Mario Di Febo
Teologia Morale Fondamentale
Appunti tratti dalle lezioni di Teologia Morale 1 del Prof. Don Sabatino Majorano Corso di Teologia per Laici, AA 2013-2014
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INDICE 1. Definizioni e Ambiti 2. Morale e Storia 2.1 La concezione ellenistica 2.2 Antico Testamento 2.3 L’etica cristiana 2.4 Il Modernismo 2.5 I Maestri del Sospetto 2.6 La riflessione sull’etica nel XX secolo 3. La Proposta Morale oggi 3.1 Crisi e prospettive 3.2 Attualità della problematica morale 3.3 Proposta morale cristiana 4. Il Metodo della Teologia Morale 4.1 Coscienza 4.2 Il discernimento morale 5. In cammino di liberazione e di crescita verso la pienezza 5.1 Il peccato e i peccati 5.2 Un cammino di crescente conversione Appendice 1 – La Critica della Ragion Pratica Appendice 2 – Sulla Coscienza Appendice 3 – Benedetto XVI “La Coscienza Erronea” Appendice 4 - Legge temporale e divina Appendice 5 - Sistemi morali
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1. Definizioni e Ambiti Il termine morale (dal latino mores, pl. mos) significa costume, nel senso di atteggiamenti, modi di agire, di comportarsi. L’espressione latina moralitas risale a Cicerone, che la coniò quale corrispettivo latino del greco ethos da cui deriva un altro termine greco caro ad Aristotele, Etica, usato per denominare tre sue opere. Entrambi i termini (latino e greco) non indicano solo il costume di un popolo, ma ciò che in un dato tempo e luogo è riconosciuto come giusto, ossia come conforme al dover agire dell’uomo affinché possa realizzare compiutamente la sua umanità. Nella cultura moderna l’etica indica la scienza dell’ethos, che articola al suo riguardo una riflessione sistematica e critica mentre la morale indica, nel comportamento umano, la scienza della condotta, nel senso di ciò che si deve fare e non fare affinché l’uomo possa effettivamente diventare ciò che deve essere. Sotto altri profili l'etica può essere descrittiva se descrive il comportamento umano, mentre è normativa (o prescrittiva) se fornisce indicazioni. E, da altri punti di vista, può definirsi soggettiva, quando si occupa del soggetto che agisce, indipendentemente da azioni od intenzioni, ovvero oggettiva, quando l'azione è relazionata ai valori comuni ed alle istituzioni.
2. Morale e Storia
Ha avuto molta fortuna in passato la cosiddetta “teoria della vernice”, cioè l’idea che la morale umana sia come una sottile pellicola superficiale che copre il nocciolo, profondamente amorale, della sua natura. Così pensava il darwiniano Thomas H. Huxley, inventando la celebre metafora del giardino vittoriano in cui la moralità è come un parco ben curato protetto da una cinta muraria che lo separa dalla giungla esterna, regno della guerra, della lotta per la sopravvivenza, dell’indifferenza morale e persino dell’immoralità. Al contrario il primatologo Frans de Waal1 non condivide e confuta questa impostazione sostenendo che l’etica scaturisce da potenzialità insite nella nostra storia naturale, si basa sulle emozioni ed emerge dalle nostre competenze nelle interazioni sociali, non è imposta dall’alto attraverso principi astratti e universali. Nei suoi studi sui primati de Waal evidenzia importanti comportamenti pro-sociali (cooperazione, risoluzione dei conflitti, altruismo) negli animali a noi più strettamente 1
Etologo della Emory University di Atlanta considerato uno dei più importanti saggisti al mondo.
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imparentati: atti altruistici spontanei, solidarietà sociale, gratitudine, reciprocità, altruismo, empatia, compassione, amicizia e persino un senso embrionale di giustizia nel rifiutare lo scambio iniquo. In questi comportamenti de Waal riconosce le basi etologiche della moralità umana, cioè la piattaforma evolutiva dei sentimenti e delle intuizioni morali che a loro volta condizionano i giudizi morali. Ma allora in che cosa consiste l’unicità umana? Secondo de Waal, sta nell’estensione inedita di queste potenzialità già presenti, nella loro cooptazione in contesti ecologici e sociali nuovi. In particolare, i primati non umani hanno una moralità individuale, diretta, emotiva. Noi invece concepiamo, in più, l’idea generale di equità, abbiamo cioè un concetto di comunità, estendiamo il nostro gruppo fino a includere l’intera specie umana come soggetto di diritti inalienabili. Ma soprattutto, lo scimpanzé non è un “essere morale” nel senso che non ha un giudizio morale argomentato attraverso ragioni astratte, non discute di valutazioni sul bene e sul male di comportamenti e azioni che non lo riguardano direttamente, non ha valutazioni sulla naturalità o meno di un comportamento sessuale. Al di là della polemica creazione/evoluzione, anche una sommaria analisi dei rispettivi comportamenti evidenzia che la differenza tra umani e primati non è quantitativa ma piuttosto qualitativa. Tra l’animale e l’uomo c’è un salto ontologico, uno scarto dove Dio emerge come concausa. “Non c'è continuità tra l'uomo e gli altri esseri. E' come se l'uomo fosse nato d'improvviso, d'un balzo, cioè in modo non darwiniano. Il salto ontologico è stato anche un salto biologico. L'uomo è nato uomo e non da un bruto, e non per gradi. Tutto ciò che è grande nasce grande...” (G. Sermonti "Dimenticare Darwin") Si spiega così perché le regole morali e le norme sociali precedono di molto le concezioni religiose nella storia umana. La religione si è innestata a posteriori nella nostra spiccata socialità di gruppo e l’ha rafforzata, divenendo un fenomeno umano universale e ineluttabile. Il punto è che non sarebbe possibile elaborare un principio astratto di solidarietà se non avessimo già al nostro interno una propensione sociale: le condizioni di possibilità di quel giudizio morale vengono dal di dentro.
2.1 La concezione ellenistica Nel primo mondo greco i poemi omerici affermano la superiorità di virtù (coraggio e pietà verso gli dei) adeguate sostanzialmente alla vita del guerriero. Più tardi invece, di fronte alle nuove esigenze di una società contadina, Esiodo esalta virtù come l’operosità e la frugalità. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Il dibattito sui fini della condotta umana fu particolarmente vivace nella cultura ateniese del 5° sec. a.C. che vide i sofisti sottolineare l’origine umana e non divina dei valori etici in quanto riconducibili all’imposizione dello Stato o di gruppi di cittadini più forti. I sofisti sono dunque i primi educatori civili, perché sono i primi a sostenere che le virtù sono molteplici e insegnabili. Socrate (469 - 399 a.C.), considerato il padre fondatore dell'etica, esercita una riflessione antropologica ed etica, quindi incentrata sul comportamento dell'uomo. Non ha lasciato nessuno scritto, ma la conoscenza della sua teoria etica è resa possibile attraverso i dialoghi di Platone. L'interrogazione sul tò agathòn ("Bene") avviene ricercando la sophia ("sapienza") attraverso criteri razionali basati su una concezione universale della morale, in antitesi alla sofistica. La sua etike theoria ("teoria etica") consiste nell'intellettualismo etico, secondo cui il bene si realizza praticando la virtù del sapere: per fare il bene occorre conoscerlo. La ricerca del bene finalizzato alla verità si attua nel dialogos (l'argomentare della conversazione) che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (confutazione), applicandolo prevalentemente all'esame in comune (extazein) di concetti morali fondamentali, tendendo alla verità su sé stessi (dàimon) per perseguire sia il bene privato, sia quello della polis (città). Ciò è possibile sviluppando in sé l'areté (virtù o disposizione) che consiste nella sapienza, ovvero nella scienza del bene e in un legame di solidarietà e giustizia tra gli uomini. Socrate vuole combattere sia il relativismo etico dei sofisti e per far ciò ritorna in un certo senso alla tradizione, al fine di estrapolare da essa gli elementi che rendono l'uomo migliore, recuperando la concezione di ordine morale inteso come riflesso dell'ordine del cosmo. Socrate tenta di stabilire la natura stessa della virtù, si pone il problema della definibilità della virtù e giunge alla determinazione concettuale della definizione attraverso il τι εστι (la domanda "che cosa è?") che lo porta a definire la natura della virtù, evidenziandone l'invarianza rispetto alle mutevoli nozioni del bene: l’universale è essenzialmente l’universale etico, secondo cui il vero vantaggio coincide con il vero bene e, quindi, il bene dell'individuo si risolve necessariamente nel bene universale. La riflessione di Platone (427-347 a.C.), pur essendo anche metafisica e ontologica, è analogamente incentrata sull'uomo e sull'etica. Per Platone il tò agathòn (bene o buono) consiste nell'idea (eidos) del Bene, origine di tutto, che è la conoscenza massima, situata al di sopra della conoscenza discorsiva o razionale (diànoia): come in Socrate, pertanto, essa non può essere insegnata o trasmessa verbalmente, non essendo sottoponibile a una discussione pubblica intorno M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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alla sua essenza; soltanto il sapiente potrà riconoscere l'indefinibilità assoluta del bene, possedendo la scienza di ciò che è utile per la comunità intera. Se non è possibile dire cosa è il bene, si può almeno dire cosa non è: esso è diverso dal piacere come grattarsi una ferita che prude; è diverso dal bello perché non è automaticamente utilità o vantaggio. Per giungere a conoscere l'idea del Buono occorre fare uso del dialogos socratico, al fine di purificare il sapere tipico della dianoia (ragione) e del nous (intelligenza), elevandosi al di sopra della doxa (opinione) per giungere infine all'episteme (scienza), passando attraverso i quattro gradi del conoscere: 1.
Immagini sensibili (eikasia);
2.
Credenza (pistis);
3.
Ragione discorsiva (dianoia);
4.
Intellezione (nous o noesis).
Si arriva così alla fine a conoscere la relazione tra tutte le idee (dialettica) fino all'idea suprema di Bene, Una e universale, "al di là dell'essere" (epekeina tes ousias), cercata per sé stessa poiché compiuta (teleon). Rifacendosi alle concezioni orfico-pitagoriche, Platone gioca sull'assonanza sema e soma ("corpo" e "tomba") dell'anima, costretta a espiare una colpa attraverso la caduta nel corpo; egli sostiene che l'anima possa uscire provvisoriamente dal ciclo delle reincarnazioni, per poi tornarvi in forma degenerata, oppure, in alternativa uscirne definitivamente e tornare presso gli dèi. Nel Fedone, invece, Platone si mantiene più vicino alla tradizione orfica e sostiene che l'anima o raggiunge gli dèi o si reincarna sempre. Non si può essere felici senza essere morali. Ritorna inoltre in Platone l'intellettualismo etico, perché l'aretè ("virtù") consiste per i filosofi nella sophia ("sapienza"), mentre per i guerrieri nell'andreia ("coraggio"), e per la classe dei produttori nella sophrosyne ("temperanza"), secondo la sua concezione dello Stato filosofico. La dikaiosyne ("giustizia") scaturisce per la città dalla conoscenza e dall'armonico conseguimento del rispettivo bene da parte di ognuna delle tre classi. In Aristotele (384 - 322 a.C.), a cui dobbiamo il termine etica, la riflessione è antropologica e ontologica. In tutte le sue opere i temi principali vengono affrontati sempre nella medesima successione: 1.
Il concetto del Bene Supremo e della Felicità
2.
La virtù etica in generale e le virtù etiche in particolare
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3.
Le virtù dianoetiche2 o intellettuali
4.
I vizi, la mancanza di autocontrollo
5.
L'amicizia
6.
La virtù perfetta, la felicità completa.
Lo scopo dell'etica aristotelica è la realizzazione di ciò che è il bene per il singolo individuo. Egli non pensa che il fine dell'etica sia il raggiungimento del bene assoluto come lo intendeva Platone, di quell'idea del bene supremo principio della realtà e del mondo delle idee e quindi estraneo alla vita pratica dell'uomo. Tuttavia il bene supremo è alla portata dell'uomo con il conseguimento della eudaimonia, la felicità, che si può conseguire solo quando questa è autosufficiente, nel senso che la felicità ad esempio non può essere la ricchezza poiché questa è un mezzo da utilizzare per altri fini. Per Aristotele la felicità deve essere qualcosa di desiderabile per sé stessa, e questa è solo «l'opera (o attività) propria dell'uomo» cioè l'esercizio di quella facoltà che caratterizza l'uomo, l'attività razionale, un agire pratico secondo la ragione che però arrecherà felicità solo se compiuto in modo eccellente. Per l'uomo quindi la felicità sarà l'esercizio eccellente di opere conoscitive e pratiche della ragione. In Aristotele cade l'idea platonica per cui il bene del singolo è il bene assoluto che è l'essere. L'etica non è più scienza dell'essere, ma scienza del divenire. Aristotele dunque, proponendosi la fondazione dell'etica come sapere pratico autonomo è un cognitivista etico, al pari di Kant. La filosofia deve, quindi, formare l'uomo aiutandolo a scoprire il modo di agire per raggiungere il bene. Nell'Etica Nicomachea Aristotele si domanda in primo luogo cosa è il bene per l'uomo, cosa è l'ευδαιμονια (generalmente tradotta come "felicità"). E il bene per l'uomo è "ciò verso cui ogni cosa per natura tende". Ogni cosa, per Aristotele è in costante evoluzione, proprio perché ogni cosa si evolve, cerca di raggiungere un fine superiore alla posizione in cui si trova, tende, dunque, ad un fine ultimo che è il suo proprio fine naturale. Ogni cosa tende a realizzare sé stessa, per essere sé stessa. Aristotele propone una distinzione fondamentale fra virtù etiche e virtù dianoetiche: •
sono etiche quelle virtù della orexis, della zona desiderante e passionale;
•
sono dianoetiche quelle virtù che si conseguono attraverso l'insegnamento, per cui il loro spazio è quello della scuola e del sapere teorico.
2 Nella morale aristotelica le virtù si distinguono in dianoetiche, riferite alla ragione discorsiva o conoscitiva (διάνοια,
dianoia) ed etiche, (da
εθος (o ήθος), ethos) "carattere", "comportamento", "costume", "consuetudine", riguardanti l’attività pratica. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Ciò che è fondamentale per Aristotele è la phronesis, la prudenza, perché questa è il sapere che orienta all'azione e solo la phronesis, facendosi habitus (o disposizione morale), consente non solo di discernere i fini da perseguire, ma anche di individuare i mezzi con cui realizzarli. Aristotele critica duramente Platone e la sua concezione della morale. Platone sosteneva che l'immortalità dell'anima è il vero soggetto della felicità morale; Aristotele rinuncia ad una concezione dell'anima come individualmente immortale. Il premio per chi agisce bene è, per Aristotele, la felicità in questa vita e in questo mondo e, di conseguenza, non vi sarà altro dolore e punizione per chi agirà male che l'infelicità in questa vita ed in questo mondo. Aristotele critica Platone anche per la sua idea che il bene sia qualcosa di comune che si dice con una sola idea. Non è possibile parlare di bene in senso unitario se non per analogia, per Aristotele ci sono tre tipi di bene: 1. il bene in sé, vale a dire l'eudaimonia 2. il bene per altro, ossia un effetto desiderato in funzione di un altro fine, per cui questo bene risulta essere un mezzo più che un vero e proprio fine. 3. il bene universale, dei molti, dei cittadini della polis che vale più del singolo bene per cui la politica viene a coincidere con la ricerca del bene di tutti. Anche l’etica post-aristotelica conferma l'identificazione del bene supremo come raggiungimento della felicità. L’edonismo di Epicuro fu anzitutto esigenza di liberazione dell’uomo dal timore di superiori fini, o volontà, che dominassero il mondo: l’uomo restava pienamente libero, slegato dalle cose, e il piacere consisteva in una tranquilla calma dell’animo, pago di sé e non indotto a uscire da sé per occuparsi del mondo. Questo ascetismo edonistico degli epicurei finiva così per coincidere, nel suo ideale di atarassia3, con l’ideale di apatia e di indifferenza proprio dell’ascetismo rigoristico dei cinici. Il cinismo assicurava all’uomo la più completa libertà che mai esso avesse potuto desiderare, ma insieme, affrancandolo da ogni motivo d’azione, gliela rendeva perfettamente inutile. Alla concezione cinica dell’io reagì lo stoicismo, pur nell’accettazione dell’ideale dell’autarchia e dell’indifferenza, in quanto vide nel mondo stesso il divino e nell’accadere il realizzarsi di un fato razionale, che nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell’accettazione. Col neoplatonismo si ebbe una ripresa di motivi tipici dell’etica platonica ma con un’accentuata impronta mistica, che trasfigurava la dottrina delle virtù in funzione dell’ascesi e della ricongiunzione con Dio. (vai a indice) 3
L'atarassia (dal greco, ἀταραξία, assenza di agitazione, tranquillità ) è un termine filosofico, già usato da Democrito, ma adottato principalmente dalle scuole post-aristoteliche stoica, epicurea e scettica per designare «la perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione delle passioni» nel più ampio contesto della filosofia etica legata alla ricerca della felicità.
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2.2 Antico Testamento Una svolta radicale nella storia della morale si ha quando Israele riceve la rivelazione e sotto ispirazione le antiche tradizioni orali vengono messe per iscritto dando luogo alla Torah: collezione di libri di autori ed epoche diverse, esprimenti insistenze teologiche molteplici, che affrontano o espongono le questioni morali in modi molto differenti, a volte nei quadri di testi legislativi o di discorsi prescrittivi, a volte nel quadro di racconti che hanno per oggetto la rivelazione del mistero della salvezza o presentano esempi concreti di vita morale, sia negativi sia positivi. La Torah, che significa "l'insegnamento" per eccellenza, comprende la dottrina e la pratica, la religione e la morale. La Torah è la diretta conseguenza del Patto del Sinai nel suo duplice aspetto universale e nazionale. Mentre i Dieci Comandamenti indicano la sostanza e la portata della universale "missione sacerdotale" di Israele, gli altri Comandamenti erano intesi a preparare Israele a quella santità che doveva praticare, in quanto nazione chiamata a diventare "santa per Dio". La santità doveva essere introdotta nel dominio religioso e morale. Per quanto riguarda la religione, la santità richiedeva "negativamente" il ripudio dell'idolatria e delle sue avvilenti e degradanti pratiche, quali: i sacrifici umani, la prostituzione sacra, la divinazione e la magia; e "positivamente" l'adozione di un culto e di un rituale che erano nobilitanti ed esaltanti. Per quanto riguarda la morale, la santità richiedeva "negativamente" che si resistesse a tutti quegli impulsi naturali che fanno dell'egoismo l'essenza della vita umana; e "positivamente" che si obbedisse a un'etica incentrata sul servizio del prossimo. Nel corso del tempo inoltre si assiste a una diversa evoluzione e affinamento della sensibilità e delle motivazioni morali. I tratti fondamentali della morale veterotestamentaria [VT], tenendo conto della varietà dei libri, degli sfondi, degli influssi culturali e del vasto arco di tempo occupato dalla redazione, si possono così sintetizzare: •
Tutta la morale VT è una morale religiosa. La motivazione ultima e decisiva è la santità stessa di Dio: «Io sono il Signore, il Dio vostro. Santificatevi e siate santi, perché io sono santo» (Lv 11,44) «Il Signore disse a Mosè: Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lv 19,1)
•
Nel cuore della vita morale c’è l’alleanza stretta da Dio con il popolo: alla fedeltà di Dio deve corrispondere la fedeltà di Israele.
