa iddhu te l’acqua salata!»
Un’altra volta, la mamma di Piero, prima di andarsene in campagna, disse al glio: «Piero, vedi che io sto uscendo. Ricordati che c’è la chioccia che sta covando le uova, e stacci attento perché quella tra un po’ lascia la cova e se ne va in giro a mangiare. Tu Tu però, se vedi ved i che ci sta troppo tempo, l’acchiappi e la rimetti sulle uova prima che si reddino.» La mamma uscì davanti e la chioccia s’alzò di dietro per beccare in giro. Ma dopo un po’, Piero l’acchiappò e la rimise sulla cova. La chioccia, però, non ci voleva stare e se ne scappava sempre. Piero, preoccupato che le uova si reddassero, che ti ece? andò a sedersi lui sulle uova, col risultato che s’acciaccarono tutte bene bene. Quando la mamma tornò, ti andò a vedere Piero che se ne stava seduto sulla cova al posto della chioccia. «Piero, na! ma che ci ai seduto sulle uova! E la chioccia dov’è?» «Na, mamma, quella non voleva saperne di chiocciare e così mi ci sono seduto io, se no le uova si reddavano.» «E mo’ che devo aaàre!» disse quella cristiana guardando in cielo «Tengo un glio più esso lui dell’acqua salata!»
L a òccuLa
La chioccia
N’addha fata, ntorna, la mamma te lu Pieru, prima bàscia ore, ne tisse a llu fju: «Pieru, viti ca iu sta bau ore. Cuarda ca nc’ete nc’ete la òccula ca sta ccova l’oe e cerca cu nne stai ttentu. Viti ca ogne ttantu se aź a e bae ‘n giru cu mmangia, ma tie, dopu nu pocu, la pìji e lla ssetti ntorna susu ll’oe: se no se dderìddanu.» La mamma essìu te nanzi e la òccula se a ź àu àu te retu bàscia ‘n giru e ccu mmangia. Lu Pieru, topu nu pucu, la zziccàu e lla ssettàu susu ll’oe, ma quiddha nun ci stia, e sse nde scappava sem pre. Allora lu Pieru cce fce? scìu e sse ssettàu iddhu susu ll’oe e lle scraazzàu tutte bone bone. Quandu ca la mamma turnàu vitte lu Pieru ssettatu susu ll’oe a ppostu te la òccula. «Pieru, na! ma cce sta aci ssettatu susu ll’oe!» «Na! mamma, ca la l a òccula nu’ mbulìa stèscia e mm’àggiu mm’àggiu ssettatu iu susu ll’oe cu nnu’ ssia se dderìddanu.» «E mmo’ cce àggiu aaàre!» tisse dha cristiana cuardandu an cielu «Tegnu «Tegnu nu fju cchiù essa iddhu te l’acqua salata!»
Un’altra volta, la mamma di Piero, prima di andarsene in campagna, disse al glio: «Piero, vedi che io sto uscendo. Ricordati che c’è la chioccia che sta covando le uova, e stacci attento perché quella tra un po’ lascia la cova e se ne va in giro a mangiare. Tu Tu però, se vedi ved i che ci sta troppo tempo, l’acchiappi e la rimetti sulle uova prima che si reddino.» La mamma uscì davanti e la chioccia s’alzò di dietro per beccare in giro. Ma dopo un po’, Piero l’acchiappò e la rimise sulla cova. La chioccia, però, non ci voleva stare e se ne scappava sempre. Piero, preoccupato che le uova si reddassero, che ti ece? andò a sedersi lui sulle uova, col risultato che s’acciaccarono tutte bene bene. Quando la mamma tornò, ti andò a vedere Piero che se ne stava seduto sulla cova al posto della chioccia. «Piero, na! ma che ci ai seduto sulle uova! E la chioccia dov’è?» «Na, mamma, quella non voleva saperne di chiocciare e così mi ci sono seduto io, se no le uova si reddavano.» «E mo’ che devo aaàre!» disse quella cristiana guardando in cielo «Tengo un glio più esso lui dell’acqua salata!»
ira La pOrta e e biéNi biéNi t ira
Una volta, la mamma te lu Pieru, scendu ore te matina prestu, ddišcitàu lu fju e nne tisse: «Pieru, sai cce anne? Quandu a llu cchiù ttardu te aź i,i, topu c’c’hai hai mangiatu, tira la porta e biéni ore, sai? Ca iu sta bau.» «Sine, mamma, nu’ tte nde ncaricare.» E quandu a llu cchiù tardu lu Pieru se aź àu àu te lu jettu, cce fce? na! schiuàu la porta te casa, se la caricàu ‘n coddhu e chianu chianu pijau la s rata rata te ore. Quandu ca la mamma, men re re ca sta aticava, a´zàu a´zàu la capu e bitte te luntanu unu ca sta sse mbicinava cu nnu talornu crossu crossu an coddhu: «Na! dhu cristianu!» tisse «Addhu caspita vae caminandu cu quiddhu pisu an coddhu!» Ma quandu lu Pieru se mbicinàu a nnanzi màmmasa, quista spalancàu l’occhi e ddisse: «Pieru, ma tie eri? Na! ma ci t’hae tittu cu biéni cu tutta la porta! Cce ggh ggh’ete ’ete ca m’hai cumbinatu!» «Na! mamma, ca nu nu’’ mm’ha’ mm’ha’ tittu ssignurìa cu ttiru la porta e ccu begnu?» «Ah ‘stu fju miu!» fce la l a mamma scunsulata «E mmo mmo’’ cce àg giu are? Lu Signore nu’ mme tese urtuna cu lli fji!»
Tira la porta e vieni
Una volta, la mamma di Piero, recandosi in campagna sul presto, svegliò il glio e gli disse. «Piero, sai che ai? Quando più tardi ti alzi dal letto, dopo aver atto colazione, tira20 la porta e vieni.» «Sì, mamma, va’ va’ pure, non ti preoccupare.» E quando sul tardi Piero s’alzò dal letto, che ti ece? to’! schiodò la porta di casa, se la caricò sulle spalle e prese la strada per avviarsi in campagna. La mamma, mentre stava curva a lavorare, alzò la testa e s’avvide di uno in lontananza che s’avvicinava reggendo sulle spalle qualcosa d’ingombrante. «To’! quel cristiano!» disse «dove caspita va camminando con quel peso sulle spalle?» Ma quando Piero u più vicino, la madre non credette ai suoi occhi: «Piero, ma eri tu? Oh, ma chi t’ha detto di venire con tutta la porta? Guarda cosa m’hai combinato!» «Na! mamma, che non sei stata tu a dirmi tira la porta e vieni?» «Ah, questo glio mio!» ece la mamma sconsolata «E mo’ che devo are? Il Signore non mi rese ortunata con i gli!»
ira La pOrta e e biéNi biéNi t ira
Tira la porta e vieni
Una volta, la mamma te lu Pieru, scendu ore te matina prestu, ddišcitàu lu fju e nne tisse: «Pieru, sai cce anne? Quandu a llu cchiù ttardu te aź i,i, topu c’c’hai hai mangiatu, tira la porta e biéni ore, sai? Ca iu sta bau.» «Sine, mamma, nu’ tte nde ncaricare.» E quandu a llu cchiù tardu lu Pieru se aź àu àu te lu jettu, cce fce? na! schiuàu la porta te casa, se la caricàu ‘n coddhu e chianu chianu pijau la s rata rata te ore. Quandu ca la mamma, men re re ca sta aticava, a´zàu a´zàu la capu e bitte te luntanu unu ca sta sse mbicinava cu nnu talornu crossu crossu an coddhu: «Na! dhu cristianu!» tisse «Addhu caspita vae caminandu cu quiddhu pisu an coddhu!» Ma quandu lu Pieru se mbicinàu a nnanzi màmmasa, quista spalancàu l’occhi e ddisse: «Pieru, ma tie eri? Na! ma ci t’hae tittu cu biéni cu tutta la porta! Cce ggh ggh’ete ’ete ca m’hai cumbinatu!» «Na! mamma, ca nu nu’’ mm’ha’ mm’ha’ tittu ssignurìa cu ttiru la porta e ccu begnu?» «Ah ‘stu fju miu!» fce la l a mamma scunsulata «E mmo mmo’’ cce àg giu are? Lu Signore nu’ mme tese urtuna cu lli fji!»
