Il libro
F
M E R C U R Y È STATO I L P I Ù G R A N D E F R O N T M A N D I TUTTI I T E M P I . Ma anche il più misterioso. Il suo genio musicale e la sua incomparabile creatività gli hanno fatto conquistare l’adorazione di milioni di fan, eppure pochi fino a oggi hanno potuto penetrare nel suo privato, conoscere le sue origini o addirittura incontrare l’uomo che lui stesso temeva di essere. In questa eccezionale biografia la giornalista musicale Lesley-Ann Jones, fin dai primi anni Ottanta a stretto contatto con i Queen e il loro entourage, scandaglia il mito, sfrondando chiacchiere e pettegolezzi per portare alla luce la personalità di un individuo timido e affascinante, deciso a sperimentare ogni eccesso – compresi quelli che gli abbrevieranno drammaticamente la vita – pur di esprimersi. Il testo ripercorre gli eventi fondamentali dell’esistenza del cantante, dai giorni in cui era solo Farrokh Bulsara, un giovane afro-indiano, alla consacrazione della rockstar Freddie Mercury. La nascita a Zanzibar, la solitudine del collegio in India, la fuga a Londra, il successo planetario della band e la tragica morte per AIDS: nessun evento viene tralasciato nella ricerca della verità sulla persona e sull’artista. Un racconto documentato, avvincente e ricco di aneddoti che rivela la rigida educazione, e i conseguenti sensi di colpa, da cui nacque la sessualità confusa che portò Freddie a legarsi profondamente sia a uomini sia a donne; la passione divorante per la musica; il tormento e l’euforia alla radice di canzoni rimaste nella storia; il periodo cruciale in cui una spettacolare performance al Live Aid catapultò il gruppo di nuovo al centro della scena. Nessun’altra biografia può vantare un accesso diretto a così tante figure chiave, tra cui amanti, famigliari, amici, dirigenti, musicisti, addetti stampa, fotografie produttori. Un resoconto appassionato non solo di come quel ragazzino trasformatosi in leggenda vedeva se stesso, ma anche di come il mondo vedeva Freddie Mercury. Il ritratto definitivo di una delle figure più complesse e amate dei nostri tempi. REDDIE
L’autrice
Lesley-Ann Jones è una Lesley-Ann una giornalista giornal ista e opinionista inglese, da oltre venticinque ventici nque anni nel mondo della musica e dell’industria discografica. Autrice di numerosi libri, documentari e trasmissioni, vive a Londra. www.lesleyannjones.com
LESLEY-ANN JONES
I WILL WIL L ROCK RO CK YOU YOU FREDDIE MERCURY LA BIO B IOGRAFIA GRAFIA DEFINITIV DEFI NITIVA A Traduzione di Dade Fasic
Per mia madre e mio padre Per Mia, Henry e Bridie
Introduzione Montreux
ALL’EPOCA non scrivemmo nulla. Prendemmo nota, mentalmente, come si faceva allora, per poi scarabocchiare appunti alla toilette prima che l’alcol cominciasse a fare effetto. Certo, avevamo i registratori, ma non potevamo usarli: erano un mezzo sicuro per uccidere una conversazione sul nascere, in particolar modo se ti trovavi in una situazione compromettente, in cui non era una u na buona idea ide a dichi d ichiarars ararsii giornalista. giornalista. Noi tre – un paio di scribacchini e un paparazzo – ci eravamo sfilati dalla festa per la stampa che furoreggiava al centro conferenze perché volevamo farci una birra in tranquillità nell’unico pub sul corso principale di Montreux. Un posticino intimo e tranquillo, il White Horse si chiamava, soprannominato Blanc Gigi. Gigi. Per caso Freddie era lì quella sera, insieme con un paio di amici, forse svizzeri o francesi, con i pantaloni attillati. Quel pub inglese era uno dei suoi locali preferiti, e lo sapevamo. Freddie non aveva bisogno di guardie del corpo, ma di sigarette sì. Il nuovo giornalista dell’Express dell’Express che che era con noi era un fumatore incallito e aveva sempre con sé almeno quattro pacchetti. Le notti erano lunghe per i giovani reporter dello show business. Eravamo preparati. Non era la prima volta che incontravo Freddie. Ci eravamo già visti in diverse occasioni. Ero stata un’appassionata di rock fin dall’infanzia: avevo incontrato David Bowie a undici anni e Jimi Hendrix era morto il giorno del mio compleanno, nel 1970 (doveva essere stato un segno; che cosa non lo era?). Ero stata iniziata alla musica elettrizzante e complicata dei Queen nell’estate successiva al mio ultimo anno di scuola, grazie alle sorelle Jan e Maureen Day, due fan, quando mi ero ritrovata a viaggiare con loro su un pullman ansimante diretto a Barcellona e alle spiagge della Costa Brava.
Erano gli anni in cui tutti avevano una chitarra e un plettro che era appartenuto a George Harrison. Ma il mio destino non era diventare una nuova Chrissie Hynde o una nuova Joan Jett e dai primi anni Ottanta avevo cominciato a scrivere di rock e pop per il Daily Mail , il Mail il Mail on Sunday , il suo supplemento You, You, e il Sun. Sun. Ero una giornalista in erba dell’Associated Newspapers quando avevo incontrato i Queen per la prima volta. Un bel giorno del 1984 ero stata spedita a intervistare Freddie e Brian negli uffici della band a Notting Hill e da allora era nata una frequentazione asimmetrica: loro ti chiamavano, tu andavi. A ripensarci ora, gli anni successivi furono surreali. Lo show business era più semplice allora: artisti e giornalisti viaggiavano spesso insieme, condividendo aerei e limousine; alloggiavamo negli stessi alberghi, pranzavamo agli stessi tavoli, insieme facevamo feste infernali nelle città di mezzo mondo. Un ristretto numero di quelle amicizie è durato nel tempo. Oggi non è più così. Troppi manager, agenti, promoter, pubblicitari, dipendenti delle case discografiche e tirapiedi vari, tutti sulle spine. E se non lo sono, fanno finta. È nel loro interesse tenere quelli come noi dietro la barriera. All’epoca, invece, con un po’ di faccia tosta entravamo ovunque, con o senza il pass laminato che diceva ACCESS ALL AREAS. Anzi talvolta nascondevamo i nostri lasciapassare, solo per tenerci allenati: intortare le guardie era parte del divertimento. L’anno precedente avevo visto i Queen a Wembley per il Live Aid dal backstage – oggi non mi lascerebbero nemmeno dare una sbirciatina – e nel 1986 ero stata invitata a una serie di date del Magic Tour. A Budapest, avevo partecipato a un ricevimento esclusivo in onore della band all’ambasciata britannica e avevo visto il loro storico spettacolo dietro la Cortina di ferro, in Ungheria, che probabilmente è stato il loro migliore momento live in assoluto. Mi piace pensare che ero parte integrante di quel mondo, che non ero altro se non una ventenne magra e lentigginosa come tante, innamorata innamorata del rock’n’r rock’n’roll. oll. Ciò che mi sorprendeva sempre, ogni volta che lo vedevo, era quanto Freddie fosse più magro di come lo ricordavo. Forse era la sua dieta a base di nicotina, vodka, vino, cocaina e adrenalina. Quando si esibiva era così imponente, che lo immaginavi altrettanto nella vita reale. Non lo era affatto.
Al contrario, era abbastanza minuto, tenero e con l’aria da bambino. Ti scatenava l’istinto materno e faceva lo stesso effetto a tutte le ragazze, proprio come l’androgino Boy George dei Culture Club, che era diventato il cantante preferito dalle casalinghe dopo aver opportunamente «confessato» di preferire una buona tazza di tè al sesso. Al White Horse, Horse, Freddie si stava guardando intorno mormorando «siga…» in quel suo accento rapido e asciutto, e vagamente effeminato. Quella sera al pub pensai che quell’uomo era un groviglio di contraddizioni. Lontano dai riflettori poteva essere umile e alla buona tanto quanto sul palco appariva arrogante e pieno di sé. Più avanti, lo udii mormorare «pipì» con una vocina da bambino e osservai incantata uno dei suoi amici accompagnarlo alla toilette. Era fatta: ero cotta di lui. Avrei voluto portarmelo a casa, immergerlo in un bagno caldo, chiedere a mia madre di cucinargli un bell’arrosto. A ripensarci ora, era ovvio che quella grande stella del rock sapesse andare al gabinetto da solo, ma sarebbe stato un obiettivo troppo vulnerabile in un bagno pubblico. Roger Tavener, il nuovo dell’Express dell’Express,, gli offrì una Marlboro. Freddie esitò prima di accettare: avrebbe preferito una Silk Cut. Ci osservò dalla sua postazione con vago interesse mentre scambiammo qualche battuta con gli habitué. Forse proprio perché non gli prestammo troppe attenzioni, ritornò da noi per un’altra sigaretta. Allora, dov’era che alloggiavamo? Al Montreux Palace, Palace, risposta esatta. Freddie ci aveva vissuto, in una suite personale. Lui e i Queen erano proprietari dei Mountain Studios, l’unico studio di registrazione in quella seriosa località di villeggiatura svizzera. All’epoca i Mountain erano ritenuti i migliori studi in Europa. Toccava a lui offrire. Un altro giro di qualsiasi cosa avessimo bevuto prima. «Ovviamente sapete chi sono», disse, dopo un’oretta, con un barlume di consapevolezza negli occhi d’ebano. Naturale: era proprio per lui che ci trovavamo lì. Qualche vodka tonic prima, forse ci avrebbe anche riconosciuti. Mandati dai nostri direttori a partecipare al Rose d’Or, il festival internazionale del varietà televisivo, dovevamo occuparci anche del suo evento collaterale, un gran galà del rock ampiamente seguito da varie emittenti televisive e che per noi era solo una scusa per spassarcela un po’. Avevamo pensato che Freddie non volesse essere infastidito, invece era in vena di chiacchiere. In linea di massima non frequentava noi giornalisti. Dopo essere stato ridicolizzato e citato erroneamente più volte in passato, si
fidava di pochi nel nostro ambiente. David Wigg, all’epoca responsabile per lo spettacolo del Daily Express e Express e anche lui presente a Montreux, era un suo grande amico. Molto spesso era lui a ottenere gli scoop. Stavamo diventando speciali, buttando all’aria la possibilità di un’intervista ufficiale (e ne eravamo consapevoli). Prima del mattino, Freddie ci avrebbe scoperto e, peggio ancora, ci avrebbero scoperti anche il suo management e i suoi addetti stampa. Avendo superato il limite (così avrebbero pensato) probabilmente non saremmo mai più riusciti ad avvicinarlo. Quello era il suo bar, il suo territorio. Nonostante ciò, appariva vulnerabile e nervoso, molto diverso dalla grande star che pensavamo di conoscere. «È per questo che vengo qui», disse. «Siamo solo a due ore da Londra, ma posso respirare, pensare, scrivere, registrare e andarmene a spasso; e credo che sia proprio di questo che avrò bisogno nei prossimi anni.» Condividemmo. Mostrammo solidarietà per il tormento della celebrità, anche se era un problema suo, non certo nostro. Cercavamo di controllarci, di apparire tranquilli e rilassati. Aspettando che il nostro istinto omicida si placasse, quello che voleva farci correre al telefono per comunicare ai nostri direttori lo scoop dell’anno, cioè che eravamo riusciti a inchiodare la star più ricercata del rock in una bettola svizzera, ingollammo un paio di bicchierini extra e attendemmo. Era un’opportunità inestimabile. Io e Tavener eravamo complici novelli, volevamo far colpo l’una sull’altro e per giunta le testate per cui lavoravamo erano acerrime rivali. In teoria, avremmo dovuto guardarci con reciproco sospetto e girarci intorno come due pescecani. Rassicurammo Freddie e gli dicemmo che eravamo abituati a lavorare con le celebrità, che sapevamo tutto sulla privacy: la prima cosa che le persone famose sacrificano e l’ultima che si rendono conto di rivolere. Questo commento toccò il tasto giusto. Freddie fissò la vodka nel suo bicchiere, scuotendolo. «Sapete, è proprio questo che mi tiene sveglio la notte», rifletté. «Ho creato un mostro. Quel mostro sono io. Non posso incolpare nessun altro. È ciò che volevo fin da piccolo. Avrei ammazzato per avere tutto questo. Qualsiasi cosa mi accada è colpa mia. È ciò che volevo. È quello che cerchiamo tutti: successo, fama, soldi, sesso, droga… tutto quel che vuoi. Io ce l’ho. Ma ora inizio a capire che anche se l’ho creato io, voglio sfuggirgli.
Comincio a preoccuparmi, penso di non poterlo controllare tanto quanto lui controlla me. «Quando salgo sul palco, cambio», ammise. «Mi trasformo totalmente nel ‘grande showman’, il migliore di tutti. E dico così perché sono costretto a esserlo. Non potrei mai accontentarmi di essere secondo, piuttosto rinuncio. Devo pavoneggiarmi, devo afferrare il microfono in un certo modo. E mi piace farlo. Come mi piaceva guardare Jimi Hendrix che spremeva il suo pubblico. Anche lui era così, e i suoi fan lo adoravano per questo. Ma lontano dal palco era abbastanza timido. Forse soffriva perché, non volendo deludere le aspettative, anche lontano dai riflettori tentava di essere quel personaggio trasgressivo che in realtà non era. Quando salgo lassù è come fare un’esperienza extracorporea. È come se mi vedessi dall’alto e pensassi: Cazzo, che figo. Poi mi rendo conto che sono io: Okay Freddie, adesso mettiamoci al lavoro... «Certo che è una droga», proseguì. «Uno stimolante. Ma è difficile quando la gente mi riconosce per strada e vuole quello che ha visto lassù: il ‘grande Freddie’. Io non sono lui, sono molto più tranquillo. Allora cerchi di separare la tua vita privata da quella pubblica, altrimenti diventi schizofrenico. Temo che sia questo il prezzo da pagare... Non fraintendetemi, non sono un ‘povero ragazzo ricco’. La musica è quello che mi tira giù dal letto la mattina. Sono davvero fortunato.» Cosa ci poteva fare? «Sto facendo un dramma per niente, vero?» Di colpo, uno sprazzo del grande Freddie. «Soldi a palate, adulazioni, una casa a Montreux e una nel quartiere più ricco di Londra. Posso comprare a New York, Parigi, ovunque voglia. voglia. Sono viziato. viziato. Il tizio tizio sul palco palco può fare quello che desidera. deside ra. Il pubblico le vuole. Io mi preoccupo di come andrà a finire», confessò infine. «Di cosa significhi far parte di una delle band più famose del mondo. È un ruolo che comporta certi problemi. Significa che non puoi farti una passeggiata dove vuoi o andare a prenderti un tè con le paste in un delizioso locale del Kent. Devo sempre soppesare queste cose. È un viaggio bellissimo, e mi piace, ve l’assicuro. Ma a volte…» Uscimmo, nel cuore della notte. Freddie e un paio di amici stavano in una villa in montagna, che secondo lui nascondeva antichi tesori, alcuni dei quali trafugati dai nazisti durante la guerra. L’aria frizzante odorava di pino. Le Alpi illuminate dalla luna gettavano ombre sulle acque sonnacchiose.
Era ovvio che Freddie adorasse quel suo rifugio svizzero: una bomboniera in riva al lago, famosa per il festival jazz, i vigneti, Nabokov e Chaplin, e per Smoke on the Water , l’inconfondibile brano dei Deep Purple, composto in un albergo del posto nel dicembre del 1971. Era ispirato a un fatto successo durante un concerto di Frank Zappa: un fan aveva incendiato il casinò per errore, sparando un razzo segnaletico. L’edificio bruciò, e mentre il fumo volteggiava sul lago Roger Glover contemplò la scena dalla sua camera, con il basso a portata di mano. «Gettate le mie spoglie mortali nel lago quando non ci sarò più», disse Freddie scherzando. Lo ripeté almeno due volte. La conversazione cadde sull’importanza di godersi le cose semplici della vita, evitando accuratamente accuratamente di menzionare menzionare il fatto che, grazie grazie al suo patrimonio, poteva permettersi di realizzare qualsiasi fantasia che le persone comuni possono solo sognare. Che cosa ne facemmo di quell’«esclusiva»? Nulla. Non scrivemmo nulla. Ci servì solo a capire qualcosa in più. Freddie e i suoi amici erano brave persone. Era stata una serata piacevole. Lui era stato onesto. Probabilmente non si fidava affatto di noi. Sapeva chi eravamo, deve avere immaginato che l’avremmo fregato. Forse voleva che lo facessimo, facessimo, per confermare confermare la sua convinzione convinzione che i giornalis giornalisti ti erano tutti cattivi. Lui in particolare, fra tutte le rockstar, era abituato a essere tradito, specialmente da quelli come noi. Anche se forse non lo capimmo allora, oggi il suo comportamento appare sensato. Può darsi che sentisse di avere i giorni contati. Di certo viveva come se non vi fosse alcun domani. Forse aveva oramai deciso di rinunciare a qualsiasi cautela, imprigionato com’era dalla sua stessa fama. Proprio perché sapevamo che si aspettava il peggio da noi, io e Tavener concordammo di commettere un’infrazione punibile con il licenziamento: non avremmo venduto le sue confidenze in cambio di un misero titolo sui nostri rispettivi giornali. L’alba cominciava a luccicare sulle punte ammantate di neve. I suoi colori vivaci punteggiavano l’acqua del lago, mentre rientravamo in albergo. Nessuno parlò. Non c’era più nulla da dire. Tavener fumò l’ultima sigaretta. «La musica rock è di importanza capitale», sostiene Cosmo Hallstrom, un celebre psichiatra che ha trascorso quarant’anni a lavorare con i ricchi e
famosi. «Rappresenta la cultura al punto in cui è oggi. Vi gira molto denaro, il che la rende una carriera desiderabile. È un fenomeno che non può essere ignorato. Unifica, crea un legame comune. «Il rock’n’roll è immediato. Parla di emozioni grezze, primordiali, non mediate, e lo fa con concetti semplici e ribaditi a fondo. È irresistibile, non lo puoi ignorare. Non puoi evitare di esserne scosso. Dovresti essere sordo, e forse nemmeno in quel caso… Parla a un’intera generazione. Le dona una conferma, conferma, come come nessun’altra nessun’altra cosa potrebbe fare.» fare. » «Essere un artista significa gridare ‘aiuto’», mi ribadisce Simon NapierBell, il più famigerato manager del settore. E se c’è qualcuno che può saperlo, è proprio lui: ha composto alcuni dei grandi successi di Dusty Springfield, ha trasformato Marc Bolan, gli Yardbirds e i Japan in nomi familiari a tutti, ha inventato gli Wham! e ha convertito George Michael in una superstar solista. Napier-Bell non usa mezzi termini, in particolare su questo argomento. «Gli artisti sono persone terribilmente insicure. Desiderano disperatamente essere notati. Sono alla ricerca costante di un pubblico. Sono costretti a essere commerciali, cosa che odiano, ma che secondo me migliora la loro ‘arte’. E hanno anche tutti lo stesso passato, il che è fondamentale. Per esempio Eric Clapton: quando l’ho visto la prima volta ho pensato: Non è un artista, è solo un musicista. Nella band di John Mayall suonava dando le spalle al pubblico, tanto era timido. Ma poi si è evoluto e allora ho capito che era davvero un artista. Era cresciuto senza il padre, con una sorella che gli faceva da madre, e una nonna che chiamava mamma. Gli artisti hanno sempre infanzie segnate da abusi, almeno in termini di carenze affettive. Per questo provano un bisogno disperato di successo, amore e attenzioni. Tutti gli altri prima o poi rinunciano. Perché, lascia che te lo dica, è orribile essere una star. È bello ottenere il tavolo migliore al ristorante, ma poi mentre mangi c’è qualcuno che ti interrompe ogni trenta secondi. È un incubo. Eppure le star accettano di buon grado queste cose. Fanno parte del pacchetto. «Di solito sono persone squisite quando le incontri la prima volta», prosegue. «Ma hanno un lato oscuro. Quando hanno preso da te tutto ciò che possono, non gli servi più e ti sputano via. Io sono stato sputato via tante volte, ma non me ne frega niente. Le capisco, so che cosa provoca
questa reazione. Non serve a niente offendersi o arrabbiarsi perché una star ti ha trattato male. Sono quel che sono. Hanno tutti avuto qualche trauma psicologico da piccoli. Posso garantire che, se si indaga nella loro infanzia, si scopre cos’è stato. Che cosa può darti quel bisogno così disperato di applausi e adulazioni? Che cosa può farti vivere una vita schifosa, una vita che non potrai mai definire davvero tua? Nessuna persona normale vorrebbe mai essere una star, per tutto il denaro del mondo.» «Freddie Mercury ha fatto la cosa più importante di tutte», controbatte Hallstrom. «È morto giovane. Anziché diventare una checca grassa, gonfia e presuntuosa, è caduto nel fior fiore degli anni e sarà ricordato a quell’età in eterno. Non è un brutto modo per andarsene.» Questa è la sua storia.
1 Live Aid
Con questo concerto stiamo facendo qualcosa di concreto che aiuterà la gente a guardare, ascoltare e, speriamo, a donare. Se ci sono persone che muoiono di fame, questo è un problema di tutti. […] Talvolta mi sento impotente e questa è un’occasione un’occasione per fare la mia parte. parte. FREDDIE MERCURY Era il palcoscenico perfetto per Freddie Mercury: il mondo intero. BOB GELDOF
UNA volta i politici erano anche grandi oratori, una capacità che in questo secolo si è ridotta in maniera drastica. Sorprendentemente, il rock’n’roll è ancora uno dei pochi ambiti in cui un singolo artista, o un gruppo, può tenere in pugno un pubblico enorme, catturando migliaia di persone con la voce. Gli attor a ttorii non possono possono farlo. I divi della televisione non si avvic a vvicinano inano nemmeno. Forse è questo che rende la rockstar l’ultima grande figura carismatica dei nostri tempi. Il pensiero mi balenò nel backstage del Live Aid mentre ero dietro il sipario, con il bassista degli Who John Entwistle e la sua fidanzata Max. Stavamo guardando Freddie esibirsi in una calura soffocante davanti a quasi ottantamila persone, più chissà quanti spettatori davanti ai teleschermi (sono state fatte molte stime negli anni successivi, ma si passa da «quattrocento milioni in quasi cinquanta Paesi via satellite» a «un miliardo e novecento milioni in tutto il mondo»). Con nonchalance,
arguzia, sfrontatezza e sensualità, Freddie diede tutto se stesso. Restammo ammaliati. Il ruggito assordante degli spettatori annullava qualsiasi tentativo di rivolgersi a loro, ma Freddie non ci fece caso. Il magnetismo con il quale incantò il pubblico fu così potente e tangibile che lo si poteva inspirare. Dietro il palco, i nomi più leggendari del rock smisero di chiacchierare per guardare il rivale che rubava loro la scena. Freddie sapeva quel che faceva. Per diciotto minuti, quell’improbabile re e la sua «regina» dominarono il mondo. La fortuna è casuale. Bob Geldof che scarabocchia sul suo diario in un taxi, un giorno come tanti: fortuna. Era il novembre del 1984. Dalle profondità del suo cervello, un «campo di battaglia di pensieri conflittuali», come lo descrisse lui stesso, emersero poche strofe che ben presto avrebbero scosso il mondo. Poco prima, Geldof aveva visto un servizio di Michael Buerk sulla terribile carestia in Etiopia, trasmesso dal notiziario della BBC. Scioccato dalle immagini che mostravano una sofferenza di proporzioni bibliche, si era sentito insieme raccapricciato e impotente, mentre l’istinto gli diceva che doveva impegnarsi, anche se ancora non sapeva come. Poteva fare quello che gli riusciva meglio: mettersi a tavolino e scrivere un tormentone, per poi devolvere i proventi a Oxfam, l’organizzazione che da anni si batte contro la povertà e l’ingiustizia. Ma all’epoca il suo gruppo punk irlandese, i Boomtown Rats, era oramai in declino; non aveva un brano nella Top Ten dal 1980. L’apice era stato raggiunto con I Don’t Like Mondays, Mondays, che era stata numero uno nel 1979. Geldolf sapeva che un singolo di beneficenza avrebbe venduto molto se fosse uscito sotto Natale, ma solo a patto che fosse realizzato da un artista famoso. Quindi si trattava di trovare un collega ben disposto e convincerlo a registrarne uno, o ancora meglio di convincere un’intera galassia di cantanti a collaborare a un unico brano. Parlò con Midge Ure degli Ultravox, quella settimana sarebbe stato ospite su The Tube, Tube, un programma musicale di Channel 4 presentato dalla fidanzata (e in seguito moglie) di Geldof, Paula Yates, oggi scomparsa. Midge accettò di musicare il brano e di orchestrare qualche arrangiamento. Poi Geldof contattò Sting, il cantante dei Duran Duran Simon Le Bon e Gary e Martin Kemp degli Spandau Ballet.
Più i giorni passavano, più il fantastico elenco di star si allungava e finì per comprendere, fra gli altri: Boy George, Frankie Goes To Hollywood, Paul Weller degli Style Council, George Michael e Andrew Ridgeley degli Wham! e Paul Young. Anche Francis Rossi e Rick Parfitt degli Status Quo accettarono prontamente. Phil Collins e le Bananarama seguirono a ruota. David Bowie e Paul McCartney, che avevano altri impegni, assicurarono il loro contributo a distanza, da mixare sul brano in seguito. Sir Peter Blake, artista di fama internazionale e noto per la leggendaria copertina di «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band», fu reclutato per creare la grafica del disco. Nacque Band Aid. Il nome era volutamente allusivo: come l’omonimo cerotto, anche questa band era un aiuto. Stavolta, per il mondo intero. Do They Know It’s Christmas? fu registrato gratuitamente ai Sarm West Studios di Trevor Horn a Notting Hill, a Londra, il 25 novembre 1984 e uscì dopo soli quattro giorni. Quella settimana il primo posto in classifica era occupato da Jim Diamond, lo straordinario cantante scozzese, con una stupenda ballad, I Should Have Known Better . Sebbene il gruppo di Diamond, i PhD, avessero avuto una hit nel 1982 con I Won’t Let You Down, Down, il cantante non era mai andato al numero uno come solista. Anche per questo la sua casa discografica restò di stucco quando lui, con un gesto di estrema generosità, dichiarò in un’intervista: «Sono felicissimo di essere numero uno, ma la settimana prossima non voglio che la gente compri il mio disco. Voglio che compri quello del Band Aid». «Non potevo crederci», raccontò Geldof. «Anch’io non andavo al top da cinque anni, dunque sapevo quanto gli costasse dire quelle cose. Aveva appena buttato via il suo primo successo per aiutare gli altri. Era un gesto davvero generoso.» La settimana successiva, Do They Know It’s Christmas? schizzò schizzò al vertice nel Regno Unito, vendendo più di tutti gli altri brani in classifica messi insieme e diventando il singolo più venduto in minor tempo nel Paese fin dall’istituzione della classifica nel 1952. Un milione di copie sparì dagli scaffali nella prima settimana, e il brano restò al primo posto per cinque settimane. Divenne il singolo più venduto del Regno Unito di tutti i tempi (più di tre milioni e mezzo di copie), interrompendo i nove anni di supremazia di Bohemian Rhapsody , il capolavoro dei Queen. Sarebbe stato
superato solo nel 1997 da Candle In the Wind / Something About the Way You Look Tonight , il singolo che Elton John reincise come tributo per la scomparsa della principessa Diana. «I Queen erano chiaramente delusi per non essere stati invitati», ammette Spike Edney, session man che aveva seguito la band in diversi tour in qualità di «quinto membro», collaborando a tastiere, voci e chitarra ritmica, e si era fatto un nome suonando per i Boomtown Rats nonché per una sfilza di altri gruppi famosi. «All’epoca ero in tour proprio con i Rats, e lo dissi a Bob. Fu allora che mi svelò di voler organizzare un grande concerto e aggiunse che in quel caso avrebbe sicuramente chiesto ai Queen di partecipare. Ricordo che pensai: Balle. È pazzo. Non ce la farà mai.» Ma la reazione dell’industria discografica al successo di Geldof suggeriva altrimenti. Sull’immediata scia di Band Aid arrivò il contributo americano alla campagna di aiuti: il supergruppo USA for Africa con il 45 giri We Are the World , scritto da Michael Jackson e Lionel Richie, e prodotto da Quincy Jones e Michael Omartian. La session di registrazione riunì alcuni dei musicisti più leggendari del mondo: si tenne agli A&M Studios di Hollywood nel gennaio del 1985 e con un cast stellare che comprendeva Diana Ross, Bruce Springsteen, Smokey Robinson, Cyndi Lauper, Billy Joel, Dionne Warwick, Willie Nelson e Huey Lewis. In totale vi presero parte oltre quarantacinque tra i più rinomati artisti americani. Ad altri cinquanta si dovette dire di no. Quando i prescelti arrivarono allo studio, trovarono un cartello che li invitava a lasciare il proprio ego all’ingresso. Furono poi accolti da Stevie Wonder: con fare sbarazzino li informò che se la canzone non fosse risultata perfetta al primo colpo, lui e Ray Charles – due ciechi – li avrebbero personalmente riaccompagnati a casa in macchina. Il disco vendette vende tte oltre venti milioni di co copie, pie, diventando diventand o il singolo singolo pop più più diffuso in minor tempo in America. I Queen erano da poco riemersi dalle disastrose polemiche seguite alla pubblicazione di «The Works» in America, quando Geldof alzò la posta nella sua campagna di beneficenza annunciando il più ambizioso progetto nella storia del rock. Siccome erano stati ignorati per il singolo, i Queen non pensavano di essere messi in cartellone. Con il senno di poi, sembra paradossale. Eppure, nonostante i quindici anni di carriera, un catalogo impareggiabile di album, singoli e video, diritti d’autore per miliardi, una
collezione dei più prestigiosi riconoscimenti musicali, e grazie a una tecnica in grado di spaziare tra rock, pop, opera, rockabilly, disco, funk e folk, la stella dei Queen pareva oramai al tramonto. La band era stata lontana dalla patria per un periodo considerevole (dall’agosto 1984 al maggio 1985) per promuovere «The Works»; il giro di concerti aveva fatto tappa anche al festival Rock in Rio (gennaio 1985), dove i Queen avevano suonato dal vivo davanti a trecentoventicinquemila fan. Ma il tour era stato afflitto da diversi problemi. Correva voce che i membri del gruppo avrebbero preso strade diverse. «Erano alla deriva, e si vedeva», conferma Edney. «I tempi erano cambiati, si era affermato un genere musicale del tutto nuovo. Imperversava il new romantic: Spandau Ballet e Duran Duran. Successo e fallimento non conoscono spiegazioni... e tantomeno garanzie. Le cose andavano male da un po’ per i Queen, specialmente in America. C’erano problemi con l’etichetta statunitense. Erano sfiduciati. Forse si rinfacciavano un po’ a vicenda vicenda queste difficoltà. difficoltà. E chi non farebbe fa rebbe altrettanto?» «Ehi, la gente litiga», incalza il loro amico Rick Wakeman, gran maestro delle tastiere, ex membro degli Strawbs e degli Yes. «In un gruppo è normale avere contrasti. È comprensibile. In quale altro mestiere sei costretto a stare sempre insieme? In tour si fa colazione insieme, si va a lavorare insieme, si pranza e si cena insieme. L’unico momento in cui sei solo è a letto... e neanche sempre. Per quanto forte sia l’amicizia, arriva il giorno in cui ti dici: Se quello si gratta la testa una volta ancora, gli pianto un coltello in pancia. Devi imparare a dare agli altri il loro spazio e viceversa. viceversa. Se fai la musica musica giusta, giusta, non importa importa se uno si incazza, incazza, uno si infogna con la droga, uno sta sul palco a fare le prove e un altro va a vedersi una partita di calcio. Metti insieme una band di quattro o cinque persone estremamente creative, che fanno cose magnifiche con la loro mente, le loro mani e le loro voci, e rischi i fuochi d’artificio. Sotto questo aspetto, i Queen non erano e rano diversi da tutti gli altri.» Nel 1982, dopo un tour per promuovere «Hot Space», il loro sconcertante album «dance» privo di chitarre, Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon si erano praticamente sciolti per concentrarsi su progetti individuali, in particolar modo Brian con Eddie Van Halen sullo Star Fleet Project e Freddie sul suo album solista. Nell’agosto del 1983, si erano di nuovo riuniti a Los Angeles per collaborare a «The Works», il loro
decimo album in studio e il primo a uscire su CD. Radio Ga Ga era stato il primo singolo estratto dall’LP. «The Works» conteneva anche un pezzo hard rock, Hammer to Fall , una ballad malinconica, Is This the World We Created...? e I Want to Break Free. Free. Quest’ultima era stata promossa da un video controverso controverso in cui i Queen Quee n si erano travestiti travestiti da donne parodiando parodiando una scenetta domestica tratta dalla soap opera inglese Coronation Street . Anche se il singolo aveva riscosso un enorme successo nel Regno Unito e in altri Paesi, il video aveva offeso l’America più conservatrice e la band si era alienata molti fan. Peggio ancora, nell’ottobre del 1984 i Queen avevano infranto il boicottaggio culturale promosso dalle Nazioni Unite nei confronti del Sud Africa (lo stesso fecero Rod Stewart, Rick Wakeman, gli Status Quo e altri) esibendosi in pieno regime di apartheid a Sun City (il grande resort, con tanto di casinò e golf club annessi, del magnate Sol Kerzner) nel Bophuthatswana. La decisione aveva attirato aspre critiche da più fronti e gli era costata una multa e l’espulsione l’espulsione dalla d alla Music Mu sicians’ ians’ Union, l’organizzaz l’organizzazione ione di settore dei musicisti britannici. Per un artista nato in Africa come Freddie l’intera faccenda era ridicola, ma le polemiche sarebbero cessate solo con la fine della segregazione razziale nel 1993, un anno prima dell’elezione di Nelson Mandela alla presidenza del Sud Africa, quando i Queen erano oramai diventati grandi grandi sostenitori sostenitori del de l leader lea der dell’ANC. «Ero dalla parte dei Queen quando decisero di suonare in Sud Africa», afferma Wakeman. «Anch’io avevo fatto un concerto nel bel mezzo dell’apartheid, con un’orchestra un’orchestra composta composta da zulù, indiani e bianchi. bianchi. «Suonai Journey «Suonai Journey to the Centre of the Earth laggiù e la stampa inglese mi mise in croce. Cercai di spiegare le mie ragioni, ma non vollero ascoltarmi. La musica non è ‘bianca’ o ‘nera’, è solo un’orchestra, un coro. Suonare lì non significava sostenere il regime. Anche George Benson c’era andato. E Diana Ross. Com’è che gli artisti di colore potevano esibirsi e i bianchi no? Era un’idea razzista in sé. Shirley Bassey aveva liquidato la cosa con: ‘Che cazzo, sono mezza nera e mezza gallese, che male c’è?’ Così quando i Queen andarono in Sud Africa, li applaudii in tutto e per tutto. Puntarono un riflettore sulla stupidità di quella faccenda e attirarono l’attenzione sul fatto che la musica non ha confini di sesso, cultura o razza. È per tutti.» Il «jukebox globale» di Live Aid sarebbe andato in scena su due enormi palcoscenici il 13 luglio 1985. Furono prenotati lo stadio di Wembley e lo
stadio John F. Kennedy di Filadelfia. L’organizzazione dell’evento si rivelò un autentico incubo logistico. «Quando Bob venne nel mio ufficio per la prima volta a parlarmi di quest’evento, pensai che stesse scherzando», ricorda il promoter Harvey Goldsmith. «Nel 1985 non c’erano nemmeno i fax, figuriamoci computer, cellulari o altri aggeggi. Lavoravamo con telex e linee fisse. Passammo un pomeriggio intero con una grande mappa dei satelliti e un paio di vecchi compassi, cercando di capire dove il satellite si sarebbe trovato in un dato momento. E poi, quando andammo alla BBC, Bob batté i pugni sul tavolo dicendo: ‘Voglio diciassette ore di diretta’; era una cosa rivoluzionaria. Quando la BBC accettò, usammo il suo avallo per persuadere le reti televisive di tutto il mondo a fare altrettanto. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere. Il mio compito era mettere insieme i vari pezzi e far sì che tutto funzionasse.» Poi ci fu la sfida di convincere i più grandi nomi del rock, alcuni dei quali avevano già contribuito alla registrazione dei singoli di beneficenza, a esibirsi per raccogliere altri fondi destinati ai bisognosi. L’evento voleva essere una plateale rappresentazione della fratellanza musicale ai governanti di tutto il mondo che non avevano alzato un dito per la carestia africana. Come afferma Francis Rossi degli Status Quo: «Eravamo le teste di cazzo del rock’n’roll che si davano una mossa. Se ci ripenso mi arrabbio. Credo che se tutti avessero partecipato, se avessimo compreso la portata di quel che stavamo per fare, avremmo potuto convincere le compagnie petrolifere, le varie varie BP e Shell e le altre, a fare la loro parte. Avremmo potuto raccogli raccogliere ere venti volte tanto. Non ditemi che i governi non avrebbero potuto fare una legge per aggirare i problemi della pubblicità e così via. Tutte le grandi imprese avrebbero potuto partecipare e il risultato sarebbe stato mega. All’epoca, però, esploravamo un territorio vergine. Oggi vediamo il Live Aid con occhi diversi. Comunque sia, tutto il merito è di Bob. È riuscito a fare qualcosa che pochi altri avrebbero saputo fare». E come fece Geldof a convincere i Queen? «Bob mi pregò di chiedergli se ci stavano, ed ebbi l’opportunità di farlo mentre eravamo in tournée in Nuova Zelanda», racconta Edney. «Mi risposero: ‘Perché non ce lo domanda lui direttamente?’ Spiegai che temeva un rifiuto. Non erano molto convinti, ma dissero che avrebbero preso in
considerazione l’idea. Riferii a Bob, che a propria volta contattò Jim Beach [il manager dei Queen] in via ufficiale.» In seguito se guito Geldof spiegò come come li aveva persuasi. persuasi. «Stanai Jim, che era in qualche posto in riva al mare, e gli dissi: ‘Senti, Cristo santo, cosa c’è che non va?’ Jim disse: ‘Oh, sai, Freddie è molto suscettibile’. Allora risposi: ‘Di’ a quella vecchia checca che questo sarà il più grande evento di tutti i tempi, una cosa grandiosa’. Alla fine mi risposero di sì, che avrebbero senz’altro partecipato. E quando salirono sul palco del Live Aid, furono i migliori in assoluto, a prescindere dai gusti personali. Quel giorno, suonarono meglio di tutti, avevano il suono migliore e sfruttarono fino in fondo il tempo a loro disposizione. Avevano capito alla perfezione la mia idea: fare un jukebox globale, come l’avevo chiamato io. Salirono sul palco e sfoderarono una hit dopo l’altra. Fu incredibile. Ero su, proprio nell’area degli organizzatori, quando all’improvviso udii quel suono e pensai: Dio, ma chi è?» Geldof non poteva sapere, così come nessun altro alle 18.40 di quel pomeriggio, che poco prima della performance dei Queen, il loro tecnico del suono, James Khalaf detto «Trip», era andato a «dare una controllatina all’impianto» e aveva manipolato furtivamente i limiter. «Abbiamo suonato con il volume più alto di tutti al Live Aid», confessò Roger Taylor. «D’altronde, se suoni in uno stadio, il pubblico devi sovrastarlo!» «Andai fuori», disse Geldof, «e vidi che erano i Queen. Guardai giù la folla impazzita. Furono strepitosi. Erano contentissimi dopo, Freddie in particolare. Era il palcoscenico perfetto per lui: il mondo intero. E aveva potuto fare la checca sul palco cantando We Are the Champions Champions e tutto il resto. Era il massimo per lui.» «Non conoscevamo affatto Bob», osservò John Deacon in una rara intervista. «Per Do They Know It’s Christmas? aveva aveva scelto artisti emergenti. Per il concerto voleva parecchi pezzi grossi. La nostra prima reazione fu incerta: venti minuti, senza sound check! Quando fu chiaro che la cosa si sarebbe fatta, discutemmo se partecipare o no. Avevamo appena finito il tour in Giappone e durante una cena in albergo decidemmo di accettare. Quel giorno mi sentii orgoglioso di lavorare nel mondo della musica. Di certo non ti capita sempre di sentirti così! Ma quel giorno fu davvero fantastico, tutti accantonarono la rivalità. Fu ottimo anche per il nostro
morale, perché ci dimostrò quanto seguito avessimo in Inghilterra e che cosa potessimo ancora offrire come band.» «Non ci fu nulla di magico nell’organizzazione del nostro intervento», ammette Edney. «Ci riunimmo tutti per decidere quali brani suonare e alla fine arrivammo all’idea di fare un medley di successi. Non è una novità: se hai un mucchio di canzoni e non sai scegliere è l’unica cosa sensata da fare. Tutto qui... a parte il tempismo perfetto, ovviamente. Ogni membro della band è un perfezionista pazzesco... e meno male. Si rivelò la carta vincente, quel giorno.» giorno.» «I Queen provarono e riprovarono nello Shaw Theatre di Euston Road per un’intera settimana, mentre altri salirono sul palco e improvvisarono», racconta Peter «Phoebe» Freestone, l’assistente personale di Freddie. «Ecco perché furono i migliori quel giorno. Ricordo lo stupore di Freddie quando attaccò Radio Ga Ga Ga e vide migliaia di mani alzarsi e battere all’unisono. Restò sbalordito, non aveva mai visto nulla di simile. Avevano sempre fatto quel pezzo al buio.» Tuttavia Edney ha un ricordo un po’ diverso e sostiene che Freddie era «in modalità avanti tutta», e che lui e la band avevano affrontato l’evento senza agitarsi. Da quel che vidi, devo concordare. Fu l’apice dei Queen, quello per cui avevano costruito tutta la loro carriera. «Nel backstage regnava una sorta di caos organizzato», ricorda Edney. «Tutti erano fin troppo simpatici e aperti. Nessuno diceva cattiverie, né cercava di emergere sugli altri. Finché i Queen salirono sul palco, pareva di stare a un bel picnic estivo. Il che significa che i Queen abbiano fatto i furbetti o premeditato chissà che. Si comportarono come erano abituati a fare, aspettandosi la medesima cosa. Rimasi esterrefatto quando sentii certi artisti suonare il loro ultimo singolo: quello non era il loro pubblico! I Queen non lo fecero, si limitarono a seguire le direttive di Bob, ossia creare ‘il più grande concerto rock di tutti i tempi’, come spesso viene chiamato oggi Live Aid. In realtà cosa significa? Che una band all’apice della carriera ha dato il meglio di sé e ha spaccato il culo a tutti gli altri.» «Nessuno era pronto... tranne i Queen», ricorda Pete Smith, coordinatore mondiale dell’evento e autore del documentario Live Aid . «Seguii la performance sui monitor nel backstage. La BBC aveva installato dei televisori in tutta l’area degli artisti. Insieme con gli orologi ordinati da
Harvey, quei monitor ci tenevano aggiornati sul procedere dell’evento. I Queen stracciarono il manuale e lo riscrissero in venti minuti. Ci fu un effetto tangibile. Dopo di loro, Live Aid entrò in ebollizione.» Il gruppo era all’apice dal punto di vista musicale e tecnico (non c’era più nessuna grande rock band professionista in giro in quegli anni), eppure la sua reputazione sulla scena mondiale era ormai in declino. La popolarità era diminuita a causa di una serie di errori, di contrattempi e di un generale mutamento nei gusti musicali del pubblico. I Queen sentivano che i loro giorni migliori erano alle spalle. Lo scioglimento definitivo era una possibilità concreta: l’eventualità era lì sul piatto, ne avevano già parlato. Grazie a Live Aid, tutto ciò sarebbe cambiato. Allora perché gli osservatori rimasero così sorpresi dalla loro galvanizzante galvanizzante performance? performance? Nemmeno Edney sa spiegarselo. spiegarselo. «I Queen erano così!» esclamò ridendo. «Erano famosi in tutto il pianeta per i loro spettacoli eccezionali, perché davano il massimo. Erano dei veterani degli stadi, non certo dei novellini. Quello era il loro habitat naturale e più pubblico c’era, meglio era. Avrebbero potuto fare un concerto a occhi chiusi. Francamente furono colpiti da tutto quello stupore! Per loro il Live Aid fu solo una normale ‘giornata di lavoro’ come tante altre. Detto questo, quando siamo scesi dal palco sapevamo che ce l’avevamo fatta. Dopo quel concerto, i Queen scoprirono che il loro mondo era completamente completamente cambiato.» cambiato.» Il PR Bernard Doherty si occupò di tutta la promozione dell’evento tenendo i contatti con i media. «Sapevamo che dovevamo tenerci buona la stampa, per assicurarci la massima copertura possibile. Avevo solo otto pass per accedere a tutte le aree e centinaia di giornalisti che li volevano. Dovevamo giostrarceli. Dissi loro, uno per uno: ‘Bene, hai quarantacinque minuti di tempo: entra dentro, acchiappa quel che puoi e poi esci. Ci vediamo all’Hard all’ Hard Rock Café ’, che aveva aperto una ‘succursale’ nel backstage. Pareva un raduno di carovane, con gli alloggi-container degli artisti rivolti all’interno ed Elton che faceva una grigliata lì in mezzo, perché non gli piaceva il menù del Café . David Bailey allestì il suo studio fotografico in un angolino puzzolente; non ne era molto orgoglioso. Nessuno era in condizioni ideali, tutto era stato allestito in quattro e quattr’otto, ma in un modo o nell’altro funzionò. Tutti
entrarono nello spirito della manifestazione e quasi tutti lasciarono a casa il proprio ego. Sì, funzionò.» All’epoca Doherty aveva anche David Bowie tra i suoi clienti, perciò era costretto costretto a occuparsi occuparsi anche dei bisogni bisogni del cantante. «È sempre un po’ snervante quando devi seguire il tuo artista e fare altro al tempo stesso; due lavori contemporaneamente. Anzi nel mio caso, quel giorno, circa diciotto lavori contemporaneamente. Non scorreva più tanto amore fra David ed Elton; era evidente che avevano litigato. David uscì bene dalla sua performance. E così Elton. L’unico musicista che David fu davvero contento di rivedere fu Freddie. Erano felicissimi di ritrovarsi di nuovo insieme. Si misero a chiacchierare come se si fossero lasciati il giorno prima. L’affetto fra di loro era tangibile. David indossava un meraviglioso completo azzurro: era brillante e in forma. Poco prima che toccasse a lui, Freddie gli strizzò l’occhio e disse: ‘Se non ti conoscessi meglio, caro mio, ti mangerei’. Non c’è da meravigliarsi che quello salì sul palco con un sorriso enorme in volto.» Per tutto il giorno, Freddie rimase rilassato. «Restò seduto a tenere banco, in quel suo modo perfettamente kitsch e insieme affabile», raccontò Doherty. «Sapeva di avere un certo potere sulle persone, ma non per questo si montava la testa. Se fosse stato seduto davanti a una cabina su una spiaggia di Southend-on-Sea, per esempio, avrebbe incantato la gente allo stesso modo. Era una vera star, possedeva quel certo non so che. John Deacon non sapevi nemmeno se c’era; dov’era? E non ho visto Brian May o Roger Taylor parlarsi tra loro per tutto il giorno. Parevano una coppia divorziata costretta a stare alla stessa festa.» Francis Rossi non era d’accordo. «Non credo alla teoria secondo la quale i Queen stavano per sciogliersi in quel periodo. A me sembrava che andassero d’accordo, e li conoscevo abbastanza bene. In tutti i gruppi c’è diversità di vedute. Di certo erano uniti nel loro impegno per la causa del Live Aid.» Nonostante ciò, nel backstage, le voci di un imminente scioglimento si sprecavano. «Si vedeva», insistette Doherty. «Non quando salirono sul palco, però. Se avevano delle divergenze, furono abbastanza intelligenti da accantonarle e fare il loro dovere. Andarono là fuori e vinsero. I Queen avevano il wow actor . Cos’altro ci ricordiamo del Live Aid? L’audio che sparisce durante il
pezzo degli Who, Bono che va in bambola, perde il filo e confonde i compagni; quando sono scesi dal palco gli altri U2 non gli hanno più rivolto la parola.» Anche se il Live Aid fu il concerto che affermò gli U2 come un grande gruppo da stadio con un avvenire da superstar, per poco la loro performance non fu un fiasco. Non solo suonarono una versione autocelebrativa di quattordici minuti del loro brano sull’eroina, Bad (tratto dall’album del 1984 «The Unforgettable Fire»), ma Bono lo intervallò imprudentemente con frammenti di Satellite of Love e Walk on the Wild Side Side di Lou Reed, oltre che di Ruby Tuesday e Sympathy for the Devil dei Rolling Stones. Restò solo il tempo per un’altra canzone e così dovettero buttare alle ortiche Pride (In the Name of Love), Love) , il loro megasuccesso globale con cui dovevano chiudere l’esibizione. Durante la performance, Bono vide una ragazza che veniva schiacci schiacciata ata dagli spettatori spettatori accalcatisi accalcatisi sotto il palco, palco, attratti attratti dal suo stesso carism carisma. a. Segnalò freneticamente la situazione agli assistenti, assistenti, ma questi que sti non lo capirono. Allora si buttò giù dal palco alla disperata (un salto di nove metri) per salvarla lui stesso: andò a finire che ballarono insieme per un po’. L’episodio evidenziò il legame impareggiabile che il cantante sapeva instaurare con il pubblico. Quella breve danza, sigillata da un bacio, divenne un’immagine indelebile del Live Aid, e di conseguenza tutti gli album degli U2 rientrarono rientrarono nelle classific classifiche he inglesi. inglesi. Secondo Doherty, «quel giorno, però, pensavano di avere combinato un disastro». Anche Simon Le Bon prese la più grande stecca di tutti i tempi. «Poi c’erano i critici che sbavavano per Bowie. E poi Phil Collins, che si esibì sia a Wembley sia al JFK grazie al Concorde, anche se penso che molti avrebbero preferito che evitasse, non ultimi i Led Zeppelin, riformatisi in fretta e furia, per i quali suonò la batteria al JFK. Quanto ai Queen, fecero esattamente quel che Bob aveva chiesto loro. Li guardai dalle quinte e rimasi meravigliato. Ero dietro Freddie, vicino al pianoforte, a neanche un metro da lui. Osservai il pubblico con una certa trepidazione: anche il più grande cantante del mondo può fallire, senza sapere perché.» Una preoccupazione inutile. I Queen diedero il massimo. Guardandoli, mi vennero in mente molti altri celebri performer: Alex Harvey, il grande cantante glam rock della Sensational Alex Harvey Band; Ian Dury and the Blockheads; Mick Jagger; Ziggy Stardust e gli Spiders. Forse ciò che Freddie dimostrò meglio a Wembley rispetto ad altre occasioni fu di possedere il
talento naturale della star e di sapere come rendere imperdibile uno spettacolo. Mise in campo tutto il genio del vaudeville. Era come se avesse studiato e assimilato i più reconditi segreti di ogni grande artista che lo aveva preceduto e avesse distillato un po’ dei rispettivi carismi nella propria performance; un’autentica magia. Eterno pavone, Freddie sedusse tutti. Non che fosse consapevole di scrivere un pezzo di storia quel giorno, ammise Doherty. «Non quel giorno, no. Avevo le cuffie e un walkie-talkie; niente cellulari all’epoca. Ero preoccupato per Dave Hogan e Richard Young, in agitazione per Bob e Harvey. Succedeva di tutto, avevo un sacco di cose cui pensare. Ma compresi che i Queen andavano alla grande, certo: la folla era impazzita e tutti quelli del backstage avevano smesso di parlare per guardarli. Quella sì che è una cosa strana: non succede mai. Chi c’era prima o dopo di loro? Quasi nessuno lo sa. Cosa mi ricordo di quel giorno? Che Freddie Mercury è stato il miglior cantante di tutto il concerto. Forse di tutti i tempi.» David Wigg, storico giornalista che allora scriveva per il Daily Express, Express, era da tempo amico personale di Freddie. «Sono stato l’unico della stampa autorizzato a rimanere in camerino con lui mentre si preparava per il più grande spettacolo del mondo. Era molto rilassato e non vedeva l’ora di uscire a fare la sua parte.» «Suoneremo dei pezzi con cui le persone possono identificarsi, vogliamo trasformare questo evento in una festa», spiegò Freddie. Poi parlarono degli intenti del Live Aid e dell’infanzia di Freddie. «Disse che la prima volta che si era reso conto di essere più fortunato di molti altri bambini era stato nel collegio inglese in India, dove le terribili condizioni di vita dei poveri erano proprio sotto i suoi occhi di ragazzino.» «Ma di certo non faccio questo per un senso di colpa», aveva puntualizzato Freddie. «Non mi sento in colpa perché sono ricco. Se fosse così, il problema resterebbe comunque. Purtroppo è una cosa che esisterà sempre. L’idea alla base di quest’evento è costringere il mondo ad accorgersi che queste cose continuano a succedere. Con questo concerto stiamo facendo qualcosa di concreto che aiuterà la gente a guardare, ascoltare e, speriamo, a donare. Se ci sono persone che muoiono di fame, è un problema di tutti.» Freddie confessò all’amico che quando aveva visto un servizio sui milioni di africani che perdevano la vita per l’inedia aveva dovuto spegnere la
televisione. «È troppo sconvolgente, non riesco a guardare quelle cose. Talvolta mi sento impotente e questa è un’occasione per fare la mia parte. Bob è stato magnifico, perché ha dato il via a tutto. Sono sicuro che ciascuno di noi aveva le potenzialità per tirar fuori una cosa del genere, ma c’è voluto uno come lui per mettere in moto la macchina e riunirci tutti qui.» Per uno spettatore in particolare quel giorno fu davvero memorabile, perché era il suo primo concerto rock. Jim Hutton, il modesto parrucchiere che era diventato il nuovo compagno di Freddie poco prima del Live Aid e che sarebbe stato con lui fino alla fine, non avrebbe certo potuto immaginare che solo sei anni dopo avrebbe assistito al funerale del suo amato. Portato allo stadio in pompa magna sulla limousine personale del cantante, era la prima volta in assoluto che andava a un concerto, non solo dei Queen. «Quando si dice essere mandati allo sbaraglio», scherzava. «Ero un po’ sconvolto da tutte le superstar, a dire il vero. Ogni membro del gruppo aveva la sua roulotte personale. C’erano tutte le mogli, oltre ai figli di Roger e Brian. Freddie conosceva tutti. Mi presentò a David Bowie, che in realtà avevo già incontrato una volta prima, perché gli avevo tagliato i capelli, e persino a Elton John, chiamandomi ‘il mio nuovo uomo’. Freddie non dovette prepararsi, ma salì sul palco con quel che indossava quando eravamo usciti di casa: una canottiera bianca con un paio di jeans sbiaditi. Portava anche le sue scarpe da ginnastica preferite, una cintura e un bracciale borchiato. Quando toccò a loro, scolò una grande vodka tonic tutta d’un fiato e disse: ‘Andiamo!’ «Lo accompagnai fino al palco e gli diedi un bacio, augurandogli buona fortuna. Non che ne avesse bisogno. Sentir suonare quelle canzoni dal vivo – un pezzo di Bohemian Rhapsody con con Freddie al pianoforte, Radio Ga Ga con la folla che applaudiva all’unisono, Hammer to Fall , poi Freddie alla chitarra per Crazy Little Thing Called Love, Love, We Will Rock You e We Are the Champions Champions che rimbombarono come il tuono – per una persona normale come me fu semplicemente sbalorditivo. Poi più avanti, quand’era già buio, Freddie e Brian di nuovo sul palco insieme, solo loro due, a suonare quella bellissima ballad, Is This the World We Created...? L’avevano registrata molto tempo prima del Live Aid, vero? ma era come se l’avessero scritta apposta per l’occasione. Le parole erano perfette e il modo in cui Freddie la
cantò fu magico. Mi commosse fino alle lacrime, cosa che peraltro faceva spesso.» Jim, scomparso nel 2010, aveva potuto finalmente vedere il suo compagno nei panni della rockstar. «Diede tutto se stesso lassù. Mi incantò. Poi quando scese, pareva contento che fosse finita. ‘Grazie a Dio è fatta’, disse ridendo. Un’altra vodka gigante gigante ed era di nuovo calmo. Restammo Restammo fino alla fine per salutare tutti, ma Freddie non aveva voglia di andare alla festa del dopo spettacolo al Legends. Legends. Tornammo a casa, a Garden Lodge, come una vecchia coppia sposata, per guardare il resto dell’evento americano in televisione.» Notevole fu l’assenza dei genitori di Freddie i quali, sebbene partecipassero spesso ai concerti inglesi dei Queen, quella volta scelsero di seguire lo spettacolo da casa. «Era una cosa così enorme che sarebbe stato troppo complicato andarci», ricordò la mamma di Freddie, Jer. Lei e Bomi, il padre, restarono a casa per timore della folla e degli intasamenti previsti intorno allo stadio. «Così lo guardammo in tv. Ero orgogliosissima. Mio marito si girò verso di me e disse: ‘Il nostro ragazzo ce l’ha fatta’.» Secondo i tecnici incaricati di trasmettere e registrare l’evento, l’esibizione di Freddie fu a dir poco sensazionale. Mike Appleton, ex produttore esecutivo di The Old Grey Whistle Test (l’importante serie televisiva della BBC dedicata al rock) ricorda la performance di Mercury come «appassionante». «All’inizio non doveva nemmeno partecipare. I dottori gli avevano detto che non era in forma. Aveva un terribile mal di gola, a causa di un raffreddore o qualcosa del genere. Non stava abbastanza bene per cantare, ma lui insistette. E invece alla fine, lui e Bono risultarono i migliori. «Fu molto interessante osservare Freddie sui monitor. Restai chiuso in uno studio mobile per tutto il giorno; si soffocava. Stavamo letteralmente creando un programma dal vivo mentre si svolgeva. Alle cinque ci trasferimmo in diretta dal JFK alternando venti minuti là, venti minuti qua… e ora mettiamoci un’intervista, poi un pezzo live registrato in precedenza, una carrellata della prima ora in quest’altro segmento… Era un modo entusiasmante di fare televisione, l’unico che mi piace. Freddie semplicemente salì sul palco e si impossessò all’istante della scena, con calma e sangue freddo, poi passò a impadronirsi del pubblico intero.
«In quel momento i Queen non erano in auge e da tempo non avevano prodotto un album significativo. L’esperienza del Live Aid li rimise in pista, anzi ebbe lo stesso effetto sull’industria discografica in generale. Nel complesso, le vendite di dischi aumentarono. Il Live Aid ebbe un effetto corroborante per tutto il settore. E siccome Freddie fu la vera stella di quella giornata, senza dubbio fu lui l’ingrediente principale di quel ricostituente. Può darsi che a livello emotivo l’evento appartenesse a Bob, ma a livello musicale era sicuramente di Freddie.» In seguito Appleton ricevette due premi BAFTA per il Live Aid, come produttore e come migliore trasmissione in esterni. Dave Hogan, che fotografò l’evento, condivide l’opinione di Appleton. «Furono scelti solo sei fotografi ufficiali per il Live Aid», rivela il leggendario fotografo del Sun conosciuto anche come «Hogie» (e che, come la sua testata, non è estraneo a titoloni a effetto: «Maimed By Madonna», «Mutilato da Madonna», fu il suo momento di gloria). «Fotografavamo per il libro-souvenir Live Aid , perciò potevamo andare ovunque. Quel giorno tutti capirono che era Freddie la star principale, ma non fino a quando non fu fisicamente sul palco. Fuori scena, Freddie non si comportava da primadonna, era riservato e signorile nei modi, rispetto a molti altri... Nessuno si rese conto del suo potere finché lo vedemmo lassù. A quel punto, capimmo. Ricordo quando attaccò Radio Ga Ga. Ga. Non era nemmeno buio, incantò il pubblico con la sua magia alla luce del sole. Quell’oceano di fan che battevano le mani e i piedi insieme ti dava i brividi. Per noi era il paradiso: sono quelli i momenti che aspetti. Freddie colse l’attimo e lo fece suo. Ma quel giorno fu pieno di episodi fantastici: Bono che salta giù dal palco tra la folla, la prima esibizione live di Paul McCartney dalla morte di John Lennon. Ciò che vidi fare a Freddie, però, mi lasciò senza fiato. Coinvolse tutti, ogni singola persona presente nello stadio. All’unisono. Nessun altro ci riuscì, prima o dopo di lui.» E fu così che il fior fiore del rock cantò e ballò per dare da mangiare al mondo. È stato ripetuto fino alla nausea che la performance dei Queen è stata la più entusiasmante, la più commovente, la più memorabile di tutte, superiore a quella dei loro più grandi rivali. «Di gran lunga la più straordinaria», concluse il presentatore radiofonico Paul Gambaccini. «Sentii un fremito nel backstage quando le teste dei presenti si girarono verso i monitor come cani che hanno udito un fischio. [I
Queen] rubarono la scena e riconquistarono la loro posizione in vetta; non l’avrebbero persa mai più.» Gli altri membri del gruppo furono i primi a congratularsi con il cantante. «Noi suonammo bene, ma Freddie diede il massimo e portò l’esibizione a un altro livello», disse Brian, con tipica modestia. «Lì sotto non c’erano solo fan dei Queen, ma Freddie riuscì a stabilire un contatto con tutti.» Riflettendo sull’episodio in una toccante intervista nel quartier generale dei Queen, Brian ribadì il concetto: «Il Live Aid è stato Freddie. Era unico al mondo. Sembrò di vedere la nostra musica scorrere attraverso di lui. Nessuno poteva ignorarlo: Freddie era originale, speciale. Non suonammo solo per i nostri fan, ma per quelli di tutti. Freddie diede tutto se stesso». Delle settecentoquattro esibizioni dal vivo dei Queen con Freddie, quella del Live Aid resta la più rappresentativa, il loro vero momento di gloria. L’evento diede alla band l’opportunità di dimostrare che, senza arredi e trucchi di scena, senza luci e attrezzature proprie, fumo o altri effetti speciali, senza nemmeno la magia naturale della luce al crepuscolo e con meno di venti minuti a disposizione per mettersi in gioco, erano i sovrani incontrastati del rock e avevano le doti necessarie per scuotere il mondo. Da quel momento in poi avrebbero accettato la verità incontrovertibile che i Queen erano maggiori della somma delle loro parti. Non potevano sapere che il loro momento migliore era già alle spalle. Esultanti e di nuovo uniti per la causa, ogni tentazione di carriera solista archiviata, almeno per il momento, avrebbero presto scoperto che la loro seconda possibilità di un futuro con Freddie avrebbe avuto vita tragicamente breve.
2 Zanzibar
Mi svegliavano svegliavano i domestici. Afferravo Afferravo una spremuta, mettevo un piede fuori di casa ed ero in spiaggia. FREDDIE MERCURY Era molto riservato riservato sul suo passato. Non mi ha mai detto dett o nemmeno il suo vero nome. Aveva Av eva la carnagione carnagione leggermente scura, un incrocio fra mediorientale e indiano, perciò non poteva nascondere nascondere le sue sue origini origini esotiche, o di avere avere almeno un genitore genitore straniero. straniero. Forse Forse voleva nasconderlo. nasconderlo. Non per per chissà quale oscuro motivo, né perché fosse razzista. razzista. Non se pensi a quanto venerasse Jimi Hendrix. TONY s tampa dei Queen ON Y BRAINSBY , primo addetto stampa
FORSE Freddie pensava che negli anni Settanta i fan non fossero pronti per una rockstar di origini africane e indiane. Oggi non sarebbe un problema, anzi molti lo vedrebbero come un vantaggio: più un artista ha un retaggio culturale e musicale oscuro e mischiato, meglio è. In quegli anni però, le cose erano diverse. Non è difficile immaginare che Freddie ritenesse che il suo passato fosse in contrasto con l’immagine che voleva dare. All’epoca la rockstar per definizione era preferibilmente americana e veniva da posti come la California (i Beach Boys), New York (Lou Reed), la Florida (Jim Morrison), il Mississippi (Elvis Presley) o lo Stato di Washington (Jimi Hendrix). Anche Liverpool andava bene, grazie ai Beatles, così come Londra, per via di Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones. Bianco e
anglosassone era il pedigree preferito, oppure nero e americano. Per i musicisti, inoltre, era normale sfumare i dettagli del proprio passato, dato che questo creava un’aura di mistero e interesse. Le informazioni sull’infanzia di Freddie erano così contraddittorie che decisi di condurre una nuova ricerca. ricerca. Presi un volo per Dar es Salaam via Nairobi e trovai un passaggio su una barca diretta a Zanzibar in un porto pieno di sambuchi e semplici canoe da pesca. Era un luogo esotico sotto ogni aspetto. A me, nata in un posto anonimo e banale, il rifiuto di Freddie nei confronti di Zanzibar sembrò enigmatico. Me lo immaginavo intrattenere gli ospiti con racconti orientaleggianti, storie di Alì Babà, Sinbad e avventurosi principi arabi. Perché non l’aveva mai fatto? Doveva esserci una ragione. Un «passato da favola» sarebbe stato la quintessenza di Freddie. Zanzibar, poco più di una macchiolina sul mappamondo, si trova appena a sud dell’equatore, al largo delle coste orientali dell’Africa. Se si osserva da vicino, vicino, ci si accorge accorge che in realtà le macchioline macchioline sono due: due : una è l’isola l’isola principale, Unguja, e l’altra è la più remota Pemba, oggi meta popolare per gli europei in luna di miele. Con il Tanganica, ex colonia prima tedesca e poi inglese, oggi Zanzibar forma la Repubblica Unita di Tanzania. Pur essendo un territorio molto piccolo, le isole hanno patito distruzioni, massacri e corruzione in quantità. Invase nel corso dei secoli da assiri, sumeri, egizi, fenici, persiani e arabi, oltre che malesi, cinesi, portoghesi, olandesi e inglesi, la loro storia pare tratta dalle Mille e una notte. notte. Alcuni di questi conquistatori, soprattutto i persiani shirazi, provenienti dall’odierno Iran meridionale, gli arabi omani e molti anni dopo gli inglesi, decisero di insediarsi e governarle. La civiltà swahili del posto risale alle prime conquiste musulmane. Con l’introduzione dei chiodi di garofano nel 1818, cominciò il commercio delle spezie: zenzero, noce moscata, vaniglia e cardamomo prodotti sulle isole furono esportati in tutto il mondo. I racconti dei missionari e degli esploratori di passaggio nei loro viaggi verso il continente nero, i quali narravano di favolosi harem, di intrighi di corte e di epiche fughe d’amore, contribuirono a creare intorno a Zanzibar un’atmosfera romanzesca. In quanto fiorente centro del commercio di avorio e di schiavi, però, il posto acquisì anche una reputazione più sinistra.