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Perciò è la memoria delle gesta meravigliose con le quali Dio lo ha scelto e costituito come suo popolo a motivare tutta la vita di Israele: «I vostri occhi hanno visto le grandi cose che il Signore ha operato. Osserverete dunque tutti i comandi che oggi vi do» (Dt 11,7-8) •
La legge, cui l’israelita dovrà fare continuo riferimento, non è naturale o giuridica, ma espressione concreta delle clausole dell’alleanza. Alla consegna dei dieci comandamenti, essi vengono presentati come le dieci «parole» fondamentali, che dicono la risposta del popolo al Signore suo Dio che « lo ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,1-2)
•
Dalla fedeltà alla legge-alleanza dipende perciò il futuro di Israele: «Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro, siano numerosi come i giorni dei cieli sopra la terra» (Dt 11,18-21)
•
La morale VT è una morale di popolo: è la possibilità per Israele di restare nella benedizione del Signore (cf. Dt 11,26-28), garanzia di terra, di prosperità e di futuro. Ma insieme è testimonianza e annunzio dinanzi agli altri popoli che il suo Signore è l’unico, «il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile» (Dt 10,17)
E' dopo l’esilio e la diaspora che tale morale si apre maggiormente al senso della responsabilità personale. Non si deve sottacere infine che all’interno di questa morale c’è la presenza forte e critica dei profeti contro il rischio che: •
la fedeltà alla legge degeneri in legalismo;
•
l’amore al tempio e al culto si snaturi in ritualismo.
Essi richiamano il popolo alla fedeltà come fatto di cuore e al culto come impegno per il debole, l’indifeso, il povero. L'odierna sensibilità culturale delle nostre società occidentali coglie in maniera
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fortemente critica o addirittura ostile le notevoli diversità che si possono riscontrare tra l'Antico e il Nuovo Testamento, circa il messaggio morale rivelato da Dio: a) nell'Antico Testamento, Dio è un essere supremo, a tratti geloso (Es 34,14), incitante all'uccisione e alla giustizia sommaria (Es 21,12; Lv 20,9-24,19; Dt 19,21; Sal 136,9), irascibile, privo di pietà per nemici e peccatori ordinandone lo sterminio (Lv 26,21-29; 1Sam 15,3; Ez 20,25-26); b) nel Nuovo Testamento, Dio è un Padre amorevole (1Gv 4,16), premuroso, clemente, incline al perdono, che invita all'amore e alla carità verso tutti gli uomini suoi figli (Mt 5,39), inclusi i nemici (Mt 5,44-48). Nell'antichità questa dicotomia portò Marcione a considerare come distinti il Dio severo dell'Antico Testamento da quello buono e misericordioso del Nuovo Testamento. La tradizione cristiana vede invece, tra il Dio e la morale dell'Antico e del Nuovo Testamento, non una contrapposizione ma un compimento, che è conclusione di un secolare cammino pedagogico: nella predicazione di Gesù viene ripreso il nucleo di "giustizia" contenuto nell'Antico Testamento che viene portato a compimento, talvolta superandolo e abbandonandolo in vista di una "giustizia maggiore" (Mt 5,17-20). Oggi, dopo il progresso morale insegnato e praticato da Gesù, è facile dare giudizi negativi su qualche parte delle Scritture Ebraiche dimenticando però che la morale biblica è in effetti un continuo progresso verso la morale insegnata da Gesù. Dio si adeguò alla capacità del grado culturale raggiunto dal popolo, per elevarlo gradatamente a una morale superiore. Non si può accogliere l’idea di Marcione che condanna tutto l'Antico Testamento quale frutto di un Dio malvagio finendo per salvare poi solo le lettere paoline. Nella morale delle Scritture Ebraiche siamo nel campo del relativo. La rivelazione di Dio andò migliorando sempre più quell’antica concezione primitiva umana, cercando di regolamentare certi abusi provenienti dal mondo culturale assai basso del tempo [cfr. Tommaso, S. Th. 1-11, q. 107 a. 1,2]. Tutto ciò mostra la necessità di definire criteri metodologici che permettano di fare riferimento alla Sacra Scrittura in materia morale, tenendo conto contemporaneamente dei contenuti teologici, della complessità della sua composizione letteraria e infine della sua dimensione canonica. A questo proposito si terrà conto in modo tutto particolare della rilettura che il Nuovo Testamento ha fatto dell’Antico, applicando quanto più rigorosamente possibile le categorie di continuità, discontinuità e progressione che segnano le relazioni fra i due Testamenti. La sistematizzazione di questi criteri riposa sulle seguenti osservazioni: 1. Convergenza la Bibbia manifesta un’apertura alla morale naturale nell’enunciazione di un gran M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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numero di leggi e orientamenti morali. Alcuni precetti hanno il loro equivalente in altre culture dell’epoca. La “regola d’oro” (Mt 7,12)4, per esempio, si trova, nella formulazione sia positiva sia negativa, in molte culture. Parola chiave: sapienza, virtù umana, potenzialmente riscontrabile in ogni cultura 2. Contrapposizione la Bibbia combatte nettamente i controvalori pagani; p.es. le immagini scolpite (Es 20,4) o le preghiere verbose (Mt 6,7). Parola chiave: fede 3. Progressione la Bibbia attesta un affinamento progressivo della coscienza su certi punti della moralità, anzitutto all’interno stesso dell’Antico Testamento, poi sulla base dell’insegnamento di Gesù e sotto l’impatto dell’evento pasquale. Tutto il discorso di Gesù illustra la giustizia più grande, portando a compimento l’intenzione e lo spirito della Torah (cf. 5,17) mediante una più profonda interiorità, mediante l’integrità di pensiero e azione e mediante una azione morale più esigente. Parola chiave: giustizia, meno nel senso della teologia classica che nella sua accezione biblica ricca e dinamica (ebraico sedaqâ, greco dikaiosynê), che implica ricerca della volontà di Dio e cammino di perfezione (teleiôsis) 4. Dimensione comunitaria la Bibbia mette fortemente l’accento sulla portata collettiva di tutta la morale. Certo, Gesù perfeziona le vedute essenzialmente collettive della morale del decalogo; ma anche i precetti che concernono la persona puntano in definitiva a costruire la comunità; la sofferenza stessa subita «a causa di» lui è fattore di coesione comunitaria (Mt 5,11-12). Parola chiave: l’amore fraterno (agapê) 5. Finalità fondando la speranza nell’aldilà sull’attesa del regno (Antico Testamento) e sul mistero pasquale (Nuovo Testamento), la Bibbia dà all’uomo il motivo per tendere verso la perfezione morale. All’escatologia terrestre del decalogo (la promessa di “lunghi giorni” in Es 20,12) Gesù aggiunge come motivazione di base di tutto l’agire umano la speranza nell’aldilà (Mt 5,3-10; 6,19-21). Parola chiave: speranza 6. Discernimento la Bibbia enuncia principi e offre esempi di moralità di differente valore: La giustificazione divergente del sabato, in termini cultuali in un caso (Es 20,2-11) e in termini socio-storici nell’altro (Dt 5,12-15), apre a una riflessione morale più 4 La regola d'oro (Mt 7,12) "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti". (CCC n. 1970) M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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ricca e sfumata sul riposo domenicale e sul tempo. L’invalidazione del divorzio (Mt 5,31-32), pur lecito nella Torah, mostra la distinzione da fare tra le leggi perenni e quelle legate a una cultura, un tempo, uno spazio particolari. Parola chiave: prudenza, che impone una verifica del giudizio morale, sia oggettiva, a partire dall’esegesi e dalla tradizione ecclesiale, che soggettiva, sulla base di una coscienza (syneidêsis) guidata dallo Spirito Santo. Nei riguardi della LEGGE ANTICA così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: CCC 1961 Dio, nostro Creatore e nostro Redentore, si è scelto Israele come suo popolo e gli ha rivelato la sua Legge, preparando in tal modo la venuta di Cristo. La Legge di Mosè esprime molte verità che sono naturalmente accessibili alla ragione. Queste si trovano affermate ed autenticate all’interno dell’Alleanza della Salvezza. CCC 1962 La Legge antica è il primo stadio della Legge rivelata. Le sue prescrizioni morali sono riassunte nei Dieci comandamenti. I precetti del Decalogo pongono i fondamenti della vocazione dell’uomo, creato ad immagine di Dio; vietano ciò che è contrario all’amore di Dio e del prossimo, e prescrivono ciò che gli è essenziale. Il Decalogo è una luce offerta alla coscienza di ogni uomo per manifestargli la chiamata e le vie di Dio, e difenderlo contro il male: Dio ha scritto sulle tavole della Legge ciò che gli uomini non riuscivano a leggere nei loro cuori [Sant’Agostino, Enarratio in Psalmos, 57, 1] CCC 1963 Secondo la tradizione cristiana, la Legge santa, [Cf Rm 7,12] spirituale [Cf Rm 7,14] e buona, [Cf Rm 7,16] è ancora imperfetta. Come un pedagogo [Cf Gal 3,24] essa indica ciò che si deve fare, ma da sé non dà la forza, la grazia dello Spirito per osservarla. A causa del peccato che non può togliere, essa rimane una legge di schiavitù. Secondo san Paolo, essa ha particolarmente la funzione di denunciare e di manifestare il peccato che nel cuore dell’uomo forma una «legge di concupiscenza» [Cf Rm 7]. Tuttavia la Legge rimane la prima tappa sul cammino del Regno. Essa prepara e dispone il popolo eletto e ogni cristiano alla conversione e alla fede nel Dio Salvatore. Dà un insegnamento che rimane per sempre, come Parola di Dio. CCC 1964 La Legge antica è una preparazione al Vangelo. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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«La Legge è profezia e pedagogia delle realtà future» [Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4, 15, 1] Essa profetizza e presagisce l’opera della liberazione dal peccato che si compirà con Cristo, ed offre al Nuovo Testamento le immagini, i «tipi», i simboli per esprimere la vita secondo lo Spirito. La Legge infine viene completata dall’insegnamento dei libri sapienziali e dei profeti, che la orientano verso la Nuova Alleanza e il Regno dei cieli. Ci furono..., nel regime dell’Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali, che ancora non hanno raggiunto la perfezione della nuova legge, e che bisogna indurre alle azioni virtuose con la paura del castigo o con la promessa di beni temporali. Però, la Legge antica, anche se dava i precetti della carità; non era in grado di offrire la grazia dello Spirito Santo, in virtù del quale «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) [San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2]. (vai a indice) 2.3 L’etica cristiana Come già accennato, si fonda su una concezione religiosa totalmente nuova: essa è dominata dalla predicazione di Gesù, dell’ineffabile paternità di Dio innanzi al quale tutti gli uomini sono uguali e fratelli. La regola di condotta evangelica si traduce in comandamento d’amore per gli altri; cade ogni distinzione etnica e sociale e l’incondizionato amore per il fratello, anche se nemico e peccatore, è il sommo comandamento. Inserendosi nella cultura del mondo mediterraneo, il cristianesimo doveva necessariamente misurarsi con l'ellenismo e, pur rivendicando la propria originalità, ne assorbiva motivi essenziali per trasformarli e adeguarli alla nuova concezione della vita e del mondo. Così nei Padri greci e in Agostino il richiamo all’interiorità e alla trascendenza, pur esprimendosi nei termini del linguaggio platonico, assume un significato nuovo: nell’uomo interiore il cristianesimo scopre non il ricordo di una forma immutabile, ma l’immagine stessa di Dio, presente a ciascuno con la luce dell’intelletto e della grazia. La morale VT riceve una svolta cristologica nei vangeli sinottici fondati su linee portanti M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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comuni: •
Tutta la proposta morale viene centrata nel Cristo: è lui l’alleanza nuova; è lui la legge nuova. Il regno, annunziato come presente (presente nella sua stessa persona), diventa il criterio e la norma di tutta la vita dei discepoli. La legge trova in lui il suo compimento: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento... se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,17.20) Può perciò proporre orizzonti e comportamenti nuovi: «Avete inteso che fu detto agli antichi... ma io vi dico» (Mt 5,2 1.22)
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Fonte di tutta la vita morale è la fede-conversione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15; cf. Mt 4,17) Non si tratta di sostituire delle opere o dei gesti. Occorre prima di tutto accettare il Cristo e il suo annunzio del regno, strutturando intorno a questo dato una nuova mentalità: solo così potrà aversi una vita nuova.
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Si concretizza nella sequela: «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare... Gesù disse loro: Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,16-17) L’andare con il maestro è prassi dell’insegnamento rabbinico. Ma nei sinottici esso diventa: fare propri i criteri di valutazione e di scelta del Cristo, aderire a lui senza riserve, condividerne e continuarne la missione. In una tale sequela non è possibile compromesso. Essa esige radicalità: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segna. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà» (Mc 9,34-35)
•
Questa radicalità porta a sottolineare e a sviluppare le linee già proprie della morale profetica: il cuore e l’impegno per il prossimo. Basterà richiamare la dura polemica nei riguardi della «giustizia» degli scribi e dei farisei: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo»
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(Mt 15,10) E al dottore della legge che lo interroga sul prossimo, Cristo precisa nella prospettiva di universalità e di concretezza: «Chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: Chi ha avuto compassione di lui. Gesù gli disse: Va’ e anche tu fa’ lo stesso!» (Lc 10,36-37) •
La morale è espressione non di un comandamento che impone dall’esterno, ma di un comandamento che sorge dall’interno. E' una morale delle beatitudini: «Beati i poveri in spirito... Beati gli afflitti... Beati i miti.. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia...» (Mt 5,3-12)
•
Una tale vita non conosce appiattimento o compromesso, avendo dinanzi l’esplicita indicazione del Cristo: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48) «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36) È chiamata anzi a diventare segno e annunzio: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16)
Fondamentali contributi per rendere maggiormente definito e comprensibile il messaggio contenuto nei tre vangeli sinottici sono dovuti a Paolo e a Giovanni. Il primo con le sue 13 grandi lettere inviate a varie comunità e il secondo con il suo quarto vangelo. La chiave interpretativa delle lettere deve basarsi sul fatto che Paolo: •
è un “convertito” (distacco dalla morale precedente);
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incarna il vangelo e la morale cristiana nel contesto culturale ellenistico;
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si allontana gradualmente da prospettive apocalittiche per quelle escatologiche.
Per Paolo il mistero del Cristo costituisce il «senso» della storia. Ne deriva che la vita viene “scoperta” quotidianamente dal credente come: •
dono di Dio che ci indica nella comunione con lui la possibilità della pienezza;
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rifiuto di ogni logica individualistica, essa è relazione, comunione, reciprocità;
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responsabilità e corresponsabilità solidale, che chiama in gioco la nostra libertà.