Una volta, la mamma di Piero, recandosi in campagna sul presto, svegliò il glio e gli disse. «Piero, sai che ai? Quando più tardi ti alzi dal letto, dopo aver atto colazione, tira20 la porta e vieni.» «Sì, mamma, va’ va’ pure, non ti preoccupare.» E quando sul tardi Piero s’alzò dal letto, che ti ece? to’! schiodò la porta di casa, se la caricò sulle spalle e prese la strada per avviarsi in campagna. La mamma, mentre stava curva a lavorare, alzò la testa e s’avvide di uno in lontananza che s’avvicinava reggendo sulle spalle qualcosa d’ingombrante. «To’! quel cristiano!» disse «dove caspita va camminando con quel peso sulle spalle?» Ma quando Piero u più vicino, la madre non credette ai suoi occhi: «Piero, ma eri tu? Oh, ma chi t’ha detto di venire con tutta la porta? Guarda cosa m’hai combinato!» «Na! mamma, che non sei stata tu a dirmi tira la porta e vieni?» «Ah, questo glio mio!» ece la mamma sconsolata «E mo’ che devo are? Il Signore non mi rese ortunata con i gli!»
20
‘Tira’’ qui sta per rinserrare, chiudere. ‘Tira
CERTI FATTI DI PAPA GALEAZZO
CERTI FATTI DI PAPA GALEAZZO
PREMESSA I atti di papa21 Galeazzo ce li raccontava mio nonno materno Pasqualino. Lui sapeva leggere, scrivere e ar di conto. Era un novellatore. Quand’era più giovane leggeva apposta libri di racconti per poi la sera raccontarli alle glie davanti al caminetto. Raccontava anche storie popolari pop olari come Guerrin Meschino, Genovea, Fioravante. Erano le storie che a Collemeto rappresentavano di tanto in tanto le compagnie popolari di teatro che arrivavano per lo più dalla Sicilia. L e recitavano nel rantoio, quando non c’era la raccolta delle olive. Chi è papa Galeazzo? È un prete che ne combina di tutti i colori, un ribelle, un buone, un nto tonto, un goo. Un Bertoldo salentino con la tonaca, se vogliamo azzardare un paragone. Pare che papa Galeazzo sia realmente esistito. Don Domenico Galeazzo era arciprete di Lucugnano (nei pressi di Santa Maria di Leuca), vissuto nel XVI secolo. Ma non tutti i racconti si rieriscono a quell’epoca. In ogni tempo, anche recente, sono nate delle storie con papa Galeazzo protagonista.
PREMESSA I atti di papa21 Galeazzo ce li raccontava mio nonno materno Pasqualino. Lui sapeva leggere, scrivere e ar di conto. Era un novellatore. Quand’era più giovane leggeva apposta libri di racconti per poi la sera raccontarli alle glie davanti al caminetto. Raccontava anche storie popolari pop olari come Guerrin Meschino, Genovea, Fioravante. Erano le storie che a Collemeto rappresentavano di tanto in tanto le compagnie popolari di teatro che arrivavano per lo più dalla Sicilia. L e recitavano nel rantoio, quando non c’era la raccolta delle olive. Chi è papa Galeazzo? È un prete che ne combina di tutti i colori, un ribelle, un buone, un nto tonto, un goo. Un Bertoldo salentino con la tonaca, se vogliamo azzardare un paragone. Pare che papa Galeazzo sia realmente esistito. Don Domenico Galeazzo era arciprete di Lucugnano (nei pressi di Santa Maria di Leuca), vissuto nel XVI secolo. Ma non tutti i racconti si rieriscono a quell’epoca. In ogni tempo, anche recente, sono nate delle storie con papa Galeazzo protagonista.
21
‘Papa’, nel Salento, precede sempre il nome di un prete. Equivale a ‘don’.
messONe te papa papa c ajazzu Lu messONe te
Na fata, papa Cajazzu, siccomu nde cumbinava tante te le soe, oe casticatu te lu Vescuvu cu bàscia azza lu prete a nn addhu paese. Acquai ca li cristiani, vitendu lu prete nou, ci cchiùi scia nne ddumanda quantu se acìa pacare iddhu pe pe’ nna messa a ssuràgiu te li morti. Quandu se sparse la voce a llu paese ca papa Cajazzu se pijava sulamente centu lire, mbece te mille, quantu se pijàvanu l’addhi preti, mo’ ìi bitire comu tutti ucìanu a ddha ppapa Cajazzu cu ordinànu messe. Papa Cajazzu, te la matina ‘lla sera, nu’ acìa addhu ca cu ssegna nomi te morti sulla ližetta te le messe, puru vinti a llu stessu giurnu, e ppe’ ogni mmessa se acìa tare le centu lire ntici pate. Mo’’ a ll’addhi preti ne uschiava lu culu: ca nišciunu scia cchiùi Mo a ddha iddhi cu ssègnanu ss ègnanu messe pe’ pe’ ssuragiu. E sse ddumandàvanu cumu cazza19 putìa are papa Cajazzu cu roa roa lu tiempu cu ddice tutte quiddhe messe. Sicché nu giurnu se rratunàra e šcira tutti te paru a ddha ppapa Cajazzu e nne ddumandàra: «Papa Cajazzu, sapìmu ca li paesani vènanu tutti ddha ttie cu ssègnanu messe: ma se po’ po’ ccapire cumu sangu aci poi cu ddici tutte ‘ste messe?» «Na!» tisse papa Cajazzu «ca sta’ be proccupati tantu? Ca ticu nu messone e bale pe’ pe’ ttutte.»
Il messone di papa Galeazzo
Una volta, papa Galeazzo, siccome ne combinava tante delle sue, per castigo u mandato dal Vescovo a dire messa in un altro paese. Qui che la gente, visto il prete nuovo, nuovo, chi più andava a domandargli quanto si aceva pagare lui per una messa a suragio dei deunti. Quando al paese si sparse la voce che papa Galeazzo si aceva pagare solo cento lire, invece di mille, quanto si acevano pagare gli altri preti, mo’! dovevi vedere: tutti da papa Galeazzo a ordinare messe! Papa Galeazzo, dalla mattina alla sera, non aceva altro che segnare nomi di deunti sull’agenda per le messe, anche venti nello stesso giorno, e per ogni ordine si aceva dare le cento lire l ire anticipate. A questo punto agli altri preti bruciava il culo, perché nessuno al paese si recava più da loro per ordinare le messe di suragio. E si chiedevano i preti come caspita papa Galeazzo Galeazzo potesse trovare il tempo per celebrare tutte quelle messe. Così un bel giorno i preti decisero di recarsi tutti insieme da papa Galeazzo. E gli dissero: «Papa Galeazzo, sappiamo che i paesani vengono tutti da te a ordinare messe. Ma ci vuoi spiegare come caspita arai a celebrare tutte queste messe?» «To’!» rispose papa Galeazzo «vi state a preoccupare così tanto? Che dirò un messone e varrà bene per tutte.»
messONe te papa papa c ajazzu Lu messONe te
Il messone di papa Galeazzo
Na fata, papa Cajazzu, siccomu nde cumbinava tante te le soe, oe casticatu te lu Vescuvu cu bàscia azza lu prete a nn addhu paese. Acquai ca li cristiani, vitendu lu prete nou, ci cchiùi scia nne ddumanda quantu se acìa pacare iddhu pe pe’ nna messa a ssuràgiu te li morti. Quandu se sparse la voce a llu paese ca papa Cajazzu se pijava sulamente centu lire, mbece te mille, quantu se pijàvanu l’addhi preti, mo’ ìi bitire comu tutti ucìanu a ddha ppapa Cajazzu cu ordinànu messe. Papa Cajazzu, te la matina ‘lla sera, nu’ acìa addhu ca cu ssegna nomi te morti sulla ližetta te le messe, puru vinti a llu stessu giurnu, e ppe’ ogni mmessa se acìa tare le centu lire ntici pate. Mo’’ a ll’addhi preti ne uschiava lu culu: ca nišciunu scia cchiùi Mo a ddha iddhi cu ssègnanu ss ègnanu messe pe’ pe’ ssuragiu. E sse ddumandàvanu cumu cazza19 putìa are papa Cajazzu cu roa roa lu tiempu cu ddice tutte quiddhe messe. Sicché nu giurnu se rratunàra e šcira tutti te paru a ddha ppapa Cajazzu e nne ddumandàra: «Papa Cajazzu, sapìmu ca li paesani vènanu tutti ddha ttie cu ssègnanu messe: ma se po’ po’ ccapire cumu sangu aci poi cu ddici tutte ‘ste messe?» «Na!» tisse papa Cajazzu «ca sta’ be proccupati tantu? Ca ticu nu messone e bale pe’ pe’ ttutte.»