Prima dell’abolizione della schiavitù nel 1897, circa cinquantamila schiavi l’anno, provenienti dai posti più remoti, fin dai laghi centrali del continente, passarono in catene attraverso i suoi barbari mercati. Sulle spiagge di Unguja sorgono gli imponenti palazzi dei sultani, un antico forte arabo con i cannoni arrugginiti, diversi edifici coloniali e le dimore dei ricchi mercanti, alcuni in lento restauro, altri in rovina oltre ogni possibilità di recupero. Dietro questi, si sviluppa un labirinto di bazar e stradine piene di case. Per i primi diciotto anni di vita, un appartamento fronte mare di Stone Town fu il luogo che Freddie chiamò casa. La madre era poco più che una fanciulla quando partorì nell’ospedale pubblico di Zanzibar giovedì 5 settembre 1946, che per caso era anche il giorno del capodanno parsi. Che il minuscolo primogenito di quella diciottenne fosse un maschio fu considerata una benedizione. Quando il padre, Bomi, ricevette la notizia al lavoro, esultò: il suo cognome aveva un futuro. Almeno così pensava, ignorando le scelte di vita che il figlio avrebbe compiuto in un futuro ancora lontano. La coppia pensò a un nome per il neonato. Tutti e due erano parsi, ovvero seguaci dello zoroastrismo (una fede monoteistica nata in Persia nel sesto secolo avanti Cristo) e quindi le loro opzioni erano limitate. Scelsero «Farrokh», e con quel nome Bomi registrò il figlio all’anagrafe cittadina. «Ricordo chiaramente quando nacque Freddie», mi disse Perviz Bulsara, sposata Darunkhanawala, quando la intervistai a casa sua nel quartiere di Shangani. Perviz è la nipote di Bomi. Il padre di Perviz e il padre di Freddie, Bomi, erano due di otto fratelli. «Sono nati e cresciuti a Bulsar, un paese a nord di Bombay nello Stato indiano del Gujarat», spiegò. (Bombay è diventata ufficialmente Mumbai solo nel 1995, quando il vecchio nome è stato dichiarato un’eredità indesiderabile del passato coloniale.) «Per questo portavano il cognome ‘Bulsara’. Tutti i fratelli vennero qui a Zanzibar l’uno dopo l’altro in cerca di lavoro. Mio padre trovò un posto alla Cable and Wireless, Bomi andò a lavorare al tribunale come cassiere per il governo britannico. Quando arrivò a Zanzibar, Bomi non era sposato. Solo dopo tornò in India e sposò la madre di Freddie, Jer, a Bombay. Poi la portò qui e nacque Freddie. «Era così piccolo, come un cucciolino. Anche quando era appena nato, lo portavano qui da noi, lo lasciavano a mia madre e uscivano. Quando
diventò un po’ più grande giocava per casa. Era un vero monello. Io ero più grande e mi piaceva prendermi cura di lui. Era un bravo bambino. Ogni volta che veniva qui, non volevo mai che se ne andasse.» a ndasse.» Perviz spiegò come i Bulsara conducessero una vita sociale relativamente attiva, entro i limiti rigorosi della loro religione e cultura. Con il salario di un modesto impiegato statale in Gran Bretagna, Bomi poteva permettersi una casa comoda con domestici, compresa una ayah (bambinaia) per Freddie, Sabine. La famiglia non mancava di nulla e in casa regnava un’atmosfera di pace e tranquillità. Nel 1952, quando Freddie aveva sei anni, nacque la sorella Kashmira. Bomi lavorava nel Beit-el Ajaib, la «casa delle meraviglie» edificata a fine Ottocento dal sultano Sayyid Barghash come palazzo per le cerimonie. Sopravvissuto al cannoneggiamento della flotta britannica, all’epoca era l’edificio più alto di tutta l’Africa orientale e vantava un rigoglioso giardino botanico. Anni dopo è stato ristrutturato e convertito nel principale museo di Zanzibar. Il lavoro di Bomi prevedeva lunghi viaggi nella colonia e in India, un fatto che quasi certamente influenzò la sua decisione di mandare il suo unico figlio in un lontano collegio. Tuttavia c’era anche un’altra questione in ballo: a casa la sua educazione sarebbe stata limitata. Sebbene i genitori continuassero a praticare lo zoroastrismo, a cinque anni Farrokh fu mandato alla scuola missionaria di Zanzibar, gestita dalle suore anglicane. Più intelligente della media, dimostrò una propensione per la pittura e il disegno. «Si trasformò in fretta in un bambino cortese, serio e preciso», raccontò Perviz. «A volte era un po’ dispettoso, ma perlopiù lo ricordo riservato e timido. Molto timido. Non parlava molto, anche quando veniva a trovarci con i genitori. Era il suo carattere. Crescendo, non lo vidi più tanto spesso, dato che era sempre a giocare in strada o in spiaggia con gli altri ragazzi.» «Da piccolo era felice e amava la musica», ricordava la madre. «Folk, lirica, classica, gli piaceva di tutto. Credo che abbia sempre voluto diventare un uomo di spettacolo.» Perviz si disse sorpresa quando le spiegai i miei tentativi infruttuosi di ottenere una copia del certificato di nascita del cugino. Nemmeno un appuntamento con il direttore del dipartimento aveva avuto esito positivo. «Dunque lei è qui per il certificato di nascita di Freddie Mercury?» mi
aveva detto sorridendo. «Non c’è più. Qualche anno fa un’argentina è venuta a cercarlo cercarlo e le abbiamo dato una copia. copia. Da allora l’origi l’originale nale è scomparso, anche se è stato richiesto più volte, presumo dai suoi fan. Il problema principale è che nel 1946 o nel 1947 non c’era un archivio vero e proprio. Solo alcuni foglietti che ora sono sparsi in giro. Le faccio vedere.» Dietro il bancone dell’ufficio principale, il direttore rovistò in alcuni schedari e tornò con una manciata di certificati di nascita. Una decina caddero a terra e lì rimasero. «C’è una persona, un certo dottor Mehta, che al momento si trova in Oman, ma che dovrebbe tornare la settimana prossima. So che lui ha una copia del certificato di nascita di Freddie.» Per quanto abbia tentato, tuttavia, non sono riuscita a rintracciare il dottor Mehta. Non tutte le persone che incontrai a Zanzibar condividevano il mio interesse sulle origini di Freddie Mercury. La bellissima figlia di Perviz, Diana, si mostrò indifferente, insistendo che non le interessava affatto «Freddie Mercouri «Freddie Mercouri». ». Perché? «Se n’è andato da Zanzibar quando ero piccola», rispose alzando le spalle e arrossendo. «Ha cambiato cognome. Non viveva come noi. Non aveva nulla a che spartire con noi. Non è mai tornato. Non era orgoglioso di essere cresciuto a Zanzibar. Era uno straniero. Viveva un’altra vita.» La mia richiesta di ulteriori spiegazioni fu accolta da un rifiuto. Quindi c’era dell’altro. L’atteggiamento di Diana era comune. Sebbene diversi zanzibari oggi sostengano di abitare nella casa dei Bulsara, nessuno è in grado di produrre prove tangibili e nessuno pare davvero interessato a farlo. Come mi spiegò un negoziante indiano: «Non so niente, e nessuno sa niente. Chiunque dica il contrario tira a indovinare. Specialmente quelle guide che ti portano in giro per l’isola a farti vedere tutti i posti in cui Freddie sarebbe stato. Sono interessati solo ai soldi. Non c’è più nessuno qui che sappia qualcosa. Molta gente se n’è andata all’improvviso e nello stesso periodo, tanto tempo fa. Ma se scopre qualcosa, per favore torni qui e me lo riferisca. Perché sono davvero stufo di tutta questa gente che mi chiede informazioni: americani, sudamericani, inglesi, tedeschi, giapponesi. La gente di qui non capisce; insomma, chi era questo Freddie Mercury?» Chi era il figlio più famoso di Zanzibar? Per i fan dei Queen, l’isola è la meta definitiva dei loro pellegrinaggi. Alcuni tour operator offrono costose
vacanze tematiche tematiche a Zanzibar, Zanzibar, dove una manciata manciata di ristor ristoranti anti con una bellissima vista e un paio di negozi di souvenir approfittano della situazione. In vita, però, Freddie Mercury non fu mai una star in patria. Niente chiavi della città. Nessun documento ufficiale. Nessun riconoscimento nel museo locale (almeno fino all’epoca della mia visita). Nessuna casa convertita in santuario. Niente statue, ritratti, portacenere o magneti da frigo con la sua effigie. Nemmeno una cartolina, anche se ci sono cartoline di quasi ogni altra attrattiva dell’isola. Forse a Zanzibar pure i termometri sono privi di mercurio! mercurio! Se mai si volesse trovare l’antitesi della Graceland di Elvis Presley, questa è la Zanzibar di Freddie Mercury. Il mistero del certificato di nascita mancante riaffiorò al mio ritorno a casa. Un giorno, fui contattata inaspettatamente dalla famosa argentina Marcela Delorenzi. Era una giornalista di Buenos Aires e stava venendo a Londra con un regalo per me. Mi portò una copia del certificato di nascita di Freddie. Non gliel’avevo chiesta, non ci eravamo mai parlate. Non avevo cercato di rintracciarla e lei non mi domandò nulla in cambio. Non so se agì per un senso di colpa, non ne discutemmo. Mi disse che quando aveva ottenuto la sua copia, il documento originale era ancora nell’archivio. L’aveva visto. Forse è stato venduto e, chissà, magari oggi si trova in qualche collezione privata. Nel 2006, l’Associazione per la mobilitazione e la propagazione dell’Islam (UAMSHO) protestò a gran voce contro l’idea di festeggiare il sessantesimo compleanno di Freddie sull’isola, sostenendo che il cantante aveva violato i dettami dell’Islam con il suo comportamento apertamente omosessuale e trasgressivo. L’associazione radicale chiese che la prevista festa in spiaggia per turisti gay fosse annullata e che migliaia di fan provenienti da tutto il mondo per le celebrazioni fossero rispediti a casa. Non fu certo una sorpresa. Zanzibar aveva messo fuori legge le relazioni gay nel 2004, attirandosi le critiche delle organizzazioni per i diritti degli omosessuali di tutto il mondo. Il capo della UAMSHO, Abdallah Said Alì, sostenne provocatoriamente che l’evento avrebbe «mandato un messaggio sbagliato» al mondo. «Non vogliamo lasciar credere alle nostre giovani generazioni che l’omosessualità sia tollerata a Zanzibar», disse. «La nostra religione ci impone il dovere di proteggere la morale della società, e chiunque corrompa la morale islamica islamica dev’essere d ev’essere fermato fe rmato.» .»
Morale islamica a parte, c’era la fede della famiglia di Freddie da prendere in considerazione. Il cantante amava e rispettava i genitori e la sorella, e sapeva anche che gli zoroastriani ortodossi sono favorevoli alla totale soppressione dell’omosessualità. Forse era per questo che aveva tentato a lungo di reprimere le sue tendenze omosessuali. Nel testo sacro dello zoroastrismo, il Vendidad, si afferma: «L’uomo che giace con il maschio come l’uomo giace con la femmina, o come la femmina giace con l’uomo, è un daeva (demone): quest’uomo è un adoratore dei daeva, daeva, un concubino concubino dei de i daeva». daeva». Per i parsi, quindi, l’omosessualità non è solo un peccato, ma una forma di adorazione del diavolo. Mettiamo le cose nel giusto contesto. I rapporti omosessuali consenzienti fra adulti sono tuttora illegali in circa settanta Paesi (su un totale di centonovantacinque nazioni nel mondo). In quaranta di questi è vietato solo il sesso fra maschi. I rapporti sessuali fra due maschi adulti sono diventati legali in Inghilterra e in Galles nel 1967, mentre in Scozia solo nel 1980 e in Irlanda del Nord nel 1982. Durante gli anni Ottanta e Novanta, le organizzazioni per i diritti degli omosessuali si sono battute per l’equiparazione dell’età del consenso fra eterosessuali e omosessuali. Oggi l’età del consenso in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord è fissata a sedici anni. «Freddie non viveva come noi», aveva detto sua cugina Diana. «Viveva un’altra vita.» La verità nuda e cruda, meglio di qualsiasi bugia attentamente confezionata. A quanto pare Freddie aveva abbandonato la sua patria africana per il più basilare dei motivi. Forse nel profondo del cuore si sentiva hiraeth, hiraeth, un antico termine gallese che non ha un corrispettivo preciso. Evoca melanconia, nostalgia, una tristezza profonda e radicata per una cosa perduta. Forse Freddie, come molti di noi, in segreto piangeva la sua innocenza perduta e sentiva la mancanza di una parte del suo passato che non poteva più raggiungere. Talvolta torniamo, rivisitiamo, consoliamo il nostro sé adulto con i ricordi. Freddie non ha mai potuto farlo. Era costretto a riempire il vuoto con qualcos’altro. Secondo alcuni Seven Seas of Rhye («I sette mari di Rhye»), primo successo dei Queen nel 1974, era il suo tentativo di rappacificarsi con il passato. È l’unico brano hard rock in un album
progressive, con un testo basato su un regno di fantasia che da piccolo Freddie immaginava con la sorellina Kashmira. Può darsi che siano stati i misteri delle loro radici persiane, in particolare l’epico viaggio del profeta Zarathustra, ad alimentare la loro fantasia e a ispirare le loro favole su Rhye. Secondo Phil Swern, produttore della britannica Radio 2 e rinomato collezionista di musica, questa è una possibilità concreta. «Ho sempre avuto l’impressione, dai commenti [di Freddie] in diverse interviste negli anni, che Seven Seas of Rhye Rhye parlasse della sua vita a Zanzibar. Era il suo rifugio, almeno a livello mentale. Era il luogo in cui fuggire quando la realtà diventava troppo opprimente.» In un’intervista radiofonica, Freddie descrisse il testo del brano come «puro frutto della mia immaginazione». «I testi delle mie canzoni sono soprattutto di fantasia», disse. «Li invento, non sono concreti, sono campati in aria, in un certo senso. Non sono uno di quei compositori che va in giro per strada e di colpo è ispirato da una visione, visione, e nemmeno uno di quelli che va a farsi un safari per prende prendere re ispirazione dagli animali selvatici, o che scala una montagna o cose del genere. No, no, per ispirarmi basta che stia sdraiato nella vasca da bagno.» Comunque sia, Rhye era un tema ricorrente. Altri brani dei Queen degli inizi trattavano argomenti di fantasia, come Lily of the Valley («Mughetto»), The March of the Black Queen Queen («La marcia della regina nera») e My Fairy King («Il mio re fatato»). Rhye avrebbe esercitato un fascino duraturo sul gruppo. Nel musical-jukebox della band, il futuristico We Will Rock You, You, che debuttò a Londra nel 2002, il «Seven Seas of Rhye» è il luogo in cui i ribelli «Bohemians» vengono trasportati dopo essere stati lobotomizzati dal perfido Khashoggi, il comandante della polizia della Globalsoft Corporation che controlla il mondo. Alla fine di Seven Seas of Rhye, Rhye, mentre svaniscono le ultime battute, si sente un coro sguaiato che intona una vecchia canzone inglese da spiaggia: «Oh, I do like to be beside the seaside» seaside » («Oh, come mi piace star in riva al mar»). Un’ulteriore allusione alla spensierata vita da spiaggia di Freddie, fra le intatte barriere coralline e le sabbie adorne di palme della sua giovinezza? Non potremo mai saperlo con certezza. Quel che sappiamo è che non avrebbe mai potuto esserci un «bentornato a casa» per l’uomo che aveva infranto i dettami della fede di famiglia.
3 Panchgani
Ero […] un bimbo precoce e i miei genitori pensarono che il collegio mi avrebbe fatto bene. Per questo, quando avevo circa sette anni, me ne scelsero uno in India e mi ci mandarono mandarono per un po’. Fu uno sconvolgimento radicale dal punto di vista educativo, che sembra avere funzionato, funzionato, direi. d irei. FREDDIE MERCURY I suoi genitori lo mandarono mandarono a scuola in India. Fui molto molt o triste quando lo vidi partire, partire, ma qui a Zanzib Z anzibar, ar, all’epoca, le scuole sc uole non erano molto buone. Inoltre mi sembra che più o meno nello stesso st esso periodo i genitori dovettero trasferirsi trasferirsi sull’isola di Pemba per lavoro, lavoro, e di sicuro lì non c’erano scuole di un certo c erto livello. Perciò pensarono pensarono che la l a soluzione migliore fosse mandarlo dalla sorella sorella di Bomi, che si chiama anche lei Jer – è mia zia, abita a Bombay – dove avrebbe potuto studiare come si deve. PERVIZ DARUNKHANAWALA, cugina cugina di primo grado gra do di Freddie
NE L novembre del 1996 fui invitata alla Royal Albert Hall per l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata a Freddie Mercury: si commemorava il quinto anniversario della sua morte. Tutti i presenti quella sera avevano avuto un legame diretto con Freddie e i Queen, da Marje, la domestica del cantante, a Ken Testi, il primo manager del gruppo, a Denis
O’Regan, il fotografo della band. C’erano anche i genitori di Freddie, gracili e anziani, e quando mi presentai mi salutarono con affetto. «È bellissimo vedere tutte queste fotografie e queste persone riunite in onore del nostro caro figliolo. Siamo molto orgogliosi», disse il padre dopo avermi stretto la mano. La mostra avrebbe girato il mondo e sarebbe stata ripresentata in diverse città, fra cui Parigi, Montreux e Mumbai. Dopo l’inaugurazione londinese, alcuni giornalisti decisero di smascherare The Great Pretender («Il grande simulatore») per avere celato le sue origini indiane. Con titoli come «Bombay Rhapsody» e «Star of India», Freddie fu messo a nudo come la prima rockstar indiana dell’Inghilterra. Benché gli articoli contenessero poche verità, la bufala fu ripresa da diversi giornali, che la sormontarono di titoloni scandalistici. Le origini persiane di Freddie furono messe in discussione, la comunità parsi di Londra si indignò e ne nacque un’accesa polemica. Non che ai giornali inglesi importi qualcosa di offendere qualcuno. «Il nostro popolo non vive in Persia dal nono secolo, ma non per questo siamo meno persiani», dichiarò il portavoce dei parsi. «Anche se siamo spesso definiti ‘zoroastriani indiani’, discendiamo dagli zoroastriani persiani che si rifugiarono in India durante il settimo e l’ottavo secolo per sfuggire alle persecuzioni musulmane. Quella migrazione non ci ha reso indiani. Se sei di fede ebraica, ma la tua famiglia non vive in Palestina da duemila anni, forse questo ti rende meno ebreo? C’è parecchia differenza fra razza e nazionalità, fra radici e cittadinanza. Può darsi che i parsi persiani non abbiano una patria [la loro antica terra d’origine oggi è parte parte dell’Iran], nonostante ciò, rimangono rimangono parsi parsi nel cuore.» Tornando a Freddie, basta guardare una sua foto qualsiasi per rendersi conto delle sue origini iraniche piuttosto che indiane. Ogni sua immagine, nonostante quella dentatura pronunciata, tradisce la sua discendenza. Nati nell’India coloniale, i genitori di Freddie erano tutti e due sudditi britannici, di nazionalità indo-britannica. Era questa la dicitura sui documenti ufficiali, presente sul loro certificato di nascita e su quello del figlio. È significativo che come razza si fossero dichiarati entrambi parsi. Freddie era nato a Zanzibar, perciò era considerato uno zanzibari. Si può sostenere che fosse più africano che indiano. Definirlo «la prima popstar indiana d’Inghilterra» era un’esagerazione: l’ennesimo titolo per riproporre
una storia vecchia. Perché la famiglia non ha mai protestato per questo travisamento del proprio retaggio culturale, per questa negazione delle loro origini etniche? Spesso il loro comportamento è parso incomprensibile. Persone calme, semplici e diligenti, per niente materialiste e contente di ciò che hanno, i Bulsara vivono in modo tranquillo, osservando i rituali, le regole e le limitazioni della loro religione e cultura. Sono tutti e due minuti, con una costituzione quasi delicata. Freddie aveva preso più dalla madre, ereditando in particolare le labbra carnose, l’ampio sorriso e l’insolita dentatura. Riservati in pubblico, Bomi e Jer sono sempre gentili e gioviali in privato, seppure un po’ troppo controllati. Anche se era un autentico capofamiglia con un forte senso della tradizione, Bomi non era mai stato una figura autoritaria né tanto meno un modello virile per il figlio. Freddie si era sempre sentito più a suo agio fra le donne della famiglia e non aveva mai mostrato il desiderio di voler seguire le orme del padre in termini professionali. La madre avrebbe voluto che studiasse legge, ma l’idea di lavorare lavorare in un ufficio ufficio non lo aveva mai entusiasmato. entusiasmato. Essendo così riservati e così poco espansivi, i Bulsara non hanno mai avuto un rapporto molto fisico con i figli, come Freddie avrebbe rivelato in seguito ai suoi amanti Barbara Valentin e Jim Hutton. Quando abitavano a Zanzibar, i bimbi erano seguiti dalla tata, Sabine. Sebbene né Freddie né Kashmira ricevessero mai punizioni corporali dai genitori, non ebbero mai nemmeno molte coccole. Secondo Jim, di tanto in tanto Freddie si domandava se la carenza di affetto provata durante l’infanzia fosse ciò che l’aveva portato a nutrire «un’ossessione sproporzionata per il contatto fisico in età adulta […] Un desiderio che troppo spesso si manifestava in sesso insignificante, perché in genere non era in grado di trovare l’uno senza l’altro. Il sesso non era mai riuscito a sostituire ciò che desiderava di più, cioè l’affetto, la prova di essere amato. Era abbastanza infantile in questo senso. Tutte le carezze e le coccole che riservava ai gatti, per esempio, rappresentavano rappresentavano ciò che lui avrebbe voluto ricevere.» Il 14 febbraio 1955, secondo i registri della scuola, Freddie (all’epoca ancora Farrokh) fu iscritto come «Farookh Bomi Bulsara» (si noti la diversa ortografia del nome rispetto al certificato di nascita) alla St Peter’s School di Panchgani, un collegio retto dalla Chiesa anglicana, dove fu ammesso alla «classe terza». Aveva otto anni. Vi sarebbe restato per quasi un decennio, rivedendo i genitori solo una volta l’anno, per un mese estivo. Non
sorprenderà, quindi, se la sua relazione con la madre e il padre divenne sempre più distaccata, come dimostrano le lettere rispettose ma fredde che scriveva loro. Nonostante gli insegnanti lo esortassero a non lasciar trasparire le sue emozioni, è impossibile pensare che Freddie non si sia sentito vulnerabile e solo così lontano da casa, senza nemmeno il lusso di un telefono per chiamare i genitori quando sentiva la loro mancanza, il che accadeva spesso. spesso. «Aveva sei anni quando sono nata, per cui ho passato solo un anno con lui, ma sono sempre stata molto orgogliosa di mio fratello maggiore, che mi proteggeva», ricordò la sorella in un’intervista per il Mail on Sunday nel novembr novembree del de l 2000. «Non sempre tornava a casa per le vacanze, talvolta restava dalla sorella di papà a Bombay, oppure con quella della mamma, anzi è stata proprio lei a fargli muovere i primi passi con il pianoforte e il disegno. Era bravo in tutte le materie. Ero invidiosa, chiaramente. Mamma e papà hanno tenuto tutte le sue pagelle.» Per il piccolo Freddie, il viaggio da Zanzibar alla nuova scuola fu molto difficile. «Andò via nave con il padre e poi prese il treno fino a Poona [oggi Pune]», ricorda la cugina Perviz. «Era un viaggio lungo e stancante, anche se c’erano collegamenti regolari fra Zanzibar e Bombay», che già allora era la città più caotica, industrializzata e moderna dell’India. «Anche noi ci andavamo spesso, a trovare i parenti. Durante le vacanze scolastiche, Freddie stava dalla zia Jer, la sorella di Bomi. Era una signora molto buona e generosa, che si occupava anche dei bambini di un altro fratello di mio padre in India.» Panchgani («Cinque colli») era una tipica località turistica del Raj Britannico nell’India occidentale, a circa trecento chilometri da Mumbai. Famosa per i suoi edifici pubblici, le villette pittoresche, le antiche dimore parsi e i lussureggianti campi di fragole, quella tranquilla cittadina coloniale fu fondata durante il dominio inglese come sanatorio e luogo di villeggiatura villeggiatura estiva. Affacciata Affacciata sulle pianure pianure costiere, costiere, su fitte foreste e sul fiume Krishna, la cittadina è tuttora una destinazione popolare per i turisti, attratti dalle sue acque sorgive ricche di ferro e i densi fanghi rossi di origine vulcanica. vulcanica. Molti abitanti di Mumbai si rifugiano lì per scappare scappare dai d ai monsoni (la capitale dista quattro o cinque ore di macchina). Alcuni ci mandano in collegio i figli, in istituti impostati sul modello inglese.
La St Peter’s School esiste tutt’oggi. Fondata nel 1904, continua a promuovere la cultura e i valori tradizionali dell’India e a sostenere la tolleranza religiosa nei confronti di tutte le fedi, dal cattolicesimo allo zoroastrismo. Il motto dell’istituto è «Ut Prosim» («che io possa giovare»). Il suo stemma, «simbolo di speranza di rinascita», rappresenta la fenice che risorge dalle ceneri, con un ramoscello di ulivo nel becco. Ai tempi di Freddie era diretta da Oswal D. Bason, entrato in carica nel 1947, l’anno dell’indipendenza dell’India. Bason sarebbe rimasto al suo posto fino al 1974, proprio mentre i Queen gustavano il loro primo assaggio di notorietà. Sebbene la scuola non ostenti quel suo allievo famoso, non è nemmeno riluttante ad aprire le porte ai curiosi. I suoi dipendenti hanno persino collaborato alle riprese di alcuni documentari su Freddie Mercury. Insieme con l’amico Victory Rana (in seguito generale dell’esercito nepalese) e Ravi Punjabi, filantropo e imprenditore, Freddie Mercury è fra gli ex allievi più famosi dell’istituto. Quando arrivò nell’ampio e gradevole campus della scuola, Freddie era stato indottrinato nella fede della famiglia ed era uno zoroastriano praticante. A otto anni aveva fatto il Navjote, Navjote, una cerimonia che riguarda sia i maschi sia le femmine (come la cresima) e che somiglia al bar mitzvah dei de i maschi ebrei. Comincia con un bagno rituale, che simboleggia la purificazione della mente e dell’anima. Poi l’iniziato indossa una tunica bianca e una cintura di lana, e recita antiche preghiere su una fiamma che gli zoroastriani ritengono sacra ed eterna. Fuochi come questo sono un elemento centrale della fede e si dice che in alcuni templi brucino senza interruzione da migliaia di anni. L’Avesta, la raccolta di sacre scritture dello zoroastrismo, non prevede alcun comandamento formale, ma solo «tre buone cose» che i parsi si impegnano a osservare da generazioni: humata, humata, hukhta, hukhta, huvarshta, huvarshta, ovvero «buoni pensieri, buone parole, buone opere». All’epoca di Freddie, il St Peter’s era ritenuto uno dei migliori collegi privati maschili di Panchgani. Offriva un programma di studi in inglese e vantava un’ottima un’ottima percentuale percentuale di successo. successo. Attirava Attirava allievi dagli Stati Uniti, U niti, dal Canada, dal Golfo Persico, oltre che da tutta l’India. Le lezioni iniziavano a metà giugno e finivano a metà aprile, per via del clima indiano. La pausa principale era quindi di otto settimane. A questa si aggiungevano due settimane di vacanza a Natale. La disciplina era rigida e le condizioni di vita abbastanza austere. C’era acqua calda solo di mercoledì mercoledì e di sabato
all’ora di pranzo. I bagni venivano fatti sotto la supervisione della capo infermiera, la quale gestiva anche l’ospedale dell’istituto con l’aiuto di una collaboratrice interna e un dottore esterno. Il collegio aveva una sua cappella e gli allievi dovevano adeguarsi alle abitudini religiose dell’istituto a prescindere dal loro credo. Sebbene la scuola rispettasse tutte le fedi, la messa domenicale era obbligatoria per tutti. Nessun allievo poteva uscire dal perimetro dell’istituto senza essere accompagnato da un membro del personale. Nonostante ciò, il St Peter’s era rinomato per la premura dei docenti nei confronti degli allievi e per la sua atmosfera rilassata e cordiale: aiutava a coltivare le virtù dei ragazzi e a far emergere il loro lato migliore. In seguito Freddie avrebbe dichiarato di essersi sentito privilegiato per essere stato mandato in quel collegio: sapeva quanti sacrifici fosse costato ai genitori. I Bulsara non solo avevano dovuto lavorare molto per coprire la retta, ma anche separarsi dal loro primogenito e costringere la figlia a crescere lontana dall’unico fratello. Ma il pensiero di essere un privilegiato non era sufficiente a debellare l’inquietudine legata alla separazione dalla famiglia. Dopo esser vissuto a stretto contatto con la madre e la sorella, ritrovarsi in un collegio a migliaia di chilometri di distanza, a soli otto anni, dev’essere stato dolorosissimo per lui. È impossibile pensare che non si sia sentito solo e impaurito, che non abbia desiderato un abbraccio o una favola della buonanotte prima di addormentarsi. Chi gli è stato vicino negli anni, ha dichiarato che Freddie era risentito nei confronti dei genitori per essere stato «mandato via» da piccolo, anche se con loro si comportò sempre in modo assolutamente rispettoso e premuroso. È evidente che faceva del suo meglio per superare il senso di rifiuto provato allora. All’epoca Jer e Bomi presero la decisione che ritennero migliore e non c’è dubbio che sia costata loro moltissimo. Tuttavia mandare un bambino timido come Freddie così lontano da casa fu probabilmente un grandissimo errore, forse il più grande della loro vita. Alcuni bambini sopportano meglio di altri la separazione dalle famiglie, ma per Freddie, un ragazzino sensibile e per sua stessa ammissione un po’ troppo appiccicoso, lo strappo fu insopportabile, almeno all’inizio. La notte piangeva fino ad addormentarsi nella camerata che condivideva con altri diciannove bambini altrettanto soli. Privato di attenzioni quotidiane e affetto in un momento cruciale della
crescita e in un’età estremamente delicata, inevitabilmente Freddie cambiò, sviluppando un nuovo carattere e iniziando a vedere la vita in modo diverso. Cercò conforto nei compagni. Oltre a Victory Rana, diventò amico di Derrick Branche, che in seguito si trasferì in Australia e divenne un attore di successo. Nel 1985, infatti, proprio mentre Freddie si esibiva al Live Aid, Branche recitava nel film My Beautiful Laundrette, Laundrette, una commedia drammatica con Daniel Day-Lewis che esplora le relazioni fra la comunità bianca e quella indiana, e che affronta temi difficili come l’omosessualità e il razzismo. Nella cerchia di Freddie c’era anche Farang Irani, che in seguito aprì un ristorante a Bombay, e Bruce Murray: di lui si sa solo che di recente lavorava come facchino alla stazione Victoria a Londra. Negli anni successivi i cinque divennero inseparabili, dormendo in letti vicini e organizzando scherzi. Ospitato dalla zia paterna Jer o da quella materna Sheroo durante le pause fra i quadrimestri, di rado Freddie rivide i genitori durante la permanenza al St Peter’s Pe ter’s,, persino persino nel ne l corso delle vacanze scolastiche. scolastiche. «Dovevi fare quel che ti dicevano, per cui la cosa più ragionevole era sfruttare la situazione al meglio», disse anni dopo. «Imparai a badare a me stesso e crebbi molto in fretta.» Così cominciò a formarsi il carattere del «vero» Freddie, quello che l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Dovendo guardarsi le spalle da solo e difendersi dai bulli, Freddie imparò in fretta a stare al mondo. Si rese anche conto di dover cambiare nome: «Farrokh» era difficile da pronunciare, specialmente alla maniera persiana, «Farroh», piuttosto che all’africana «Faruk». Fu per lui un sollievo quando insegnanti e amici gli affibbiarono un nome inglese di tutto rispetto: «Freddie». Per sua fortuna, tutti lo adottarono. Anche famigliari e genitori non sollevarono obiezioni, e ancora oggi si riferiscono al figlio chiamandolo «Freddie». Il cambio di cognome, invece, sarebbe avvenuto solo molto più tardi e per ragioni diverse. Verso i dieci anni, Freddie cominciò a mostrare un nuovo tratto caratteriale: caratteriale: il riserbo, riserbo, per alcuni versi condiscendente, una caratterist caratteristica ica che avrebbe mantenuto per il resto della vita. Sebbene in certe occasioni potesse diventare astioso, non era mai scortese o cattivo. Non era portato per i giochi di squadra. Eccelleva negli sport individuali
o di coppia, come gli scacchi, la corsa, la boxe e il ping-pong. Divenne campione di tennis da tavolo dell’istituto prima ancora di avere compiuto undici anni. Sebbene rugby e calcio non facessero per lui, si dice che amasse il cricket, anche se in seguitò lo negò. Chissà, magari pensava che una dichiarazione d’amore per quello sport avrebbe danneggiato la sua immagine hard rock, ma chi può dirlo? Nel 1958, a quasi dodici anni, vinse il premio come miglior allievo dell’istituto e l’anno successivo quello per il miglior rendimento scolastico. Interpretò il ruolo principale in diverse pièce teatrali e cantò un pezzo solista nella produzione del Canto d’amore indiano. indiano. La sua materia preferita era l’arte e dedicava la maggior parte del tempo libero a disegnare e a dipingere, in particolare per la zia Sheroo e i nonni di Bombay. Cominciò anche a dedicarsi con entusiasmo alla musica come attività extracurricolare. Già a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, Bombay vantava una cultura cosmopolita e internazionale, aperta anche all’influenza della musica leggera occidentale. Freddie amava studiare musica classica, in particolare l’opera, ma adorava addirittura di più il rock e il pop contemporanei. Prese lezioni di pianoforte superando gli esami sia di teoria musicale sia di pratica ed entrò a far parte di un coro. Con gli amici del collegio formò il suo primo gruppo: gli Hectics, che si affermarono grazie al suo stile pianistico boogiewoogie. Iniziarono a esibirsi in concerti all’interno dell’istituto e alla festa annuale del collegio. Le ragazze delle altre scuole si mettevano davanti al palco e gridavano come matte, perché avevano sentito dire che così ci si comportava ai concerti rock. Gli idoli dell’epoca erano Elvis Presley, Clif Richard, Fats Domino e Little Richard, ed era a questi artisti che Freddie si ispirava. Studiò molto per imitare il loro stile, ma non era ancora pronto per diventare il leader di un gruppo, ed era felice di restare in seconda fila e lasciare il posto principale all’amico Bruce Murray, che cantava e suonava la chitarra. «Poi c’era il coro del collegio, con tutto il repertorio tradizionale di opere corali e inni, che provava regolarmente per guidare i canti durante la messa», ricordò Branche. «Il coro aveva circa venticinque elementi e spesso partecipavano anche le ragazze di un altro istituto della città. Non solo Freddie amava cantare nel coro, ma credo che amasse anche una delle ragazze: Gita Bharucha, che aveva quindici anni.» Alcuni sostengono che Freddie ebbe i primi rapporti sessuali in collegio,
all’età di circa quattordici anni, soprattutto con altri ragazzi e persino con un paio di dipendenti dell’istituto. La sua prima «fidanzatina», però, dubita parecchio di queste ipotesi. «Non ho mai pensato che ‘Bucky’ fosse gay», disse Gita. «Assolutamente no. Mai visto alcun segno che lo indicasse. Forse i suoi insegnanti lo sapevano ma erano discreti. Noi, i suoi amici, di certo non lo sapevamo. Sul palco era il più sgargiante, si vedeva che era nel suo elemento, e puntualmente interpretava parti femminili.» Dopo Panchgani Gita si sposò, cambiò cognome in Choksi e si trasferì a Francoforte, dove lavorò per un tour operator indiano. Per questo non fu facile rintracciarla. Quando ci riuscii, all’inizio fu riluttante a parlare di Freddie. Alla fine, tuttavia, accettò e ci incontrammo a Londra. «La prima volta che vidi Freddie fu nel 1955, quando andai alla Kimmins School di Panchgani», raccontò. «Era una scuola gestita da missionari protestanti inglesi. Ci rimasi fino al 1963 e per quasi tutti i dieci anni che Freddie trascorse a ‘Panchi’ rimanemmo amici. Io venivo da Bombay, ma vivevo con la mamma e i nonni a Panchi. Ero un’allieva esterna. Funzionava così: i ragazzi frequentavano l’asilo della Kimmins, poi proseguivano alla St Peter’s. Con alcuni sono stata nella stessa classe per anni: con Victory Rana e anche con Bucky; è così che chiamavo Freddie: leprotto, per via dei denti. C’era anche Derrick Derrick Branche. «Io e Bucky eravamo molto vicini, ma solo amici. Nient’altro. Ci tenevamo per mano e basta. Affittavamo biciclette per tre rupie al giorno e andavamo a farci dei giri. A volte andavamo in barca sul lago Mahableshwar. La mamma mi lasciava fare delle feste, o invitare amici a pranzo, dopodiché facevamo una passeggiata o giocavamo. Spesso Bucky restava da noi durante le vacanze. Era estremamente educato e gentile. A mia madre e ai miei nonni piaceva tantissimo.» Janet Smith, un’insegnante di Panchgani che risiedeva al St Peter’s dove la madre teneva corsi di arte alla classe di Freddie, invece sostiene di non avere avuto alcun dubbio sull’omosessualità del giovane Freddie. «Aveva l’abitudine di chiamarti ‘tesoro’, il che mi sembrava un po’ lezioso. Sapevo che era gay, lo sapevo e basta. Era una cosa senza dubbio insolita in quei tempi, ma quasi accettabile per un ragazzo come Freddie. Normalmente sarebbe stato orribile, ma nel suo caso non lo era. Era giusto.
E non era una fase, ma un tratto fondamentale del suo essere. Non potevo fare a meno di provare pena per lui, perché gli altri lo prendevano in giro. Stranamente, però, non sembrava che questo gli desse fastidio.» Nonostante Gita e Freddie fossero stati compagni inseparabili durante la scuola, in seguito lei non ebbe più sue notizie. «È triste, lo so, ma è andata così. Come se volesse divorziare dall’India e passare passare allo stadio successivo successivo della vita.» Quando Freddie arrivò alla decima classe, il suo rendimento scolastico peggiorò. Non passò l’esame di fine anno e lasciò la scuola prima dell’undicesimo anno. Non superò mai il primo livello nell’educazione superiore britannica. Forse confuso per il suo orientamento sessuale e distratto da passioni più creative – musica e arte – perse interesse negli studi e iniziò a seguire obiettivi e attività più stimolanti. Sebbene altri biografi abbiano scritto che uscì dal St Peter’s con una sfilza di attestati in varie materie, e ottimi voti in inglese, storia e arte, questo non corrisponde al vero. Il motivo motivo per cui i primi primi addetti add etti stampa stampa dei Queen Quee n falsarono la realtà diventa chiaro quando si confrontano i risultati accademici degli altri membri del gruppo. Brian May studiò fisica e matematica all’Imperial College di Londra conseguendo una laurea in fisica. Cominciò poi un dottorato in astrofisica che completò trent’anni dopo. John Deacon si laureò con i massimi voti in elettronica al Chelsea College (oggi parte del King’s College) di Londra, mentre Roger Taylor ottenne un posto per studiare odontoiatria al London Hospital Medical College, ma in seguito abbandonò gli studi per concentrarsi sulla musica. «Freddie non voleva passare per un... ignorante, rispetto agli altri membri dei Queen», commentò Jim Jenkins, amico del gruppo e coautore di Queen: la biografia ufficiale. ufficiale. «Forse è per questo che raccontava in giro di avere superato gli esami superiori quando in realtà non era vero. È compr comprensibile, ensibile, date le circost circostanze.» anze.» La zia materna di Freddie, Sheroo Khory, mi parlò dell’amato nipote in casa sua, nella colonia parsi di Dadar a Bombay. «Anche quando Freddie stava da Jer, veniva sempre a trovarmi dopo colazione e a volte passavamo tutto il giorno insieme. Era molto bravo a disegnare e io lo incoraggiavo. Quando avevo otto anni fece un bellissimo disegno di due cavalli in una tempesta, che firmò ‘Farrokh’. Ce l’aveva la madre appeso in casa. Non so se sia ancora lì.»
Ma quando andò in Inghilterra, «era finita», disse. «Non volle più tornare in India. Diceva di essere inglese, gli piaceva quella società più civile, specialmente il sistema legale, rispetto all’enorme corruzione che c’è qui in India. Ma ha sempre mantenuto i contatti e mi ha persino spedito del denaro per un’operazione agli occhi di cui avevo molto bisogno. Voleva anche portarmi a visitare l’Europa. Non si è mai dimenticato della sua vecchia zia.» zia.» Anni dopo, Sheroo iniziò a corrispondere regolarmente con la ex fidanzata di Freddie, Mary Austin, scambiando fotografie del nipote da piccolo con quelle di lui nei panni della famosa rockstar. La nostra conversazione toccò anche l’argomento dei «nemici» che Freddie aveva in Inghilterra e lei disse di avere temuto per la sua incolumità. Era dispiaciuta per le polemiche religiose che c’erano state, specialmente per le voci che parlavano di una conversione di Freddie Mercury al cristianesimo poco prima della scomparsa. «Tutta la famiglia è rimasta turbata da quelle notizie», disse. «È stato un colpo terribile e crudele. Tutte bugie, in particolare quella che era diventato cristiano. Sono sicura che non è vero. Di certo non che io sappia, e sono sicura che me l’avrebbe detto.» Nonostante a volte sia stato riportato il contrario, Freddie tornò a Zanzibar nel 1963 e completò gli ultimi due anni di scuola presso la St Joseph’s Convent School, un istituto cattolico. Bonzo Fernandez, un ex poliziotto di Zanzibar, poi tassista, conobbe Freddie in quell’occasione. «Ricordo che aveva un ottimo rapporto con la famiglia e che aveva una sorella molto brava. Era molto educato. Tutti i Bulsara erano buoni e gentili. Giocavamo a hockey e a cricket insieme. Lui era particolarmente bravo a cricket», cricket», disse. «Sapevo che era stato via per studiare in India, ma non parlava mai di quel periodo. Talvolta dopo la scuola andavamo al mare a farci una nuotata, cosa che lui adorava. Frequentavamo anche lo Starhe Club in Shangani Street, che aveva una spiaggia pulitissima. Altre volte andavamo in bici fino a Fumba, al Sud, a Mungapwani nel Nordovest, dove ci sono le vecchie caverne degli schiavi o a Chwaka, nella penisola all’estremo Sudest. A volte in gruppo. Nuotavamo, facevamo uno spuntino, scalavamo le palme da cocco. Eravamo solo un po’ vivaci, ma non dei ragazzacci. Niente alcol, droga o sigarette; non ai nostri tempi.
«Se chiudo gli occhi vedo ancora quel ragazzino magro e felice con i pantaloncini corti blu e la camicia bianca. Era sempre ben vestito, specialmente per giocare a cricket, quando la sua divisa sembrava la più immacolata di tutte. «Dopo la rivoluzione ce ne andammo via tutti dall’isola. Non ho mai saputo dove fosse Freddie, né che cosa gli fosse capitato. Solo molto più tardi scoprii che avevamo abitato tutti e due a Londra nello stesso periodo, e solo dopo la sua scomparsa mi sono reso conto che quel mio vecchio compagno di classe era diventato famosissimo.» Gita Choksi riferisce un’esperienza simile: «Anni dopo, quando scoprii chi era diventato, comprai qualche suo disco. Mi piacquero tantissimo. «Non l’ho mai visto esibirsi dal vivo, però, e mi è sempre dispiaciuto. Una volta, un altro dei d ei nostri nostri vecchi compagni compagni di scuola andò a ndò a un concerto concerto dei de i Queen e provò a parlargli nel backstage, ma quando riuscì ad averlo di fronte, lui guardò quel poveraccio e gli disse: ‘Mi spiace, ma temo di non conoscerla affatto’. «Fu in quel momento che capimmo per certo che Bucky non voleva più avere nulla a che fare con noi, che era determinato a lasciarsi alle spalle il passato.»
4 Londra
Sono un tipo da città. c ittà. Non N on mi attira l’aria di campagna e l’odore del letame. FREDDIE MERCURY Molti sono attratti da Londra Londra per la relativa relativa anonimità anonimità che offre. Puoi perderti fra la folla e incontrare molte persone che la pensano pensano come te. C’è una massa critica. Londra Londra era era molto vivace in quegli anni, mentre Zanzibar era limitante per uno come Freddie, per uno spirito spirito irrequieto irrequieto come lui. COSMO HALLSTROM , psichiatra
GLI anni Cinquanta videro una netta impennata del sentimento nazionalista contro il dominio britannico in tutto il mondo. L’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, della Birmania e di Ceylon (poi Sri Lanka) nel 1948 e la rivoluzione cinese del 1949 ebbero un impatto notevole sulle lotte indipendentiste nelle colonie africane dell’impero. Zanzibar non restò immune da questi sconvolgimenti. I sindacati dell’isola iniziarono a trasformarsi in partiti per incentivare il cambiamento. Il Partito Nazionalista di Zanzibar, fondato nel 1956 dalla minoranza araba e shirazi si fuse nel Partito Afro-Shirazi, con una leadership di origini soprattutto africane. Le lotte operaie divennero più intense e gli scioperi azzopparono diversi settori dell’economia. Nonostante l’indipendenza raggiunta nel dicembre 1963, il perdurare degli squilibri nella rappresentanza parlamentare (a favore della minoranza araba) e un’annata fallimentare nelle coltivazioni di chiodi di
garofano e cocco fecero infuriare la maggioranza africana e sfociarono in una rivolta di stampo socialista. Nel 1964 la violenta insurrezione portò alla caduta del nuovo sultano Jamshid bin Abdulla e il leader del Partito AfroShirazi, Sheikh Abeid Amani Karume, divenne il primo presidente di Zanzibar. Migliaia di persone persero la vita negli scontri. La famiglia Bulsara, come molte altre, fuggì dall’isola per mettersi in salvo. Partirono con poche valigie e andarono in Inghilterra, dove avevano alcuni parenti che si erano offerti di aiutarli. «E così finirono i nostri rapporti con gli zii e i cugini», ricordò Perviz, la cugina di Freddie, con una certa amarezza. «Quando venni a sapere, molto tempo dopo, che Freddie era diventato un musicista famoso, ero contentissima di avere avuto un genio in famiglia. Eravamo molto orgogliosi di lui, ma non ci contattò mai, non ci spedì mai nemmeno una cassetta.» Dopo la rivoluzione, Zanzibar si unì spontaneamente al Tanganica nell’aprile del 1964, diventando un territorio semiautonomo della neonata Tanzania. Oggi gli zanzibari sono persone tranquille, pacifiche e tolleranti, tranne per la loro quasi universale avversione nei confronti dell’omosessualità. I Bulsara non erano preparati per lo shock culturale che li attendeva al loro arrivo a Feltham, nella municipalità londinese di Hounslow, un’anonima cittadina a circa venti chilometri a sud-ovest della capitale e a pochi chilometri dall’aeroporto di Heathrow. «Papà aveva un passaporto inglese», spiegò Kashmira, «perciò l’Inghilterra era la meta più ovvia per noi.» «Freddie era entusiasta», ricordò la madre. «‘È in Inghilterra che dobbiamo andare, mamma’, diceva. Ma fu molto difficile per noi.» La grigia, monotona regolarità di quella periferia aeroportuale, per non dire del clima freddo, era molto diversa da ciò cui erano abituati a Zanzibar e Bombay. A Londra i Bulsara si ritrovarono senza posizione, senza reddito; niente domestici o casa in riva al mare. Nonostante i suoi contatti nell’amministrazione pubblica e il suo curriculum, il padre di Freddie faticò a trovare un impiego da semplice contabile. Alla fine, ottenne un posto come tesoriere per il gruppo Forte, mentre la moglie andò a lavorare come
commessa da Marks & Spencer, un impiego che avrebbe conservato per un certo periodo periodo anche quando il figlio figlio sarebbe diventato famoso. «Eravamo palesemente diversi [dai ragazzi inglesi]», ricordò Kashmira, che all’epoca aveva circa dieci anni. «Freddie era molto pignolo sul suo aspetto. Era sempre lindo e curato, con i capelli tirati indietro, mentre i nostri coetanei portavano i capelli lunghi e avevano un aspetto disordinato. Quando camminavamo in strada restavo sempre qualche passo indietro, perché non volevo far pensare alla gente che ci conoscessimo. «Ma cambiò look in fretta», proseguì. «Passava ore allo specchio a pettinarsi i riccioli.» riccioli.» A diciott’anni Freddie si trovò di fronte a un dilemma. Sebbene non vedesse vede sse l’ora l’ora di spiegare spiegare le ali e spicc spiccare are il volo, non aveva nessuna fonte di reddito, quindi dipendeva dai genitori ed era costretto a vivere con loro. Sapeva benissimo che la metropoli aveva molto da offrirgli, per cui si sentiva intrappolato e obbligato a contenersi. «Nelle piccole città la gente ha difficoltà ad accettare chiunque si discosti dalla norma», osservò James Saez, produttore, autore, musicista ed ex fonico alla Record Plant di Los Angeles, che ha lavorato con Madonna, i Led Zeppelin, i Radiohead e i Red Hot Chili Peppers, fra gli altri. «Freddie era cresciuto a Zanzibar e in India, dunque sapeva benissimo tutto questo. Se sei nato in un posto del genere e dentro ti senti diverso, e sai che non saresti accettato, devi per forza trasferirti in città. Fu una fortuna per lui andare a Londra proprio a quell’età.» Sebbene molti suoi coetanei lavorassero e fossero già indipendenti, i genitori di Freddie vollero che il figlio proseguisse gli studi. Nessuna carriera in legge o economia, però: per sua stessa ammissione, Freddie non era «abbastanza intelligente» per l’università. Decise invece di sviluppare il suo talento artistico e nel 1966 si iscrisse all’Isleworth College per ottenere un esame di livello Advanced (quello che permette l’accesso all’università) in arte. Quello stesso autunno, passò all’Ealing College of Art, l’accademia d’arte di Ealing, per seguire un corso di grafica e illustrazione. L’avrebbe terminato nell’estate del 1969, a ventitré anni, conseguendo un diploma in arti grafiche. Lungi dall’essere «l’equivalente di una laurea», il risultato non era paragonabile a quelli dei suoi futuri compagni di gruppo. «Sono andato a scuola con l’intenzione di prendermi un diploma, cosa
che ho fatto», disse Freddie. «Poi volevo lavorare come illustratore, sperando di mantenermi come freelance.» «Usciva molto», ricordò Kashmira, «e stava via tutta la notte. Con la mamma era un litigio costante. Lei lo assillava perché voleva essere sicura che studiasse fino alla laurea, ma lui era determinato a fare di testa sua. Ci sono state molte porte sbattute, ma quando Freddie ha poi avuto successo, la mamma fu molto orgogliosa.» «È solo allora che ho cominciato a conoscerlo per davvero», aggiunse. «Mi aiutava fare i compiti e io gli facevo da modella per i disegni.» Durante le vacanze scolastiche, Freddie si guadagnava qualche soldo lavorando nel servizio di catering dell’aeroporto di Heathrow e anche in un deposito di container nella zona industriale di Feltham. Alle battute dei colleghi, che lo sfottevano per i suoi modi effeminati, rispondeva di essere in realtà un musicist musicista, a, solo momentane momentaneamente amente in pausa in attesa di sviluppi. sviluppi. Londra, la mecca della cultura giovanile, in quegli anni era in pieno fermento. Il boom del pop era a un punto di svolta e il mercato dei singoli cominciava a cedere il passo a quello degli album. I proprietari delle sale da ballo, visto che le serate rock’n’roll e beat non attiravano più il pubblico di prima, cominciavano a proporre musica da ballare. I Beatles erano ancora il gruppo più popolare del mondo e nelle classifiche rivaleggiavano con i Rolling Stones, gli Animals, Manfred Mann e Georgie Fame. Tom Jones, un corpulento cantante gallese, era l’ultima novità del pop. Sandie Shaw e Petula Clark erano le voci femminili più famose in Inghilterra e il boom del folk, esploso l’anno precedente, non accennava a diminuire. Joan Baez e Bob Dylan usavano la propria influenza per parlare del Vietnam. Nel Regno Unito, Donovan seguiva le orme di Dylan mentre Elvis Presley, Peter, Paul and Mary, i Byrds, i Righteous Brothers, Sonny & Cher e altri artisti americani occupavano le classifiche del Paese. Cominciavano a guadagnare terreno i programmi televisivi dedicati alla musica, primo fra tutti Ready, Steady, Go! presentato da Cathy McGowan. Anche la moda era in pieno boom. Mary Quant e Angela Cash dominavano la scena, mentre John Stephen divenne il «re di Carnaby Street», all’epoca epicentro mondiale dei mod. La moda giovanile aveva i suoi esponenti. Gli Who resero popolari i design basati sulla op art, indossando magliette che sfoggiavano cerchi concentrici o bandiere inglesi. John Lennon fece la stessa cosa per il berretto di tweed, mentre Dave Clark
(dei Dave Clark Five e in seguito amico personale di Freddie) trasformò i Levi’s bianchi in un capo d’abbigliamento obbligatorio per i giovani. Freddie, magro e sinuoso, preferiva pantaloni di velluto attillati, giacche di pelle o scamosciate, camice di raso con temi floreali e stivaletti di cuoio. Vivere ai margini della città più elettrizzante al mondo lo rendeva irrequieto e ribelle. Desiderava più che mai andarsene di casa e presto cominciò a dormire in giro dagli amici, accampandosi sul sofà o a terra. «Viveva come uno zingaro», avrebbe ricordato Brian May. Voleva tutto e lo voleva adesso (come avrebbe cantato in seguito), e «tutto» era proprio lì, sulla porta di casa sua: i negozi di abbigliamento, di dischi e di libri, i locali, i pub e le discoteche più in voga; Kensington Market e il famoso emporio di Biba divennero i suoi ritrovi abituali. L’Ealing College of Art vantava diversi personaggi famosi fra i suoi ex allievi, compresi Pete Townshend degli Who e Ronnie Wood, chitarrista dei Faces e in seguito dei Rolling Stones. Jerry Hibbert, anche lui ex allievo dell’Ealing, lo ricorda come un istituto innovativo e pratico, il genere di college che sforna diplomati pronti per il mondo del lavoro. Arrivando da Oxford nel 1968, Jerry era due classi indietro rispetto a Freddie, ma finì per conoscerlo bene grazie ai loro comuni interessi musicali. «L’Ealing College attraversava un periodo di cambiamenti in quegli anni», ricorda. «Madison Avenue a New York, con le sue agenzie pubblicitarie, era il nostro punto di riferimento, e influenzava tutti i nostri atteggiamenti, fino al modo di vestirci. Volevamo somigliare ai dirigenti delle agenzie newyorchesi. Portavamo i capelli corti e andavamo a scuola in giacca e cravatta, perché all’epoca dominava la moda hippy e agli studenti d’arte è sempre piaciuto distinguersi. Tutto era codificato da uno stile preciso: avevamo persino un modo di camminare particolare. Non somigliavamo certo a dei tipici studenti che pensano solo a giocare a rugby e a ubriacarsi. Il nostro punto di ritrovo era il ristorante interno del college. Freddie, che all’epoca era ancora Freddie Bulsara, era sempre con noi. Lui sì che stava attento allo stile e a come vesti.» «L’accademia d’arte ti insegna a essere consapevole del tuo aspetto», osservò in seguito Freddie. «A essere sempre all’avanguardia.» Le lezioni, però, lo annoiavano e gli mancava sia la disciplina sia la diligenza per seguirle, per cui ben presto perse ogni interesse nello studio. Gli piacevano invece i lati più edonistici della vita studentesca. In classe
passava il tempo a disegnare i compagni oppure il suo nuovo idolo Jimi Hendrix, la cui influenza gli avrebbe cambiato la vita. Il chitarrista afroamericano di Seattle, che aveva solo quattro anni in più di Freddie, era stato scoperto a New York da Chas Chandler, il bassista degli Animals: aveva persuaso i Beatles, Pete Townshend ed Eric Clapton a vederlo suonare. In poco tempo, Chandler aveva costruito un seguito di tutto rispetto per il suo talentuoso pupillo e per la sua band, la Jimi Hendrix Experience, che comprendeva anche il batterista Mitch Mitchell e il bassista Noel Redding. Hendrix lasciò i rivali a bocca aperta per la sua incredibile abilità tecnica, che comprendeva svariate prodezze copiate da una sfilza di anonimi musicisti: suonava la sua Fender Stratocaster al contrario, dietro il collo e con i denti. Sebbene molti altri chitarristi abbiano poi portato lo strumento verso nuove mete, pochi sono riusciti a uguagliare la genialità di Hendrix. «Jimi Hendrix era semplicemente un uomo bellissimo, un grande artista sul palco e un ottimo musicista», osservò in seguito Freddie. «Andavo ovunque per vederlo suonare, perché aveva ciò che qualsiasi rockstar dovrebbe avere: stile e presenza sul palco. E non doveva sforzarsi, ma gli bastava entrare in scena per dar via al delirio. Era l’esempio vivente di tutto quello che volevo anch’io.» L’ambizione di Freddie si cristallizzò. Continuò comunque ad ascoltare i musicisti amati fino ad allora – Cliff Richard, Elvis Presley, Little Richard e Fats Domino – ma Hendrix lo mandò in estasi. Cominciò a modellarsi a sua immagine e somiglianza. Proprio come la musica del chitarrista nero sovvertiva qualsiasi aspettativa, in futuro Freddie avrebbe fatto altrettanto con le sue composizioni, i suoi arrangiamenti e la sua tecnica vocale. Grazie alla sua presenza scenica e al suo stile trasgressivo Hendrix lasciava il pubblico senza fiato. Era originale, innovativo e talmente energico che riusciva a stremare gli spettatori. Freddie voleva fare altrettanto: era più che mai determinato a sortire lo stesso effetto sui suoi fan un giorno o l’altro. Hendrix era in grado di suonare qualsiasi brano, anche il più banale, e farlo sembrare una sua composizione originale. Nel 1986 avrei visto Freddie fare la stessa cosa a Budapest: a un concerto fece piangere migliaia di spettatori con la sua interpretazione di una ballata popolare ungherese. Si era scarabocchiato il testo in lingua originale sul palmo della mano e la melodia
era tutt’altro che rock, ma Freddie lo interpretò con un trasporto e una dedizi ded izione one tale che incantò il pubblico pubblico.. A Kensington, dove viveva in un minuscolo appartamento con le pareti ricoperte dalle immagini del suo idolo, Freddie si dedicò a perfezionare lo stile di Hendrix. Prese a indossare giacche sgargianti con motivi floreali su camicie nere o colorate, pantaloni aderenti, stivaletti, foulard annodati al pomo d’Adamo e grossi anelli d’argento. Secondo il compagno di scuola Graham Rose: «Non era diverso da tutti gli altri ragazzi dell’epoca. Nel complesso, era un ragazzo tranquillo, anche se spesso gli veniva la ridarella. Quando gli capitava, portava subito la mano alla bocca per nascondere i dentoni. Me lo ricordo come un tipo eccezionale, molto dolce e rispettoso. Non c’era traccia di cattiveria in lui. Molti di noi sono stati sinceramente felici per lui quando ha avuto successo». Jerry Hibbert conferma che Freddie non spiccava particolarmente al college. «Tranne per la sua passione per il canto. Stava seduto al banco a cantare. Era nella classe di fianco alla mia, un anno o due avanti a me. Si sedeva di fronte al suo amico Tim Staffell e cantava insieme con lui, in armonia. Era molto strano, dato che all’epoca eravamo tutti appassionati di blues, di John Mayall ed Eric Clapton pre-Cream. Ci appassionammo parecchio della musica che li aveva influenzati. Per esempio, non ci interessava più sentire Clapton che suonava Hideaway , ma volevamo vederla vede rla fatta da Freddie Fredd ie King. King. Anche Freddie Fredd ie Bulsara era interessato al blues, come tutti. Per cui era un po’ ridicolo vederlo cantare armonie vocali con Tim, era una cosa che stonava rispetto a quel che facevano gli altri, ma a lui questo non importava, e nemmeno a Tim. Se ne stavano lì, a disegnare e cantare insieme.» «Per me la musica è sempre stata un’attività parallela, che nel tempo ha cominciato a crescere», osservò Freddie in seguito. «Quando finii il corso di illustrazione, ero stufo, ne avevo fin sopra ai capelli. Non potevo far carriera in quel campo, perché avevo altri interessi per la testa. Allora decisi di provare con la musica. Tutti vogliono diventare una star, quindi pensai che avrei potuto tentare anch’io… perché perché no?» Per quel che riguarda il carattere di Freddie, Jerry non concorda con l’ipotesi che il cantante avesse bisogno di attenzioni. «No, non era fatto così. Era la persona più simpatica del mondo. Né avevo la minima idea che fosse gay, non lo dimostrava affatto. Era
tranquillo, cordiale, sempre gentile, il genere di ragazzo che tua mamma avrebbe descritto come ‘beneducato’. Scherzava e cantava, usando il righello come microfono, ma solo per ridere.» Terminato il college, Freddie, contrariamente a quanto aveva fatto fino ad allora, non ruppe i contatti con l’amico. Lui e Jerry continuarono a frequentarsi per un bel po’. «Per la musica», spiega Jerry. «Io suonavo blues; a scuola, alle feste, a casa degli amici. Freddie veniva con me e suonavamo insieme. A quei tempi non si mettevano ancora i dischi alle feste: se volevi musica, chiamavi un gruppo.» Freddie infine confessò a Jerry il suo sogno di diventare una star. «Quando lui aveva già finito il college, io ho suonato in un gruppo per circa due anni. Un giorno Freddie mi disse di volersi concentrare sulla musica e di voler formare una band. Gli risposi: Non farlo, continua con la grafica. Non ci sono soldi nella musica. Continua con quel che sai fare meglio.» Ma Freddie aveva già deciso. «Lo vidi ancora dopo quella volta, comprai della strumentazione da lui, o gliela vendetti, non ricordo. Una volta tornò al college con un gruppo chiamato Wreckage. Non mi fecero un’ottima impressione, a dire il vero. Poi ci perdemmo di vista.» Jerry finì per lavorare nel campo dell’animazione, in una delle tante ditte che collaborarono al lungometraggio animato dei Beatles Yellow Submarine. Submarine. «Persi qualsiasi interesse per la musica», ammette. «Finii per odiare tutto. Non comprai più un album, non andai più a un solo concerto. Circa quattro anni dopo, sentii un DJ alla radio che parlava di una band chiamata Queen. Seven Seas of Rhye era il loro primo successo. Non male. Ma non associai il nome Freddie Mercury al mio vecchio amico Freddie Bulsara. Poi all’improvviso uscirono un sacco di articoli. Anche volendo, non potevi fare a meno di vederlo. E infatti, un giorno per caso vidi in edicola una copia di Melody Maker con la sua immagine in copertina. Una foto enorme, sormontata da un titolone. La fissai e pensai: Cavoli, ma quello è Freddie Bulsara!» Per caso, Jerry avrebbe collaborato a un progetto per i Queen verso la fine della vita di Freddie, ma non avrebbe mai più rincontrato il suo vecchio amico a faccia a faccia.