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Per Paolo 1. L’imperatività cristiana si fonda sulla indicatività: è espressione, attuazione e crescita di sé, per arrivare «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Le Lettere esortano: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 1-4). 2. Il battesimo è fonte di tutto l’essere nuovo del cristiano, la sua morale è battesimale: «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato» (Rm 6,4-6). 3. Vivere in Cristo è «un ambito esistenziale nel quale tutto l’essere dell’uomo viene ripreso da un nuovo principio, creato nuovo apposta (Ef 2,10), per formare una “creatura nuova” (2Cor 5,17; Gal 6,15), un tipo d’uomo nuovo (Ef 2,15; 4,24). 4. Ha perciò lo Spirito del Risorto come legge, che riesce anche a risolvere la drammatica esperienza dell’uomo che si scopre, per il peccato dell’umanità e la conseguente situazione di «carne» (cioè di egoismo che tutto svuota e mette al servizio del peccato), inclinato a fare ciò che non vorrebbe fare: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15) Tutto ciò è vinto grazie al dono dello Spirito: «Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 8,1-4). 5. La libertà diventa così fondamentale di tutto l’agire del credente: una libertà che significa accoglienza del dono di Cristo e risposta generosa di liberazione (da tutte le forme di potere del peccato) per la pienezza della libertà: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (5,1). 6. La vita cristiana è «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Non sono le M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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opere a giustificare, ma la fede (cf. Rm 3,28); «Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede cosi da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (1Cor 13,2). Il vangelo di Giovanni, nella sua robusta architettura teologica, ribadisce in maniera definitiva, anche in risposta alle prime eresie cristologiche e soteriologiche, che la fedecarità è il fulcro della vita cristiana e lo arricchisce nello stesso tempo della sua «contemplazione» del mistero del Cristo: 1. La vita cristiana si riassume nel comandamento nuovo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici... Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12.13.17). In evidenza: il comandamento nuovo dà l’amore del Cristo fino alla morte per noi come misura del nostro amore per gli altri (superata la regola aurea dell’amare come se stessi); il «come» non deve essere ridotto a esemplarità: amare come Cristo significa amare dell’amore e nell’amore con il quale Cristo ci ama. 2. Tutto ciò è reso possibile dalla intima comunione di essere e di vita che il Cristo realizza con il credente: «lo sono la vera vite… rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (Gv 15,1.4-5). Perché espressione di questa amicizia, l’osservanza dei comandamenti è restare e crescere in essa: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato... Rimanete nel mio amore. Se osservate i comandamenti, rimanete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,7.9-10). 3. Vivere secondo il comandamento nuovo è perciò diventare sacramento dell’amore del Cristo: è lasciargli continuare ad amare in noi tutti i fratelli. La proposta morale deve evidenziare questo valore sacramentale dell’amore: di ogni amore, non solo di quello matrimoniale. La comunità cristiana trova cosi in Cristo la via, ma una via che è al tempo stesso vita e verità: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Di qui la nota di gioia che è propria di tutto il suo agire, anche di fronte alle incomprensioni e alle persecuzioni: è la stessa gioia del Cristo comunicata dal Consolatore (cf. Gv 15,16; 16,5-15). 4. Tutto questo va concretizzato in un impegno fattivo per i fratelli: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figliuoli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri» (1Gv 3,16-20). Quando manca tale impegno fattivo e sincero, tutto diventa illusione: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non vede in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Gv 2,9-11) Nei riguardi della NUOVA LEGGE o LEGGE EVANGELICA così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: CCC 1965 La nuova Legge o Legge evangelica è la perfezione quaggiù della legge divina, naturale e rivelata. E opera di Cristo e trova la sua espressione particolarmente nel Discorso della montagna; è anche opera dello Spirito Santo e, per mezzo di lui, diventa la legge interiore della carità: «Io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova. Porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Eb 8,8; Eb 8,10) [Cf. Ger 31,31-34]. CCC 1966 La Legge nuova è la grazia dello Spirito Santo, data ai fedeli in virtù della fede in Cristo. Essa opera mediante la carità, si serve del Discorso del Signore sulla montagna per insegnarci ciò che si deve fare, e dei sacramenti per comunicarci la grazia di farlo: Chi vorrà meditare con pietà e perspicacia il Discorso che nostro Signore ha pronunciato sulla montagna, così come lo si legge nel Vangelo di San Matteo, indubbiamente vi troverà la «magna carta» della vita cristiana... Questo Discorso infatti comprende tutte le norme peculiari della esistenza cristiana [Sant’Agostino, De sermone Domini in monte, 1, 1: PL 34, 1229-123 1]. CCC 1967 La Legge evangelica «dà compimento» [Cf Mt 5,17-19] alla Legge antica, la purifica, la supera e la porta alla perfezione. Nelle «beatitudini» essa compie le promesse divine, elevandole ed ordinandole al «Regno dei cieli». Si rivolge a coloro che sono disposti ad M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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accogliere con fede questa speranza nuova: i poveri, gli umili, gli afflitti, i puri di cuore, i perseguitati a causa di Cristo, tracciando in tal modo le sorprendenti vie del Regno. CCC 1968 La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, [Cf Mt 15,18-19] dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità e, con queste, le altre virtù. Così il Vangelo porta la legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste, [Cf Mt 5,48] il perdono dei nemici e la preghiera per i persecutori, sull’esempio della magnanimità divina [Cf Mt 5,44]. CCC 1969 La Legge nuova pratica gli atti della religione: l’elemosina, la preghiera e il digiuno, ordinandoli al «Padre che vede nel segreto», in opposizione al desiderio di «essere visti dagli uomini» [Cf Mt 6,1-6; Mt 16-18]. La sua preghiera è il «Padre nostro» [Cf Mt 6,9-13]. CCC 1970 La Legge evangelica implica la scelta decisiva tra «le due vie» [Cf Mt 7,13-14] e il mettere in pratica le parole del Signore; [Cf Mt 7,21-27] essa si riassume nella «regola d’oro»: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12) [Cf Lc 6,31]. Tutta la Legge evangelica è racchiusa nel « comandamento nuovo » di Gesù (Gv 13,34), di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati [Cf. Gv 15,12]. CCC 1971 Al Discorso del Signore sulla montagna va aggiunta la catechesi morale degli insegnamenti apostolici [Cf Rm 12-15; 1Cor 12-13; Col 3-4; Ef 4-5; ecc.] che trasmette l’insegnamento del Signore con l’autorità degli Apostoli, attraverso l’esposizione delle virtù che derivano dalla fede in Cristo e che sono animate dalla carità, il principale dono dello Spirito Santo. «La carità non abbia finzioni... Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno... Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rm 12,9-13) Questa catechesi ci insegna anche a considerare i casi di coscienza alla luce del nostro rapporto con Cristo e con la Chiesa [Cf Rm 14; 1Cor 5-10]. CCC 1972 La Legge nuova è chiamata una legge d’amore, perché fa agire in virtù dell’amore che lo M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Spirito Santo infonde, più che sotto la spinta del timore; una legge di grazia, perché, per mezzo della fede e dei sacramenti, conferisce la forza della grazia per agire; una legge di libertà, [Cf. Gc 1,25; Gc 2,12] perché ci libera dalle osservanze rituali e giuridiche della Legge antica, ci porta ad agire spontaneamente sotto l’impulso della carità, ed infine ci fa passare dalla condizione del servo «che non sa quello che fa il suo padrone» a quella di amico di Cristo «perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), o ancora alla condizione di figlio erede [cf Gal 4,1-7; Gal 4,21-3 1; Rm 8,15]. CCC 1973 Oltre ai suoi precetti, la Legge nuova comprende anche i consigli evangelici. La distinzione tradizionale tra i comandamenti di Dio e i consigli evangelici si stabilisce in rapporto alla carità, perfezione della vita cristiana. I precetti mirano a rimuovere ciò che è incompatibile con la carità. I consigli si prefiggono di rimuovere ciò che, pur senza contrastare con la carità, può rappresentare un ostacolo per il suo sviluppo [Cf San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 184, 3]. CCC 1974 I consigli evangelici esprimono la pienezza vivente della carità, sempre insoddisfatta di non dare di più. Testimoniano il suo slancio e sollecitano la nostra prontezza spirituale. La perfezione della Legge nuova consiste essenzialmente nei comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. I consigli indicano vie più dirette, mezzi più spediti e vanno praticati in conformità alla vocazione di ciascuno: Dio non vuole che tutti osservino tutti i consigli, ma soltanto quelli appropriati, secondo la diversità delle persone, dei tempi, delle occasioni e delle forze, stando a quanto richiede la carità; perché è lei che, come regina di tutte le virtù, di tutti i comandamenti, di tutti i consigli, in una parola, di tutta la legge e di tutte le azioni cristiane, assegna a tutti e a tutte il posto, l’ordine, il tempo, il valore [San Francesco di Sales, Trattato sull’amor di Dio, 8, 6]. (vai a indice)
2.4 Il Modernismo Nell’Umanesimo e nel Rinascimento l’accentuarsi degli interessi civili, la polemica contro aspetti della spiritualità medievale (l’ascetismo in particolare), la rivendicazione dell'autonomia della politica rispetto alla legge morale e il ritorno ai filosofi antichi, riportano i temi dell’etica classica al centro delle discussioni sull’uomo e sul suo comportamento. L’affermazione della virtus come attività puramente umana e civile, che accetta i limiti terreni e si distacca da ogni preoccupazione metafisica, ha il suo massimo riconoscimento in N. Machiavelli. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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E' in questo periodo che nell'ambito della morale si consolidano due correnti fondamentali: la corrente laica e quella religiosa. La ricerca del piacere e della propria conservazione è considerato da T. Hobbes l’impulso più forte nella natura umana: gli obblighi morali non riconducibili alla tendenza individuale al piacere sono il risultato delle imposizioni della forza statuale che mira, con queste norme, alla conservazione della pace sociale. Contro la dottrina hobbesiana reagiscono gli esponenti della scuola neoplatonica di Cambridge che pongono al fondo della vita morale una ricerca del bene comune suffragata da sanzioni divine. La tendenza alla propria conservazione viene posta al centro dell’etica anche da B. Spinoza, per il quale le valutazioni umane che non riconoscono e accettano l’ordine razionale necessario del mondo sono insignificanti e quindi l’uomo virtuoso deve proporsi di dominare le passioni e seguire la ragione. I tempi sono allora maturi perché la filosofia moderna produca una morale laica; la sua nascita si è soliti attribuirla a Ugo Grozio (Huig van Groot; Delft, 1583 – Rostock, 1645) che nella sua opera De iure belli ac pacis traccia un quadro completo delle tendenze che poi porteranno al razionalismo moderno. Una delle teorie giusfilosofiche più importanti formulate dall'olandese fu quella del contratto sociale, e cioè «che lo stato di natura deriva dalla tendenza dell'uomo che è portato a istituire con gli altri simili una determinata forma di comunità politica, pacifica e concorde » (appetitus societatis) Il contratto sociale si attua quando lo stato di natura diventa impraticabile, violento ed insicuro per l'aumento dei bisogni, per la diminuzione delle ricchezze disponibili e per il nascere degli istinti egoistici. In questo caso gli uomini, in vista di un'utilità comune, passano dallo stato di natura allo stato civile trasferendo a un sovrano, mediante un patto, il potere di far coercitivamente rispettare la sfera di interessi di ciascun individuo, di mantenere l'ordine sociale e la pace. Questo contratto, in cui si fissano i diritti del singolo ed i poteri del sovrano, crea lo Stato e il suo potere nonché le due distinte sfere di diritto pubblico e diritto privato. Lo Stato viene concepito da Grozio come un macroindividuo che è in grado, come un individuo, di tenere dei rapporti con gli uomini diversamente dalla polis greca o dai corpora medioevali. Il concetto di natura umana risulta però ambiguo e quindi offre notevoli spunti di riflessione per tutta la filosofia morale: Hobbes, ad esempio, riteneva l'uomo come un essere malvagio di natura, Rousseau, invece, ce lo descrive come buono. Nella filosofia inglese del XVIII sec. a porsi in primo piano è piuttosto la questione M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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dell’identificazione del criterio o facoltà che permette agli uomini di distinguere tra vizio e virtù. Vi è un recupero dell’etica stoica e l’affermazione, in contrasto con l’etica egoistica di Hobbes, della presenza nella natura umana di un senso morale si congiungono con il riconoscimento che il comportamento virtuoso deriva da una benevolenza universale. Su questa base il comportamento virtuoso risulta quello che ha di mira non tanto la felicità individuale quanto una più intensa felicità del maggiore numero di persone cointeressate. Non diversamente procede J. Butler che recupera, per denominare la facoltà in gioco nel comportamento morale, il termine di coscienza5. Più interessati all’identificazione dei valori etici saranno gli esponenti dell’Illuminismo francese, che contro qualsiasi etica spiritualistica faranno valere una ricerca attiva del piacere e un comportamento che adatti l’individuo alla vita sociale. Un analogo rifiuto della morale tradizionale si trova in J.-J. Rousseau, che contro l’etica razionale dell’amor proprio auspica una morale liberatoria fondata sui sentimenti naturali e sulla compassione. Il concetto di morale, affrontato in più modi e in diversi contesti in tutti gli ambienti culturali europei, riceve una poderosa sistematizzazione da Kant6. In polemica con l’etica utilitaristica, per Kant realtà morale può esserci solo quando la volontà sia determinata da un imperativo categorico, e cioè voluto assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo ad altri fini. Questa autonomia e assolutezza della legge morale è, per Kant, il segno della sua universalità, del suo carattere a priori. Dall’apriorismo e dal rigorismo, che poneva l’uomo in perenne conflitto con le passioni, nascono le più gravi difficoltà dell’etica kantiana, che Kant stesso cercò di superare postulando l’esistenza di un’altra vita e di Dio come principio del sommo bene, nel quale virtù e felicità, in terra perennemente dissociate, venissero a coincidere. [cfr. Appendice 1] La filosofia post-kantiana approfondisce questi problemi, ora accentuando il concetto di autonomia della morale, ora tornando a un’idea oggettivistica dell’etica: così nell’idealismo etico di J.G. Fichte trova pieno sviluppo il concetto kantiano di libertà, ponendo come suprema norma etica l’obbedienza alla pura convinzione razionale della propria coscienza, mentre G.W.F. Hegel7 vede il superamento della moralità individuale nell’eticità (Sittlichkeit) che lo Stato incarna e alla quale il soggetto deve sottostare se vuole elevarsi sopra la sua singolarità. L’eticità in Hegel designa dunque quel complesso di istituzioni umane (famiglia, società civile, Stato) in cui la libertà si realizza oggettivandosi, ossia passa gradualmente dalla sua astratta espressione individualistica alla universalità concreta. 5 6 7
Cfr. Appendice 2 Immanuel Kant (Königsberg, 1724 – Königsberg, 1804) Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 1770 – Berlino, 1831)
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Quelli di Kant e di Hegel sono dunque due modelli morali molto diversi ma con alcuni richiami e presupposti comuni. L'etica kantiana è un'etica formale, nel senso che è priva di contenuti: l'imperativo categorico, su cui si regge la morale kantiana, dà delle indicazioni su come si deve agire ma non propone del 'materiale' a cui ispirarsi per agire moralmente. In questo senso si può dire che l'etica di Kant ha come presupposto fondamentale l'universalità: l'imperativo categorico deve tendere ad una massima etica che possa essere universalizzata (altrimenti si ricade nell'imperativo ipotetico). Fermo restando questo punto, si può comprendere come Hegel intenda superare questa forma di universalizzazione 'vuota'. Egli presuppone un universale concreto, che si ritrova direttamente in tutti i casi particolari, e non qualcosa di astratto e puramente formale. Per questo l'etica hegeliana si configura come il momento speculativo tra il diritto (momento intellettualmente positivo) e la moralità astratta kantiana (momento intellettualmente negativo). L'etica di Hegel in questo senso si può riallacciare al senso più originario di 'ethos' come casa, dimora: il soggetto si trova immediatamente nell'etica, ci nasce già dentro. L'uomo si trova sin dalla nascita in un determinato sentire etico; il luogo in cui l'ethos si realizza, in Hegel, è dunque lo Stato. E' lo stato che dà indicazioni etiche al soggetto, perchè è nella realtà statuale che si realizza propriamente l'ethos. Il soggetto etico in senso stretto, per Hegel, è lo Stato. Questa dimensione quasi idolatrica dello Stato tipica della filosofia morale hegeliana è assolutamente assente nella filosofia pratica kantiana. D'altra parte, però, la soluzione hegeliana può essere vista come antidoto al vuoto formalismo di Kant. In polemica contro alcune tesi centrali dell’etica idealistica, S. Kierkegaard sostiene l’irriducibile individualità della scelta etica, contrapponendo poi la sfera della vita morale, caratterizzata dalla continuità e dall’impegno per l’universalità, alla vita estetica, dominata dal caso, e alla vita religiosa, come ‘scandalo’ e superamento della dimensione della società. In senso anti-hegeliano A. Schopenhauer presenta una morale in netta antitesi con la storia e la società: fine della condotta etica non è l’integrazione nella tradizione, ma piuttosto la negazione completa dei bisogni naturali fino all’annullamento di ogni desiderio e al più completo ascetismo. Di natura completamente diversa è lo sviluppo della riflessione sull’etica nella cultura inglese, in cui prevale l’accettazione del principio utilitaristico che vede la condotta morale nella realizzazione della maggiore felicità per il maggiore numero di persone. Alla seconda metà del 19° sec. risale il tentativo di H. Spencer di utilizzare il modello evoluzionistico per rendere conto della condotta morale degli uomini. L’insieme dei valori etici è visto come uno strumento adottato dagli uomini nel tentativo di adattarsi sempre meglio alle condizioni vitali e la stessa coscienza del dovere morale non è altro che il residuo nell’individuo dell’esperienza acquisita dalla specie in questo processo. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Nella cultura francese, l’approccio positivistico allo studio delle scienze morali portò A. Comte a concludere che la condotta morale è quella che tende all’utilità pubblica, che il sentimento dell’eticità è quello della solidarietà e che lo strumento per un’educazione morale è la sociologia. E' soprattutto nel XIX secolo che la critica razionalista alla Proposta Morale Cristiana, e alla Scrittura di cui essa è il portato, ha trovato terreno fertile e si è sviluppata sino a permeare di sé tutta la sedicente cultura dominante. Secondo Michel Focault8 da quando l'uomo ha affidato alla scrittura il proprio sapere, esiste l'interpretazione. Questa è il sintomo di come l'uomo covi, nel proprio profondo, un sospetto intrinseco nel linguaggio determinato dalla possibilità di poliedrica interpretazione che il linguaggio offre. Si sospetta che la parola scritta non dica esattamente e realmente ciò che dice. Vi è un secondo significato, nascosto e recondito che è difficile da trovare in prima lettura. E' lecito, quindi, affermare che la "cultura del sospetto", sempre per rimanere nell'immagine foucoltiana, ha creato conseguenze ben più profonde: la convinzione che tutto ciò che ha senso nasconda un doppio senso; come nel caso della Bibbia. (vai a indice) 2.5 I Maestri del Sospetto Con i cosiddetti maestri del sospetto9 l'atteggiamento interpretativo si radicalizza definitivamente e la cultura del sospetto insito nella nostra cultura occidentale si inserisce in modo inestinguibile e in maniera estrema e moltiplicata all'ennesima potenza nella nostra mentalità e nel nostro agire quotidiano. I tre maestri si rivolgono inizialmente contro i modelli di morale borghese sostenendo che l’esperienza morale non sia libera ma che in essa agiscano meccanismi automatici subiti dal soggetto impossibilitato ad esercitare la sua libertà; le loro critiche invadono poi, fatalmente, ogni altro settore culturale. Karl Marx (1818- 1883) Individua nel rapporto struttura-sovrastruttura il meccanismo che guida l’esperienza morale. Non è la coscienza dell’uomo a determinare il suo essere, ma il suo essere sociale a determinare la sua coscienza. L’unica struttura reale per Marx sono i rapporti economici di potere e la morale non è che una sovrastruttura dipendente da tali rapporti. Dunque la morale non è che la difesa di un determinato assetto di potere: in questo caso si tratta della morale della società capitalista-borghese. 8 Paul Michel Foucault (Poitiers, 1926 – Parigi, 1984) è stato un sociologo, filosofo e professore al Collège de France; è annoverato tra i grandi pensatori del XX secolo. 9 Espressione dovuta a Paul Ricoeur che si pose l'obiettivo di reinterpretare tutto il pensiero occidentale alla luce di Marx, Nietzche e Freud. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Sigmund Freud (1859- 1939) Individua nei rapporti tra Io, Es e Super-Io il meccanismo che identifica la libertà dell’esperienza morale. L’Io è determinato nel conflitto tra l’istintività (Es) e la razionalità (Super-Io). L’Es è l’uomo allo stato naturale, il bimbo che persegue il piacere senza remore. Il Super-Io si costituisce quando al bimbo viene negato il piacere che deriva dal possesso della madre a causa dell’ingresso della figura paterna; in quel momento avviene la rimozione/repressione della libido (pulsione sessuale e di vita) e l’introduzione della morale quale forma raffinata di repressione sessuale. Friedrich Nietzsche (1844- 1900) Ritiene che la morale tradizionale, identificata con la morale cristiana, sia una conseguenza del risentimento dei deboli che, umiliati dall’esperienza dei forti e non potendo ribaltare la realtà, si costruiscono una morale rovesciata e chiamano “male” ciò che è bene (forza, piacere) e “bene” ciò che è male (umiltà, rinuncia). In pratica, non potendo rovesciare la realtà, la rovesciano a livello di morale. In particolare la morale “tradizionale” è accusata di: •
individualismo, che nasconde un egoismo capace di autogiustificarsi anche di fronte ai più duri attentati e strumentalizzazioni degli altri;
•
astrattismo che rende impossibile la concreta costruzione della storia;
•
eteronomia: bene morale come limite della libertà e del desiderio di vita;
•
assenza di critica nei riguardi del potere.