Una volta, papa Galeazzo, siccome ne combinava tante delle sue, per castigo u mandato dal Vescovo a dire messa in un altro paese. Qui che la gente, visto il prete nuovo, nuovo, chi più andava a domandargli quanto si aceva pagare lui per una messa a suragio dei deunti. Quando al paese si sparse la voce che papa Galeazzo si aceva pagare solo cento lire, invece di mille, quanto si acevano pagare gli altri preti, mo’! dovevi vedere: tutti da papa Galeazzo a ordinare messe! Papa Galeazzo, dalla mattina alla sera, non aceva altro che segnare nomi di deunti sull’agenda per le messe, anche venti nello stesso giorno, e per ogni ordine si aceva dare le cento lire l ire anticipate. A questo punto agli altri preti bruciava il culo, perché nessuno al paese si recava più da loro per ordinare le messe di suragio. E si chiedevano i preti come caspita papa Galeazzo Galeazzo potesse trovare il tempo per celebrare tutte quelle messe. Così un bel giorno i preti decisero di recarsi tutti insieme da papa Galeazzo. E gli dissero: «Papa Galeazzo, sappiamo che i paesani vengono tutti da te a ordinare messe. Ma ci vuoi spiegare come caspita arai a celebrare tutte queste messe?» «To’!» rispose papa Galeazzo «vi state a preoccupare così tanto? Che dirò un messone e varrà bene per tutte.»
La cazza è la schiumarola, ma qui, per assonanza, vuol dire ‘cazzo’ e serve al narratore per attenuare la volgarità del termine. Per lo stesso motivo a volte si ricorre a cazzarola, che sarebbe la casseruola. 19
mOrti vii Li mOrti
Na fata, li preti te nu paese nu’ nde putìanu cchiui te tuttu quiddhu ca ne cumbinava papa Cajazzu, e nnu’ ssapìanu comu ìanu are cu nde lu càccianu. càcci anu. E ccomu imu are e ccomu nu nu’’ imu are, alla fne ìppera na pensata. Tandu mo’ nc’era l’usanza ca lu prete ia vvegliare li morti te notte in ru ru lla chèsia. «Unu te nui» tisse nu prete «se fnge mortu, e lla notte acìmu cu llu vèja papa Cajazzu. A llu meju, men re re sta ace lu mortu, aź a la capu e ace cu sse schianta papa Cajazzu: armenu cusì se nde scappa e nnu’ ttorna cchiùi!» E ccusì oe. Nu prete se fnse mortu e sse ìcera li unerali, poi rriàu la notte e papa Cajazzu ippe lu còmpitu cu vveja lu mortu in ru ru lla chèsia. Men re re ca papa Cajazzu era tuttu ‘ntentu cu ddica prechiere te coste a llu mortu, mor tu, tuttu te paru va sse dduna ca ca la capu se aź ava ava e sse bašciàva? Aź a e ccala, aź a e ccala. «Na sangu!» tisse «acquai li morti vii me pòrtanu! Mo’ azzu cu bìscia iu!» Cce fce? Sciu a rretu lla sacristia e ppijàu una te quiddhe stanghe ca se ùsanu cu pporti ‘n coddhu la Matonna ‘n prucissione. Se mise te coste ‘llu mortu e, quandu quistu sciu cu aź a la capu, aź àu àu la stanga e… ppumh! ne ssettàu nu corpu ‘n ronte e llu stise na fata pe’ ssempre: «Cusì ‘mpàranu cu mme pòrtanu li morti vii!» tisse papa Cajazzu. A llu crai poi cce fce? Sciu a llu vescuvu cu pprutesta. «‘Ccellenza, acquai li morti vii me pòrtanu! Su ccose quiste? E ccu ppozzu ccitìre unu ha tuccatu cu buttu lu sangu te cusìne!» tisse stizzatu papa Cajazzu passànduse lu tiscitòne te la manu ‘n ronte e šcettàndulu ‘n terra comu cu ddica ca ia sutatu sangu.
I morti vivi
Una volta, i preti di un paese non ne potevano più di tutto quello che combinava papa Galeazzo, e non sapevano come are per cacciarlo via. Pensa e ripensa, alla ne ebbero una trovata. C’era allora l’usanza di vegliare di notte i morti in chiesa e la veglia toccava a un prete. «Uno di noi» disse un prete «si nge morto, e la notte acciamo are la veglia a papa Galeazzo. Sul più bello, mentre a il morto, alza la testa e a prendere uno spavento a papa Galeazzo, così se ne scappa e non torna più.» E così u. Un prete si nse morto, si ecero i unerali, giunse la notte e a papa Galeazzo u assegnato il compito di vegliare la salma in chiesa. Era tutto intento mo’ a dire preghiere accanto al morto, quando, tutto ad un tratto, notò che la testa del morto s’alzava e s’abbassava: su e giù, su e giù. «To’! «T o’! sangue!» imprecò «qui i morti viv i mi portano! Mo’ gli accio vedere io!» Che ece? Si recò nel retro della sacrestia e prese una di quelle stanghe che si usano per portare in spalla la Madonna in processione. S’accostò al morto e, quando questo provò a sollevare la testa, alzò la stanga e… pumh! gli assestò un colpo in ronte tale che lo stese una volta per tutte. «Così imparano a portarmi i morti vivi» disse papa Galeazzo. E l’indomani che ece? Andò a protestare pure dal vescovo. «Eccellenza, qui i morti vivi mi portano! Sono cose queste? E per poterne ammazzare uno ho dovuto buttare il sangue così!» disse alterato papa Galeazzo, acendo il gesto di scrollarsi dalla ronte col pollice della mano destra il sangue presunto.
mOrti vii Li mOrti
I morti vivi
Na fata, li preti te nu paese nu’ nde putìanu cchiui te tuttu quiddhu ca ne cumbinava papa Cajazzu, e nnu’ ssapìanu comu ìanu are cu nde lu càccianu. càcci anu. E ccomu imu are e ccomu nu nu’’ imu are, alla fne ìppera na pensata. Tandu mo’ nc’era l’usanza ca lu prete ia vvegliare li morti te notte in ru ru lla chèsia. «Unu te nui» tisse nu prete «se fnge mortu, e lla notte acìmu cu llu vèja papa Cajazzu. A llu meju, men re re sta ace lu mortu, aź a la capu e ace cu sse schianta papa Cajazzu: armenu cusì se nde scappa e nnu’ ttorna cchiùi!» E ccusì oe. Nu prete se fnse mortu e sse ìcera li unerali, poi rriàu la notte e papa Cajazzu ippe lu còmpitu cu vveja lu mortu in ru ru lla chèsia. Men re re ca papa Cajazzu era tuttu ‘ntentu cu ddica prechiere te coste a llu mortu, mor tu, tuttu te paru va sse dduna ca ca la capu se aź ava ava e sse bašciàva? Aź a e ccala, aź a e ccala. «Na sangu!» tisse «acquai li morti vii me pòrtanu! Mo’ azzu cu bìscia iu!» Cce fce? Sciu a rretu lla sacristia e ppijàu una te quiddhe stanghe ca se ùsanu cu pporti ‘n coddhu la Matonna ‘n prucissione. Se mise te coste ‘llu mortu e, quandu quistu sciu cu aź a la capu, aź àu àu la stanga e… ppumh! ne ssettàu nu corpu ‘n ronte e llu stise na fata pe’ ssempre: «Cusì ‘mpàranu cu mme pòrtanu li morti vii!» tisse papa Cajazzu. A llu crai poi cce fce? Sciu a llu vescuvu cu pprutesta. «‘Ccellenza, acquai li morti vii me pòrtanu! Su ccose quiste? E ccu ppozzu ccitìre unu ha tuccatu cu buttu lu sangu te cusìne!» tisse stizzatu papa Cajazzu passànduse lu tiscitòne te la manu ‘n ronte e šcettàndulu ‘n terra comu cu ddica ca ia sutatu sangu.