5 Queen
I Queen furono una mia idea mentre ero ancora al college. Anche Brian studiava ancora. ancora. L’idea L’idea gli piacque piacque e unimmo unimmo le forze. forze. Le prime prime tracce della band risalgon risalgonoo a un grupp gruppoo chiamato «Smile» Smile». Li seguivo assiduamente ed eravamo diventati amici. Andavo A ndavo ai loro concerti e loro venivano ai miei. FREDDIE MERCURY All’inizio era un nerd, nerd, dalla testa ai piedi. Un nerd nerd con i dentoni, che ch e poi si è trasformato trasformato nella sua stessa fantasia. Il classico anatroccolo che diventa d iventa un cigno. Qualsiasi Q ualsiasi band band rinuncerebbe rinuncerebbe a tutto pur di avere un cantante come Freddie. Nessuno lo eguagliava. Bowie è stato l’unico ad arrivargli vicino. DAVID STARK, editore di Songlink International , appassionato di rock e batterista
LE armonie vocali a due voci presto divennero un trio quando Freddie e Tim iniziarono a frequentare un altro studente del college, Nigel Foster. I tre dedicavano quasi tutto il tempo libero a perfezionare le loro versioni di Hey Joe, Joe, Purple Haze e The Wind Cries Mary , tutti brani di Jimi Hendrix entrati nella Top Ten inglese. Quelle jam session private, fatte per puro divertimento (almeno secondo i diretti interessati) presto avrebbero portato i tre all’attenzione dei futuri Queen. Gli amici sapevano pochissimo sul suo
passato e sui motivi che avevano costretto i Bulsara a emigrare in Inghilterra. Dato che lui non li invitava mai a casa, pensavano che i suoi genitori fossero persone chiuse e che non volessero né integrarsi né adattarsi alla società inglese. Circolava una voce (fasulla) che i genitori di Freddie quasi non parlassero inglese e che volessero conservare caparbiamente la loro cultura, religione e lingua, per non farle contaminare da quelle inglesi. In realtà, Freddie aveva parlato inglese fin dalla prima infanzia. All’epoca Tim suonava regolarmente con una band semiprofessionista chiamata «Smile» e Freddie cominciò ad accompagnarlo alle prove. Il chitarrista degli Smile era Brian May, un allampanato studente di fisica, matematica e astronomia del prestigioso Imperial College di Londra. Senza saperlo, lui e Freddie erano stati vicini di casa a Feltham. Brian infatti era cresciuto in una modesta casetta simile a quella dei genitori di Freddie in Gladstone Avenue, solo qualche strada più in là. Diligente figlio unico, suonava la chitarra da quando aveva sei anni e si era costruito lo strumento da sé con l’aiuto del padre Harold a partire da un vecchio caminetto di mogano e alcuni scarti di rovere. Al posto del plettro usava una vecchia monetina da sei penny. Negli anni a venire, Brian avrebbe suonato la sua chitarra fai da te, ribattezzata «Red Special», in tutto il mondo. Brian, come Freddie, a tempo perso aveva militato in alcuni gruppi dilettantistici con i compagni di scuola. «Nessuna di quelle band andò da nessuna parte, perché non facemmo mai dei concerti veri e propri né ci prendemmo mai sul serio», disse in seguito. A un ballo, una sera Brian e compagni notarono Tim Staffell che canticchiava e suonava l’armonica in fondo alla sala. Gli chiesero di entrare nel loro gruppo, i 1984, e così Tim suonò nel primo concerto ufficiale della band, nella sala pubblica della chiesa di St Mary a Twickenham. I 1984 erano abbastanza promettenti e nel maggio del 1967 furono ingaggiati come spalla per un concerto di Jimi Hendrix all’Imperial College. Qualche mese dopo, vinsero un concorso al Top Rank Club di Croydon. Pareva l’inizio di un’incoraggiante carriera professionista. «I 1984 erano una band amatoriale, che si era formata a scuola, anche se alla fine riuscimmo a guadagnare ‘qualcosa’: una decina di sterline o poco più…» Così ricordò Brian il gruppo anni dopo. «Non suonammo mai qualcosa di interessante in termini di pezzi originali: facevamo un miscuglio
di cover, tutto ciò che la gente voleva ascoltare all’epoca. Erano gli anni in cui si stavano affermando gli Stones, e più avanti suonammo dei loro pezzi, e altri degli Yardbirds... A me non stava bene. Lasciai il gruppo perché volevo comporr comporree e suonare materiale originale.» originale.» Brian disse ai compagni che doveva dedicarsi agli studi e uscì dai 1984, che finirono per sciogliersi. Mantenne però i contatti con Tim. Dopo un po’, entrambi in astinenza di musica, iniziarono a parlare di formare un nuovo gruppo. Decisero di riprovarci con Chris Smith, un altro studente dell’Ealing College, come Freddie Mercury, e un ottimo tastierista. Con Tim alla voce e al basso, e Brian alla chitarra, ai tre mancava solo il batterista. Con la sua chioma bionda e gli occhi azzurri Roger Meddows Taylor era quasi troppo bello per essere un maschio. Nato nel Norfolk ma cresciuto a Truro in Cornovaglia, nella regione si era già costruito una certa reputazione come batterista. Suonava con un gruppo chiamato «Johnny Quale and The Reaction», che godeva di un discreto seguito e che si era classificato quarto a un concorso musicale locale, la Rock and Rhythm Championship. Quando Johnny Quale lasciò il gruppo, Roger lo sostituì alla voce. Con il nome accorciato, la popolarità dei Reaction continuò a crescere. Il loro stile era imperniato soprattutto sulla musica soul, finché non scoprirono la Jimi Hendrix Experience nel 1967. Nell’autunno di quello stesso anno, Roger si trasferì a Londra per cominciare l’università. Andò a vivere in affitto a Shepherd’s Bush con altri tre ragazzi, fra cui un suo amico di Truro, Les Brown, che aveva un anno più di lui e che studiava all’Imperial College, come Brian May. Già determinato a diventare una rockstar, ma oramai lontano dai suoi vecchi compagni dei Reaction (con i quali si ritrovò solo per qualche concerto sporadico durante la pausa estiva del 1968), Roger aveva bisogno di una nuova band. All’inizio del quadrimestre autunnale si presentò un’opportunità, grazie a Les Brown. Scorrendo la bacheca degli annunci all’Imperial College in cerca di un gruppo adatto all’amico, infatti, un giorno Brown lesse un biglietto in cui si cercava un «batterista stile Ginger Baker o Mitch Mitchell». Era un segno che chi l’aveva messo faceva sul serio: Baker si era conquistato un seguito di nicchia con la Graham Bond Organisation, una band di musicisti «autentici», e aveva anche inciso con gli Who, prima di passare ai Cream di Eric Clapton; Mitchell suonava con la Jimi Hendrix Experience. L’annuncio diceva di contattare un certo Brian May. Roger lo chiamò
subito e Brian gli spiegò a grandi linee ciò che lui e Tim cercavano. In men che non si dica, i due raggiunsero Roger nel suo appartamento per una jam session con chitarre acustiche e bonghi, perché il batterista aveva lasciato la sua batteria a casa in Cornovaglia a prendere polvere. Poco dopo, i tre iniziarono a provare seriamente in una sala dell’Imperial College. Non solo riuscirono a produrre cover credibili, ma Brian e Tim cominciarono a comporre brani originali. Più metal che acustici, quei primi brani echeggiavano di sottofondi classici e attingevano a un’impressionante gamma di influenze diverse. Gli Smile erano in parte trovatori elisabettiani e in parte mostri del rock: il loro suono era composto da batterie drammatiche, chitarre insistenti, armonie intelligenti e voci energiche, mentre i loro testi erano carichi di riferimenti ai brani più svariati. L’effetto complessivo era una musica stratificata, colorita e mozzafiato: nient’altro se non un primo assaggio di cose a venire; la vera genesi dei Queen. «Posso farti farti sentire dei de i pezzi degli Smile Smile che hanno h anno la medesim mede simaa struttura generale di quel che facciamo oggi», disse Brian in un’intervista nel 1977. L’alchimia dei futuri Queen stava prendendo forma, costruita da musicisti molto diversi che si completavano a vicenda. Brian, tranquillo e garbato lontano dal palco, era magro, spigoloso, snello e sinuoso nei suoi pantaloni di velluto, con i riccioli scuri che gli cadevano sensuali e ribelli davanti agli occhi mentre suonava. Tim era più grezzo e sbrigativo e, con i suoi jeans strappati, non proprio alla moda. Così come l’allegro Chris, l’unico del gruppo che studiava musica a livello accademico. Roger, descritto come «un batterista in tutto e per tutto» e come «sesso che cammina», era così bello che questo quasi gli si ritorceva contro. Ma nonostante la sua reputazione di dongiovanni, era un ragazzo timido, simpatico e molto apprezzato dagli amici. La sua forza, il suo entusiasmo, il suo immancabile buonumore e il suo carattere spiritoso e intelligente erano la forza che alimentava il gruppo. Erano giorni felici, spensierati e promettenti. Nell’ottobre del 1968, Brian si laureò e partecipò alla relativa cerimonia alla Royal Albert Hall presieduta dalla regina madre in persona. Aveva già deciso di restare all’Imperial College come docente e per lavorare alla sua tesi di dottorato sul movimento del pulviscolo interplanetario: il suo obiettivo a lungo termine era diventare un astronomo. Ma aveva anche altri
due motivi per restare in seno all’università: sala prove e concerti. Nel frattempo, mentre Tim e Chris continuavano a studiare all’Ealing College, Roger aveva abbandonato l’università dopo avere completato solo metà del suo percorso di studi. Due giorni dopo la cerimonia di Brian, gli Smile suonarono come spalla dei Pink Floyd all’Imperial College. Sebbene non tutti concordino su questo fatto, l’esibizione è ricordata come il debutto della band, che in seguito avrebbe aperto anche i concerti di T. Rex, Yes e Family. Nel febbraio del 1969, Brian, Tim e Roger chiesero a Chris Smith di uscire dal gruppo. Smith ha negato questo fatto, sostenendo che la decisione di lasciare la band è stata sua, causata da divergenze musicali. Un paio di sere dopo, i restanti membri degli Smile erano in cartellone a una serata di beneficenza alla Royal Albert Hall per raccogliere fondi a favore del National Council for the Unmarried Mother and Her Child (un’organizz (un’organizzazione azione che aiuta le ragazze ragazze madri mad ri), ), presentata presentata dal compianto compianto DJ John Peel. Quella sera suonarono anche Joe Cocker e i Free. Né Brian né Roger però potevano sapere che trentacinque anni dopo avrebbero collaborato con il cantante dei Free, Paul Rodgers (che nel frattempo avrebbe militato nei Bad Company, nei Firm e nei Law) producendo due grandi tour mondiali, un album in studio («The Cosmos Rocks», il primo dei Queen dopo quasi quindici anni di assenza), uno dal vivo e due DVD. All’inizio del 1969, Tim si presentò alle prove degli Smile portandosi dietro un amico: Freddie Bulsara. Appena lo presentò agli altri membri del gruppo, andarono subito tutti d’accordo. L’attrazione fu immediata e reciproca. Freddie si sentiva a suo agio fra musicisti abili ed esperti; era più convinto che mai di voler seguire quella strada nella vita. Brian e Roger rimasero altrettanto incantati, innamorandosi all’istante dello stile, dell’umorismo dell’umorismo asciutto asciutto e arguto del giovane giovane Bulsara. Come avrebbe ricordato in seguito Les Brown: «Non penso di avere mai incontrato una persona altrettanto esuberante. Era entusiasta per tutto. Una volta, mi ha trascinato trascinato a forza forza in una stanza per farmi sentire un disco soul che gli piaceva da morire. Nessuno ammetteva di ascoltare soul all’epoca: il rock regnava supremo. Credo che volesse dimostrarmi di avere gusti universali». Presto Freddie divenne una presenza regolare ai concerti degli Smile e prese a esprimere apertamente le proprie opinioni. Commentava le
performance degli amici, diceva loro come pettinarsi e vestirsi, suggeriva persino persino atteggiamenti, pose ed espressioni espressioni da adottar ad ottare. e. «Aveva un modo di darti dei consigli che li rendeva impossibili da rifiutare», ricordò Brian. «Non l’avevamo mai visto cantare, né sapevamo che sapesse farlo. Pensavamo che si atteggiasse atteggiasse solo da musicist musicista.» a.» Quando si diplomò, nell’estate del 1969, Freddie non aveva un impiego a tempo pieno, né alcuna intenzione di cercarne uno. Lui e Roger (che aveva oramai abbandonato il secondo nome «Meddows») iniziarono ad allestire un piccolo banchetto in stile «casbah» nel mercato coperto di Kensington, nel vicoletto dell’antiquariato conosciuto come «braccio della morte». Kensington Market era distribuito su tre piani ed era occupato soprattutto da artisti eccentrici e scrittori disoccupati. Era frequentato anche da personaggi famosi, come Michael Caine, Julie Christie e Norman Wisdom. Per cominciare, i due vendettero i lavori di Freddie, soprattutto disegni di moda o ritratti di Jimi Hendrix, e quelli di altri studenti dell’Ealing College; riuscirono persino a rifilare a qualcuno la tesi di Freddie su Hendrix. Non c’è dubbio che oggi quegli articoli varrebbero moltissimo, ma all’epoca erano tutti oggetti senza valore. Freddie e Roger avevano bisogno di soldi. Impenitenti maniaci della moda, decisero di tentare con l’abbigliamento e gli accessori del perfetto damerino divennero il loro pane quotidiano. Vendevano qualsiasi cosa, dai foulard e i teli esotici alle giacche e alle sciarpe di pelliccia, tutto ciarpame a prezzi svergognatamente gonfiati. Cominciarono anche a confezionare i propri capi, riciclando scampoli, e divennero esperti nell’acquistare interi lotti di abiti usati; per cinquanta sterline compravano un intero scatolone di pellicce tarmate da un mercante di stracci di Battersea per rivenderle a otto sterline l’una. «Io e Roger ce ne andiamo in giro a posare e a spararle grosse e di recente ci hanno definito ‘un paio di checche’ [a [ a couple of queens]», queens]», scrisse Freddie all’amica Celine Daley in quel periodo. Tim Staffell ricorda che Roger e Freddie si divertivano ad atteggiarsi da «banchettari» narcisistici e sbruffoni. «Gli piaceva trasgredire», dice. «Freddie sviluppò il suo lato effeminato, che riteneva divertente. Ma non pensammo mai che fosse davvero gay. Non aveva un comportamento sessualmente esplicito.» esplicito.» Freddie, oramai parte dell’entourage degli Smile, cominciò a seguire il gruppo nei suoi spostamenti.
Nell’aprile del 1969, la band si esibì al Revolution Club Club di Londra, dove conobbe Lou Reizner, direttore della divisione europea della Mercury Records, conosciuto per avere negoziato il contratto americano di David Bowie e in seguito per avere prodotto i primi due album solisti di Rod Stewart. Reizner, oggi scomparso, produsse anche la versione orchestrale di «Tommy», l’opera rock degli Who e «Journey to the Centre of the Earth» di Rick Wakeman. Originario di Chicago ed ex cantante, il dirigente offrì agli Smile un contratto per un unico singolo esclusivamente per il mercato americano, che i tre firmarono all’istante. Poi non accadde granché fino a giugno, quando l’etichetta prenotò i Trident Studios a nome della band. Era un inizio promettente. I Trident Studios, al 17 di St Anne’s Court, un vicolo vicolo di Soho nel cuore del West End londinese, erano nati da un’idea di Norman Sheffield, ex batterista degli Hunters (una band attiva negli anni Sessanta), e del fratello Barry. «Un approccio rilassato all’ingegneria del suono» e la tecnologia all’avanguardia degli studi avevano attratto diversi artisti famosi. All’epoca, negli altri studi di registrazione, come per esempio in quelli della EMI in Abbey Road, i fonici lavoravano ancora indossando il camice bianco. Un altro importante richiamo dei Trident era il leggendario pianoforte Bechstein (suonato per ore da Rick Wakeman) che nei tasti portava ancora le tracce sonore di Paul McCartney in Hey Jude. Jude. Il primo successo dello studio era stata My Name Is Jack Jack di Manfred Mann, uscita nel marzo dell’anno precedente. Fra gli album storici registrati negli anni ai Trident Studios c’è anche «Transformer» di Lou Reed, prodotto da David Bowie, che registrò i propri capolavori nelle stesse sale, non ultimo «The Rise and Fall of Ziggy Stardust». In quei giorni il session man alle tastiere era Rick Wakeman, che suonò in diversi brani di Bowie, come Changes e Life On Mars. Mars. Fra gli altri artisti rinomati che incisero lì ricordiamo James Taylor e Harry Nilsson. Ma gli studi, che esistono ancora oggi, erano già diventati leggendari nel luglio del 1968: ai Trident era stata registrata Hey Jude, Jude, che con la sua durata eccezionale (oltre sette minuti) era diventato il singolo più lungo ad arrivare in cima alla classifica inglese. Anche alcune tracce del «White Album» e di «Abbey Road» furono registrate in quegli studi. Gli Smile produssero alcuni pezzi e poi attesero la data per l’uscita del loro primo singolo americano. Un contratto con l’agenzia discografica Rondo li tenne impegnati in una serie di concerti durante l’estate. Ad
agosto, la Mercury Records lanciò il singolo Earth / Step on Me Me negli USA, dove, in assenza di qualsiasi attività promozionale, affondò nel nulla senza lasciar traccia. L’etichetta però non intendeva sprecare una band tanto promettente e sapeva che Brian e Tim avevano composto altri brani, per cui si iniziò a discutere di un possibile album o EP. Gli Smile furono mandati ai De Lane Lea Studios in Engineers Way, a Wembley (e non nella succursale al 129 della Kingsway, come è stato sostenuto altrove). In quegli studi, fondati nel 1947 e famosi per aver messo il loro nome su diverse composizioni dei Beatles, dei Rolling Stones, degli Who, dei Pink Floyd, della ELO e della Jimi Hendrix Experience negli anni Sessanta, gli Smile lavorarono con il produttore Fritz Freyer (oggi scomparso) su due pezzi originali e una cover. Ma il previsto EP non vide mai la luce e le incisioni finirono nel dimenticatoio, solo per riemergere quindici anni dopo, quando i Queen erano oramai diventati delle superstar. Anche allora, però, il disco sarebbe uscito solo in Giappone, dove i fan avevano un appetito insaziabile per le rarità. Gli Smile erano demoralizzati e sull’orlo della separazione. Cosa che Tim Staffell fece davvero, stufo della monotonia e della miseria collegate alla vita in tour. Lasciò la band dicendo che non era quella giusta per lui. «Cominciavo ad avere una visione negativa della nostra musica, poi ascoltai James Brown e pensai: Dio! In parole povere, avevo cambiato binario, binario, musicalmente musicalmente parlando», parlando», avrebbe spiegato più avanti. Tim si unì a Colin Petersen, ex batterista dei Bee Gees, in un gruppo denominato «Humpy Bong». Un singolo, un’apparizione televisiva e la band era già dimenticata. Tim avrebbe finito per dedicarsi agli effetti speciali, acquisendo una relativa notorietà come creatore dei modellini della serie tv per bambini Il trenino Thomas. La Mercury concluse che senza un cantante gli Smile non erano più una band e sollevò Roger e Brian da ogni obbligo contrattuale. Seppur avviliti, i due non si diedero per vinti e riuscirono a ottenere una nuova seduta di registrazione grazie a Terry Yeardon, un ex DJ di Blackburn incontrato tramite una conoscenza in comune (forse Christine Mullen, la futura prima moglie di Brian). Yeardon lavorava come tecnico di manutenzione ai Pye Studios di Londra, famosi per avere lanciato Petula Clark e per le produzioni del duo compositivo Tony Hatch e Jackie Trent (una coppia nella vita come sul lavoro, che creò i temi musicali di alcune famose serie
televisive come Crossroads e Neighbours). Neighbours). Nel 1966 i Pye avevano anche prodotto Hey Joe di Joe di Hendrix e Wild Thing dei dei Troggs, e avevano già aperto i battenti a Kinks, Richard Harris e Trini Lopez. Gli studi poterono vantare Jimmy Page e John Paul Jones fra i loro session man, prima che questi si unissero con Robert Plant e John Bonham per dar vita ai Led Zeppelin. Yeardon, aspirante produttore, organizzò una session a tarda notte per gli Smile. Furono incisi gli acetati di due brani: Polar Bear e Step on Me, Me, dando agli Smile un disco professionale da presentare alle audizioni con altre etichette. Non che Yeardon si aspettasse di rivedere quei ragazzi pieni di speranze. In quei tempi Brian, Roger, Tim e un paio di musicisti di una band di Liverpool chiamata «Ibex» dividevano un appartamento con una sola camera da letto in Ferry Road, nel sobborgo londinese di Barnes, all’interno di una bifamigliare chiamata «Carmel». Due sorelle, Helen e Pat McConnell, si erano unite alla combriccola dopo avere visto gli Smile suonare nel pub sotto casa. Quell’alloggio sovraffollato e ammuffito in seguito sarebbe stato definito «bohémien», un termine prodotto da una visione visione distorta distorta del passato. passato. In realtà, i ragazzi ragazzi vivevano in condizioni condizioni di assoluto squallore, dormendo su materassi sudici messi a terra. Come se non bastasse, poco dopo si aggiunse un nuovo inquilino: Freddie Bulsara. Che cosa dovevano fare secondo lui?
6 Frontman
Dicevo a Brian e a Roger: «Perché sprecate sprecate tempo t empo con questa roba? Dovreste suonare pezzi più originali, dovreste essere più estroversi. Se fossi il v ostro cantante, io farei così! » FREDDIE MERCURY Quando esageri esageri un po’ suoni meglio. Nella vita v ita non sei il performer performer che si esibisce esibisce sul palco. palco. Il trucco è non comportarti comportarti così anche quando lo spettacolo è finito. Bowie ha raffinato raffinato questa pratica, pratica, ne ha fatta un’arte. Ogni settimana set timana era una persona persona diversa. diversa. Freddie ha raccolto il testimone ed è schizzato schizzato via. Scommetto Scommett o che non ha mai preparato preparato nemmeno una posa di quelle che ch e assumeva sul palco. La sua tecnica era istintiva e questa è una forma d’arte d’arte in sé. Non N on ho idea di che cosa avrebbe avrebbe potuto fare se non fosse ddiventato iventato un cantante. R ICK ICK WAKEMAN
SEMPRE ossessionato da Jimi Hendrix e ispirato dalla musica di Brian, Freddie si procurò una chitarra di seconda mano che Tim riparò e modificò per lui. Poi acquistò un manuale per imparare a suonare e cominciò. Sapeva che non sarebbe mai diventato un asso della chitarra, ma non era quello il suo obiettivo. Assalito dal bisogno improvviso di comporre brani originali, doveva imparare a suonare lo strumento solo per trovare gli accordi giusti. Quei suoi primi tentativi di composizione non furono diversi da quelli di chiunque altro: rozzi, maldestri, strazianti e troppo personali. In poco
tempo, però, Freddie acquisì un approccio più astratto, imparò a scavare sotto la superficie delle proprie emozioni e a guardare più in là delle sue esperienze personali, affrontando temi te mi universali. universali. Poco dopo, il resto degli Ibex raggiunse i due membri in Ferry Road. Il chitarrista Mike Bersin, il bassista John «Tupp» Taylor e il batterista Mick «Miffer» Smith, gestiti dal giovane Ken Testi, scesero a Londra da Liverpool a caccia di un contratto discografico. Talvolta nei concerti si univa al gruppo anche Geoff Higgins al basso: così Tupp poteva suonare il flauto. Gli Ibex suonavano cover di Rod Stewart, dei Beatles e degli Yes e di solito aprivano i concerti con Jailhouse Jailhouse Rock, Rock, il grande successo di Elvis Presley di dodici anni prima. Per quanto bravi, Freddie non poté fare a meno di rilevare che al gruppo mancava un cantante degno di questo nome. Proprio come faceva con gli Smile, iniziò ad accompagnarli in sala prove e a seguirne i concerti, talvolta salendo sul palco per cantare con Mike Bersin. «Le sue performance erano già identiche a quelle successive, quando era all’apice della carriera», ricorda Testi. «Era una star prima ancora di esserlo, capisci cosa voglio dire? Andava su e giù per il palco tutto impettito come un pavone.» Nonostante quella parentesi londinese, gli Ibex erano ancora di base a Liverpool, dove Freddie li raggiunse per un breve periodo. Fu ospitato dai genitori di Higgins, che abitavano sopra un pub chiamato Dovetale Towers in Penny Lane, proprio la strada immortalata dall’omonima canzone dei Beatles. Freddie dormiva a terra in camera dell’amico, ma non si lamentava mai di nulla. Comportarsi da ospite perfetto era anche un modo per rendere onore ai propri genitori. La madre di Geoff, Ruth, lo adorava. «A mia madre piaceva perché parlava bene, con un perfetto accento del sud», spiegò Geoff a Mark Hodkinson, autore di Queen: The Early Years. Years. «Freddie era gentilissimo con lei.» Nel 1969 la band si esibì il più possibile in tutto il Regno Unito: nessun contratto in vista, però. Si finì per parlare di scioglimento. Miffer aveva alcuni problemi famigliari e doveva assolutamente trovare un reddito fisso. Un amico della band, Richard Thompson, lo sostituì alla batteria. La nuova formazione, però, fece un solo concerto, disastroso. Tutto quel che poteva andare storto – luci, suono, strumentazione – andò storto. Persino le aste dei microfoni non si comportarono a dovere. Freddie, infatti, era solito roteare l’asta come una majorette, ma quella aveva un sostegno
particolarmente pesante e quando lui la sollevò, la metà inferiore si staccò e cadde a terra. Per nulla turbato, continuò a cantare stringendo solo la metà superiore: nacque così quello che sarebbe diventato un segno distintivo delle sue esibizioni. Il bizzarro contrasto tra «Freddie il performer» e «Freddie Bulsara» era così evidente che nemmeno lui poteva più ignorarla. Persino su un palco improvvisato e senza nemmeno esser stato nominato cantante ufficiale del gruppo, Freddie sprizzava sicurezza e fiducia, con gesti e movimenti melodrammatici e spettacolari. Dopo il concerto, si rifugiava subito nelle cucine e nei ripostigli (i camerini improvvisati dei pub e dei club dove la band suonava), dove si infilava in abiti così attillati che quasi gli impedivano di respirare o sedersi. Relativamente piccolo, smilzo e non tanto bello – almeno secondo i canoni estetici convenzionali – sapeva di spiccare grazie alla carnagione scura. La sua fisionomia, però, talvolta gli causava imbarazzo e Freddie iniziò a nascondere gli occhi dietro una frangetta floscia e i dentoni dietro la mano ogni volta che rideva. Appena finiva di cantare, la sua timidezza congenita prendeva il sopravvento e gli impediva di chiacchierare con scioltezza con gli spettatori. Non gli veniva in mente granché da dire. Ad aggravare le cose, sebbene si esprimesse in un inglese perfetto, parlava a voce bassa, quasi con un sussurro, e le sue frasi erano piene di pause ed esitazioni. Aveva anche una lieve pronuncia blesa, forse per via della dentatura eccessiva. Di tutto questo era dolorosamente consapevole. Solo quando era rilassato, in compagnia di amici, lasciava sprigionare la sua «vera» personalità e il suo umorismo più autentico, e si permetteva di ridere senza inibizioni. Sennò, se non era su un palco, faceva del suo meglio per passare inosservato. Non ancora abituato a ubriacarsi o a drogarsi (non poteva permetterselo, per cui si faceva bastare un «porto e limonata», un drink da femminucce), era sempre un po’ a disagio fra gli sconosciuti. E non avrebbe mai davvero imparato a esserlo: per quanto si divertisse alle sue feste, era sempre un pesce fuor d’acqua in quelle degli altri. Freddie si stancò di correre avanti e indietro da Liverpool, di essere sempre senza soldi, di dormire per terra in casa d’altri, in qualunque città la band si ritrovasse a esibirsi, e poco dopo il suo ventitreesimo compleanno lasciò gli Ibex. Tornò a Londra una volta per tutte con Mike Bersin e cominciò a scandagliare gli annunci delle band.
Raccontò in seguito Testi: «Credo che gli Ibex siano stati un tappabuchi per Freddie. Lui voleva un gruppo e loro approfittarono moltissimo dalla sua presenza, ma fu un matrimonio di convenienza per entrambe le parti. Eravamo tutti molto ingenui… Per Freddie, [la band] era come la prima automobile, quella che ti compri di seconda mano appena racimoli un po’ di soldi: dopo un po’, ne vuoi una migliore». Nessuno diede la colpa a Freddie per lo scioglimento della band. Tutti gli volevano bene a prescindere, prescindere, trovavano trovavano commovente commovente la sua ambizione ambizione ed erano mossi dalla sua dedizione e dalla sua inebriante gioia di vivere. Testi parlò per tutti quando commentò: «Fu molto educativo conoscere Freddie. Si impegnava tantissimo, in tutto. Era tenace, era determinato a eccellere a tutti i costi». Bersin e Taylor tornarono a Liverpool; Thompson evaporò nella scena musicale londinese. Gli altri continuarono a strizzarsi nel minuscolo alloggio sovraffollato di Barnes, Freddie senza una band e Roger e Brian senza un cantante. Perché non lo prendevano a bordo? «Gli Smile pensavano che Freddie non facesse sul serio», avrebbe ammesso in seguito Chris Dummett, un amico comune. «Lo prendevano un po’ per il culo... in modo affettuoso, credo.» Spesso la soluzione migliore a un problema è proprio quella che abbiamo sotto il naso anche se non la vediamo. Come se non avesse già abbastanza problemi, Freddie aveva cominciato a preoccuparsi per il suo orientamento sessuale. Nonostante avesse già avuto alcune fidanzate, in particolare una compagna di classe di nome Rosemary Pearson, alcuni ricordano che era attratto dai gay, ma che gli mancava il coraggio per lasciarsi andare. «Pensava di amare le donne e gli ci volle un bel po’ prima di capire che era gay. Secondo me non era in grado di affrontare i suoi veri sentimenti. Era evidentemente attratto dall’omosessualità, ma ne aveva anche paura. Credo che fosse un po’ puritano e che temesse di confessare a se stesso di essere gay», sostiene un compagno di college. Un altro amico ricorda che Freddie frequentava regolarmente un gruppo di omosessuali che condividevano un appartamento a Barnes, ma che nascondeva quelle visite ai propri coinquilini, forse perché gli mancavano le
parole per spiegare un’attrazione che lui stesso ancora non capiva. Sempre preoccupato dell’opinione altrui, di tanto in tanto si ritirava nel suo guscio e diveniva abbastanza schivo e solitario. Più o meno nello stesso periodo, cominciarono a emergere alcuni tratti meno positivi del suo carattere. A volte Freddie Fredd ie si dimo d imostr strava ava egocentrico egocentrico ed e d egoista, egoista, per non dire capricc capriccioso ioso e scontros scontroso, o, come se fosse tormentato tormentato da d a uno u no snervante conflitto conflitto interiore. interiore. Tutti hanno un lato oscuro. Di fondo Freddie era generoso, gentile e premuroso. Avverso a usare il prossimo per ottenere ciò che desiderava, pareva invece contento di lasciare che gli altri lo usassero senza aspettarsi nulla in cambio. Forse la sua caratteristica peggiore era la vanità. Passava ore e ore ad acconciarsi e a provarsi i vestiti davanti allo specchio, ed era ossessionato dalla propria immagine. Le sue incessanti declamazioni sul fatto che un giorno sarebbe diventato «una leggenda», finivano per irritare chi gli stava intorno. Quell’ossessione per le apparenze peggiorava la sua situazione già precaria. Sebbene vivesse alla giornata come quasi tutti i suoi amici, infatti, Freddie si rifiutava di usare i trasporti pubblici, per esempio, preferendo spendere gli ultimi centesimi che aveva in tasca per un taxi, piuttosto che per comprarsi da mangiare. Gli amici avevano cominciato a perdere ogni speranza per lui: cosa ne sarebbe stato del caro Freddie, si domandavano, se non fosse diventato famoso? Nonostante il diploma di grafico pubblicitario, infatti, il giovane Bulsara non avrebbe mai mantenuto un lavoro regolare. Mancando di stabilità come anche di progettualità in ogni aspetto della vita, è ovvio ovvio che si sentisse sentisse insicuro. insicuro. Sapeva di non essere come la maggioranza delle persone, ma sapeva altrettanto bene di doversi mantenere in qualche modo. Anche se c’era ancora una camera che lo aspettava in casa dei genitori, dove era sempre il benvenuto, era riluttante a risprofondarci e ammettere così la sconfitta. Sapeva che i genitori non avrebbero accettato facilmente il suo nuovo stile di vita, tanto che, come abbiamo già ricordato, non aveva mai portato nessun amico in casa. «Come mamma ti preoccupi, ma devi lasciare che tuo figlio viva la sua vita», disse Jer Je r in seguito. Freddie andava a cena dai genitori più o meno una volta la settimana, e in quelle occasioni la madre gli cucinava il suo piatto preferito, il dhansak, dhansak, una portata deliziosa ancorché laboriosa assai diffusa fra i parsi: una specie di matrimonio tra i gusti della cucina persiana e di quella gujarati. Gli
ingredienti sono verdure e lenticchie, aglio, zenzero e altre spezie, che accompagnano la carne, di solito montone, e la zucca. Date le poco floride finanze, è probabile che quello fosse l’unico pasto completo di Freddie in tutta la settimana. I primi, gelidi giorni del 1970 lo videro trascinarsi per le agenzie pubblicitarie di Londra con il suo portfolio. La Austin Knight in Chancery Lane accettò di rappresentarlo e di presentare il suo lavoro a possibili clienti. Ma Freddie non aveva la pazienza per restare fermo in attesa che il telefono squillasse. Decise quindi di diventare freelance e cominciò a distribuire annunci. Nel frattempo, però, continuò a occupare il tempo con gli Smile, seguendoli in prove e concerti, senza concentrarsi sulla ricerca di un impiego regolare, che in fondo non desiderava davvero. Alla fine capì di non avere scelta: doveva formare una band tutta sua. Raggruppò Richard Thompson, il batterista occasionale degli Ibex, Mike Bersin e Tupp Taylor, e reinventò la disciolta band di Liverpool ribattezzandola «Wreckage». Il primo concerto fu tenuto all’Ealing College of Art, al quale parteciparono anche Brian, Roger, i vari coinquilini di Freddie più un contingente di amici di Kensington Market rumoroso e incoraggiante. Brian e Roger, che non avevano ancora colto le potenzialità di quel loro amico tanto effeminato quanto ostinato, rimasero del tutto sconcertati. Se musicalmente la band non era granché, Freddie era un magnete per gli occhi. Il concerto fu un successo e i Wreckage furono ingaggiati per suonare all’Imperial College, oltre che a una serie di date successive. Nonostante ciò, Freddie rimaneva frustrato: sapeva di avere tutte le doti necessarie per sfondare, ma sentiva che qualcosa ancora non andava. Forse si aspettava subito un contratto per tre album con una grande etichetta o forse non era in sintonia con lo stile musicale dei Wreckage. Comunque sia, poco dopo lasciò il gruppo e, in attesa che Brian e Roger finalmente capissero, fece un’audizione per una band chiamata «Sour Milk Sea». Sour Milk Sea Sea era una canzone scritta da George Harrison durante le session di registrazione del cosiddetto «White Album» dei Beatles. Registrata poi da Jackie Lomax, un artista della Apple Records e uscita come singolo nel 1968, era uno dei pochi brani non dei Beatles incisi con la partecipazione di tre membri del gruppo. Ci suonarono George Harrison ed
Eric Clapton alla chitarra, Paul McCartney al basso, Ringo Starr alla batteria e Nicky Hopkins al pianoforte: il pezzo aveva colpito Chris Dummet (che in seguito avrebbe cambiato il cognome in Chesney) e Jeremy Gallop, un paio di amici e allievi dell’esclusivo college privato di St Edward a Oxford, al punto che i due avevano cambiato il nome della loro band liceale, i Tomato City, nel titolo della canzone. La formazione dei Sour Milk Sea comprendeva anche il batterista Robert Tyrrell, che con Mike Rutherford e Anthony Phillips aveva suonato negli Anon, il gruppo pre-Genesis, anche questo formatosi in un collegio privato, la prestigiosa Charterhouse. La band aveva debuttato nella sala del municipio di Guildford, dove aveva aperto il concerto per diversi gruppi emergenti, fra cui Deep Purple, Taste, Blodwyn Pig e Junior’s Eyes, che si erano guadagnati imperitura fama per aver fatto da spalla a David Bowie nel 1969. Il fondatore e chitarrista dei Junior’s Eyes, Mick Wayne, aveva partecipato con Rick Wakeman alla produzione del rivoluzionario album di Bowie «Space Oddity». Nel giugno del 1969, i Sour Milk Sea erano diventati una band professionista, ma sapevano che mancava loro un non so che. Arrivò sotto forma di Freddie Bulsara, che si catapultò nella cripta di una chiesa di Dorking dove si tenevano le audizioni per il nuovo cantante della band. Con la sua chioma corvina e l’abbigliamento da dandy, Freddie trasudava stile e nonchalance. Aveva diversi anni in più degli altri membri dei Sour Milk Sea, e si vedeva. Si presentò come «Fred Bull». «Era molto carismatico ed è per questo che lo scegliemmo», ricordò Jeremy «Rubber» Gallop, divenuto poi insegnante di chitarra e morto nel gennaio del 2006 per un cancro al pancreas, «sebbene avessimo l’imbarazzo della scelta. Nelle audizioni di solito ti capitano quattro o cinque candidati scadenti, ma quel giorno c’erano altri due cantanti molto bravi. Uno era un nero con una voce divina, ma senza il carisma di Freddie e l’altro, o meglio l’altra, era la cantante folk Bridget St John, in seguito definita ‘la John Martyn femmina’». Freddie entrò nel gruppo e si diede subito da fare. Poco dopo i Sour Milk Sea furono ingaggiati per un concerto di alto profilo nella sala da ballo del Randolph Hotel di di Oxford, una serata per i rampolli della bella società. «Il nostro suono non era granché», ammise Gallop. «Ma Freddie riuscì a tenere in pugno il pubblico, grazie a un’attitudine aggressiva e al suo bell’aspetto. Si dava un sacco di arie ed era molto effeminato, e anche
abbastanza vanitoso. Ricordo che una volta era a casa mia che si guardava allo specchio passando le mani tra i capelli e disse: ‘Sono bello oggi, non credi, Rubber?’ All’epoca avevo solo diciott’anni e non lo trovai molto divertente.» L’unico altro concerto rilevante dei Sour Milk Sea con Freddie fu uno spettacolo di beneficenza per Shelter, un ente che si occupa dei senzatetto, presso la sala parrocchiale Highfield di Headington (Oxford), nel marzo del 1970. La band rilasciò un’intervista all’Oxford all’ Oxford Mail , che pubblicò anche il testo della canzone di Freddie, Lover : si apriva con l’indimenticabile distico «You never had it so good / the yoghurt-pushers are here» («Non t’è mai andata così bene / gli spacciatori di yogurt sono qui»). Dopo quell’inizio promettente, promettente, però, Chesney e Gallop litigar litigarono. ono. «Freddie voleva cambiarci», spiegò Gallop. «Sul palco si trasformava, diventava elettrico, proprio come quando sarebbe stato famoso. Altrimenti era abbastanza calmo. Lo ricorderò sempre come una persona tranquilla ed educata. A mia mamma piaceva. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma fui io a sciogliere il gruppo.» Gallop era parente di Jonathan Morrish, futuro dirigente della CBS Records e della Sony, nonché addetto stampa e confidente di Michael Jackson per ventotto anni, che ricorda di avere visto quel concerto da giovane. «In quel momento, Freddie era per me un Martin Peters», sostenne, riferendosi al leggendario calciatore che portò l’Inghilterra a vincere il campionato del mondo nel 1966 e che era «dieci anni avanti rispetto al suo tempo», secondo il suo manager Sir Alf Ramsey. (Peters era talmente versatile versatile da poter ricopr ricoprire ire qualsiasi ruolo nella sua squadra, il West Ham United, incluso quello di portiere.) «Freddie era appariscente ed estroverso come cantante, in un’epoca in cui i musicisti salivano sul palco indossando i vestiti di tutti i giorni», spiega Morrish. «Persino allora era chiaro che Freddie padroneggiava già l’arte dello spettacolo. Oggi è difficile capire, per chi non c’era, cosa significasse allora sviluppare il rock. Le persone volevano essere musicisti: si comportavano musicisticamente. musicisticamente . Facevano quella vita là. A livello intuivo, Freddie seguiva già la regola d’oro dello spettacolo: fare spettacolo. ‘ Mach Mach Schau! ’ come gridavano i promoter tedeschi ai Beatles nello Star Club Club di Amburgo.
Freddie faceva ciò che Epstein aveva fatto con i Beatles. In altre parole, non bastava suonare e cantare bene, ma ci volevano anche le giacche senza bavero, i capelli a caschetto e i sorrisetti timidi. I Beatles passarono gli otto anni successivi a ribellarsi contro quel look, come se volessero provare che per loro contava solo la musica. Ma Freddie, persino agli albori, sapeva già che non era così.» Morrish fu vicino a Michael Jackson fino alla fine. Le ragioni del legame fra Freddie e Michael, sostiene, erano ovvie per chi li conosceva entrambi. «Nessuno dei due era solo un musicista, o solo un cantante. Quel che Freddie fece con Bohemian Rhapsody , Michael lo ripeté con Thriller . I grandi artisti vanno dritti al punto. Sanno per istinto come essere ‘multimediali’. Il genio di Freddie era di capire che non conta solo la canzone – parole, melodia e musica – ma come la trasmetti, perché il pubblico la comprenda e la assimili; come la registri, come la presenti sul palco, come confezioni il video, come ti vesti. Posso immaginarmelo durante le riprese: ‘Ragazzi! Trucco, costumi, azione!’ Chi cazzo si truccava allora? Gli uomini no. Nel 1970, se ti mettevi la crema idratante venivi bollato come frocio. Eppure, ad anni di distanza, il mercato dei cosmetici per uomini ha un giro di miliardi. Come ho detto, Freddie era molto più avanti dei suoi tempi. Già nel 1970, diceva: ‘Guardate, ragazzi, è così che si fa spettacolo!’» Per tutta l’esistenza dei Queen è circolato un errore circa i vari nomi presi in considerazione considerazione dalla d alla band prima prima di scegliere quello que llo definit de finitivo. ivo. «Brian e Roger da piccoli avevano entrambi letto la trilogia di C.S. Lewis, Lontano dal pianeta silenzioso, silenzioso, dalla quale proveniva la frase ‘the Grand Dance’», spiegano Jacky Gunn e Jim Jenkins nella biografia ufficiale dei Queen (1992). Questa spiegazione è stata ripetuta in numerosi libri dedicati ai Queen e a Freddie Mercury tanto che è diventata un «dato assodato», fino a comparire addirittura sul sito ufficiale della band, dove l’esperto Rhys Thomas, in A in A Review (7 Review (7 marzo 2011), cita «The Grand Dance», «The Rich Kids» (in seguito adottato dall’ex Sex Pistol Glen Matlock come nome per il suo nuovo gruppo) e «Build Your Own Boat» come i diversi nomi valutati dai Queen prima di scegliere quello definitivo. Nel marzo 2011, in un’intervista per la rivista Q, Brian disse: «Avevamo una rosa di nomi
possibili. ‘Queen’ era stato proposto da Freddie. Un altro era ‘Grand Dance’, che secondo me non sarebbe stato molto buono…» In realtà, questa dichiarazione è non è completamente giusta. Lontano dal pianeta silenzioso è il primo libro della trilogia fantascientifica di Lewis, detta anche «trilogia spaziale», «trilogia cosmica» o «trilogia di Ransom». Gli altri due volumi della saga, a sua volta ispirata a A Voyage to Arcturus (1920) di David Lindsay, sono Perelandra e Quell’orribile forza. forza. Nel secondo romanzo, Perelandra, Perelandra, Lewis crea un nuovo giardino dell’Eden sul pianeta Venere, con un Adamo e un’Eva alternativi e un nuovo serpente tentatore. L’autore esplora la possibilità che in quel tempo Eva resista alla tentazione evitando così la caduta dell’uomo. È proprio in Perelandra che troviamo il nostro riferimento a uno dei possibili nomi dei Queen: una descrizione dell’esperienza mistica legata alla visione diretta della «Great Dance», (e non «Grand «Grand Dance»), ossia la «grande danza» della coscienza spaziotemporale e multidimensionale che costituisce il cosmo temporale: «Così è con la Grande Danza: posate gli occhi su un movimento ed esso vi condurrà attraverso tutti gli schemi, tanto da sembrarvi il movimento principale. Ma l’apparenza corrisponde al vero. […] Sembra non vi sia alcun disegno perché tutto è disegno; sembra non vi sia alcun centro perché tutto è centro; che Egli sia benedetto!» I nomi singoli funzionano meglio, però, sostenne Freddie: sono più facili da memorizzare, fanno colpo. La sua proposta, provocatoria, era di chiamarsi «Queen». Gli altri si opposero con sdegno, infastiditi per i connotati omosessuali del termine. All’epoca «gay» era una parola che si udiva di rado e che probabilmente si impose in seguito proprio come reazione alla diffusione di queer («diverso»), il suo predecessore denigratorio. Sebbene Freddie non avesse ancora fatto outing (né l’avrebbe mai fatto ufficialmente), era abituato a essere chiamato «vecchia checca» (old queen) queen) e non gli dispiaceva. Adorava il riferimento androgino e il rimando regale del termine. Ancor meglio, il nome era una perfetta scusa per atteggiarsi da checca a più non posso sul palco. Ben presto Brian e Roger cedettero: avevano colto l’ironia del nome, dato che nessuno era più macho, più eterosessuale e più infatuato del genere femminile di loro due. Il nome «Queen» funzionava. Chiarita l’identità della band, Freddie decise di cambiare anche il proprio cognome e abbandonò Bulsara a favore di Mercury, «Mercurio», il
messaggero degli dei secondo gli antichi romani. Come Hermes, la sua controparte greca, Mercurio è rappresentato con i sandali alati e un bastone con due serpenti avvinghiati. Mercurio è anche il nome del metallo liquido già conosciuto in Cina e in India fin dall’antichità, e ritrovato persino nelle tombe egizie, nonché quello del pianeta senza lune più vicino al Sole. Negli anni sono state avanzate molte teorie sulla scelta di quel nome d’arte. Secondo Jenkins: «Me lo disse Freddie in persona nel 1975, che aveva scelto il nome del messaggero degli dei. Lo ricordo come fosse oggi. Si è detto che l’avesse preso da Mike Mercury, della serie tv Fireball XL5, XL5, ma ti assicuro assicuro che non c’entrava c’entrava nulla». nulla» . Questo è il ricordo di Brian May: «Freddie aveva scritto una canzone intitolata My Fairy King , dove c’è un verso che dice: ‘Oh Mother Mercury what have you done to me?’ [‘Oh madre Mercurio, che mi hai fatto?’ Ma in realtà il testo recita: ‘Mother mercury / look what they’ve done to me / I cannot run, I cannot hide’ (‘Madre Mercurio, guarda che mi hanno fatto / non posso fuggire, non posso nascondermi’)]. «Dopodiché disse: ‘Voglio chiamarmi Mercury, perché la “madre” di quella canzone è mia madre’. E noi: ‘Ma sei matto?’ «Il cambio di nome rispecchiava il suo cambio di pelle. Il giovane Bulsara era ancora lì, ma per il pubblico voleva diventare una divinità.» Sebbene molti credano che Freddie cambiò cognome con un atto ufficiale intorno al 1970, non esiste alcuna prova ad avallare questa teoria. Non esiste nessun documento in tal senso al Public Records Office (oggi National Archives), l’archivio nazionale con sede a Kew (Londra), sebbene ce ne sia uno per Elton John. Un funzionario dell’ente ha dichiarato: «Solo il dieci percento dei cambi di cognome vengono registrati tramite la Corte suprema e quindi compaiono nei nostri registri. Anzi, in quegli anni la percentuale si aggirava intorno al cinque percento. Non esistono obblighi giuridici: in Inghilterra uno può chiamarsi come meglio crede. È probabile che il signor Mercury abbia cambiato cognome tramite un legale, con un atto che dovrebbe avere conservato lui e l’avvocato stesso». Freddie rivelò il suo interesse per la mitologia e l’astrologia disegnando il leggendario logo del gruppo, che raffigura una fenice con le ali spiegate, un simbolo di immortalità ripreso dallo stemma del suo vecchio collegio indiano, e i segni zodiacali dei quattro membri della band: due leoni per Roger Taylor e John Deacon, un granchio per Brian May (cancro) e un paio
di fate per Freddie Mercury (vergine), il tutto sistemato intorno a una «Q» sormontata sormontata da un’elaborata corona. A dispetto di impegni precedenti, la band si accinse a debuttare come «Queen» in un concerto di beneficenza per la Croce Rossa nella sala comunale di Truro in Cornovaglia. Lo spettacolo, che ebbe luogo il 27 giugno 1970, era stato congiuntamente organizzato dalla madre di Roger, Win Hitchens, e la formazione comprendeva anche Mike Grose al basso (sarebbe rimasto con la band per appena tre concerti). Aprirono con Stone Cold Crazy , un pezzo energico composto dal gruppo nel suo insieme e basato su un brano precedente dei Wreckage, che però non fu accolto con molto calore dalla sala semivuota. I presenti ricordano che la band non era tanto affiatata e che il cantante in particolare non era ancora molto coordinato. «Freddie non era quello che sarebbe poi diventato», afferma la madre di Roger. «Non aveva ancora perfezionato i suoi movimenti.» «Freddie aveva grandi ambizioni per quella band», sostiene invece la sorella Kashmira. «Era assolutamente determinato a sfondare.» «Io e la mamma di Brian ci chiedevamo: Ce la faranno?» ricordò la madre di Freddie in seguito. Seguì un concerto all’Imperial College il 18 luglio, in cui i quattro suonarono quasi solo cover, da James Brown a Little Richard, da Buddy Holly a Shirley Bassey, con un paio di brani originali: Stone Cold Crazy , alla cui stesura aveva partecipato l’intero gruppo, e Liar. «Facevamo molto rock’n’roll con i Queen per dare alla gente qualcosa cui aggrappar aggrapparsi: si: Sali su, dagli quel che vogliono e vattene», spiegò spiegò Brian. Poi Grose fu sostituito al basso da Barry Mitchell, che suonò con i Queen fino a Natale, per undici concerti che si tennero in diversi college londinesi, al famoso Cavern Club di Liverpool e in un paio di sale parrocchiali. I Queen Quee n non avevano ancor a ncoraa trovato il bassista bassista giusto. giusto. Roger nel frattempo si iscrisse al North London Polytechnic per studiare biologia e vinse anche una borsa di studio con cui integrare il suo scarso reddito. Freddie rimase quindi l’unico membro dei Queen non impegnato in studi universitari; non che questo importasse a nessuno. I quattro continuarono a esibirsi con vigore e quello stesso settembre, Brian organizzò un concerto-vetrina all’Imperial College cui invitò diversi importanti agenti londinesi. Si presentarono in molti, ma nessuno rimase così colpito dal
gruppo da offrire loro un tour. Ambiziosi e impazienti, i Queen ci restarono male. Il 18 settembre 1970 fu un giorno tragico per Freddie, come per moltissimi altri fan: Jimi Hendrix morì. Il musicista per eccellenza, che solo l’anno precedente aveva suonato la sua elettrica versione dell’inno americano a Woodstock e che aveva appena inaugurato il suo studio di registrazione personale (il modernissimo Electric Lady, nel Greenwich Village di New York), e che solo il mese precedente aveva raggiunto il suo record di pubblico (seicentomila persone al festival sull’isola di Wight), fu trovato morto in una pozza di vomito rosso nell’appartamento della fidanzata Monika Dannemann, al Samarkland Hotel di Notting Hill. Sebbene per anni si siano susseguite voci di un omicidio, la causa più probabile del decesso è un’overdose di Vesparax, un sedativo, abbinato a un abuso di alcolici. In seguito la fidanzata si è suicidata. Freddie era inconsolabile. Troppo sconvolto per lavorare, chiuse il banchetto di Kensington per lutto. Più tardi quello stesso giorno, mentre i Queen provavano all’Imperial College, praticamente a due passi dall’albergo in cui era appena morto Hendrix, Brian, Roger e Freddie offrirono il loro tributo improvvisando Voodoo Chile, Chile, Purple Haze, Haze, Foxy Lady e altri brani immortali del loro idolo. Il bassista giusto continuò a eluderli finché, nel febbraio del 1971, incontrarono per caso John Deacon in una discoteca di Londra. Nato a Leicester, John aveva suonato in diversi gruppi fin da quando aveva quattordici anni e studiava elettronica al Chelsea College. Taciturno di carattere, compensava con un forte senso del ritmo e una mente irrequieta. Era anche esperto di amplificatori e altre apparecchiature elettroniche, e stava cercando un gruppo. «Era perfetto. Noi tre eravamo già affiatati e su di giri», aggiunse Roger, «e siccome lui era un tipo tranquillo pensammo che si sarebbe integrato senza troppe difficoltà. Era un ottimo bassista – oltretutto – e anche un mago dell’elettronica, il che fu un fattore decisivo.» Da quel momento in poi, fino all’ultimo concerto dei Queen il 9 agosto 1986, la formazione della band non sarebbe mai più cambiata. Seguirono sei mesi di prove intense in cui Brian, Roger e Freddie insegnarono a John il repertorio. Intanto Brian scriveva la sua tesi, dato che per lui, come per il nuovo bassista, i Queen erano pur sempre un hobby
extracurriculare. Solo Roger e Freddie potevano dedicare tutto il loro tempo alla band, ed erano determinati a diventare professionisti e ad avere successo. L’11 luglio 1971, i Queen iniziarono un piccolo tour di undici date in Cornovaglia, terminando il 21 agosto al Festival di musica contemporanea contemporanea di Tregye. Seguirono Seguirono altri appuntamenti in autunno, incluso incluso uno all’Imperial College il 6 ottobre, uno alle Swimming Baths di Epsom il 9 dicembre e un concerto di capodanno al London Rugby Club di Twickenham. Roger, nel frattempo, aveva perso ogni interesse nel banchetto. Il fattore novità si era oramai esaurito, ma, oltretutto, il batterista aveva iniziato a sentirsi «svilito» da quell’impiego. Abbandonò la «casbah», lasciando Freddie con un collega, Alan Mair. Freddie invece era più legato che mai al mercato di Kensington e non solo perché era un protagonista assoluto di quella scena, si era anche innamorato.
7 Mary
Tutti i miei partner mi hanno chiesto perché non possono sostituire Mary, Mary, ma è semplicemente impossibile. impossibile. Per me era come una moglie. Per me eravamo sposati. sposati. Credevamo l’uno nell’altro, e questo per me è abbastanza. abbastanza. Non potrei mai innamorarmi di un uomo come mi sono innamorato di Mary. FREDDIE MERCURY La presa di coscienza dev’essere stato un processo molto importante importante per lui […]Freddie [… ]Freddie proveniva da una cultura in cui l’amore tra uomini non è contemplato. Quindi provi ad adeguarti, adeguarti, anche se è una tortura interiore. interiore. Succede spesso. Elton l’ha fatto due volte. Nel loro l oro viaggio viaggio alla scoperta scoperta di se stessi, spesso i gay che provengono da un ambiente represso vivono una parentesi parentesi di amore eterosessuale. A volte è una questione di necessità, altre un tentativo tent ativo di conformarsi conformarsi al volere della società. PAUL GAMBACCINI
CON i suoi capelli color albicocca, gli occhi verdi e le ciglia lunghe come Bambi, Mary Austin era l’incarnazione di un poster di Biba. Biba. Quando fondò il suo emporio di tendenza, la stilista Barbara Hulanicki avrebbe potuto benissimo sceglierla come musa ispiratrice. Esile e minuta, ciò che Mary non aveva in termini di altezza e sicurezza lo compensava con un look e uno stile anni Settanta quasi da manuale.
Mick Rock, nato a Londra, laureato in lingue moderne a Cambridge ed ex allievo della London Film School, iniziò la carriera di fotografo professionista quando Syd Barrett (il primo leader dei Pink Floyd, oggi scomparso) gli chiese un servizio per la copertina del suo album solista «The Madcap Laughs». Rock (è il suo vero cognome) entrò così nella cultura psichedelica degli anni Settanta dalla porta principale, diventando poi amico e fotografo ufficiale di David Bowie. Gli si attribuisce il merito non solo di avere documentato la scena musicale di quell’epoca («L’uomo che fotografò gli anni Settanta», è stato detto), ma di avere contribuito a crearla. Scattò le prime immagini promozionali di Freddie Mercury e dei Queen, e in seguito creò la grafica per le innovative copertine di «Queen II» e «Sheer Heart Attack». Dal 1977 abita a New York, dove ha frequentato tutti gli esponenti di spicco della scena underground della città, fra cui i Ramones e i Talking Heads. «Freddie viveva già con Mary quando l’ho conosciuto. Sì, li ho conosciuti insieme e ho voluto bene a entrambi», racconta Rock. «Andavo sempre a trovarli nel loro appartamentino per fare quattro chiacchiere verso l’ora del tè. Freddie adorava il tè. Era l’epoca d’oro del glam rock e Mary era bellissima: bellissima: avrebbe conquistato chiunque, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. cosa. Ma non pensava di essere speciale, non le piaceva mettersi in mostra. Era schiva, dolce e affascinante. A vederla ti veniva voglia di coccolarla.» Pallida, timida e con il volto incorniciato da lucenti ciocche ramate, Mary Austin aveva un contegno che ricordava Mary Hopkin, il prodigio dal volto angelico lanciato da Paul McCartney e che riscosse un grande successo con Those Were the Days. Days. Le due Mary condividevano un’apparenza eterea, intoccabile, casta, che perfezionava lo stile bohémien di quegli anni. Tempo dopo sarebbe stato chiamato «il look alla Stevie Nicks» (dal nome del cantante dei Fleetwood Mac) ed era già diffuso per le strade di Kensington: abiti midi, giacconi, zeppe, foulard, collarini di velluto, rossetti viola e occhi bordati di nero. «Proveniva da una situazione difficile», ricorda il giornalista David Wigg. «I suoi genitori erano entrambi sordomuti e comunicavano a gesti e leggendo le labbra; ed erano poveri. Il padre faceva l’operaio in una ditta di carta da parati e la madre le pulizie in una piccola azienda. Ma questo non era certo un problema per Freddie, perché a lui non interessavano le riccone, preferiva le persone che erano un gradino sotto il suo nella scala
sociale. sociale. Una questione di d i insicurezza, insicurezza, secondo me. Gli piacevano piacevano gli artisti, artisti, o quelli che erano venuti su dal nulla. Artista e simpatico erano le caratteristiche fondamentali per piacere a Freddie. E poi amava ridere. Mary era timida, ma sapeva farlo ridere.» Mary aveva lavorato come apprendista segretaria finché non era entrata da Biba a diciannove anni, con un impiego che negli anni è stato definito nei modi più disparati: «pubbliche relazioni», «segretaria», «commessa», «responsabile di reparto» e «manager». Qualunque sia stata la sua posizione, o le sue posizioni, nel famoso emporio, il mondo del commercio pare una strana scelta professionale per una ragazza timida e che aveva difficoltà persino a impostare una normale conversazione, essendo cresciuta in una casa silenziosa. Il grande negozio, profumato d’incenso e adornato di felci, era una specie di caverna di Aladino affollata e rumorosa, piena di abiti, scarpe, trucchi, gioielli, borse e bellissime commesse. Era frequentato da numerose stelle della musica e del cinema che si mescolavano liberamente con i giovani alla moda, molti dei quali andavano lì proprio per riuscire a scorgere un Mick Jagger o un Paul McCartney. Nonostante la sua riservatezza, Mary si ritrovò immersa nella scena rock della città. Brian May fu il primo a notarla nel 1970 durante un concerto all’Imperial all’Imperial College e andò a presentarsi. Mary era la sua ragazza ideale sotto molti aspetti. Brian, alto, bruno e sexy, non perse tempo e le chiese di uscire. Andarono d’accordo, ma non scattò la scintilla. Il chitarrista vide che tra loro due ci sarebbe stata solo amicizia e nient’altro. Freddie, invece, ci vide dell’altro. Dopo avere tormentato Brian perché gliela presentasse, finalmente conobbe la ragazza dei suoi (parziali) sogni. L’attrazione fu immediata e reciproca e non sarebbe mai cessata. È strano quindi che Mary abbia passato i successivi sei mesi a evitare Freddie, al punto di uscire con altri, seppur senza iniziare nessuna storia seria. Anni dopo avrebbe spiegato il motivo di quel suo comportamento: credeva che Freddie fosse interessato alla sua amica, non a lei. Una sera, dopo un concerto della band, Mary disse che doveva andare in bagno e invece sparì, lasciandolo solo con l’amica. Freddie ci rimase di sasso, ma non per questo rinunciò a corteggiarla. Le chiese di uscire per il suo ventiquattresimo compleanno, il 5 settembre 1970, ma lei finse di avere già un impegno. «Cercavo di fare la difficile», spiegò poi a Wigg. «Non avevo davvero un
altro impegno. Ma Freddie non ha lasciato perdere e siamo usciti insieme la sera dopo. Siamo andati a vedere i Mott the Hoople al Marquee, Marquee , a Soho. Non aveva molti soldi allora, per cui quando uscivamo facevamo le cose che fanno tutti i ragazzi. Niente cene costose: quelle sarebbero venute solo dopo il successo.» Presto i due divennero inseparabili e iniziarono una relazione che negli anni avrebbe sempre avuto la precedenza su qualsiasi altro legame, eterosessuale o omosessuale, instaurato da Freddie. Freddie e Mary avevano molte cose in comune. Entrambi si erano allontanati dai genitori e avevano provato un forte bisogno di indipendenza. Tutti e due tendevano a mostrare solo la punta dell’iceberg della propria personalità e a celare il loro sé più autentico; potevano apparire superficiali, frivoli e materialisti; tendevano a vivere alla giornata, almeno quand’erano più giovani, anche se spesso questa era solo un’immagine, un modo per nascondere la loro innata timidezza; erano molto sensibili e riservati, e più profondi di quel che sembravano. Si videro l’uno riflesso nell’altra e questo divenne il fondamento di un legame fascinoso ed eterno. Con il passare degli anni, gli aspetti più contraddittori del loro carattere finirono per consolidare il loro rapporto. Mary poteva apparire dolce e gentile, il genere di ragazza che non farebbe male a una mosca, ma quella fragilità esteriore nascondeva una notevole serenità e una forza interiore, due qualità che Freddie ammirava molto, forse perché temeva che The Great Pretender in lui non le avesse. Mary sapeva che Freddie aveva una famiglia a Feltham, ma sarebbe passato parecchio tempo prima che lui gliela presentasse. Non è difficile capire il perché: Mary era la nuora ideale per i coniugi Bulsara. Se l’avessero conosciuta, è probabile che avrebbero iniziato a fare pressioni su di lui perché la sposasse, e poi desse loro il nipotino che tanto desideravano. Ma Freddie non era pronto per il matrimonio. D’altronde – anche se nessuno poteva saperlo allora – non lo sarebbe mai stato. Negli anni, Mary divenne la roccia su cui Freddie poggiava e da cui traeva la forza necessaria per vivere. Ogni volta che i suoi eccessi gli sfuggivano di mano e che non era in grado di sostenere le pressioni legate al lavoro, Freddie correva a rifugiarsi da lei. Solida e affidabile, clemente e comprensiva, Mary era per lui una figura materna a cui aggrapparsi nei momenti difficili. «In un certo senso Mary Austin era davvero sua madre», riflette
Doherty. «Per Freddie, lei c’era sempre, in qualsiasi momento; pronta a sospendere la propria vita per aiutarlo. Lo seguiva ovunque, era sempre al suo fianco. Colmava il vuoto lasciato dai genitori quando era piccolo. L’avevano ficcato su una nave e spedito in collegio a migliaia di chilometri di distanza, un viaggio che allora durava sessanta giorni. Aveva otto anni... ma ti immagini? Era stato un trauma, che Freddie non avrebbe mai risolto. Poi però era arrivata Mary. ‘Mother Mary comes to me’ [‘Mamma Mary viene da me’], cantava McCartney in Let It Be, Be, proprio nel 1970, vero? Che coincidenza: l’anno in cui Mary e Freddie si sono incontrati. «Avrebbe potuto benissimo essere la ‘loro’ canzone, con tutti quei riferimenti matriarcali alla Vergine Maria. Mary era quella della canzone. Era pura. Alla fine Freddie non ci andava nemmeno più a letto insieme…» Forse perché aveva oramai scelto di essere gay, trasformando la compagna in una vergine immacolata? «Il mito fu preservato», concorda Doherty. «Nella sua testa lei era perfetta ed esisteva solo per lui.» «Senza dubbio Mary era una figura materna [per Freddie]», concorda lo psichiatra psichiatra Cosmo Hallstrom. «Più precisamente, una figura materna idealizzata, rappresentava quello che secondo lui una donna doveva essere. Freddie aveva un appetito sessuale molto sviluppato e non era selettivo nella scelta dei partner. Era capace di fare l’amore con lei e poi scappar via e avere una serie di sbrigativi rapporti clandestini con altre persone. Tutte relazioni fragili ed effimere, però. Alla fine, infatti, tornava sempre da lei. E lei, chiaramente, era lì ad aspettarlo: pronta per il suo uomo.» «Si prendeva cura di lui, lo accudiva, coltivava il suo lato positivo. Era il suo fondamento, la sua forza. Era proprio quella relazione che gli permetteva di avere altri flirt. [Mary] divenne quindi la moglie sofferente oltre che la matriarca, accettando ogni sorta di assurdità. Il suo ruolo era fondamentale: Freddie soffriva per via dei sensi di colpa e questa era la chiave della sua creatività. Una persona felice non sente il bisogno di creare. Chi è felice si accontenta di quel che ha, ama le cose così come sono. Freddie invece era perennemente tormentato proprio a causa dei suoi sentimenti per Mary. Ma questo tormento era anche la sua fonte di ispirazione.»