(vai a indice)
2.6 La riflessione sull’etica nel XX secolo Nella riflessione filosofica del XX secolo l’obiettivo di proporre una ben precisa tavola di valori passa in secondo piano, rispetto al tentativo di caratterizzare le condizioni proprie dell’esperienza morale. L’eredità di Comte fu al centro dell’opera di E. Durkheim, in cui l’etica si presenta come ‘scienza dei costumi’, mentre l’inservibilità dei metodi delle scienze fisico-matematiche nello studio dei fenomeni morali fu affermata da molti altri studiosi. In ambito anglosassone, il discorso etico è stato rimesso in discussione dalla critica neopositivistica secondo cui il linguaggio etico non è riducibile in schemi logici, in quanto non si rintracciano in esso né proposizioni puramente logiche né proposizioni fattuali:
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esso è dunque linguaggio che convoglia emozioni puramente soggettive. Di fronte all’impossibilità di ricomprendere nell’ambito della filosofia neopositivistica qualsiasi discorso di tipo non strettamente scientifico, quello etico in particolare, si è tentato, soprattutto in Inghilterra, nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, il recupero del linguaggio etico alla dimensione del linguaggio significante, mettendo a punto una serie di tecniche analitiche che assumono come base di partenza il linguaggio comune. In armonia con l’impostazione generale della filosofia oxoniense10, questo tipo di ricerche vuole applicare al discorso etico una concezione del linguaggio che si riallaccia strettamente alle tesi espresse da L.J. Wittgenstein11 nel suo Tractatus LogicoPhilosophicus, considerato uno dei testi filosofici più importanti del Novecento. (vai a indice) 3. La Proposta Morale oggi 3.1 Crisi e prospettive Fattori che oggi più incidono sulla crisi della morale cristiana: •
la forza di persuasione dei media
•
la cultura consumistica
•
il ritardo della proposta morale riguardo ai cambiamenti culturali in atto
Dalla crisi della morale consegue che oggi, nel vivere quotidiano, sono diffusi e pienamente accettati comportamenti in base ai quali: •
il vivere umano pieno/autentico non è collegato con l’etica, ma è cercato altrove (il risultato e la competitività)
•
si sospetta di ogni proposta etica per capire che cosa nasconda
•
si sente un bisogno di liberarsi da un'etica che fa della libertà del singolo un assoluto;
•
si separa di fatto il diritto dall’etica: laicismo (Leggi su aborto, divorzio, matrimoni tra omosessuali, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, ecc.) [cfr. Appendice 4] “Quando lo stato ricusa di dare a Dio ciò che è di Dio, ricusa, per necessaria conseguenza, di dare ai cittadini ciò a cui hanno diritto come uomini; giacché, vogliasi o no, i veri diritti dell’uomo nascono precisamente dai suoi doveri verso Dio. Onde segue che lo stato, venendo meno, sotto questo riguardo, al fine principale della sua istituzione, giunge in
10 Indirizzo della filosofia analitica (detto anche Scuola analitica di Oxford) svolto tra le due guerre mondiali e nell’immediato dopoguerra da un gruppo di professori di Oxford, i quali teorizzavano la filosofia come «analisi del linguaggio comune» 11 Ludwig Josef Johann Wittgenstein (Vienna, 1889 – Cambridge, 1951) è stato un filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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realtà a rinnegare se stesso e a smentire ciò che forma la ragione stessa della sua esistenza.” [Leone XIII, Enc. Au milieu des sollecitudes]
Verso la fine del XX sec. si afferma l’esigenza che la riflessione etica offra suggerimenti utili per risolvere i nuovi problemi morali suscitati dalle grandi trasformazioni che gli sviluppi della ricerca scientifica e della tecnologia hanno prodotto nelle società occidentali. Per la prima volta si pongono alla condotta umana alcune drammatiche alternative morali riguardanti la cura delle malattie nonché i modi di nascere e di morire. La medicina, edificata sul principio bonum faciendum, malum vitandum, posto a fondamento della relazione medico-paziente, alla luce dei nuovi complessi scenari come la sperimentazione sull’uomo, la gestione delle situazioni di fine vita e il consenso informato, ridefinisce l’etica medica come bioetica. Per quanto riguarda la relazione tra l’uomo e l’ambiente naturale si va consolidando la cosiddetta etica ambientale in cui si afferma un rispetto della natura basato su: •
una considerazione prevalentemente antropocentrica della moralità,
•
una forma più o meno profonda di ecologismo, che considera la natura stessa fornita di diritti e dotata dunque di un intrinseco valore morale
•
limiti allo sfruttamento delle risorse
•
sviluppo sostenibile
Anche il modo di rapportarsi agli animali prende atto delle inutili crudeltà a essi inflitte in conseguenza dell’uso di nuove tecniche, nell’ambito della produzione industriale del cibo e nella sperimentazione a fini farmaceutici o per il perfezionamento di beni di consumo. In quest’area di riflessione molto influenti sono stati pensatori come P. Singer, che ha denunciato come un pregiudizio di specie la discriminazione tra le sofferenze degli esseri umani e quelle degli animali, e T. Regan che ha basato i diritti morali degli animali sul valore intrinseco delle loro vite. Nell'ambito dello sviluppo economico va poi vista quell’area dell’etica applicata comunemente designata etica degli affari che vuole rendere esplicita la portata delle relazioni morali nell’organizzazione delle imprese impegnate nelle attività produttive. Fatti ed esperienze recenti stanno rivitalizzando la morale intesa in senso cristiano: •
Crisi delle ideologie: capitalismo/ingiustizie, marxismo/bisogni-delusioni
•
Crisi della quantità: energia/ecologia/demografia. La qualità della vita non appare più connessa in maniera automatica con la quantità fino al rischio di trasformare la
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“qualità della vita” in “condizione per il diritto a vivere”. •
Disagio nella scienza, che ha bisogno di una ipotesi e di un progetto che da sola è inadeguata a elaborare
•
Vicolo chiuso della politica lasciata a se stessa (trasformata in potere disumanizzante)
•
Insostenibilità dell'economia iper/sotto sviluppo (Pop. progressio, Caritas in veritate)
(vai a indice)
3.2 Attualità della problematica morale Pur nella consapevolezza che il vivere da uomini e futuro non possono prescindere dall’etica Sospetto e rifiuto non sono superati del tutto Forse non lo saranno mai
Il bene morale spinto da: •
il pluralismo delle proposte riguardanti tutti i settori della vita ci impone di discernere, valutare, decidere.
•
la manipolazione dei bisogni, cui siamo incessantemente sottoposti vieta di affidarci con ingenuità all’immediatezza della stessa nostra esperienza.
•
l’orizzonte di reciprocità nel quale andiamo sperimentando il cammino verso la verità. La verità di ognuno è il tassello di un mosaico che è possibile ricostruire solo entrando in rapporto con quelli posseduti dagli altri.
(vai a indice) 3.3 Proposta morale cristiana E' centrata sulla domanda circa il perché del discorso morale: non come scegliere, ma del perché scegliere «Nel giovane, del Vangelo di Matteo (Mt 19,16-21), possiamo riconoscere ogni uomo che si avvicina a Cristo e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita» (Veritatis n. 7)
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La dimensione morale evidenzia che: •
l’uomo è chiamato a realizzare un rapporto da soggetto con la propria vita: vive non già «è vissuto»;
•
sente perciò di dover decidere se stesso, il senso della sua storia, i contenuti del suo agire;
•
tale decisione si dà come scelta tra più possibilità, a volte non solo diverse ma perfino contraddittorie;
•
ha bisogno perciò di strumenti con i quali poter riconoscere la giusta direzione in cui orientarsi, sottraendosi alle mille manipolazioni e condizionamenti cui incessantemente è sottoposto;
•
tutto questo non si realizza individualisticamente, ma nella reciprocità e nella solidarietà con gli altri;
•
di qui la necessità di individuare insieme criteri che possano essere condivisi e che permettano di attuare la libertà come corresponsabilità solidale.
Significato della categoria morale modalità propriamente umana di essere e di vivere dell'uomo L'etica non è qualcosa che dall'esterno si sovrappone o si impone all'essere umano, bensì è qualcosa di intrinseco, di innato, allo stesso essere umano, una volta che lo si consideri nella sua struttura, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità, cioè come essere "ordinato" ai valori, al Valore, con un'ordinazione che l'essere umano - in quanto razionale e volitivo è chiamato ad assumere coscientemente e liberamente, nell'obbedienza cioè alla sua coscienza, che a sua volta è fedeltà al proprio essere di persona. In questo senso san Tommaso d'Aquino afferma che "atti morali e atti umani sono la stessa cosa" Idem sunt actus morales et actus humani [Summa Theologiae, I-II, 1, 3] Di qui anche il noto assioma agere sequitur esse. Come a dire, che l'agire umano altro non è che la rivelazione (e nello stesso tempo la coerenza operativa) dell'essere umano. (vai a indice)
4. Il Metodo della Teologia Morale La teologia morale è
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una esposizione scientifica, nutrita di S. Scrittura, sulla altezza della vocazione in Cristo» e sulla obbligazione nella carità di fruttificare per la vita del mondo Su questo tema il VAT II dà precise indicazioni tramite quattro grandi costituzioni: 1. la Grazia (Sacrosantum Concilium), sulla sacra Liturgia 2. la Parola (Dei Verbum), sulla Divina Rivelazione 3. la Comunità (Lumen gentium), sulla Chiesa 4. la Solidarietà (Gaudium et spes), sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Nella loro lettura non si deve commettere l'errore di separare il valore dottrinale dal valore pastorale, occorre inserirle nel contesto globale del cammino della chiesa e aver presente il lungo processo che ha portato alla loro redazione finale. Si potrà in tal modo: •
recuperare più chiaramente la dimensione teologica;
•
superare l’inadeguatezza della visione antropologica;
•
liberarsi dai limiti della stessa concezione etica (troppo rapportata alla legge, dominata da un’impostazione negativa, staccata dalla spiritualità).
La metodologia storico-ermeneutica proposta dalla Gaudium et spes si può riassumere nel trinomio: vedere, valutare, proporre; esso: •
fa evitare i rischi dell’ideologia, che pretende di sovrapporsi alla vita, e dei diversi sociologismi che si riducono alla semplice legittimazione dei dati di fatto;
•
afferma la trascendenza della verità etica senza farle perdere il rapporto con la storia e la stessa quotidianità, in quanto espressione del senso che le dinamizza;
•
riconosce la storicità delle formulazioni etiche senza relativizzare la verità;
•
rende possibile l’incarnazione dei valori nei diversi contesti, assicurando loro significatività e incisività;
•
stimola a un sì alla verità come costante ricerca, senza però perdere le ricchezze del passato, ma dando loro ulteriore profondità e apertura.
Il processo interpretativo di ogni quesito morale deve procedere per gradi: •
precisare un percorso interpretativo chiaro nella determinazione e nella collocazione dei diversi livelli;
•
modellarlo alla luce delle istanze dell’indispensabile interdisciplinarietà (a livello sia di scienze umane che di discipline teologiche);
•
rispettare i livelli cui appartengono le diverse affermazioni, evitando trasposizioni che finirebbero inevitabilmente con il forzarle e il falsarle;
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•
non assolutizzare i dati di nessun livello, ma conservarli sempre nella circolarità che li lega a quelli degli altri;
•
non perdere mai di vista la priorità della realtà nei riguardi di ogni interpretazione.
In sintesi la riflessione teologico-morale può così articolarsi nelle seguenti fasi: •
ricostruire l’esperienza vissuta, collocarla nel proprio contesto e aprirla al confronto sincronico e diacronico;
•
accogliere i dati delle scienze che evidenziano i fattori e i processi, non assolutizzandone nessuna;
•
effettuare una lettura sapienziale-filosofica per cogliere l'unità o il che cosa, rapportando i dati della riflessione tradizionale e quelli della ricerca attuale;
•
effettuare una lettura più propriamente etica tendente a cogliere il significato;
•
continuare la lettura sapienziale e quella etica servendosi degli strumenti propriamente teologici (sacra scrittura, tradizione-magistero, segni dei tempi).
(vai a indice) 4.1 Coscienza La coscienza morale è responsabilità, consapevolezza non solo di sé, ma anche e soprattutto del rapporto dell’atto umano con la legge morale. La Proposta Morale Cristiana distingue tre livelli progressivi di approfondimento: 1. percorrere un cammino per arrivare e fare esperienza del significato; 2. individuare i criteri che permettono di rapportarlo alla realtà; 3. determinare, nei problemi più gravi e urgenti, norme più specifiche. Il soggetto dell’interpretazione è l’intera comunità cristiana animata dallo Spirito (cf Gv 14,25-26 e 16,5-15) e articolata in ministeri: •
Magistero: espone la dottrina della Chiesa e dà l’esempio di un assenso leale
•
Laici: in settori, come quelli familiari e sociali, inscrivono la legge divina nella vita della città terrena
La dignità della persona (Gaudium et spes, parte I, cap. 1) Sulla dignità della persona, soprattutto dopo la II Guerra Mondiale, la comunità internazionale ha intrapreso varie e importanti iniziative tra le quali emerge la: Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 10 Dicembre 1948 Preambolo Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell'uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità, e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione; Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo dei rapporti amichevoli tra le Nazioni; Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita in una maggiore libertà; Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni; L'Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Dell'Uomo come ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Questa dichiarazione e le altre varie carte dei diritti dell’uomo sono preziose pur con i limiti che le caratterizzano (assenza di fondazione, motivazioni politiche e pluralità di interpretazioni). Occorre però non sottovalutare il rischio di involuzione del processo storico che ha portato alla loro elaborazione: invece che partire dal debole, spesso si M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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tende a partire dal più forte. La comunità cristiana è solidale con tutti gli uomini di buona volontà nel tentativo di comprendere sempre meglio la dignità della persona, facendone il criterio decisivo delle scelte anche a livello socio-politico. Occorre però: «discernere quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane» (n. 11). Prospettive antropologiche fondamentali della Gaudium et spes: 1. Il fondamento della dignità della persona è nel gesto creatore di Dio. È dignità di comunione con Dio e con gli altri. 2. È una dignità mediata dalla storia e bisognosa di riscatto dal peccato L’uomo è inclinato anche al male avendo infranto l'ordine in rapporto al suo fine ultimo. Tutta la vita umana ha i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male 3. La dignità di persona riguarda tutto l’essere umano Per il peccato «l’uomo sperimenta le ribellioni del corpo. 4. La dignità della persona si esprime nella «sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio». La natura intelligente della persona umana può comprendere le perfezioni (Vero, Bello, Buono) come riflesso della perfezione di Dio. E quindi, per analogia, conoscere Dio. 5. Componente fondamentale della dignità di persona è la coscienza 6. Centralità della libertà: «l'uomo può volgersi al bene solo nella libertà. I nostri contemporanei però coltivano la libertà in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell'uomo un segno privilegiato dell'immagine divina»(n. 17). 7. La vita dell’uomo è sfidata dal mistero della morte, ma egli giudica rettamente quando, seguendo l’istinto del cuore, «aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona». 8. Dalla Rivelazione la Chiesa è resa certa che «l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene. La fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta, quando l'onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all'uomo la salvezza perduta per sua colpa» (n. 18). 9. Questo radicamento della dignità della persona nella «vocazione alla comunione con Dio» in forza della creazione per amore, fa sì che l’uomo «non vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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abbandona al suo Creatore. Molti, tuttavia, non percepiscono o rigettano questo intimo e vitale legame con Dio: l'ateismo va annoverato fra le realtà più gravi del nostro tempo e va esaminato con diligenza ancor maggiore» (n. 19). 10.
Di questa negazione devono riconoscersi responsabili gli stessi credenti: «per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (n. 19).
11.
La Chiesa, mentre «si sforza di scoprire le ragioni della negazione di Dio», deve impegnarsi a rendere più chiaro il suo annunzio e la sua testimonianza: «il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla dignità dell'uomo, dato che questa dignità trova proprio in Dio il suo fondamento e la sua perfezione. La speranza escatologica non diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell'attuazione di essi» (n. 21).
12.
La luce piena sulla dignità della persona è possibile averla solo nel Cristo: «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo Cristo, che è il nuovo Adamo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore».
13.
Incarnandosi, «il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo», aprendolo alla pienezza della sua dignità: «Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale».
14.
In lui anche la sfida della sofferenza e della morte riceve una risposta: «Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime» (n. 22).
Lumen gentium sulla dignità di ogni battezzato (par. 9). «Questo popolo messianico: •
ha per capo Cristo « dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25);
•
ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio; nel loro cuore dimora lo Spirito Santo come in un tempio;
•
ha per legge il precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cf Gv 13,34);
•
ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere
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ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cf Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm 8,21); •
costituisce per l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza.
•
costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è da lui assunto quale strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cf Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo».
Queste affermazioni indicano una direzione per •
il dialogo con la cultura e le scienze, valorizzandone i contributi, senza mai assolutizzarli;
•
l’annuncio franco del fondamento e degli orizzonti che il Cristo, con il suo mistero pasquale, dà alla dignità della persona;
•
l’attenzione alla storia, drammatica e contraddittoria, in cui la persona è inserita;
•
la visione unitaria che sprona a superare ogni dualismo (spiritualistico, consumistico, tecnocratico…);
•
la dimensione di speranza che fa della dignità di ognuno una corresponsabilità di tutti.
La coscienza morale [cfr. Appendice 2] La coscienza, componente fondamentale della dignità di persona, è: “un giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto” (CCC, 1778) Quindi, senza l’uso della ragione non esiste coscienza! Il Magistero così si esprime sulla coscienza [Gaudium et spes n. 16] 16. Dignità della coscienza morale. Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18). Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.
[cfr Appendice 3]
La profondità della coscienza La coscienza è: •
l’interiorità che unifica e dà senso alla persona e a tutta la sua storia;
•
il «sacrario» della comunione con Dio e con gli altri;
•
la scoperta e l’esperienza della imperatività morale (legge, voce di Dio, vocazione) che non è un prodotto della coscienza ma è carica di un’assolutezza che la trascende;
•
la ricerca leale della verità, in reciprocità sincera e rispettosa con gli altri: garantisce non solo la dignità della coscienza, ma anche il cammino verso la verità oggettiva.
Nella coscienza è presente e opera lo Spirito [Rm 8]: •
in essa testimonia la nostra verità filiale;
•
ci guida nelle scelte perché siano in sintonia con il progetto salvifico;
•
ci fa sperimentare il bene morale come libertà e perciò ce lo fa desiderare;
•
ci fa superare il senso di inadeguatezza e di limite prodotti dalla nostra storia;
•
ci dà la sicurezza e la serenità di cui abbisognamo e che nessuno potrà toglierci.