Una volta, i preti di un paese non ne potevano più di tutto quello che combinava papa Galeazzo, e non sapevano come are per cacciarlo via. Pensa e ripensa, alla ne ebbero una trovata. C’era allora l’usanza di vegliare di notte i morti in chiesa e la veglia toccava a un prete. «Uno di noi» disse un prete «si nge morto, e la notte acciamo are la veglia a papa Galeazzo. Sul più bello, mentre a il morto, alza la testa e a prendere uno spavento a papa Galeazzo, così se ne scappa e non torna più.» E così u. Un prete si nse morto, si ecero i unerali, giunse la notte e a papa Galeazzo u assegnato il compito di vegliare la salma in chiesa. Era tutto intento mo’ a dire preghiere accanto al morto, quando, tutto ad un tratto, notò che la testa del morto s’alzava e s’abbassava: su e giù, su e giù. «To’! «T o’! sangue!» imprecò «qui i morti viv i mi portano! Mo’ gli accio vedere io!» Che ece? Si recò nel retro della sacrestia e prese una di quelle stanghe che si usano per portare in spalla la Madonna in processione. S’accostò al morto e, quando questo provò a sollevare la testa, alzò la stanga e… pumh! gli assestò un colpo in ronte tale che lo stese una volta per tutte. «Così imparano a portarmi i morti vivi» disse papa Galeazzo. E l’indomani che ece? Andò a protestare pure dal vescovo. «Eccellenza, qui i morti vivi mi portano! Sono cose queste? E per poterne ammazzare uno ho dovuto buttare il sangue così!» disse alterato papa Galeazzo, acendo il gesto di scrollarsi dalla ronte col pollice della mano destra il sangue presunto.
te papa papa c ajazzu L a ciuccia te
Na fata, papa Cajazzu se ccattàu na ciuccia e llu vinne ‘ssa pire tuttu lu paese. Ma nu’ ppassava giurnu ca quarchetunu nu’ nne ddumandava: «Papa Cajazzu, ma quantu te custa la ciuccia ca t’hai ccattata?» E nnu giurnu e ddoi e re… re… ‘nsomma sempre la stessa canzone, era propriu nu scurciamentu te cujùni e papa Cajazzu nu’ nde putìa cchiui. Allora cce fce? Tisse a llu sacristanu cu ssona le campane a mmotu cu cchiama in ru ru ‘lla chesia tutta la gente te lu paese. Quandu però se ruara ruara tutti in ru ru ‘lla chesia, tutti se ddumandàvanu pe’ pe’ cce ccàulu l’ia chiamati papa Cajazzu. «Siti propriu tutti? manca quarchetunu?» dumandàu papa Cajazzu tisu susu llu pùrpitu. «Beh, tutti propriu none: màncanu li s roppi r oppi e lli malati» ne rispùsera. «E allora nducíti puru quiddhi!» ne ordinàu papa Cajazzu. E šcìra e tturnàra cu lli s roppi r oppi e ccu lli malati. Quandu ca se ssicuràu ca èranu propriu tutti, papa Cajazzu tisse critandu, a mmodu cu llu sèntanu: «Ci vuliti ssapiti quantu me custa la ciuccia ca m’àggiu ccattatu, àggiu spisu cinque lire e nnu sordu… basta ca nu’ mme scurciati cchiùi li pampasciuni!»
La somara di papa Galeazzo
Una volta, papa Galeazzo si comprò una somara e tutto il paese lo venne a sapere. Ma non passava giorno che qualcuno non gli chiedesse: «Papa Galeazzo, ma quanto costa la somara che ti sei comprato?» Un giorno, due, tre… insomma sempre la stessa canzone: era proprio una scocciatura e papa Galeazzo non ne poteva più. Che ti ece allora? Ordinò al sacrestano di suonare le campane e chiamare in chiesa tutta la gente del paese. Quando si ritrovarono in chiesa, tutti a chiedersi per che cavolo li avesse chiamati papa Galeazzo. «Ci siete proprio tutti? manca qualcuno?» domandò dal pulpito papa Galeazzo. «Beh, tutti proprio no: mancano stroppi e malati» gli risposero. «E allora portate pure quelli!» ordinò papa Galeazzo. E andarono e tornarono con gli stroppi e con i malati. Assicuratosi che ossero proprio tutti, papa Galeazzo disse ad alta voce, per arsi meglio sentire: «Se volete sapere quanto costa la somara che mi sono comprato, presto detto: ho speso cinque lire e un soldo… basta che ora non mi rompete più li pampasciuni!»22
te papa papa c ajazzu L a ciuccia te
La somara di papa Galeazzo
Na fata, papa Cajazzu se ccattàu na ciuccia e llu vinne ‘ssa pire tuttu lu paese. Ma nu’ ppassava giurnu ca quarchetunu nu’ nne ddumandava: «Papa Cajazzu, ma quantu te custa la ciuccia ca t’hai ccattata?» E nnu giurnu e ddoi e re… re… ‘nsomma sempre la stessa canzone, era propriu nu scurciamentu te cujùni e papa Cajazzu nu’ nde putìa cchiui. Allora cce fce? Tisse a llu sacristanu cu ssona le campane a mmotu cu cchiama in ru ru ‘lla chesia tutta la gente te lu paese. Quandu però se ruara ruara tutti in ru ru ‘lla chesia, tutti se ddumandàvanu pe’ pe’ cce ccàulu l’ia chiamati papa Cajazzu. «Siti propriu tutti? manca quarchetunu?» dumandàu papa Cajazzu tisu susu llu pùrpitu. «Beh, tutti propriu none: màncanu li s roppi r oppi e lli malati» ne rispùsera. «E allora nducíti puru quiddhi!» ne ordinàu papa Cajazzu. E šcìra e tturnàra cu lli s roppi r oppi e ccu lli malati. Quandu ca se ssicuràu ca èranu propriu tutti, papa Cajazzu tisse critandu, a mmodu cu llu sèntanu: «Ci vuliti ssapiti quantu me custa la ciuccia ca m’àggiu ccattatu, àggiu spisu cinque lire e nnu sordu… basta ca nu’ mme scurciati cchiùi li pampasciuni!»
Una volta, papa Galeazzo si comprò una somara e tutto il paese lo venne a sapere. Ma non passava giorno che qualcuno non gli chiedesse: «Papa Galeazzo, ma quanto costa la somara che ti sei comprato?» Un giorno, due, tre… insomma sempre la stessa canzone: era proprio una scocciatura e papa Galeazzo non ne poteva più. Che ti ece allora? Ordinò al sacrestano di suonare le campane e chiamare in chiesa tutta la gente del paese. Quando si ritrovarono in chiesa, tutti a chiedersi per che cavolo li avesse chiamati papa Galeazzo. «Ci siete proprio tutti? manca qualcuno?» domandò dal pulpito papa Galeazzo. «Beh, tutti proprio no: mancano stroppi e malati» gli risposero. «E allora portate pure quelli!» ordinò papa Galeazzo. E andarono e tornarono con gli stroppi e con i malati. Assicuratosi che ossero proprio tutti, papa Galeazzo disse ad alta voce, per arsi meglio sentire: «Se volete sapere quanto costa la somara che mi sono comprato, presto detto: ho speso cinque lire e un soldo… basta che ora non mi rompete più li pampasciuni!»22
Pampasciuni in gergo è una metaora che sta per ‘coglio ‘coglioni’. ni’. Il lampaggione (termine maldestramente italianizzato) è in realtà una cipolletta selvatica di sapore amaro che costituisce una sciccheria gastronomica per le genti del Sud. 22
r L a cON ṭ ṭramiziONe amiziONe
Se cunta ca a Galàtune, na fata, papa Cajazzu, topu ca spicciàu te tire messa a ssuràgiu te nu mortu e buscatuse mille lire, essìu te chiesa20 cu ttorna ccasa, comu a llu sòlitu. Ma, ruàndusi ruàndusi a ppassare te coste ‘lla villa comunale, ne vinne cu schiatta te pišciare. Cce fce ‘llora? Na! rasìu rasìu in ru ru ‘lla villa, se aź àu àu la tonaca e sse mise ppišciare con ru ru nn àrberu cu tutti li sani sentimenti. Addhai ca na cuàrdia te la Comune se ddunàu ca papa Cajazzu sta ppisciava. E se vvicinàu e nne tisse: «Papa Cajazzu, sei in con ramizione! ramizione! Nu’ Nu’ sse pote pišciare pišcia re in ru ru lli sciardini comunali! «E quantu àggiu ppacare?» tisse papa Cajazzu. «Mille lire.» ne rispuse la cuàrdia. «Na! àggiu tittu messa pe’ llu cazzu!» tisse papa Cajazzu tuttu giratu te capu.