Alcuni hanno descritto il sentimento di Mary per Freddie come «amore materno» (mother (mother love). love). Non c’è da sorprendersi quindi che questo sia diventato il titolo di un brano malinconico di «Made in Heaven», l’album uscito quattro anni dopo la morte del cantante nel 1991. «Passo da un estremo all’altro», disse Freddie una volta. «Ho un lato tenero e uno duro, senza vie di mezzo. Se la persona giusta riesce a toccarmi il cuore, divento molto vulnerabile, come un bambino, e puntualmente ci vado di d i mezzo. Talvolta però sono forte forte e quando sono così nessuno riesce riesce a toccarmi.» Mary fu una delle poche persone a cui Freddie confessò di soffrire di mania di persecuzione. In particolare aveva paura che la gente lo sfottesse alle spalle e di essere effettivamente ridicolo. Erano paure che lo perseguitavano fin da piccolo e che Freddie non avrebbe mai vinto del tutto. Forse non erano del tutto infondate. Peter «Ratty» Hince, per molti anni roadie dei Queen e oggi fotografo, sostiene: «A essere sincero, tutti pensavano che Freddie fosse un po’ scemotto. Era esagerato anche per un gruppo glam rock: tutti quei costumi… Secondo me agli inizi non era nemmeno l’elemento più forte del gruppo. All’epoca erano parecchio compatti». Forse la mania di persecuzione era anche la causa dei suoi occasionali scoppi di rabbia: lo spingevano a comportarsi in modo iniquo e persino crudele con amici e collaboratori, pronunciando commenti sprezzanti e denigratori, tanto gratuiti quanto astiosi. Alcuni commentatori hanno ipotizzato che Mary sviluppò un meccanismo difensivo per proteggere Freddie e se stessa da media e curiosi. È possibile, però, che in realtà la donna volesse proteggere loro due dal lato oscuro di Freddie stesso. La loro unione era un incontro di cuori, menti e anime, non si poteva tuttavia ignorare l’aspetto carnale. La loro relazione sessuale durò sei anni, un periodo che per un ventenne è come una vita intera e che testimonia il loro reciproco impegno. Presto andarono a convivere in un monolocale piccolo e squallido in Victoria Road, vicino a Kensington High Street: in quel quartiere Freddie avrebbe poi sempre fatto ritorno. All’epoca pagavano solo dieci sterline la settimana in quella che oggi è una delle zone più costose in tutta l’Inghilterra. Due anni dopo, si trasferirono in un appartamento più grande e autonomo, ma umidissimo, su Holland Road: costava diciannove sterline la
settimana. «Siamo cresciuti insieme. Freddie mi piaceva e la nostra relazione è partita da lì», ricordò una volta Mary. «Mi ci sono voluti circa tre anni per innamorarmi davvero. Non ho mai provato la stessa cosa per nessun altro, né prima né dopo… Lo amavo tantissimo.» «Mi sentivo sicura con lui», confessò a Wigg. «Più lo conoscevo, più lo amavo per quel che era. Aveva delle qualità che secondo me sono molto rare oggi. Sapevamo di poterci fidare l’uno dell’altra e che non ci saremmo mai fatti del male apposta.» «Una volta, a Natale, mi comprò un anello e lo mise in una scatola enorme. La aprii e dentro c’era un’altra scatola, e poi un’altra finché arrivai a una scatola piccolissima. Quando la aprii, vidi un bellissimo anello con uno scarabeo egizio. Si dice che porti fortuna. Freddie era impacciato e dolcissimo quando me lo diede.» «A prescindere da tutto quel che accadeva», spiega Mick Rock, «Freddie aveva la sua dolce vita domestica con Mary, molto comoda e piacevole. Ogni volta che andavo da loro lo trovavo in vestaglia e pantofole e stavamo così a chiacchierare per ore.» Mary si è sempre rifiutata di discutere della sua vita privata con Freddie, facendone quasi una questione d’onore ed evitando di parlare persino degli aspetti più spicci della convivenza. In qualche intervista, tuttavia, sono trapelati alcuni dettagli. Per esempio, si sa che quando Freddie veniva colto dall’ispirazione, avvicinava il pianoforte al letto e andava avanti a comporre, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Un’altra donna si sarebbe presto stufata di un’abitudine così invasiva. Se aveva dei sospetti sulle preferenze sessuali di Freddie, all’inizio Mary tentò di ignorarli. «Una volta le dissi: ‘Qualche volta deve per forza esserti venuto il dubbio che fosse gay’», riferisce Wigg. «Ma ovunque andavamo, le ragazze impazzivano per lui», gli aveva risposto Mary. «Quando scendeva dal palco, gli saltavano addosso.» Una volta, Freddie fu assalito da uno stormo di ragazze a fine concerto. Mary fece per andarsene, pensando: Freddie non ha più bisogno di me. Tuttavia lui la vide e le corse dietro. «Dove vai?» «Non hai bisogno di me, ci sono loro», gli rispose lei. «Eccome se ho bisogno di te, invece», insisté Freddie. «Non voglio vivere tutto questo senza te.» «Più avanti iniziò a rientrare sempre più tardi la sera e pensai: Ecco,
basta, è finita», rivelò Mary a Wigg, aggiungendo di avere pensato che Freddie avesse un’altra. «Credevo che non mi volesse più. Aveva sempre qualche scusa: ‘Eravamo in studio, tesoro’, oppure ‘Ci siamo lasciati prendere, scusa se ho fatto così tardi’.» Tutto il resto tra di loro andava bene, disse Mary, tranne quegli inspiegabili ritardi. Una sera Freddie infine confessò: «Mary, devo dirti una cosa». Lei era convinta che lui la tradisse con un’altra donna, per cui si preparò alla notizia. Con enorme sollievo, invece, lui le disse semplicemente: «Credo di essere bisessuale». «No Freddie, non credo che tu sia bisessuale», rispose lei. «Secondo me sei gay.» «Freddie ci restò male, ma da lei lo accettò», riferisce Wigg. «Freddie aggiunse: ‘Voglio che tu faccia sempre parte della mia vita’. E infatti quando si trasferì a Garden Lodge, comprò a Mary un piccolo appartamento dietro l’angolo; dalla finestra del bagno si vedeva casa sua.» Per certi versi, Mary divenne la matriarca della nuova «famiglia» di Freddie, il suo entourage di collaboratori-amici, quasi tutti gay. «Freddie instaurò con Mary una relazione onesta e aperta, proprio quella che non poteva avere con la madre naturale, a causa della religione e della cultura di famiglia», sostiene Wigg. Rock ricorda che Freddie andava «fuori di sé» se si affrontavano questioni legate alla sessualità. «Questo prima che si dichiarasse apertamente. Sapeva di essere gay, ma non esclusivamente, e questo lo incasinava. Era lacerato, come se volesse sapere con certezza se era gay o no, invece era intrappolato in mezzo, in una specie di terra di nessuno. Amava le donne. Amava la compagnia femminile. Può darsi che più avanti negli anni si sia rivolto soprattutto agli uomini per il sesso, che sia stato più promiscuo con gli uomini, ma amava circondarsi di donne. Mary era l’amore della sua vita, il legame affettivo più forte che avesse mai avuto. L’ironia della sorte è che nel profondo lui era gay, ma il suo amore più significativo era una donna. Forse ciò era dovuto più alla donna in questione che alle preferenze sessuali di Freddie. Fra lui e Mary c’era vero amore. L’aspetto sessuale non era tanto importante quanto il legame emoti e motivo vo e spiri spirituale. tuale.»» Freddie iniziò ad avere amanti maschi, ma non li portò mai nel monolocale che divideva con Mary. All’inizio, si comportò con discrezione, mantenendo una relazione di facciata con la compagna. Sperando che si
trattasse solo di una fase, Mary pazientò e chiuse un occhio. Con il passare del tempo, tuttavia, capì senza ombra di dubbio che Freddie preferiva davvero i maschi e alla fine nemmeno lui riuscì più a nascondersi la verità, e confessò. «Vedevo che c’era qualcosa che lo turbava», raccontò Mary a Wigg. «Per cui fu un sollievo quando me lo disse. Apprezzai la sua onestà. Forse pensava che non avrei appoggiato la cosa, ma non potevo negargli il diritto di essere se stesso.» Il fatto che Mary accantonò il proprio dolore per la fine della relazione e che permise a quest’ultima di trasformarsi in un’amicizia platonica, la dice lunga sulle sue qualità umane. Da allora in poi, Mary divenne la leale servitrice di Freddie incontrandolo almeno una volta al giorno. Si descrisse come il suo «galoppino». Freddie la chiamava «la mia fedelissima». Era libera di cercarsi un altro, ma sarebbe passato molto tempo prima che lo facesse sul serio. Non era in grado di lasciarlo andare e si dice che una volta gli abbia persino persino chiesto di darle un figlio figlio (pare che Freddie Fredd ie rispos risposee che avrebbe preferito prendere un gatto). In seguito Mary avrebbe avuto due figli: Richard, di cui Freddie era il padrino, e Jamie, nato poco dopo la morte del cantante. Quasi tutte le future relazioni di Mary, però, parevano condannate al fallimento, forse perché nascevano sempre nell’ombra di Freddie e di un rapporto che la donna non aveva mai superato davvero. Persino quella con il padre dei suoi figli, l’arredatore di interni Piers Cameron, terminò. «Si è sempre sentito eclissato da Freddie», spiegò Mary. In seguito Freddie ebbe altre relazioni con donne, in mezzo a un flusso incessante di partner maschili. Dato che aveva scelto di restargli vicino, Mary dovette accettare anche questo. Quasi tutte le persone che hanno conosciuto entrambi sostengono che nessuna donna avrebbe mai potuto prendere il posto di Mary nel cuore di Freddie. Il fatto che lui le abbia lasciato in eredità la sua grande dimora e buona parte del suo enorme patrimonio, probabilmente ne è la prova. «Mary è una santa», spiega Rock. «È favolosa, straordinaria, fedele, umile, discreta. Davvero una brava persona, una delle migliori che abbia mai conosciuto. Dopo che i Queen avevano sfondato e io mi ero trasferito a Manhattan, vedevo spesso Freddie a New York. Uscivamo insieme e chiacchieravamo. Una volta, anni dopo, mentre ero a Londra incontrai Mary per un tè e mi disse una cosa molto strana. All’epoca non la capii, ma
oggi forse sì. Mi disse: ‘Prima mio padre, poi Freddie, ora i miei figli. Sembra proprio che sia venuta su questa terra per badare agli uomini’. Voleva dire che la missione della sua vita era quella. Una strana vita, se ci pensi. Ma ha senso.» Per Rock fu un sollievo vedere che Freddie la trattava bene. «Freddie era una persona unica al mondo: chiunque avrebbe avuto difficoltà ad averci a che fare. Inoltre era più interessato al lavoro che a qualsiasi altra cosa. E, ad aggravare le cose, aveva dei momenti di inspiegabile follia. Dev’essere stato un incubo lavorare e vivere con lui. E lui lo sapeva, non era stupido. Mary accettò cose che pochi avrebbero accettato, e non ha mai smesso di amarlo; fino a oggi. Si può dire che ha dato la vita per lui. E quel che ha avuto in cambio è niente rispetto a quel che ha dato, credimi.» Come spiegò Mary: «[Freddie] ha allargato i miei orizzonti, facendomi conoscere il balletto, l’opera e l’arte. Ho imparato tantissime cose da lui, e mi ha dato d ato tantissimo. tantissimo. Non l’avrei mai abbandonato, mai». Non che questo rendesse più facile la convivenza. Non solo Freddie faceva di tutto un dramma, ma era molto pignolo: persino i vasi di fiori andavano sistemati in un posto preciso, per esempio, altrimenti li faceva volare dalla finestra. finestra. «Era il suo stile», disse una volta Mary. «Voleva le cose fatte a modo suo e a volte era molto difficile. Litigavamo parecchio. Ma lui amava una bella baruffa.» Diversi anni dopo la morte di Freddie, Mary si fece una ragione della fortuna lasciatale dal cantante e ritrovò la felicità con Nick, l’imprenditore londinese che sposò nel 1998 a Long Island, lontano dai riflettori e con i figli come unici testimoni. «Nick è stato molto coraggioso a sposarmi», disse a Wigg. «Porto con me un ‘bagaglio’ pesante… Più passano gli anni e più riesco ad apprezzare quel che ho avuto, e quel che ho ora, e ad andare avanti con la vita.» Aggiunge Rock: «Alcuni l’hanno criticata per essere rimasta vicino a Freddie, e molti hanno sospettato che avesse dei secondi fini, ma posso dirti per certo che non è rimasta per i cazzutissimi soldi. Potrei scommetterci la vita su questo». Le persone possono dire quel che vogliono. Chi li conosceva aveva sentito le ragioni di entrambi (e ci sono sempre almeno tre versioni della
medesima storia). Per ventun anni Mary si è tenuta le sue opinioni per sé e la sua lealtà nei confronti di Freddie la dice lunga. Perché non aveva accettato la separazione cominciando una nuova vita, magari in un’altra città? Forse perché temeva che senza Freddie non sarebbe stata nulla? «Il fatto che sia rimasta in una situazione che qualsiasi altra donna avrebbe rifiutato a favore di un ambiente eterosessuale è il risultato di un’estrema perseveranza e di una – bisogna dirlo – finzione», commenta David Evans, amico intimo di Freddie. «Credo onestamente che Mary non fosse a suo agio nell’entourage omosessuale di Freddie», rivelò nel 1995 nel suo libro di memorie More o the Real Life. Life. «Percepivo il suo disagio e per quel che potevo mitigavo il mio compor comportamento tamento per adattare ad attare la sua femmi fe mminilit nilitàà così eterosessuale. Mary non fu mai ‘una di noi’, come altre donne di Freddie. Sembrava mancarle la sicurezza e l’esuberanza di Barbara Valentin, Anita Dobson o Diana Moseley. Tutte donne forti e piene di talento, che non si sentivano per niente minacciate dalla trasgressività di Freddie, anzi ne uscivano rafforzate. «Mary era sempre remota, distaccata nello spirito e nella carne dalla ‘Vita reale’ [come l’entourage casalingo di Freddie definiva se stesso].» Sia Freddie sia i suoi amici furono felicissimi quando Mary iniziò a uscire con Piers Cameron e poi restò incinta, ma nessuno si sorprese quando la storia finì. «È innegabile che continuò a far parte della Vita reale», afferma Evans. Lui sperava che Mary superasse il suo «attaccamento malato a una situazione che aggravava il dolore della separazione, dal quale evidentemente non si era mai ripresa».
8 Trident
È molto difficile fidarsi degli altri, specialmente per come siamo fatti. Siamo ipersensibili, ipersensibili, meticolosi e pignoli. pignoli. Quel che è successo con la Trident ci ha sottratto molte energie energie e così dopo siamo diventati attenti e selettivi selett ivi nei confronti di chi lavora con noi, di chi entra a far parte parte dell’unità-Queen. del l’unità-Queen. FREDDIE MERCURY Le sessioni in studio dei Queen hanno h anno sempre sempre beneficiato della tecnologia. Agli inizi, nel primissimo primissimo disco, ebbero ebbero accesso ai Trident Studios nei tempi morti. Fin dall’inizio della loro carriera, quindi, si trovarono a incidere nei migliori studi disponibili. disponibili. Poterono Poterono usare le attrezzature attrezzature più moderne, che all’epoca erano erano a sedici piste. Spesso le band sviluppano il loro suono in studio, dove possono sfruttare sfruttare le tecniche tecnich e di chitarr ch itarraa multitraccia che prevalgono in molti pezzi rock. Grazie a quegli studi, Brian B rian May May poté portare la sua musica a un altro livello. Fu molto importante importante per loro. STEVE LEVINE , leggendario produttore discografico e proprietario della Hubris Records
IL 1971 era quasi finito, ma la carriera dei Queen ancora non era decollata, nonostante i quattro si fossero esibiti tanto quanto gli impegni accademici di Brian e John avevano permesso loro, e nonostante i numerosi tentativi di ottenere un contratto discografico. Come osservò Brian: «Prima di
abbandonare le carriere per le quali avevamo studiato tanto, volevamo avere un introito fisso dalla musica. Avevamo tutti molto da perdere, sai, e non era facile. A essere onesto, penso che nessuno di noi credesse che ci sarebbero voluti tre anni interi per arrivare da qualche parte. Di certo non fu una u na passeggiata». passeggiata». Freddie: «A un certo punto, due o tre anni dopo l’inizio, ci siamo quasi sciolti. Vedevamo che non funzionava, che c’erano troppi squali in quell’ambiente e che era troppo per noi… Ma qualcosa ci spinse ad andare avanti e a imparare dalle nostre esperienze, belle o brutte che fossero». In un’altra occasione, però, Freddie contraddisse questa precedente valutazione valutazione sugli inizi inizi dei Queen, Quee n, dichiarando: dichiarando: «Non ho mai avuto dubbi, tesoro, mai. Sapevo che ce l’avremmo fatta. Lo dicevo a tutti». Anche Roger ricorda quei primi tempi in una luce positiva: «Per i primi due anni non accadde nulla di serio. Ci impegnavamo tutti moltissimo, ma non facevamo progressi. Avevamo molte idee davvero buone, però, e sentivamo che in un modo o nell’altro ce l’avremmo fatta». I Queen avevano parecchio lavoro da fare. Sicuri del proprio talento musicale e convinti di essere una band ben assortita, continuarono a tormentare tutte le case discografiche di Londra e a esibirsi in ogni occasione, accettando qualsiasi concerto gli venisse proposto. Alcuni di questi attirarono un pubblico notevole, altri meno. Alla fine Tony StrattonSmith, proprietario dell’etichetta indipendente Charisma Records, mostrò un certo interesse per la band e fece ai quattro un’offerta considerevole: ventimila ventimila sterline. sterline. Una cifra cifra niente male. Stratton-Sm Stratton-Smith, ith, detto «Strat», «Strat», era un eccentrico proprio come Freddie: ex giornalista appassionato di calcio, grande bevitore, proprietario di un cavallo da corsa e omosessuale, nel 1958 era scampato alla morte nel disastro aereo di Monaco, in cui avevano perso la vita ventitré persone, fra cui otto giocatori del Manchester United. All’ultimo minuto aveva deciso di non imbarcarsi per seguire una partita di qualificazione per la Coppa del Mondo. Verso la fine degli anni Sessanta, Strat era diventato un manager di gruppi rock e aveva fondato una sua etichetta, che dirigeva da un minuscolo ufficio nel cuore di Soho, in Dean Street. Nel 1970 scritturò i Genesis e negli anni produsse gli album dei Monty Python oltre che diversi lavori di Peter Gabriel, Lindisfarne,Van der
Graaf Generator, Malcolm McLaren e Julian Lennon. I suoi artisti lo adoravano e lo definivano «l’uomo che avvera i sogni». Ma i Queen non furono sedotti dal grande Strat, pur essendo davvero fatti gli uni per l’altro. Secondo alcune voci, i quattro temevano di diventare la ruota di scorta dei Genesis. Pensando che, se per Strat valevano ventimila bigliettoni, per altri dovevano valere molto di più, usarono l’offerta della Charisma Charisma per attirare l’interesse di altre etic e tichette. hette. «Appena abbiamo inciso un demo, abbiamo avvistato gli squali», ricordò Freddie nel 1974. «Ricevevamo offerte incredibili, da parte di persone che dicevano: ‘Vi faccio diventare i nuovi T. Rex’, ma stavamo piuttosto attenti a non buttarci alla cieca fra le braccia di chicchessia. Siamo andati a conoscere ogni singola etichetta della città prima di impegnarci con una. Non volevamo essere trattati come come una band qualunque. qua lunque.»» «In parole povere, siamo molto presuntuosi», ammise Brian in seguito, «nel senso che siamo convinti di quel che facciamo. Se qualcuno ci dice che facciamo schifo, pensiamo che sia quella persona a sbagliarsi, piuttosto che crederle.» «Miravamo alla prima piazza», spiegò Freddie. «Non ci saremmo mai accontentati di meno.» In altre parole i Queen non pensavano pensavan o di essere bravi: sapevano di esserlo. Quello che altrove è stato riportato come un incontro fortuito con John Anthony, all’epoca uno dei più intelligenti produttori discografici di Londra, probabilmente non fu tanto una felice casualità quanto il risultato della perseveranza di Freddie. Molto conosciuto a Kensington e Chelsea per le sue attività musicali e sartoriali, il sabato pomeriggio Freddie era solito indossare abiti vistosi e fare le vasche lungo Kensington High Street e la King’s Road, di solito dopo essersi ingraziato qualche amico per farsi tenere il banchetto. A tutti quelli che lo stavano ad ascoltare, parlava incessantemente dei suoi idoli: all’epoca Liza Minnelli, gli Who, i Led Zeppelin e il David Bowie periodo Ziggy. Giustificava la quantità vergognosa di tempo che dedicava a mantenere il suo look dicendo che «non sai mai chi puoi incontrare». Freddie voleva essere notato, e da qualcuno in particolare. La sua costanza fu ripagata. Durante la sua abituale passeggiata, un giorno incontrò John Anthony e, senza perdere tempo, riuscì a strappargli
un invito a portare la band a casa sua per discutere del loro futuro. Quello sì che era un colpo grosso, data la reputazione di cui godeva il produttore. Ex DJ di importanti locali londinesi come lo Speakeasy , la Roundhouse e l’UFO l’UFO Club, Club, Anthony era passato alla produzione discografica dopo avere registrato qualche demo per gli Yes nel 1968. Come socio di Strat, aveva anche lavorato con i Genesis, i Van der Graaf Generator e i Lindisfarne. Il suo motto era: «C’è un solo modo per fare bene un disco, ma ce ne sono quattrocento per farlo male». Dopo l’incontro, Anthony persuase Barry Sheffield, coproprietario con il fratello Norman dei Trident Studios, ad accompagnarlo a un concerto dei Queen nell’oramai scomparso Forest Hill Hospital, nel sudest di Londra, venerdì 24 marzo marzo 1972. 197 2. Fino ad allora i fratelli Sheffield avevano solo sentito un demo di cinque brani, ma non avevano mai visto la band dal vivo. vivo. Barry voleva vedere vede re come come si comportav comportavano ano sul palco, palco, prima prima di impegnarsi con un contratto. Rimase così colpito, specialmente dalla loro versione versione effeminata dell’immortale dell’immortale Hey Big Spender di Shirley Bassey, che volle scritturar scritturarlili seduta stante. «I Trident erano i migliori studi del mondo», raccontò poi Anthony, «ed è per questo che erano prenotati ventiquattr’or ventiquattr’oree su ventiquattro.» Poco tempo prima, però, i fratelli Sheffield avevano fondato una consociata, la Trident Audio Productions con un progetto innovativo: mettere sotto contratto nuovi talenti e farli incidere nei loro modernissimi studi, per poi negoziare un accordo di produzione e distribuzione vera e propria con una grande casa discografica. I Queen sapevano che non potevano permettersi di fare troppo i difficili, anche se la proposta non corrispondeva esattamente a quel che cercavano. E i fratelli Sheffield erano due scaltri imprenditori noti per i loro metodi «risoluti». Fecero balenare davanti ai quattro diverse cifre, finché i loro occhi luccicarono al punto da non vederci più. Fra le clausole del contratto, infatti, si nascondeva un accordo non esclusivo: era invece un pacchetto che li avrebbe accorpati ad altri due artisti, un cantautore irlandese di nome Eugene Wallace e un gruppo chiamato Headstone. Altrettanto preoccupanti erano le norme sul controllo manageriale dei fratelli Sheffield. La loro era un’offerta inconsueta e prevedeva un contratto complessivo di management e incisione in cui la Trident avrebbe gestito, prodotto, registrato e pubblicato i loro dischi, oltre a negoziare un contratto di produzione e distribuzione per conto loro. I
Queen videro solo un conflitto di interessi. Nonostante avessero ottenuto l’inclusione di contratti secondari per definire ogni aspetto del pacchetto, erano titubanti all’idea che la Trident avrebbe controllato ogni aspetto della loro carriera. Presero tempo, tentennando per circa otto mesi, durante i quale non fecero nemmeno un concerto. «Gli dissi di tenere un profilo basso», spiegò Anthony. «Volevo che si concentrassero sulla loro musica, per poi tornare e fare concerti più grossi.» Dato che nessuna delle persone coinvolte ricorda qualcosa, i motivi di quell’attesa restano incerti. Non ci furono lunghe controversie legali, per cui forse la band provò, come al solito, a sfruttare l’offerta della Trident per ottenerne una migliore da un’altra etichetta. Se il loro procrastinare invece era mirato a procurarsi un accordo migliore con i fratelli Sheffield, non servì a nulla. Alla fine i Queen firmarono uno pseudo-contratto, anche se sarebbe trascorso parecchio tempo prima che se ne rendessero davvero conto. Per giustizia nei confronti della Trident e dei suoi proprietari va detto che i fratelli godevano di un’ottima reputazione. Non solo dirigevano uno dei migliori studi della città, usato regolarmente dagli artisti più importanti del momento, ma non erano conosciuti per essere scorretti negli affari. Dato che investivano tempo e denaro nei Queen, ritenevano di avere diritto a un cospicuo ritorno. Anni dopo, solo Brian avrebbe riconosciuto il loro contributo al successo dei Queen, il resto del gruppo non ne volle più sapere. Come avrebbe dichiarato Freddie, dopo la cessazione dei rapporti con la Trident: «Per quel che ci riguarda, il nostro vecchio management è morto. Per noi non esiste più, in alcun modo […] E ci sentiamo parecchio sollevati!» A tutti gli altri, il contratto sembrò troppo bello per essere vero: i migliori studi di registrazione del mondo davano a una band esordiente pieno accesso ai loro impianti. I Queen avrebbero inciso il loro primo album sotto l’ala protettrice di John Anthony e del suo amico Roy Thomas Baker, il quale si sarebbe poi incaricato di proporlo alle grandi case discografiche. Ma l’affare non era così buono come sembrava: la band, già umiliata dal fatto che nessuna etichetta si era interessata a loro fino ad allora, avrebbe subito l’oltraggio di poter registrare solo durante i tempi morti, ossia quando gli studi non erano occupati da clienti paganti come David Bowie o Elton John.
«Ci chiamavano e ci dicevano che Bowie aveva finito con qualche ora di anticipo, per cui avevamo lo studio dalle tre del mattino fino alle sette, quando arrivavano le donne della pulizia», raccontò Brian. «Abbiamo anche avuto qualche giorno completo, ma per la maggior parte era un pezzettino qui e uno lì…» Un compromesso che non favoriva certo la creatività. È strano quindi pensare che proprio durante una di quelle attese i Queen incisero un brano importante per l’epoca dei Trident e che oggi è diventato un ricercatissimo pezzo da collezione. Un giorno, mentre aspettavano che si liberasse un posto, posto, furono invitati dal produttore Robin Robin Cable a registrare registrare due d ue cover, una di I Can Hear Music (scritta Music (scritta da Phil Spector ed Ellie Greenwich ed entrata nella Top Ten nel 1969, in una versione dei Beach Boys) e un’altra di Goin’ Back, Back, un brano scritto da Gerry Goffin e Carole King e inizialmente pubblicato dai Byrds. Freddie cantò, mentre Brian e Roger suonarono e crearono le armonie. Ricevettero tutti un modesto compenso per il loro lavoro. Nessuno all’epoca avrebbe potuto immaginare quanto quelle malfamate registrazioni sarebbero diventate preziose. I tre non firmarono nulla e ingenuamente rinunciarono a ogni diritto sul prodotto finito. I brani uscirono l’anno successivo per la EMI, sotto il nome fittizio di Larry Lurex, un omaggio ironico al famoso cantante glam rock Gary Glitter. Ma la presa in giro ebbe l’effetto contrario a quello desiderato. Quasi tutti i più importanti DJ inglesi si offesero per la frecciatina nei confronti del loro beneamato «leader», come lo chiamavano (questo ovviamente molto prima che Glitter cadesse in disgrazia disgrazia in seguito a ripetute condanne per pedofilia), e il disco fu trasmesso pochissimo atterrando così nei cesti delle offertissime. Anni dopo sarebbe stato ridistribuito e sarebbe diventato un pezzo ricercatissimo, come è tutt’ora: può passare di mano solo per grosse somme di denaro. Oramai ricchi e abituati a muoversi nello spietato mondo della musica, i Queen avrebbero infine acquisito i diritti di quelle incisioni. All’epoca però ingoiarono il rospo e continuarono a lavorare al loro primo album, ma senza Anthony. Il produttore, che durante il giorno registrava con Al Stewart e la notte con i Queen, una sera stramazzò a terra. Il medico diagnosticò la mononucleosi, che causa affaticamento cronico. Anthony sparì per un lungo periodo di riposo in Grecia e lasciò i Queen nelle mani esperte di Baker. Ex apprendista fonico della Decca, Baker era passato alla Trident nel
1969, dove aveva già collaborato alla produzione di successi come All Right Right Now Now dei Free e Get It On dei T. Rex. Aveva anche lavorato con i Rolling Stones, Frank Zappa, Eric Clapton, Nazareth, Dusty Springfield e Lindisfarne, dunque era uno dei produttori più rispettati dell’epoca. Il suo rapporto con i Queen, però, non fu semplice e alla fine l’album risultò privo di forma. Tornato dalla Grecia, Anthony lo ascoltò e lo definì «schizofrenico». «Quindi io, Freddie e Brian lo remixammo quasi per intero… Volevo che fosse [un album] con le palle, e che avesse l’energia dei loro concerti», disse Anthony. La messa a punto del disco esaurì tutti. Un fonico coinvolto nel progetto osservò a proposito di Freddie: «Era esasperante lavorare con una superstar nata». Poi Baker e Anthony cominciarono a fare il giro delle varie case discografiche, ma nessuno voleva saperne dei Queen. I due erano sconcertati. Una delle critiche più comuni era che la band suonava troppo come gli Yes e i Led Zeppelin, anche se tutti quelli che avevano lavorato all’album concordavano sul fatto che il loro suono era senza eguali. I Queen non trovarono un’etichetta pronta a stampare il loro album e a distribuirlo. Andò meglio con i diritti di pubblicazione, per i quali ottennero un contratto con B. Feldman & Co. I fratelli Sheffield, nel frattempo, avevano tirato a bordo un energico dirigente dell’industria, Jack Nelson, un americano, per aiutare i Queen a ottenere un contratto e un manager. Entusiasta per quel che ascoltò in studio e perplesso per la mancanza di interesse delle grandi label, Nelson decise di gestire la band personalmente. «Mi ci volle più di un anno per concludere un contratto per i Queen; non li voleva nessuno», racconta. racconta. «Voglio «Voglio dire, propr proprio io nessuno. Non ti faccio faccio nomi, ma loro sanno benissimo chi sono, uno per uno.» Nelson rimase molto colpito dal talento della band. «I Queen mi ricordavano l’assetto dei Beatles. Ognuno di loro era diversissimo dall’altro, erano come i quattro estremi di una bussola. Freddie componeva alle tastiere e proveniva da una formazione classica; una personalità davvero complessa, ma piena di talento. Brian era un vero chitarrista rock, ed era quella l’influenza che portava alla band; pieno di talento anche lui; con la testa tra le nuvole ma determinato; aveva una laurea in astronomia dell’infrarosso. John era il bassista; portava solidità al gruppo, come fanno i bassisti; li radicava; aveva una laurea a pieni voti in elettronica. Roger, il
batterista, aveva due lauree. Probabilmente erano i musicisti più colti in circolazione. Con personalità totalmente diverse. A volte magari arrivavamo in aeroporto e uno si fermava, uno andava a sinistra, uno a destra e uno dritto davanti a sé. Ma insieme erano una forza creativa enorme. Quando si incontravano, al centro, con le quattro voci sovrapposte, l’effetto era incredibile.» Ognuno di loro era primus inter pares. pares. Nessuno era il capobranco. Troppo intelligenti per coalizzarsi contro gli altri, Freddie e Roger condividevano una certa complicità in termini di amicizia, sebbene Roger abbia in seguito dichiarato di avere avuto più cose in comune con Brian agli inizi. «Non siamo sempre andati d’accordo, ma abbiamo capito di avere bisogno l’uno dell’altro», disse alla rivista Q nel marzo 2011. «Brian è il mio migliore amico, ma ero anche molto vicino a Freddie. Noi due eravamo i ‘mascalzoni’ del gruppo.» Brian prendeva tutto con molta serietà; era paziente, introspettivo, caparbio e restio a cedere il controllo. «Interagivamo in maniera abbastanza complessa, su diversi livelli», spiegò sempre a Q. «È per questo che funzionava, tutto sommato. Per certi versi ero molto vicino a Roger, perché avevamo già suonato insieme. Eravamo come fratelli, lo siamo tuttora. Eravamo in perfetta sintonia per quel che riguardava le nostre aspirazioni e i nostri gusti musicali, ma chiaramente eravamo anche molto distanti su parecchie altre cose. Come tutti i fratelli ci amavamo e ci odiavamo al tempo stesso... In un certo senso ero molto vicino vicino a Freddie, Fredd ie, in particolar particolaree quando si trattava trattava di comporre. comporre. Mi è sempre sempre piaciuto fare le voci sui pezzi di Freddie, guidarlo in una certa direzione.» Su cosa vertevano i disaccordi con Roger? «Su qualsiasi cosa. Qualunque dettaglio legato alla nostra musica. Eravamo capaci di discutere per giorni interi su una singola nota.» John interveniva poco, ma contribuiva molto, in particolare curando gli interessi finanziari della band. Ci sarebbero voluti anni, però, perché i malumori legati ai diritti d’autore si dissipassero. Chiunque firmava un dato brano (inclusi quelli per il lato B dei singoli) riceveva tutti i diritti d’autore. Le dispute cessarono solo quando tutti e quattro concordarono di attribuire i pezzi al gruppo nel suo insieme, in modo da spartire i guadagni in modo equo. E a quel punto si chiesero perché non ci avessero pensato prima.
Secondo Freddie quella fu una delle migliori decisioni prese dai Queen. Non solo era il metodo più democratico, ma stroncava qualsiasi conflitto sul nascere. Molti gruppi si sono sciolti e molte amicizie sono state rovinate per i malumori legati ai diritti d’autore, come scoprì a sue spese un vecchio amico di Freddie, Tony Hadley. Nel 1999, lui e altri due membri della sua vecchia band, gli Spandau Ballet, John Keeble e Steve Norman, fecero causa al principale compositore del gruppo, Gary Kemp, per ottenere la loro parte di diritti d’autore sui successi passati. Persero e non parlarono più al loro compagno per dieci anni, anche se alla fine, nel 2009, accantonarono le differenze e si riunirono per un grande ritorno sulle scene. Ciascun membro dei Queen contribuiva a modo suo, completando gli altri. Erano tutti ottimi musicisti. Sebbene Freddie e Brian siano considerati i principali autori della canzoni del gruppo, con stili talvolta apparentemente contraddittori, anche Roger e John composero alcuni grandi successi della band, un fatto davvero insolito per un gruppo rock. Freddie scrisse Bohemian Rhapsody , Killer Queen, Queen, Somebody to Love e We Are the Champions, Champions, fra gli altri; Brian Tie Your Mother Down, Down, We Will Rock You, You, Hammer to Fall e Who Wants to Live Forever ; Roger Radio Ga Ga, Ga, One Vision, Vision, A Kind of Magic e These Are the Days of Our Lives; e John You’re My Best Friend , I Want to Break Free e Another One Bites the Dust . «La maggior parte delle band sono composte da un leader e dal suo accompagnamento», commenta Doherty. «Non ci sono molti gruppi che salgono sul palco e ti fanno esclamare quattro volte ‘wow!’.» «Freddie e Brian si completavano a vicenda», spiega Gambaccini. «Non si sovrapponevano, per cui non c’erano problemi di gelosia; c’era solo ammirazione. Inoltre si sollevavano a vicenda da una fetta di responsabilità. Brian non era uno showman, non come Freddie almeno, per cui gli andava benissimo che Freddie lo fosse. A lui piaceva salire sul palco e fare la sua parte, lasciando che Freddie si occupasse del resto. Al tempo stesso, non se ne stava lì a pensare Sono un dio della chitarra. Si concentrava sulla musica ed era davvero uno spettacolo vederlo suonare. Era contento che Freddie, Roger e John avessero anche loro composto delle hit. Prova a paragonare i Queen a un gruppo come i Bread, dove David Gates ha composto tutti successi della band, mentre i brani degli altri non sono andati altrettanto bene, e a furia di litigare hanno finito per sciogliersi. Nei Queen invece, Brian era contentissimo che le canzoni di Freddie avessero successo. Questo
produceva album equilibrati, e già in questo senso [i Queen] erano dei geni.» Nel novembre del 1972, dopo avere firmato il contratto con la Trident, la band tenne un concerto per gli addetti ai lavori al Pheasantry , un locale di tendenza sulla King’s Road, dove in seguito Bob Geldof avrebbe organizzato la sua campagna del Live Aid e che al momento della stesura di questo libro è diventato una filiale di Pizza Express. Express. Tutti i conoscenti della band si diedero da fare per contattare chiunque potessero nell’industria discografica, chiedendo favori, prendendo a prestito indirizzari, rubando numeri di telefono. Nonostante tutti questi sforzi, però, la partecipazione fu scarsa e lo show deludente. L’attrezzatura non funzionò a dovere, la band suonò male… insomma successe di tutto. E in sala non c’era neanche un talent scout. Cinque giorni prima di Natale, i Queen suonarono nel famoso Marquee Club di Soho, in Wardour Street, che aveva ospitato uno dei primi concerti dei Rolling Stones, nel luglio 1962 (nella sua sede precedente in Oxford Street), e che aveva visto esibirsi i più grandi artisti del momento: gli Yardbirds, gli Who e Jimi Hendrix. Fu un concerto migliore della disastrosa apparizione al Pheasantry , ma non produsse nulla che somigliasse a un contratto. Poi ci fu un barlume di speranza sotto forma di Jac Holzman, amministratore delegato dell’Elektra, un’etichetta americana. Holzman aveva ricevuto un nastro con tutto l’album dei Queen da Jack Nelson. «Lo ascoltai prima sullo stereo, poi in cuffia», ricorda. «Era stato registrato e suonato alla perfezione. C’era tutto: era come se mi fosse atterrato sulla scrivania un diamante tagliato perfettamente. Fui subito catturato. Keep Yourself Alive, Liar , The Night Comes Down… Down… tutte canzoni bellissime e con una produzione magnifica, come un gelato purissimo rovesciato su una vera base rock’n’roll. Volevo i Queen.» Dopo interminabili negoziati, Nelson riuscì a portare l’americano a un concerto della band al Marquee. Marquee . «Presi un aereo per Londra», ricorda Holzman. «Vidi il concerto che Jack aveva organizzato e rimasi terribilmente deluso. Sul palco non vidi nulla che eguagliasse l’energia di ciò che avevo sentito sui nastri. Ma la musica era tutta lì. Scrissi ai Queen una lunga lettera, quattro o cinque pagine fittissime, piena di osservazioni e suggerimenti.» È vero che in quel momento lo stile di Freddie sul palco era ancora
abbozzato e non per tutti. Forse Holzman si aspettava un’immagine più rock’n’roll e virile, non certo body leopardati, stole di piume e scarpette da ballerina. A prima vista le pose e gli atteggiamenti vanitosi di Freddie contrastavano con l’immagine che Holzman si era fatto della band ascoltando l’album. I Queen non rappresentavano la loro musica come se li era immaginati. Poco dopo, tuttavia, ci ripensò e cominciò a vedere ciò che aveva sentito. È vero, quei ragazzi erano diversi e fuori di testa, ma iniziavano a piacergli. Accettò di scritturarli per gli USA. Nonostante stessero per condividere una rinomata etichetta americana con i Doors, però, i Queen erano ancora scoperti per il mercato inglese. Rimaneva loro solo l’insoddisfacente contratto con la Trident.
9 EMI
Keep Yourself Alive è Alive è un brano che rappresenta alla perfezione l’essenza dei Queen in quel periodo. periodo. FREDDIE MERCURY Mi vengono vengono in mente solo due artisti artisti che ti davano davano subito subito l’impressione l’impressione di essere delle star, fin dal primo momento che li incontravi. Uno era Phil Lynott, l’altro era Freddie. TONY BRAINSBY , addetto stampa s tampa dei Queen
NONOSTANTE tutte le frustrazioni che ne avevano preceduto la nascita, l’album di debutto dei Queen, completato nel gennaio 1973, era un capolavoro. Il mese successivo, la band registrò una puntata per il programma radiofonico di John Peel. Anche quello era un traguardo in sé, dato che in quei tempi non era praticamente mai successo che Radio 1 invitasse nei suoi studi un gruppo senza contratto. I Queen ebbero un ulteriore colpo di fortuna quando la B. Feldman & Co fu acquisita dalla EMI Music Publishing, perciò all’improvviso si trovarono automaticamente sotto contratto con una major. Fu un ulteriore passo verso l’avverarsi del loro sogno. «Negli anni Settanta la EMI era la casa discografica più importante di tutte», ricorda Allan James detto «Jamesie», ex dirigente della promozione della EMI e uno dei più famosi promotori nel campo. Jamesie, che i suoi artisti chiamavano «l’uomo in nero», negli anni ha seguito artisti del calibro
di Elton John, Alice Cooper, Rick Wakeman, Kim Wilde, Eurythmics e innumerevoli altri. «La Warner e la CBS erano americane», osserva. «La Pye, la Decca e le altre etichette inglesi erano delle nullità. La EMI di Manchester Square era l’industria discografica. Funzionava anche da filtro per tutte le etichette alternative americane dell’epoca, come la Capitol e la Motown. La EMI aveva messo sotto contratto i Beatles, aveva prodotto i maggiori successi della musica leggera e aveva nella sua scuderia tutti i principali artisti, da Vera Lynn a Cliff Richard. In quegli anni era la più grande etichetta discografica del mondo e i Queen sognavano di entrarvi. «Il presidente, Sir Joseph Lockwood – l’unico ‘Sir’ dell’industria allora – era una specie di spaventapasseri estremamente effeminato e Freddie lo idolatrava. Non avrebbe potuto trovare un padrone migliore di ‘Sir Joe’. E infatti sembravano fatti con lo stampino, avevano un sacco di cose in comune. La megalomania, tanto per cominciare: ogni volta che Sir Joe entrava nella reception della EMI con il suo entourage, c’era sempre un ascensore che lo aspettava per portarlo dritto al suo attico personale. «Poi c’erano i coniugi East. «Ken East era l’amministratore delegato della EMI negli anni Settanta. Era un australiano grande e grosso, e spudorato, che aveva lavorato come camionista prima di entrare nell’industria. Sua moglie Dolly prima aveva lavorato nelle pubbliche relazioni e per molti versi aveva continuato a farlo anche dopo. Era una donna imponente, un personaggio irresistibile alla Mama Cass. Ken adorava gli artisti e fu uno dei primi a scendere dalla torre d’avorio per mischiarsi con loro. La EMI era piena di froci, per cui Ken e Dolly bazzicavano bazzicavano anche quell’ambiente. quell’ambiente. «Andavamo a cena fuori con Cliff Richard e combinavamo guai nei club di Soho. Era un periodo epico, pieno di fantasia. Ovvio che Freddie desiderasse entrare in quel mondo. Accidenti se era fantastico. E perché mai la EMI non avrebbe voluto avere i Queen? Sembravano fatti apposta per lei. Perché? Perché erano diversi e intelligenti, e avevano un atteggiamento creativo. Erano in sintonia con lo spirito del tempo, ascoltavano i gusti del pubblico, cercavano di anticiparli e svilupparli. Sapevano esattamente quel che facevano, proprio come la EMI.» All’epoca, il capo della divisione A&R, il funzionario dell’etichetta che doveva decidere se accettare o no i Queen, era Joop Visser, che Steve
Harley, l’ex leader dei Cockney Rebel, ricorda come «un adorabile olandesone». «Joop era quello che aveva scoperto le tre band migliori dell’epoca e che se le era assicurate tutte e tre allo stesso tempo», sostiene Harley. «La prima erano i Queen. La seconda i Pilot, il gruppo degli ex Bay City Rollers Dave Paton e Billy Lyall (morto per una complicazione legata all’AIDS nel 1989). La terza, ovvio, eravamo noi. Joop scritturò i Cockney Rebel per tre album senza clausole di recessione. Neanche un singolo con l’opzione di scaricarci se non fosse andato bene. Un genere di contratto che oggi non esiste più. Joop era uno che faceva sul serio. Ha dato il via alla mia carriera e mi ha cambiato la vita. «Avevo ventidue anni ed ero arrogante e presuntuoso. Grazie a Dio ho avuto a che fare con Joop: chiunque altro mi avrebbe preso a calci prima o poi. Joop era uno da cui andavi a chiedere consigli. «Ero uno spirito indipendente, una specie di giocatore d’azzardo, irrequieto, spavaldo. Ma non si offendeva mai. Lo adoravo con tutto il cuore. Può darsi che io abbia fatto degli errori che i Queen invece hanno evitato, perché sono stati più furbi. Io e Freddie avevamo in comune un debole per la teatralità. Nulla a che fare con il glam rock: quella era un’etichetta inutile per un gruppo come il mio o come quello di Freddie. Il fatto è che i Queen di Freddie Mercury sarebbero stati teatrali in qualsiasi epoca. Non avevano bisogno dell’etichetta ‘glam rock’ per confermare e contestualizzare il loro stile.» Fu il fotografo Mick Rock a stimolare la propensione per la spettacolarità in artisti come Freddie, Bowie e Harley stesso. «Spingendola ai massimi livelli», prosegue Harley. «Mick era un catalizzatore, sempre indaffarato a mettere in contatto le persone fra di loro. Ricordo che una volta portò Mick Ronson [il compianto chitarrista degli Spiders from Mars di Bowie, dei Mott the Hoople, di Van Morrison e di molti altri gruppi] a casa mia, nella zona di Edgware Road, dicendo che dovevamo assolutamente conoscerci perché saremmo diventati subito amicissimi. Cosa che effettivamente successe. I musicisti lo adoravano. Lo volevano lì con loro nel fronte-palco, per gli scatti panoramici. Mick era un musicista senza esserlo. «Mick mi fotografò ovunque e fece anche un lavoro magnifico con i Queen. Lui mi capiva, così come capiva Freddie. Incoraggiava la nostra creatività. Noi, come i Queen, volevamo scuotere l’industria dalle
fondamenta. Nel profondo del cuore sono un cantante folk, anche se all’epoca non volevo ammetterlo: fanculo Woodstock. Truccarsi e fare la checca in giro era la cosa ‘in’ di quegli anni. So che anche Freddie la pensava così, perché ne abbiamo parlato più di una volta a cena, giù al Legends. Legends. So pure che i Queen adoravano Joop tanto quanto lo amavo io, specialmente Freddie.» Ma non era stato amore a prima vista. Joop Visser stava cercando un gruppo per colmare il vuoto lasciato da Ian Gillan quando questi aveva abbandonato i Deep Purple dopo l’estenuante tour mondiale di «Machine Head». All’inizio, però, non rimase particolarmente colpito dai Queen. Anche lui andò a vederli dal vivo al Marquee il 20 dicembre 1972, ma la performance lo lasciò indifferente. Quando poi Visser andò a trovarli in sala prove, il suo giudizio fu della serie: «Embè?» Avrebbe poi confessato che le «personalità» della band l’avevano «lasciato freddo». C’era ancora molto lavoro da fare. Tuttavia, dopo un altro concerto per gli addetti ai lavori (sempre al Marquee, Marquee , il 9 aprile 1973) e dopo tre mesi di complicate contrattazioni con la Trident, durante le quali quest’ultima riuscì a strappare le condizioni migliori, l’indomito Visser scritturò i Queen per la EMI. Per la band il risultato compensava ampiamente l’agonia dell’attesa. E infatti i Queen sarebbero rimasti alla EMI per tutta la loro carriera, o quasi (l’avrebbero abbandonata solo trentotto anni dopo, alla fine del 2010). Il loro primo singolo ufficiale, Keep Yourself Alive, Alive, uscì il 6 luglio 1973. Era il brano che apriva l’album del debutto ed era stato scritto da Brian May. Ma non bastò. La campagna pubblicitaria fu liquidata dalla stampa come una «montatura» e, per quanto oggi possa apparire abbastanza normale, all’epoca fu accolta come opportunistica e di cattivo gusto. La frustrazione di Freddie raggiunse i massimi livelli, perché a suo avviso i Queen avevano tutti i numeri per riuscire. Rifiutato cinque volte dai palinsesti dell’emittente nazionale Radio 1 e in assenza di un’alternativa commerciale (le radio private sarebbero nate anni dopo), il singolo non entrò nemmeno in classifica. Fu la prima e ultima volta nella carriera dei Queen che accadde una cosa del genere. L’unico DJ a passarlo fu Alan «Fluff» Freeman, descritto da John Peel come «il più grande disc jockey duro e puro di tutti i tempi», creatore di molte espressioni poi entrate in
voga. Freeman F reeman (oggi scomp scomparso) arso) trasmise trasmise il singolo sul suo program programma ma Rock Show, Show, in onda il sabato pomeriggio. La EMI non si scoraggiò e ingranò la quinta. Senza dubbio, in quegli anni la migliore visibilità per una band era un passaggio su The Old Grey Whistle Test (OGWT ), ), il programma musicale di culto della BBC presentato dal DJ Bob Harris. La trasmissione andò in onda per sedici anni, mentre i programmi equiparabili di oggi raramente sopravvivono alla seconda serie. Il nome del programma (letteralmente «il test del fischiettio dei vecchi grigi») derivava da un’antica espressione della prima industria discografica americana, quella conosciuta come «Tin Pan Alley». Quando i nuovi dischi arrivavano sulle loro scrivanie, i dirigenti li facevano sentire ai «vecchi grigi», cioè ai loro portieri, che indossavano una divisa grigia. Questi avevano l’abitudine di fischiettare i motivi più accattivanti dopo un unico ascolto, per cui si diceva che quei pezzi avevano passato «il test del fischiettio dei vecchi grigi». Al contrario di Top of the Pops, Pops, il programma settimanale della BBC che presentava le hit della classifica, OGWT si occupava solo di album. Un white label (un (un disco promozionale con l’etichetta bianca) dell’album dei Queen fu spedito alla produzione di OGWT . Il mittente però si era dimenticato di scriverci sopra il nome della band e della casa discografica. Nessuno sapeva da dove arrivasse quel disco, né chi fosse il gruppo. «All’epoca molti album di una certa consistenza provenivano dagli Stati Uniti», ricorda Mike Appleton, produttore del programma. «Quindi molte band non potevano venire nel nostro studio a esibirsi dal vivo. Per questo avevo cominciato a trasmettere i brani dei loro album accompagnati da immagini montate apposta dal geniale Phil Jenkinson. Secondo molti, quella nostra idea ha poi portato all’invenzione del video musicale. E con il senno di poi, posso aggiungere che [il video] fu un vero disastro per l’industria della musica, perché sottrasse denaro e importanza alle esibizioni dal vivo. Diversi locali dovettero chiudere e i programmi televisivi dedicati al rock finirono per somigliarsi tutti.» Creare immagini che accompagnassero le canzoni, tuttavia, era un’attività molto piacevole. «Gli appassionati di musica cominciarono a sintonizzarsi sul nostro programma solo per quello», concorda Appleton. «Fra gli artisti che comparivano regolarmente nella trasmissione c’erano Little Feat, ZZ Top, JJ Cale, il primo Springsteen, Lynyrd Skynyrd: avrei potuto passare la loro
Freebird ogni settimana ed essere comunque inondato da richieste; era il brano più popolare di tutti all’epoca. Usavamo immagini diversissime: cartoni animati, film astratti, pezzi sperimentali, di tutto. Funzionava benissimo. Un giorno presi in mano quel white label che si trovava sulla mia scrivania e notai che mancava il nome della band e dell’etichetta. Avrei potuto benissimo ignorare l’album o buttarlo direttamente nel cestino, ma caso volle che lo misi sul giradischi, senza sapere che si trattava del debutto dei Queen.» Appleton rimase così colpito da quel che udì che decise di trasmettere Keep Yourself Alive nella Alive nella puntata della settimana successiva. «Feci un po’ di telefonate per scoprire da chi venisse di quel disco. Nessuno sapeva niente. Alla fine lo diedi a Phil e gli dissi: ‘Mettiamolo su. Diremo in trasmissione che non sappiamo di chi diavolo si tratta né da dove diavolo viene, ma se c’è qualcuno là fuori che lo sa, che ci telefoni’. Phil ci aggiunse degli spezzoni di cartoni animati in bianco e nero di un treno argenteo e affusolato con il volto di F.D. Roosevelt, che attraversava l’America alla velocità della luce; era un filmato usato durante una campagna elettorale degli anni Trenta. Il giorno successivo, la EMI ci chiamò per dirci che la nostra band misteriosa erano i Queen. Decidemmo di annunciare la notizia nella puntata successiva, ma gli spettatori ci batterono sul tempo: ricevemmo una valanga di richieste di persone entusiaste; una reazione davvero fuori dal comune.» L’album uscì il 13 luglio 1973, per pura coincidenza esattamente dodici anni prima della trionfale esibizione dei Queen al Live Aid. La stampa musicale non lo accolse con favore. La maggior parte dei critici usò toni quanto meno sprezzanti. Alcuni lo detestarono, in particolare il critico del New Musical Express Nick Kent, che lo descrisse come «un secchio di urina», dando così inizio a una lunga faida fra i Queen e lo stimato settimanale. Almeno il pubblico, però, cominciò ad ascoltarli. L’album restò in classifica per diciassette settimane, raggiungendo la posizione numero ventiquattro ventiquattro e diventando disc d iscoo d’oro. Dopo un ulterior u lterioree passaggio passaggio su Radio 1 – anche se gli altezzosi selezionatori musicali continuavano a ignorarli – la Trident mandò i Queen agli studi cinematografici di Shepperton per sviluppare nuovi brani e provare quelli vecchi. Fu in questo periodo che la band girò il suo primo videoclip: da poco la Trident si era infatti ingrandita nel campo della produzione di filmati musicali, creando un’altra consociata,
la Trillion. Il video per promuovere Keep Yourself Alive e Liar fu fu diretto da Mike Mansfield, futuro produttore e regista di successo nel campo. «Il video promozionale, allora ancora allo stadio embrionale, sarebbe diventato uno strumento indispensabile nella promozione di un disco e ben presto le case discografiche avrebbero speso migliaia di sterline per ingaggiare i registi migliori, girare in location esotiche e riempire i loro prodotti di sbalorditivi effetti speciali; tutto pur di spingere i loro artisti in alto nelle classifiche», spiega Scott Millaney, produttore di alcuni dei video più rappresentativi nella storia della musica pop, fra cui Video Killed the Radio Star dei Buggles (il primo videoclip a essere trasmesso da MTV nel 1981), Ashes 1981), Ashes to Ashes di David Bowie e I Want to Break Free dei Free dei Queen. In tutto, la sua casa di produzione, la MGMM, avrebbe creato dieci video per i Queen. «L’industria dei video promozionali, con tutti i suoi trucchi e le sue tecniche speciali, ha finito per esaurirsi da sola», ammette Millaney. «E a quel punto l’industria discografica si è ricordata dell’elemento umano, e l’intero ciclo è ricominciato da capo. Ma negli anni Settanta il video era ancora una novità entusiasmante e ha favorito moltissimo la carriera di decine di artisti, alcuni dei quali avevano ben poco talento per giustificare tutto il cancan.» Secondo Millaney, per avere successo un video promozionale si deve fondare su tre elementi essenziali: la musica e il testo della canzone, la performance «dal vivo» dell’artista e un’immagine che lo distingua da tutti gli altri. Quando il miscuglio di questi tre ingredienti è corretto, un unico passaggio in televisione può lanciare un disco e affermare un artista più di qualsiasi numero di passaggi radiofonici. Di conseguenza, presto molti artisti abbandonarono del tutto il circuito dei concerti, perché avevano capito che con il video potevano dare una parvenza di perfezione, un risultato che nessuno spettacolo dal vivo avrebbe mai potuto eguagliare. eguagliare. «L’aspetto negativo della faccenda è che girare un videoclip è un’impresa impegnativa impegnativa e faticosa», faticosa», osserva osserva Millaney. Millane y. «Le riprese cominciano spesso all’alba e a volte finiscono a notte fonda. È una tabella di marcia massacrante per gli artisti, e alla fine la fatica mostra il conto. Non c’è dubbio che le case di produzione come la nostra abbiano trasformato il video non solo in un’industria indipendente, ma in una forma d’arte. E l’abbiamo affinata al punto che eravamo nella posizione di dire alle
case discografiche: Dovete pagare una fortuna se volete il meglio. Collaboravo con i migliori creativi del mondo. Eravamo noi a fissare lo standard del settore e lavoravamo già due anni prima della nascita di MTV, che con il suo avvento cambiò tutto.» La prima esperienza dei Queen con il nuovo medium non fu molto incoraggiante. La band non era a suo agio negli studi e sorsero alcuni contrasti con Mansfield, che liquidò quasi tutti i loro suggerimenti artistici come «roba da principianti», preferendo seguire le sue idee «di esperto». Freddie in particolare pensava che Mansfield non avesse capito la loro musica e che il suo lavoro fosse già superato, prevedibile e «presuntuoso». Il risultato finale fu definito inutilizzabile e di conseguenza scartato. Quando si trattò di girare il video per Liar , i Queen si rifiutarono di lavorare ancora con Mansfield. Avevano capito che l’unico modo per ottenere ciò che volevano era e ra di d i farlo da d a soli e quindi unirono le loro forze forze a quelle di Bruce Gowers, un tecnico dei Brewer Street Studios di Londra, per creare qualcosa che fosse «in sintonia con l’immagine che la band voleva dare di sé». Quel video, oramai una rarità, rarità, è stato il primo primo a essere usato per promuovere promuovere i Queen, sebbene a quei tempi ci fossero pochi programmi televisivi in cui mostrarlo, per cui non è stato visto da molti, come recita il libretto che accompagna il DVD «Queen Greatest Video Hits 1». Liar era un brano scritto da Freddie e non uscì mai come singolo nel Regno Unito, solo in Nord America e in una veste abbreviata. La versione che compare nel DVD non era mai stata distribuita prima. L’esperienza insegnò ai quattro che solo se mantenevano il controllo completo del proprio lavoro potevano rilassarsi abbastanza per correre qualche rischio dal punto di vista creativo. Questo sarebbe diventato il modello operativo di tutta la loro carriera. «Non direi che avevano la mania del controllo», affermò il loro primo addetto stampa, Tony Brainsby, nel 1996, quattro anni prima di morire. «Ma sapevano sempre quel che volevano e non scendevano quasi mai a compromessi, né si accontentavano facilmente. Avevano le idee chiare, per cui in genere era inutile cercare cercare di d i convincerli convincerli ad accettar a ccettaree qualcos’altro.» qualcos’altro.» Brainsby fu ingaggiato dalla Trident a un prezzo esorbitante per costruire l’immagine pubblica dei Queen. Il PR viveva come una star ed era molto rinomato nella scena musicale. Girava per Londra a bordo di una RollsRoyce, era magrissimo, allampanato e occhialuto, e di solito portava una
giacca nera con il collo alla coreana, pantaloni a tubo e stivaletti Chelsea. Era esattamente il genere di portavoce con cui Freddie poteva trovarsi in sintonia. Oltre ad avere l’indispensabile look eccentrico anni Sessanta, Brainsby vantava ottime credenziali rock. Da giovane aveva condiviso un appartamento a Soho con Eric Clapton e Brian Jones dei Rolling Stones. La sua rubrica sulla rivista Boyfriend lo portava a partecipare regolarmente alle prove della trasmissione televisiva Ready Steady Go!, cosa che poi lo ispirò a lanciare la sua agenzia di pubbliche relazioni. Quando incontrò i Queen, Brainsby era il PR più ambito di Londra. Fra i suoi clienti vantava i principali artisti dell’epoca, da Cat Stevens ai Thin Lizzy, dai Mott the Hoople ai Strawbs. Mick Rock, il fotografo delle band e suo grande amico, gli aveva fatto il servizio del matrimonio. Brainsby dirigeva il suo impero da una grande dimora assai disordinata in Edith Grove, fra Fulham Road e la King’s Road, zeppa di ragazze, piante morte e televisori. Quelli di noi che sono ancora vivi, ricordano tutt’oggi le feste in quella casa: se ne riemergeva solo dopo diversi giorni. «I Queen mi vennero proposti da loro manager americano, Jack Nelson», ricordò Brainsby. «Non era da me accettare gruppi relativamente sconosciuti, ma i Queen erano diversi. Ricordo che andai a vederli all’Imperial College. Non c’era un palco, solo una pista da ballo. C’era Freddie che dava spettacolo con una mantellina bianca e il suo atteggiamento impudente. Quella performance era molto lontana da quello che sarebbero diventati in seguito, ma di certo Freddie aveva già tutta la sua presenza scenica.» In generale ciò che colpiva Brainsby dei Queen era che Freddie non cercava di accaparrarsi tutta la gloria. «Quel che trovavo encomiabile era che i Queen non provavano mai a presentarsi come ‘Freddie Mercury e la sua band’. Erano un vero gruppo e Freddie non tentava mai di proporsi come il loro leader. Per quel che vedevo, vede vo, i rapporti rapporti fra di loro erano perlopiù perlopiù armoniosi armoniosi.. Erano diversi dagli altri musicisti rock, perché erano tutti molto intelligenti. Potevi sentirti persino persino inadeguato inade guato in loro presenza.» All’inizio, ammise Brainsby, c’era la tendenza a utilizzare Freddie più di Brian, Roger o John per le interviste. «Poi imparai ad assicurarmi che tutti ricevessero la stessa esposizione. Più avanti, Freddie venne riservato alle interviste più importanti. Poi ci
mandammo Brian, che raccontava sempre la storia di come avesse costruito la sua chitarra usando un vecchio caminetto. Era facile promuoverli e finirono sulle riviste musicali più serie. Roger, che era il pinup del gruppo, andava bene per le riviste da adolescenti, come Jackie e 19. 19 . Era bellissimo. Almeno i Queen non facevano i preziosi con la stampa, e meno male, dato che molti giornalisti non erano interessati a chiacchierare con loro. Devo dire però che erano abbastanza pignoli per le fotografie. Volevano approvarle una per una prima che potessi distribuirle. Freddie era il più suscettibile. Il problema erano i suoi denti. Era un tale perfezionista... tipico di quelli della vergine. Aveva persino creato uno stemma per la band, che raggruppava tutti i loro segni zodiacali.» Tutto ciò sarebbe stato ripreso dalla parodia di una band heavy metal, creata da Rob Reiner e immortalata nel 1984 con il falso documentario This Is Spinal Tap. Tap. Per quanto Brainsby fosse uno di mondo, rimase subito affascinato da Freddie. «Aveva molte piccole manie ‘stilose’ che lo rendevano memorabile. Per esempio si metteva lo smalto nero sulle unghie di una mano sola, la destra o la sinistra, oppure solo su un mignolo. Riempiva le frasi di ‘tesoro!’ oppure ‘miei cari!’ e i suoi modi effeminati erano molto divertenti e accattivanti. Era bellissimo stargli vicino. Non ti annoiavi. Le ragazze lo adoravano quando veniva in ufficio. «All’epoca viveva con Mary, chiaramente. All’inizio la sua vita sessuale era un autentico mistero per noi, non riuscivamo a decifrarla. Di certo lui non ne parlava mai.» Non che Brainsby frequentasse i membri della band o fosse diventato loro confiden confidente. te. «Mi è sempre piaciuto tenere una certa distanza con i clienti. Pensare che siano i tuoi migliori amici è il più grande errore che puoi fare nel mio campo. Finiscono per prenderti per il culo. Gli artisti sono dei rompicoglioni se gli stai troppo vicino. Lasciavo quel compito alle ragazze dell’ufficio. Era per quello che le pagavo.» Il rock’n’roll, concluse Brainsby, parlando a nome di tutti, «è un business incostante, instabile, emotivo e pieno di persone egocentriche. Proprio come le star. Prova a lavorarci tanto quanto ci ho lavorato io e non ti sorprenderà più vedere che ogni singolo musicista è paranoico ed eccentrico. È il business che li fa diventare così.»
Freddie si salvava perché era sì eccentrico, ma simpatico. «Lo ammiravo moltissimo», disse Brainsby. «Era pieno di creatività, non solo nella sua immaginazione, ma per davvero. E sapeva di esserlo, anche se all’epoca aveva... ventisette anni, mi pare. Voglio dire, [i Queen] erano abbastanza vecchi per un gruppo rock esordiente, no? Quanto dev’essere stato frustrante sapere di avere tutte le qualità necessarie per sfondare, provarci in ogni modo e non riuscirci per così tanto tempo.» Freddie dava l’impressione di essere stato consapevole delle proprie capacità fin dall’infanzia. «Aveva un bisogno disperato di trovare uno sfogo per la sua creatività. Il successo dev’essere stato un sollievo enorme per lui. C’era stato un periodo in cui aveva combattuto con le unghie e con i denti per ottenere quel che voleva, il che normalmente normalmente non tira tira fuori il lato miglior miglioree nelle persone. persone..... Battersi, lottare e gridare per fare colpo e conquistarsi un posto sono tutte cose che hanno conseguenze negative sulla personalità. Quando lo conobbi, Freddie Fredd ie era e ra arrivato arrivato propri proprioo a quel punto.» Il più ricercato PR di Londra non era l’unico ad avere un lavoro difficile.
10 Giovanotti
Magari Magari sembrer sembreràà che abbia abbiamo mo affrontato affrontato la nostra carriera carriera in modo scientifico e calcolato, ma i nostri ego volevano solo il meglio. Ho sempre pensato che fossimo una grande band. Suona molto presuntuoso, presuntuoso, lo so, ma è così. c osì. FREDDIE MERCURY La cosa che distingueva i Queen dagli d agli altri gruppi gruppi rock è che loro scrivevano canzoni con l’intenzione di farne dei grandi successi. Puoi anche essere il musicista più bravo bravo del mondo, ma è difficilissimo d ifficilissimo comporre comporre un gioiello di tre t re minuti e mezzo e fare in modo poi che ilil mondo intero intero lo canticchi. canticchi. Se ne sei capace e in più sai suonare bene, hai vinto. È questo il segreto del loro successo. JAMES NISBET, chitarrista e session man
AGOSTO 1973. I Queen tornarono nei Trident Studios per incidere il secondo album. Grazie agli incessanti sforzi di Tony Brainsby per promuovere la loro immagine, questa volta ebbero il permesso di usare gli studi come qualsiasi altro cliente pagante: poterono persino registrare durante il giorno, se lo desideravano. Il 13 settembre andarono al Golders Green Hippodrome e parteciparono a un’importante trasmissione radiofonica per la BBC. Ricorda Jeff Griffin, produttore dell’emittente britannica: «Registrammo la prima sessione dal
vivo dei de i Queen Quee n per In Concert di Alan Black [il laconico DJ scozzese, oltre che fumettista e animatore di Yellow Submarine, oggi scomparso]. I Queen non suonarono per un’ora intera. Avevo fatto venire [il cantautore] Peter Skellern come spalla. Oggi devo ammettere che era un abbinamento strano. I Queen erano tranquilli, solo Freddie mostrò qualche segno di nervosismo. Era normale, dato che non aveva fatto molte cose dal vivo all’epoca. Lo spettacolo andò bene e generò molto interesse per la band». Quello stesso mese, l’Elektra lanciò il primo album del gruppo negli Stati Uniti. Dopo l’accoglienza tiepida del Regno Unito, però, i Queen non si aspettavano molto. Fu una piacevole sorpresa quindi, quando appresero che i DJ americani li avevano definiti «un nuovo, entusiasmante talento inglese» e avevano cominciato a trasmettere il loro album. Un’ondata di richieste fece volare il disco in alto nella classifica americana, dove raggiunse quota ottantatré: niente male per una band sconosciuta. Il successo non passò inosservato. Brainsby aveva già presentato i Queen a un’altra grande band presente presente nella sua rosa di clienti, gli irrefrenabili Mott Mott the Hoople, Hoople, capitanati capitanati dall’ironico Ian Hunter. Nonostante un nutrito seguito di fedelissimi nei concerti, le vendite discografiche dei Mott erano deludenti, e verso il 1972 i membri della band avevano deciso di sciogliersi. Erano stati però incoraggiati a proseguire da David Bowie che li aveva portati sotto l’ala protettrice del suo management. Avevano firmato un nuovo contratto con la CBS Records (poi Sony) e lo stesso Bowie aveva scritto e prodotto il loro più grande successo: All successo: All the Young Dudes («Tutti i giovanotti»). Nel 1973, i Mott avevano sfornato altri singoli che si erano piazzati fra i primi venti in classica, tra cui All the Way From Memphis e Roll Away the Stone. Stone. Da questo successo era nato un grande tour inglese di venti date, che sarebbe cominciato il 12 novembre nella sala municipale di Leeds e che si sarebbe concluso all’Hammersmith all’Hammersmith Odeon di Londra poco prima di Natale. Grazie alla presentazione di Brainsby, per non parlare del compenso (in quei tempi stava appena diventando accettabile che una band pagasse per partecipare alla tournée di un’altra), i Queen divennero il gruppo spalla dei Mott. Il 1º novembre 1973, al Kursaal di Southend-on-Sea (il primo parco a tema del mondo, che anticipò persino Coney Island a New York), Freddie, Brian e Roger fecero da coristi per i Mott su All su All the Young Dudes. Dudes.