Esiste una reciprocità inscindibile tra coscienza e norme morali. Non c’è coscienza senza riferimento sincero alle norme morali. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Non c’è obbligo morale senza «il riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza personale» (VS 36) «non c’è coscienza senza ricerca costante della verità; non c’è ricerca autentica della verità senza coscienza» (Dignitatis humanae, n. 1-3) «È duplice la regola degli atti umani: l’una viene detta remota, l’altra prossima. Remota, cioè materiale, è la legge divina; la prossima, ovvero formale, è la coscienza. Sebbene infatti la coscienza debba conformarsi in tutto alla legge divina, tuttavia la bontà o la malizia delle azioni umane ci viene rivelata secondo l’apprendimento che di essa ne ha la coscienza» [S. Alfonso, Theologia moralis] La cultura contemporanea, centrata sulla soggettività, genera rischi derivanti da una coscienza senza norme e radicalmente «creativa» (cf VS 54-55). Sono perciò necessari criteri oggettivi di lettura delle azioni umane; le dieci «parole» del Decalogo permettono alla coscienza di non smarrire la strada del bene che cerca: «Esse sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà» (VS 13) «Ma le norme non vogliono mai sostituirsi alla coscienza, ma esserle di aiuto» (cf. VS 40 e 85) Il ruolo insostituibile della coscienza in tutta la vita morale rende urgente l’impegno per la sua corretta formazione: «è un compito di tutta la vita, garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (CdCC 1784) Il contesto nel quale viviamo esige dunque che prestiamo una particolare attenzione: •
ai dati che le scienze dell’uomo evidenziano sui molteplici fattori che intervengono in essa;
•
al bisogno di interiorità (ascolto della Parola, preghiera, sacramento della
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riconciliazione, guida spirituale...) spesso frustrato dal contesto sociale; •
al sincero e corretto rapporto con i criteri oggettivi di verità (sia umani che più propriamente di fede);
•
a un saggio discernimento delle informazioni, a cominciare da quelle che i mass media non si stancano di proporci;
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all’indispensabile discernimento nei riguardi dei bisogni in vista di una loro serena integrazione nel personale progetto di vita;
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alla corresponsabilità e alla solidarietà, con una particolare attenzione ai più deboli e più bisognosi. Catechismo della Chiesa Cattolica Parte III, Sez. I, cap. I Dignità della persona umana
1776 «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore... L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore... La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria » [Conc. Ecum. Vat. 11, Gaudium et spes, 16]. I. Il giudizio della coscienza 1777 Presente nell’intimo della persona, la coscienza morale [Cf Rm 2,14-16] le ingiunge, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male. Essa giudica anche le scelte concrete, approvando quelle che sono buone, denunciando quelle cattive [Cf Rm 1,32]. Attesta l’autorità della verità in riferimento al Bene supremo, di cui la persona umana avverte l’attrattiva ed accoglie i comandi. Quando ascolta la coscienza morale, l’uomo prudente può sentire Dio che parla. 1778 La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per pone, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa, l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto e retto. E' attraverso il giudizio della propria coscienza che l’uomo percepisce e riconosce i precetti della legge divina 1779
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L’importante per ciascuno è di essere sufficientemente presente a se stesso al fine di sentire e seguire la voce della propria coscienza. Tale ricerca di interiorità è quanto mai necessaria per il fatto che la vita spesso ci mette in condizione di sottrarci ad ogni riflessione, esame o introspezione: «Ritorna alla tua coscienza, interrogala. Fratelli, rientrate in voi stessi e in tutto ciò che fate, fissate lo sguardo sul Testimone, Dio » [Sant’Agostino, In epistulam Johannis ad Parthos tractatus, 8, 9] 1780 La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi innati della moralità [sinderesi12], la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio. Quattro virtù hanno funzione di « cardine ». Per questo sono dette « cardinali »; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. L'uomo « accorto controlla i suoi passi » (Prv 14,15). « Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera » (1 Pt 4,7). La prudenza è la « retta norma dell'azione », scrive san Tommaso sulla scia di Aristotele. Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. È detta « auriga virtutum – cocchiere delle virtù »: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L'uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare. [CCC 1806] 1781 La coscienza permette di assumere la responsabilità degli atti compiuti. Se l’uomo commette il male, il retto giudizio della coscienza può rimanere in lui il testimone della verità universale del bene e, al tempo stesso, della malizia della sua scelta particolare. 12 Sindèreṡi, nella filosofia scolastica la capacità naturale della coscienza umana di conoscere i principî morali universali, e distinguere quindi il bene dal male M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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La sentenza del giudizio di coscienza resta un pegno di speranza e di misericordia. Attestando la colpa commessa, richiama al perdono da chiedere, al bene da praticare ancora e alla virtù da coltivare incessantemente con la grazia di Dio: «Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20) 1782 L’uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà, per prendere personalmente le decisioni morali. L’uomo non deve essere costretto «ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso» [Conc. Ecum. Vat. Il, Dignitatis humanae, 3] II. La formazione della coscienza 1783 La coscienza deve essere educata e il giudizio morale illuminato. Una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore. L’educazione della coscienza è indispensabile per esseri umani esposti a influenze negative e tentati dal peccato a preferire il loro proprio giudizio e a rifiutare gli insegnamenti certi. 1784 L’educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai risentimenti della colpevolezza e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore. 1785 Nella formazione della coscienza la Parola di Dio è la luce sul nostro cammino; la dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e mettere in pratica. Dobbiamo anche esaminare la nostra coscienza rapportandoci alla Croce del Signore. Siamo sorretti dai doni dello Spirito Santo, aiutati della testimonianza o dai consigli altrui, e guidati dall’insegnamento certo della Chiesa [Cf ibid., 14]. III. Scegliere secondo coscienza 1786 Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un giudizio retto in accordo con la ragione e con la legge divina, sia, al contrario, un giudizio erroneo che da esse si discosta. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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1787 L’uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione [cfr. Appendice 5]. Egli deve sempre ricercare ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella legge divina. 1788 A tale scopo l’uomo si sforza di interpretare i dati dell’esperienza e i segni dei tempi con la virtù della prudenza, con i consigli di persone avvedute e con l’aiuto dello Spirito Santo e dei suoi doni. 1789 Alcune norme valgono in ogni caso: •
Non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene.
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La «regola d’oro»: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12) [Cf Lc 6,31; Tb 4,15].
•
La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza: «parlando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza..., voi peccate contro Cristo» (1Cor 8,12) «Perciò è bene astenersi. da tutto ciò per cui il tuo fratello possa scandalizzarsi» (Rm 14,21)
IV. Il giudizio erroneo 1790 L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza. Se agisse deliberatamente contro tale giudizio, si condannerebbe da sé. Ma accade che la coscienza morale sia nell’ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute [cfr Appendice 3]. 1791 Questa ignoranza spesso è imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene «quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato» [Conc. Ecum. Vat. 11, Gaudium et spes, 16] In tali casi la persona è colpevole del male che commette. 1792 All’origine delle deviazioni del giudizio nella condotta morale possono esserci la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi dati dagli altri, la schiavitù delle passioni, la pretesa ad una malintesa autonomia della coscienza, il rifiuto della autorità
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della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità. 1793 Se, al contrario, l’ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male commesso dalla persona non può esserle imputato. Nondimento resta un male, una privazione, un disordine. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori. 1794 La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità «sgorga», ad un tempo, «da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1Tm 1,5): [Cf 1Tm 3,9; 2Tm 1,3; 1Pt 3,21; At 24,16]: «Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità» [Conc. Ecum. Vat. Il, Gaudium et spes, 16] (vai a indice)
4.2. Il discernimento morale Per dare senso alla nostra vita La domanda morale «prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita» (Veritatìs splendor, n. 7) Vista in questa prospettiva la decisione morale si dà come discernimento del bene da compiere qui ed ora perché la vita abbia sempre più senso (Disegno di salvezza per l’umanità). La centralità della coscienza La competenza del discernimento morale appartiene alla coscienza, mediante il saggio uso dei criteri oggettivi. Solo la coscienza può fondere insieme «l’oggetto, l’intenzione e le circostanze» che «rappresentano le “fonti”, o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani» (CdCC 1750). Rinunziare a tale competenza è rinunziare alla propria dignità di persona. «La libertà fa dell’uomo un soggetto morale. Quando agisce liberamente, l’uomo è, per così dire, il padre dei propri atti. Gli atti umani, cioè gli atti liberamente scelti in base ad un giudizio M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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di coscienza, sono moralmente qualificabili. Essi sono buoni o cattivi» (CdCC 1749). Rivendicare la competenza della coscienza non basta. Occorre maturare la capacità del discernimento evangelico. Senza un impegno sincero di formazione sarà impossibile tenere insieme e interpretare saggiamente i numerosi e complessi fattori che intervengono nelle nostre decisioni. Quanto Paolo chiede nella preghiera per i Filippesi indica la traiettoria di fondo: «la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio» (1,9-11). Occorre innanzitutto che il progetto di vita sia per il bene: «Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni... L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,43-45; cf. Mt 7,16-18). Deve trattarsi di un cuore aperto agli appelli che sorgono incessantemente dai bisogni dei fratelli. Come quello del samaritano: a differenza del sacerdote e del levita, passando accanto all’uomo incappato nei briganti, «lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui» (Lc 10,30-37). L’intenzionalità chiara di carità esamina le diverse possibilità di agire. Ne scarterà prontamente alcune perché segnate da egoismo; tra le altre, che appariranno in sintonia con il bene, sceglierà quella che permetterà di realizzare più valore: il «meglio» che rende «integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil 1,9). Questa lettura non dovrà farsi conformandosi «alla mentalità di questo secolo» ma con «mente rinnovata». Si riuscirà allora a «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Non spegnendo lo Spirito e esaminando ogni cosa per tenere «ciò che è buono» e astenersi «da ogni specie di male» (1Ts 5,19-22), si avrà l’agire saggio che, «profittando del tempo presente», proietta la storia verso la pienezza (cf. Ef 5,15-17). La prudenza Il discernimento dovrà sintetizzare saggiamente le istanze della persona che agisce (vocazione specifica, livello di maturità, possibilità di ulteriore crescita...) con quelle che emergono dal contenuto dell’azione e dal contesto nel quale si opera. Non è giusto scegliere esclusivamente in favore delle prime o delle seconde. Nel nostro contesto dobbiamo ricordare in maniera più attenta che «una intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo) non rende né buono né giusto un comportamento in se stesso M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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scorretto (come la menzogna o la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi» (CdCC 1753). La complessità e l’interdipendenza della nostra società fanno sì che non decidiamo solo una determinata azione, ma un insieme di relazioni che di fatto si intersecano dando il volto concreto all’atto che stiamo per compiere. Il discernimento dovrà farsi carico di tutto ciò, ricordando che esso è corretto se porta a individuare «ciò che edifica», che non coincide con «l’utile proprio, ma quello altrui» (1Cor 10,22-23). È la grande virtù della prudenza che permette di svolgere in maniera valida tale lettura. Benché a volte fraintesa o disistimata dalla nostra cultura, essa resta fondamentale: «È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza... Grazie alla virtù della prudenza, applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare» (CdCC 1806). La verità morale «dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio» (CdCC 1780). La coscienza prudente sa che non può affidarsi alla sola buona intenzione: essa è fondamentale, ma ha bisogno di riferimenti e di strumenti oggettivi per discernere effettivamente il bene. Parola di Dio, magistero, norme morali, segni dei tempi e gli altri criteri non verranno percepiti come dei limiti, ma come aiuto prezioso alla libertà per arrivare a discernere il bene. Senza preghiera infine è difficile che il nostro discernimento riuscirà effettivamente a raggiungere il bene da fare. Soprattutto ci sentiremo sempre troppo deboli e impari al cammino che esso ci chiede di compiere. La preghiera invece ci farà sperimentare ricchi di luce e di forza. Le parole di libertà e di vita La soggettività, che caratterizza la nostra cultura, carica di sospetto le norme morali. C’è chi in nome dell’autorealizzazione difende una morale senza norme. I rischi di relativismo si fanno particolarmente gravi. Di qui il forte richiamo di Giovanni Paolo Il: «La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali universali e immutabili, non ha nulla di mortificante. E’ solo al servizio della vera libertà dell’uomo» (VS 96) «le norme costituiscono il fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta e pacifica convivenza umana, e quindi di una vera democrazia» (VS 96)
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La riflessione etica ha percorso diverse strade per arrivare a individuare le norme. I diversi tentativi possono ricondursi nelle prospettive/metodologie: deontologica (essere ⇒ legge e norma), deduttiva teleologica (fine o effetti ⇒ legge e norma), induttiva. È opportuno non radicalizzare tali scelte, ma stabilire tra le due possibilità un fecondo rapporto. I dati della tradizione teologica ruotano intorno all’asse legge eterna - legge naturale come elemento fondamentale dell’ordo moralis, approfondito alla luce della lex nova (la presenza-grazia dello Spirito). Decisivo è il restare fedeli allo “esempio” del Cristo, così sintetizzato da Giovanni Paolo Il in Veritatis splendor: •
Nella risposta al giovane ricco, il Cristo lo rimanda innanzitutto «alla centralità del Decalogo rispetto ad ogni altro precetto». Le «dieci parole» vanno però viste e vissute come «la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà» (n. 13).
•
Per poter procedere oltre occorre comprendere che tutti i precetti sono espressione dell’amore di Dio e del prossimo che a loro volta «sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente» (n. 14).
•
Il «compimento» dato dal Cristo ai precetti del Decalogo è interiorizzazione delle loro esigenze: «l’amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte» (n. 15).
•
Questa interiorizzazione è espressione della ontologia nuova per partecipazione che lo Spirito dona: Cristo si pone come «Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l’energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf. Gv 13,34-35)» (n. 15).
•
Illuminata dallo Spirito (cf. Rm 8,26-28), l’esperienza della nostra debolezza nei riguardi del bene si scopre «nostalgia per una pienezza che superi l’interpretazione legalistica dei comandamenti» e invito a «entrare nella strada della perfezione». I comandamenti - pur conservando il loro carattere normativo - incontrano e si aprono «alla prospettiva della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale» (n. 16).
•
Perfezione e libertà si incontrano nella maturità del dono di sé: Cristo «rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell’uomo e la legge di Dio non si oppongono, al contrario si richiamano
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a vicenda» (n. 17). Sentire la legge di Dio «come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà» è segno che si vive ancora secondo la carne (n. 18). •
«Condizione» e «fondamento essenziale e originale della morale cristiana», la «sequela Christi» riassume la «via e il contenuto» della perfezione. È «aderire alla persona stessa di Gesù» condividendone vita e destino nella «obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre» (n. 19). È seguirlo sulla strada di «un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio» (n. 20), ma non per «una imitazione esteriore, perché tocca l’uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf. Fil 2,5-8)» (n. 21).
•
Di tutto questo l’uomo è reso capace «soltanto in virtù di un dono ricevuto... Il dono di Cristo è il suo spirito, il cui primo “frutto” (cf. Gal 5,22) è la carità» (n. 22). Il dono però «non diminuisce, ma rafforza l’esigenza morale dell’amore» (n. 24).
Nella proposta pratica occorre non dimenticare le esigenze della legge della gradualità così sintetizzate in Familiaris consortio, n. 34: •
innanzitutto la «grande importanza» di una «retta concezione dell’ordine morale, dei suoi valori e delle sue norme», che non è «qualcosa di mortificante per l’uomo», ma «si pone al servizio della sua piena umanità, con l’amore delicato e vincolante con cui Dio stesso ispira, sostiene e guida ogni creatura verso la sua felicità»;
•
la storicità dell’uomo «chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio» fa sì che «egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita»;
•
in questo «incessante cammino» sono essenziali il «desiderio sincero e operoso di conoscere sempre meglio i valori che la legge divina custodisce e promuove» e la «volontà retta e generosa di incarnarli nelle loro scelte»;
•
non può perciò «guardare alla legge solo come ad un puro ideale da raggiungere in futuro», ma «come un comando di Cristo Signore a superare con impegno le difficoltà» e a impegnarsi sinceramente per «porre le condizioni necessarie» per osservarla.