La contravve contravvenzione nzione
Si racconta che a Galàtone, una volta, papa Galeazzo, dopo aver celebrato una messa a suragio di un morto, intascò le mille lire dovutegli e uscì di chiesa per dirigersi come al solito verso casa. Ma, trovandosi a passare nei pressi della villa comunale, ebbe un bisogno impellente di pisciare. Che ti ece allora? To’! To’! entrò nella villa, s’alzò la tonaca e si mise a pisciare contro un albero con tutti i sani sentimenti. Lì che una guardia comunale si accorse di papa Galeazzo che pisciava. E si avvicinò e gli disse: «Papa Galeazzo, sei in contravvenzione! È vietato pisciare nei giardini pubblici!» «E quanto devo pagare?» disse papa Galeazzo. «Mille lire.» rispose la guardia. «To’! «T o’! ho detto messa per il cazzo!» disse papa Galeazzo tutto girato di testa.
La contravve contravvenzione nzione
r L a cON ṭ ṭramiziONe amiziONe
Se cunta ca a Galàtune, na fata, papa Cajazzu, topu ca spicciàu te tire messa a ssuràgiu te nu mortu e buscatuse mille lire, essìu te chiesa20 cu ttorna ccasa, comu a llu sòlitu. Ma, ruàndusi ruàndusi a ppassare te coste ‘lla villa comunale, ne vinne cu schiatta te pišciare. Cce fce ‘llora? Na! rasìu rasìu in ru ru ‘lla villa, se aź àu àu la tonaca e sse mise ppišciare con ru ru nn àrberu cu tutti li sani sentimenti. Addhai ca na cuàrdia te la Comune se ddunàu ca papa Cajazzu sta ppisciava. E se vvicinàu e nne tisse: «Papa Cajazzu, sei in con ramizione! ramizione! Nu’ Nu’ sse pote pišciare pišcia re in ru ru lli sciardini comunali! «E quantu àggiu ppacare?» tisse papa Cajazzu. «Mille lire.» ne rispuse la cuàrdia. «Na! àggiu tittu messa pe’ llu cazzu!» tisse papa Cajazzu tuttu giratu te capu.
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Si racconta che a Galàtone, una volta, papa Galeazzo, dopo aver celebrato una messa a suragio di un morto, intascò le mille lire dovutegli e uscì di chiesa per dirigersi come al solito verso casa. Ma, trovandosi a passare nei pressi della villa comunale, ebbe un bisogno impellente di pisciare. Che ti ece allora? To’! To’! entrò nella villa, s’alzò la tonaca e si mise a pisciare contro un albero con tutti i sani sentimenti. Lì che una guardia comunale si accorse di papa Galeazzo che pisciava. E si avvicinò e gli disse: «Papa Galeazzo, sei in contravvenzione! È vietato pisciare nei giardini pubblici!» «E quanto devo pagare?» disse papa Galeazzo. «Mille lire.» rispose la guardia. «To’! «T o’! ho detto messa per il cazzo!» disse papa Galeazzo tutto girato di testa.
A Collemeto si dice chesia oppure chiesa, ma quest’ultimo termine è più usato.
ṭra a ‘ LLi ca uistu vaLe pe ’ r LLi ca ź uNi uNi Q uistu vaLe ’ Quiddhu ca teGNu iN ṭ
Na fata, papa Cajazzu, ticendu messa, rriatu a llu puntu ca ia ddare la comunione, se šcerràu le parole ca ia ddire: nu’ sse mmentuava e nnu’ sse mmentuava. E nnu’ lla tese la comunione e le cristiane se nde turnara a ccasa senza. Sicché scìu a llu vescuvu cu nne cunta te ‘stu attu. «Na! ca si’ essa!» ne tisse lu vescuvu. «Ca te scrìi quiddhu ca hai ddire e tte lu minti in ra ra ‘lli caź uni uni e cusì nu’ tte scerri.» E papa Cajazzu cusì fce: se scrisse quiddhu ca ia ddire e se lu mise in ra ra ‘lli caź uni. uni. A llu crai, quandu ca se ruàu ruàu cu ddèscia la comunione, però, se šcerràu ntorna. Ma pensàu cu lla tescia lu stessu la comunione, a lli masculi sulamente però, ca a lle emmane se scurnava: a quiste ne passava nnanzi. E alli msaculi ne mintìa l’ostia 'm bucca e nne ticìa: «Quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu in ra ra lli caź uni; uni; quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu in ra ra ‘lli caź uni.» uni.» Scìu ntorna a llu vescuvu cu nne cunta comu era sciuta. E llu vescuvu ne tisse: «Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi nu’ ssuntu le èmmane?» A llu crai tisse messa ntorna, ma quandu scìu cu ddescia la comunione, gnenzi, nu’ sse ricurdava cu ddica. Ma ‘sta fata, tandu retta a llu vescuvu, tese la comunione a tutti: a masculi e emmane. E a ognunu ne ticìa: «Ciucciu bestia, ca comu c omu suntu li masculi nu’ ssuntu le èmmane? Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi, nu’ ssuntu le èmmane?»
Questo vale per quello che porto nei calzoni
Una volta, papa Galeazzo, nel dire messa, all’atto della comunione dimenticò le parole della ormula: 23 non si ricordava e non si ricordava. E non diede la comunione a nessuno e le cristiane tornarono a casa senza. Sicché si recò dal vescovo per raccontargli del atto. «To’! perché sei esso!» gli disse il vescovo. «Che ti scrivi le parole e le metti nei calzoni e così non le dimentichi.» E papa Galeazzo così ece: scrisse la ormula e se la mise in tasca. L’indomani, però, all’atto della comunione, dimenticò di nuovo le parole, ma pensò bene di dare la comunione ai maschi soltanto stavolta: alle emmine no, che si vergognava: a queste passava innanzi. E ai maschi metteva l’ostia in bocca e diceva: «Questo vale per quello che porto nei calzoni; questo vale per quello che porto nei calzoni.» Andò di nuovo dal vescovo a raccontargli l’accaduto. E il vescovo gli disse: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine?» E il giorno dopo, nel dire messa, all’atto della comunione, dimenticò ancora la ormula: non c’era verso che si ricordasse. Stavolta però diede retta al vescovo e comunicò maschi e emmine. E a tutti indistintamente porgeva la comunione e diceva: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine? Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine?»24
ṭra a ‘ LLi ca uistu vaLe pe ’ r LLi ca ź uNi uNi Q uistu vaLe ’ Quiddhu ca teGNu iN ṭ
Na fata, papa Cajazzu, ticendu messa, rriatu a llu puntu ca ia ddare la comunione, se šcerràu le parole ca ia ddire: nu’ sse mmentuava e nnu’ sse mmentuava. E nnu’ lla tese la comunione e le cristiane se nde turnara a ccasa senza. Sicché scìu a llu vescuvu cu nne cunta te ‘stu attu. «Na! ca si’ essa!» ne tisse lu vescuvu. «Ca te scrìi quiddhu ca hai ddire e tte lu minti in ra ra ‘lli caź uni uni e cusì nu’ tte scerri.» E papa Cajazzu cusì fce: se scrisse quiddhu ca ia ddire e se lu mise in ra ra ‘lli caź uni. uni. A llu crai, quandu ca se ruàu ruàu cu ddèscia la comunione, però, se šcerràu ntorna. Ma pensàu cu lla tescia lu stessu la comunione, a lli masculi sulamente però, ca a lle emmane se scurnava: a quiste ne passava nnanzi. E alli msaculi ne mintìa l’ostia 'm bucca e nne ticìa: «Quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu in ra ra lli caź uni; uni; quistu vale pe’ quiddhu ca tegnu in ra ra ‘lli caź uni.» uni.» Scìu ntorna a llu vescuvu cu nne cunta comu era sciuta. E llu vescuvu ne tisse: «Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi nu’ ssuntu le èmmane?» A llu crai tisse messa ntorna, ma quandu scìu cu ddescia la comunione, gnenzi, nu’ sse ricurdava cu ddica. Ma ‘sta fata, tandu retta a llu vescuvu, tese la comunione a tutti: a masculi e emmane. E a ognunu ne ticìa: «Ciucciu bestia, ca comu c omu suntu li masculi nu’ ssuntu le èmmane? Ciucciu bestia, ca comu suntu li masculi, nu’ ssuntu le èmmane?»