Nel 1964 fu fondata la pionieristica Radio Caroline, un’emittente indipendente che trasmetteva senza licenza da una nave ancorata in acque internazionali al largo delle coste inglesi. Nata per sfidare il monopolio delle case discografiche e della BBC sulla trasmissione di brani musicali nel Regno Unito, la radio lanciò la carriera di diversi DJ come Tony Blackburn, Mike Read, Dave Lee Travis, Johnnie Walker ed Emperor Rosko. Il successo dell’emittente fu stroncato dal governo inglese nel 1967, con una legge su misura che bandì i pirati dell’etere e che svegliò la BBC dal suo letargo, spingendola a creare una nuova «stazione per gli adolescenti», Radio 1, lanciata proprio da Tony Blackburn. Radio Caroline sarebbe rinata più avanti, ma nel frattempo, mentre Radio 1 muoveva i primi passi, una nuova emittente balzò alla ribalta: ribalta: Radio Luxembourg. Il DJ David Jensen detto «Kid» iniziò a lavorare per la radio del granducato nel 1968, quando aveva appena diciotto anni. La sua trasmissione notturna Kid Jensen’s Dimensions, Dimensions , in onda fra la mezzanotte e le tre del mattino, divenne una delle più seguite, attirando un ampio seguito di ammiratori, fra cui anche il futuro primo ministro inglese Tony Blair. Jensen incontrò i Queen per la prima volta nell’ottobre del 1973, durante un tour promozionale organizzato dalla EMI. Oltre che in Francia, Germania, Olanda e Belgio, infatti, la band si esibì anche in Lussemburgo, in un concerto organizzato proprio da Kid. «Dal 1968 al 1973, Radio Luxembourg era l’unico ‘posto serio’ in Europa dove potevi ascoltare ascoltare musica musica rock e pop», pop», spiega spiega Jensen. J ensen. «In quei giorni Radio 1 finiva le trasmissioni abbastanza presto la sera; poi si fermava anche Radio 2. A quel punto molti ascoltatori cambiavano stazione per sintonizzarsi sulle nostre frequenze. Noi ci concentravamo sulla musica cosiddetta ‘progressiva’. Facevamo tendenza e tutti gli artisti dell’epoca volevano passare da noi. Una sera incontrai la fidanzata di Jimi Hendrix a una festa, dopo che lui era già morto, e mi disse che Jimi adorava il mio programma. ‘Tornavamo dalle feste e ti ascoltavamo’, mi disse. «I Queen mi hanno colpito subito, fin dall’inizio. Keep Yourself Alive è stato il primo brano che ho ascoltato. Avevo sempre avuto un debole per le chitarre, ma quel pezzo era diverso. Era così… energico. I Queen avevano tutto: John, il bassista tranquillo e affidabile; Brian, il brillante chitarrista; Roger, l’incredibile batterista, che si godeva al massimo la vita da rockstar; e poi Freddie Mercury, il grande showman, forse il più grande di tutti.
Nonostante avessero inciso un album con una tecnica perfetta e innovativa, erano stati respinti dalle radio. Sapevo che non li avevano passati su Radio 1. Quando mi dissero che sarebbero venuti qui per un tour promozionale, organizzai un concertino al Blow Up Club, Club, in centro, che aveva una capienza di circa duecento persone. «Per fortuna i proprietari del club si fidavano di me, sapevano che gli portavo solo le band migliori, per cui mi diedero carta bianca. Il pubblico era composto soprattutto da ragazzini sui vent’anni. Quella sera c’era un programma variegato: i Queen suonarono insieme con altri importanti gruppi rock: Status Quo, Wishbone Ash, Grateful Dead e Canned Heat. Radio Luxembourg voleva registrare il concerto per trasmetterlo più avanti, ma l’attrezzatura non funzionò a dovere, per cui purtroppo non esiste alcuna registrazione di quella serata. I Queen erano sicuri di sé e fecero parecchio rumore. Erano già una tacca sopra tutti gli altri, persino in quei primi tempi. «Dopo lo spettacolo andai nella camera di Freddie con il loro promotore discografico, Eric ‘Monster’ Hall, e tirammo tardi, parlando di tutto. Freddie era molto simpatico e gli piaceva chiacchierare; davvero un perfetto anfitrione. Non creava mai problemi. «Mi piacevano a livello umano. Scrissi un pezzo su di loro per il Record Mirror Mirror . I Queen andavano contro i gusti musicali di alcuni critici, che infatti non li amavano per niente, ma io li ammiravo proprio per questo. Non erano una band solo ‘sesso, droga e rock’n’ roll’, anche se facevano tutte queste cose. Erano circondati da una certa atmosfera intellettuale. Credo che ognuno di loro avrebbe potuto avere successo in qualsiasi campo. Sono molto grato ai Queen perché hanno aiutato me e il mio programma a crescere. Ho trasmesso i loro brani durante le notti di Radio Luxembourg e questo ha contribuit contribuitoo ad aumentare la mia popolarità.» popolarità.» Anche la popolarità della band era in costante crescita e durante l’apertura dei concerti per i Mott the Hoople i fan li accolsero calorosamente. Finalmente Freddie ottenne quel che aveva sempre desiderato: un pubblico incoraggiante, una folla in visibilio che gli chiedeva di cantare. Le recensioni della stampa musicale, invece, continuarono a essere perlopiù negative; l’opinione generale era che i Queen fossero un po’ come i «vestiti dell’imperatore». «Che se ne vadano affanculo, tesoro, se non ci capiscono», rispose
Freddie a un Brainsby allibito. L’agente, che spesso doveva sobbarcarsi la collera e la frustrazione del suo cliente di fronte alle recensioni negative, non poté fare a meno di notare che l’adorazione dei fan stava avendo un impatto cruciale sul cantante. «Nonostante le critiche sulla stampa, Freddie era sempre più sicuro di sé, ma vedevo che non gli piaceva fare le interviste. Dopo un po’ smettemmo di usarlo del tutto, tranne quando si trattava di promuovere un album o un tour. Quella sua elusività calcolata lo faceva apparire più misterioso, cosa che chiaramente gli piaceva.» piaceva.» Così la pensava Freddie all’epoca: «Credo che siamo un bersaglio facile [per la stampa] perché siamo diventati famosi più in fretta di molte altre band», disse, interpretando il passato in chiave revisionista e dimenticandosi quanto avesse faticato a emergere dopo anni di delusioni e frustrazioni. Ma forse il suo atteggiamento era comprensibile proprio perché aveva sofferto tanto per sfondare. «Il mese scorso siamo stati la band più discussa», proseguì, «perciò è inevitabile... Sarebbe sbagliato se ricevessimo solo critiche positive, ma mi dà fastidio leggere recensioni ingiuste e disoneste, dove vedi che gli autori non hanno fatto il loro lavoro come si deve.» Denis O’Regan, il premiato fotografo che iniziò a lavorare nel mondo del rock ritraendo David Bowie all’Hammersmith all’Hammersmith Odeon con una macchina fotografica prestatagli dallo zio, e che in futuro sarebbe andato in tournée con i Queen come fotografo ufficiale, nel 1973 andò a vedere il concerto dei Mott, sempre all’Odeon all’Odeon,, e restò allibito per «la pretenziosità e la sicurezza di sé» del cantante del gruppo spalla. «Freddie gesticolava e si metteva in posa, persino allora, quando era solo il cantante della band di supporto», ricorda. «Diceva qualche parola fra un brano e l’altro, per introdurli. Brian May era fantastico. Non li avevo mai sentiti prima. A quei tempi era normale ascoltare anche la band di supporto, oltre che quella principale. Mi girai verso il mio amico George Bodnar [in futuro anche lui un nome importante nell’ambito della fotografia musicale] e dissi: ‘Ma chi si crede di essere quel cretino?’ Chiaramente la risposta mi arrivò un anno dopo, quando i Queen divennero famosi in tutto il mondo. In realtà iniziai a seguirli davvero solo dopo che li ascoltai alla trasmissione di John Peel. Da allora sono sempre stato un loro fan.» «A mio avviso», osserva Joop Visser, «fu solo dopo il tour con i Mott the
Hoople che i Queen iniziarono a esibirsi bene, e voglio dire tragicamente bene. Verso la fine del tour, infatti, i Mott tremavano: i Queen gli stavano rubando la scena.» Nel frattempo, le recensioni migliorarono. «Atmosfera elettrica.» «Band sensazionale.» I Queen conclusero la loro svolta aprendo un concerto dei 10cc a Liverpool. Quando gli domandarono di commentare quello che era cominciato come il tour dei Mott, ma che era finito per essere quello dei Queen, Freddie rispose: «Suonare con i Mott era una grande opportunità, ma sapevo benissimo che alla fine del tour non avremmo mai più fatto da spalla a nessuno, almeno non in Inghilterra». Oramai la EMI non riusciva più a gestire la valanga di lettere dei fan dei Queen, né le pressanti richieste di fotografie, quindi tentò di demandare la responsabilità alla Trident, ma anche questa non poteva o non voleva farlo. C’era un solo modo per risolvere il problema. Alla fine del 1973 nacque un fan club ufficiale, gestito da due vecchi amici di Roger dai tempi della Cornovaglia: Sue e Pat Johnstone. Il fan club ha cambiato mano nel corso degli anni, tuttavia ha sempre potuto vantare un rapporto privilegiato con la band. Non solo esiste tutt’oggi, ma ogni anno organizza un raduno che attira ancora un grosso numero di fan. Dato che le vendite dell’album andavano molto bene, la EMI si concentrò sulla campagna pubblicitaria internazionale. Nel gennaio del 1974 fu organizzato un tour in Australia. Poco prima di partire, la band sfiorò il disastro, quando Brian sviluppò una cancrena al braccio a seguito di una vaccinazione, così grave che si temette l’amputazione. Per fortuna il chitarrista guarì e il viaggio poté procedere. Poi però toccò a Freddie. Durante il volo per Sydney, fu assalito per la prima volta dalla paura di volare ed ebbe quasi una crisi crisi di panico. panico. Il suo nervosismo nervosismo era acuito da una dolorosa otite, che l’aveva reso temporaneamente sordo. Freddie avrebbe odiato gli aerei per il resto della vita. Il viaggio sembrava iellato fin dall’inizio. Né Freddie né Brian erano in forma e i concerti in Australia non furono granché. Almeno in patria le cose andavano meglio. In un sondaggio fra i lettori del New Musical Express, Express, i Queen si classificarono secondi nella sezione
nuovi arrivi, senza avere mai avuto nemmeno una hit in patria. In America, l’Elektra distribuì un secondo brano tratto dal primo album, che però cadde nel vuoto. La EMI non si perse d’animo e mise in programma l’uscita di un nuovo singolo. Il 21 febbraio 1974, inoltre, si liberò un posto all’ultimo minuto su Top of the Pops (perché il promo del nuovo singolo di David Bowie, Rebel Rebel non era pronto) e i Queen furono trasportati di corsa negli studi della BBC per cantare Seven Seas of Rhye Rhye in playback, prima ancora che il singolo uscisse sul mercato. «Ricordo Freddie che correva lungo Oxford Street per vedere la sua apparizione in tv nella vetrina di un negozio di elettrodomestici, perché all’epoca all’epoca non aveva ancor a ncoraa la televisione», racconta Brainsby. Brainsby. Il singolo uscì in fretta e furia la settimana stessa. La fortuna continuò a girare dalla parte della band. Il secondo album, «Queen II», era oramai pronto e i quattro si prepararono ad affrontare il primo tour del Regno Unito da protagonisti. Il giro sarebbe iniziato a Blackpool il 1º marzo per concludersi quattro settimane dopo al Rainbow Theatre Theatre di Londra. L’edificio, che sorge all’angolo fra Isledon Road e Seven Sisters Road, era nato negli anni Trenta come cinema ed è oggi un bene protetto usato da una chiesa pentecostale. Negli anni era stato un importante locale musicale: lì nel 1967 Jimi Hendrix aveva dato fuoco alla sua prima chitarra, lì i Beach Boys avevano registrato il loro album «Live in London», lì avevano suonato fra gli altri Stevie Wonder, Who, Pink Floyd, Van Morrison, Ramones e David Bowie. La band cominciò subito le prove per il tour agli Ealing Studios. Secondo Brainsby, fu Freddie che ebbe l’idea di chiedere alla giovane stilista Zandra Rhodes di creare dei costumi appositi per la tournée, dopo avere visto gli abiti che questa aveva disegnato per Marc Bolan. Gli altri membri del gruppo si dissero subito d’accordo. I dirigenti della EMI non tanto, a causa dell’esorbitante parcella di cinquemila sterline della creativa, sebbene dovettero poi ammettere che le eccentriche vesti di seta con «ali di pipistrello» fossero «molto Queen». Fu solo in quel momento che Freddie si sentì abbastanza sicuro per dire addio al banchetto di Kensington. Quattro giorni dopo il concerto di Blackpool, Seven Seas of Rhye Rhye andò dritta al numero quarantacinque della classifica britannica. Tre giorni dopo, uscì «Queen II», che si piazzò al trentacinquesimo posto, fra recensioni contrastanti. Il tour, però, fu segnato da una serie di incidenti, inclusa una
violenta rissa rissa fra gli studenti dell’università dell’università di Stirli Stirling, ng, in Scozia, Scozia, in cui furono accoltellati due spettatori. Anche se la band riuscì a salvarsi chiudendosi a chiave nelle cucine, due roadie furono aggrediti e dovettero essere ricoverati. Lo spettacolo successivo, a Birmingham, fu cancellato, ma oramai il danno era fatto: i Queen furono di nuovo attaccati dalla stampa musicale. L’ostilità dei giornalisti continuò anche dopo la data sull’isola di Man a fine marzo. Nonostante ciò, il gruppo e il suo entourage celebrarono il tour con nuovi eccessi, alzando gli standard dei loro afterparty , le feste tenute alla fine degli spettacoli. In un’altra data, invece, prima che la band salisse sul palco, gli spettatori intonarono l’inno God Save the Queen, Queen , un brano che sarebbe diventato d’obbligo nei concerti della band da quel momento in poi. Con «Queen II» al numero sette nella classifica degli album anche le vendite del precedente LP ripresero ripresero a salire, salire, finché entrò per la prima prima volta in graduatoria al quarantasettesimo posto. Più o meno nello stesso tempo, l’Elektra lo distribuì in Giappone, dove fu accolto da recensioni entusiaste. Ma né la Trident, né la EMI, e nemmeno gli stessi Queen, potevano sapere quanto la band sarebbe diventata famosa nella terra del Sol Levante. Il successo, però, ha un prezzo. Freddie era sempre più irascibile, perdeva le staffe al minimo contrattempo, e Brian cominciò a perdere la sua proverbiale pazienza. I loro litigi logoravano tutti e di solito finivano con il cantante che se ne andava stizzito, mentre i rimanenti tre alzavano le spalle: secondo loro era inutile perder tempo quando avevano tanto lavoro da fare. Molto più avanti, però, commemorando il quarantesimo anniversario dei Queen in un’intervista per la rivista Q, Brian e Roger avrebbero entrambi ricordato Freddie come un paciere: «Credo che sia sbagliato schiacciare Freddie nel ruolo di primadonna. In realtà era un gran diplomatico e se c’erano c’erano dei d ei disac d isaccor cordi di tra di d i noi, in genere ge nere sapeva come risolverli». risolverli». Il senno di poi... una cosa favolosa. Secondo Freddie, invece, i Queen avevano sempre «litigato su tutto, persino sull’aria che respiravano». Con il morale sempre più alto grazie al successo del primo tour, i Queen furono contenti ma non sorpresi quando i Mott the Hoople li invitarono ad accompagnarli nella loro tournée americana: sarebbe iniziata a Denver in Colorado e prevedeva diverse date a New York. Nonostante la paura di volare, il 12 aprile aprile Freddie Fredd ie fu il primo primo agli imbarchi. imbarchi. La Elektra sfruttò sfruttò l’arrivo della band negli Stati Uniti per fare uscire «Queen II» prima del
previsto. I quattro erano galvanizzati dalla prospettiva della loro prima tournée americana, un traguardo che inseguivano da anni. La band aveva attirato l’attenzione degli artisti più stravaganti del Paese. «E noi che pensavamo di essere diversi…» commentò Brian. «Incontrammo un sacco di artisti eccentrici, persino per i nostri standard. Molti travestiti: i New York Dolls, Andy Warhol… persone talmente creative da riuscire a cestinare tutto quel che era successo prima». Ma non fu una passeggiata. La band sfiorò di nuovo il disastro, a New York, quando Brian collassò perché non si è ancora ripreso da un’infezione contratta in Australia. La data di Boston fu annullata e quando al chitarrista fu diagnosticata l’epatite, i Queen dovettero rinunciare al resto della tournée. La delusione fu enorme per tutti e il chitarrista si sentì in colpa per avere compromesso il debutto della band sulle scene americane. I quattro tornarono a casa e, nonostante Brian fosse ancora debilitato, si ritirarono negli studi gallesi di Rockfield per cominciare a lavorare al terzo album. Negli anni Sessanta i Rockfield erano i primi studi di registrazione che offrivano la possibilità di risiedere sul posto. Negli ultimi quarant’anni sono stati usati da diversi artisti rinomati, inclusi Mott the Hoople, Black Sabbath, Motörhead, Simple Minds, Aztec Camera, Manic Street Preachers, Nigel Kennedy e Darkness (che erano quasi una tribute band dei Queen). I Queen amarono molto i Rockfield. Il 15 luglio 1974, la band tornò poi ai Trident Studios, collaborando di nuovo con Baker, che oramai era diventato il «quinto membro» del gruppo. Le registrazioni, suddivise tra altri studi londinesi, in partico particolare lare Air, Sarm e Wessex, furono interrotte quando quand o Brian dovette essere di nuovo ricoverato: questa volta per ulcera duodenale. Un’altra tournée americana, programmata per settembre, fu abbandonata. Brian sprofondò nella depressione e temette che i Queen avrebbero dovuto cercarsi un nuovo chitarrista. Un timore inutile: il resto del gruppo continuò a lavorare senza di lui con l’intenzione di aggiungere i suoi pezzi di chitarra in un momento successivo. In compenso, il secondo album raggiunse il disco d’argento dopo avere venduto oltre centomila copie. copie. Come suo solito, solito, Brainsby Brainsby organizzò organizzò un’abile montatura pubblicitaria per celebrare l’evento al Café Royal , sotto forma dell’attraente attrice Jeannette Charles, un’icona della tv britannica che sovente impersonava la regina Elisabetta. Fu una scelta azzeccata, specialmente perché i Queen avevano oramai prodotto una personale e
rispettosa versione dell’inno nazionale inglese, da usare in chiusura dei concerti. Nell’ottobre del 1974 uscì il terzo singolo della band, Killer Queen, Queen , estratto dall’imminente dall’imminente terzo te rzo album, «Sheer «Shee r Heart Attack». «Killer Queen Queen parla di una squillo d’alto bordo», spiegò Freddie. «Con quel pezzo volevo dire che anche le donne dell’alta società possono essere delle puttane» aggiunse, quasi come si riferisse a se stesso. «È di questo che parla, anche se preferisco che ognuno la interpreti a modo suo, che ci legga quel che preferisce. Le persone erano abituate ai nostri pezzi più duri, hard rock, quella invece era una canzone adatta a Noël Coward. Era un brano da bombetta e giarrettiere», aggiunse, in omaggio al suo film preferito, Cabaret con Liza Minnelli. «Non che Noël Coward avrebbe mai indossato cose del genere!» «Fu una svolta», osservò in seguito Brian. «Era un pezzo che riassumeva benissimo il nostro stile musicale e fu un grande successo. Avevamo un bisogno disperato di un brano che confermasse la nostra popolarità. Non avevamo un centesimo in tasca, sai, come tutti. Vivevamo in monolocali minuscoli, proprio come gli altri musicisti.» Killer Queen arrivò fino al secondo posto in classifica, ma non riuscì a conquistare la vetta, che era occupata dall’idolo delle donne David Essex con la sua hit Gonna Make You a Star («Farò di te una stella»). Per uno scherzo del destino, il successivo tour inglese dei Queen fu promosso da Mel Bush, grande impresario musicale, che aveva fatto diventare una stella proprio David Essex! Il tour si prefigurava come il progetto più ambizioso e complesso dei Queen fino a quel punto. La stampa musicale fu costretta ad ammettere che quel gruppo, unico nel suo genere, non poteva più essere ignorato. Non solo «Sheer Heart Attack» era stato accolto da ottime recensioni, ma adesso in classifica c’erano tutti e tre gli album dei Queen. La copertina del nuovo disco, un’altra creazione di Mick Rock, segnò una frattura dall’immagine precedente, quella di «Queen II». «Deve sembrare come se fossimo stati abbandonati su un’isola deserta», disse Freddie a Rock, che lo prese alla lettera. Prima cosparse i quattro di vaselina, poi li spruzzò spruzzò di acqua, li fece stendere stende re a terra e li fotografò fotografò dall’alto. I brani del nuovo album sorpresero tanto quanto l’immagine in copertina, e incontrarono il favore sia della critica sia dei fan. «Nel 1974 mio padre comprò ‘Sheer Heart Attack’», ricorda Kim Wilde,
figlia del musicista Marty Wilde e cantante di successo negli Ottanta (il suo primo singolo Kids in America arrivò America arrivò al numero due in classifica). «All’epoca avevo quattordici anni ed ero appassionata di musica leggera; avevo appena cominciato a comprarmi i dischi che volevo. Adoravo Slade, Sweet, Mud, Elton John e Marc Bolan. Senza dimenticare i Bay City Rollers... ero giovane! «‘Sheer Heart Attack’ è uno degli album più entusiasmanti che abbia mai ascoltato. È stato il primo che ho scaricato con iTunes dopo l’avvento dell’era virtuale. Adoravo gli acuti di Freddie, le sue armonie vocali e il suo senso dell’umorismo. Anche la musica di Brian era piena di energia e passione, ed ero cotta di Roger Taylor. John Deacon era il collante che li teneva tutti insieme. insieme. Che gruppo… gruppo…»» Alla fine di ottobre, i Queen intrapresero una nuova tournée nel Regno Unito, che doveva terminare con un’unica serata londinese al Rainbow Theatre, Theatre, alla quale però ne vennero aggiunte altre due il 19 e 20 novembre perché i biglietti per la prima andarono esauriti nel giro di un paio di giorni. I due concerti furono filmati e registrati per future produzioni. Durante la festa conclusiva della tournée, tenutasi all’Holiday all’Holiday Inn di Swiss Cottage e assolutamente decorosa rispetto a quelle future, il promoter Mel Bush donò al gruppo una targa commemorativa per avere registrato il tutto esaurito in ogni data della tournée. Fu quindi organizzato il primo tour europeo per la fine di novembre, che avrebbe toccato i Paesi scandinavi, il Belgio, la Germania e la Spagna. Le vendite in Europa andavano benissimo e la maggior parte dei concerti fecero il tutto esaurito. A Barcellona, una città di cui Freddie si innamorò all’istante e in cui sarebbe poi tornato più volte, i seimila biglietti del concerto sparirono nel giro di ventiquattr’ore. A dicembre i Queen decisero che il contratto con la Trident non era più sostenibile. Sebbene i loro compensi settimanali fossero saliti da venti sterline a sessanta dopo il successo di «Sheer Heart Attack», si trattava di somme assolutamente insufficienti per vivere. Oltretutto, nonostante le ottime previsioni di vendita, la Trident si rifiutava di concedere qualsiasi anticipo. John Deacon voleva comprarsi una casetta per lui e la fidanzata Veronica Tetzlaff, che aspettava un bambino, ma la Trident gli negò le quattromila sterline di caparra. Freddie voleva un nuovo pianoforte e Roger un’utilitaria. Tutte le loro richieste, però, venivano rigettate di netto. I rapporti con l’etichetta si fecero così tesi che i Queen decisero di rivolgersi a
un avvocato dell’ambiente per risolvere le controversie. Cominciò così il loro rapporto con Henry James Beach, detto «Jim», socio dello studio legale Harbottle & Lewis. Nel 1978, Beach sarebbe diventato il manager dei Queen, incarico che mantiene tutt’oggi. Gli ci vollero nove mesi per negoziare l’uscita della band dalla Trident, la quale comprensibilmente voleva tenersela stretta. stretta. Nel frattempo, frattempo, dato che sia il singolo singolo Killer Queen sia l’album «Sheer Heart Attack» erano entrati nella Top Ten delle classifiche statunitensi, i Queen erano pronti per affrontare la loro prima grande tournée americana. Il 18 gennaio 1975 John sposò Veronica, con la quale avrebbe poi avuto sei figli. Il 5 febbraio, la band partì per l’America. Anche questa volta, nonostante il sostegno dell’etichetta americana, il tour fu segnato da diversi contrattempi e da alcune critiche ostili, in cui i Queen furono paragonati negativamente ai Led Zeppelin. Per la prima volta Freddie ebbe dei problemi con la voce, a causa di alcuni presunti (o confermati, a seconda delle diagnosi) noduli benigni alla gola. I medici gli ordinarono di stare zitto per tre mesi (addirittura!), ma la sera successiva, Freddie cantò a squarciagola a Washington. A causa della sua salute altalenante, però, la band fu costretta a cancellare parecchie date. Era evidente che Freddie stava esagerando e che le sue esibizioni erano troppo stressanti per la sua costituzione e per le sue corde vocali. Doveva assolutamente prendersi un periodo di riposo per recuperare le forze, ma sarebbe passato molto tempo prima che lo facesse. In America i Queen sfiorarono un’altra potenziale catastrofe. Fra una data e l’altra accettarono di incontrare il terribile Harry Levy alias Don Arden (ex cantante e attore inglese di vaudeville, un tempo di stanza a Brixton) con l’idea di assumerlo come manager se fosse riuscito a tirarli fuori dal debilitate contratto con la Trident. Probabilmente erano disperati. Arden, famoso per avere progettato le carriere di Small Faces, ELO e Black Sabbath, era soprannominato «il padrino inglese» per i suoi metodi illeciti nel condurre gli affari. Era risaputo che non esitava a ricorrere alla violenza quando le cose non andavano come voleva lui. Leggenda vuole che abbia persino fatto penzolare certi artisti fuori della finestra tenendoli per i piedi pur di convincerli a firmare un contratto. Quando la figlia Sharon sposò il leader dei Black Sabbath, Arden divenne il suocero di Ozzy Osbourne. Se si pensa che i Queen rischiarono di finire sotto il controllo dell’«Al Capone del
rock», oggi scomparso, c’è da chiedersi se sarebbero sopravvissuti così a lungo.
11 Rhapsody
Bohemian Rhapsody era era una cosa che volevo fare fare da tempo, tem po, a dire la verità. Non ci avevo dato troppo peso negli album album precedenti, ma quando siamo arri arrivati vati al quarto, quarto, sapevo sapevo che l’avrei fatta. FREDDIE MERCURY Bohemian Rhapsody è è stato un brano brano innovativo sotto molti molt i aspetti; non è mai apparso superato. È questa la caratteristica che distingue dist ingue i pezzi pezzi fondamentali della storia della musica, come I’m Not in Love dei Love dei 10cc: un’altra canzone che ha superato i confini della produzione musicale e che oggi è ancora fresca come una rosa. rosa. Good Vibrations dei Beach Boys: puoi metterla su adesso ed è ancora fantastica fantastica come la prima volta che l’hai ascoltata. Be My Baby di Phil Spector: appena senti senti quell’attacco ti viene voglia di ballare... il segno distintivo di una grande grande produzione è che resiste alla prova del tempo. tem po. Tutti i grandi dischi cominciano con un grande brano, ma non è possibile possibile separar separaree il brano brano dalla produzione. produzione. Per Per certi certi versi è la produzione produzione quella quella che ti riecheggia riecheggia in testa, anche se se poi ascolti la canzone dal vivo. STEVE LEVINE , produttore discografico
I QUEEN non erano pronti per la «Beatlemania», che li attendeva a Tokyo nell’aprile del 1975. Più di tremila fan isterici si accalcarono nella sala degli
arrivi all’aeroporto internazionale di Haneda, molti impugnando i dischi della band o alcuni striscioni improvvisati. «Sheer Heart Attack» e Killer Queen erano Queen erano in vetta alle classifiche del Paese e ogni singola data del tour era esaurita da tempo, perciò i Queen avrebbero dovuto aspettarsi un eroico benvenuto di quel genere. E probabilmente se l’aspettavano, almeno Freddie, che si mostrò perfettamente all’altezza della situazione, sorridendo e salutando i fan. Con sarcasmo, un giornalista ipotizzò che Freddie si sentisse a suo agio in Giappone perché non doveva nascondere i denti, dato che molti dei suoi fan nipponici avevano «sorrisi» altrettanto esagerati. Scherzi a parte, non solo Freddie prese in simpatia i fan giapponesi, ma venne contagiato contagiato subito anche dal loro Paese. D’altronde D’altronde che cosa c’era di meglio di quella terra antica e remota per riaccendere il suo amore per l’esotico, mai del tutto sopito? Freddie rimase affascinato da tutto ciò che era giapponese: la storia, la tradizione e la cultura, così come lo stile di vita moderno e tecnologico. Divenne un fervido collezionista di porcellane, dipinti e altre opere d’arte giapponesi. Freddie e il Giappone avevano molto in comune. Proprio come lui, il Paese era un groviglio di contraddizioni, con una personalità complessa, curiosa e sfaccettata. Alle sue orecchie i nomi delle diverse isole dell’arcipelago riecheggiavano come un incantesimo: Hokkaido, Honshu, Kyushu, Shikoku. Era attratto dal popolo giapponese, gentile e imperturbabile, sopravvissuto a secoli di dominio feudale e risorto con estrema tranquillità dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Corse dappertutto, assorbendo ogni dettaglio con avidità. Mangiò sushi e bevve sakè, comprò bamboline, kimono di seta e scatole laccate. Frequentò i malfamati bagni pubblici e le kage-me-jaya («case da tè appartate nell’ombra», rese popolari dai soldati americani) e le immancabili geishe, di tutti e due i tipi. Divenne amico di Akihiro Miwa, la bellissima drag queen che aveva prodotto un suo cabaret nel quartiere di Ginza (l’equivalente giapponese di Pigalle a Parigi o di Soho a Londra). Dopo la sua prima visita, Miwa (che oggi, a settantacinque anni, si mostra ancora con una cascata di capelli biondi), iniziò a interpretare le canzoni dei Queen in onore del suo nuovo amico. «L’unico posto in cui Freddie si è comportato come un turista è il Giappone», ricorda il suo assistente personale Peter Freestone. «Era appassionato del Giappone e di tutto quel che era giapponese, mentre le altre località in cui è stato erano solo un posto fra tanti.»
Il concerto di apertura e quello di chiusura del tour giapponese si tennero alla grande arena Nippon Budokan di Tokyo e furono indimenticabili. Nemmeno le guardie grosse come lottatori di sumo riuscir riuscirono ono a contenere la valanga di ragazzine ragazzine isteriche, isteriche, oltre diecimila. diecimila. A un certo punto Freddie fu costretto a interrompere lo spettacolo di debutto per implorare gli spettatori perché, per il loro stesso bene, si calmassero e facessero un profondo respiro. In ogni altra città in cui si esibirono la scena si ripeté. Al ritorno nel Regno Unito li aspettavano buone e cattive notizie. Finalmente la volubile stampa britannica li acclamava, dopo che avevano vinto un premio premio Ivor Novello e un Leone d’oro belga be lga per Killer Queen, Queen, ma la burrascosa questione con la Trident non era ancora stata risolta. I fratelli Sheffield avevano investito oltre duecentomila sterline nei Queen; «Sheer Heart Attack» era costato da solo trentamila sterline, una bazzecola rispetto ai costi odierni, ma una cifra esorbitante all’epoca. Ora che avevano cominciato ad avere successo, i Queen si aspettavano di guadagnare finalmente qualcosa, ma con sgomento scoprirono di essere indebitati con la Trident fino al collo. Non sopportavano l’idea di essere ancora squattrinati, mentre tutti pensavano che ce l’avevano fatta. L’unica possibilità che avevano era rimettersi al lavoro e produrre un nuovo album. La situazione generò parecchie tensioni, che i quattro iniziarono a scaricare l’uno sull’altro, alimentando le voci di un imminente scioglimento. Per fortuna queste dicerie furono sufficienti a farli ragionare e a spingerli a raggiungere una tregua. In fin dei conti, erano tutti sulla stessa barca. Poi arrivarono a un accordo con la Trident, che accettò di liberarli dagli obblighi contrattuali in cambio di una compensazione una tantum di centomila sterline, più l’un percento dei diritti d’autore sui loro sei album successivi. Non che i Queen avessero le risorse per liquidare i fratelli Sheffield, ma almeno erano liberi di firmare un nuovo contratto con la EMI nel Regno Unito e l’Elektra negli USA. Se la sarebbero cavata, con un piccolo aiuto dei loro amici. L’agosto del 1975 li vide provare i brani per il quarto album, «A Night at the Opera», in una dimora in affitto nell’Herefordshire. Il titolo era tratto da
una commedia dei fratelli Marx (Una ( Una notte all’Opera) all’Opera) che loro adoravano. Poi si trasferirono ai Rockfield Studios, che sarebbero quindi diventati leggendari per avere ospitato la seduta di registrazione della traccia di fondo di Bohemian Rhapsody . Quando Freddie propose l’idea per il brano agli altri, ricordò Brian, «sembrava che ce l’avesse già tutto in mente». Il pezzo era un’impresa epica e comprendeva un’introduzione a cappella, una sequenza strumentale di pianoforte, chitarra, basso e batteria, un interludio pseudolirico e un finale rock. Sembrava presentare problemi tecnici insormontabili. «Non avevamo idea di come [Freddie] intendesse legare tutti quei pezzi insieme», raccontò Brian. La canzone portava in vita una serie di personaggi oscuri: Scaramouche, una maschera della commedia dell’arte; l’astronomo Galileo; Figaro, il protagonista del Barbiere di Siviglia e delle Nozze di Figaro di Figaro di Beaumarchais, un testo dal quale furono tratte opere di Paisiello, Rossini e Mozart; Belzebù, che il Nuovo Testamento identifica con Satana, principe dei demoni, ma che anticamente era definito il «signore delle mosche» oppure il «signore delle dimore celesti». Dall’arabo c’era il termine «bismillah», tratto da un versetto del Corano: «bismi-llahi r-rahmani r-rahiim», che significa «in nome di Dio clemente, misericordioso». Nel 1986, durante una festa nella sua suite a Budapest, esposi a Freddie la mia teoria su questi personaggi di Bohemian Rhapsody . Scaramouche era Freddie, vero? L’avevo intuito dal suo ritorno al tema del pagliaccio triste nel brano It’s a Hard Life. Life. Galileo Galilei, astronomo, matematico e fisico del Cinquecento, nonché padre della scienza moderna, era evidentemente Brian. Belzebù era altrettanto chiaramente Roger, il festaiolo del gruppo, con un diavolo in serbo («a («a devil put aside») aside») per il suo amico. Il mio ragionamento si faceva un po’ forzato per il riferimento a John, «il timido», che vedevo rappresentato da Figaro, ma non tanto il personaggio lirico, quanto il gattino bianconero della Disney che compare nel Pinocchio del de l 1940. In fin dei conti, Freddie adorava i gatti. Forse mi sbagliavo, ma come diceva Freddie, ogni ipotesi era concessa. Lui non aveva mai spiegato a nessuno il significato di Bohemian Raphsody , e aveva persino dichiarato al suo amico DJ Kenny Everett che il testo era solo «un insieme casuale e insensato di riferimenti in rima». Perché mai avrebbe dovuto svelarlo a me?
Non mi aspettavo che lo facesse e infatti si limitò a fissarmi con un sorrisetto enigmatico. La registrazione del brano, che pareva non avere mai fine, stancò tutti i presenti, anche per le ripetute sovraincisioni di cantato sul nastro. «La gente la ricorda come una registrazione leggendaria», disse Brian, «ma se mettevi il nastro controluce quasi ci vedevi attraverso! Ogni volta che Freddie aggiungeva un altro ‘Galileo’, ne perdevamo un pezzo.» Agli studi Sarm East e Scorpio di Londra, cominciò poi un lungo processo di sovraincisione, non privo di incidenti, come ricordò Robert Lee, artista e amico della band. «Avevo appena cominciato a registrare con Levinsky e Sinclair [un duo scritturato dalla Charisma di Tony Stratton-Smith e conosciuto grazie al Kenny Everett Show]», Show]», ricordò Lee, che oggi cura il sito ufficiale degli Who. «Freddie era amico di un mio coinquilino e di solito il venerdì mattina andavamo in cerca di pezzi di antiquariato al mercato di Portobello. Aveva un gusto impeccabile: ho ancora due stampe cinesi che mi ha convinto a comprare mentre cercavo un regalo per mia madre... me le sono riprese dopo che è morta. «John Sinclair [che oggi è diventato un rabbino e abita a Gerusalemme] era il proprietario dei Sarm Studios in fondo a Brick Lane. C’era anche sua sorella Jill, che Dio la benedica.» (Jill sarebbe poi rimasta vittima di un tragico incidente.) «C’erano i Queen che mixavano Bohemian Rhapsody . Roy Thomas Baker al timone. Freddie & company al mixer. Era un megamix di ventiquattro piste, con bobine di lavoro [con submix di tracce su cui sovraincidere], premix e prove di mixaggio. Per cui moltissimi fader dovevano essere accuratamente regolati in tempo reale, ed era davvero difficile. Passarono ore e ore cercando di trovare il giusto mixaggio, ma senza riuscirci. Poi, miracolo, eccolo lì. Tutto che si incastrava alla perfezione. C’erano riusciti, erano quasi alla fine. Erano tutti tesi per la troppa adrenalina, ma felicissimi. Poi, all’improvviso, si spengono le luci... ed entra Jill, con un’enorme torta piena di candeline e cantando ‘Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri caro Freddie…’ e dovettero ricominc ricominciare iare tutto da capo!» «Is this the real life... is this just Battersea» Battersea» («È questa la vita reale, o è solo Battersea»), canta Allan James sorridendo. «Bohemian « Bohemian Rhapsody
generò parodie fin dall’inizio: il miglior complimento che potesse ricevere. Con quel singolo da sei minuti i Queen cambiarono la storia.» «Quella registrazione è un’autentica opera d’arte», afferma Frank Allen, bassista dei Searchers, «di gran lunga superiore a quasi tutti i brani prodotti al tempo. Il modo in cui avevano sovrainciso tutte le parti in un’epoca in cui c’erano solo apparecchiature analogiche a ventiquattro piste – che erano tante allora ma che sono pochissime e limitanti oggi – è incredibile. Bohemian Rhapsody è è stato il loro tour de force. Anche ripensandoci adesso è pazzesco quel che sono riusciti a fare. Ogni nuovo strato di armonie voleva dire una perdita di qualità del suono. La differenza fra successo e disastro era minima, ma loro sono riusciti lo stesso a tirar fuori un pezzo geniale.» Nel 1975, le somiglianze fra Freddie Mercury ed Elton John non erano subito apparenti. Nessuno poteva certo sapere che sedici anni dopo Elton sarebbe stato uno degli ultimi a tenere la mano del cantante al suo capezzale. I due si erano incontrati di sfuggita verso la fine degli anni Sessanta, quando Freddie era andato a vedere un concerto del cantante-pianista al famoso Crawdaddy Club di Richmond, nel Surrey. Il ritrovo era rinomato in tutto il mondo per avere ospitato i migliori artisti blues americani e per avere lanciato i Rolling Stones. Fondato dal regista Giorgio Gomelsky verso la fine del 1962 in un locale all’interno dello Station Hotel, Hotel, di fronte alla stazione ferroviaria di Richmond, il club si era poi trasferito nel più ampio complesso di atletica nella medesima località. Il Crawdaddy aveva ospitato i primi concerti di Eric Clapton con gli Yardbirds, dei Led Zeppelin e di Rod Stewart, ed era esattamente il genere di locale in cui Freddie aspirava a esibirsi. Era forse quello che sognava mentre posava nudo nel corso serale di disegno dal vero, per dieci sterline la settimana. Chi li conosceva entrambi, sapeva che Elton e Freddie avevano molti strani punti in comune. Da piccoli entrambi erano stati molto legati alla madre; tutti e due erano stati bambini solitari e sensibili, e avevano studiato il pianoforte fin dalla tenera età. Sia l’uno che l’altro aveva cambiato nome: Elton da Reginald Kenneth Dwight a Elton Hercules John (e come Freddie, anche lui aveva scelto il nome di un personaggio mitologico). Anche la strada di Elton verso il successo era stata lunga e tortuosa, e segnata da
ostacoli. Entrambi avevano avuto difficoltà ad accettare il proprio aspetto e avevano adottato un look eccentrico (nel caso di Elton, occhiali con montature bizzarre, scarpe con le zeppe, abiti piumati e sfrangiati) per nascondere la loro presunta bruttezza. Tutti e due erano confusi, a dir poco, sulla loro sessualità. Secondo James Saez, proprio la sessualità era la chiave della creatività di entrambi. «Negli anni Settanta cosa poteva esserci di più conflittuale dal punto di vista vista psicolog psicologico ico,, che l’essere omosessuale omosessuale e cercare cercare di mettersi a nudo senza… be’, mettersi a nudo?» domanda. «Mi sembra abbastanza plausibile che Elton abbia creato il suo personaggio, con quei costumi stravaganti e i gesti teatrali, proprio per gestire quel dilemma interiore e al tempo stesso aprirsi al mondo. Presumo che ‘Farrokh’ avesse un problema simile. La cosa che mi ha sempre colpito di lui era che, per quanto apparisse forte e carismatico, in un certo qual modo era anche fragile, quasi sprovveduto.» Nella vita di Elton, come in quella di Freddie, c’erano state delle fidanzate e anche quella che al mondo esterno era apparsa come una relazione convenzionale. Si dice che la fonica tedesca Renate Blauel sia tuttora addolorata dal fallimento del suo breve matrimonio con Elton nel 1984. Il cantante ha dichiarato di essere gay nel 1988 e nel 2005 ha contratto un’unione civile con il regista David Furnish; la coppia ha avuto anche un figlio, Zachary Jackson Levon Furnish-John, nato da una madre surrogata il giorno di Natale del 2010. Freddie ed Elton divennero amici e svilupparono le rispettive personalità in parallelo. Con il passare degli anni divennero sempre più dipendenti l’uno dall’altro. «Elton è un tipo tosto, vero?» osservò Freddie. «Lo adoro. Secondo me è favoloso. Per me è come una di quelle grandi attrici hollywoodiane, quelle che valevano ancora qualcosa. È stato un pioniere del rock’n’roll. Fin dalla prima volta che lo conobbi era magnifico, il genere di persona con cui vai subito d’accordo. Mi disse che gli era piaciuta Killer Queen, Queen, e chiunque dica una cosa del genere finisce subito sul mio ‘libro bianco’. Il mio ‘libro nero’ è pieno da scoppiare!» Tuttavia presto sarebbe emersa un’affinità più tragica fra i due cantanti. Come affermò uno psicoanalista riferendosi a Elton in Tantrums and
Tiaras, Tiaras, il documentario per la televisione diretto dal compagno David Furnish: «È un tossicodipendente nato; con una personalità ossessivocompulsiva. Se non è l’alcol, è la droga, se non la droga il cibo, se non il cibo le relazioni e se non le relazioni lo shopping. E sai cosa ti dico? Credo che [Elton] sia dipendente da tutte e cinque le cose». Un terribile verdetto che Elton non smentì. E il suo coraggio per avere accettato che fosse trasmesso in televisione fu ricompensato da un’enorme impennata di popolarità. Elton era lo specchio di ciò che Freddie divenne verso la metà degli anni Ottanta, quando il peso della fama e degli eccessi a essa legati cominciarono a farsi sentire sempre di più. Nel 1975, però, la cosa più importante che i due avevano in comune era un esuberante e suberante giovanotto di origini origini scozz scozzesi: esi: John J ohn Reid. Originario di Paisley, a soli ventisei anni Reid era diventato un potente magnate della musica e sedeva al vertice di un’azienda che valeva quaranta milioni di sterline; un traguardo che aveva raggiunto per vie traverse. La sua vita professio professionale, nale, infatti, infatti, era iniziata iniziata in un negozio negozio di abbigliamento abbigliamento per uomo, dove aveva lavorato come commesso. Poi era entrato nell’industria musicale cominciando dal basso, come promotore discografico. Estremamente ambizioso, aveva fatto rapidamente carriera coltivando diverse amicizie importanti e a soli ventun anni era diventato il manager di Elton John, nonché suo amante e convivente per circa cinque anni. Reid era un altro incerto sulla propria sessualità: nel 1976 infatti, anche se solo per un breve periodo, e si fidanzò con Sarah Forbes, una giovanissima pubblicitaria che lavorava negli uffici della sua Rocket Records. Sarah è figlia del regista Bryan Forbes e dell’attrice Nanette Newman. È sopravissuta alla separazione e ha poi sposato l’attore John Standing (alias Sir John Ronald Leon Standing, quarto baronetto di Bletchley Park). Il rapporto professionale di Reid con Elton durò invece ventotto anni, ma terminò fra astio e recriminazioni. Nel 2000 il cantante diede inizio a una battaglia legale multimiliardaria contro il suo ex manager, sostenendo che questi aveva gestito male i suoi interessi. Sempre nel 1975, Elton si unì a un altro scozzese che tentava di farsi un nome: Rod Stewart. I due decisero di coprodurre un album per Long John Baldry, con cui avevano collaborato in precedenza: volevano ravvivare la sua
carriera oramai in declino. Fu durante le sedute di registrazione per quell’LP che iniziarono a darsi soprannomi femminili, riprendendo una vecchia abitudine del teatro. Elton fu ribattezzato ribattezzato «Sharon Cavendish», un nome che avrebbe poi usato abitualmente in tournée. Rod divenne «Phyllis», come l’attrice Phyllis Diller. Baldry diventò «Ada» e John Reid «Beryl», in omaggio all’attrice inglese Beryl Reid. Quando Freddie scoprì la cosa, volle parteciparvi e divenne «Melina», come l’attrice greca Melina Mercouri. Cliff Richard era «Silvia Disc», per via di tutti i dischi venduti. Neil Sedaka, per ragioni simili, era «Golda Disc». Più avanti, Freddie avrebbe esteso il gioco a tutto il suo entourage. Il suo assistente personale era chiamato «Phoebe» (Peter Freestone), il suo ex amante e successivamente cuoco era «Liza» (Joe Fanelli) e il suo manager personale Paul Prenter era «Trixie». Nemmeno gli amici e gli altri membri della band sfuggirono: Brian era «Maggie», come il successo di Rod Stewart Maggie May . Roger era «Liz», come Elizabeth Taylor. David Nutter, fratello del famoso sarto Tommy Nutter, era «Dawn», e Tony King, assistente di Mick Jagger e grande amico di Freddie, divenne «Joy». Mary Austin, per ribaltare le cose, era «Steve», come il Steve Austin della serie televisiva L’uomo da sei milioni di dollari. dollari. Le spiaceva essere chiamata così? «Nessuno aveva il permesso di permesso di spiacersi!» rispose ridendo «Phoebe». «Se uno aveva un soprannome voleva dire che era stato accettato nel gruppo. John Deacon non ne ha mai avuto uno, strano. Forse perché era così timido…» Dopo il semiritiro dalle scene di Elton e dopo sei anni di duro lavoro in giro per il mondo, John Reid, che oltre a gestire gli interessi della star dirigeva anche la sua etichetta personale, la Rocket Records, era in cerca di nuove direzioni in cui espandere il suo impero. Per questo colse al volo la possibilità di gestire i Queen. Sebbene vi fossero altri candidati per il posto (Peter Grant dei Led Zeppelin, Harvey Lisberg dei 10cc e Peter Rudge, tour manager degli Who, fra gli altri), la band arrivò a scegliere Reid per eliminazione. Non era proprio una soluzione ideale, anche se Reid, appena ottenuto l’incarico, lasciò tutti di stucco trovando subito le centomila sterline necessarie per liquidare la Trident. In realtà lo scozzese non fece altro che chiedere alla EMI un anticipo sui futuri diritti d’autore della band.
Per tornare a Bohemian Rhapsody , Elton confessò a Reid che a suo avviso il brano sarebbe stato un fiasco. Anche la EMI e l’industria della musica in generale espressero riserve. Le radio si domandarono che diavolo dovessero fare con un singolo che durava ben sei minuti. Persino John Deacon manifestò qualche timore, seppur in privato, sostenendo che far uscire Bohemian Rhapsody come come singolo fosse il più grande errore strategico della loro carriera. Tutto sommato, fu un inizio abbastanza incerto per un brano che sarebbe entrato nella storia della musica, imponendosi come un grande classico del rock di tutti i tempi. Persino quelli che già all’epoca ne riconobbero l’importanza esitarono a esprimersi, dato che il pezzo segnava una frattura radicale dalle regole della canzone rock. Che cosa ispirò Freddie a comporre un brano del genere? Ascendente e decadente, pieno di tormento ed estasi, il pezzo è un miscuglio impossibile di barocco e ballata, di varietà e rock; una serie di spezzoni incongruenti tenuti insieme da cacofoniche schitarrate, sequenze classiche di pianoforte, impetuosi arrangiamenti orchestrali e cori ricchi e sfaccettati. Il tutto inciso e sovrainciso al punto che può talvolta risultare insopportabile, a seconda dell’umore dell’ascoltatore. Credo che ci siano pochissimi fan del rock sul pianeta che non lo conoscano a memoria. «Anche se è un pezzo incredibile e rivoluzionario, oggi mi ha stufato», ammette Phil Swern, produttore di Radio 2 e collezionista di dischi. «Viene trasmesso con allarmante regolarità alla radio. È stato passato e ripassato fino alla nausea. Eppure nessuno può negare che sia un’opera eccelsa e intelligente. Dura quasi sei minuti e infrange ogni singola regola della canzone rock. Che cosa gli si avvicina? Sempre i Beatles con A Day in the Life [l’ultimo brano dell’album «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band» del 1967, che dura 5’03”]. Stairway to Heaven Heaven dei Led Zeppelin [8’02”; il brano più richiesto alla radio negli Stati Uniti, anche se non uscì mai come singolo in quel Paese] e McArthur Park [7’21”] Park [7’21”] di Jimmy Webb, registrato da Richard Harris». «Se ti allontani abbastanza nel tempo rivedi tutto sotto una nuova prospettiva», osserva Paul Gambaccini. «Oggi è difficile entusiasmarsi per un brano rock o pop che dura tre minuti e mezzo, quando in passato sono usciti capolavori lunghissimi come Bohemian Rhapsody , McArthur Park, Park, Hey Jude, Jude, Light My Fire e American American Pie. Pie. Oggi nessuno aspira più a raggiungere quei livelli. Possiamo quindi
guardarci indietro e vedere che si è trattato di autentici traguardi artistici. Don McLean non scrisse Ameri scrisse American can Pie con l’intenzione di farne un singolo, non poteva nemmeno immaginarla come un singolo: durava otto minuti e mezzo! Fu la casa discografica a dividerla in due. Don era un vero artista e non pensava che Ameri che American can Pie sarebbe Pie sarebbe diventata una hit. Ovvio che era un capolavoro, ma la inserì nel suo album come un pezzo qualsiasi. Lo stesso dicasi per Bohemian Rhapsody , che era l’ultima traccia di «‘A Night at the Opera’». Opera’». «Okay, sì, l’ha scritta Freddie», prosegue Gambaccini, «ma Brian ci ha messo quell’incredibile assolo di chitarra in mezzo, Roger ci ha messo gli acuti e anche John ha dato il suo contributo, ovvio. Quando si collabora così, si lavora benissimo. I Queen l’hanno sempre fatto, anche per le loro composizioni individuali. Sono sicuro che è questo che li ha tenuti insieme negli anni. C’è voluta la genialità di Kenny Everett per capire che Bohemian Rhapsody sarebbe sarebbe diventata un classico.» Originario di Liverpool e amico intimo di Freddie, oltre che dei Beatles, Kenny Everett, conosciuto come «Ev», divenne famoso come DJ radiofonico e presentatore televisivo, conducendo i programmi Kenny Everett Video Show e Kenny Everett Television Show. Show. Nel 1989 risultò sieropositivo e nel 1995 morì per una patologia correlata all’AIDS; aveva cinquant’anni. Nel 1966, sposò la cantante pop «Lady Lee» Middleton, ex fidanzata del cantante Billy Fury (che poi divenne un medium e guaritore spirituale con lo pseudonimo di Lee Everett Alkin). La coppia si separò nel 1979, quando Everett rivelò di essere omosessuale. Si ritiene che il DJ fu contagiato da Nikolai Grishanovitch, un libertino di origine russa, tristemente noto negli ambienti gay londinesi («Quel coglione egoista di Nikolai!») per avere contribuito più di chiunque altro a diffondere l’HIV nella città all’inizio degli anni Ottanta. L’ex soldato dell’Armata Rossa, a sua volta morto per AIDS nel 1990, talvolta è additato come colui che ha contagiato anche Freddie, seppure secondo molti sia stato invece lo scomparso Ronnie Fisher, ex addetto stampa della CBS/Sony. «Penso che le date della ‘teoria Nikolai’ non combacino», osserva Gambaccini. «Non mi pare di averlo conosciuto prima dell’anno in cui partì la campagna di sensibilizzazione sull’AIDS [1987], perché mi ricordo che lo incontrai con Freddie quando la pubblicità stava per uscire. Uno o due anni
dopo, Freddie ha poi mostrato i primi sintomi della malattia. Se pensi che di norma ci vogliono dieci anni fra il momento del contagio e l’insorgere dei primi sintomi, si capisce che non era passato abbastanza tempo. Inoltre sapevo che Freddie aveva avuto una vita ‘dissoluta’, per usare un termine che piacerebbe a mia madre, verso la fine degli anni Settanta, il che combacerebbe perfettamente con i tempi di incubazione. Certo, non è da escludere del tutto che sia stato Nikolai, ma è molto improbabile.» «Non so dove si siano conosciuti», aggiunge, «ma non mi sorprenderebbe se fosse stato al Coleherne di Earl’s Court. Era uno dei pub preferiti di Freddie [l’altro era il London il London Apprentice di Shoreditch] ed era a due passi da casa sua. È da quel pub che l’HIV è entrato a Londra, portato da un americano, si dice. Tutti quelli che frequentavano quel giro si sono ammalati.» Dato che Ev e Freddie erano esponenti di spicco della medesima scena gay e che frequentavano lo stesso ambiente musicale, era inevitabile che le loro strade si incrociassero. «Non ho mai pensato che Freddie e Kenny fossero amanti», afferma Gambaccini. «Se lo fossero stati, tutti l’avrebbero saputo nella nostra cerchia. E non l’ho mai pensato perché a livello sessuale erano troppo simili. Certo, questo non esclude un’avventura di una notte, ma non è un’idea che mi convince. Per dirla con franchezza, erano ridicoli insieme.» Everett giocò un ruolo fondamentale nella diffusione di Bohemian Rhapsody come singolo. Fu il primo DJ a passare il brano alla radio prima che uscisse ufficialmente. Aveva ricevuto un demo con il divieto categorico di trasmetterlo: Freddie voleva solo che lo ascoltasse e gli desse la sua opinione. Everett invece lo trasmise subito, per ben quattordici volte, durante il fine settimana, ogni volta dicendo che gli era «scappato il dito». La sua faccia tosta contribuì a portare il brano all’attenzione degli ascoltatori londinesi, mentre la cosa non è altrettanto certa su scala nazionale. «Nel 1975 facevo un programma quotidiano su Radio 1», racconta invece David «Diddy» Hamilton, riferendosi alla sua seguitissima trasmissione radiofonica, che arrivò ad avere sedici milioni di ascoltatori al giorno. «Il palinsesto prevedeva Noel Edmonds a colazione, Tony Blackburn a metà mattina, Johnnie Walker a pranzo e io dopo pranzo. Avevamo tutti un nostro ‘disco della settimana’. Ovviamente sarebbe stato molto facile scegliere gli Abba o i Bee Gees, dato che tutti i loro singoli diventavano
automaticamente dei successi. Ma a volte ti capita di pensare fuori dagli schemi. Quell’ottobre venne a trovarmi Eric Hall, il famoso promotore discografico. «Abitavo in un appartamento in Hallam Street, dietro il palazzo della BBC, e spesso mi portavano i dischi direttamente a casa», ricorda Diddy. «Quel giorno Eric arrivò da me con Bohemian Rhapsody , gridando: ‘Un mostro! Un mostro! Questo sarà un successone!’ Lo ascoltai ed era totalmente diverso da qualsiasi altro pezzo che avessi mai sentito. Era innovativo, lirico, saliva in alto e poi scendeva in picchiata e ti entrava sotto la pelle. Non riuscivo a smettere di canticchiarne dei pezzetti. In ufficio ebbe un’accogli un’accoglienza enza contrastata. Tony Blackburn disse che non lo capiva e nessun altro sembrò apprezzarlo molto. Rispetto alla disco music che girava all’epoca, That’s the Way I Like It di K.C. and the Sunshine Band e tutta quella roba lì, era un pezzo unico, diversissimo. Gli Stones erano una rock band tradizionale. Anche i Queen erano un gruppo rock, ma non per forza dei rocker. È diverso. «Dissi al mio produttore Paul Williams che volevo adottarlo come disco della settimana. Disse di sì. Poi si sa, la canzone andò al numero uno e ci restò per nove settimane: un record. Nel gennaio del 1976 aveva venduto più di un milione di copie qui e diversi milioni in tutto il mondo, e probabilmente è una delle più grandi canzoni di tutti i tempi. Mi piace pensare che ho contribuito a diffonderla. Ero molto orgoglioso dei brani che sceglievo come disco della settimana, e quello non mi deluse. Si dice che sia stato Kenny Everett a lanciarlo, rubandone una copia prima che uscisse, e trasmettendola all’infinito su Capital Radio. [Everett] si è preso il merito di avere fatto conoscere il pezzo al mondo. Di certo l’ha sostenuto, ma non esageriamo: in quei giorni Capital Radio trasmetteva solo a Londra; nessun altro in tutto il Regno Unito la prendeva. Radio 1 ha fatto conoscere il brano a livello nazionale, ma non ha mai ricevuto alcun riconoscimento per questo» Dopo la morte di Freddie, il singolo fu ristampato e tornò al numero uno, restandoci per cinque settimane. È il terzo singolo più venduto di tutto il Regno Unito ed è arrivato in vetta alle classifiche in molti altri Paesi. Negli Stati Uniti ha raggiunto il nono posto nel 1976 ed è poi tornato in classifica nel 1992 grazie all’enorme popolarità del film Fusi di testa, testa, con la famosa scena in cui i protagonisti lo cantano in macchina.
Il compianto Tommy Vance, uno dei più grandi nomi dell’etere inglese, presentatore di molte trasmissioni dedicate al rock su Capital Radio, Radio 1, Virgin Radio e VH1, descrisse Bohemian Rhapsody come «l’equivalente rock rock dell’assassinio dell’assassinio Kennedy». Kenne dy». «[Perché] tutti si ricordano che cosa stavano facendo quando l’hanno sentita per la prima volta. Io stavo trasmettendo il mio programma rock alla Capital. Quando l’ho sentita, ho pensato che fosse una canzone da manicomio. Era così oscura… ma anche magnifica: sarebbe per forza diventata un successo. Dal punto di vista tecnico, era un casino. Non seguiva nessuna convenzione o formula commerciale. Era solo una sequenza di sogni, flashback, flash forward, accenni, idee slegate. Cambia sequenza, colore, tono, tempo, senza apparente motivo, proprio come l’opera lirica. Ma il concetto di fondo era geniale: trasudava ottimismo. Aveva un certo non so che… una magia sorprendente. È stupenda. Ancora oggi è riverita come un’icona. Esiste una canzone paragonabile? Assolutamente no. Ma prova ad analizzare il testo di Bohemian Rhapsody e Rhapsody e scopri scoprirai rai che è senza senso.» Il paroliere Sir Tim Rice, vincitore di un Oscar e coautore di alcuni dei più grandi musical della storia, fra cui Joseph and the Amazing Technicolour Dreamcoat , Jesus Christ Superstar ed Evita, Evita, nonché coautore con Freddie dei brani per lo stravagante LP Barcelona, Barcelona, non è affatto d’accordo con quest’ultima quest’ultima affermazione. affermazione. «Per me è abbastanza ovvio che con quella canzone Freddie dichiarò la propria omosessualità al mondo», spiega. «Ne ho anche parlato con Roger. Fin dal primo ascolto ho notato che conteneva un messaggio molto chiaro. Era Freddie che in pratica diceva: ‘Vengo allo scoperto. Ammetto di essere gay’.» «Sì, all’inizio lo ammetteva solo con se stesso, ma poi, per forza di cose anche con il resto del mondo, perché il brano è diventato un successo. ‘Mama, I just killed a man...’ [‘Mamma, ho appena ucciso un uomo’]: ha ucciso il vecchio Freddie, la sua vecchia immagine. ‘Put a gun against his head, pulled my trigger, now he’s dead’ [‘Gli ho puntato una pistola alla testa, ho premuto il grilletto e ora è morto’]: è morto l’eterosessuale che era in lui. ‘Mama, life had just begun, but now I’ve gone and thrown it all away...’ [‘Mamma, la vita era appena cominciata, ma ora ho buttato tutto all’aria’]. Voglio dire… questa è solo la mia teoria, ma combacia. [Freddie]
ha sparato e distrutto l’uomo che prima cercava di essere, e ora è diventato se stesso e cerca di convivere con il nuovo Freddie. È un testo molto oscuro, ovvio, ma pensa al pezzo che fa: ‘I see a little silhouette of a man...’ [‘Vedo una piccola silhouette di un uomo’] È lui, perseguitato da quel che ha fatto e da quel che è. Per me è una spiegazione sensata. Anche dopo tutti questi anni ogni volta che sento la canzone alla radio penso a Freddie che cerca di abbandonare una personalità per abbracciarne un’altra. Ce l’ha fatta, secondo me? Credo che ci stesse riuscendo, e anche abbastanza bene. Freddie era un autore eccezionale e senza dubbio Bohemian Rhapsody è uno dei brani più belli del ventesimo secolo.» Dunque Bohemian Rhapsody rifletterebbe rifletterebbe la vita del suo autore? Freddie ha sempre evitato di dare spiegazioni. «Vuol dire questo, vuol dire quello... Tutti che vogliono sapere la stessa cosa», disse. «Che se ne vadano affanculo, tesoro. Non dirò una parola in più di quello che direbbe qualsiasi poeta rispettabile se osassi domandargli di analizzare una sua opera: se ci leggi una cosa, cara, allora c’è.» Secondo Brian, era fondamentale che il significato della canzone restasse oscuro. «Credo che non lo sapremo mai, e anche se lo sapessi probabilmente non te lo direi», spiegò. «Di certo non vado a raccontare in giro di che cosa parlano le mie canzoni. Trovo che questo per certi versi le distrugga, perché la cosa bella delle grandi canzoni è collegarle alla propria esperienza personale, alla propria vita. Di sicuro Freddie era afflitto da parecchi conflitti interiori e può darsi che li abbia riversati in quel pezzo. È sicuramente vero che voleva cambiare immagine, ma in quel periodo non era una buona idea, per cui credo che abbia deciso di farlo solo molto più tardi.» Forse Brian intendeva dire che Freddie lottava con se stesso perché temeva le inevitabili conseguenze di quella trasformazione: troncare la relazione con Mary e cominciare una nuova vita da omosessuale. L’idea lo terrorizzava, per cui continuava a rimandare. Aveva paura anche della reazione dei genitori. Dichiararsi omosessuale gli avrebbe semplificato la vita nel lungo termine, così come accadde a Kenny Everett, il quale non perse né i fan né la moglie ammettendo con onestà la propria natura sessuale. Come spiegò Lee Everett, la moglie del DJ: «Era quel che era, ma questo non mi ha impedito di amarlo ugualmente. Siamo rimasti vicini fino alla fine».