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Catechismo della Chiesa Cattolica Parte III, Sez. I, cap. III La salvezza di Dio: la legge e la grazia 1950 La legge morale è opera della Sapienza divina. 1951 La legge è una regola di comportamento emanata dall’autorità competente in vista del bene comune. La legge morale suppone l’ordine razionale stabilito tra le creature, per il loro bene e in vista del loro fine, dalla potenza, dalla sapienza, dalla bontà del Creatore. Ogni legge trova nella legge eterna la sua prima e ultima verità. La legge è dichiarata e stabilita dalla ragione come una partecipazione alla Provvidenza del Dio vivente Creatore e Redentore di tutti. «L’ordinamento della ragione, ecco ciò che si chiama la legge» [Leone XIII, Lett. enc. Libertas praestantissimum; cit S. Tommaso, Summa theologiae, I-Il, 90, 1] L’uomo è il solo tra tutti gli esseri animati che possa gloriarsi d’essere stato degno di ricevere una legge da Dio; animale dotato di ragione, capace di comprendere e di discernere, egli regolerà la propria condotta valendosi della sua libertà e della sua ragione, nella docile obbedienza a colui che tutto gli ha affidato [Tertulliano, Adversus Marcionem, 2, 4] 1952 Le espressioni della legge morale sono diverse, e sono tutte coordinate tra loro: la legge eterna, fonte, in Dio, di tutte le leggi; la legge naturale; la legge rivelata, che comprende la Legge antica e la Legge nuova o evangelica; infine le leggi civili ed ecclesiastiche. 1953 La legge morale trova in Cristo la sua pienezza e la sua unità. Gesù Cristo in persona è la via della perfezione. E il termine della Legge, perché egli solo insegna e dà la giustizia di Dio: «Il termine della Legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede» (Rm 10,4). I. La legge morale naturale 1954 L’uomo partecipa alla sapienza e alla bontà del Creatore, che gli conferisce la padronanza dei suoi atti e la capacità di dirigersi verso la verità e il bene. La legge naturale esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, quello che sono il bene e il male, la verità e la menzogna: M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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La legge naturale è iscritta e scolpita nell’anima di tutti i singoli uomini; essa infatti è la ragione umana che impone di agire bene e proibisce il peccato... Questa prescrizione dell’umana ragione, però, non sarebbe in grado di avere forza di legge, se non fosse la voce e l’interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi [Leone XIII, Lett. enc. Libertas praestantissimum]. 1955 La legge «divina e naturale» [Conc. Ecum. Vat. Il, Gaudium et spes, 89] mostra all’uomo la via da seguire per compiere il bene e raggiungere il proprio fine. La legge naturale indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Ha come perno l’aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso. Nei suoi precetti principali essa è esposta nel Decalogo. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana: Dove dunque sono iscritte queste regole, se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell’uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l’immagine passa dall’anello nella cera, ma senza abbandonare l’anello [Sant’Agostino, De Trinitate, 14, 15, 21] La legge naturale altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l’ha donata alla creazione [San Tommaso d’Aquino, Collationes in decem praeceptis, 1] 1956 Presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali: Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore... È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente [Cicerone, La repubblica, 3, 22, 33]. 1957 M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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L’applicazione della legge naturale si diversifica molto; può richiedere un adattamento alla molteplicità delle condizioni di vita, secondo i luoghi, le epoche e le circostanze. Tuttavia, nella diversità delle culture, la legge naturale resta come una regola che lega gli uomini tra loro e ad essi impone, al di là delle inevitabili differenze, principi comuni. 1958 La legge naturale è immutabile [Cf Conc. Ecum. Vat. Il, Gaudium et spes, 10] e permane inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto l’evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso. Le norme che la esprimono restano sostanzialmente valide. Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore dell’uomo. Sempre risorge nella vita degli individui e delle società: La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nel cuore degli uomini, legge che nemmeno la loro malvagità può cancellare [Sant’Agostino, Confessiones, 2, 4, 9] 1959 Opera molto buona del Creatore, la legge naturale fornisce i solidi fondamenti sui quali l’uomo può costruire l’edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone anche il fondamento morale indispensabile per edificare comunità degli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla la legge civile, la quale ad essa si riallaccia sia con una riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica. 1960 I precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza ed immediatezza. Nell’attuale situazione, la grazia e la rivelazione sono necessarie all’uomo peccatore perché le verità religiose e morali possano essere conosciute «da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore» [Pio XII, Humani generis, 3876] La legge naturale offre alla Legge rivelata e alla grazia un fondamento preparato da Dio e in piena armonia con l’opera dello Spirito. (vai a indice)
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5. In Cammino di Liberazione e di Crescita verso la Pienezza La morale tradizionale insisteva nel dettagliare i peccati; oggi occorre riscoprire il senso del peccato. «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato» ( Reconciliatio et paenitentia n. 18) Fattori di moltiplicazione sono: il clima secolarista; le letture del male che negano la responsabilità della persona; il permissivismo consumista... 5.1. Il peccato e i peccati L’uomo non potrà mai eludere del tutto l’interrogativo del male: «Nell’una o nell’altra forma, la sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dalla esistenza terrena» (Salvifici doloris, 5) Le scienze hanno posto in luce numerosi fattori che portano l’uomo a operare il male (aggressività, conflitti psicologici irrisolti, educazione sbagliata, influssi ambientali...). La riflessione filosofica ha sottolineato la finitezza e la sua non accettazione. La lettura della fede va oltre: «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio» (GS 13) Con il peccato, cominciava una storia di illusione, di schiavitù, di morte, che ci avrebbe segnati tutti profondamente: «Se l’uomo guarda dentro al suo cuore si scopre anche inclinato al male e immerso in tante miserie che non possono derivare dal Creatore... L’uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da se medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato» (GS 13) Questo «mysterium iniquitatis» è stato sconfitto dal mistero pasquale: il «mistero dell’infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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nostra iniquità, per suscitare nell’anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione» (RP 20). Solo in questo stretto rapporto l’annunzio sul peccato sarà veramente evangelico: «Non è concepibile che si parli del peccato in sé. Se ne può parlare solo terapeuticamente... come della potenza dalla quale Cristo ci ha liberato e che ci minaccia unicamente nella misura in cui veniamo meno nella nostra libertà per Cristo e nella nostra fedeltà a lui» Su questo sfondo vanno presentati gli atti-peccato. Ricorda il CdCC: «La varietà dei peccati è grande. La Scrittura ne dà parecchi elenchi. La Lettera ai Galati contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito: “Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere...” (Gal 5,19-21)» (n. 1852; cf 1853; GS 27; VS 80) Una particolare attenzione va data ai «peccati sociali» e alle «strutture di peccato», evidenziando che «si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini» (SRS 36; cf RP 16). Il CdCC ricorda anche che «la distinzione tra peccato mortale13 e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura, si è imposta nella Tradizione della Chiesa» (n. 1855), e la sintetizza così: «Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell’uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio; distoglie l’uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore. Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca» (n. 1855) Il corretto annunzio dei peccati dovrà evidenziare che in essi la persona dice no a una possibilità di liberazione dal «potere del peccato» che la coscienza addita: un no alla grazia che il Cristo anticipa mediante il suo Spirito. (vai a indice) 5.2. Un cammino di crescente conversione 13 Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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L’annunzio autentico del peccato porta all’incontro del perdono in Cristo (cf. Rm 5,2021). Decisiva è la luce dell’amore misericordioso testimoniato dalla croce: «fino a che punto Dio è carità e quale carità egli è, lo si scopre solo in Gesù Cristo e nella sua morte di croce per la salvezza degli uomini» (ETC 12). La conversione è un cammino graduale da percorrere con fiducia, malgrado gli eventuali momenti di debolezza. Si tratta di ristrutturare e rinnovare tutta la personalità, cominciando dalla mente (cf Ef 4,20-23; Col 3,9-10) e dal desiderio (cf Rm 8,5-13; Gal 5,16-26). La stessa esperienza del peccato verrà avvalorata dalla logica pasquale che ne fa «felix culpa». La conversione di ognuno è interdipendente con quella di tutti. La migliore conoscenza del rapporto persona-società ci offre oggi più possibilità per l’annunzio di questa reciprocità. Al suo interno sarà anche più agevole riaprire al bisogno della riconciliazione sacramentale. La conversione deve trasformarsi in cammino di crescita nel bene sostenuto dalle virtù, cominciando da quelle teologali. La prospettiva è quella della chiamata universale alla santità delineata nel cap. V di Lumen gentium, che ne sottolinea: •
il fondamento trinitario e cristologico: «Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato “il solo santo”, ha amato la chiesa come sua sposa e ha dato se stessa per essa, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25-26), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito santo, per la gloria di Dio» (n. 39)
•
l’universalità della chiamata, radicata nel battesimo: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (n. 40)
•
la molteplicità delle concretizzazioni: «Tutti i fedeli nelle loro condizioni di vita, nei loro lavori o circostanze, e per mezzo di tutte queste cose, saranno ogni giorno più santificati...» (n. 41)
•
la pluralità e la reciprocità delle vie e dei mezzi: «Tutti i fedeli sono invitati e tenuti a tendere alla santità e alla perfezione del proprio stato. Perciò tutti si sforzano di rettamente dirigere i propri affetti, affinché dall’uso delle cose di questo mondo e
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dall’attaccamento alle ricchezze, contrario allo spirito della povertà evangelica, non siano impediti di tendere alla carità perfetta» (n. 42) Nella Christifideles laici Giovanni Paolo Il ha sviluppato queste prospettive alla luce delle nuove sfide che il nostro contesto pone alla vocazione e missione dei laici. Con il Sinodo del 1987, sottolinea l’unità della vita: «L’unità della vita dei fedeli laici è di grandissima importanza: essi, infatti, debbono santificarsi nell’ordinaria vita professionale e sociale. Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo» (n. 17) Lo stesso Sinodo ha insistito sulla dimensione socio-politica della santità: «Lo Spirito ci fa scoprire più chiaramente che oggi la santità non è possibile senza impegno per la giustizia, senza solidarietà con i poveri e gli oppressi. Il modello di santità dei laici deve integrare la dimensione sociale della trasformazione del mondo secondo il piano di Dio» (Messaggio finale, n. 3) In questo cammino ognuno deve valorizzare i propri talenti secondo la forte parola di Paolo agli Efesini: «a ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo». Perciò il cammino verso «lo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» va compiuto facendo fruttificare i doni di ognuno per il bene di tutti: «cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4, 7-16) In questa ecclesiologia di comunione, la vita cristiana può/deve scoprire come valore essenziale la reciprocità. Essa implica: •
costante consapevolezza della dinamica dell’«affidamento» vicendevole;
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•
che tutto ciò che ognuno ha ricevuto in dono è sempre per il bene di tutti;
•
il riconoscimento delle competenze di ognuno, evitando massificazioni e individualismi.
La parabola dei talenti (cf. Mt 25,14-30) deve spronare ognuno a fruttificare con lealtà secondo quanto gli è stato affidato, senza invidie o gelosie di qualsiasi tipo. (vai a indice)
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APPENDICE 1 La Critica della Ragion Pratica La fondazione dell’etica In uno dei capitoli finali della prima Critica, Kant afferma che gli interessi fondamentali della ragione, dai quali scaturisce la filosofia, si riassumono nelle tre domande seguenti: 1.
Che cosa posso sapere?
2.
Che cosa devo fare?
3.
Che cosa ho diritto di sperare?
Alla prima domanda egli cerca di rispondere con la Critica della ragion pura, sulle condizioni e i limiti della conoscenza teoretica, fondando la possibilità delle scienze del mondo fenomenico14 e mostrando l’impossibilità della metafisica come scienza della cosa in sé. Nella Critica della ragion pratica Kant affronta il problema della natura e delle condizioni di possibilità della vita morale. Il risultato dell’indagine è importante per la nuova concezione etica che Kant propone. In essa l’uomo, come soggetto etico, è posto al centro dell’universo morale, con una vera e propria “rivoluzione copernicana” analoga a quella compiuta in campo gnoseologico. Anche in questo caso, si tratta non del soggetto individuale, ma della ragione umana in generale. La ragione pratica15 dell'uomo è infatti dichiarata fonte originaria e autonoma della moralità, indipendentemente da ogni contenuto oggettivo dell’azione e da ogni imposizione esterna di un legislatore. E tuttavia la centralità dell'uomo come soggetto etico non elimina i limiti costitutivi della sua natura sensibile, essenzialmente passiva e recettiva, e non diminuisce quindi la drammaticità di un’esistenza etica che implica impegno e sforzo per essere realizzata. Punto di partenza dell’etica di Kant è la convinzione della presenza nell'uomo di una legge morale con valore universale e necessario che ricalca quella sul valore universale e necessario delle leggi della fisica newtoniana, che stava alla base della prima Critica. Scrive Kant nella Conclusione della Critica della Ragion Pratica: “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le 14 Il fenomeno (dal greco φαίνομαι fainomai, "appaio") è un concetto tipico della filosofia kantiana: è infatti l'oggetto dell'esperienza sensibile, concluso mediante le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (le 12 categorie). L'uomo non può percepire le cose come esse sono in sè, ma le percepisce come appaiono a lui, ovvero fenomenicamente. 15 E' detta pratica perché è considerata non in riferimento agli oggetti da conoscere ma ai motivi con cui determina la volontà all’azione, M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.” Compito dell’etica non è allora quello di dimostrare l’esistenza della legge morale, ma di studiarne l’origine e la natura, e di metterne in luce le condizioni di possibilità. Kant esamina la ragione in quanto determina la volontà, cioé guida l’azione e dirige il comportamento volendo dimostrare che solo la Ragione pratica pura, non condizionata empiricamente, è la sorgente della morale. Quindi, mentre la ragione conoscitiva è limitata alla sfera dell’esperienza e dei fenomeni, la ragion pratica può fondare la legge morale proprio perché non è condizionata dall’esperienza. Per Kant l’esistenza di una legge morale universale, valida per tutti gli uomini e sempre, non deve essere dimostrata o giustificata, ma semplicemente constatata, perché è un fatto evidente, un fatto della ragione; ogni uomo sa di dover agire in un certo modo perché la sua ragione (potremmo anche dire: “la sua coscienza”) gli dice che è giusto, che è bene. Il dovere dettato dalla ragione non coincide in nessun modo con il vantaggio personale, con l’istinto o con gli impulsi della sensibilità, con le pressioni sociali, ambientali ecc.: infatti l’uomo avverte un contrasto fra ciò che la Ragion pratica comanda e ciò a cui è spinto dalla sua natura sensibile. Secondo Kant questa voce della ragione (o della coscienza) che comanda “devi agire così, anche se non ti conviene, anche se la tua natura sensibile ti spinge ad altro ecc.” è sentita da ogni uomo allo stesso modo. Quindi la legge morale dettata dalla Ragion pratica è universale ed è diversa da tutti gli altri motivi (motivi non universali, perché diversi da uomo a uomo, come impulsi sensibili, sentimenti, utilità, condizionamenti sociali ecc.) che determinano il comportamento. Chiarita quindi l’esistenza della legge morale dettata dalla Ragion Pratica pura (vale a dire dettata esclusivamente dalla ragione), Kant descrive i caratteri propri della legge morale. La legge morale è: 1) Universale e Necessaria; 2) Categorica; 3) Formale; 4) Libera e Incondizionata; 5) Autonoma Universale e Necessaria16 La legge morale (che scaturisce dalla ragione) è universale e quindi vale per tutti gli uomini e sempre, perché la Ragione è uguale in tutti gli uomini. E’ necessaria perché la Ragion Pratica pura, dettando la legge morale, esige un’obbedienza incondizionata ad essa: il comando della Ragion Pratica pura è “TU 16 il necessario è ciò che non può essere diverso da così com'è e si differenzia dal possibile che è ciò che può essere diverso da così com'è. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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DEVI ...” (Tu devi agire così, indipendentemente dalle condizioni in cui ti trovi...) Categorica Tipologia delle norme o delle prescrizioni della Ragion Pratica: Massime: hanno un valore soggettivo, per esempio “Fai ginnastica alla mattina” non può essere una norma per tutti, è una norma solo per i soggetti che decidono di adottarla. Imperativi Ipotetici (Condizionati): per esempio “per rafforzare la muscolatura devi fare ginnastica ”: è una norma oggettiva perché se si vuole ottenere un certo risultato è necessario agire in un certo modo. Ma lo scopo è soggettivo (rafforzare la muscolatura non è un dovere per tutti). Imperativi Categorici: comandano qualcosa che si impone come un dovere per tutti (legge universale e necessaria) e che non è condizionato o finalizzato. “Tu devi … solo perché la ragione ti dice che tu devi, non ci sono motivi, scopi, condizioni esterni alla ragione”. La legge morale è costituita da imperativi categorici, perché solo gli imperativi categorici possono essere universali e necessari. Le massime hanno un valore soggettivo, gli imperativi ipotetici sottostanno a condizioni o a scopi soggettivi, quindi né le massime né gli imperativi ipotetici possono costituire la legge morale. A questo punto si pone il problema: qual è questo imperativo categorico che costituisce la legge morale? In altri termini “Tu devi…” che cosa? Nella “Critica della Ragion pratica” Kant presenta una sola formula dell’imperativo categorico: I. Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, nello stesso tempo, come principio di una legislazione universale. Nella “Fondazione della metafisica dei costumi” si leggono altre due formule: II. Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo. III. Agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se stessa. La prima formula, che è quella più appropriata, non prescrive un comportamento determinato (del tipo: “sii sincero”, “non uccidere” ecc) ma ordina di agire in un modo che possa essere condiviso dalla ragione di tutti gli uomini, ordina quindi di agire in un modo universalmente valido. Kant offre questo esempio: non è morale chiedere soldi in M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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prestito sapendo di non poterli restituire, perché se questo comportamento venisse adottato da tutti, come norma, si creerebbe una situazione contraddittoria (e inaccettabile per chiunque), nella quale perderebbe di senso il concetto stesso di prestito. Kant dice anche che la prima formula dell’imperativo categorico equivale al precetto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. La seconda e la terza formula sono delle varianti della prima formula, non aggiungono nulla di sostanziale (la seconda formula deriva dalla prima perché un comportamento che strumentalizzi l’uomo non può mai avere valore universale; la terza formula chiarisce meglio l’autonomia della volontà, di cui diremo più avanti) Formale L’imperativo categorico non comanda (e non vieta) un comportamento determinato; esso ci dice come dobbiamo volere, non cosa dobbiamo volere. Dobbiamo volere in modo universale. Quindi l’imperativo categorico, cioé la legge morale, non ha un contenuto, indica soltanto una forma, la forma dell’universalità (Formalismo Etico Kantiano). Kant spiega che se la legge morale avesse un contenuto (comandasse cioé cose determinate) sarebbe il contenuto a determinare la volontà, e non più la ragione. Si perderebbe così l’universalità della legge morale (infatti tutte le norme che comandano o vietano azioni determinate non sono universali, perché ammettono sempre delle eccezioni ). Anche il formalismo etico, secondo Kant, è la traduzione filosofica del principio evangelico secondo cui non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa; dal punto di vista morale conta solo l’intenzione, cioé la volontà di agire in modo universalmente valido. Un’azione può essere legale se è esteriormente conforme alla legge, ma perché sia morale occorre un’adesione interiore, della volontà, dell’intenzione, all’imperativo categorico (quindi dall’esterno non è possibile valutare la moralità di un’azione). Libera e Incondizionata Se la legge morale, per essere veramente universale, deve scaturire esclusivamente dalla ragione, allora la ragione deve essere libera da qualsiasi condizionamento. La ragione pratica, nel determinare la volontà, può essere condizionata dalla natura sensibile dell’uomo, da cui provengono impulsi, passioni, desideri ecc, oppure può essere condizionata da pressioni esterne (che comunque faranno sempre leva sulla natura sensibile dell’uomo), ma in questo caso essa non può generare la legge morale universale, perché la natura sensibile dell’uomo è sempre egoistica e quindi soggettiva. La Ragion pratica può generare la legge morale universale solo quando è “pura”, vale a dire quando è libera da qualsiasi condizionamento e pressione interna od esterna; in M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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particolare quando è libera dalla natura sensibile dell’uomo. Si pone quindi il problema del rapporto tra la Ragione dell’uomo e la natura sensibile, fenomenica dell’uomo, problema su cui torneremo più avanti. La necessaria purezza della ragion pratica da qualsiasi condizionamento della sensibilità induce Kant ad affermare il “rigorismo etico”: l’azione morale deve scaturire esclusivamente dall’imperativo categorico, non deve essere “inquinata” da emozioni e sentimenti, che, per quanto nobili, scaturiscono comunque dalla natura sensibile (così, per esempio, un’azione buona fatta “per pietà” non è perfettamente morale). Autonoma Da quanto detto risulta chiaro che la Ragion pratica, come fonte dell’imperativo categorico e della moralità, è e deve essere autonoma. Questa è la “rivoluzione copernicana” etica: l’uomo non deve più adeguarsi a una legge morale che esista fuori di lui (per esempio nella volontà di Dio o nelle Idee-valori di Platone), l’uomo deve obbedire a una legge morale che scaturisce da lui stesso, dalla sua ragione umana.
La critica delle morali eteronome A questo punto, definite le caratteristiche della legge morale (che nasce dalla ragion pratica pura), Kant sottopone a critica quei sistemi morali che pongono l’origine della legge morale non nella ragione umana ma in altro, e che quindi vengono definiti eteronomi (autonomo = ha la sua legge in sé; eteronomo = riceve la sua legge da altro). In particolare Kant critica: L’utilitarismo e l’edonismo: l’utilità e il piacere sono soggettivi, quindi non si può in alcun modo fondare su di essi una legge universale. Inoltre una legge morale fondata sulla ricerca del piacere e dell’utilità non è incondizionata, infatti non prescrive “tu devi ...”, ma “agisci così se è utile per te”, “agisci così se ti procura piacere” L’eudaimonismo (ricerca della felicità, per es. la morale socratica), anche in questo caso la legge morale è condizionata (“agisci così se ti rende felice”) e non è universale, perché anche la percezione della felicità è soggettiva. La morale religiosa (la legge morale è dettata da Dio): in questo caso la ragione pratica umana non è autonoma, poiché riceve la legge da Dio, e inoltre non è incondizionata, perché si segue la legge morale dettata da Dio per ottenere la salvezza eterna, quindi si cade in una forma di utilitarismo. Inoltre, poiché l’esistenza di Dio non può essere conosciuta razionalmente, una legge morale fondata sulla volontà di Dio avrebbe un fondamento assai dubbio e precario. Per Kant la religione non può essere il fondamento della morale, al contrario, come vedremo, è la morale il fondamento più valido della fede religiosa. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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La posizione critica dell’etica La prospettiva rivoluzionaria della filosofia kantiana è evidente anche nella posizione assunta in campo etico nei confronti dell’empirismo e del razionalismo, nei confronti dei quali esercita una serrata critica. •
Dato che la legge morale si presenta come universale e necessaria essa non può derivare in alcun modo dall’esperienza. L’esperienza può infatti dire come si comportano gli uomini, condizionati dall’educazione o dagli usi sociali, può dire quali sono i sentimenti e le tendenze istintive che li conducono di fatto, e in modi storicamente divergenti, a giudicare buona o cattiva una determinata azione. Essa però non potrà mai fondare un dover essere necessario e universale. L’empirismo etico nelle sue varie forme (etica tradizionalista, edonismo, utilitarismo, etica del sentimento) non potrà quindi mai fondare la legge morale.
•
D'altra parte, neppure il razionalismo etico, che vuole derivare la legge morale dal concetto di perfezione (= è bene ciò che mi conduce alla perfezione), o dalla volontà di Dio (= è bene ciò che Dio mi comanda), è in grado di dare una sufficiente giustificazione della legge morale. Esso infatti vorrebbe fondare l’etica sulla metafisica. Ma dato che la metafisica è impossibile, ogni razionalismo etico è destituito di validità.