Questo vale per quello che porto nei calzoni
Una volta, papa Galeazzo, nel dire messa, all’atto della comunione dimenticò le parole della ormula: 23 non si ricordava e non si ricordava. E non diede la comunione a nessuno e le cristiane tornarono a casa senza. Sicché si recò dal vescovo per raccontargli del atto. «To’! perché sei esso!» gli disse il vescovo. «Che ti scrivi le parole e le metti nei calzoni e così non le dimentichi.» E papa Galeazzo così ece: scrisse la ormula e se la mise in tasca. L’indomani, però, all’atto della comunione, dimenticò di nuovo le parole, ma pensò bene di dare la comunione ai maschi soltanto stavolta: alle emmine no, che si vergognava: a queste passava innanzi. E ai maschi metteva l’ostia in bocca e diceva: «Questo vale per quello che porto nei calzoni; questo vale per quello che porto nei calzoni.» Andò di nuovo dal vescovo a raccontargli l’accaduto. E il vescovo gli disse: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine?» E il giorno dopo, nel dire messa, all’atto della comunione, dimenticò ancora la ormula: non c’era verso che si ricordasse. Stavolta però diede retta al vescovo e comunicò maschi e emmine. E a tutti indistintamente porgeva la comunione e diceva: «Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine? Ciuccio bestia, che come sono i maschi non sono le emmine?»24
23 Corpus domini nostri Jesu Christi custodiat animam tuam in vitam aeternam. Amen. 24 Il racconto gioca in modo allusivo quando papa Galeazzo pronuncia la ormula “… per quello che porto nei calzoni”.
L a chèsia pittata
Na fata, papa Cajazzu se mise ‘n capu cu ppitta te santi tutta la chèsia e chiamàu nu pittore ca ticìanu mo’ ca era mutu brau. Quistu però, prima sse minta atica, ne tisse a papa Cajazzu: «Papa Cajazzu, iu me mintu ppittare la chèsia, ma voju tte vvertu te na cosa: ci unu è fju te bbuttana nu’ ppote mai vitìre le fcure ca pittu iu: pe’ ccasticu te Diu.» «Anime sante mie!» fce papa Cajazzu «Quista è l’urtima cosa ca ia ssentire. Ccumìncia ‘ntantu, fju miu, ca pe’ quiddhu ca hai tittu, acquai nun c’ète cu ttieni pensieri.» E llu pittore se ggiustàu prima le ‘mparcature e poi zzaccàu cu ppitta li muri te la chèsia (ma iddhu mo’ acìa ddivetere: fnta acìa!). Passati ca ora nu pocu te giurni, papa Cajazzu rasìu rasìu in ru ru lla chèsia pe’ ccuriosità, ma… cuarda te cquai e ccuarda te ddhai, sine… lu vitìa lu pittore ca passava lu pinnieddhu, ma fcure fc ure nu’ nu’ nde vitìa propriu! Quandu lu pittore se ddunàu ca era rasutu rasutu papa Cajazzu, ne tisse: «Papa Cajazzu, cuarda cce beddhi santi ca t’àggiu pittatu: acquai nc’ete santu Paulu, acquai ac quai nc’ète santu Tomasi, Tomasi, acquai ac quai santu Vitu; a sta parte nvece t’àggiu attu la Matonna cu llu Bumbinieddhu, cchiù ddhai san Giseppu cu llu bastone furitu. Me resta cu azzu l’anime sante te lu Purgatoriu, li santi Cosimu e Ttamianu, la Vergine Ndolurata, la Vergine Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» Papa Cajazzu, a ddire lu veru, nu’ bitìa gnenzi, ma acìa lu stessu ca cuarda cu ll’occhi te maravìja. Anzi ne tisse a llu pittore: «Brau, brau, sta’ sta’ tte mmurtali propriu: ‘sta chèsia sta bene pro priu beddha!»
La chiesa dipinta
Una volta, papa Galeazzo si mise in testa di arescare la chiesa. Così chiamò un pittore che aveva ama di essere molto bravo. Costui però, prima di mettersi al lavoro, disse a papa Galeazzo: «Papa Galeazzo, io m’appresto ad arescare la chiesa, ma ti avverto di una cosa: se uno è glio di puttana, per castigo di Dio non vedrà mai le gure che dipingo io.» «Anime sante mie!» ece papa Galeazzo «Questa è proprio l’ultima cosa che dovevo sentire! Intanto comincia pure, glio mio, perché, per quello che hai detto, qui non c’è da stare in pensiero.» E il pittore innalzò dapprima le impalcature e poi prese ad arescare la chiesa. Ma tanto per ar vedere mo’, perché in realtà lui aceva nta di dipingere. Passati che urono un po’ di giorni, papa Galeazzo entrò in chiesa per curiosità, ma… guarda qui e guarda là, sì… notava il pittore che tirava di pennello, ma non vedeva proprio nessuna gura! Quando il pittore si accorse che era entrato papa Galeazzo, gli disse: «Papa Galeazzo, guarda che bei santi ti ho dipinto: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece t’ho atto la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone orito. Mi restano da are le anime sante del Purgatorio, i santi Cosimo e Damiano, la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e tanti angeli e angioletti del paradiso.» Papa Galeazzo a dire il vero non vedeva un accidente, ma guardava ugualmente con occhi di meraviglia. Anzi disse al pittore: «Bravo, bravo, ti stai proprio immortalando! Questa chiesa sta venendo proprio bella!»
L a chèsia pittata
La chiesa dipinta
Na fata, papa Cajazzu se mise ‘n capu cu ppitta te santi tutta la chèsia e chiamàu nu pittore ca ticìanu mo’ ca era mutu brau. Quistu però, prima sse minta atica, ne tisse a papa Cajazzu: «Papa Cajazzu, iu me mintu ppittare la chèsia, ma voju tte vvertu te na cosa: ci unu è fju te bbuttana nu’ ppote mai vitìre le fcure ca pittu iu: pe’ ccasticu te Diu.» «Anime sante mie!» fce papa Cajazzu «Quista è l’urtima cosa ca ia ssentire. Ccumìncia ‘ntantu, fju miu, ca pe’ quiddhu ca hai tittu, acquai nun c’ète cu ttieni pensieri.» E llu pittore se ggiustàu prima le ‘mparcature e poi zzaccàu cu ppitta li muri te la chèsia (ma iddhu mo’ acìa ddivetere: fnta acìa!). Passati ca ora nu pocu te giurni, papa Cajazzu rasìu rasìu in ru ru lla chèsia pe’ ccuriosità, ma… cuarda te cquai e ccuarda te ddhai, sine… lu vitìa lu pittore ca passava lu pinnieddhu, ma fcure fc ure nu’ nu’ nde vitìa propriu! Quandu lu pittore se ddunàu ca era rasutu rasutu papa Cajazzu, ne tisse: «Papa Cajazzu, cuarda cce beddhi santi ca t’àggiu pittatu: acquai nc’ete santu Paulu, acquai ac quai nc’ète santu Tomasi, Tomasi, acquai ac quai santu Vitu; a sta parte nvece t’àggiu attu la Matonna cu llu Bumbinieddhu, cchiù ddhai san Giseppu cu llu bastone furitu. Me resta cu azzu l’anime sante te lu Purgatoriu, li santi Cosimu e Ttamianu, la Vergine Ndolurata, la Vergine Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» Papa Cajazzu, a ddire lu veru, nu’ bitìa gnenzi, ma acìa lu stessu ca cuarda cu ll’occhi te maravìja. Anzi ne tisse a llu pittore: «Brau, brau, sta’ sta’ tte mmurtali propriu: ‘sta chèsia sta bene pro priu beddha!» E rriàu fnarmente lu giurnu ca lu pittore tisse ca ia spicciatu. Così smuntàu tutte le mparcature, se pijàu li sordi ca ia mpattatu e sse nde sciu ‘ngrazieteddìu.