«Se Freddie si fosse dichiarato al mondo non sarebbe andata come per gli altri», osserva Simon Napier-Bell. «Non sarebbe stato come per George Michael, che l’ha ammesso solo quando è stato costretto a farlo e che comunque non era davvero una rockstar, ma solo un grande cantante pop. Se Freddie si fosse dichiarato gay avrebbe costretto un sacco di omofobi a guardare in faccia la propria ipocrisia. Sarebbe stato un passo più semplice di quel che credeva, perché per molti suoi amici lui era già omosessuale dichiarato e anche molto trasgressivo. «Quel che intendeva dire quando sosteneva di essere diverso in privato rispetto all’artista sul palco, era che doveva nascondersi perché la sua famiglia temeva che lui si dichiarasse pubblicamente omosessuale. Se l’avesse fatto fin dall’inizio, però, la sua morte, lunga e lenta, sarebbe stata accolta con riconoscenza dalla comunità gay. Gli omosessuali l’avrebbero usata in modo positivo, l’avrebbero trasformata in un evento magnifico, in una tragedia da show business; avrebbero fatto di lui la nuova Judy Garland. E probabilm probabilmente ente lui si sarebbe pure divertito!» divertito!» Forse Bohemian Rhapsody era davvero un’allegoria in cui il nuovo Freddie, finalmente libero, uccide la sua incarnazione precedente e abbraccia il suo autentico sé. Frank Allen, il bassista dei Searchers, concorda: «Però potrebbe anche parlare di tutt’altro. Non lo so per certo, non gliel’ho mai chiesto. Quando hanno chiesto a Don McLean di spiegare il significato di American American Pie, Pie, lui ha risposto: ‘Significa che non dovrò mai più lavorare’. Forse in realtà Bohemian Rhapsody contiene una verità più semplice e immediata, ma non sono abbastanza intelligente per giudicare. Mi accontento di godermela perché è una canzone costruita alla perfezione: una suite in tre parti con tempi, chiavi e umori diversi, proprio come i brani classici. Nel pop era un’assoluta novità». Ma, come osservò Tommy Vance, ciò che comprovò davvero il valore di Bohemian Rhapsody non non furono né il suo testo innovativo né le sue melodie impazzite. Non furono le infinite discussioni sul suo significato a trasformarla in successo, né gli infiniti passaggi alla radio. Fu la televisione.
12 Il successo successo
Bohemian Rhapsody fu Rhapsody fu uno dei primi primi video a ricevere l’attenzione che oggi si riserva loro, e costò solo cinquemila sterline circa. circa. Avevamo deciso che dovevamo d ovevamo mettere Rhapsody su su video per farla vedere alla gente. Non sapevamo come l’avrebbero accolta. Per noi era solo un’altra forma di teatro. Ma fu un successo. Capimmo che con il video potevi raggiungere un sacco di persone in moltissimi Paesi, senza andarci di persona, persona, e che potevi far uscire uscire un disco e un video in contemporanea. contemporanea. Tutto divenne molto molt o più veloce e incrementò le vendite in maniera esponenziale. esponenziale. FREDDIE MERCURY Per ogni grande artista arriva il suo momento, ma lui dev’essere pronto pronto a coglierlo. coglierlo. […] Dev’essere pronto a prendere prendere la palla palla al balzo e a non lasciarsela scappare. Se ci azzecca, può fare una canzone che commuove ogni singolo ascoltatore, uomo, donna o bambino. I sentimenti sono universali, universali, la l a canzone ti si infila sotto la pelle e ci resta per sempre. Il genio, la magia, è nel creare una cosa del genere e poi riuscire a diffonderla, a renderla entusiasmante entusiasmante e carica di significati. significati. Non N on serve a nulla avere idee geniali e t enersele per sé. JONATHAN MORRISH
«FU il primo successo generato dalle immagini», sostiene Allan James.
«Prima, i video usati dai Beatles e altri erano solo dei piccoli cortometraggi che accompagnavano la musica. Nessuno sapeva come classificare i Queen, ecco perché ci volle il video per lanciarli davvero in alto. Da quel momento in poi non fu più possibile liquidarli come una rock band bizzarra ed eccentrica. I Queen costrinsero l’industria intera a imboccare una nuova strada.» «Il successo di Bohemian Rhapsody obbligò obbligò Top of the Pops a dargli una possibilità», ricorda Vance. «Perché se un pezzo entrava tra i primi trenta, dovevano trasmetterlo. E più lo trasmettevano, più saliva. La cosa incredibile è che il video, diretto da Bruce Gowers e prodotto da Lexi Godfrey per la Jon Roseman Productions, era costato solo cinquemila sterline.» Il promo avrebbe segnato una svolta nella carriera di Gowers, che divenne poi un famoso produttore e regista di speciali dedicati alla musica lavorando, fra gli altri, con Michael Jackson, Rolling Stones, Paul McCartney, Britney Spears, Robin Williams, Billy Crystal e Eddie Murphy, e finendo per dirigere dal vivo Ameri vivo American can Idol , l’ X X Factor F actor d’oltreoceano. «Gowers stava filmando un concerto della band agli Elstree Studios», ricorda Vance, «e girò il video di Bohemian Rhapsody il giorno stesso, in quattro ore soltanto. Ci mise dentro un sacco di idee. Usò dei prismi, per esempio, per creare gli effetti speciali, molto prima dell’avvento dei computer. Fu ispirato dall’album: conteneva così tanti spunti creativi che scatenò la sua fantasia. Ma il concetto fondamentale si basava sulla copertina di un precedente disco dei Queen.» Ossia quella di «Queen II» (1974), che ritrae i volti dei quattro membri del gruppo su fondo nero con un contrasto marcato; solo Freddie appare con le mani incrociate come due ali sul petto. L’idea della foto era stata di Mick Rock. «Le indicazioni per quella copertina erano molto concise», racconta Rock. «Volevano una copertina pieghevole, con un tema in bianco e nero. Doveva esserci la band. Tutto il resto era un problema mio. Potevo fotografarla e disegnarla come volevo. Per caso avevo appena fatto amicizia con John Kobal, che era un collezionista di foto dei primi film di Hollywood.» Kobal, storico storico e autore canadese canade se di d i origini origini austriache, austriache, era stato una figura figura di spicco nell’epoca d’oro di Hollywood. «In cambio di un servizio fotografico John mi regalò alcune immagini
della sua collezione», spiega Rock. «Fra cui una che non avevo mai visto prima, di Marlene Dietrich nel film Shanghai Express. Express. Aveva le braccia conserte e indossava un abito nero su uno sfondo nero; la foto aveva una luce stupenda. Il capo piegato e le mani la facevano sembrare come se fluttuasse nello spazio. Vidi subito un nesso. Era un’idea viscerale, una questione di intuito. Molto forte. Molto chiara. Affascinante, misteriosa e classica. L’avrei trasformata in un mostro a quattro teste. Gli sarebbe piaciuta. Quindi andai da Freddie e lui capì subito la mia idea, gli piacque all’istante e convinse gli altri. ‘Io sarò Marlene’, disse ridendo. ‘Che idea deliziosa!’» Freddie fugò le riserve degli altri membri del gruppo, che temevano che l’immagine sarebbe risultata troppo presuntuosa. «Amava citare Oscar Wilde», spiega Rock. «‘Spesso ciò che oggi è considerato pretenzioso, domani è considerato all’avanguardia. La cosa importante importante è essere conside considerati rati.’» .’» E così la copertina di «Queen II» ispirò il video di Gowers, che prese l’immagine, la elaborò e la portò alle estreme conseguenze. La band capì che il nuovo medium era uno strumento promozionale di fondamentale importanza, dato che era impossibile suonare il brano per intero nei concerti. «Fu il primo disco che balzò in primo piano grazie a un video», commenta Vance. «Oggi ai Queen viene attribuito il merito di essere stati il primo gruppo a produrre un video surrealista, ma non è del tutto vero. Mi pare che i Devo li precedettero.» Band americana post-punk e art rock, i Devo si formarono nel 1973 e furono fra i pionieri del videoclip. «Ma i Queen furono sicuramente la prima band a creare un ‘concept video’, con immagini immagini che coglievano coglievano il senso della loro musica musica alla perfezione. E devo dire che non era solo merito di Freddie. La canzone era la canzone, ma l’interpretazione visuale la trasformò in quel che divenne, perché ogni volta che nella canzone si sente un’eco, nella mente dell’ascoltatore si riverberano le immagini del video. Canzone e video sono diventati indivisibili. Ora non puoi più ascoltarla senza che ti vengano in mente le immagini del video. Si può dire che Bohemian Rhapsody è è stato il primo singolo in assoluto a essere ‘visto’ ovunque.» Appleton ricordò l’entusiasmo generale quando il promo arrivò negli studi di OGWT .
«Davvero un’idea magnifica», disse. «Rimasi ipnotizzato. Non dovevamo fare nulla, solo trasmetterlo così com’era. Freddie mi incantò. Mi accorsi che non c’era mai stato nessun altro come lui prima di allora. Né dopo peraltro... Con Bohemian Rhapsody Freddie maturò: all’improvviso sembrò l’unico adulto in un business dominato da ragazzini viziati e petulanti. I Queen sapevano il fatto loro ed erano dei veri signori. Non ho mai conosciuto un’altra band che lavorasse con tanto impegno.» Di primo acchito Brainsby trovò il singolo «bizzarro». «Tutti lo pensarono. Mi piacque subito, ma senza sapere il perché. Per me fu un momento di svolta. Li avevo presi quando erano praticamente sconosciuti e li avevo accompagnati su, su, fino a creare uno dei più grandi successi di tutti i tempi. Mi sentivo come uno che è appena diventato padre.» L’entusiasmo di Brainsby, però, ebbe vita breve. I nuovi accordi della band con John Reid rendevano la sua posizione insostenibile. «Reid rese difficile la mia collaborazione con i Queen. Preferiva usare i suoi collaboratori interni. Era impossibile continuare.» In futuro Brainsby avrebbe di nuovo lavorato per i Queen, ma in quel momento la band era entrata e ntrata oramai nell’orbita nell’orbita dell’uomo che controllava controllava la più grande star del mondo, il cantante che aveva fatto volare il «Rocket Man». «A Night at the Opera» uscì il 21 novembre 1975 e fu lanciato con una festa smisurata. Questo, ricorda Gambaccini, «era il modo di Reid per dire: ‘Ecco: adesso i Queen giocano nello stesso campionato di Elton John’. Reid sapeva benissimo quanto valesse quella band, ma non si rendeva conto quanto fosse stato fortunato a subentrare in quel particolare momento. Se mai c’è stato un momento ideale per lavorare con i Queen, era proprio appena prima prima dell’usc de ll’uscita ita del de l quarto album». Rapporti professionali a parte, Gambaccini strinse un rapporto di amicizia che, almeno nel caso di Freddie, sarebbe durato tutta la vita. «Erano un perfetto esempio di musicisti che hanno capito le regole di questo pazzo gioco. Sapevano che era un business. Non si aspettavano di diventare i migliori amici l’uno dell’altro. Sapevano che dovevano solo andare d’accordo e rispettarsi a vicenda. Questo atteggiamento rilassato e
imparziale gli ha permesso di superare certe difficoltà che nel caso di altre band hanno portato allo scioglimento. «Freddie era quello con cui avevo più confidenza. Andava dritto al punto, sempre molto diretto e personale; niente chiacchiere inutili. In parte, cred credoo che diventammo amici amici perché ero e ro anch’io nel giro gay del rock.» rock.» Forse Freddie invidiava Gambaccini per il suo coraggio di dichiararsi apertamente omosessuale, perché in fondo desiderava fare lo stesso. «Forse… Una volta mi disse: ‘Un giorno faremo un’intervista e lo diremo a tutti’. Non successe mai. Ma ti dirò che altre volte mi fece sentire uno sprovveduto», prosegue, riferendosi alla promiscuità sessuale di Freddie, molto più sfrenata della sua. «Era come se lui fosse il ‘vero’ omosessuale tra noi due. Io lo ammettevo apertamente, mentre lui lo teneva per sé, ma sotto sotto era un gay con la ‘G’ maiuscola. A confronto, io ero un dilettante.» Cinque giorni dopo il lancio, Bohemian Rhapsody divenne la prima numero uno dei Queen. La band festeggiò in grande stile con un breve tour di ventiquattro date, incluso un elettrizzante concerto all’Hammersmith all’Hammersmith Odeon la vigilia di Natale, trasmesso sia da OGWT sia da Radio 1. Tre giorni dopo anche l’album arrivò al primo posto in classifica, diventando disco di platino, con oltre duecentocinquantamila copie vendute, vendute , un numero che raddoppiò raddoppiò nel giro giro di poche poche settimane. settimane. Sarebbe anche rimasto nella classifica americana per cinquantasei settimane. E il nuovo anno portò ulteriori riconoscimenti, incluso un altro Ivor Novello per Bohemian Rhapsody . Con un gesto per lui inconsueto, il parsimonioso Reid comprò uno spazio pubblicitario sulla rivista Sounds per congratularsi del successo con i suoi «ragazzi». Era ora di pianificare una seconda tournée americana, questa volta come grandi rockstar. Sarebbe stata la più estenuante fino ad allora, con date quasi in ogni stato e sotto la guida di un nuovo tour manager, Gerry Stickells. Fu una nomina fortunata: in passato Stickells aveva lavorato per la Jimi Hendrix Experience (prima come roadie, poi come tour manager) e sarebbe rimasto con i Queen fino alla fine. Si dice che fosse con Hendrix la sera in cui questi morì, sebbene la tragedia sia avvolta dal mistero e Stickells non ami parlarne. Fu proprio durante quella colossale tournée americana che i Queen perfezionarono l’arte degli afterparty . Da allora in poi le loro feste sarebbero
state famose come le migliori nell’ambiente. Ovunque si esibissero, i quattro invitavano pezzi grossi e celebrità del luogo a partecipare ai loro baccanali. Il giornalista Rick Sky, che ha pubblicato un suo tributo personale a Freddie, The Show Must Go On, On, poco dopo la morte del cantante, ricorda una «festa tranquilla e moderata» per celebrare il successo di un concerto al Madison Square Garden di New York. «Mi invitarono a New York per un’intervista in esclusiva con Freddie e lo raggiunsi nel backstage», racconta Sky. «C’erano decine di cameriere in topless con magnum di champagne che ti riempivano il bicchiere di continuo. Nessuno poteva restare a secco. Freddie indossava una canottiera bianca e teneva un bicchiere di champagne in una mano e una sigaretta nell’altra. Sembrava rilassato. Mi disse che il segreto della felicità era vivere la vita fino in fondo. ‘Gli eccessi fanno parte della mia natura’, disse. ‘Per me la monotonia è una malattia. Ho bisogno di pericoli ed eccitazione. Non sono fatto per starmene in casa a guardare la tv. Sono una persona molto attiva sessualmente. Una volta dicevo che mi sarei fatto chiunque, ma ora sono un po’ più selettivo… Adoro circondarmi di persone strane e interessanti, perché mi fanno sentire vivo. vivo. Quelle normali normali mi annoiano a morte. morte. Mi piace piace la gente stravagante. stravagante. Per natura sono irrequieto e nervoso, quindi non sarei mai un buon padre di famiglia. Salto da un estremo all’altro e spesso questa è una caratteristica distruttiva, per me come per chi mi sta intorno. «Vivo la vita al massimo», aggiunse in seguito, con fare provocatorio. «Ho un appetito sessuale enorme. Vado con uomini, donne, gatti, qualsiasi cosa. Ho un letto enorme, ci si può stare comodamente in sei. Preferisco il sesso senza impegni.» Celebrità e ricchezza avevano dato a Freddie la libertà di concedersi qualsiasi lusso. «Ci dava davvero dentro», prosegue Sky. «Ma questo significava compromettere la possibilità di una relazione stabile e duratura, che in fondo è quel che desideriamo tutti. Come disse lui stesso: ‘In amore non mi impegno mai solo a metà. Non credo nelle mezze misure o nei compromessi. Do tutto me stesso. Sono fatto così’.» L’America, e in particolare New York, gli diede alla testa. Freddie si innamorò della città, della sua densità e intensità, e ovviamente del suo sottobosco omosessuale. Se di giorno passeggiava per i negozi di lusso e gli
alberghi del centro, di notte vagava per le stradine acciottolate dell’antico quartiere dei macelli, dove sorgevano i più famigerati bar e club gay della città. Quasi tutti quei locali avrebbero chiuso verso la metà degli anni Ottanta durante l’epidemia di AIDS (e la zona sarebbe diventata una delle più esclusive di Manhattan), ma all’epoca attiravano come calamite i gay e le lesbiche di tutto il Paese. La rivolta di Stonewall, che lanciò il movimento di liberazione omosessuale, scoppiò nel giugno del 1969 proprio nel più frequentato bar gay di New York: lo squallido Stonewall Inn in Christopher Street (una traversa della Settima Avenue nel cuore del Greenwich Village), che divenne poi famoso in tutto il mondo come la culla dell’attivismo gay. La «glasnost» omosessuale legalizzò una serie di commerci molto redditizi che giravano intorno alla comunità gay. Nightclub, cinema porno, bagni turchi, locali sadomaso e bar con privé, con nomi come The Mineshaft («il pozzo della miniera») e The Anvil («l’incudine») spuntarono come funghi, favorendo i rapporti occasionali e anonimi. In quei tempi, le malattie veneree non erano ancor an coraa un pericolo pericolo serio. serio. Fu proprio all’ Anvil Anvil che una sera Freddie posò gli occhi su uno dei Village People mentre ballava sul bancone. Il gruppo di Y.M.C.A., Y.M.C.A., che giocava con gli stereotipi americani vestendosi da cowboy, poliziotto, muratore, motociclista, indiano e soldato, era in quel momento famosissimo. Secondo Mick Rock, che era con lui, Freddie restò letteralmente «ipnotizzato» da Glenn Hughes, il «motociclista». «Da quel momento non sarebbe mai più stato lo stesso», osserva. Alcuni ritengono che l’episodio ispirò sia il look «in pelle nera» del cantante, sia quello «macho» (o clone). clone). Il primo avrebbe avuto vita breve, mentre il secondo – che con capelli corti, baffi, petto muscoloso e jeans attillati rappresentava una frattura radicale dalla sua immagine bohémien degli anni Settanta – sarebbe durato a lungo. In realtà, quel look era nato a San Francisco ed era definito Castro clone, clone, dal nome del più famoso quartiere omosessuale della città, una decrepita area irlandese e hippy, che aveva attirato i gay di tutto il Paese. Questi erano stati i primi a «clonare» il look delle persone «normali», per passare inosservati. La moda aveva poi generato un’intera gamma di «codici» di comportamento. Un gay poteva persino indicare le sue preferenze sessuali lasciando penzolare un fazzoletto di un determinato colore dalla tasca posteriore dei pantaloni. Il cosiddetto hanky code code ovvero il «codice del fazzoletto» o «codice della bandana», fu
molto usato dagli omosessuali per tutti gli anni Settanta. I fazzoletti venivano annodati alla cintura cintura o all’asola dei de i pantaloni: a sinistra sinistra voleva dire che ti piaceva stare sopra, a destra, sotto. Sebbene i significati dei vari colori non fossero identici ovunque, i più conosciuti erano giallo per «pissing», marrone per «scat», nero per «sadomaso», viola per «amo i piercing», rosso per... (lasciamo perdere), azzurro per «sesso orale», grigio per «bondage» e arancione per «mi va bene tutto». Uno delle cose più entusiasmanti per un omosessuale a New York alla fine degli anni Settanta, soprattutto per uno appena giunto alla fama come Freddie, era che i gay vivevano una stagione di affermazione sociale: erano usciti allo scoperto, si erano uniti e avevano assunto il controllo delle loro vite e del loro desti de stino. no. E la situazione situazione poteva solo miglior migliorare, are, o almeno così si pensava. Si potevano spingere spingere i confini della sperimentazione sperimentazione sessuale fino agli estremi, una cosa al tempo impensabile in qualsiasi altra città del mondo, tranne forse Monaco di Baviera. «Freddie si comportava abbastanza bene a Londra, rispetto a quel che combinava a New York o – più avanti – a Monaco», racconta Gambaccini. «Erano le capitali del sesso anonimo, una cosa che non mi ha mai interessato. Senza dubbio Freddie se le è godute fino in fondo. È tutto un mondo, grande quanto quello della musica. A New York, Freddie perdeva ogni inibizione, ma era la scena gay della città che lo richiedeva.» In una chiacchierata con il rubricista, poi editore John Blake, Freddie confessò di avere «fatto la baldracca» a New York. «È la città della perdizione», mormorò. «Devi andartene al momento giusto. Se resti un giorno di troppo, sei fregato. Molto ipnotica… Tutte le mattine rientri barcollando alle otto o alle nove e devi farti le iniezioni alla gola per cantare. È una città vera. La adoro.» Sebbene in queste frasi ammettesse vagamente la propria licenziosità sessuale, nelle interviste Freddie mantenne sempre un silenzioso riserbo sulla sua passione per la cocaina. A parte il fatto che la droga era del tutto illegale quasi ovunque, di certo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, a lui non era mai piaciuta l’immagine del tossicodipendente e aborriva l’idea di passare per tale. Non lo fu mai davvero: quando decise di smettere, ci riuscì da un giorno all’altro. In quegli anni però la sua vita era il classico cliché di «sesso, droga e rock’n’roll». Quel che Freddie amava era la botta istantanea, l’effetto che il mix di alcol e coca aveva sulla sua personalità e sulla sua
libido. La cocaina lo faceva sentire sicuro di sé, gli dava il coraggio di essere «Freddie Mercury». Se a New York Freddie diventava un edonista tutto «sesso e shopping» era soprattutto perché poteva permetterselo. Quando si stufò dei suoi alberghi preferiti (il Waldorf Astoria, Astoria, il Berkshire Place e l’Helmsley l’Helmsley Palace), Palace), si comprò un lussuoso e sorvegliatissimo appartamento con vista sul Chrysler Building (uno dei suoi palazzi preferiti), oltre che sulle Torri gemelle e l’Empire State Building. L’alloggio sorgeva al quarantatreesimo piano del Sovereign Building, Cinquantottesima Strada est numero 425, fra la Prima Avenue e Sutton Place e a breve distanza da Central Park, dai grandi magazzini Bloomingdale’s e dalla Carnegie Hall. Oltre ai famosi edifici, dall’appartamento si vedevano sette ponti di Manhattan, incluso quello della Cinquantanovesima Strada immortalato da Simon e Garfunkel nella canzone omonima, detta anche Feelin’ Groo G roovy vy . «Freddie era la classica persona raffinata che ama frequentare i bassifondi», osserva Sky. «La sua massima fantasia era portare un marchettaro all’opera. Rudolph Nureyev era molto simile a lui, perché amava sia la cultura elevata sia quella popolare; una cosa rara.» Freddie adorava i ballerini, ma nonostante le voci di un’avventura appassionata con Nureyev (in una lettera pubblicata nel 1995 il ballerino russo scrisse di una «relazione» con il cantante e di avere visitato casa sua) Peter Freestone, poi divenuto assistente personale del cantante, nega, sostenendo che Nureyev non andò mai a Garden Lodge e che quella presunta storia d’amore non ebbe mai luogo. Pochi capivano perché conducesse una vita così dissoluta e depravata. Gli altri membri della band non si immischiavano: nel mondo si erano fatti progressi nel campo della libertà sessuale e in fin dei conti chi erano loro per giudicare? La vita privata di Freddie era affar suo. Inoltre la sessualità era solo un aspetto fra i tanti della sua personalità e i fan tendevano ad accettare quel che sapevano e a chiudere un occhio sul resto. Erano solo i giornalisti a eccitarsi appena fiutavano l’odore di uno scandalo. Freddie era una delle poche star del rock abbastanza intelligenti per capire che i suoi fan lo adoravano proprio perché viveva una vita di eccessi con tutti i relativi pericoli, ossia perché faceva ciò che loro non avrebbero mai osato. Oltre a intrattenerli con ottima musica e spettacoli indimenticabili, Freddie gli faceva vivere un’esistenza da brivido per interposta persona.
«Andavamo ai concerti dei Queen, intervistavamo Freddie, vedevamo i suoi eccessi… e mangiavamo le briciole», racconta Rick Sky. «Questo ci rendeva dei privilegiati come loro, relativamente parlando. I Queen non erano affatto egoisti, volevano che tutti si divertissero come loro. Erano generosi e condividevano la loro ricchezza e questo, rispetto alle altre band che frequentavamo, li rendeva i migliori del mondo.»
13 Champions
«Day at the Races» Races» finisce con una cosa giapponese, un brano che Brian ha intitolato Teo Torriatte , che significa significa «restiamo uniti». uniti». È È un pezzo emotivo, uno dei migliori che abbia mai scritto. Brian suona l’armonium e fa un pezzo di chitarra fantastico. È una bella bella canzone canzone per chiudere l’album. FREDDIE MERCURY La musica dei Queen possedeva una forza e un’energia capaci di toglierti il fiato. Oggi, con le nuove tecnologie la gente è diventata pigra. pigra. Sudore, sangue sangue e coraggio, coraggio, ci vogliono. v ogliono. Freddie doveva cantare quelle canzoni con ogni singola singola cellula del d el suo corpo. Oggi vedi un cantante con diciotto diciott o ballerini dietro di lui e non sai se canta o è in playback, o che c he altro diavolo fa. Freddie ti dava tutto, ed era autentico. LEE E JOHN , Imagination
ALL’INIZIO del 1976, con tutti e quattro i dischi in classifica fra i primi venti nel Regno Unito, i Queen affrontarono un nuovo tour in Giappone e Australia, dove il loro successo cresceva a dismisura. Poi tornarono in studio per lavorare al quinto album, che avevano intenzione di produrre da soli, dopo essersi separati amichevolmente da Roy Thomas Baker. Il nuovo LP si intitolava «A Day at the Races», da un altro grande film dei fratelli Marx (Un giorno alle corse). corse). A marzo, uscì il loro primo lungometraggio, Live at The Rainbow. Rainbow. A maggio, Brian si prese una vacanza per sposarsi con Chrissy
Mullen. Il 18 giugno, uscì il primo singolo firmato da John Deacon, You’re My Best Friend , un brano dolcissimo composto per la moglie Veronica (il matrimonio dura tutt’oggi, facendo di Deacon l’unico membro della band a essere rimasto con la prima compagna). Nel brano, oltre al suo strumento abituale, il bassista suona anche il Wurlitzer. Sebbene fosse molto diverso dai precedenti, il pezzo entrò subito nella Top Ten. Il video fu girato in una grande sala da ballo illuminata da migliaia di candele. Poi i Queen suonarono in Scozia, alla Edinburgh Playhouse, Playhouse, nell’ambito di un festival sponsorizzato da Reid, e poi all’aperto a Cardiff. Il 18 settembre, per il sesto anniversario della morte di Jimi Hendrix, organizzarono un grande concerto gratuito a Hyde Park, per ringraziare i fan per il sostegno: il classico gesto commovente alla Queen. Ne arrivarono circa duecentomila. L’evento fu coorganizzato da Richard Branson, l’ambizioso proprietario della Virgin Records che volava alto già all’epoca. Quando Branson presentò la sua assistente personale Dominique Beyrand alla band, senza saperlo regalò a Roger Taylor una nuova compagna. Poco dopo infatti la coppia mise su casa, a Fulham e in una lussuosa magione nel Surrey Surrey circondata circondata da ettari di bosco e dotata d otata di uno u no studio di d i registrazi registrazione. one. Il giorno del concerto splendeva il sole. L’evento ne ricordava altri simili tenuti nello stesso parco alla fine degli anni Sessanta da Jethro Tull, Pink Floyd e Rolling Stones. Kiki Dee, anche lei gestita da Reid, doveva cantare il suo recente successo successo in duetto d uetto con Elton John. J ohn. Nonostante molti altri singoli singoli celebri, Don’t Go Breaking My Heart era era diventata la prima numero uno di Elton. Ma il cantante non riuscì a partecipare al concerto e Kiki dovette accontentarsi di esibirsi a fianco di una grande sagoma di cartone. «Benvenuti al nostro piccolo picnic in riva alla Serpentine», disse Freddie, scintillando nella sua tuta elasticizzata bianca. «Tie Your Mother Down Down è uno dei pezzi duri di Brian», osservò in seguito. «Ricordo che la suonammo a Hyde Park prima ancora di inciderla. Riuscii a cantarla dal vivo prima di registrarla. Dato che va cantata con la voce rauca, funzionò.» Denis O’Regan, allora un fotografo alle prime armi, riuscì a imbucarsi nel backstage e a seguire il concerto da sotto il palco. Da tempo coltivava i contatti con i collaboratori della Rocket Records per avvicinare i Queen con la speranza di diventare il loro fotografo ufficiale. Un amico e collaboratore
di Reid, Paul Prenter, lo aveva preso in simpatia e aveva iniziato a lasciarlo entrare nel backstage. «Una delle prime volte fu a Parigi», ricorda O’Regan. «Notai che avevano montato un altro piccolo palco dietro le quinte. Dapprima pensai che i Queen avrebbero improvvisato uno spettacolino per gli addetti ai lavori, perché c’erano diverse file di sedie allineate davanti al palco. Invece entrò in scena una ragazza e fece uno spogliarello. Poi un’altra e un’altra ancora, finché alla fine c’era una decina di donne sul palco. Poi fecero un gigantesco spettacolo lesbico, e questo era riservato solo a quelli che lavoravano o si aggiravano nel backstage. Un po’ squallido, ma il genere di cosa che si sarebbe vista spesso alle feste dei Queen. Sceglievano sempre culi e tette, e sesso debosciato. Niente di davvero sordido; solo roba così, tanto per ridere. I Queen coltivavano un interesse per il sesso e lo usavano apposta per proiettare un’immagine diversa di sé. Immagino che in parte questo servisse per mettere a tacere le voci sull’omosessualità di Freddie.» Anche se all’epoca l’avrebbero negato, non c’è dubbio che Freddie e Roger fossero la mente dietro quei festini trasgressivi. «Mi piacciono gli spogliarelli e le spogliarelliste, e le feste selvagge piene di donne nude», dichiarò una volta Roger con disinvoltura, come a voler aggiungere: E perché no? O’Regan fu colpito dal fatto che i Queen restassero insieme anche dopo i concerti: erano una delle poche grandi band a farlo. «Cosa che odiavo perché una volta, finito il lavoro, avevo solo voglia di uscire e divertirmi. Ma c’era sempre la cena insieme dopo il concerto. Le altre band non facevano così. Sparivano subito: finito di suonare, c’erano già le limousine che li aspettavano con i motori accesi, pronte a portarli all’aeroporto o in albergo. Più avanti mi resi conto che in quell’abitudine dei Queen c’era un vero spirito di cameratismo; capii che gli piaceva davvero stare insieme. Più avanti si è detto che non andavano d’accordo, che viaggiavano viaggiavano in limousine limousine separate e così via. Ma tutti lo fanno quando sono delle star e possono permetterselo. Freddie, su un pullman? Ma stai scherzando?» Oltretutto, come dichiarò Roger a Q nel 2011 a proposito delle «limousine separate»: «Era il modo più semplice per viaggiare. La limousine è la più stupida delle macchine. C’è spazio solo per due passeggeri comodi e di solito hai con te la ragazza o la moglie, o la compagna, o l’assistente.
Potevamo permettercene quattro, sai? Non era perché non andavamo d’accordo». Il 10 dicembre uscì «A Day at the Races», con prevendite per mezzo milione di copie. Per promuoverlo in grande stile, la EMI affittò un padiglione all’ippodromo di Kempton Park e organizzò uno speciale «giorno alle corse». Portate sontuose, alcol a fiumi e spettacoli dal vivo dei Tremeloes e dei Marmalade, più un telegramma di Groucho Marx in persona, resero memorabile l’evento. Per certi versi l’album risultò una delusione rispetto al precedente, ma il primo singolo, Somebody to Love, Love, un brano sincero e personale scritto da Freddie, andò dritto al numero quattro nella classifica inglese e al numero uno in quella di Radio Luxembourg. «Con quella canzone ho fatto un po’ il matto», disse Freddie. «Volevo scrivere qualcosa nello stile di Aretha Franklin, ero ispirato dall’approccio gospel dei suoi primi album. Può sembrare che abbia lo stesso approccio sulle armonie vocali, ma è molto diverso in studio, perché è un’intonazione diversa.» Il Natale del 1976 vide la band festeggiare la prima posizione in classifica dell’album, con innumerevoli richieste di apparizioni televisive e passaggi in radio. La BBC trasmise in replica il concerto per Whistle Test all’Hammersmith all’Hammersmith Odeon. Freddie Odeon. Freddie si fece un regalo insolito: trovò il coraggio per confessare onestamente a se stesso e al grande amore della sua vita, Mary Austin, la sua vera natura, ponendo così fine alla loro lunga relazione. «Eravamo più vicini di chiunque altro, anche se abbiamo smesso di vivere insieme insieme dopo circa circa sette anni», ammise ammise Freddie. Fredd ie. «La nostra nostra storia storia è finita malamente, ma ne è scaturito un legame che nessuno può portarci via. È intoccabile.» Non dev’essere stato facile per lui. Sebbene oramai preferisse i rapporti occasionali senza alcun coinvolgimento emotivo, Freddie amava anche la sicurezza e la comodità che solo una relazione stabile poteva dargli. Dev’essergli costato molto dibattersi fra questi due desideri contrastanti. Freddie lasciò il nido che condivideva con Mary e si trasferì in un appartamento al 12 di Stafford Terrace, sempre a Kensington, e comprò all’ex fidanzata un altro alloggio. Lei sarebbe rimasta al suo fianco come assistente e «coordinatrice», incontrandolo quasi ogni giorno fino alla sua scomparsa quindici anni dopo. Il 1977 portò alla band una sfida imprevista: il punk. I punk erano
ragazzacci pericolosi e arrabbiati, rispetto ai gruppi depravati come i Queen: rappresentavano proprio tutto ciò che secondo Sex Pistols e compagnia bella c’era di sbagliato nella scena musicale. Nessuna delle due fazioni poteva emergere vittoriosa da quella polemica. C’era solo una cosa da fare: un’altra tournée di tre mesi in Nord America, questa volta con i Thin Lizzy di Phil Lynott come gruppo spalla. Il tour fu un successo, come il precedente, tranne due date cancellate per un problema alla gola di Freddie. «I noduli sono ancora qui», disse. «Ho questi brutti calli che mi crescono in gola e di tanto in tanto feriscono le mie doti canterine. Al momento, però, sto vincendo io. Bevo meno vino e il programma sarà riorganizzato intorno al mio problema.» Fu durante quella tournée che Freddie iniziò la sua relazione con Joe Fanelli, un cuoco di ventisette anni. Dopo l’avventura, Fanelli avrebbe lavorato in una serie di ristoranti (incluso il rinomato September’s in Fulham Road) prima di diventare un membro a tempo pieno dello staff di Freddie nella sua grande dimora londinese. Così come il suo padrone di casa, anche Fanelli sarebbe morto di AIDS. Poi cominciò il tour europeo, a Stoccolma, che arrivò a toccare la Gran Bretagna a maggio, al Bristol Hippodrome. I proventi del secondo concerto londinese, a Earl’s Court, furono donati al fondo per il giubileo della regina Elisabetta II. Durante quell’evento la band presentò al pubblico la cosiddetta «corona»: un impianto luci che si sollevava dal palco fra nuvole di fumo. Finito il tour, la band tornò subito in studio per incidere un nuovo album. I quattro, inoltre, avevano cominciato tutti a esplorare la strada solista, oltre che apparire come ospiti nei dischi di altri artisti. Se fama e ricchezza cominciavano a sembrare un lavoro, almeno la musica riusciva a entusiasmarli ancora. In studio c’era sempre un insieme di tensione e sana rivalità a spronarli e anche i concerti sembravano andar meglio dopo una bella litigata. «Sebbene Freddie avesse bisogno di una certa stabilità emotiva per registrare, durante i concerti i litigi erano uno stimolo», osserva Peter Freestone. Non c’è dubbio che i contrasti fossero alimentati dal perfezionismo del cantante. «Sapeva esattamente quel che voleva e faceva una scenata se qualcosa non andava come voleva lui. Sapeva benissimo che quegli sfoghi furiosi
erano molto utili e affinché fossero più efficaci li indirizzava ai compagni di gruppo, o ai soci. Sapeva che in quel modo le altre persone coinvolte sapevano che lui sapeva di essere indispensabile!» Il singolo successivo, l’inno We Are the Champions, Champions, si sarebbe rivelato uno dei successi più amati e durevoli della band. Nonostante la tiepida accoglienza della stampa inglese, impantanata nel gorgo del punk, il 45 giri si piazzò al secondo posto sia nel Regno Unito sia in America, e al primo nella classifica della rivista specializzata Record World . Distribuito come un doppio lato A con We Will Rock You negli You negli USA, We Are the Champions fu adottata sia dai New York Yankees sia dai Philadelphia 76ers, mentre il coro di We Will Rock You fu You fu preso in prestito da legioni di tifosi di football americano. Dolce vendetta... Trentacinque anni dopo il brano è ancora popolare in tutto il mondo ed è suonato abitualmente nei più grandi eventi sportivi. Da luglio a settembre la band registrò il sesto album in studio, «News o the World», nei Basing Street Studios di Chris Blackwell a Notting Hill, il fondatore della famosa Island Records (rinominati poi Sarm West, gli studi sarebbero diventati famosi per la registrazione di Do They Know It’s Christmas? ), ), e negli oramai scomparsi Wessex Studios a Highbury New Park, dove una volta Johnny Rotten vomitò nel pianoforte. Per coincidenza, proprio mentre i Queen erano lì, i Sex Pistols stavano registrando «Never Mind the Bollocks» in una sala adiacente. A un certo punto, Sid Vicious ruzzolò nello studio dei Queen e insultò Freddie, perché questi aveva dichiarato di voler portare il balletto alle masse (in un’intervista con Tony Stewart per il New Musical Express Express intitolata: «Questo è uno stupido secondo voi?»). Freddie rispose con una battuta indimenticabile: «Ah, mister Ferocious! Ferocious ! Facciamo del nostro meglio, caro mio!» Ottobre portò ai Queen un Britannia Award della British Phonographic Industry (l’associazione della case discografiche inglesi) per Bohemian Rhapsody , votato miglior singolo inglese degli ultimi venticinque anni. Lo stesso mese iniziò la campagna promozionale per «News of the World», un album esuberante ma anche un po’ lontano dai gusti dei fan (e da quelli della critica), con una copertina che raffigurava un gigantesco robot disegnato da Frank Kelly Freas. Era sempre più evidente che John Reid non aveva il tempo per gestire adeguatamente i Queen: oramai erano ai livelli di Elton John in termini di
fama e avevano assoluto bisogno di un manager esclusivo. I quattro convocarono di nuovo l’avvocato Jim Beach per negoziare la cessazione del contratto con la John Reid Enterprises, una procedura che si rivelò relativamente indolore seppur costosa. Dato che il contratto veniva rescisso prima della scadenza, Reid ottenne una cospicua buonuscita più il quindici percento dei diritti d’autore su tutti gli album precedenti dei Queen, per sempre. Pete Brown, il dipendente di Reid che aveva effettivamente curato gli affari dei Queen, se ne andò con loro e fu nominato manager personale. Anche un altro collaboratore dello scozzese, Paul Prenter, si unì alla squadra. Da quel momento in poi, Beach gestì tutte le questioni legali per conto della band e Gerry Stickells si occupò delle tournée. Fu creata la Queen Productions Ltd, seguita poi dalla Queen Music Ltd e dalla Queen Films Ltd. Finalmente i Queen erano proprietari delle loro opere e dei loro diritti. Fu una svolta sotto molti altri aspetti. Sebbene i problemi imprenditoriali fossero risolti, a livello creativo i Queen erano a un bivio. Sapevano di dover cercare nuove sfide se volevano mantenere intatto il loro entusiasmo e alimentare la loro ispirazione. Così comprarono un jet privato e si imbarcarono in due ambiziose tournée americane. Durante la prima, che cominciò a Portland, nell’Oregon, l’11 novembre, Freddie eseguì Love of My Life Life dal vivo per la prima volta, invitando il pubblico a cantare con lui, inaugurando così quella che sarebbe diventata una tappa obbligata di tutti i successivi concerti dei Queen. A New York, Freddie andò a vedere Liza Minnelli a teatro, in The Act . Dopo averla citata come sua artista preferita e sua grande fonte di ispirazione (insieme con Hendrix), con immenso piacere Freddie scoprì che la stima era reciproca. Anni dopo, nel 1992, la stella di Cabaret sarebbe stata una delle prime ad accettare di esibirsi al grande concerto concerto tributo tributo per la morte morte del d el cantante. Al Madison Square Garden, Freddie mandò in visibilio la folla indossando per i bis la divisa dei New York Yankees. La squadra di baseball della città aveva appena vinto la World Series, e il pubblico era entusiasta per quell’omaggio di una band inglese al loro sport più sacro. Nei concerti, Freddie era solito inserire qualche piccolo omaggio alla nazione in cui si esibiva: una frase nella lingua del posto, un mantello con la bandiera inglese da un lato e quella del Paese ospite dall’altro... A volte rifletteva ore per individuare il gesto migliore da regalare a un determinato luogo. Era il suo
modo per dare qualcosa in cambio ai fan del posto, che immancabilmente lo adoravano per questo. Nel gennaio del 1978 durante il MIDEM, la fiera dell’industria discografica a Cannes, e grazie a We Will Rock You You al primo posto nella classifica francese per più di dodici settimane, i Queen furono premiati nella categoria Radio come la rock band con maggiori potenzialità. Persino la Francia («Vous («Vous appelez cela de la musique rock!») rock!») aveva aperto gli occhi sui Queen. Anche il fisco, però. Nel 1978 la band fu costretta a trascorrere la maggior parte del tempo all’estero per evitare di pagare troppe tasse in patria. Intraprese un nuovo tour europeo dopodiché tornò in studio per lavorare a un altro album. Furono scelti i Mountain Studios di Montreux, perché erano i migliori in Europa a livello tecnico e i Queen avevano sempre cercato questo tipo di qualità. Il fatto che poi sorgessero in uno dei posti più incantevoli del pianeta era un bonus aggiuntivo. Lo stupendo lago di Ginevra e le maestose alpi svizzere innevate lasciarono i quattro a bocca aperta. All’inizio Brian e Freddie restarono in Inghilterra, il primo per la nascita del primogenito, Jimmy, e il secondo per produrre l’album dell’amico Peter Straker, tramite la sua nuova casa di produzione, la Goose. Straker, un attore di origini giamaicane, aveva conosciuto Freddie nel 1975 da Provan’s, Provan’s , un ristorante di Londra. Il primo era in compagnia del manager David Evans, mentre il secondo cenava con John Reid. Per uno scherzo del destino, Evans lavorava anche per Reid. «Ricordo la pelliccia sciupata e le unghie smaltate di nero, gli zoccoli bianchi e l’acconciatura», racconta Straker. «E che era anche leggermente ingobbito. Ma a parte questo, mi colpì la sua estrema timidezza. Teneva gli occhi occhi bassi, come sempre quando quand o incontrava incontrava una persona persona nuova.» nu ova.» Quando si incrociarono di nuovo per caso, Straker invitò Freddie alla sua festa di compleanno, nel suo appartamentino in Hurlingham Road. Era il novembre del 1975 e si trattava di una festa in maschera: ognuno doveva vestirsi vestirsi come il suo personaggio personaggio preferito. preferito. Freddie Fredd ie rispos risposee che se fosse andato (cosa che fece), non si sarebbe mascherato, perché era lui il suo personaggio preferito. «Freddie arrivò con David Minns [un giovane operaio con cui aveva una relazione segreta] abbastanza presto e con un jeroboam di champagne:
Moët & Chandon, chiaramente! Se non ricordo male fu quella sera stessa che di getto gli chiesi di produrre un album per me.» I due si misero d’accordo per rivedersi a pranzo. «Da lì in poi diventammo amici. È difficile ricordare luoghi e date precisi, dato che da quel momento in poi le nostre vite si sono intrecciate in modo inestricabile. In altri termini: abbiamo ingranato.» Ben presto Freddie e Straker, che era figlio di una cantante lirica, iniziarono ad andare a vedere balletti e opere insieme, oltre a bazzicare i peggiori pub e nightclub della città. Cominciarono persino a giocare a tennis insieme nell’esclusivo Hurlingham Club. Club. Educato e cortese, dotato di una voce sopraffina sopraffina e anche di un’incredibile un’incredibile estensione vocale, che avrebbe dovuto portargli più successo di quanto ottenne in realtà, Straker voleva incidere un album di brani post-glam rock e vaudeville. Freddie non solo accettò, ma investì ventimila sterline nel progetto, intitolato «This One’s On Me». Uscirono anche due singoli: Jackie e Ragtime Piano Joe. Joe. Gli amici li ricordano come «due monelle» oppure come «due fratelli», mai come amanti, e infatti il loro rapporto era basato su una sorta di conflitto fraterno. «Straker lo aiutava ad allentare la tensione», racconta Peter Freestone. «Era sempre pronto a farlo ridere». «La profonda amicizia fra Freddie e Peter era fondata sull’amore per l’opera e per i classici», ricorda Leee John, leader del trio soul-dance Imagination, Imagination, famoso negli anni Ottanta e grande amico di entram e ntrambi. bi. «Io venivo dal soul, dall’R&B e dal jazz, e tentavo di capire il blues e tutta la musica africana, ma Freddie mi suggerì di studiare l’opera, per il bene della mia carriera. Shéhérazade [di Rimskij-Korsakov, basata sulle sulle Mille e una notte] notte] era l’unica che conoscevo. Mi disse: ‘Tesoro, è un buon inizio’. Quindi per un’intera estate andai a vedere un’opera la settimana. Di tutto, da Don Giovanni a L’anello del Nibelungo. Nibelungo. Mi addormentai! Ma mi emozionai anche, e risi, e imparai tantissimo. Voglio dire, prima ero appassionato di Motown, pensa un po’… Molta musica classica ha origini africane, e Freddie lo sapeva. C’è un senso del ritmo unico nel suo genere. Mi insegnò anche molte tecniche vocali. Tutto quadra, se ci ripensi dopo anni. Straker, però, era sullo stesso piano di Freddie: imparavano l’uno dall’altro. Avevano entrambi incontrato un loro pari.» Poi Brian e Freddie raggiunsero Roger e John a Montreux, dove il lavoro per il nuovo LP proseguiva spedito. Quell’estate la EMI ricevette il Queen’s
Award to Industry per le esportazioni, uno dei premi regi più ambiti dagli industriali inglesi. Per commemorare l’evento, l’etichetta stampò Bohemian Rhapsody in una tiratura limitata di duecento copie su vinile blu, numerate a mano. All’inizio le cromie prescelte erano oro e viola, per richiamare il logo del gruppo sulla copertina di «Queen», ma qualcosa andò storto. «Avevamo deciso di fare una copertina bordeaux e oro, con il vinile viola», racconta racconta Paul Watts, allora direttore direttore generale della divisione divisione internazionale della EMI. «Ma quando arrivò dalla fabbrica il disco non era per niente viola, ma blu. Si erano sbagliati! Dato che volevamo solo duecento copie [mille o millecinquecento era la tiratura normale], non valeva la pena cambiarlo.» cambiarlo.» Il premio fu consegnato ai dirigenti della EMI nel luglio 1978, nella Cotswold Suite del Selfridge Hotel . Né Sua maestà né i Queen parteciparono alla cerimonia. La band era in «esilio» per il fisco e stava festeggiando alla grande il ventinov ve ntinovesimo esimo compleanno compleanno di Roger a Montreux. Le prime quattro copie dell’edizione limitata furono spedite in Svizzera ai quattro membri della band. Un gruppo selezionato di dirigenti della EMI ricevette le altre, insieme con i giornalisti e con alcuni degli invitati; tutti gli altri si videro consegnare un paio di calici commemorativi o uno speciale foulard di seta. Pochi fortunati se ne andarono con tutti e tre i regali. Quel disco è tutt’oggi uno degli oggetti più ricercati dai collezionisti di cimeli, non solo dei Queen ma del rock in generale. Le registrazioni proseguirono in un altro studio, il SuperBear di Nizza. Lo spostamento era stato dettato sempre da motivi fiscali: i Queen non potevano rischiare di produrre un intero album in un unico Paese per paura di dovervi poi pagare le tasse. Il trentaduesimo compleanno di Freddie fu celebrato nell’incantevole paesino di Saint-Paul-de-Vence dove Bill Wyman dei Rolling Stones aveva una casa. La festa scatenatissima culminò con un’esibizione di Freddie e Straker Straker ubriachi che intonarono arie di Gilbert Gilbert e Sullivan. Due giorni giorni dopo, i Queen brindarono al ricordo di Keith Moon, il batterista degli Who scomparso per un’overdose di clometiazolo nell’appartamento di Harry Nilsson in Curzon Place a Mayfair (lo stesso in cui quattro anni prima era morta di infarto Cass Elliot, la stella dei Mamas & Papas). Il nuovo singolo, Fat-Bottomed Girls, Girls , uscì come doppio lato A con Bicycle Race, Race, un brano ispirato al Tour de France, che attraversò Nizza
mentre la band era lì in studio. Per promuovere il singolo, i Queen affittarono lo stadio di Wimbledon a Londra e ingaggiarono sessantacinque ragazze per fare una gara in bicicletta completamente nude. L’evento generò un filmato esilarante ma non solo: le bici erano state affittate dalla catena Halfords e i suoi dirigenti insistettero perché la band rimborsasse le spese per sostituire tutti i sellini «usati». Il singolo si piazzò all’undicesimo posto in classifica, non senza polemiche: il sedere prominente della ciclista che campeggiava in copertina fu ritenuto offensivo e nelle copie successive dovette essere ricoperto da un paio di pudiche mutandine. A ottobre partì una nuova tournée americana. A New Orleans, per lanciare il nuovo album, «Jazz», i Queen organizzarono quella che può solo essere definita un’orgia. La sera di Halloween invitarono quattrocento selezionatissimi rappresentanti della stampa nordamericana, sudamericana, inglese e giapponese, nella sala da ballo di un albergo cittadino. Il luogo era stato trasformato in una palude, completa di foschia e vegetazione, in cui si aggiravano nani, drag queen, mangiatori di fuoco, lottatrici nel fango, spogliarelliste, serpenti, steel band , danzatori vudù, danzatori zulù, prostitute, groupie, alcuni di questi intenti a commettere inimmaginabili, e probabilmente illegali, atti osceni, da soli o in gruppo, davanti agli invitati. Una modella entrò sdraiata su un vassoio di fegato crudo, altre si contorcevano dentro gabbie sospese. Quella follia fu ripresa dai giornali di tutto il mondo e confermò le feste dei Queen come le più corrotte e smodate nel ne l circo circo del de l rock. Nel bel mezzo di quella baldoria, arrivò Tony Brainsby, il vecchio addetto stampa dei Queen, che aveva ripreso il suo posto. Giunse da Londra con un seguito di scribacchini al seguito e si ritrovò subito nel suo elemento. «Selvaggio», fu il suo laconico commento dell’evento. «Andammo dall’aeroporto alla festa e dalla festa all’aeroporto, senza nemmeno sfiorare un letto. Ne avevo viste di feste ai miei tempi ma mai niente del genere. Alcuni giornalisti avevano gli occhi a penzoloni quando finì. Freddie autografò il sedere di una spogliarellista, e quella fu la cosa più casta che vidi. Mi ci volle quasi un mese per ripr riprend endermi.» ermi.» L’America puritana reagì. «Jazz» comprendeva un poster di cicliste nude, che fu censurato come «pornografico» e vietato in alcuni stati. L’album venne quindi distribuit distribuitoo senza poster poster ma con un modulo che permetteva permetteva all’acquirente di richiederlo tramite posta. I Queen furono sorpresi dalla
reazione americana per quella che a loro avviso era solo un po’ di innocua ironia, ma questo non impedì loro di portare una frotta di cicliste scampanellanti sul palco del Madison Square Garden durante Bicycle Race. Race. In patria «Jazz» arrivò al secondo posto e restò in classifica per ventisette settimane: un nuovo traguardo. Ora dovevano superarlo. Che cosa si sarebbero inventati per l’album successivo? E per quello dopo ancora? Forse i Queen si erano dimenticati come ci si rilassa.
14 Monaco
Mi piace piace Monaco. Monaco. Ci ho passato passato così tanto tempo che dopo un po’ le persone persone non facevano nemmeno più più caso a me. Ho tanti amici laggiù laggiù che sanno chi sono ma mi trattano come un normale essere essere umano, che mi accettano per quel che sono. E questo per me è un ottimo modo m odo per rilassarmi. rilassarmi. Non voglio dovermi nascondere o tacere. Andrei fuori di testa. Più di quanto non lo sia già. FREDDIE MERCURY Non si vergognava a dire che amava il sesso e questa era una ventata d’aria fresca. fresca. Pochi lo ammettevano ammett evano all’epoca. CAROLYN COWAN , truccatrice di Freddie F reddie Mercury Mercury O GER , Brian e John si erano sistemati e rigavano dritto come buoni padri R OGER di famiglia, almeno quando non erano in tournée. Brian, per esempio, si era già innamorato di un’altra a New Orleans, una certa Peaches. John, in genere attento ai propri obblighi coniugali, aveva iniziato a bere. Roger, grande protagonista di tutte le feste, di rado era solo fra la mezzanotte e la colazione. Freddie, però, li batteva tutti, e aveva gettato al vento qualsiasi precauzione come mai prima di allora. Se nessuno dei quattro era un angioletto in tour, infatti, Freddie era un diavolo incarnato. All’inizio del 1979, mentre il loro circo strombazzava attraverso l’Europa con una mastodontica tournée di ventotto date, incluse due nell’allora Jugoslavia, il cantante si concesse ogni vizio come se dovessero finire. Gennaio vide
l’uscita del dodicesimo singolo della band, Don’t Stop Me Now, Now, accolto da una serie di recensioni entusiaste. Poi la band tornò a Montreux per produrre un doppio album dal vivo, «Live Killers». Sentendosi come a casa loro sulle sponde del lago di Ginevra, i quattro colsero al volo l’occasione di comprare i Mountain Studios, dietro consiglio del loro commercialista, per migliorare la loro posizione fiscale. David Richards, fonico di stanza agli studi e in seguito produttore della band, si unì alla squadra. Poi l’invito del produttore Dino De Laurentiis (Barbarella ( Barbarella,, Il giustiziere della notte, Kin Kong , Hannibal , Red Dragon) Dragon) a comporre la colonna sonora del film di fantascienza Flash Gordon, Gordon, basato sull’omonimo personaggio dei fumetti, permise di concretizzare un’altra ambizione che i Queen covavano da lungo tempo. Dopo un’altra serie di concerti in Giappone, accompagnati dalle oramai abituali orde di fan entusiasti, il gruppo si ritirò per l’estate nei Musicland Studios di Monaco, famosi per avere sfornato i successi della disco music del produttore Giorgio Moroder. Sempre costretti a registrare all’estero per evitare il fisco, in Germania i Queen collaborarono con un nuovo produttore, il famoso Reinhold Mack, che aveva fondato i Musicland proprio con Moroder. Anche Marc Bolan, i Deep Purple e i Rolling Stones avevano lavorato in quegli studi. A detta di Mack, i Queen non erano i musicisti più «facili» con cui aveva collaborato. «Avevano abitudini rigide, come i pensionati», ricorda. «Il loro mantra era: ‘Abbiamo sempre fatto così’. Rispetto a loro, avevo il vantaggio di prendere decisioni in fretta, di fare le cose mentre gli altri si perdevano nei dettagli.» In generale, però, il suo rapporto con i Queen fu «abbastanza rilassato». «La band arrivava da una tournée in Giappone e aveva un po’ di tempo ‘libero’ prima di tornare in Inghilterra. Quando si dice trovarsi al posto giusto nel momento giusto... All’inizio l’intenzione non era di registrare un album [anche se in seguito sarebbe diventato ‘The Game’], ma solo di fare una serie di session di una o due settimane. Il primo brano su cui lavorammo fu Crazy Little Thing Called Love. Love. Freddie prese la chitarra acustica e disse: ‘Svelti! Facciamola prima che arrivi Brian’. Sei ore dopo, la canzone era finita. L’assolo di chitarra lo aggiungemmo dopo. Brian mi odia ancora perché lo costrinsi a usare una Telecaster per quella parte. Il pezzo uscì come singolo apripista dell’album e andò dritto al primo posto. Questo
ovviamente aumentò la fiducia del gruppo e migliorò il nostro rapporto professionale.» Mack ricordò che la composizione dei brani non era priva di complicazioni. «C’erano due scuole: Freddie e Brian. Con Freddie era facile: la pensavamo più o meno allo stesso modo. In una ventina di minuti era in grado di produrre un pezzo eccezionale. Brian invece arrivava con un’idea bellissima, ma dopo quella prima scintilla si perdeva in dettagli insignificanti.» All’epoca il motto della città di Monaco era «Weltstadt « Weltstadt mit Herz », », «Una città cosmopolita con un cuore» (dal 2006 è stato cambiato in « Münc « München hen mag Dich», Dich», «Monaco ti ama», ma questa è un’altra storia). Il soggiorno bavarese dei Queen avrebbe avuto un effetto profondo e persino distruttivo su tutti e quattro i membri della band, in particolare su Freddie, che ben presto divenne dipendente dalle attrattive più equivoche della città. Chiunque avesse soggiornato a lungo in uno dei grandi centri culturali d’Europa, si sarebbe immerso nella sua storia e nella sua architettura. La città vantava una fiorente cultura che risaliva al Settecento ed era stata un centro particolarmente dinamico durante la Repubblica di Weimar. Mozart, Wagner, Mahler, Strauss, lo scrittore Thomas Mann e il pittore Vasilij Kandinskij (durante il suo periodo espressionista) erano stati tutti attratti da quella città, tanto ipnotica quanto piovosa. Ma per Freddie l’attrattiva principale di Monaco era la sua effervescente scena gay, concentrata in una piccola zona del centro conosciuta come «il Triangolo delle Bermude». L’enclave era diventata un rifugio per gli omosessuali di tutta Europa, proprio come il Village a New York e Castro a San Francisco per gli americani. La scena bavarese era tranquilla e rilassata. I locali gay abbondavano, pieni di corpi sudati sette giorni su sette. Freddie si sentì libero di sperimentare senza avere i paparazzi sulla porta di casa a seguire ogni suo spostamento. Un’altra attrattiva, per la band nel suo insieme, erano le ottime discoteche della città, che in quel momento vivevano la loro età dell’oro. La vita notturna era un sordido sordido viaggio viaggio a rotta rotta di collo fra locali tetri e assordanti, come gli Ochsen Gardens, Gardens, il Sugar Shack, Shack, il New York e il Frisco. Frisco. Nel «triangolo» pochi davano peso ai comportamenti gay più offensivi, perché tutti – gay e non – erano troppo occupati a divertirsi. Come ricordò Mack: «Freddie amava circondarsi di gente diversa.
Non gli era mai piaciuto un mondo esclusivamente gay. Era una persona riservata e non dava mai scandalo fuori contesto. Non ti sbatteva in faccia la sua omosessualità. Non faceva mai scenate e teneva sempre un comportamento impeccabile quand’era in una compagnia mista. ‘Ogni cosa al suo posto’ era il suo motto». Come spiega Brian in Queen: la biografia ufficiale: ufficiale: «Monaco influenzò profondamente le nostre vite. Dato che ci restammo parecchio, divenne quasi una seconda casa per noi, un luogo in cui vivere una vita diversa. Non era come in tournée, dove avevamo un contatto molto intenso con una città per un paio di giorni e poi si passava ad altro. A Monaco rimanemmo invischiati nella vita della gente del posto. Ci trovammo a frequentare le stesse discoteche quasi tutte le sere, per tutta la notte. Ci incantò. Il Sugar Shack in particolare. Era una discoteca rock con un impianto fantastico e il fatto che alcuni dei nostri dischi non suonassero molto bene là dentro ci fece vedere la nostra musica e i nostri mix sotto una luce diversa. Guardando indietro, probabilmente è giusto affermare che non fummo molto efficienti a Monaco. A causa delle nostre nottate iniziavamo a lavorare tardi ed eravamo sempre stanchi, e – specialmente per me, ma forse anche per Freddie – le distrazioni emotive di quella città erano distruttive». Nonostante nella capitale bavarese Freddie conducesse un’esistenza dissoluta e senza pudori, secondo Mack iniziava a essere stufo di quella vita. «Diverse volte mi disse: ‘Magari uno di questi giorni lascio perdere questa vita da gay’. Aveva scelto di diventare omosessuale a ventiquattro o venticinque venticinque anni. Prima Prima lo consideravano consideravano eterosessuale. Con lui tutto era possibile. Credo che avrebbe potuto smettere di essere gay, perché amava le donne. Vedevo come si comportava con loro; non era certo il tipo di gay che non vuole avere donne nella propria vita, anzi...» Freddie divenne un ospite abituale in casa di Mack e strinse amicizia con la moglie Ingrid. La coppia gli domandò persino di fare da padrino a uno dei figli. Secondo Mack, Freddie non era refrattario alle comodità della vita famigliare. Un giorno gli avrebbe confessato addirittura che gli sarebbe piaciuto sposarsi e avere dei figli, nonostante in quel momento non ci fosse alcun rapporto stabile nella sua vita. «In fondo Freddie desiderava farsi una famiglia e avere una vita normale», sostiene Mack.
«Una volta ero nei guai perché dovevo pagare un sacco di tasse arretrate. Ero molto depresso e ne parlai a Freddie, e lui disse: ‘Che cazzo, sono solo soldi! Perché ti preoccupi per roba del genere? Hai tutto, tutto ciò che ti serve: una famiglia e dei figli stupendi. Hai tutto quel che io non potrò mai avere. Lì mi resi conto che ci osservava quando veniva da noi, che guardava la nostra vita famigliare famigliare e immaginava immaginava come avrebbe potuto renderlo rende rlo felice.» Kashmira, però, non è d’accordo: «No, non credo [che sarebbe stato un buon padre di famiglia]. Sarebbe stato bravissimo a viziare, ma non tanto a far rispettare rispettare le regole». Sempre durante il soggiorno bavarese, Mack scoprì che Freddie si era sentito terribilmente solo da piccolo. «Una volta udii per caso una conversazione fra lui e mio figlio Felix», racconta. «Freddie gli stava dicendo: ‘Io non ho avuto la fortuna che hai tu. Quand’ero piccolo ho passato molti anni in collegio, lontano da mamma e papà’. Con i miei figli parlava molto della sua infanzia. Adorava i bambini: appena erano in grado di camminare, parlare e rispondere, gli piaceva stare con loro.» Per quel che riguarda la musica che i Queen produssero a Monaco, Brian ammise che il cambio di direzione musicale fu ispirato da Freddie. «Tentammo un approccio differente», disse. «Con l’idea di sfrondare brutalmente e produrre un album più compatto, anziché lasciare che la fantasia ci portasse in tante direzioni diverse. L’impulso lo diede soprattutto Freddie. Pensava che ci fossimo diversificati troppo, al punto che le persone non riuscivano più a inquadrarci. Il tema di quell’album – se ce n’è uno – è ritmo ed essenzialità: mai due note se ne bastava una. Era difficile per noi, richiedeva molta disciplina, perché avevamo la tendenza ad abbondare. Era anche una novità, perché per la prima volta entravamo in studio senza una scadenza, ma solo con l’idea di buttare giù qualche traccia così come veniva. «Era un modo per rompere lo schema ripetitivo: ‘album, tour inglese, tour americano eccetera’. Volevamo cambiare e vedere che cosa avremmo prodotto. Dopo un po’ devi pur inventarti qualcosa di nuovo per tenere accesa la passione...» Mack decantò il metodo lavorativo di Freddie in studio: la creatività spontanea, l’impegno, la passione, la velocità e l’abilità tecnica. L’unico aspetto negativo era l’incapacità di concentrarsi per lunghi periodi. Soltanto la limitata capacità di concentrazione pareva limitare il talento di Freddie e
lo stesso valeva per la sua vita privata: se una cosa sembrava troppo lunga o laboriosa, lui perdeva subito ogni interesse. Non era in grado di concentrarsi su un unico pezzo per più di un’ora e mezza. «In Killer Queen si Queen si capisce che si è seduto al piano e l’ha fatta di getto. Il finale è un po’ irrisolto», spiega Mack. «Era tipico di Freddie. Voleva sempre passare a cose nuove, diverse. Andavamo molto d’accordo. Mi piaceva avere a che fare con un genio. E lo era davvero a livello musicale: riusciva subito a individuare il centro intorno a cui doveva girare una canzone.» Insieme, Mack e Freddie aggiunsero una nuova dimensione al suono della band, in sintonia con l’umore di quegli anni, e la ispirarono a tagliare nuovi traguardi creativi. Dopo qualche apparizione in alcuni festival all’aperto in Germania, Freddie tornò a Londra per le prove di uno spettacolo di beneficenza organizzato dal Royal Ballet a favore della City of Westminster Society for Mentally Handicapped Children, un ente di beneficenza a favore dei bambini con handicap mentali. Era stato Wayne Eagling, primo ballerino del Royal Ballet e suo amico personale, a convincerlo a partecipare. Furono create le coreografie per Bohemian Rhapsody e Crazy Little Thing Called Love, Love, che Freddie doveva danzare e cantare dal vivo. La sera dello spettacolo, al London Coliseum, il cantante ballò così bene che fu salutato da una standing ovation. «Conoscevo il balletto solo per averlo visto in televisione», confidò Freddie a John Blake, all’epoca giornalista musicale dell’Evening dell’Evening News. News. «Ma mi è sempre piaciuto.» «Poi sono diventato molto amico di Sir Joseph Lockwood della EMI, che era anche il presidente del consiglio del Royal Ballet, e ho iniziato a conoscere un sacco di persone in quel mondo. Mi affascinava sempre più. Alla fine ho visto Baryšnikov ballare e sono rimasto basito. Più di Nureyev, più di chiunque altro. Voglio dire, [Baryšnikov] sa davvero volare. Quando l’ho visto sul palco ero talmente estasiato che mi sono sentito una groupie.» Riguardo allo spettacolo con il Royal Ballet, commentò: «Mi hanno fatto fare gli esercizi alla sbarra e tutto il resto: stirare le gambe... In una settimana dovevo fare quello che loro facevano da anni. Ero morto. Dopo due giorni avevo male dappertutto. Mi facevano male certi muscoli che non sapevo nemmeno di avere, caro mio. Poi quando è arrivata la sera del gran galà, ero sbalordito dalle scene dietro le quinte. Quando toccava a me, ho
dovuto farmi largo fra Merle Park e Anthony Dowell e tutta quella gente e dire: ‘Scusatemi, devo andare in scena’. Era incredibile». Freddie ballò e cantò Bohemian Rhapsody . «Sì caro, ho fatto il salto. Un salto magnifico, che ha fatto partire un applauso, e poi mi hanno preso e ho continuato a cantare.» Quando gli domandarono se gli sarebbe piaciuto diventare un ballerino professionista, rispose: «Sì, ma sono anche molto contento di quel che faccio adesso. Non puoi svegliarti a trentadue anni e decidere di diventare un ballerino». Dopo lo spettacolo, girò voce che Freddie non fosse proprio un «vero uomo». Quando gli arrivò all’orecchio, scoppiò a ridere. «O Dio… caro mio! Lascia che dicano quel che vogliono. Vedi, se ti dicessi no o sì, sarebbe barboso. Nessuno mi chiederebbe più nulla. Preferisco che continuino a chiedermelo. Oh, è tutto così scontato. Caro mio, la vita personale è una questione privata. Voglio dire, con uno come Elton, penso: che potrò mai dire? E lui è un tipo più ‘mediatico’, no? Ma a me non interessa.» In seguito Freddie, commentò scherzosamente quel suo balletto con l’amico giornalista David Wigg. «Cantare a testa in giù è bellissimo. Tremavo dietro le quinte, dal nervoso. È sempre difficilissimo fare qualcosa fuori dal proprio ambito, ma mi sono sempre piaciute le sfide. Mi piacerebbe vedere Mick Jagger o Rod Stewart provare qualcosa del genere!» Aggiunse anche, col suo solito umorismo, che il momento più memorabile della serata era stato quando la famosa ballerina Merle Park gli aveva dato un pizzicotto sul sedere: «È indecente, quella donna!» Quella breve sortita nel mondo delle punte e dei plié, però, è importante soprattutto perché procurò a Freddie una nuova amicizia destinata a durare per tutta la vita.