Problema del rapporto tra morale e natura La libertà non esiste nel mondo naturale (fenomenico), e l’uomo fa parte di questo mondo, è un essere naturale. Ma la legge morale, proprio perché incondizionata, implica la libertà: non avrebbe senso il “TU DEVI!” della Ragion pratica, se non esistesse la libertà, cioé se non esistesse la possibilità di obbedire al TU DEVI sottraendosi al determinismo naturale. Quindi l’esistenza della legge morale pone l’uomo al di sopra del mondo naturale, fenomenico; la ragione dell’uomo, da cui scaturisce la legge morale, è collocata in un mondo soprasensibile, noumenico, in cui è libera e incondizionata (questo mondo soprasensibile è chiamato da Kant “il regno dei fini”). Ciò non contraddice la Critica della Ragion Pura perché essa non negava l’esistenza del mondo soprasensibile, ma solo la possibilità di conoscerlo. Quindi l’uomo è bidimensionale: come essere dotato di una ragione pratica libera e incondizionata fa parte del mondo soprasensibile, noumenico, fa parte del “Regno dei fini”; come essere naturale, dotato di corpo e di sensibilità, fa parte del “Regno della natura”, fenomenico, deterministico. L’uomo è bidimensionale: la legge morale nasce dalla ragion pratica libera e
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incondizionata, ma deve realizzarsi nel mondo sensibile, la volontà umana è spinta dalla ragion pratica pura ad agire in un certo modo, ma è sottoposta anche ai condizionamenti della natura sensibile dell’uomo. C’è quindi una tensione, una lotta fra la ragion pratica pura e gli impulsi naturali: la legge morale si presenta come “TU DEVI” proprio perché incontra una resistenza. Se l’uomo non fosse bidimensionale: •
se l’uomo fosse solo un essere naturale agirebbe sempre per istinto e non sentirebbe mai il contrasto tra i suoi impulsi naturali e il “dovere”;
•
se l’uomo invece fosse solo pura ragione agirebbe in modo morale sempre e senza sforzo, il suo comportamento sarebbe adeguato alla legge morale automaticamente, spontaneamente; l’uomo allora sarebbe santo, cioé moralmente perfetto, ma la santità è impossibile all’uomo bidimensionale.
L’affermazione della libertà dell’uomo, con la conseguente affermazione di una dimensione soprasensibile dell’uomo, non è un’affermazione scientifica, non esprime una conoscenza dello stesso tipo delle conoscenze scientifiche. Infatti nella Critica della ragione pura Kant aveva affermato che nel mondo fenomenico la libertà non esiste (Principi dell’intelletto puro: analogie dell’esperienza: l’esperienza è costituita da una trama necessaria di rapporti…), e che la ragione non può sapere se nel mondo come totalità esistano oppure no cause libere (dialettica trascendentale: terza antinomia della cosmologia razionale). Per Kant l’affermazione della libertà umana è un postulato = affermazione non dimostrabile, presupposta necessariamente dalla vita morale e che ha esclusivamente un “uso pratico”, cioè ha valore soltanto nella e per la vita morale. Dialettica della Ragion Pratica E' la parte della Critica della Ragion Pratica in cui viene esaminata la antinomia della ragion pratica. La nostra natura tende inevitabilmente al sommo bene = unità di felicità e virtù (moralità), ma noi non agiamo in modo morale (o virtuoso) per essere felici, perché in tal caso il nostro agire non sarebbe incondizionato (vedi sopra la critica all’eudaimonismo), tuttavia sentiamo l’esigenza che alla virtù corrisponda la felicità. Sentiamo che la persona virtuosa è degna della felicità. L’antinomia della Ragion Pratica consiste nel fatto che questa esigenza di sommo bene, di unità tra Virtù e Felicità, non è soddisfatta, perché nella vita terrena la Felicità e la Virtù sono distinte e spesso opposte. E’ vano ogni tentativo di sciogliere questa antinomia nella vita presente (per esempio dicendo che l’uomo virtuoso è felice anche nelle
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sofferenze, che “la virtù è premio a se stessa”) L’unico modo per risolvere l’antinomia è postulare17 un mondo soprasensibile in cui alla virtù corrisponda la felicità e in cui pertanto sia soddisfatta l’esigenza del Sommo Bene. Per Kant tre sono tali postulati: esistenza di Dio, immortalità dell’anima, libertà. Essi sono in corrispondenza con le 3 Idee della metafisica (la libertà era una delle tesi contrapposte nell’idea del Mondo come totalità) Esistenza di Dio = credenza in una volontà santa e onnipotente che fa corrispondere la felicità alla virtù. L’unità di virtù e felicità deve essere realizzata da Dio. Immortalità dell’anima = solo la santità rende degni del Sommo Bene e la santità non è conseguibile nella vita terrena, occorre perciò pensare un tempo infinito in cui l’uomo possa conseguire la santità e rendersi degno del Sommo bene. I primi 2 postulati (Dio e Immortalità dell’anima) si fondano su un’esigenza morale: non costituiscono una conoscenza e neppure sono indispensabili per l’agire morale che dipende solo dal “TU DEVI” della Ragion pratica; tuttavia la vita morale, senza i postulati, risulterebbe segnata da una grave contraddizione, risulterebbe in qualche modo assurda, e quindi difficilmente sostenibile. Per questo Kant dice che i postulati hanno solo un uso pratico, intendendo che non sono utili per la conoscenza “scientifica”, ma sono utili per la vita morale. Anche la Libertà è un postulato , e non una conoscenza, anche se ha un fondamento più solido dei precedenti postulati, perché non si fonda solo su una esigenza della Ragione (l’esigenza del Sommo Bene), ma si fonda sul fatto stesso della Ragion Pratica pura (per Kant l’esistenza di una legge morale universale e necessaria è un fatto da constatare). Come già rilevato, non c’è contraddizione tra i risultati della Critica della Ragion Pura e i risultati della Critica della Ragion Pratica: infatti la Critica della Ragion Pura negava la possibilità di conoscere Dio, Anima e Mondo, ma non escludeva che potessero esistere al di là dei limiti della nostra conoscenza fenomenica. La Critica della Ragion Pratica postula Dio, l’immortalità dell’anima e la libertà ma non attribuisce valore conoscitivo a questi postulati. Il rapporto morale - religione Da quanto abbiamo detto sui postulati risulta che l’unica via di accesso a Dio e all’immortalità dell’anima è offerta dalla morale, anche se questa via non ha un valore conoscitivo. Insomma la morale costituisce il fondamento della religione e non viceversa. Naturalmente se la religione risulta fondata sulla morale, allora l’aspetto essenziale della religione è costituito dal suo insegnamento morale, mentre tutti gli altri aspetti (dottrinali, ritualistici, ecc.) sono marginali e superflui. Fra tutte le religioni il 17
Postulati della ragion pratica = proposizioni non evidenti né dimostrabili, ma condizioni dell’esistenza e pensabilità della vita morale.
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cristianesimo è la religione perfetta perché il suo messaggio morale corrisponde completamente alla morale universale e necessaria espressa dall’imperativo categorico kantiano, e Gesù Cristo viene visto come il più grande maestro di morale; naturalmente tutti gli aspetti salvifici e miracolistici della vita e della personalità di Gesù Cristo vengono eliminati. Il primato della Ragion Pratica sulla Ragion Pura Kant afferma anche che la Ragion Pratica ha un primato sulla Ragion Pura, cioé che la Morale è più importante della Conoscenza Scientifica. Questo primato è giustificato dal fatto che la Ragion Pratica colloca l’uomo in quella dimensione noumenica e soprasensibile che è preclusa alla conoscenza scientifica. Insomma se l’uomo avesse solo una Ragione conoscitiva e non avesse una Ragion pratica pura (una coscienza morale) potrebbe concepirsi solo come un essere naturale totalmente soggetto alle leggi della natura, alla pari di tutti gli altri esseri naturali. Inoltre non è indispensabile che ogni uomo abbia una conoscenza scientifica della natura: si può essere “uomini” anche ignorando le leggi della natura; invece è indispensabile che ogni uomo abbia una ragion pratica pura (una coscienza morale) per vivere un’esistenza “umana”. (vai a indice)
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APPENDICE 2 Sulla Coscienza E' estremamente difficile dare una definizione della coscienza poiché, trattandosi di un fenomeno che non può avere un riscontro di tipo empirico, non ci si può riferire agli ordinari oggetti o fenomeni del mondo fisico, osservabili in maniera oggettiva, né si possono utilizzare concetti o categorie da essi derivati. Si tratta infatti di un fenomeno strettamente privato che riguarda i vissuti di uno specifico individuo e che non permette alcuna rilevazione dall'esterno, secondo le modalità standard in uso nella scienza. Non riusciremmo neppure lontanamente, a spiegare cosa sia la coscienza, o cosa significhi essere coscienti, a un ipotetico essere che sia privo di questa facoltà e si limiti ad agire in maniera del tutto automatica. Definire la coscienza vuol dire allora far riferimento necessariamente all'esperienza diretta che ognuno di noi ha di essa, riallacciandosi ai diversi aspetti dei vissuti che essa implica.
Detti comuni
La Coscienza, quindi:
in coscienza ti dico che...
ispira il pensiero
mettiti una mano sulla coscienza ma non hai un po' di coscienza?
stimola il giudizio morale
ascolta la voce della tua coscienza il medico deve agire con scienza e coscienza
è in relazione con la conoscenza
sei un incosciente
può essere assente
fatti un esame di coscienza
può essere un paradigma
ho la coscienza pulita hai la coscienza sporca
possiede qualità
libertà di coscienza votare secondo coscienza
ispira il giudizio
essere obiettore di coscienza
E dunque: Che cos’è la coscienza? Solo un organismo al mondo, l'uomo, è in grado di pensare a se stesso. Di non pensare
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solo al qui e ora animale, ma a un passato e ad una prospettiva di futuro. A Chilone da Sparta (uno dei Sette Savi) si fa risalire la massima di saggezza conosci te stesso scritta sul frontone d’ingresso del tempio di Delfi a significare che la comprensione di se è la madre di tutti i problemi. Quando l’uomo tradusse i suoi pensieri in parole si pose il problema della loro origine e, non sapendo cosa fossero gli istinti, ne dedusse che forze esterne comandavano le menti. Nacque così, secondo il parere di alcuni pensatori moderni, la religiosità18. *** Definizione In prima approssimazione, la coscienza può essere definita come “presenza all'essere”: presenza di un qualche contenuto a un ente che ne fa esperienza diretta e immediata (non-mediata). Si può essere coscienti di un suono, di una luce, di un odore particolare, della presenza di una persona o di un animale o dell'accadere di un evento qualsiasi; ma è anche possibile essere coscienti (o rendersi conto) di una sensazione piacevole o dolorosa, di un'emozione o un sentimento, ecc. Dobbiamo a Franz Brentano19 l'introduzione del concetto di intenzionalità, che si riferisce a quella particolare caratteristica della coscienza di essere sempre rivolta a qualcosa. In tale prospettiva, la coscienza non può essere considerata un oggetto, quanto piuttosto una funzione, la più primitiva e immediata, attraverso la quale determinati oggetti o proprietà della realtà si rendono accessibili, con coinvolgimento più o meno profondo, a uno specifico soggetto. Nello stesso tempo, la coscienza presuppone necessariamente anche l'esistenza di un ente personificato che si ponga come soggetto di esperienza. Non è possibile una coscienza "disincarnata", una coscienza che non sia esperienza vissuta da parte di qualcuno, che si riduca cioè a una coscienza in "terza persona", senza soggetto, secondo la prospettiva dominante all'interno delle scienze cognitive. Queste caratteristiche, che distinguono nettamente la coscienza da ogni altro fenomeno conosciuto, l'hanno resa per lungo tempo un oggetto d'indagine assai ostico per la scienza. Forme e manifestazioni della coscienza Si parla solitamente di coscienza in termini piuttosto generici, senza soffermarsi a sufficienza sui suoi diversi aspetti e manifestazioni, che dovrebbero invece rappresentare altrettanti punti di partenza per qualsiasi seria analisi conoscitiva. In primo luogo la 18 Il problema dell'origine della religione è stato affrontato da molti pensatori in vari ambiti (storia, psicologia, antrolopogia, sociologia) per rendere conto dell'universalità del fenomeno religioso. Presupposto ricorrente delle varie ipotesi è l'inesistenza di Dio e del soprannaturale. 19 Franz Brentano (Boppard, 1838 – Zurigo, 1917) è stato un filosofo e psicologo tedesco, maestro di Edmund Husserl e Alexius Meinong. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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coscienza può esprimersi a diversi livelli. C'è il livello delle esperienze sensoriali e percettive: esperienze vissute da un corpo non necessariamente consapevole del proprio esistere come ente distinto dal mondo esterno. E' questo un livello di coscienza che con tutta probabilità l'uomo condivide con molti animali, almeno quelli a lui più vicini nella scala evolutiva. C'è poi il livello più elevato, che è quello della consapevolezza dei propri stati emotivi, dei propri pensieri: è la coscienza del vivere determinati contenuti mentali. E' l'essere che si percepisce vivente, che si distacca idealmente da se stesso, rappresentandosi come oggetto di osservazione (autocoscienza). Questa forma di coscienza è una prerogativa squisitamente umana, anche se non si può escludere che alcuni primati possano sperimentare qualche elementare forma di coscienza di sé. Abbiamo anche un'altra distinzione, di fondamentale importanza: la coscienza può manifestarsi in forma passiva, oppure in forma attiva. Si può brevemente definire passiva quella componente della coscienza che rende disponibili al soggetto i diversi stimoli che forniscono informazioni sul mondo esterno (sensazioni e percezioni) o sul proprio stato interno (fame, sete, freddo, piacere, dolore, ecc.). La componente attiva è invece da porre in relazione con la volontà, ossia con la facoltà di scegliere e di decidere con un certo margine di autonomia, come pure di esercitare un relativo controllo su molte attività motorie. Ovviamente, la volontà può rivolgersi anche a molte delle nostre funzioni cognitive: possiamo infatti focalizzare l'attenzione su suoni o altri stimoli sensoriali, selezionandoli eventualmente tra altri presenti nell'ambiente, o richiamare volontariamente alla nostra memoria determinati ricordi, o anche concentrarci sulla soluzione di un particolare problema, escludendo dal nostro campo cosciente tutti gli altri fattori. In ogni caso, la volontà è sempre cosciente e fa si che il soggetto si ponga nella condizione di essere causa della propria attività. La coscienza viene così a porsi come fondamento della libertà dell'uomo, ossia di ciò che viene chiamato libero arbitrio: presupponendo, almeno in linea di principio, che un organismo dotato di coscienza si muova nell'ambiente in maniera più efficace rispetto a un organismo che invece ne è privo, si può dedurre che l'efficacia è una proprietà operativa della coscienza nel mondo fisico. Le contraddizioni della coscienza L'esistenza della coscienza pone seri problemi alla riflessione filosofica e, in maniera assai più marcata, all'indagine scientifica. Detti problemi corrispondono sostanzialmente alla millenaria questione del rapporto mente-corpo, che ha due aspetti fondamentali, riconducibili alle citate componenti, passiva e attiva, della coscienza: a) Come è possibile che fenomeni fisici che si svolgono impersonalmente all'interno dei neuroni cerebrali diano origine alle esperienze coscienti, vissute con profondo M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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coinvolgimento da una determinata soggettività? b) Come è possibile che la volontà sia un prodotto dei processi nervosi, vincolati a leggi universali e necessarie, e nello stesso tempo goda di una relativa autonomia, tanto da permettere azioni e scelte libere? Da un punto di vista più strettamente scientifico, c’è inoltre il problema di conciliare l’inevitabile soggettività delle nostre esperienze coscienti con l'oggettività prescritta dal metodo d'indagine scientifica. Render conto della coscienza L'indagine sulla coscienza, sia in ambito filosofico che in quello neuroscientifico, ha dato origine a una costellazione estremamente ampia e variegata di proposte esplicative. Ci limitiamo qui a prendere in considerazione i due principali filoni all'interno dei quali possiamo ricondurre le attuali concezioni. Infatti, una volta riconosciuta definitivamente l'inaccettabilità delle soluzioni dualiste, gli studiosi possono essere grossolanamente suddivisi tra coloro che cercano di ricondurre interamente la coscienza ai fenomeni fisici del cervello (riduzionisti) e coloro che ritengono tale prospettiva inadeguata (non-riduzionisti): a) Il riduzionismo, ovvero la coscienza come mera espressione dell'attività cerebrale. Secondo i riduzionisti essa non sarebbe altro che la stessa attività di elaborazione considerata da un livello più elevato (teoria dell'identità); per altri la coscienza, come tutte le proprietà della mente, sarebbe il risultato di un gran numero di operazioni effettuate sulle base di algoritmi, in maniera fondamentalmente analoga a quanto avviene nei comuni computer. Alcuni riduzionisti si spingono fino all'estremo di negare addirittura che esista qualcosa come la coscienza. b) Il non-riduzionismo, ovvero il riconoscimento della centralità dell'esperienza cosciente. Gli anti-riduzionisti sottolineano la peculiarità delle manifestazioni della coscienza e quindi la loro sostanziale irriducibilità al mondo degli ordinari fenomeni fisici. Anche qui le posizioni si presentano assai differenziate. Si va da coloro che si limitano a fare osservazioni circa la radicale distanza esistente tra l'esperienza soggettiva e gli altri eventi del mondo materiale, a coloro che invece elaborano dei modelli esplicativi più o meno definiti, fino a giungere a chi, partendo dal riconoscimento dell'irriducibilità della coscienza, arriva a concludere che questa non potrà mai essere spiegata. I problemi posti dalla coscienza, nonostante il grande impegno ad essa dedicato da filosofi e scienziati, nonostante le numerosissime scoperte effettuate in campo clinico e sperimentale, sono ben lungi dall'essere risolti. Non appare troppo azzardato ipotizzare che il maggiore ostacolo alla comprensione della coscienza, viste le caratteristiche assolutamente peculiari di questo fenomeno, non sia tanto costituito dalla incredibile complessità dell'organizzazione cerebrale, come tende a credere la maggioranza degli M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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studiosi, quanto dal fatto di voler ottenere tale comprensione all'interno di un modello che si è sviluppato studiando i fenomeni della natura inanimata. A seconda dell'ambito nel quale viene osservata, la coscienza viene intesa nei seguenti modi: Coscienza in neurologia E' lo stato di vigilanza della mente contrapposta al coma. Una valutazione dello stato di coscienza, da non confondere con lo stato di consapevolezza20, è data dalla AVPU, scala di valutazione dello stato di coscienza, acronimo le cui lettere stanno a significare Alert, Verbal, Pain, Unresponsive. Alert (vigile): in questa fase la persona è sveglia e cosciente. Questo stato viene valutato positivamente se la persona riesce a rispondere in maniera chiara a semplici domande quali "Cosa è successo?" o "Come si chiama?". Verbal (verbale): in questa fase la persona risponde agli stimoli verbali attraverso gli occhi, la voce (o bisbigli) o atti motori, ma risulta confusa o assopita. Pain (dolore): in questa fase la persona non risponde agli stimoli verbali ma soltanto agli stimoli dolorosi. Unresponsive (senza risposta): in questa fase la persona non risponde né agli stimoli verbali né a quelli dolorosi e risulta quindi completamente incosciente. Coscienza in psicologia è lo stato o l'atto di essere consci, contrapposta all'inconscio: esperienza soggettiva di eventi o di sensazioni. Coscienza in psichiatria funzione psichica capace di intendere, definire e separare l’io dal mondo esterno. Coscienza in etica capacità di distinguere il bene e il male per comportarsi di conseguenza, contrapposta all'incoscienza. Coscienza in filosofia ha assunto nel corso della storia della filosofia significati particolari e specifici distinguendosi dal termine generico di consapevolezza, attività con la quale il soggetto entra in possesso di un sapere. Autocoscienza è la riflessione del pensiero su se stesso. Coscienza di classe secondo le teorie marxiste della società e della storia, è la consapevolezza che gli appartenenti di una specifica classe sociale hanno di sé come gruppo. (vai a indice)
20 una persona infatti può essere cosciente e responsiva (alert) ma non essere consapevole, ad esempio, di dove si trovi. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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APPENDICE 3 Benedetto XVI L’elogio della coscienza La verità interroga il cuore (Cantagalli, 2009)
Una conversazione sulla coscienza erronea ed alcune prime conclusioni La questione della coscienza ci porta al cuore del problema morale, così come la stessa questione dell’esistenza umana. Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza. Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, per poter salvare con questo stratagemma gli uomini; ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare e che sia adatto solo a nature particolarmente forti. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Colui che parlava in tal modo, sincero credente, esprimeva una modalità di esperienza di fede che può solo inquietare e la cui diffusione potrebbe essere fatale per la fede. L’avversione addirittura traumatica di molti contro ciò che considerano un tipo di cattolicesimo “pre-conciliare”, deriva, secondo me, dall’incontro con una fede di tal genere, rimasta ormai quasi solo un peso. Tuttavia, seguendo un secondo filo di riflessioni, mi sembrò che fosse falso anche il concetto di coscienza che veniva presupposto. La coscienza erronea protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la salva: questa era l’argomentazione. Qui la coscienza non si presenta come la finestra che M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nasconderlesi. L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde, tanto meglio è per lui. Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in questa discussione, divenne pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una disputa tra colleghi, a proposito del potere di giustificazione della coscienza erronea. Qualcuno obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercali in paradiso. Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la massima naturalezza che le cose stavano proprio così: essendo profondamente convinti della loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e quindi, a livello soggettivo, si comportarono moralmente bene. Dal momento che essi seguirono la loro coscienza si dovrebbe riconoscere che il loro comportamento era per loro morale e non si potrebbe pertanto mettere in dubbio la loro salvezza eterna. Dopo una tale conversazione fui assolutamente sicuro che c’era qualcosa che non quadrava in questa teoria sul potere giustificativo della coscienza soggettiva. Tempo dopo trovai sintetizzate dallo psicologo Albert Gorres le intuizioni che da lungo tempo anch’io cercavo di articolare a livello concettuale. La loro elaborazione intende costituire il nucleo di questo contributo. Gorres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa, appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo: “Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa” Del resto anche solo uno sguardo alla Sacra Scrittura avrebbe potuto preservare da simili diagnosi e da una simile teoria della giustificazione mediante la coscienza erronea. Nel Salmo 19,13 è contenuta quest’affermazione, sempre meritevole di ponderazione: “Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe che non vedo!” Qui non si tratta di oggettivismo veterotestamentario, ma della più profonda saggezza umana: il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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uno è ancora in grado di riconoscere come tale. Chi non è più in grado di riconoscere che uccidere è peccato, è caduto più profondamente di chi può ancora riconoscere la malizia del proprio comportamento, poiché si è allontanato maggiormente dalla verità e dalla conversione. Non per niente, nell’incontro con Gesù, chi si autogiustifica appare come colui che è veramente perduto. Se il pubblicano, con tutti i suoi innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere veramente buone (Lc 18,9-14), ciò avviene non perché i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui, e neppure che ciò non sia poi in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio paradossale di Dio si mostra proprio a partire dalla nostra questione: il fariseo non sa più che anch’egli ha delle colpe. È completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e per gli uomini. Invece il grido della coscienza, che non dà tregua al pubblicano, lo fa capace di verità e di amore. Per questo Gesù può operare con successo nei peccatori, perché essi non sono diventati, dietro il paravento di una coscienza erronea, impermeabili a quel cambiamento che Dio attende da essi, così come da ciascuno di noi. Egli non può invece avere successo con i “giusti”, precisamente perché ad essi sembra di non aver bisogno di perdono e di conversione; infatti la loro coscienza non li accusa, ma piuttosto li giustifica. Qualcosa di analogo possiamo trovare anche in San Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16): I Giudei a loro volta oggetto dell'ira divina [1]Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. [2]Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. [3]Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? [4]O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? [5]Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, [6]il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: [7]la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; [8]sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all'ingiustizia. [9]Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco;
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[10]gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, [11]perché presso Dio non c'è parzialità. Malgrado la legge [12]Tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno anche senza la legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati con la legge. [13]Perché non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati. [14]Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; [15]essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono. [16]Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo. Tutta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità, di una verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Dio a motivo del suo essere creaturale. Essa non viene vista solo quando e perché non si vuole vederla. Non vederla è peccato. A questo punto della nostra riflessione è possibile tirare le prime conseguenze per rispondere alla questione sulla natura della coscienza. Possiamo dire ora: non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’auto-coscienza dell’io, con la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza, da una parte, può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e delle opinioni ivi diffuse. Dall’altra parte può derivare da una carenza di autocritica, da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito. Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa occidentale, conferma questa diagnosi: un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio.