Una volta, papa Galeazzo si mise in testa di arescare la chiesa. Così chiamò un pittore che aveva ama di essere molto bravo. Costui però, prima di mettersi al lavoro, disse a papa Galeazzo: «Papa Galeazzo, io m’appresto ad arescare la chiesa, ma ti avverto di una cosa: se uno è glio di puttana, per castigo di Dio non vedrà mai le gure che dipingo io.» «Anime sante mie!» ece papa Galeazzo «Questa è proprio l’ultima cosa che dovevo sentire! Intanto comincia pure, glio mio, perché, per quello che hai detto, qui non c’è da stare in pensiero.» E il pittore innalzò dapprima le impalcature e poi prese ad arescare la chiesa. Ma tanto per ar vedere mo’, perché in realtà lui aceva nta di dipingere. Passati che urono un po’ di giorni, papa Galeazzo entrò in chiesa per curiosità, ma… guarda qui e guarda là, sì… notava il pittore che tirava di pennello, ma non vedeva proprio nessuna gura! Quando il pittore si accorse che era entrato papa Galeazzo, gli disse: «Papa Galeazzo, guarda che bei santi ti ho dipinto: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece t’ho atto la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone orito. Mi restano da are le anime sante del Purgatorio, i santi Cosimo e Damiano, la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e tanti angeli e angioletti del paradiso.» Papa Galeazzo a dire il vero non vedeva un accidente, ma guardava ugualmente con occhi di meraviglia. Anzi disse al pittore: «Bravo, bravo, ti stai proprio immortalando! Questa chiesa sta venendo proprio bella!» Giunse nalmente il giorno in cui il pittore disse di aver nito il lavoro. Così smontò tutte le impalcature, intascò i soldi
Papa Cajazzu cce fce? Chiamàu lu sacristanu e nne ordinàu cu ssona le campane a mmotu cu lle sènta tutta la gente te lu l u paese: a mmotu cu begna in ru ru lla chèsia e ccu la vìscia tutta pittata.» E a llu sonu te le campane tutti li cristiani essìra te casa e šcira in ru ru lla chèsia. Quandu ca se nchiu beddha beddha, papa Cajazzu salìu susu lu purpitu e ttaccàu la spieca: «Cristiani mii, b’àggiu chiamati cu azzu cu mmirati le fcure ca àggiu attu pittare in ru ru lla chèsia. Comu pututi vitire: acquai nc’ete santu Paulu, acquai nc’è santu Tomasi, acquai santu Vitu; a sta parte nvece la Matonna cu llu Bumbinieddhu, a ddhai san Giseppu cu llu bastone furitu, cchiù ssotta hae h ae l’anime sante te lu Purgatoriu e lli santi Cosimu e Ttamianu, cchiù ssusu la Vergine Ndolurata, la Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» «Papa Cajazzu, ma nui nu’ sta bitìmu gnenzi!» ne ccuminciàra ddire tutti li cristiani. «Sapiti cce be ticu ‘llora? Ca siti tutti fji te bbuttana!» critàu orte papa Cajazzu cu llu sèntanu tutti.
che aveva pattuito e se ne andò ingraziadiddio. Che ti ece papa Galeazzo? Chiamò il sacrestano e gli ordinò di suonare le campane per la gente del paese, perché tutti venissero in chiesa ad ammirare la bellezza d egli areschi.» E al suono delle campane tutti i paesani p aesani uscirono di casa e si recarono in chiesa. Quando la chiesa si riempì bella bella, papa Galeazzo salì sul pulpito e cominciò il discorso: «Cristiani miei, vi ho chiamati per arvi ammirare le gure che ho atto dipingere in chiesa. Come potete vedere: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone orito, là sotto le anime sante del Purgatorio e i santi Cosimo e Damiano, là sopra la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e t anti angeli e angioletti del paradiso.» «Papa Galeazzo, ma noi non vediamo niente!» presero a borbottare i parrocchiani. «Sapete che vi dico allora? Che siete tutti gli di puttana!» disse orte papa Galeazzo in modo che tutti l’avessero a sentire.
Papa Cajazzu cce fce? Chiamàu lu sacristanu e nne ordinàu cu ssona le campane a mmotu cu lle sènta tutta la gente te lu l u paese: a mmotu cu begna in ru ru lla chèsia e ccu la vìscia tutta pittata.» E a llu sonu te le campane tutti li cristiani essìra te casa e šcira in ru ru lla chèsia. Quandu ca se nchiu beddha beddha, papa Cajazzu salìu susu lu purpitu e ttaccàu la spieca: «Cristiani mii, b’àggiu chiamati cu azzu cu mmirati le fcure ca àggiu attu pittare in ru ru lla chèsia. Comu pututi vitire: acquai nc’ete santu Paulu, acquai nc’è santu Tomasi, acquai santu Vitu; a sta parte nvece la Matonna cu llu Bumbinieddhu, a ddhai san Giseppu cu llu bastone furitu, cchiù ssotta hae h ae l’anime sante te lu Purgatoriu e lli santi Cosimu e Ttamianu, cchiù ssusu la Vergine Ndolurata, la Vergine te lu Càrminu, quiddha te lu Rusariu e tanti angeli e angilieddhi te lu paratisu.» «Papa Cajazzu, ma nui nu’ sta bitìmu gnenzi!» ne ccuminciàra ddire tutti li cristiani. «Sapiti cce be ticu ‘llora? Ca siti tutti fji te bbuttana!» critàu orte papa Cajazzu cu llu sèntanu tutti.
che aveva pattuito e se ne andò ingraziadiddio. Che ti ece papa Galeazzo? Chiamò il sacrestano e gli ordinò di suonare le campane per la gente del paese, perché tutti venissero in chiesa ad ammirare la bellezza d egli areschi.» E al suono delle campane tutti i paesani p aesani uscirono di casa e si recarono in chiesa. Quando la chiesa si riempì bella bella, papa Galeazzo salì sul pulpito e cominciò il discorso: «Cristiani miei, vi ho chiamati per arvi ammirare le gure che ho atto dipingere in chiesa. Come potete vedere: qui c’è san Paolo, qui c’è san Tommaso, Tommaso, qui san Vito; da questa parte invece la Madonna col Bambinello, più in là san Giuseppe Patriarca col bastone orito, là sotto le anime sante del Purgatorio e i santi Cosimo e Damiano, là sopra la Vergine Addolorata, la Vergine del Carmine, quella del Rosario e t anti angeli e angioletti del paradiso.» «Papa Galeazzo, ma noi non vediamo niente!» presero a borbottare i parrocchiani. «Sapete che vi dico allora? Che siete tutti gli di puttana!» disse orte papa Galeazzo in modo che tutti l’avessero a sentire.