15 Phoebe
Io scateno molte frizioni, quindi non è facile avere rapporti con me. Sono la persona più gentile gentile del mondo, cari miei, ma è difficilissimo vivere con me. C redo che nessuno sia in grado di sopportarmi. sopportarmi. In un certo senso sono un ingordo: voglio tutto come piace a me. Ma chi ch i non lo è? So amare e sono molto generoso. generoso. Chiedo molto, ma do anche anche molto in cambio. cambio. FREDDIE MERCURY Ero ilil cuoco di Freddie e anche il suo tuttofare, il suo cameriere, cameriere, maggiordomo, maggiordomo, domestico e segretario... segretario... e confessore. Ho viaggiato viaggiato in tutto il mondo con c on lui, ero con lui nei momenti migliori e in quelli peggiori. Gli ho fatto da guardia del corpo quando serviva e alla fine, ovviamente, ovv iamente, anche da infermiera. infermiera. PETER «P «PHOEBE » FREESTONE
NE L backstage della Royal Opera House, durante i preparativi per il suo debutto nella danza, Freddie conobbe un giovane assistente costumista: Peter Freestone. Indispensabile da subito. Prontamente ribattezzato «Phoebe», Peter sarebbe diventato l’assistente personale di Freddie, rimanendo al suo fianco fino alla fine. «Freddie venne all’Opera House per provare i costumi per il galà del Royal Ballet», raccontò. raccontò. Fisicamente imponente e affabile di carattere, il tipo di persona per cui nulla è mai un problema, è facile capire perché Freddie si «innamorò» di
Peter all’istante. all’istante. «Era gentilissimo ed educato la prima volta che lo incontrai», ricordò Peter. «Più avanti scoprii che era sempre educato, a meno che qualcuno lo infastidisse, nel qual caso andava su tutte le furie. Era abbastanza in soggezione quando venne alla Opera House perché era fuori dalla sua sfera abituale. [Inoltre] quello era un bastione dell’establishment e lui era l’opposto. Il galà fu stupendo: il modo in cui ballerini portarono Freddie in giro per il palco... magnifico. «Cantò Crazy Little Thing Called Love con i suoi costumi in pelle, poi sparì dietro un muro di ballerini e riapparve con un vestito di paillette per fare Bohemian Rhapsody . «Era la prima volta che lo vedevo esibirsi, che vidi il grande showman. Prima di allora avevo sentito vagamente parlare dei Queen e una volta l’avevo visto con Mary: prendevano un tè alla Rainbow Room di Biba, Biba, nel 1973. Aveva i capelli fino a qui e un giacchettino in pelliccia di volpe. Era lui, ne sono certo. «Già quella era una performance», aggiunse in seguito. Durante la festa dopo lo spettacolo, al Legends, Legends, Peter incontrò Freddie in compagnia del manager Paul Prenter e si fermò a chiacchierare con entrambi. «Tre settimane dopo, Paul telefonò al mio capo e gli chiese se conosceva qualcuno interessato a un u n contratto di sei settimane per curare il guardaroba dei Queen durante una tournée. Da quando l’avevo visto sul palco volevo vivere quella vita. Avevo visto visto La bella addormentata e Il lago dei cigni migliaia di volte. Volevo rivedere quella persona così entusiasmante, vedere più rock. Non sapevo a cosa andavo incontro, pensavo che gestire il guardaroba per quattro persone non potesse essere peggio che gestirlo per un’intera compagnia compagnia di danza.» Peter si licenziò, perdendo un ottimo posto fisso in cambio di un contratto temporaneo con i Queen. Dopo il tour si trovò quindi disoccupato e fu costretto ad accettare un impiego temporaneo come centralinista alla British Telecom, «finché i Queen non fossero andati di nuovo in tournée e mi avessero richiamato. Poi mi tennero anche quando non erano in tournée, mi davano un fisso e gli facevo diversi lavori in ufficio. Dopo il tour americano, Paul e Freddie decisero che mi sarei occupato esclusivamente di
Freddie. Nei tour avrei sempre gestito il guardaroba per tutti, ma in ogni altra occasione dovevo badare solo a lui» Chiacchierando i due scoprirono di essere stati entrambi in collegio in India, a migliaia di chilometri di distanza dai rispettivi genitori. Nacque un legame molto forte e Freddie cominciò ad abbassare le difese. Una delle prime cose che colpirono Peter era l’avversione di Freddie per i litigi. «Non era mai maleducato», ricorda. «Se nasceva una disputa si faceva in disparte e lasciava che se la sbrigassero gli altri. Lui si limitava ad ascoltare, infilando qualche commento qua e là. È vero che lui e Mary litigavano spesso, ma solo perché lui si aspettava delle cose dalle persone e se queste lo deludevano si arrabbiava. Imparai in fretta a lavorare con lui. Se sbagliavi qualcosa te lo faceva notare e tu facevi molta attenzione a non sbagliare una seconda volta. Ma questo non funzionava con Mary, perché se lei si era messa in testa una cosa la faceva e basta, e a modo suo, e se questo contrastava con le idee di Freddie, scoppiava il Gran Litigio.» D’istinto Peter imparò a tenere le proprie opinioni per sé. Sapeva anche quando era giusto superare i confini professionali e quando invece era meglio mantenerli. Il mondo sregolato dei Queen era per lui un pianeta sconosciuto, che iniziò a esplorare con attenzione. A volte si sentì oppresso dai privilegi e dagli eccessi che la band dava per scontati. «A ogni nuovo tour volevano sempre più luci, più impianti, più scenografie», ricorda. «Tutto doveva essere una novità, uno spettacolo più grandioso di quello precedente. Anche solo questo faceva di loro una grande band. Qualche anno fa, ho visto Michael Jackson a Wembley per due giorni di fila. Il secondo concerto era esattamente uguale al primo. I Queen erano sempre diversi. Non sapevi mai cosa aspettarti. Anche le loro riunioni erano costosissime, perché le facevano in studio, che costava una fortuna all’ora. Oggi nessuno farebbe una cosa del genere.» Il nuovo assistente era così discreto e tranquillo che presto gli fu chiesto di badare alle necessità personali di Freddie. «Gli preparavo persino la valigia», racconta. «Chiamavo l’auto che venisse a prenderci, mi assicuravo che [Freddie] avesse preso soldi, carte di credito, passaporto e biglietti, anzi no, tenevo tutto io. Lo mettevo sull’aereo. Il più delle volte era come prendersi cura di un bambino. Ero sempre con lui, letteralmente al suo fianco, anche sull’aereo. Considerando il tempo che abbiamo passato insieme, è incredibile che siamo andati così d’accordo. A
Los Angeles, dove restammo un po’ di tempo mentre i Queen registravano, c’era sempre altra gente intorno, per cui ero in parte alleggerito dalle mie responsabilità. Ma a New York, eravamo solo noi due. Il modo più semplice per descrivere il nostro rapporto è dire che c’era un confine: da una parte il datore di lavoro, dall’altra l’amico. Ma non era mai un limite netto e immutabile. Dopo un po’ ero in grado di capire esattamente dov’era il confine in quel dato momento: capivo se aveva bisogno del suo dipendente per fare questo e quello, oppure se invece aveva bisogno dell’amico. Era così per forza. In quel modo sapeva che poteva sgridarmi, cosa che faceva spesso, soprattutto per sfogare le sue frustrazioni. Sapevamo tutti e due perché lo faceva, per cui andava bene così. Dopo non ne parlavamo più. Freddie non serbava rancore. Si sfogava sul momento e poi era finita lì.» Era difficile essere sempre a disposizione del suo «padrone»? C’erano state volte in cui si era sentito come un servitore? La sua risposta era negativa. «Soprattutto perché – ed è terribile ammetterlo – Freddie non mi trattava come io invece avevo trattato i domestici che avevamo in India, ordinandogli di fare questo e quello... Era sempre gentilissimo con me; quasi sempre. Anche se avevo uno stipendio, non dovevo pagare mai niente, così come tutti quelli che lavoravano per lui. Mai una cena, né una birra. Se una volta gli offrivamo offrivamo noi da bere era contento, ma non se lo aspettava. Se andava al bar ed eravamo in dieci, finiva tutto sul suo conto. Ma non aveva soldi in tasca, quelli glieli tenevamo noi. Era proprio come un aristocratico, in questo senso. Non mi ha mai fatto sentire a disagio.» Ora che tutto è finito, Peter riconosce di avere avuto «una vita molto fortunata» con Freddie e i Queen. «A tutti gli effetti ho vissuto la sua stessa vita, senza dovermela meritare. Non dovevo comporre canzoni o parlare ai giornalisti. Ho preso il Concorde una miriade di volte, sono stato nelle migliori suite dei migliori alberghi del mondo, ho fatto acquisti per conto suo nelle migliori case d’asta, con i suoi assegni firmati in bianco. Vivevo e spendevo come lui. Come avrei mai potuto sentirmi un ‘servitore’?» La forte amicizia personale che nacque tra i due, negli ultimi anni si basava sul rispetto e sulla fiducia reciproci. «Freddie non si fidava delle persone con tanta facilità», racconta Peter. «O si fidava di te nel giro di poco, o non si fidava per niente. Il fatto che mi
avesse assegnato quel ruolo fu la base della nostra amicizia: iniziò già durante il primo anno. Litigammo sul serio una volta sola, nel 1989 circa», quando Freddie pensò che Peter avesse parlato della sua malattia in giro, cosa che non era vera. «Ma durò poco. Gli dissi che ne avevo avuto abbastanza, che volevo andarmene. ‘Ti prego, non farlo’, mi rispose. ‘Resta qui. Ho bisogno di te.’ Era tutto quel che volevo sentirmi dire. Dimenticai subito le sue accuse ingiuste, ingiuste, e rimasi rimasi con lui fino alla fine. «La sua cerchia personale era davvero la sua famiglia. Facevamo tutto per lui. Avrei fatto di tutto per lui. E non solo perché mi pagava, ma per rispetto. Per me era su un piedistallo… Non lo feci perché lo ammiravo o perché ero in soggezione, ma perché avevo avuto la fortuna di diventare suo amico. amico. Non l’avrei fatto per nessun altro.» Quando Peter divenne il suo assistente personale, Freddie viveva già una vita di eccessi. Molti si domandano come come abbia fatto a tenerla nascosta nascosta ai media. «Semplice», spiega Peter, «era solo una questione di riservatezza.» «Ci sono certi personaggi nel mondo del rock che andrebbero all’inaugurazione di uno sgabuzzino pur di farsi fotografare», spiega. «Se non fanno notizia, ne creano una, solo per restare sotto i riflettori. Freddie invece faceva di tutto per non finire sui giornali. Certo, partecipava a tutti gli eventi promozionali dei Queen, ma non alle grandi feste o alle varie première dello show business. Di rado andava ai concerti degli altri. Era molto riservato. La musica era il suo mestiere, lo studio il suo ufficio. E quando non era in ufficio, non voleva certo lavorare.» Nonostante gli eccessi e le imprudenze del cantante, Peter sostenne di non avere mai temuto per la sua incolumità. «Era normale in quegli anni», ricorda con un’alzata di spalle. «Erano i primi anni Ottanta. Si poteva fare qualsiasi cosa.» C’era anche un altro motivo per cui Freddie era di buon umore nell’ottobre del 1979: il quattordicesimo singolo della band, Crazy Little Thing Called Love, Love, spalleggiato da We Will Rock You di You di Brian sul lato B, era stato accolto con euforia dalla stampa musicale, piazzandosi al secondo posto nella classifica inglese. Oramai abbandonato del tutto il look bohémien, Freddie aveva abbracciato gli abiti di pelle in versione gay, con pantaloni neri o rossi, e berrettini da macho. Era quella la sua nuova divisa sul palco, per dare un’immagine più dura e aggressiva, che però non sarebbe
durata a lungo. Nel giro di qualche anno, il look si sarebbe evoluto, ammorbidendosi molto, fino a raggiungere l’immagine definitiva: canottiera bianca e jeans. Freddie era pienamente padrone della sua immagine e proiettava un atteggiamento di sfida. Il look essenziale era perfetto per il nuovo decennio alle porte. «Da ora in poi, i costumi sgargianti sono out », », dichiarò. «Trasmetterò il nostro messaggio musicale vestendomi più casual. Il mondo è cambiato, la gente vuole qualcosa di più diretto.» Dopo tutti quegli anni di successi, i Queen cominciavano ad avvertire i primi segni di stanchezza. Erano stufi e nervosi, e con l’affievolirsi dell’entusiasmo e dell’energia i loro rapporti si deteriorarono sempre più. Negli anni ho visto diverse grandi band attraversare periodi simili. Arriva sempre un momento in cui la carriera non è più tutto, in cui non si è più coinvolti come agli inizi. Brian, Freddie, Roger e John stavano invecchiando. Oramai erano tutti adulti, con mogli o compagne, figli, case, dipendenti, un’immagine pubblica da difendere, impegni solisti e di beneficenza da onorare. Ognuno di loro era una piccola azienda con infinite responsabilità. I Queen non erano più la band dei primi tempi, cioè un gruppo di giovanotti spensierati e pieni di talento, che giravano il mondo a cantare e ballare, facendo ciò che più gli pareva. Anche le loro rispettive personalità, maturando, li avevano portati in direzioni diverse. Roger era a suo agio nel ruolo della grande superstar e riempiva i titoli dei giornali tanto quanto il leader del gruppo, specialmente per la sua movimentata vita privata. Brian, invece, non amava molto la notorietà, anche se si era abituato, soprattutto dopo avere incontrato un’attrice, Anita Dobson (sua seconda moglie), che conosceva molto bene l’ambiente dello show business. John infine era totalmente immerso nel mondo domestico e famigliare che Freddie aveva rifuggito e dal quale si era sentito forse escluso. Sotto questo aspetto, forse Freddie si sentiva in colpa. John infatti, era l’uomo ideale per i suoi genitori: i Bulsara avrebbero dato qualsiasi cosa perché il figlio fosse come Deacon. Il bassista personificava tutte le qualità che Freddie non aveva. Dei quattro, stranamente era proprio Freddie quello meno interessato all’esposizione mediatica. Lui si riteneva prima di tutto un musicista e uno showman, e solo in seconda analisi una rockstar. A suo avviso, la cosa importante era cesellare dischi perfetti e fare uno spettacolo più
sorprendente dell’altro; essere sempre il migliore, per i fan come per se stesso. «Era un gran perfezionista», concorda Peter. «Passava ore su una canzone: voleva assicurarsi che non ci fosse un modo migliore per strutturarla, che non esistesse melodia migliore per esprimere quel che voleva. Componeva Componeva innanzitutto innanzitutto per se stesso; cercava cercava la perfezione perfezione per se stesso, non per gli altri.» A Freddie non interessava partecipare alle feste «giuste» o alle première «immancabili». Non gli interessava coltivare amicizie importanti. Non faceva la corte ad amici famosi: lasciava che fossero gli altri a cercarlo. Se poi la persona in questione aveva delle cose in comune con lui, allora bene, altrimenti lasciava perdere. Essere visto? Non gliene poteva fregare di meno. Laddove le star odierne, molto meno solide, sono ossessionate dalla loro immagine pubblica e smaniano di leggere il proprio nome sui giornali, Freddie riteneva questa preoccupazione quanto meno noiosa, per non dire inutile e di cattivo gusto. «Servono nervi d’acciaio per sopportare questi ritmi», osservò una volta. «Quando hai successo diventa tutto molto difficile, perché scopri quel che c’è dietro questo business. Vedi il marcio, incontri i veri cattivoni. Prima non ne sapevi nulla, poi però devi per forza essere molto forte e fare una cernita. Questo business è come un’autopista: devi fare attenzione a tutti quelli che ti vengono contro ed evitare che ti tamponino troppo. Chiunque abbia successo rimane scottato prima o poi. Non c’è una scala mobile che ti porti in cima», aggiunse sibillino. Per una rock band il successo globale comporta inevitabilmente un distacco dai fan delle prime ore. Consapevoli di questo, e preoccupati per l’inevitabile effetto a catena, per il nuovo tour i Queen decisero di evitare gli stadi a favore di ambienti più intimi, come teatri e sale da ballo: alcuni di questi palesemente inadatti a ospitare la loro enorme macchina scenica. Ribattezzato «Crazy Tour», proprio per l’inadeguatezza di alcuni dei locali scelti, e promosso da Harvey Goldsmith, il nuovo tour li vide esibirsi a Dublino per la prima volta, e poi a Birmingham, Manchester, Glasgow e Liverpool, dove Freddie sfoggiò due ginocchiere, una rossa e una blu, per accontentare sia i tifosi dell’Everton sia quelli del Liverpool, le due squadre della città. Suonarono anche a Brighton e in una serie di date a Londra, fra cui una alla Lyceum Ballroom e una al Rainbow Theatre. Attaccarono la
tournée con particolare entusiasmo e alla fine dichiararono di essersi divertiti moltissimo, cosa che non accadeva da tempo. Il tour gli ricordò quanto era bello suonare ai vecchi tempi, quando fama e ricchezza erano poco più che un sogno. Dopo il concerto di Brighton, Freddie confidò a un amico di non disprezzare qualche strana orgetta, di tanto in tanto. «Due sere fa eravamo a Brighton e la squadra dei tecnici aveva organizzato una festa», disse. «Una cosa alla Queen; siamo bravissimi a far festa. C’erano un sacco di sporcaccione e tutti si sono fatti sotto. Non ti faccio nomi, ma c’era della bella gente… C’erano arredi scenici e quant’altro che volavano dappertutto. Magnifico!» Freddie però non menzionò la sua notte d’amore fra le braccia di un giovane corriere della DHL, Tony Bastin. Bastin divenne il primo compagno fisso del cantante, imbastendo una relazione altalenante di circa due anni, che però non bastò come antidoto alle sue abitudini licenziose. Nessuno dei due si illuse mai di avere trovato l’amore della sua vita. «Tony non era affatto il suo tipo», spiega Peter, riferendosi al fatto che di norma Freddie non amava i ragazzi biondi e con un aspetto normale come Bastin. «A Freddie piacevano i tipi grandi e muscolosi, e relativamente anonimi, su cui poteva lasciare il segno», spiega. «Desiderava una relazione fissa solo per avere una base d’appoggio stabile che gli permettesse di continuare a vivere come come prima.» prima.» Tutti gli amanti di Freddie erano persone semplici. «Sebbene in fondo anche lui fosse un ragazzo di campagna – cosa che odiava ammettere – nel tempo aveva acquisito gusti raffinati. I suoi amanti imparavano ad adeguarsi in fretta e finivano per avere aspettative sempre più elevate.» Bastin si trasferì nell’appartamento di Freddie in Stafford Terrace, portandosi dietro il gatto, Oscar, e iniziò a seguire il compagno in tournée. Presto si abituò fin troppo al lusso, ma non si può fargliene una colpa, visto che Freddie prodigava voli in prima classe e altri regali costosi. Non che il giovane corriere sembrasse apprezzare tutto ciò. Dopo un po’, infatti, Freddie si accorse che Bastin lo stava usando e – cosa assai peggiore – gli giunse voce che fosse stato visto in giro in compagnia di un biondino. Fu il primo di molti tradimenti simili. «Spesso le sue relazioni finivano male, con un tradimento, e negli anni
Freddie divenne sempre più cauto prima di lasciarsi coinvolgere a livello emotivo», rivela Wigg. «Appena gli regalava un braccialetto di Cartier o una macchina... capisci? Non erano molto furbi quei suoi ‘amichetti’. Capita spesso con gente del genere. Le persone che bazzicano intorno a una star hanno un ego spropositato, a volte più grosso di quello della stessa star. Finiscono per credere che anche loro possono diventare qualcuno, dimenticandosi che non hanno una briciola di talento e che sono lì solo perché sono al servizio di una grande stella.» Questo potrebbe spiegare perché Freddie preferisse il sesso senza legami, con partner sempre diversi, e riservasse il suo affetto agli amici più fidati. Alla fine, il cantante convocò Bastin negli Stati Uniti, troncò la relazione e lo rispedì indietro con il primo aereo, ordinandogli di sgomberare il suo appartamento ma di lasciare il gatto. I Queen salutarono la nuova decade con l’uscita del quindicesimo singolo, Save Me, Me, che si piazzò undicesimo nella classifica inglese. Nel frattempo, la elvisiana Crazy Little Thing Called Love Love sedusse il resto del mondo, regalando ai Queen la prima numero uno americana e raggiungendo i vertici delle classifiche anche in Australia, Nuova Zelanda, Messico, Canada e Olanda. La band si ritirò a Monaco per lavorare a un nuovo album e alla colonna sonora di Flash Gordon. A Londra nel frattempo Mary aveva trovato a Freddie la casa dei suoi sogni. Quando lui ricevette per posta le specifiche di Garden Lodge in Logan Place, una tranquilla via residenziale nel Royal Borough o Kensington and Chelsea, poco distante dalla sua beneamata Kensington High Street, si innamorò all’istante della dimora. Cinta da vecchie e nobili mura sormontate da una ringhiera coperta di rampicanti, la casa offriva una privacy quasi totale. Dalla strada si vedeva solo il tetto. L’edificio in stile edoardiano aveva due piani e otto camere da letto e, al contrario di molte altre nella zona, un giardino con grandi alberi. L’entrata era un anonimo portoncino verde scuro; anni dopo sarebbe stato ricoperto di scritte dai fan di tutto il mondo. La casa apparteneva a una famiglia di banchieri, gli Hoare, e l’assonanza fra quel cognome e il termine «puttana» (whore ( whore)) fu subito notata da
Freddie, che prontamente la ribattezzò «Whore House» (bordello). Il prezzo trattabile superava il mezzo milione di sterline. Freddie pagò in contanti senza batter ciglio. Dato che nel tempo era stata suddivisa in due residenze separate, Freddie iniziò una lunga ristrutturazione per riportare la dimora al suo antico splendore. Sarebbero passati anni prima che potesse finalmente chiamarla «casa mia», ma questo non gli impedì di vantarsene fin da subito. «L’ho vista, mi sono innamorato e dopo mezz’ora era già mia», disse alla giornalista Nina Myskow. «Adesso è un cantiere. Voglio cambiare diverse cose. Forse ci entrerò tra un anno. È una casa di campagna… in città. È molto appartata, con un parco enorme, ma è nel centro di Londra. Una volta al mese mi viene l’ispirazione e vado lì con l’architetto. Perché non tiriamo giù questo muro? gli chiedo. Tutti sbuffano e l’architetto vorrebbe morire. L’altro giorno ero ubriaco dopo un bel pranzetto e sono andato lì. In alto c’è un posto bellissimo dove voglio farci una grande camera da letto. Sto buttando giù tre stanze per fare una splendida suite. In quello stato, ho detto, ispirato: ‘Sarebbe bello mettere una cupola di vetro sopra la camera da letto’. L’architetto è trasalito, ma poi è corso subito a prendere carta e penna. Non ho ancora visto i disegni, ma li sta preparando.» Sky apprese la notizia da un’intervista sul Daily Star . «Mi piace spendere, spendere e spendere,» aveva confessato un gasatissimo Freddie. «Di recente ho comprato casa. Adoro comprare pezzi di antiquariato da Sotheby’s e Christie’s. Christie’s. A volte potrei andare da Cartier e comprarmi tutto il negozio. Spesso le mie spese folli cominciano in modo semplice, come una donna che esce solo per comprarsi un cappellino tanto per farsi tornare il buonumore. A volte sono così stufo di tutto che voglio solo affogare nei soldi. Sono così agitato che spendo, spendo, spendo. Poi torno a casa penso: Oddio, ma che cosa ho comprato? Ma niente è sprecato, perché mi piace molto fare regali.» Poi confessò a Ray Coleman del Daily Mirror : «Non amo la vita facile. Se spendo tanto, devo continuare a guadagnare tanto. È così che mi autostimolo. Bevo molto, fumo molto, mi piacciono i vini pregiati e la buona cucina. Non mangerei mai più hamburger». L’ossessione per la nuova casa era solo un altro modo per allontanare la noia. «È la peggior malattia del mondo», ammise. «Io corro intorno al mondo come un pazzo, ma a volte penso che la vita non sia tutta lì: per giunta io mi
annoio, perché non riesco riesco a star fermo per tanto tempo, divento nervos ne rvoso. o. «Ti abitui a cose diverse. I tuoi standard e le tue aspettative crescono. Se sai che hai bisogno di intrattenimento costante, fai in modo di garantirtelo. Quando racconto alle persone le cose che ho escogitato, restano allibite. Ma sono fatto così, è il mio modo per divertirmi. Ecco perché non riesco a starmene seduto a leggere un libro. Leggerò tutti i libri del mondo quando quest’avventura sarà finita e non potrò più camminare. Può darsi che sia solo ingordigia, ma sono un intrattenitore. Ce l’ho nel sangue... Sono solo un attore come tanti, caro mio. Datemi un palcoscenico! Ma in un certo senso ho creato un mostro, vero? E devo conviverci.» Il sedicesimo singolo dei Queen, Play the Game, Game, vide la luce il 30 maggio 1980. Le fan si offesero per l’immagine indurita ostentata nel video da un Freddie con tanto di baffi. Molte bombardarono gli uffici dei Queen con flaconi di smalto. Nonostante le proteste, il singolo si piazzò al quattordicesimo posto in classifica. Nell’estate del 1980 i Queen affrontarono una nuova ed epica tournée americana di quarantotto date, che registrarono il tutto esaurito dalla prima all’ultima. Poi il nono album della band, «The Game», uscì nel Regno Unito. Stroncato dalla critica, scalò la classifica e arrivò in vetta. A Vancouver i fan della band, che di solito lanciavano mutandine e fiori, tirarono rasoi e lamette sul palco. Ma i baffi restarono dov’erano. Another Another One Bites the Dust , composta e suonata quasi interamente da John Deacon, che oltre al basso registrò anche le parti di pianoforte e chitarra (nota bene: niente sintetizzatori; Roger aggiunse la batteria e Brian altri pezzi di chitarra e armonizzatore) uscì ad agosto e andò dritta al primo posto in America, restandoci per cinque settimane. Raggiunse il top anche in Argentina, Guatemala, Messico e Spagna e la settima posizione nel Regno Unito. A oggi è il singolo più venduto dei Queen: oltre sette milioni di copie. John disse che quell’inconfondibile giro di basso era stato ispirato da Good Times, Times, il classico della disco music firmato dagli Chic. «Freddie cantò fino a farsi venire il mal di gola», commentò Brian sulla rivista Mojo rivista Mojo.. «La canzone gli piaceva tantissimo e voleva che fosse speciale.» «The Game» fu il primo album dei Queen a raggiungere il primo posto negli USA, superando ogni aspettativa. La mastodontica tournée americana si concluse con quattro date al Madison Square Garden, mentre tutti erano ancora sconvolti per l’improvvisa scomparsa del batterista dei Led Zeppelin.
John Bonham, che aveva solo trentadue anni, era morto soffocato dal suo stesso vomito dopo avere ingollato quaranta bicchierini di vodka. La sua morte distrusse una delle band preferite dei Queen. Fu durante quella tournée che Freddie incontrò il suo «vichingo personale», Thor Arnold. Infermiere di giorno e beniamino della scena gay di Manhattan di notte, Arnold abitava vicino al Greenwich Village e aveva abbordato Freddie in uno dei locali del quartiere. Sebbene la storia ebbe vita breve, i due rimasero rimasero amici amici fino alla fine, soprattutto soprattutto perché perché Arnold non voleva nulla dal suo famoso amico. Se per esempio gli prendeva il ticchio di salire su un aereo per fargli una sorpresa, si pagava il biglietto da solo. Freddie apprezzava questi gesti e lo adorava per questo. E poi, tramite Arnold, Freddie conobbe tre nuovi amici a Manhattan: Joe Scardilli, John Murphy e Lee Nolan. I quattro furono presto ribattezzati le «figlie newyorchesi», e ogni volta che era in città Freddie usciva con loro a far baldoria. A ottobre i Queen si concessero una breve vacanza, che però non fu sufficiente a farli rilassare, a patto che ancora sapessero come farlo. Il decimo album, la colonna sonora di Flash Gordon, Gordon, non era ancora finito, ma il singolo Flash era già pronto per il mercato. Mentre i quattro preparavano un altro tour europeo, con tre date alla Wembley Arena, furono raggiunti dalla notizia della morte di John Lennon, ucciso sulla soglia di casa da un fanatico. Questo spinse tutte le persone famose a prendere atto della propria vulnerabilità. C’erano altri pazzi in giro, come John Hinckley Junior per esempio, ossessionato dall’attrice Jodie Foster e che avrebbe tentato di uccidere il presidente Reagan nel 1981. I Queen non avevano mai fatto particolare attenzione alla propria sicurezza, ma era giunta l’ora di cambiare. Come tributo per Lennon, suonarono Imagine alla Wembley Arena. Anche se Freddie si dimenticò le parole e Brian gli accordi, il coro fu intonato da una folla di spettatori ancora scioccati e affranti per la perdita. Arrivò una valanga di premi: due nomination ai Grammy Award, per «migliore produzione» («The Game»), e «miglior performance rock di un duo o di un gruppo con cantato» per Another Another One Bites the Dust (persero; vinse Bob Seger). Crazy Little Thing Called Love e Another One Bites the Dust entrarono entrarono entrambi nei primi cinque singoli più venduti in America: il secondo brano superò i tre milioni e mezzo di copie vendute. Verso fine
anno, mentre pianificavano un nuovo tour giapponese, i Queen tiravano le somme. Avevano venduto oltre quarantacinque milioni di album e venticinque venticinque milioni milioni di singoli singoli in tutto il mondo. Erano entrati e ntrati nel Guinness dei primati come gli amministratori d’azienda più remunerati e con se stessi come principale patrimonio. Erano delle rockstar: che cosa potevano fare di ancora più grande, migliore e innovativo?
16 Sud America
All’inizio siamo andati andati in Sud America perché ci avevano invitato. Volevano Volev ano quattro giovanotti giovanotti aitanti che suonassero suonassero bella musica… Alla fine avrei voluto comprarmi comprarmi tutto il continente e autonominarmi autonominarmi presidente. L’idea di fare un grande grande tour in in Sud America America circolava circolava da tempo. Ma portare portare in giro giro i Queen costa un sacco di soldi soldi e coinvolge moltissime persone. persone. Però Però ci siamo siamo detti: Fanculo i costi, tesoro, godiamoci godiamoci la vita! FREDDIE MERCURY Quest’industria è piena di persone che desiderano d esiderano disperatamente disperatamente essere amate. Siamo tanti piccoli esibizionisti esibizionisti insicuri. insicuri. Sembra tutto tutt o favoloso, facciamo del nostro meglio per intrattenere il pubblico. A vederci ved erci pare pare che sappiamo sappiamo il fatto nostro, ma sotto la superficie ci agitiamo come papere papere fatte di di crack. FRANCIS R OSSI O SSI
DOPO avere conquistato cinque continenti su sei (escludendo l’Antartide, dove i fan del rock sono un numero trascurabile), solo il Sud America era ancora terra incognita per i Queen. Da anni girava la voce, fasulla, che la band più venerata e famosa in Argentina e Brasile stesse pianificando una tournée da quelle parti. Solo una manciata di artisti si era avventurata lì prima di allora, tra questi gli Earth,Wind & Fire e Peter Frampton, ma mai
con un tour di dimensioni colossali come meditavano di fare i Queen. Eppure, se si poteva fare secondo il loro standard, ovvero nei migliori stadi del continente, allora erano determinati ad andarci. Siccome il calcio era praticamente una religione laggiù, i posti adatti a ospitare un grande concerto non mancavano di certo. E se la Coppa del Mondo era l’evento sportivo più seguito sul pianeta, i Queen erano la più grande rock band del mondo. Era il 1981 e Freddie avrebbe compiuto trentacinque anni. Molti argentini piazzati nei posti giusti avrebbero guadagnato una fortuna grazie alla tournée dei Queen. José Rota fu nominato promoter. Alfredo Capalbo, influente imprenditore del Paese, fornì gli impianti per lo stadio Vélez Sarsfield di Buenos Aires, per quello municipale di Mar del Plata e per quello di atletica di Rosario. I Queen erano contentissimi di poter usare gli stadi della Coppa del Mondo: li ritenevano più che adatti a ospitare i loro spettacoli. In fin dei conti, come disse Brian: «Il pubblico dei Queen è come una folla di tifosi non divi d ivisa sa in due d ue fazioni». fazioni». Durante i preparativi per il cosiddetto «South America Bites the Dust Tour», Freddie andò a New York per concludere l’acquisto di un appartamento. Il suo portafoglio tirò un sospiro di sollievo: pagare mille dollari a notte per una camera d’albergo era un’esagerazione persino per uno come lui, dato che a volte restava in città per più di tre mesi di fila. Sempre assistito da Peter, Freddie acquistò una magnifica residenza con doppia vista panoramica, a nord e a sud. «Mi ricordo ancora il suo entusiasmo per i festeggiamenti del centenario del ponte di Brooklyn», racconta Peter. «Li guardammo in contemporanea, dal balcone e in televisione. Prima l’appartamento apparteneva a un senatore, o forse un membro del Congresso, un certo Gray. Freddie l’aveva comprato dalla vedova. Era tutto arredato in grigio ( grey ( grey ): ): quattro camere da letto, cinque bagni e il salotto, tutto rivestito di tessuto grigio, come quello che usano per le giacche degli uomini d’affari. Le pareti della sala da pranzo erano foderate di raso argenteo. Sebbene di solito Freddie amasse arredare e rimodernare le case che comprava, quella la lasciò esattamente com’era.» Mentre il cantante prendeva possesso della sua nuova dimora sulla East Coast, quaranta tonnellate di attrezzature, luci e impianti
viaggiavano viaggiavano via nave dagli Stati Uniti U niti a Rio de Janeiro Jane iro,, dove sarebbero state montate in vista degli storici concerti. Altre venti tonnellate furono trasportate su uno speciale DC8 da Tokyo a Buenos Aires, la tratta aerea più lunga del mondo. Quando infine anche i Queen atterrarono in Argentina, il 24 febbraio 1981, in una bella giornata con temperature attorno ai ventisei gradi, capirono per la prima volta che cosa significava ricevere «un’accoglienza da eroi». Certo, sapevano cosa si prova a essere accolti da folle di fan estasiati – era già successo a Tokyo – ma nemmeno i giapponesi potevano prepararli per ciò che li aspettava a Buenos Aires. Fin dal giorno in cui il tour era stato approvato dal governo e annunciato in via ufficiale, sui media era scoppiata una vera «Queenmania». Nei giorni precedenti il loro arrivo, decine di migliaia di fan avevano cominciato a convergere sulla capitale. Il giorno dello sbarco pareva che si fossero dati tutti appuntamento all’aeroporto. Ad attendere la band c’erano persino una delegazione presidenziale e una scorta della polizia. L’evento fu trasmesso in diretta sull’emittente pubblica del Paese. Persino Freddie restò senza parole. «Quando siamo entrati nell’aeroporto, non riuscivamo a credere alle nostre orecchie», raccontò. «Gli altoparlanti avevano smesso di annunciare i voli e trasmettevano le nostre canzoni!» La giornalista argentina Marcela Delorenzi, che all’epoca aveva quindici anni, descrisse l’avvenimento come «il primo grande evento rock nel nostro Paese». «Scatenò una rivoluzione incredibile», disse. «Sui giornali, alla radio e in tv, per ventiquattr’ore al giorno, un mese prima del loro arrivo, si parlava solo dei Queen. Dopo quel tour, i cantanti rock del nostro Paese sono stati costretti a cambiare immagine e adottare un altro approccio alle loro esibizioni dal vivo. Hanno dovuto migliorare gli impianti, le luci, ogni aspetto della performance. All’improvviso, tutto ciò che prima era accettabile apparve penoso rispetto ai Queen. Il loro tour è stato come una versione versione rock rock dell’avvento di Cristo. Cristo. Da allora in poi tutto è stato definito come ‘prima dei Queen’ e ‘dopo i Queen’. Hanno avuto un effetto profondo su tutto il Sud America. Orde di cileni, uruguaiani, paraguaiani e boliviani hanno attraversato il confine per venire ai concerti in Argentina. Le date di Buenos Aires sono ancora incise nella mia memoria: 28 febbraio, 1º marzo e 9 marzo.»
L’incontro con il suo idolo, Freddie Mercury, le cambiò la vita, raccontò Marcela con le lacrime agli occhi. «Alloggiavano allo Sheraton di Buenos Aires. Io andai lì con un sacco di altri fan ad aspettare che uscissero, perché dovevano andare a una conferenza stampa allo stadio. C’era una folla enorme che aspettava di vedere vede re Freddie: Fredd ie: gridavano gridavano e intonavano cori cori come come se fosse la fine del de l mondo. «Avevo un abito celeste e rimasi di sasso quando vidi che Freddie era vestito dalla testa ai piedi piedi con il mio stesso identico colore. colore. Uscì dall’ascensore circondato da guardie del corpo, ma sentii il bisogno irrefrenabile di correre ad abbracciarlo. Lo feci e gli diedi una lettera, dicendogli anche che avrei voluto conoscere ‘Frederick Bulsara’, non ‘Freddie Mercury’. Nella lettera c’era il mio indirizzo e il mio numero di telefono, ma ovviamente non mi aspettavo che mi telefonasse. L’avevo chiamato con il suo vero nome perché ero convinta che avesse due personalità, una buona e una cattiva, una bianca e una nera. Freddie Bulsara era il buono, il lato bianco. Solo molti anni dopo avrei scoperto che non mi ero sbagliata più di tanto. «Poi una delle guardie del corpo mi colpì e mi spinse via. Non ce l’avevo con loro: erano nervosi e dovevano reagire, casomai qualcuno volesse attaccare Freddie, ma ovviamente io non volevo certo fargli del male. Volevo solo toccarlo. Immagino che ci fossero milioni di persone in tutto il mondo che si sentivano esattamente come me. Poi la band lasciò l’albergo ed entrò subito in macchina. Solo Brian rimase un po’ indietro a firmare qualche autografo e dovettero spingerlo dentro l’auto [blindata e con tanto di mitragliatrice]. Mentre si allontanavano, vidi che Freddie aprì la mia lettera e cominciò cominciò a leggerla. Ero euforica.» euforica.» Marcela è la giornalista che mi portò una copia del certificato di nascita di Freddie. Allo stadio di Buenos Aires, i fan si misero in coda fin dalle otto del mattino, anche se per via del caldo lo spettacolo non sarebbe cominciato prima delle dieci di sera. Marcela andò a due dei tre concerti di Buenos Aires, dove i suoi idoli salirono sul palco accompagnati da guardie armate. «In Argentina non si era mai visto nulla del genere», prosegue. «All’inizio scese sul palco una specie di UFO, fra un turbinio di luci e fumo; un momento magico. Tutti avevano la pelle d’oca. La gente intorno a me piangeva. Il prato era stato coperto di erba artificiale e le misure di sicurezza
erano enormi: c’erano poliziotti ovunque, perché all’epoca avevamo una dittatura di estrema destra, guidata dal generale Viola. Il generale aveva detto che voleva incontrare i Queen e aveva mandato loro un invito ufficiale. Ci andarono tutti tranne Roger, che si rifiutò dicendo che era venuto in Argentina a suonare per il popolo, popolo, non per il governo.» Una dichiarazione esplosiva. Il Paese era sotto il dominio della giunta militare di Roberto Eduardo Viola Redondo, che quello stesso dicembre sarebbe stato deposto da un colpo di stato guidato dal comandante in capo dell’esercito, il generale Leopoldo Galtieri, e che in seguito sarebbe stato incarcerato per violazione dei diritti umani. Nel 1982 Galtieri avrebbe portato l’Argentina alla guerra contro il Regno Unito per il possesso delle isole Malvine. Quando scoppiò il conflitto, la musica dei Queen fu bandita dalle radio argentine. «Due anni dopo la visita dei Queen, raggiungemmo la democrazia per la prima volta dopo quasi quindici anni», osserva Marcela. «Una cosa simile accadde in Brasile. Nel 1984 i Queen hanno suonato in Sud Africa fra mille polemiche. Un paio di anni dopo il regime dell’apartheid cadde e anche il Sud Africa raggiunse la democrazia. E poco dopo i loro concerti in Ungheria, nel 1986, cadde il regime e gli ungheresi poterono contemplare un futuro democratico. Tutte coincidenze, probabilmente, ma comunque incredibili: era come se i Queen portassero libertà e pace al popolo ovunque andassero. Era come se fossero la band della libertà.» Freddie era in piena forma, muscoloso e abbronzato. Salì sul palco sfoggiando il suo nuovo look: jeans stretti e canottiera bianca, e un foulard legato alla cintura. Portava i baffi curati e folti, per nascondere i denti. Da allora in poi non avrebbe più cambiato immagine fino alla fine della sua carriera, che sarebbe durata solo altri cinque anni, nonostante all’epoca nessuno potesse saperlo. saperlo. Sprizzando energia da tutti i pori, ogni sera Freddie corse su e giù per il palcoscenico. Il ruggito della folla era spaventoso, ma lui seppe tenergli testa. «Non solo incantava gli spettatori», ricorda Wigg, «ma incantava anche se stesso.» Freddie guidò il pubblico argentino con i suoi «Yeah!» «All right!» «Okay!» «¡Cantan muy bien!» Si complimentò con i fan: «Cantate benissimo!» Un brano in particolare si impose sugli altri: Love of My Life, Life,
composta da Freddie e dedicata a Mary. Una registrazione dal vivo di quella dolce ballata, uscita come singolo in Sud America nel 1979, aveva regnato al primo posto in Argentina e in Brasile per un anno intero. I fan la conoscevano a memoria e la cantarono con Freddie in perfetto inglese. La folla si trasformò in un mare di fiammelle ondeggianti quando migliaia di fan sventolarono gli accendini. Freddie provocò un altro boato del pubblico quando si sistemò al pianoforte per introdurre un altro brano famoso. «Questo è noto come ‘Bo Rap’», disse. La band attaccò il suo grande classico, Bohemian Rhapsody , uscendo di scena durante l’interludio «lirico». Nemmeno per le folle sudamericane, quella parte della canzone poteva essere eseguita dal vivo. Fra le numerose interviste che Freddie rilasciò a Buenos Aires, ve ne fu una per la rivista Pelo, Pelo, l’equivalente argentino di Rolling Stone. I giornalisti gli domandarono perché sembrasse sempre separato dal resto del gruppo, al che Freddie rispose: «Siccome i Queen suonano e registrano insieme, le persone ci vedono come un’unità. Ma i Queen sono un gruppo, non una famiglia. Ognuno di noi fa quello che preferisce». In effetti, una caratteristica di quella tournée, presagio di future fratture, fu una netta separazione fra Freddie e i compagni: da un lato Peter Freestone, Joe Fanelli, Jim Beach, Paul Prenter e l’amante di Freddie, Peter Morgan (tutti i «finocchi», tranne Beach), e dall’altro il resto della band e della troupe (gli «etero»). Lontano dal palco, le due fazioni conducevano vite separate. La carovana carovana era tenuta insieme insieme dal tour manager Gerry Stickells. Come sempre, Freddie lottava con le sue contraddizioni interiori. Morgan, un ex body-builder rinomato per avere girato uno dei primi video omoerotici, da tempo intratteneva una relazione focosa e intermittente con il cantante e l’aveva raggiunto a Buenos Aires. Durante la sua permanenza, però, lo tradì con un uomo molto più giovane. Freddie scoprì la tresca quando vide per caso i due insieme in strada. Tradito per l’ennesima volta, perse ogni fiducia nell’amore. Scaricò Morgan e si concentrò sul lavoro. Ma non imparò la lezione. La sua storia successiva, con Bill Reid, un americano conosciuto in un bar di Manhattan, fu altrettanto disastrosa; forse la più burrascosa di tutte. L’entourage della star ricorda botte, bicchieri rotti e comportamenti vergognosi. Secondo Peter, fu colpa del ‘Periodo Bill Reid’ se Freddie si stufò di New York e abbandonò la scena gay della città, e
forse anche decise di scegliere «la strada più sicura», di «un uomo diverso a ogni spettacolo». «Ci furono momenti molto carichi dal punto di vista emotivo», rifletté Peter. «Sembrava che Freddie avesse bisogno di quelle passioni burrascose per stimolare la creatività. Forse le sue relazioni terminavano a causa delle pressioni del lavoro, oppure dava vita a litigi furibondi per avere una carica extra.» A quanto pare, le difficoltà emotive stimolavano la creatività del cantante. E a Buenos Aires, infatti, Freddie si dedicò al lavoro come mai prima di allora, spinto proprio dalla rabbia e dal dolore per il tradimento di Morgan. Che cosa si aspettava da quella tournée? «Avevo sentito molte cose sull’Argentina», disse, «ma non mi ero mai immaginato che fossimo così famosi. La reazione dei fan è stata incredibile. Da anni volevamo fare un tour in Sud America, ma negli ultimi sei mesi abbiamo lavorato senza sosta. I Queen non sono solo una band, ma una macchina che muove un gran numero di persone. Quindi ci costa tantissimo andare in tour.» Parlando del prezzo del successo e dei problemi con i giornalisti, Freddie tagliò corto: «Per tanto tempo mi hanno dato fastidio», disse con un’alzata di spalle. «Ma, come puoi vedere, adesso non più.» In un’altra intervista per la defunta rivista Radiolandia 2000, 2000, Freddie dichiarò il suo amore per il popolo argentino. «Ero abituato a un altro tipo di reazione da parte del pubblico», disse. «Ma gli argentini sono stupendi e voglio voglio tornare. tornare. Devo ammettere che mi piace essere e ssere trattato trattato come come un idolo. Voglio diventare una leggenda, ma devi capire che il nostro è un lavoro di squadra. I Queen non sono solo Freddie Mercury: sono un gruppo. Basta pensare a Seven Seas of Rhye, Rhye, Killer Queen, Queen , You’re My Best Friend , Somebody to Love [il Love [il brano preferito da Freddie e da sua madre], Bohemian Rhapsody , che ha rappresentato il momento di maggiore soddisfazione della mia carriera. Questi sono tutti pezzi dei Queen, non di Freddie Mercury. Credo che la migliore prova del rispetto che abbiamo per il nostro pubblico siano le nostre opere.» Per evitare il pericolo di rapimenti o altri atti terroristici, quella tournée
fu segnata da misure di sicurezza mai viste prima. Ogni membro della band aveva una guardia del corpo e un traduttore locali, oltre agli addetti alla security inglesi che viaggiavano regolarmente con loro. Quando i fan gli lasciavano montagne di oggetti da firmare, Freddie si divertiva a farli autografare dalle sue guardie del corpo. Amava anche farle arrabbiare schiacciando tutti bottoni dell’ascensore in modo che si fermasse a ogni piano. Descritto come «un bambino dispettoso», Freddie si metteva a fare flessioni con i gorilla nella hall o a sfidarli a correre per i corridoi durante i tempi morti, che erano sempre parecchi. Una volta disse a tutti che le sigarette facevano male alla salute e quindi vietò ai suoi autisti di fumare. Loro pensarono che Freddie Fredd ie si riferiss riferissee alla sua salute. Immaginate quindi la loro sorpresa, quando entrò in macchina e si accese una sigaretta al mentolo. «È per il bene della vostra salute che l’ho detto, non della mia!» esclamò, ridendo del suo stesso scherzo. Una serata particolarmente calda, volle cenare in un esclusivo ristorante di Buenos Aires, il Los Años Locos. Locos. In un luogo così esposto le guardie del corpo erano sulle spine, specialmente quando Freddie disse di voler andare in bagno da solo. Dato che la toilette era allo stesso piano del loro tavolo, gli uomini non obiettarono: per una volta poteva anche andarci da solo, perché no? Di sicuro si sarebbero accorti se qualcuno avesse tentato di infilarsi lì dentro con lui. Poi, però, dopo quasi venti minuti, videro che non era ancora tornato e capirono che era successo qualcosa. Si precipitarono in bagno. «Trovammo due uomini e due donne che bussavano alla porta di un gabinetto, chiusa dall’interno», raccontò uno di loro. «Capimmo subito che Freddie era lì dentro terrorizzato. Quella gente bussava alla porta perché doveva vede doveva vederlo; rlo; pretendeva un autografo. Freddie non rispondeva. Temetti che gli fosse successo qualcosa. Gridammo a tutti di uscire subito. Quando la situazione si calmò, Freddie capì che eravamo noi e aprì la porta. Era bianco di terrore. Disse: ‘Avevate ragione, non posso nemmeno andare in bagno da solo, vero?’» La sera prima del concerto di chiusura a Buenos Aires, i Queen furono invitati a un asado (una asado (una grigliata) alla quinta (casa fuori città) del presidente dello stadio, il señor Petraca. La dimora sorgeva in mezzo a una tenuta incantevole, di cui la band si innamorò all’istante. Tutto andò per il meglio finché non arrivarono i giornalisti. Freddie cambiò umore. Non che lo
infastidissero di per sé (io stessa ero una giornalista quando lo incontrai, ma nel mio caso rimase perfettamente rilassato). Quello che lo esasperava erano le domande scontate che i reporter stranieri tendevano a porgli. «Sono dieci anni che mi fanno le stesse, stupide domande», aveva detto una volta. Quel giorno Freddie era in vena di scherzi e quando vide avvicinarsi due giornalisti argentini, uno dei quali lavorava per Pelo, Pelo, disse al suo interprete di inventarsi le risposte al posto suo. Quando in seguito i due lessero l’intervista si sbellicarono dalle risate. C’era stata una domanda, però, alla quale Freddie aveva voluto dare una risposta autentica: quella su Diego Armando Maradona. La nazionale argentina era campione del mondo, dopo avere vinto il trofeo per la prima volta in casa nel 1978. Nel Paese il calcio era sacro e Maradona era un dio. I Queen erano fra i suoi ammiratori. «In quell’uomo dimora dimora lo spirit spiritoo della de lla ricerca ricerca dell’eccellenza», d ell’eccellenza», scriss scrissee Brian in una lettera. Freddie incontrò il calciatore in una festa a Castelar, presso Buenos Aires, e lo invitò a salire sul palco per l’ultimo concerto di Buenos Aires. Maradona accettò subito. «Freddie non sapeva davvero chi fosse, dato che non era proprio un appassionato di calcio», racconta ridendo Peter. «Appassionato delle cosce dei calciatori, forse sì. E di quelle dei giocatori di rugby, ancor di più!» Tuttavia Freddie non poté fare a meno di prendere in simpatia la giovane stella del calcio mondiale. Per certi versi, poteva identificarsi con lui: erano tutti due abbastanza bassi di statura e perennemente affamati di successo. Maradona salì sul palco e fu accolto da un applauso estatico, dopodiché si tolse la sua maglia numero 10 e la scambiò con la maglietta di Flash di Freddie. Poi presentò Another presentò Another One Bites the Dust , e tornò dietro le quinte, mentre i Queen attaccavano uno dei brani preferiti dagli argentini. Forse il giornalista di di Pelo non era poi così stupido quando intervistò Freddie. Suggerì infatti che lo scambio di magliette fosse stato solo un «gesto demagogico». Freddie, irritato dalle implicazioni di quell’affermazione, la liquidò come «ridicola» e dichiarò che il suo era stato un gesto di amicizia e niente di più. «Se al pubblico sta bene e l’apprezza per ciò che è, non me ne frega niente di quel che pensano i giornalisti», replicò. «Faccio quel che mi pare, anche se la stampa lo etichetta come ‘demagogico’ o ‘sbagliato’.»
L’esperienza sudamericana non fu tutta rose e fiori. Costantemente tormentato da fan e giornalisti, che si accalcavano intorno a lui non appena usciva dall’albergo, Freddie passò più tempo a sfuggire le orde di fan e paparazzi che altro. Riconosciuto ovunque andasse, trovava pace e tranquillità solo chiudendosi nella sua suite. Dormiva più del solito e di rado usciva dall’albergo prima delle due del pomeriggio. Ogni tanto chiedeva di essere portato in giro in macchina per la città, ma dato che i suoi passatempi preferiti erano mangiare fuori e fare shopping, il suo entourage doveva trovare un ristorante diverso ogni sera, anche se poi quando ci andavano magari Freddie quasi non toccava cibo. Almeno le spese erano più fruttuose. In un’occasione il cantante acquistò venticinque paia di calze, dieci magliette identiche e venti paia di pantaloni abbinati. Le sue guardie del corpo gli domandarono perché avesse comprato così tanti capi uguali e restarono di sasso quando spiegò loro che da piccolo non aveva potuto indossare quel che voleva e che quello era il suo modo per rifarsi. «Ogni tanto tornava bambino. Come quando visitammo il giardino giapponese di Buenos Aires», racconta una guardia del corpo. «C’erano sentieri, ponticelli e un vivaio. Freddie lo trovò incantevole e disse che voleva crearne uno simile a Londra. A un certo punto si arrampicò in cima a una cascata per scattare delle foto. La guardia giapponese lo vide e gli ordinò di scendere. Fummo costretti a spiegargli chi era e persuaderla a lasciarlo lassù. Freddie sarebbe sceso solo quando l’avrebbe deciso lui. Poi diede da mangiare alle carpe koi e firmò il registro dei visitatori.» L’euforia dei Queen per il loro storico tour in Argentina fu tarpata dalla notizia che non avrebbero potuto esibirsi nello stadio più famoso di Rio de Janeiro a causa di problemi burocratici. Il leggendario Maracanã, con una capienza di centottantamila spettatori, all’epoca era lo stadio più grande del mondo. Ma i promoter del tour brasiliano avevano incontrato una serie di difficoltà tecniche, legali e politiche che erano risultate insormontabili. Il governatore della città si era rifiutato di concedere l’autorizzazione per il concerto, dichiarando che lo stadio poteva essere usato solo per manifestazioni sportive, religiose o culturalmente rilevanti. Anni prima le autorità avevano detto sì al Papa, e anche a Frank Sinatra, dunque il no ai Queen era inspiegabile. Ma lo spettacolo doveva continuare. La band si accontentò dello stadio Morumbi, all’estremità meridionale della città, dove si esibì di fronte a
centotrentunomila persone, un record: il pubblico pagante più grande al mondo per l’esibizione di un singolo artista o gruppo. La sera successiva arrivarono altri centoventimila fan, sempre per vedere la magia dei Queen, sorvegliati da schiere di poliziotti in assetto antisommossa e da agenti in borghese mescolati tra la folla. Ancora una volta, fu particolarmente commovente vedere centinaia di migliaia di fan che intonavano Love of My Life in Life in perfetto inglese in una città in cui pochi lo parlavano. Insieme le due serate totalizzarono duecentocinquantunomila spettatori: un pubblico più vasto di quello che la maggior maggior parte parte degli arti a rtisti sti vede davanti a sé in tutta la sua carriera. Il successo senza precedenti dei Queen in Sud America era il fiore all’occhiello del manager Jim Beach, oramai ribattezzato «Miami» dalla band. Dopo cinque mesi trascorsi a persuadere le autorità argentine e brasiliane circa i benefici di quell’avventura pionieristica, i suoi sforzi erano stati ampiamente ricompensati. «In sette concerti, oltre mezzo milione di spettatori hanno visto i Queen, quasi tutta gente che non era mai stata a un concerto rock», dichiarò Beach in Brasile. «I costi per esibirsi qui sono così enormi e il nostro margine di profitto è abbastanza ridotto. Ma è stata una magnifica campagna promozionale: durante l’ultima settimana in Argentina i dieci album dei Queen hanno occupato tutte le prime dieci posizioni della classifica. Prima, tutti dicevano che non era possibile fare concerti in Sud America, ma noi abbiamo dimostrato il contrario.» «Non avevamo la minima idea di come ci avrebbero accolti», aggiunse Brian. «In Europa e in America sappiamo che cosa aspettarci, ma per il Sud America eravamo un fenomeno completamente nuovo. In Argentina, dove sono un po’ più raffinati, avevano una vaga idea di che cosa sarebbe successo, ma per i fan brasiliani era tutta una novità. Uno dei momenti più entusiasmanti della mia vita è stato quando ho alzato gli occhi e ho visto centotrentamila centotrentamila persone che ci aspettavano.» Ci furono anche alcune polemiche. Certi critici domandarono se fosse giusto esibirsi in Paesi retti da regimi repressivi come l’Argentina. Non era forse un modo per avallare dittatori che il resto del mondo detestava? Beach era imperturbabile: «Se prendessimo questa posizione, allora resterebbero pochi Paesi al mondo, al di fuori dell’Europa occidentale e del Nord America, dove potremmo esibirci».
Freddie si cucì la bocca, avendo imparato a proprie spese che era meglio mantenere un dignitoso silenzio di fronte alle critiche. «Non parla più perché è un po’ stufo per come le sue dichiarazioni vengono travisate», commentò Brian. «Credo che chiunque incontri Freddie rimanga sorpreso, perché non è la primadonna che uno si immagina. È una persona positiva e buona, come tutti noi. A conti fatti è uno che si impegna sul lavoro e sforna performance stupende.» E dopo il Sud America, dove li avrebbe portati l’irrefrenabile spirito dei Queen?
17 Barbara
Barbara Barbara Valentin Valentin mi affascina affascina perché ha due tette bellissime! Io e Barbara abbiamo un legame che è più forte di qualsiasi relazione relazione d’amore che abbia avuto negli ultimi sei anni. Con lei posso davvero parlar parlaree ed essere essere me stesso e questa è una cosa rara. FREDDIE MERCURY Era un periodo pazzesco, molto meglio e molto peggio di come uno possa immaginare. BARBARA VALENTIN
DOPO lo slittamento a fine anno dell’album «Greatest Hits», l’aprile del 1981 divenne il mese di Roger. «Fun in Space», il suo primo album solista registrato a Montreux un anno prima, era pronto a uscire. Il processo di registrazione era stato estenuante, dato che Roger non era abituato a lavorare senza la presenza e l’aiuto dei tre musicisti con cui aveva condiviso lo studio e il palco senza interruzioni per dieci anni. D’altro canto, una breve fuga solista era inevitabile dopo un periodo così intenso e faticoso. «C’erano alcune cose che volevo fare che non rientravano nel formato dei Queen», disse. «E finché non le facevo non ero soddisfatto.» Gli altri tre l’avrebbero imitato a tempo debito. Dopo la nascita della figlia Louisa a maggio, Brian raggiunse Freddie, Roger, John e Mack a Montreux per incidere «Hot Space». A luglio la
tranquilla città cittadina svizzera si preparava a ricevere le masse per il celeberrimo festival jazz ideato da Claude Nobs. «Quando i Queen comprarono i Mountain Studios, abitavo sopra Montreux», racconta Rick Wakeman. Wakeman era andato in Svizzera nel 1976 per incidere l’album degli Yes «Going for the One», dopo essersi riunito alla band. Lì aveva conosciuto un’assistente dei Mountain Studios, Danielle Corminboeuf, per la quale aveva lasciato la moglie Ros. «La Svizzera è un Paese molto serio ma fino a un certo punto, ti accettano per quel che sei. La gente di qui era contentissima che i Queen avessero comprato gli studi. A nessuno importava un fico secco di quel che facevi nella tua vita privata. Anche la stampa se ne fregava. Quindi agli occhi di un musicista la Svizzera era un posto stupendo per vivere e lavorare. «C’era un pub sulla via principale chiamato White Horse, Horse, che noi avevamo ribattezzato Blanc Gigi (esiste Gigi (esiste ancora, in Grand Rue 28). Era lì che si trovavano tutti quelli che lavoravano ai Mountain Studios. Se un paio di band si sovrapponevano, o se c’erano i Queen, ci trovavamo al Blanc Gigi. Gigi. Ci andavo soprattutto con Roger e Brian, ma spesso arrivava anche Freddie, puntualmente con qualche ragazzino al seguito, ma chi se ne frega. Certo, non era dichiaratamente gay, ma nessuno aveva nulla da ridire. Erano altri tempi. I Queen amavano Montreux. Comprare gli studi era stata una mossa azzeccata dal punto di vista imprenditoriale e in più avevano la scusa per andare in Svizzera Svizzera e restarci restarci quanto volevano. «All’epoca noi musicisti eravamo dei gran lazzaroni. Magari prenotavamo uno studio che costava migliaia di sterline al giorno, poi però uno andava a sciare, uno era a letto ubriaco dalla sera prima. Alla fine arrivavamo solo io e Jon (Anderson), scrivevamo un pezzetto di canzone e poi andavamo al pub. Finivamo per metterci davvero al lavoro verso le sette di sera. Raramente uno faceva una giornata intera di lavoro. Incisioni che sarebbero dovute durare cinque o sei settimane occupavano cinque o sei mesi. Gli studi facevano soldi a palate. Oggi non potresti lavorare così. Con la tecnologia che c’è adesso in pratica puoi registrare un album nella tua camera da letto. «Per anni il mio vicino di casa fu David Bowie. Una sera arrivò al pub, cenò con i Queen e poi tornò con loro in studio, e fu lì che quel giorno passò alla storia.» Bowie era in studio con il fonico David Richards per registrare Cat People
(Putting Out the Fire). Fire) . Richards, che stava lavorando anche all’album degli Yes, nel 1977 aveva assistito il produttore Tony Visconti nell’incisione di Heroes a Berlino. Bowie entrò negli studi e trovò i Queen a metà sessione. «Una lunga serata...» disse Brian. «Stavamo suonando pezzi di altra gente, una jam per puro divertimento. Alla fine, David disse: ‘Questa è una cretinata. cretinata. Perché non facciamo facciamo un pezzo nuovo?’» Il risultato fu la coproduzione Under Pressure, Pressure, all’inizio intitolata People On Streets. Streets. «È nata per puro caso, cari miei», spiegò Freddie in seguito. «Abbiamo iniziato a giocherellare qua e là, e il tutto è nato molto spontaneamente e molto in fretta. Eravamo entusiasti del risultato. «Certo era una cosa del tutto inaspettata, ma come gruppo abbiamo sempre creduto nella sperimentazione di cose nuove, insolite, fuori dagli schemi. Non vogliamo seguire un percorso prefissato o diventare prevedibili, il che è un rischio concreto quando si è insieme da tanto tempo. Con il pericolo di dormire sugli allori.» «È stato un vero piacere lavorare con David», aggiunse. «È un vero talento. Quando l’ho visto sul palco in The Elephant Man, Man, la sua performance mi ha fatto venir voglia di recitare. Magari in futuro lo farò, ma al momento ho in mente altri progetti con i Queen. Non vogliamo fermarci mai, e ci sono ancora molti panorami da esplorare.» Brian aveva un ricordo diverso della collaborazione: «Fu molto difficile, perché eravamo quattro ragazzini precoci, a cui si aggiungeva David, che era il più precoce di tutti. Eravamo tutti molto coinvolti e appassionati. Non la spuntai su quasi nulla. Ma David aveva un disegno preciso e prese il controllo controllo della canzone nelle parti parti vocali». vocali». Due settimane dopo, Freddie, Roger, Bowie e Mack si riunirono di nuovo a New York, nei famosi Power Station Studios per remixare il brano; Brian nel frattempo si era sfilato dal progetto. I Power Station, famosi per la loro acustica magnifica e per avere ospitato artisti molto diversi come Tony Bennett, Aerosmith e in seguito i Duran Duran, erano stati creati dal produttore Tony Bongiovi all’interno di un’ex centrale elettrica. Bongiovi aveva un giovane cugino che desiderava entrare nel mondo della musica e per aiutarlo l’aveva assunto come tuttofare negli studi, inoltre gli pagava demo e lezioni di canto. Freddie e Bowie furono accolti da un ragazzino che un giorno sarebbe diventato famoso come loro: Jon Bongiovi (poi Bon Jovi).