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L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e ad un pericolo mortale. Detto in altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. Chi fa coincidere la coscienza con convinzioni superficiali, la identifica con una sicurezza pseudo-razionale, intessuta di autogiustificazione, conformismo e pigrizia. La coscienza si degrada a meccanismo di decolpevolizzazione, mentre essa rappresenta proprio la trasparenza del soggetto per il divino e quindi anche la dignità e la grandezza specifiche dell’uomo. La riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa nello stesso tempo la rinuncia alla verità. Quando il Salmo, anticipando la visione di Gesù sul peccato e la giustizia, prega per la liberazione da colpe non consapevoli, esso attira l’attenzione su tale connessione. Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora prende la sua rivincita, è la vera colpa, una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già San Paolo aveva detto (cfr. Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, anche i criminali che agiscono con convinzione rimangono colpevoli. Che cosa è la coscienza e come parla? Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste, quando abbiamo detto che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma, di rimando, sorge immediatamente l’obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività? Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti, non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune
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oggettivo di più alto livello? In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale. Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi e quindi viene stabilito il carattere assolutamente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L’esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l’uomo dà all’uomo una dignità assoluta. Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse se stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un’azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro, o addirittura esige da lui, di compiere questa stessa azione? Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscienza individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann. Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come “super-io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno formati e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più dall’esterno, ma dal più intimo di noi stessi. In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sorgente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi da cui liberarsi per scoprire l’ampiezza della sua reale libertà. Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni di coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente. Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto un’educazione formale, reagiscono spontaneamente contro l’ingiustizia. Essi dicono un sì spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere. D’altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà e una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso, o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono, una sorta di comando a distanza volto a guidare l’uomo attraverso ciò che gli è stato insegnato. Qual è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull’argomento: “la coscienza è un organo, non un oracolo”. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma, essendo un organo, ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola. Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall’esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, ovvero che possiamo esprimerci con il linguaggio. L’uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l’uomo è “un essere che ha bisogno dell’aiuto di altri per diventare ciò che è in se stesso”. Vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L’uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell’aiuto degli altri. La coscienza richiede formazione ed educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per un’intera civiltà. Incontriamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l’uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza. Non riuscire ad avere una coscienza della colpa è una malattia. Non si può quindi accettare il principio secondo cui ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece, è proprio per colpa sua se la sua coscienza è oscurata al punto da non fargli più vedere ciò che, in quanto uomo, dovrebbe vedere. In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di avere cura di essa, di formarla e di educarla. Il diritto della coscienza è l’obbligo di formarla. Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l’utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità. Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza. Sarebbe quindi semplicistico porre un’affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo. Che cosa c’è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione? O è un’alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole? È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un’apertura in maniera consona alla gravità della questione. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Se io credo che la Chiesa abbia le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina della Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell’autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una risonanza interiore della sua parola all’interno della coscienza, e ciò significa qualcosa di più di una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello… (vai a indice)
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APPENDICE 4 Legge temporale e divina Legge umana e divina non sono ripartite verticalmente, ossia in ambiti diversi e limitati in modo da non contrastare; vengono entrambe dalla coscienza, ma secondo una ripartizione orizzontale per la quale entrambe agiscono legittimamente a tutto campo su ogni aspetto della vita, ma la legge divina risiede in un piano superiore che per il cristiano prevale sui contenuti di quella umana. Tommaso d'Aquino scrisse che se un cristiano compie un'azione senza interesse personale, credendo sinceramente che sia la cosa giusta, non compie peccato davanti a Dio; il principio vale se non c'è un'esplicita indicazione nella Bibbia, in seguito esteso alle indicazioni fornite dalla Chiesa. Ciò perché la legge non riesce a esaurire il singolo caso e la coscienza del singolo, nelle varie circostanze si interroga su come agire nel rispetto delle regole generali. Secondo la teologia cattolica Dio stesso è la Legge e la sua incarnazione in Gesù è un'individuazione "hic et nunc" in cui la legge non è più soltanto generale come è sempre stata, ma diviene anche particolare. In Gesù la Legge è Persona. Inabitazione Secondo la teologia cattolica, l'inabitazione è un'iniziativa dello Spirito Santo che porta le tre Persone della Trinità a vivere dentro l'anima del giusto. Poiché lo Spirito è un agire, l'inabitazione è tanto più presente (intensa duratura e probabile) quanto più la persona agisce per amore del prossimo. La teologia distingue un'esperienza oggettiva in cui le Tre Persone sono conosciute e amate da atti, e una soggettiva in cui c'è dialogo fra la persona e lo spirito che la inabita, di un'intensità che varia dall'appropriazione alla idetificazione personale. L'inabitazione è un'esperienza di santi e mistici, così come un fatto aperto e diffuso a chi vive un momento di santità. Il passaggio successivo è la dottrina dell'inabitazione per la quale la predicazione non è persuasione, ma Potenza di Dio secondo Paolo: il predicatore non converte tanto per la forza delle parole che dice, quanto perché mentre predica c'è una presenza divina che entra nelle coscienze di chi ascolta e agisce dentro di loro. Per la teologia l'ascolto della Parola è il momento in cui con le parole la presenza di Gesù esce da chi predica per andare a inabitare anche chi ascolta. L'inabitazione di Gesù che è anche la Legge nella coscienza del cristiano, supera il contrasto fra universale e particolare nella Legge. La teologia confida che i cristiani siano in grado con la loro coscienza di capire se una legge civile è o meno contro la religione, perché ritiene che in ogni credente vive Gesù; Agostino da Ippona afferma che quella voce della coscienza, che riflettendo, fa intuire cosa è bene e male, è Dio stesso che parla dentro di noi, "più M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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intimo a noi di noi stessi" (de Trinitate), perché scruta la profondità dell'Io, mentre i cristiani non si accorgono della sua presenza, e quanti se ne accorgono non possono comunque conoscere l'infinito. In tempi più recenti, Itala Mela ha elaborato una teologia riconosciuta dalla Chiesa cattolica, riguardo a un'inabitazione cosciente e libera della Trinità nei cristiani. Nel Vangelo di Giovanni si parla dell'inabitazione: «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14, 23-29) e del Consolatore : "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi lo Spirito di verità (in greco πνεῦμα ἀληθείας, il soffio vitale di una verità che si rivela) che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli dimora presso di voi e sarà in voi (παρ'ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔσται) e più avanti: "dove Io vado voi non potrete venire; ma non vi lascerò soli, vi mando un Consolatore che resterà con voi fino alla fine dei giorni" (Gv 14, 14-17) Il Consolatore è lo Spirito Santo, che diversamente da Gesù non è più visibile a tutti, ma comunque vive nel corpo di ogni cristiano ed è parte della sua coscienza. La libertà di coscienza cristiana poggia sulla dottrina dell'inabitazione di una divinità che suggerisce al cristiano ciò che è giusto e ciò che non lo è. La capacità di discernere bene e male e di stabilire in particolare se una legge è in contrasto con la volontà divina, per i cattolici è una qualità innata in ogni essere umano. Ogni essere umano è a immagine e somiglianza di Dio, anche perché ha dentro di sé l'idea della verità, una copia che è di ogni uomo. Anche un non cristiano, secondo Giovanni possiede la verità "all'interno della sua anima"; la verità è data in dono e risiederebbe dentro ogni uomo. Il problema del primato delle leggi religiose su quelle civili dunque riguarda anche il cristianesimo e le religioni in genere, non solo l'islam. Disobbedire una legge dello Stato è un reato; è lo Stato che ha recepito un principio della laicità nelle religioni, lasciando libertà di voto ai Parlamentari e di scelta ai cittadini negli ambiti che rischiano di imporre regole che urtano la legge delle varie religioni (esempio in questioni di bioetica). In tali temi la legge statale prevede il diritto di rifiutare certe azioni che la legge prevede come legali se contrastano il proprio credo (esempio l'obbligo di praticare l'aborto per medici M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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cattolici).L'accettazione della pena che segue per chi eventualmente ha disobbedito la legge statale, è un modo con il quale il cittadino torna a porsi al di sotto delle leggi statali e a riconoscerne il ruolo; la legge religiosa prevarrebbe su quella statale nella misura minore possibile, solamente quando le due contrastano e nemmeno nel sottrarre alla pena statale chi crede di avere agito nel giusto, disobbedendola. In questo modo i calvinisti disobbedivano a certi editti dei re, ma si lasciavano arrestare senza opporre resistenza o fuggire in esilio. (vai a indice)
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APPENDICE 5 Sistemi morali « La purezza dell'intenzione può giustificare delle azioni che in se stesse sono contrarie al codice morale e alle leggi umane » (Antonio Escobar y Mendoza, Summula casuum conscientiæ, 1627) Nell'ambito della teologia morale, s'intende per sistema morale quella dottrina che, in caso di dubbio riguardo alla liceità di un'azione morale, consente al soggetto di essere moralmente giustificato della scelta personale operata. Nei secoli XVII e XVIII si diffusero nell'ambito della teologia cristiana e della casistica gesuitica vari sistemi morali, che si proposero di comporre gli eventuali conflitti fra libertà di coscienza e regola morale ricorrendo a principi poggianti su un consenso universale: 1 Il lassismo 2 Il probabilismo 3 L'equiprobabilismo 4 Il probabiliorismo 5 Il tuziorismo Il lassismo Il senso comune intende per lassismo una coscienza "lassa", "rilassata" in nome della quale si sminuisce ciò che è grave giudicandolo di poco conto o veniale, fino a considerare permesso ciò che è proibito. Secondo la teologia morale, la coscienza lassa va invece distinta da quella "larga" secondo la quale si hanno tanti buoni motivi per agire secondo coscienza per cui anche se la legge morale presenta altrettanti, o anche più forti ragioni, si deve preferire l'obbedienza alla propria coscienza. Quindi in caso di dubbio nell'operare una scelta morale, la dottrina lassista suggerisce di preferire l'ipotesi prospettata dalla propria coscienza piuttosto che quella imposta dalla legge, anche se non è probabile che la prima sia migliore della seconda. Secondo la teologia morale, mentre quindi il peccatore trasgredisce la legge di cui riconosce l'obbligatorietà e quindi riconosce la propria colpa per non aver obbedito, il lassista non ne riconosce l'obbligatorietà ma la giudica trascurabile e ritiene di poter compiere l'atto morale in nome della propria libertà di coscienza. I sostenitori del lassismo agli inizi del XVII secolo furono i gesuiti Antonio de Escobar y Mendoza, E. Bauny, V. Filliucci, e F. Amico. La diffusione delle teorie lassiste causò nella Francia del secolo XVII la cosiddetta "querela del lassismo", diretta in primo luogo contro i gesuiti. La casuistica attirò le critiche di Pascal espresse nel suo Lettere provinciali. M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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La dottrina lassista fu condannata dal Sant'Uffizio ripetutamente e condannata anche dai papi Alessandro VII e Innocenzo XI. Il probabilismo Il teorico di questo sistema morale viene considerato il domenicano spagnolo B. de Medina che, nella sua Expositio in I-II s. Thomae, sostenne che non avendo valore la legge di dubbia interpretazione, quando l'opinione opposta è pure semplicemente probabile, sia lecito seguirla, anche se è più probabile l'opinione favorevole alla legge. In altre parole, contro la legge incerta prevale la libertà di coscienza. Se poi si deve operare una scelta tra casi dubbi, è ammesso seguire l'opzione probabile, purché sostenuta da almeno un teologo. Quindi anche se l'altro termine della scelta fosse stato confortato e sostenuto dalla legge, è lecito seguire l'opinione probabile, dettata dalla propria coscienza, purché sostenuta da un parere autorevole. Il probabilismo di de Medina non è da confondersi con il "probabilismo" filosofico dell'Antica Grecia che risale alla Nuova Accademia platonica, attiva dal 240 all'80 a.C., e che ebbe come esponenti Lacide scolarca, Carneade, Clitomaco e Filone di Larissa. L'equiprobabilismo In tale sistema la libertà di coscienza ha un peso minore rispetto alla legge morale. Per cui, secondo il suo iniziatore, il gesuita C. Rassler († 1723), si può agire secondo coscienza solo se i motivi probabili per farlo siano della stessa importanza ("æque probabiles", 'ugualmente probabili') di quelli prospettati dalla regola morale. La grande diffusione delle teorie probabilistiche ed equiprobabilistiche avvenne ad opera del vescovo Alfonso Maria de' Liguori, santo e dottore della Chiesa, il quale nell'opera "Istruzione e pratica" del 1762 sosteneva alla base di quelle teorie morali il principio "Lex dubia non obligat". Il probabiliorismo Contro Alfonso Maria de' Liguori si mosse il rigore dell'ordine domenicano con il probabiliorismo sostenuto dai frati italiani Daniele Concina e Vincenzo Patuzzi nel secolo XVIII. Non è la libertà che fonda la legge, come sostenevano i probabilisti, ma al contrario la legge prevale sulla libertà. Essi, richiamandosi a San Tommaso d'Aquino affermano recisamente che la liceità di un'azione morale è quella che s'ispira alla legge. Questa può essere violata solo nel caso in cui la coscienza ci detti un'opinione più probabile (probabilior) per conseguire un bene che altrimenti non si sarebbe raggiunto seguendo alla lettera la legge. Il tuziorismo M. Di Febo – Teologia Morale Fondamentale
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Contro tutte le morali lassiste e probabilistiche si oppose sin dal secolo XVII il tuziorismo di cui è considerato iniziatore J. Sinnich (1603-1666). Nel dubbio si deve sempre seguire l'opinione più sicura ("tutior", 'più sicuro') che è sempre quella prevista e proposta dalla norma. Ogni opinione in contrasto con la legge va respinta, anche se molto probabile. Il tuziorismo fu sostenuto dal giansenismo e quindi fu giudicato difforme dalla dottrina cattolica e condannato dal Sant'Uffizio. Assertore di una sorta di "tuziorismo mitigato" fu il filosofo Antonio Rosmini (17971855), che scrisse diversi saggi di teologia morale (Principii della scienza morale (1831), Antropologia in servigio della scienza morale, (1838), Trattato della coscienza morale (1839), sulla linea della filosofia di Sant'Agostino e San Tommaso. (vai a indice)
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