NciNtu p apa c ajazzu ‘ NciNtu
Foe ca papa Cajazzu nu' stia bonu e llu tuttore ne ordinàu cu sse azza l’analisi te le urine. Nu’ pputendu scire personalmente, però, papa Cajazzu ncaricàu sòrusa cu lle porta iddha a llu spitale. E nne tese la buttijeddha china te urine. Addhai ca sòrusa, ca mo’ era nu pocu essa, s rata r ata acendu, mbersàu la buttijeddha e sse devacàu tuttu lu pišciaturu. «Na!» tisse «e mmo’ cce àggiu tturnare rretu? Ca la ìnchiu iu la buttijeddha e gh’ete lu stessu.» Quandu ca a papa Cajazzu ne rriàra li risurtati te l’analisi, cce šciu tte legge? Na! ca era ssutu‘ncintu. Sciu ‘llora te pressa a llu tuttore tuttu chinu te pensieri «Ca mo’ ‘sta cosa nu’ pputìa essere» ticìa. Addhai ca lu tuttore la vutàu a llu scherzu e nne tisse: «Papa Cajazzu, nu’ tte sta’ pproccupare. Vene ddire ca ‘ppena te sienti li primi tuluri, sali susu nn arberu e tte meni te ddha ssusu: cusì ccatti lu vagnone.» Quandu ca passàra nu poccu te misi, a papa Cajazzu ne vìnnera certi tuluri te pansa ca nu’ nde putìa cchiùi. Se ricurdàu ‘llora te quiddhu ca n’ia tittu lu tuttore. Sciu e sse rrampicàu susu nn arberu e sse menàu te ddha ssusu. Addhai ca nu cunìju ca stia scusu in ru ru l’erba se nde scappàu propriu te sotta ‘ll’anche: «San gu!» fce papa Cajazzu «Sta tte nde uci, fju miu? Ca armenu spetta cu tte battezzu!»
Papa Galeazzo incinto
Fu che papa Galeazzo non stava bene e il dottore gli ordinò di arsi le analisi delle urine. Non potendo portarle di persona, però, papa Galeazzo incaricò sua sorella di portarle all’ospedale. E le consegnò la bottiglietta con le urine. Lì che la sorella, che mo’ era un po’ essacchiotta, strada acendo, inclinò inavvertitamente la bottiglietta e le urine si svuotarono. To’!» disse «e mo’ mi tocca tornare a casa? Ci verso dentro la mia di urina e a lo stesso.» Quando papa Galeazzo ebbe i risultati delle analisi, che ti andò a leggere? Che era incinto. Si recò in tutta retta dal dottore, allora, pieno di tanti pensieri, chiedendosi come poteva darsi questa cosa. Lì che il dottore, dopo aver dato uno sguardo alle analisi, gli disse sullo scherzo: «Papa Galeazzo, non starti a preoccupare. Vuol dire che appena ti vengono i primi dolori, sali su di un albero e ti lanci per terra: così ti nascerà il bambino.» Quando trascorsero un po’ di mesi, a papa Galeazzo vennero certi dolori di pancia da non poterne più. Ricordandosi delle parole del dottore, andò a cercare un albero, vi si arrampicò sulla cima e si lanciò. Ma, nel toccare terra, un coniglio, che se ne stava nascosto nell’erba, gli scappò da sotto le gambe: «Sangue!» ece papa Galeazzo «te ne scappi, glio mio? Aspetta almeno che ti battezzi!»
NciNtu p apa c ajazzu ‘ NciNtu
Papa Galeazzo incinto
Foe ca papa Cajazzu nu' stia bonu e llu tuttore ne ordinàu cu sse azza l’analisi te le urine. Nu’ pputendu scire personalmente, però, papa Cajazzu ncaricàu sòrusa cu lle porta iddha a llu spitale. E nne tese la buttijeddha china te urine. Addhai ca sòrusa, ca mo’ era nu pocu essa, s rata r ata acendu, mbersàu la buttijeddha e sse devacàu tuttu lu pišciaturu. «Na!» tisse «e mmo’ cce àggiu tturnare rretu? Ca la ìnchiu iu la buttijeddha e gh’ete lu stessu.» Quandu ca a papa Cajazzu ne rriàra li risurtati te l’analisi, cce šciu tte legge? Na! ca era ssutu‘ncintu. Sciu ‘llora te pressa a llu tuttore tuttu chinu te pensieri «Ca mo’ ‘sta cosa nu’ pputìa essere» ticìa. Addhai ca lu tuttore la vutàu a llu scherzu e nne tisse: «Papa Cajazzu, nu’ tte sta’ pproccupare. Vene ddire ca ‘ppena te sienti li primi tuluri, sali susu nn arberu e tte meni te ddha ssusu: cusì ccatti lu vagnone.» Quandu ca passàra nu poccu te misi, a papa Cajazzu ne vìnnera certi tuluri te pansa ca nu’ nde putìa cchiùi. Se ricurdàu ‘llora te quiddhu ca n’ia tittu lu tuttore. Sciu e sse rrampicàu susu nn arberu e sse menàu te ddha ssusu. Addhai ca nu cunìju ca stia scusu in ru ru l’erba se nde scappàu propriu te sotta ‘ll’anche: «San gu!» fce papa Cajazzu «Sta tte nde uci, fju miu? Ca armenu spetta cu tte battezzu!»
Fu che papa Galeazzo non stava bene e il dottore gli ordinò di arsi le analisi delle urine. Non potendo portarle di persona, però, papa Galeazzo incaricò sua sorella di portarle all’ospedale. E le consegnò la bottiglietta con le urine. Lì che la sorella, che mo’ era un po’ essacchiotta, strada acendo, inclinò inavvertitamente la bottiglietta e le urine si svuotarono. To’!» disse «e mo’ mi tocca tornare a casa? Ci verso dentro la mia di urina e a lo stesso.» Quando papa Galeazzo ebbe i risultati delle analisi, che ti andò a leggere? Che era incinto. Si recò in tutta retta dal dottore, allora, pieno di tanti pensieri, chiedendosi come poteva darsi questa cosa. Lì che il dottore, dopo aver dato uno sguardo alle analisi, gli disse sullo scherzo: «Papa Galeazzo, non starti a preoccupare. Vuol dire che appena ti vengono i primi dolori, sali su di un albero e ti lanci per terra: così ti nascerà il bambino.» Quando trascorsero un po’ di mesi, a papa Galeazzo vennero certi dolori di pancia da non poterne più. Ricordandosi delle parole del dottore, andò a cercare un albero, vi si arrampicò sulla cima e si lanciò. Ma, nel toccare terra, un coniglio, che se ne stava nascosto nell’erba, gli scappò da sotto le gambe: «Sangue!» ece papa Galeazzo «te ne scappi, glio mio? Aspetta almeno che ti battezzi!»
Quelli che m’hanno raccontato quand’ero bambino
Nonno materno Pasquale Giustizieri (Neviano 1887 – Collemeto 1974) Nonna materna Maria Neve De Blasi (Neviano 1889 – Collemeto 1983) Mio padre Giovanni Romano (Collemeto 1914 – Collemeto 1986) Mia madre Lucia Giustizieri (Neviano 1919 – Collemeto 1994) Zia suor Luigina Giustizieri, al secolo Rosina (Neviano 1931 -) Zia suor Teresina Giustizieri, al secolo Cosimina (Neviano 1933 -) I miei ratelli Aldo, Angelo ed Eugenio mi hanno arricchito i racconti con alcune espressioni, dei particolari e qualche variante. Eugenio, in particolare, mi ha ricordato il racconto La ja cu lli urri.
Quelli che m’hanno raccontato quand’ero bambino
Nonno materno Pasquale Giustizieri (Neviano 1887 – Collemeto 1974) Nonna materna Maria Neve De Blasi (Neviano 1889 – Collemeto 1983) Mio padre Giovanni Romano (Collemeto 1914 – Collemeto 1986) Mia madre Lucia Giustizieri (Neviano 1919 – Collemeto 1994) Zia suor Luigina Giustizieri, al secolo Rosina (Neviano 1931 -) Zia suor Teresina Giustizieri, al secolo Cosimina (Neviano 1933 -) I miei ratelli Aldo, Angelo ed Eugenio mi hanno arricchito i racconti con alcune espressioni, dei particolari e qualche variante. Eugenio, in particolare, mi ha ricordato il racconto La ja cu lli urri.
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