Più avanti i due cugini avrebbero litigato e i Power Station sarebbero diventati Avatar Studios, ma la leggenda non sarebbe stata dimenticata. Under Pressure Pressure si rivelò una delle registrazioni più problematiche dei Queen. Il mixer andò in tilt, Bowie voleva rifare il pezzo da zero e la situazione precipitò. A un certo punto, Bowie si rifiutò persino di dare il permesso per distribuire il brano, ma poi si arrese. «Under Pressure Pressure è un brano importante per noi», dichiarò Brian quasi trent’anni dopo. «Merito di David e del testo. All’epoca non l’avrei ammesso con tanta facilità, ma ora sì. Un giorno mi piacerebbe remixarla, con calma e da solo.» Il singolo uscì nell’ottobre del 1981 e fu il primo disco di Bowie in collaborazione con altri artisti. Arrivò al ventinovesimo posto negli Stati Uniti e al primo nel Regno Unito. Fu la seconda numero uno dei Queen e sarebbe stata anche l’ultima fino a Innuendo, Innuendo, quasi dieci anni dopo. Under Pressure comparve Pressure comparve anche sul decimo album della band, «Hot Space», che uscì nel maggio del 1982. Nel 1990 sarebbe stata campionata (senza permesso) dal rapper Vanilla Ice per il suo singolo Ice Ice Baby , e più avanti sarebbe diventata il singolo d’esordio per i Jedward, i gemelli dell’ X X Factor inglese. La loro versione avrebbe raggiunto il secondo posto nel Regno Unito e il primo in Irlanda. A settembre Freddie festeggiò il trentacinquesimo compleanno in grande stile. Spese quasi duecentomila sterline, soprattutto per portare a New York una tribù di amici con il Concorde, inclusi Peter Straker e Peter Freestone. Affittò una sontuosa suite al Berkshire Place Hotel . In cinque giorni di festeggiamenti, i presenti si scolarono oltre trentamila sterline di champagne d’annata. «Ricordo il casino che lasciammo in quella suite», osserva Peter. «E ricordo Freddie spaparanzato su una montagna di gladioli. Quelle sì che erano feste... feste...»» Il compleanno segnò un momento di svolta nella vita del cantante. In una rara intervista, spiegò di essere cambiato e di vedere soldi e successo con occhio diverso rispetto al passato. «Detesto frequentare i personaggi dello show business», confessò. «Potrei fare come Rod Stewart, unirmi a quel mondo, ma preferisco starne fuori.
Quando non sono con i Queen, voglio essere una persona qualunque. «Sono cambiato. Una volta mi piaceva essere notato. Adesso no. Passo molto tempo a New York, dove molti non mi riconoscono. Sarò anche ricchissimo, comunque i giorni dell’ostentazione sono finiti per me. Adesso sto in jeans e maglietta anche quando esco, non solo in casa. Non do più spettacolo, tranne quando sono sul palco, perché adesso sono sicuro della mia identità e di ciò che ho raggiunto. Sono finiti i giorni in cui volevo entrare in un locale e vedere che tutti smettevano di parlare per mettersi a fissarmi. Non so dirti se andremo avanti, ma finché continueremo a fare cose nuove, la scintilla dei Queen resterà accesa. Se perdessi tutto quel che ho oggi stesso, in un modo o nell’altro riuscirei di nuovo ad arrampicarmi fino in cima.» Forse le sue parole più oneste fino ad allora? Freddie stava davvero cambiando, oppure cercava solo di convincere se stesso? Alcuni interpretarono le affermazioni come un malcelato tentativo di mostrare al mondo che era finalmente a suo agio nella nuova pelle. Ma era davvero così? Si era veramente riconciliato con la sua vera personalità, oppure sperava solo di riuscirci prima o poi? Non possiamo saperlo. Dopo la festa al Berkshire, Berkshire, Freddie raggiunse il resto della band a New Orleans, per le prove in vista di un altro tour sudamericano. Questa seconda sortita, battezzata «The Gluttons for Punishment Tour», si sarebbe rivelata l’antitesi della prima. Innanzitutto, quando i Queen arrivarono in Venezuela per tre date al Poliedro de Caracas, i loro piani furono scombussolati dalla morte di Rómulo Betancourt, ex presidente ed eroe nazionale: diverse date nel Paese dovettero essere cancellate. Trovandosi all’improvviso con dieci giorni buchi prima di una nuova ondata di concerti in Messico, i Queen si ritirarono a Miami. Poi le tappe messicane furono segnate da una serie di incidenti: epidemie fra la troupe, corruzione, minacce alla sicurezza personale, incarcerazione del promoter e infine il crollo di un ponte all’esterno dell’enorme Estadio Universitario di Monterrey (detto il «vulcano») dopo uno spettacolo, che provocò il ferimento di diversi fan. Il secondo concerto nello stadio fu cancellato e i Queen si trasferirono a Pueblo, per due date all’Estadio Ignacio Zaragoza. In generale, il tour fu un fiasco. «Pensavamo di poter ripetere il successo di Argentina e Brasile», disse Brian. «Ma alla fine ce la cavammo solo per un soffio.»
Quell’anno sul New York Times comparve la notizia di una rara forma di cancro della pelle che aveva colpito quarantotto omosessuali in perfetta salute, nove dei quali avevano mostrato anche un’inspiegabile deficienza del sistema immunitario. Fino ad allora, il sarcoma di Kaposi si era verificato quasi esclusivamente in persone anziane di origini mediterranee. Verso la fine di agosto, il numero di pazienti colpiti era salito a centoventi, quasi tutti a New York. Poco dopo il CDC, il centro per il controllo delle malattie statunitense, di Atlanta confermò che il sarcoma di Kaposi e una rara forma di pneumocistosi erano inspiegabilmente in aumento in America. Oltre il novanta percento delle vittime erano omosessuali. Questo diede vita all’ipotesi che la cosiddetta «epidemia gay» fosse legata ad abitudini sessuali sregolate e/o all’abuso di stupefacenti. Le ricerche però dimostrarono che quella che all’epoca era chiamata GRID (Gay-Related Immune Deficiency, ossia «immunodeficienza riconducibile ai gay») aveva colpito anche milioni di uomini, donne e bambini eterosessuali, soprattutto emofiliaci e tossicodipendenti. Si determinò che la patologia, ribattezzata AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome, sindrome da immunodeficienza acquisita) si diffondeva con le trasfusioni di sangue, le siringhe infette e il sesso non protetto. Freddie non prestò molta attenzione alla cosa: i Queen erano occupati a celebrare il loro decimo anniversario. Fra i prodotti per commemorare l’evento uscirono una raccolta di successi, «Greatest Hits» , Hits» , una di video promozionali, «Greatest Flix», e una serie di immagini del gruppo scattate da Lord Snowdon, l’ex marito della principessa Margaret. La band produsse anche un lungometraggio di un concerto registrato a Montreal. Le ultime settimane del 1981 li videro rifugiarsi a Monaco, sempre per motivi fiscali, dove intendevano cominciare il lavoro per un nuovo album. L’albergoresidence Arabella-Haus residence Arabella-Haus salutò il ritorno di Freddie. «Solo per una notte o due, perché Freddie odiava quel posto», ricorda Peter. «Era sopra i Musicland Studios: un cubo di cemento armato come tanti, orrendo, con i corridoi che puzzavano di cucina araba. Freddie si trasferì a casa di Winnie Kirchberger (suo fidanzato del posto) e poi allo Stollbergplaza, Stollbergplaza , un altro albergo-residence che sorgeva in una zona più elegante e centrale della città. Fu lì che incontrò la famosa attrice Barbara Valentin: lei abitava di fronte.» Grazie a Peter che come sempre provvedeva a tutti i suoi bisogni e lo
accompagnava nelle sortite notturne, il soggiorno di Freddie a Monaco fu molto piacevole, ma pare che il cantante avesse perso il gusto di lavorare. I suoi compagni erano preoccupati. «Arrivò al punto che quasi non sopportava restare in studio. Voleva solo completare le sue parti e andarsene via subito», disse Brian. Il ritorno della band nella capitale bavarese segnò l’inizio di un periodo nervoso e confuso nella vita personale di Freddie, durante il quale rimase invischiato in un groviglio di caotiche relazioni amorose. La prima era quella con il già citato Kirchberger, ribattezzato al femminile «Winnie», un ristoratore tirolese aggressivo e semianalfabeta con i capelli neri e i baffi setolosi. Era così brusco e rozzo che nessuno nell’entourage di Freddie riusciva a spiegarsi che cosa il cantante vi vedesse; nessuno accettò che la categoria «lurido camionista» fosse la nuova variante preferita da Freddie. La seconda avventura era con un parrucchiere irlandese di nome Jim Hutton, che Freddie aveva abbordato in una discoteca di Londra. Talvolta il cantante lo faceva venire a Monaco in aereo solo per fare ingelosire Winnie. Negli anni, però, tra Freddie e Jim sarebbe nata una relazione molto meno superficiale e destinata a durare fino alla fine. Il terzo amante era forse il fattore più imprevisto nell’equazione: una donna. La nuova compagna di sbronze di Freddie, Barbara Valentin, era una famosa attrice austriaca di film erotici, soprannominata «la Jayne Mansfield tedesca» o talvolta «la Brigitte Bardot tedesca». Si era fatta un nome lavorando soprattutto con il regista-culto Rainer Werner Fassbinder, esponente di spicco del Nuovo cinema tedesco, in pellicole che parlavano di amore, odio e pregiudizio. Fassbinder, che sarebbe morto l’anno successivo a soli trentasette anni per un’overdose di cocaina e sonniferi, era un personaggio complicato che conduceva una vita di eccessi. Una delle sue mogli lo descrisse come «un omosessuale che aveva bisogno di una donna». Barbara diventò amante e convivente di Freddie, una compagna quasi costante, anche se condivisa con Kirchberger e Hutton, che Freddie continuò a frequentare in contemporanea. Come Barbara stessa osservò, tutto il periodo era «pazzesco». Incontrai Barbara Valentin a Monaco nel 1996, nel suo tappezzatissimo appartamento in Hans-Sachs Strasse, comprato insieme con Freddie nell’oramai decaduto Triangolo delle Bermude. Era una casa accogliente:
tappeti ovunque, tende e sofà di velluto. C’erano dipinti dall’aria costosa, mobili bavaresi in stile rustico e uno squisito lampadario a bracci. La credenza era zeppa di fotografie incorniciate dei figli, dei nipoti e di Freddie, oltre a diversi video e dischi dei Queen e di Freddie Mercury che, come lei stessa ammise, non era più riuscita a guardare o ascoltare. Tarzan, il «figlio» (gatto) che avevano condiviso, ronfava appallottolato su una soffice poltrona. Barbara si era imbarcata in una lunga e aspra battaglia legale con il management dei Queen per conservare l’appartamento dopo la morte del cantante. Di conseguenza non voleva rivelare troppo e mi ci erano voluti diversi mesi per convincerla a concedermi un’intervista. «Gli altri devono continuare a vivere», disse Barbara, che si sposò tre volte e che sarebbe morta morta di ictus ictus nel 2002, 200 2, a sessantun anni. «Non voglio voglio ferire nessuno parlando di Freddie. Lasciamo pure che Mary Austin sia la sua vedova ufficiale, ho sempre detto. Mi sono sempre rifiutata di parlare di Freddie, fino a ora.» Quando ci incontrammo, Barbara aveva già superato la cinquantina, ma era ancora affascinante come quando Freddie si era innamorato di lei. Dotata di un fisico imponente, con l’ossatura grossa e un seno prosperoso, ex baronessa per matrimonio, riempiva la stanza con la sua presenza. In strada, la gente si girava ancora a guardarla. L’orecchino con il diamante da un carato che portava all’orecchio destro era stato il primo regalo che Freddie le aveva fatto, disse. Barbara non avrebbe potuto essere più diversa di Mary Austin: forte, determinata e padrona del proprio destino. Come Freddie, anche lei era un coacervo di contraddizioni: il suo aspetto autorevole celava una grande sensibilità e fragilità. Forse per la prima volta in vita sua, lui si sentì legato a un altro essere umano con il quale poteva essere se stesso, con tutti i suoi difetti. Con lei non aveva segreti: non sentiva alcun bisogno di proteggerla da certi aspetti della sua personalità, come aveva fatto invece con Mary. Barbara lo capiva perché era come lui e non gliene importava nulla di che cosa pensasse la gente. Il suo atteggiamento nei confronti delle persone, della vita e del mondo in generale fu una ventata di aria fresca. Nonostante le sue forme prorompenti, l’attrice si comportava come un maschio, spingendo via le persone che la infastidivano e costringendo persino le guardie del corpo a indietreggiare di fronte a lei. Freddie era inebriato dalla
sua ferocia e dalla sua maestosità. I due combaciavano al desiderio delle rispettive anime. Barbara rinunciò alla sua promettente carriera teatrale per restare con Freddie e lui la lasciò fare e questo, secondo lei, era la prova del loro imperituro amore. Iniziò ad accompagnarlo nei viaggi di lavoro e di piacere, a Rio, Montreux, Ibiza e in Spagna. Andò con lui a Londra «quaranta o cinquanta volte» e le venne assegnata una camera tutta sua a Garden Lodge. «All’inizio l’avevo visto in compagnia dei suoi intimi nelle discoteche di Monaco, soprattutto il New York, York, sera dopo sera», ricorda Barbara. «Sapevo vagamente chi era, ma una rockstar rockstar non aveva poi chissà chissà che status a Monaco; probabilmente ero più famosa io di lui. Era sempre circondato dal suo entourage, era una piccola azienda in sé, aveva persino uno spazio tutto suo nella discoteca, come l’angolino della famiglia. Stava con Winnie all’epoca. Vivevano insieme nel suo appartamento. La loro storia durava da tempo, con diverse interruzioni. Non riuscivano a stare lontani l’uno dall’altro. Erano una strana coppia e litigavano tantissimo. Tutti e due abbordavano ragazzi improbabili solo per ingelosire il partner.» All’epoca Winnie era proprietario di un ristorantino, il Sebastian Stub’n, Stub’n, dove spesso i clienti si lamentavano per la qualità del cibo. Quando il locale andò a fuoco, Freddie finanziò parte della ristrutturazione. Non era la prima volta che il cantante investiva denaro den aro nei sogni degli de gli amici. amici. «Winnie era una tragedia per Freddie», prosegue Barbara. «Non c’è dubbio che fossero innamorati, ma litigavano di continuo, facendosi del male. Io pensavo: Ma perché se ti ami devi farti del male? Per me questa è una delle tragedie più grandi del mondo. Era un sempliciotto, con poca educazione e con poca istruzione, e credo che avesse un complesso di inferiorità per questo. C’erano volte in cui se la prendeva con Freddie: Chi se ne frega se sei una stupida rockstar? Io sono Winnie Kirchberger, il gran cazzo di macho man... Inscenava dei tremendi sputtanamenti in pubblico, insultandolo, facendo stupidate, cose orribili, solo per ferirlo e umiliarlo. Alla fine capii che Freddie lo amava proprio perché lui lo trattava male. Tutti gli altri lo adulavano, ma Winnie no; con lui Freddie doveva conquistarsi i complimenti a fatica. E forse Winnie, dal canto suo, aveva capito che l’unico modo per tenersi stretto Freddie Mercury era trattarlo di
merda, far finta di non volerlo. Sia come sia, funzionava, perché Freddie era insaziabile e tornava ogni volta da lui.» Ma la relazione comportava anche qualche vantaggio. «Fu l’unica volta che Freddie scoprì che cosa significhi davvero vivere una vita relativamente normale con un uomo», rammenta Peter. Molto tempo dopo la fine del rapporto, quando Freddie se ne andò una volta per tutte, Winnie Winnie sprofondò sprofondò nella pazzia pazzia a causa dell’H de ll’HIV, IV, che gli devastò il cervello oltre al resto del corpo. «Alla fine lo trovai moribondo nel suo appartamento», sospira Barbara, «con il gatto che si mangiava la pelliccia dalla fame. Lo portai in ospedale a spese mie, ma era troppo tardi per fare qualsiasi cosa.» Nel loro periodo d’oro, tuttavia, Winnie, Freddie e Barbara in giro per la città erano un trio da non sottovalutare. «Una sera io e Freddie finimmo a bere insieme in una discoteca molto rumorosa. A un certo punto entrammo nel bagno delle donne perché volevamo chiacchierare chiacchierare un po’ in pace e lì iniziò a raccontarm raccontarmii di Zanzibar, Zanzibar, del collegio, del padre e della madre. Disse che non avrebbero mai accettato la sua omosessualità, anche se dopo mi pare che in realtà l’abbiano fatto. Di sicuro nell’ultimo periodo gli sono stati molto vicini. Ma adoravano Mary. Secondo Freddie si aspettavano che lui facesse un figlio con lei. Mi raccontò anche della sorella Kashmira e dei nipoti Natalie e Sam, che lei aveva adottato con il marito Roger. Disse che di solito non parlava mai di queste cose, nemmeno agli amici, ma che con me era facile.» In effetti, Freddie aveva sempre mantenuto una relazione «vagamente stretta» con la sorella e la famiglia. Non li aveva mai dimenticati né tanto meno rinnegati. Non li vedeva spesso, ma quando gli capitava di incontrarli era felice e affettuoso. Freddie riteneva che fosse un suo dovere proteggere la famiglia dal suo stile di vita spericolato, oltre che dai riflettori. «Non siamo mai andati ai loro ‘festini’!» raccontò il cognato di Freddie al Mail on Sunday nel novembre del 2000. «Solo alle feste di famiglia. Freddie teneva quei due aspetti della sua vita in compartimenti stagni e di rado si sovrapponevano. Di solito festeggiavamo il compleanno dei ragazzi a casa sua e c’era sempre una torta enorme o un uovo di Pasqua per loro. Non aveva figli, per cui gli piaceva avere i nostri per casa. Credo che gli sarebbe piaciuto piaciuto vederli ved erli crescere.»
Quella sera a Monaco, Freddie e Barbara non riuscirono a staccarsi l’uno dall’altra. «Rideva tantissimo con me, di solito coprendosi i denti con la mano, tranne quando era ubriaco.» Barbara ammise i rischi di quella vita trasgressiva, ma insistette che lei e Freddie avevano trovato piacere nelle follie di quel periodo bavarese: le avevano affrontate senza vergogna e intenzionalmente. «Era la migliore difesa. Da cosa, non saprei dire. Diverse cose. Ogni giorno un’esperienza nuova. Io e Freddie dovevamo sempre lottare per una ragione o per l’altra, ma almeno eravamo in due. Non facevamo mai vedere agli altri se eravamo feriti, ma tra di noi sì. Avevamo entrambi delle cose da nascondere alle nostre rispettive famiglie. Per esempio Freddie proteggeva i genitori e la sorella, mentre di certo io non volevo che i miei figli sapessero tutto sul mio stile di vita. Ogni tanto capitava di incontrare mio figlio in discoteca: ‘Oh, oh, locale sbagliato!’ dicevo. Freddie era come una seconda famiglia per me, e io per lui. Ci tenevamo che le nostre vite private rimanessero tali.» Il 26 novembre, il giorno del compleanno di Winnie, Barbara, Freddie e Winnie si ritrovarono a letto insieme. «Eravamo tutti nudi quando a un certo punto suona il campanello, alle sette del mattino: ‘Guardia di Finanza!’ ‘Tornate dopo!’ urlò Freddie. ‘Se non ci fate entrare buttiamo giù la porta!’ risposero quelli. Freddie andò in panico. Tornò di corsa in camera da letto urlando: ‘Alzatevi! Alzatevi!’ Un attimo dopo gli agenti erano dentro l’appartamento, in ogni stanza. Ci dissero che dovevamo restare fermi dov’eravamo. Freddie era tutto nudo a parte un piccolo asciugamano intorno alla vita. Rivoltarono tutto l’appartamento. A un certo punto disse: ‘Devo andare a fare la pipì, ragazzi, davvero’. Lo lasciarono andare in bagno e all’improvviso uno degli agenti lo riconobbe: ‘Sei Freddie Mercury!’ A quel punto Freddie fece lo spavaldo, non seppe resistere alla tentazione. Disse ai poliziotti: ‘Se fate i bravi con la mia fidanzata vi canto una canzone. Dai, amico mio, stappiamo uno champagne!’ Non erano neanche le otto di mattina e il poliziotto rispose imbarazzato: ‘Mi spiace, siamo in servizio…’, ‘Va bene, allora andatevene affanculo!’ rispose Freddie. ‘Tanto siete troppo brutti per meritarvi una canzone!’» Barbara e Freddie erano innamorati, sostiene l’attrice. «Probabilmente sì», conferma Peter Freestone. «Erano molto intimi. Avevano molto in
comune: fama, status... Barbara se ne fregava, il suo atteggiamento era ‘prendere o lasciare’, e per Freddie questo rappresentava una ventata d’aria fresca. Avevano gusti simili, molto raffinati. Barbara era importantissima per Freddie. A me piaceva tantissimo.» Freddie parlava spesso di Mary con Barbara. «Pare che una volta le avesse promesso di sposarla, e per questo si sentiva in colpa. Aveva un senso del dovere molto radicato. Lei si era aspettata una cosa da lui e lui si era rimangiato la parola. Il senso di colpa era rimasto... anche se mi domando quanto lei abbia contribuito ad alimentarlo. Non era colpa sua se era soprattutto gay. È la vita. Eppure non riusciva a perdonarsi di averla delusa. Disse che non era gay all’inizio, ma che poi era cambiato, era sclerato del tutto e aveva cominciato a vivere da gay. La sua era stata una scelta, non una questione biologica.» biologica.» «Questo è verissimo», conferma Peter. «E all’epoca Freddie era molto aperto emotivamente. emotivamente.»» Mary e Barbara non divennero mai amiche. «Era fredda e diffidente nei miei confronti», spiega l’attrice. «Non che fosse maleducata, anzi era molto gentile. Ma era riservata e cortese, non affettuosa. Be’, almeno ci scambiavamo gli auguri a Natale... Una cosa positiva che posso dire su di lei è che ha sempre agito nel migliore interesse di Freddie. «Una volta mi telefonò da Londra per dire che era morto uno dei gatti di Freddie. ‘Dagliela tu la notizia, Barbara’, disse, ‘ma con delicatezza; trova il momento giusto.’ Io ero tormentata ma alla fine glielo dissi. Lui scoppiò a piangere e disse: ‘Torniamo a Londra, immediatamente’. ‘Freddie’, dissi, ‘il gatto è morto.’ Ma non volle sentir ragioni. Tornammo a Londra.» L’omosessuale era un ruolo che Freddie aveva scelto di interpretare, secondo Barbara. «Era proprio The Great Pretender. Lo eccitava, perché era il frutto proibito. E mentre si comportava così, noi due eravamo amanti, nel vero senso del termine: andavamo a letto insieme regolarmente. Sì, sì, ci volle un po’ di tempo, ma quando capitò fu bellissimo, e semplice. A quel punto ero oramai completamente innamorata di lui, e anche lui aveva detto che mi amava. Avevamo persino parlato di matrimonio. Certo, continuava a caricare un ragazzo dopo l’altro e a portarmeli tutti a casa, sera dopo sera, ma a me non importava. È pazzesco, vero? Ma la nostra vita era quella e comunque fosse non avrei potuto impedirglielo, neanche se l’avessi voluto.
Anch’io continuai a portare in casa degli amanti. Fino a un certo punto, potevo farlo. Poi Freddie faceva una scenata e li buttava fuori a calci.» In fin dei conti, disse Barbara, non era il sesso ciò che interessava a Freddie. «Cercava tenerezza e affetto. Il suo non era un desiderio sessuale, ma somigliava più a quello di un bambino; piangeva come un bambino. Mi diceva: ‘Barbara sei l’unica cosa che loro non potranno mai portarmi via’.» Chi fossero mai questi «loro» – i Queen, l’industria discografica in generale, i fan, l’onnipresente manager – Barbara non lo seppe mai. «A parlarne oggi sembra tutto così inverosimile. Dovevi esserci per capire. «A volte gli dicevo: ‘Tesoro non sei solo un pisello, sai?’ Spesso diceva che non gli piaceva andare a letto con tutti quei ragazzi diversi. Nessuno però poteva dirgli che cosa poteva o non poteva fare.» Secondo Barbara, la dipendenza dal prossimo era il fattore che più di tutti rischiava di minare la salute mentale del cantante. «Non sapeva distinguere un marco da mille dollari. I soldi non significavano nulla per lui. Aveva il terrore degli aerei e anche di restare bloccato in ascensore, ma più di ogni altra cosa aveva paura di restare solo. Non era in grado di andare da nessuna parte da solo, nemmeno in bagno. Dovevo sempre accompagnarlo. Dovunque andava lasciava un casino, ma era bravissimo a ordinare agli altri di pulire.» «Ci sforzavamo di essere felici», ammette, «perché non lo eravamo affatto. Bevi, tiri coca, fai il cretino, scopi con tutti, come se volessi sfidare il tuo corpo e vedere se regge. In un certo senso, è un desiderio di morte. Alla fine ti senti ancora più solo, ancora più vuoto. Io e Freddie eravamo l’una peggio dell’altro. Ci identificavamo l’una nell’altro. Ero l’unica con cui potesse sfogarsi, e viceversa. Se lui non avesse avuto me, e io lui, credo che saremmo entrambi morti molto tempo fa.»
18 Jim
Sono molto felice nella nell a mia relazione relazione in questo momento. Davvero non potrei chiedere di meglio. È una sorta di… sollievo. Sì, questa è una buona definizione. definizione. Non chiamiamola «menopausa»! «menopausa»! Non N on devo più sforzarmi, sforzarmi, non devo più dimostrare chissà cosa. Ho trovato una persona molto comprensiva. Suona noioso, ma in realtà è magnifico. FREDDIE MERCURY Freddie era l’amore della mia vita. v ita. Era unico, non c’era nessuno come lui. Diceva sempre che la vita va avanti. So che ch e quando morirò, sarà dall’altra parte ad aspettarmi. JIM HUTTON
JOHN Travolta fece la sua parte, quando trasformò in improbabile eroe il proletario Tony Manero ne La febbre del sabato sera. sera . Il film del 1977, basato sulla pseudoinchiesta di un giornalista musicale inglese, Nik Cohn, e pubblicata su una rivista di New York, racconta la storia di un giovane italoamericano che si rifugia in discoteca per scampare alla triste realtà quotidiana. La colonna sonora dei Bee Gees divenne la più venduta di tutti i tempi. Nacque la febbre da discoteca, con New York all’avanguardia. Lo Studio 54, 54, Le Jardin e il Regine’s erano i locali di punta, dove si ritrovava ogni sorta di «diverso». Era l’età dell’oro dei playboy e delle top model, di limousine chilometriche, champagne e cocaina; di Halston, Gucci e Fiorucci.
Le discoteche newyorkesi favorivano la libertà sessuale e riflettevano meglio di uno specchio la depravazione della scena gay. Le Jardin, Jardin, sulla Quarantatreesima Strada Ovest, attirava i grandi personaggi del momento: Andy Warhol, Bianca Jagger, Liza Minnelli, Lou Reed. Il bancone era lastricato di specchi su cui farsi piste di coca, le luci basse illuminavano sofà bianchi circondati da palme, e sul tetto trovavi letti ad acqua dove potevi stenderti a inalare sostanze illegali mentre rimiravi Times Square. Al confronto, la scena gay di Londra era ancora in fasce. Offriva poco più che «una manciata di pub e qualche baretto marcio», quando Jeremy Norman arrivò in città da Cambridge verso la fine degli anni Settanta, lavorando per conto di Burke’s Peerage, Peerage, la guida indiscussa per l’aristocrazia e i reali inglesi. Norman sentì parlare della nuova ondata disco nella scena gay di New York e volle andare a vedere di persona. Al ardin conobbe il promoter Stephen Hayter e tornò con lui in Inghilterra per fondare una discoteca in Old Bond Street: l’Embassy l’Embassy . Nel locale, Hayter regnava supremo, come «regina della notte». Si vantava di conservare gli articoli che lo riguardavano nel caveau di una banca svizzera e criticava le «checche chiassose» che avevano «la deplorevole abitudine di darsi nomi da donna». Hayter sarebbe stato il primo proprietario di una grande discoteca a morire di AIDS. L’Embassy L’Embassy fu una rivelazione: un reame fantastico e sessualmente ambiguo che attirava tutti e che serviva sia da antidoto sia da diversivo contro la corruzione e l’inflazione che caratterizzavano la vita politica e l’economia di quegli anni. All’improvviso i giovani si facevano di nuovo belli per uscire e andare a ballare. Ma non erano persone qualunque: transessuali, rockstar, dive, drag queen, teste coronate, miliardari e modelle da strapazzo. I camerieri del locale indossavano un paio di pantaloni corti di seta rossi e bianchi, come quelli dei ragazzi dello Studio 54. 54. Altri dipendenti simulavano rapporti sessuali sui banconi mentre i più disinibiti li avevano davvero nei bagni. Cocaina e popper venivano consumati in quantità industriali. Luci strobo, fumi e una sfera specchiata indoravano la pillola. Il club attirava personaggi famosi come nessun altro: Pete Townshend, Mick Jagger, Marie Helvin e David Bowie erano clienti abituali. Persino i new romantic ogni tanto lasciavano perdere il Blitz Club per far due salti sulla pista pista dell’ de ll’Embassy Embassy . «Se Hayter dava una festa, cercavi in ogni modo di essere invitato»,
ricordò Dave Hogan. «Freddie, Kenny Everett, il fior fiore della ‘mafia gay’ di Londra ci andava. Vedevi delle scene incredibili, ma potevi solo godertele. Sapevi che se scattavi una foto non saresti uscito vivo.» L’Embassy L’Embassy era solo il prototipo di un progetto ancor più ambizioso: Jeremy Norman voleva aprire un locale esclusivamente per omosessuali. Situato vicino a Trafalgar Square, l’Heaven l’ Heaven occupa più di seimila metri quadri sotto le volte della stazione di Charing Cross. È stata la prima discoteca ufficialmente gay, quando aprì le porte nel 1979 finì dunque su tutti i giornali e contribuì a rendere più accettabile la scena omosessuale della città. Freddie lo adorava ed era ospite fisso con il suo entourage. «Per i gay, la pista da ballo era davvero un luogo liberatorio», ricorda Jeremy Norman, che in seguito avrebbe rivelato tutto nel suo libro di memorie No Make-Up: Straight Tales From a Queer Life. Life. «Era un posto dove ti sentivi libero di esprimere la tua sessualità e dove potevi sentire la coesione della tua tribù. La discoteca era, in un certo senso, la nostra cattedrale.» Fu anche, in molti casi, la loro Waterloo. Sebbene Norman, che ha fondato due enti di beneficenza per le vittime dell’AIDS, non sia affatto accusato di avere introdotto la malattia nel Regno Unito, è indubbio che i suoi locali abbiano esercitato un’attrazione fatale. Paul Gambaccini ricorda con fredda lucidità la sera del 1984 in cui si rese conto che Freddie sarebbe morto. «Ero all’Heaven all’Heaven con lui e gli chiesi se avesse cambiato le sue abitudini alla luce dei recenti sviluppi», osserva. «E lui con quel suo tipico gesto delle mani mi disse: ‘Tesoro, chi se ne fotte? Faccio quel che mi pare con chi mi pare’. «Sentii il classico tuffo al cuore. Avevo visto abbastanza cose a New York per sapere che Freddie sarebbe morto. Per me all’Heaven all’Heaven ci sono troppi fantasmi: non potrò mai far finta che fosse un posto spensierato.» Gambaccini non è in grado di confermare o smentire se Freddie iniziò a prendere le necessarie precauzioni quando seppe dell’AIDS, quantomeno per proteggere gli altri se non se stesso. «Ci vogliono in media dieci anni dal contagio alla malattia, quindi Freddie fu infettato prima che si sapesse qualcosa», spiega. «Questo lo mette nella categoria di quelli che furono esposti all’AIDS senza saperlo,
ingiustamente. Fra la sifilide e l’AIDS si aprì una breve finestra nella storia in cui non era possibile morire di malattie veneree. Quindi si provava di tutto, per puro piacere o per esplorare nuove possibilità. Non c’era nulla di male allora. Nell’industria della musica, in particolare, tutto era concesso. Nessuno giudicava. Poi all’improvviso potevi uccidere qualcuno facendoci sesso insieme, quindi tutti si responsabilizzarono, ma arrivarono pure le conseguenze. «Nel caso di Freddie, presumo che sapesse, e che si fosse abituato all’idea... Forse pensava di cavarsela, chissà come. Nel 1983 era ancora in forma (a New York, la malattia era diventata epidemica) e poteva continuare a vivere come sempre. Ma già al Live Aid [luglio 1985], il dottore gli aveva detto di non esibirsi, perché aveva una brutta laringite. In quel momento pensai: È l’inizio?» Il fatto che in quel momento Freddie andasse a letto con decine di uomini diversi ogni settimana e che al tempo stesso ostentasse la sua relazione con Barbara Valentin, indica che oramai si riteneva bisessuale piuttosto che gay. Tuttavia, controbatte Gambaccini, «ricordiamo che il concetto di omosessualità è nato solo a metà Ottocento: fu allora che uno psicologo tedesco inventò il termine. La gamma della sessualità è ampia. Fra i due estremi ci sono molte persone che fanno l’amore con maschi e femmine. Quelli che fanno qualcosa di diverso dalle loro abitudini, come Freddie con Barbara, di solito lo fanno perché sono molto coinvolti a livello affettivo. Per me non c’è incoerenza nel fatto che Freddie sia andato a letto soprattutto con uomini e che però alla fine abbia ricordato il suo grande amore per Mary. Non c’è incompatibilità fra le due cose. Significa solo che lei era un’eccezione alla regola. Significa che nel suo caso c’era sentimento e non solo desiderio carnale. Non sto dicendo che Freddie non abbia amato alcuni degli uomini con cui andò a letto, ma è probabile che lei occupasse un posto particolar particolaree nel suo cuore.» Freddie tradì sia Barbara sia Winnie – ammesso che sia corretto usare questo termine – quando incontrò Jim Hutton all’Heaven all’Heaven:: capitò una sera del 1985 e lì non poté più resistere. L’aveva già conosciuto due anni prima al Copacabana, Copacabana, un bar gay vicino a casa sua, ma all’epoca Jim era impegnato, per cui l’incontro non aveva avuto un seguito. La seconda volta, però, il modesto parrucchiere era single e non vedeva l’ora di scatenarsi. La sua lucida capigliatura corvina e i suoi baffi folti si rivelarono irresistibili per
Freddie. Jim somigliava tantissimo a Winnie. Preso alla sprovvista dalla frase che il cantante usava per agganciare: «Quanto ce l’hai grosso?» Jim si unì al suo entourage, che quella sera comprendeva Peter Straker e Joe Fanelli. Passò il resto della serata a ballare con lui prima di seguirlo nel suo appartamento di Kensington all’alba. Poi non lo sentì più per tre mesi. Freddie era andato a Monaco e quindi in Australia, Nuova Zelanda e Giappone con i Queen. Quando Jim si era oramai quasi dimenticato dell’incontro, Freddie gli telefonò all’improvviso per invitarlo a cena a casa sua. Vedendo Peter Freestone, Jim restò di sasso: in passato avevano lavorato insieme per i grandi magazzini Selfridge in Oxford Street. Né l’uno né l’altro poteva immaginare che un giorno si sarebbero rivisti grazie a Freddie Mercury. Jim era il più improbabile dei partner di Freddie. Nato in una famiglia di panettieri irlandesi fra una decina di fratelli e sorelle e cresciuto in un appartamentino di due camere nelle case popolari, lavorava per settanta sterline la settimana al Savoy Hotel . «[Freddie era] sensibile, timido, lunatico e testardo. Mentre io sono tranquillo e abbastanza debole di carattere, almeno prima di bere qualche litro di birra», ricorda Jim. Fu amore a prima vista. «Mi innamorai subito di ogni aspetto di lui. A prescindere da quel che faceva di mestiere. Aveva due grandi occhi scuri e una personalità quasi infantile. Non somigliava a quelli di cui mi innamoravo di solito. Di solito mi piacevano gli uomini con le cosce robuste. Freddie aveva un vitino di vespa, con le gambe più magre che avessi mai visto. visto. Pareva anche totalmente sincero. sincero. Era adorabile. Ero cotto. cotto. Considerando chi era, mi sembrava estremamente insicuro», sostiene il parrucchiere, contraddicendo l’impressione di Barbara e dimostrando quello che gli amici più intimi del cantante sospettavano da tempo: Freddie mostrava un lato diverso della propria personalità a persone diverse, mai tutto il suo sé. Questo modus operandi rivelava che Freddie era convinto dell’impossibilità di poter vedere i propri bisogni soddisfatti da un’unica persona. Per la stessa ragione, non dava mai tutto se stesso a un unico partner. Questo potrebbe spiegare perché i suoi rapporti più duraturi fossero sempre con persone «inferiori» in termini di fama, ricchezza o posizione sociale. Con loro Freddie dettava legge, era sempre al primo posto. La coppia iniziò una storia d’amore che, grazie alle inderogabili assenze professionali del cantante, imponeva una certa routine. Freddie tornava a
Londra un weekend, e Jim lo raggiungeva a Monaco quello successivo. Durante la sua prima visita in Germania, l’uomo trovò Freddie, Joe Fanelli e Barbara Valentin ad attenderlo all’aeroporto. Poco dopo si rese conto che Freddie lo stava solo usando per ingelosire Winnie e si offese. «Jim era un burattino», racconta Barbara. «Freddie lo trattava malissimo all’epoca. Lo faceva venire in aereo da Londra, poi lo rispediva indietro, talvolta il giorno stesso. Ho sentito tante storie tristi in quel periodo. Jim piangeva spesso. Gli dicevo: ‘Reagisci. Digli di no per una volta. Non farti usare’. ‘Sì’, mi rispondeva, ‘ma lo amo.’ E per questo si faceva trattare da cane. Faceva tutto quel che gli diceva Freddie. Freddie ordinava e lui arrivava di corsa, ogni volta. Era penoso. Spesso Freddie era davvero crudele con lui.» Ma la relazione era più profonda e significativa di quanto apparisse all’esterno, sebbene fosse sempre Mary, e non Jim, ad accompagnare Freddie agli eventi pubblici e nonostante sia stata lei a essere presentata come «la vedova» dopo la morte del cantante. Secondo Peter Freestone, che ha avuto modo di osservare diverse relazioni di Freddie da vicino, i due erano davvero d avvero innamorati. innamorati. «Sono sicuro che Jim e Freddie si amavano, anche se a modo loro», racconta. «Nel suo libro Jim idealizza un po’ la relazione. Secondo me lui desiderava un rapporto monogamo e felice, e non ha mai capito quanto Freddie andasse oltre quest’idea. Freddie aveva la sua vita: grande, stravagante, sfaccettata. Tutti sapevano che dovevi adattarti a lui, perché lui non si sarebbe mai adattato a te. Secondo me, Jim era troppo testardo per accettare questo. Di conseguenza la loro relazione era del tipo ‘sali-scendi’: Jim voleva che Freddie scendesse al suo livello, e Freddie invece che salisse al suo. Detto questo, di sicuro Freddie non sarebbe stato così bene negli ultimi anni della sua vita senza Jim. A conti fatti, Jim era il compagno ideale per lui in quel momento della sua vita. Freddie ci teneva, molto più di quanto hanno insinuato certe persone.» Con Garden Lodge finalmente ristrutturata e i problemi fiscali quasi risolti, Freddie scelse Jim, e non Barbara, come convivente per il suo rientro a Londra. La relazione di Jim e Freddie durò sei anni (anche se il primo ne abbia spesso citati otto) e questo indica che per Freddie il parrucchiere contava di più di quello che Barbara, col cuore infranto, volesse ammettere: «Jim non aveva niente da dire», dichiara sprezzante. «A Garden Lodge,
andava bene per accudire i gatti, il pesce e il giardino, punto. A volte Freddie usciva dai gangheri per la frustrazione. Una volta che ero lì lo vidi correre in giardino come un pazzo e strappare tutti i tulipani che Jim aveva piantato. Gli dissi: ‘Che fai? Poveri fiori!’ E lui rispose: ‘Lo odio, sto stronzo’. Più di una volta disse che Jim era una persona inutile.» Eppure Jim evidentemente dava a Freddie qualcosa che gli altri amanti non potevano dargli, nemmeno Mary. Persino Barbara dovette ammetterlo: «Spesso consideravamo Jim poco più che un servitore, ma sapevo che Freddie lo amava. Lo trattava male, ma certe persone hanno bisogno di un calcio in culo e ti ringraziano se glielo dai. Alla fine è stato un bene che ci fosse. Sei anni insieme… è un bel pezzo. Freddie tornò a Londra e Jim rimase al suo fianco fino alla fine. Grazie a Dio, devo dire». L’America, nel frattempo, era nella morsa di un’epidemia di proporzioni catastrofiche, che presto si sarebbe estesa al mondo intero. La maggior parte delle vittime dell’AIDS erano giovani omosessuali che si ammalavano per una serie di sintomi e patologie correlate all’HIV come perdita di peso, lesioni, gonfiore delle ghiandole linfatiche, meningite criptococcica e toxoplasmosi, e caratterizzate da itterizia, disturbi al fegato e alla milza e convulsioni. Le immunodeficienze erano in aumento: di continuo venivano riportati nuovi sintomi di disturbi immunitari, fra cui affaticamento, herpes e ipersudorazione notturna. I casi di candidosi orale si moltiplicavano, sviluppandosi quasi al punto da impedire la respirazione del malato. A livello mentale, paranoia, smemoratezza e disorientamento erano disturbi frequenti. Di tutti i casi di AIDS riportati negli Stati Uniti, metà erano stati riscontrati a New York e nelle zone limitrofe. Un quarto di secolo dopo, l’AIDS è diventato una pandemia. Ancora oggi non esiste un vaccino né una cura. Fu Barbara la prima a notare che Freddie aveva qualche problema di salute: «Cose da nulla, all’inizio. Meno appetito, ma non era mai stato uno che mangiava tanto. ‘Mangio come un uccellino e cago come un uccellino’, diceva. Il suo cibo preferito era il caviale con il purè, e i cracker al formaggio che gli mandava sua madre. Gli piaceva la cucina italiana, indiana e cinese, ma non mangiava tanto. Il tutto innaffiato di vodka, Stolichnaya. «Poi iniziò ad ammalarsi senza motivo. Una volta stette male a casa mia e non sapendo cosa fare chiamai il mio ginecologo, che era anche un amico fidato. Venne subito. Freddie farneticava, poi vide il dottore e si agitò. Gli
dissi: ‘Stai tranquillo, è il mio ginecologo’. ‘Oh, mio Dio, non ci credo’, rispose. ‘Sono incinto?’» Fu più o meno in quel periodo che Barbara cominciò a sentir Freddie parlar male degli altri membri del gruppo, una cosa che non era mai successa. Poi Freddie litigò con Peter Straker. Il loro rapporto, che durava da anni, finì in un baleno e non si ricucì mai più. «Straker era simpatico, era un pagliaccio. Faceva bene a Freddie perché gli teneva alto il morale e lo divertiva», ricorda Barbara. «Ma non stava mai fermo, era sempre alla deriva. Dormiva sempre a casa di qualche amico. Alla fine aveva preso un appartamento in uno dei palazzi di Beach a Londra, ma c’era bisogno di ristrutturare il bagno: piastrelle, vasca, lavandino, tutto. Per cinque volte Freddie gli aveva dato i soldi per rifare quel bagno, ma Peter se n’era sempre disinteressato. Freddie aveva perso la pazienza e lo aveva cacciato dalla sua vita per sempre. Straker non capì nemmeno che cosa avesse fatto di male. Era tipico di Freddie: dava, dava e dava senza badare a spese, fino alla goccia che faceva traboccare il vaso.» Forse lo stress per la malattia (nonostante non ne parlasse, Barbara, come Gambaccini, era sicura che Freddie sapesse) lo spingeva a gesti così estremi. E arrivò il giorno, disse Barbara, in cui non si poteva più ignorare «il gonfiore al suo gargarozzo». «Si gonfiava all’improvviso, dietro la gola. Lo chiamavamo ‘il fungo’. Andava e veniva ma dopo un po’ non se n’è andato più. Freddie diceva che stava marcendo dall’interno. Una volta ero a letto con lui e uno dei suoi ragazzi, e lui iniziò a tossire, a causa del fungo. Si sedette sul letto e tossì in un fazzoletto di carta, poi si appoggiò sopra quel tizio disteso per buttare il fazzoletto nel cestino. Quello si svegliò e disse: ‘Oh, mio Dio, non avrei mai creduto di vedere una rockstar nuda che muore sopra di me in un letto!’» Barbara era al corrente di New York e sospettava che Freddie fosse sieropositivo quando divennero amanti. «Quando ci incontrammo o non sapeva o non voleva sapere», ricorda. Barbara dichiarò che Freddie fece il primo test nel 1985 – al contrario di altri resoconti – anche se non fu in grado di confermare il motivo che aveva convinto il cantante a sottoporsi all’esame. «Gli cambiò la vita», ricorda. Aveva temuto per la propria incolumità? Era arrabbiata con lui per averla messa in pericolo? «No. Lo amavo. Fine della storia. Feci anch’io il test: negativo, e finì lì. Dato che non avremmo più fatto sesso e non ci sarebbero
stati più rischi, non rifeci più il test. Scoprii che aveva l’AIDS per caso. Una sera andò in bagno e si tagliò un dito. C’era molto sangue. Provai ad aiutarlo e lui strillò: ‘No! Non toccarmi! Non toccarmi!’ Allora capii. Non me lo disse esplicitamente, ma dopo quell’episodio era evidente. Da tempo lo sospettavo, chiaramente: aveva dei segni in faccia, come dei lividi bluastri. Li coprivo di trucco ogni volta che doveva andare in tv o girare un video, prima che arrivasse la truccatrice.» Barbara e Freddie non parlarono mai della malattia. «Sapeva che io sapevo, e io sapevo che lui sapeva. Ogni tanto buttava lì qualche allusione, dicendo che non sarebbe vissuto a lungo, ma nulla di più. Capii, in base a certe cose che diceva, che non aveva idea di chi glielo avesse trasmesso, ma quando un suo amante americano di tanti anni prima morì di AIDS, esclamò: ‘Oh, mio Dio, ci siamo’, e iniziò a preoccuparsi. Da quel momento era certo di avere i giorni contati.» Barbara e Freddie cessarono di avere rapporti sessuali. Winnie era uscito di scena, perciò da quel momento restava solo Jim nella vita del cantante. Freddie lasciò Monaco verso la fine del 1985, in modo brusco, inspiegabile e insopportabile per la donna che si lasciò dietro. «Un attimo prima eravamo inseparabili, facevamo letteralmente tutto insieme, quello dopo era sparito», racconta piangendo. «Uscì dalla mia vita, così. Non capivo. Gli scrissi, gli telefonai. Non c’era mai. Stava mentendo a se stesso. Ma poi pensai: Okay, se non vuole, non vuole. Ruppe proprio senza motivo.» Alcuni mesi dopo, Barbara era in casa che si preparava per andare all’inaugurazione del negozio di un amico, quando sentì suonare il campanello. «Maledizione, e adesso chi diavolo è?» disse. Poi pensò che fosse il taxi, quindi gridò al citofono: «Arrivo! Arrivo!» ma non ci fu risposta. Pensando che il portone fosse aperto, si precipitò di sotto. «Mi trovai davanti un uomo e pensai: Oddio, qualcuno mi ha spedito un manichino di Freddie Mercury.» Non credeva ai suoi occhi. «Pensavo: Oh no, oh sì… Credevo di avere un’allucinazione. L’uomo aveva un mazzo di fiorellini bianchi e disse: ‘No, sono io!’ ‘Lo so, lo so’, ma
non volevo che fosse vero. Feci per spingerlo di lato, dovevo uscire, pensavo che la mente mi stesse giocando un brutto tiro e quando lo toccai… Non potevo reggere. Corsi all’inaugurazione, feci qualche foto con il titolare e un paio di attori per la stampa. Poi tornai a casa e Freddie era ancora lì, tranquillamente seduto sul sofà che giochicchiava col telecomando. Allora crollai: lo abbracciai e piansi. Non riuscivamo a smettere di piangere.» Ci vollero diverse settimane prima che Freddie trovasse le parole per darle una spiegazione. Voleva troncare prima di partire, le disse. Voleva cominciare una nuova vita. Aveva vietato a tutto il suo entourage di parlare di Monaco o nominare Barbara. «Un centinaio di amici erano morti di AIDS, oramai», racconta Barbara, «e non potevamo parlarne. Disse che abbandonare la vita di Monaco e me era stato come disintossicarsi dalla droga. Se sei dipendente e un giorno decidi di smettere, dici ‘no’, tiri una riga netta e smetti. ‘Barbara, sono quasi morto’, mi disse. ‘Quante volte ho preso in mano il telefono, ho fatto il tuo numero e poi ho riattaccato…’ «Più avanti Phoebe mi disse che Freddie aveva fatto sparire tutte le mie cose, tolto le mie foto dalla casa, vietato agli altri di parlare di me, buttato via tutto ciò che gli ricor ricordava dava Monaco. Voleva scappare scappare da quel periodo periodo di follie, vivere un’esistenza più tranquilla, diversa e infine morire in bellezza. Ma non riusciva a stare senza di me. Aveva paura della solitudine. Voleva stare da solo e ci aveva provato, ma non ci era riuscito.» Barbara e Freddie ripresero a frequentarsi, ma non ridivennero amanti. Lei andò a trovarlo spesso a Garden Lodge e cominciò di nuovo ad accompagnarlo in giro per il mondo. «Jim aveva sostituito Winnie [dopo un rapporto altalenante durato circa quattro anni ], ma con Barbara la faccenda era più complicata», ricorda Peter. «Credo che Freddie ne avesse avuto abbastanza di quel periodo. La stampa tedesca aveva iniziato a scrivere diverse cose su Freddie e Barbara e lui si era convinto che fosse stata lei a informare i giornalisti. Secondo me no, ma Freddie era convinto.» Era possibile che qualcuno lo consigliasse male, qualcuno che voleva eliminare Barbara dalla sua vita? «E chi lo sa?» rispose Peter con un sospiro. «Io so solo che da allora in poi il suo unico compagno è stato Jim. Poco dopo che Freddie si trasferì a
Garden Lodge, Jim fu sfrattato dal suo appartamento, quindi Freddie lo invitò a stare da lui.» «Io e Freddie non abbiamo mai parlato di quanto tempo eravamo rimasti insieme», osserva Jim. «Lo eravamo e lo saremmo stati in futuro. Ogni tanto mi chiedeva che cosa volessi dalla vita. ‘Amore e appagamento’, rispondevo. E avevo trovato ambedue le cose in lui.» Nel 1987, Freddie ricevette una diagnosi ufficiale, ma né lui, né la band o il suo entourage avrebbero ammesso pubblicamente il fatto fino alla vigilia della morte nel novembre del 1991. Lo disse a Jim, dandogli la possibilità di andarsene, ma questi si rifiutò di abbandonarlo al suo destino. Decise di restare con lui e la parola «AIDS» non fu mai più pronunciata. Più avanti, nel 1990, Jim risultò sieropositivo, ma lo disse a Freddie solo un anno dopo. Morì nel 2010 di cancro ai polmoni (e non di AIDS come si vociferò all’epoca). Brian May confermò il fatto sul proprio sito web, scrivendo che Jim era morto per una malattia legata al fumo. Freddie non disse nulla al resto della band fino al maggio del 1989. Un giorno invitò tutti, compagne comprese, a mangiare da Girardet a Crissier, vicino vicino a Losanna, L osanna, all’epoca all’epoca definito d efinito «il miglior miglior ristorant ristorantee al mondo». Furono servite le portate migliori e stappate bottiglie pregiate: un conto da migliaia di sterline, tutto a sue spese. Ma alla fine non disse nulla della malattia. Forse la magnificenza del locale e la sua vista stupenda gli fecero mancare il coraggio. Pochi giorni dopo, tuttavia, i presenti si ritrovarono tutti per una cena più modesta al Bavaria, Bavaria, presso i Mountain Studios e Freddie si fece forza. «Qualcuno aveva il raffreddore e la conversazione si spostò sulle malattie», ricorda Jim «Freddie stava ancora abbastanza bene a quel punto, ma si arrotolò i pantaloni e appoggiò la gamba sulla sedia, mostrando a tutti una lunga ferita sul polpaccio. Fu uno choc. ‘E voi pensate di avere un problema!’ protestò, con quel suo modo tipicamente blasé. Nessuno disse una parola, credo fossero tutti scioccati. Poi però lasciò perdere e parlammo di altro.» Brian raccontò lo stesso episodio in un recente documentario per la tv. «Ripensandoci ora, sono certo che sapessero che Freddie era gravemente malato, ma non sapevano che cosa dire», racconta Jim.
«Quando tornammo a Londra Freddie fece un’intervista per Radio 1 con il DJ Mike Read. Lì dichiarò di non voler più andare in tournée. Disse che aveva fatto la sua parte e che comunque stava diventando troppo vecchio per fare ancora il buffone sul palco. In realtà era troppo debole. La stampa ovviamente capì tutto il contrario e riferì che Freddie si rifiutava di andare in tour, che il resto della band era contrariata eccetera; insomma, le solite sciocchezze.» Nulla di tutto ciò scalfì l’amore di Jim, anzi lo fece crescere ancor di più. «Freddie era l’amore della mia vita», dice, riecheggiando in modo un po’ inquietante le parole di Barbara. «Non c’era nessun altro al mondo come lui.» Anche se visse con lui fino alla morte, Freddie non considerò la loro una relazione «matrimoniale», almeno secondo Peter. «Eravamo tutti molto importanti per lui. Certo Jim occupava un posto speciale nel suo cuore. Persino ora mi sembra strano dirlo: Freddie aveva avuto una relazione con Mary e con Joe, ma mai con me. Era incapace di liberarsi dai sensi di colpa, per questo Joe e Mary era ancora lì intorno a lui. Si sentiva responsabile per loro. Sentiva di aver loro rovinato la vita e che era suo dovere prendersi cura di loro, come a volerli risarcire. Se ci pensi, è ridicolo, ma Freddie era fatto così.» A Garden Lodge convivevano permanentemente Peter, assistente e cameriere personale; Jim, che si era licenziato dal Savoy per diventare il giardiniere di Freddie; e Joe Fanelli, alias «Liza», l’ex amante tornato a fare il cuoco. Lui e Freddie si erano incontrati in America e avevano avuto una relazione corta ed esplosiva. Joe era vissuto per un po’ a casa di Freddie in Stafford Terrace, nelle veci di cuoco e tuttofare, e di tanto in tanto si era affiancato a Peter a Monaco. La sua relazione con Freddie aveva alternato momenti di passione a lunghi periodi di distacco. Lo staff della casa comprendeva anche due dipendenti non residenti: Terry Giddings, l’autista e Mary Austin, tuttofare, che abitava in un appartamento poco distante. Fra tutti, Mary era l’unica l’unica con cui Jim J im Hutton aveva qualche problema. problema. «Mary non mollava Freddie un attimo», osserva. Una convinzione a cui fa eco Peter: «Secondo me non ha accettato mai il fatto che fra lei e Freddie fosse finita. Per molti versi, lei dava la carica a Freddie. Non gliele dava
tutte vinte, era molto forte. In questo senso era proprio ciò di cui lui aveva bisogno. Era come una madre per lui. Si fidava di lei e si appoggiava a lei. E lei gli dirigeva la vita. È per questo che la loro relazione durava. Freddie diceva sempre che persino quando stavano insieme erano più simili a un fratello e una sorella. Molto tempo prima di avermi incontrato aveva detto pubblicamente che avrebbe lasciato la maggior parte del suo patrimonio a Mary. E se Freddie faceva una promessa, la manteneva. Non si rimangiava la parola data».
19 Break Free
La mia musica resisterà alla prova del tempo? Non me ne frega un cazzo! Io non ci sarò più, quindi… Tra vent’anni sarò morto, tesori miei. Ma siete matti? FREDDIE MERCURY Molte persone persone che ragg raggiungono iungono il successo nel nel campo del rock sono totalmente imprepara impreparate te alle conseguenze. conseguenze. Quel Q uel che ch e capita di solito è che diventi div enti ricco, ti separi separi dalle persone normali e poi cominci a usare i soldi per comprare comprare la gente. Divorzi dalla realtà, o inizi a bere, bere, o a droga d rogarti, rti, o a fare tutte e due le cose. Da questo punto di vista, i Queen mi sembravano molto intelligenti. Detto Det to questo, hanno h anno fatto qualche grave grave errore. errore. COSMO HALLSTROM
PAREVA che la vita personale fosse infine diventata una priorità per Freddie. Ma se la sua ossessione per il lavoro era in declino, lo stesso non si poteva dire per Brian, Roger e John. Il trio continuava a marciare imperterrito, convocando il cantante quando necessario e liquidando con una risata le voci che parlavano parlavano di un imminente imminente sciogli scioglimento. mento. La stampa stampa ne approfitt approfittòò lo stesso, pubblicando articoli sulle loro presunte divisioni per tutto il 1983. La realtà era che, logorati dalla vita in giro per il mondo, i quattro avevano deciso di prendersi una pausa e dedicarsi a progetti solisti. «Credo che ognuno di noi pensi spesso di lasciare i Queen», ammise Brian. «Ma sappiamo tutti che, sebbene da soli potremmo fare di testa nostra,
perderemmo qualcosa, più di quel che potremmo guadagnare. Stare nel gruppo è stimolante e non andare sempre d’accordo è un bene. Se ti separi, perdi il tuo veicolo, che ha un preciso equilibrio di talenti e un nome con cui le persone si identificano. Fare di testa tua non sempre ti rende felice alla fine.» «Pensavo che saremmo durati cinque anni, ma siamo arrivati al punto in cui siamo troppo vecchi per separarci», disse Freddie. «Ti immagini formare una nuova band a quarant’anni? Un po’ stupido, no? «Arriverà un momento in cui ci sarà un consenso unanime o qualcosa del genere, quando sentiremo istintivamente che i Queen sono arrivati alla fine della corsa, che non ci resta più nulla da fare dal punto di vista creativo. «L’ultima cosa che voglio fare è forzare le cose con i Queen. Preferisco mollare quando siamo a un buon punto e fare qualcosa di completamente diverso. Sono sicuro che anche gli altri la pensano così. «Il motivo per cui ho bisogno di riposo è che sono troppo stanco del business in generale. Ho deciso di prendermi una lunga pausa. Non credo che ci scioglieremo mai. Sarebbe un atto di codardia. Suppongo che se le persone non comprassero più i nostri dischi, la faremmo finita. E io me ne andrei a fare lo spogliarellista o qualcos’altro!» La decisione di rallentare un po’ i ritmi era arrivata dopo uno degli anni più impegnativi per i Queen. Nell’aprile del 1982 la band aveva firmato un altro contratto con la EMI per sei album, e poi si era imbarcata nell’ennesimo tour europeo, che si era concluso, ovviamente, con un festino erotico, un party in «mutande e giarrettiere» nella discoteca più rovente di Londra: l’Embassy l’Embassy . «Hot Space», il loro decimo album in studio, uscì a maggio. In seguito Brian espresse il proprio disappunto per quell’album «disco», che fu stroncato negli USA. «Credo che ‘Hot Space’ sia stato un errore, anche se solo in termini di tempistiche. C’eravamo appassionati parecchio di funk. Era molto simile a quel che Michael Jackson avrebbe poi fatto con Thriller . Solo il momento era sbagliato. ‘Disco’ era una parolaccia allora.» Ignorando per il momento il crollo della loro reputazione in America, i Queen rilanciarono con un tour estivo che comprendeva due serate al Madison Square Garden, uno dei loro posti preferiti per i concerti. A Boston, il 23 luglio la band ricevette le chiavi della città dalle mani del sindaco e la data fu dichiarata ufficialmente «Queen Day». Furono ospiti
dei programmi televisivi Saturday Night Live ed Entertainment ed Entertainment Tonight . Poi andarono in Giappone, accolti da un’altra dose di «Queenmania», quindi Freddie si ritirò a New York. A novembre, la Elektra Records prese atto delle vendite disastrose di Staying Power , l’ultimo singolo dei Queen per la casa secondo il contratto in vigore. Rinegoziarne uno nuovo era una faccenda complic complicata ata e costosa. costosa. Freddie F reddie inoltre inoltre era particolarm particolarmente ente scontento scontento della Elektra, soprattutto per come aveva gestito «Hot Space», e disse agli altri di non voler fare un altro album per quell’etichetta. Il contratto copriva anche Australia e Nuova Zelanda, dove i Queen pensavano di poter mietere più successo. Dopo un’accesa discussione, i quattro si rifiutarono di rinnovare anche il contratto «australe». Dato che nel frattempo era scaduto anche l’accordo con la Elektra-Giappone, i Queen erano a un bivio. Sebbene fossero riusciti a districarsi dagli obblighi americani, la libertà gli era costata un milione di dollari. Beach negoziò un contratto solista per Freddie, per un unico disco, con la CBS Records nel Regno Unito e la Columbia negli USA. Nell’ottobre 1983, la band firmò con l’affiliata americana della EMI, la Capitol. Freddie continuò a elaborare le idee per l’album solista a Monaco, assentandosi di tanto in tanto per andare a New York. Durante uno di quei viaggi, viaggi, fece tappa tappa a Los Angeles Ange les per unirsi agli altri Queen Que en che lavoravano a un nuovo album e per far visita a Michael Jackson nella sua bizzarra residenza in finto stile Tudor su Hayvenhurst Avenue, a Encino (prima di Neverland). Una torre dominava l’entrata presieduta da guardiani e c’erano lucine natalizie a ogni singola finestra. «È nostro amico da tempo», spiegò Freddie. «Una volta veniva sempre a vedere i nostri concerti, ed è così che è nata la nostra amicizia... Avrei potuto partecipare a Thriller . Pensa a quanti diritti d’autore mi sono perso!» Da tempo Michael e Freddie accarezzavano l’idea di collaborare a un brano. Quella era la prima volta che si trovavano tutti e due nella stessa città con un po’ di tempo libero a disposizione. «Mi interessa sempre lavorare con altri musicisti, come Michael Jackson», disse in seguito. «Anche se mi preoccupa: tutti quei soldi e non un briciolo di gusto, cari miei! Che spreco! Avevamo tre pezzi in saccoccia [ There Must Be More To Life Than This, This , che in seguito sarebbe comparsa sul primo album solista di Freddie, Victory e e State of Shock, Shock, che nel 1984 sarebbe stata inclusa in «Victory», l’album del ritorno dei Jackson 5, cantata in duetto con
Mick Jagger], ma sfortunatamente non li abbiamo mai finiti. Erano delle ottime canzoni, ma il problema era il tempo, dato che eravamo entrambi molto occupati in quel periodo. Non ci siamo più trovati nello stesso Paese abbastanza a lungo per finire il lavoro. «Michael mi ha persino chiamato per chiedermi se potessi completare State of Shock, Shock, ma non potevo perché avevo degli impegni con i Queen. L’ha fatto Mick Jagger al posto mio. È un peccato, ma alla fine una canzone è solo una canzone. È l’amicizia quel che conta.» «Freddie registrò un paio di demo con Michael nel suo studio privato a Encino», conferma Peter. «C’ero anch’io. Ho persino giocato ai videogiochi con Michael. In uno dei pezzi, ci sono io che sbatto la porta del bagno, perché faceva un suono simile alla grancassa. Gli impegni non hanno loro mai permesso di coltivare la loro amicizia, ma si rispettavano e riconoscevano il genio l’uno dell’altro.» Può darsi che Freddie sia rimasto scoraggiato dall’eccessiva mania di controllo del clan Jackson (pochi erano in grado di sopportarla), ma è anche probabile che la collaborazione si sia interrotta per un’altra ragione, più sinistra, sinistra, che tempo dopo sarebbe stata svelata dalla stampa. stampa. A Londra, nel maggio del 1983, Freddie appagò la sua passione per l’opera lirica, andando a vedere Un Ballo in Maschera Maschera di Giuseppe Verdi prodotto dalla Royal Opera House, il teatro lirico di Covent Garden. Le stelle della serata erano il tenore Luciano Pavarotti e l’affascinante soprano spagnola spagnola Montserrat Caballé, allora cinquantenne. «Fino a quel momento Freddie aveva sempre amato i tenori», racconta Peter. «Placido Domingo e Luciano Pavarotti erano i suoi preferiti. Avevo un’enorme collezione di dischi di musica lirica e voleva imparare il più possibile sull’opera. Un giorno gli dissi: ‘Okay, dici tanto che ti piace Pavarotti. Tra poco canta alla Opera House: perché non ci andiamo?’ Disse che era una splendida idea e mi chiese di prenotare subito i biglietti. «Nel primo atto Pavarotti cantò un’aria e Freddie disse che era meravigliosa. Nel secondo salì sul palco la prima donna, Montserrat. Dato che Freddie era così preso da Pavarotti, non aveva fatto tanto caso agli altri cantanti. Poi lei cominciò a cantare e patatrac: Freddie restò incantato. Si dimenticò del tutto di Pavarotti. Da quel momento in poi vide solo lei.» Freddie fu ipnotizzato in particolare dal famoso duetto d’amore tra il focoso Riccardo e la splendida Amelia, una donna tormentata dai sensi di
colpa ma incapace di resistere alla passione. Era una condizione con cui si identificava. Non riuscì a staccare gli occhi, e le orecchie, dalla potente, seppur delicata, Caballé. Dopo lo spettacolo, non smise un attimo di parlare di lei in toni estatici, decantando il suo «timbro limpido», la sua «versatilità vocale» e la sua «tecnica impeccabile». impeccabile». «Ecco una vera cantante», ripeteva ripeteva di di continuo. «Se mi chiedessero di descrivere la persona più felice che abbia mai visto, Freddie che sta per godersi Monserrat sul palco a Covent Garden sarebbe sicuramente una di queste», disse Gambaccini. «Ero in platea. Alla mia sinistra, in prima fila, nel posto migliore, c’era Freddie con gli occhi pieni di meraviglia e di gioia. La mano sinistra protesa verso il palco, la felicità felicità dipinta dipinta in volto… come un u n bambino. bambino. Era una scena fantastica e una prova del fatto che, a prescindere da quanto successo avesse avuto, non aveva smesso di rispettare e ammirare i suoi artisti preferiti. Anche le star hanno le loro star.» Freddie non poteva sapere che di lì a poco avrebbe registrato un disco e si sarebbe esibito con Monserrat, dando vita a uno dei duetti più improbabili del firmamento musicale. Ma gli altri Queen erano annoiati: non sopportavano tutti quei giorni di riposo e relax. Scalpitavano per rimettersi al lavoro. Un tentativo di comporre la colonna sonora per l’adattamento cinematografico del romanzo di John Irving Hotel New Hampshire, Hampshire, con la regia di Tony Richardson e la partecipazione di Rob Lowe e Jodie Foster, fallì quando risultò evidente che il budget della pellicola non bastava per avere musiche composte da superstar. Il progetto, però, li spinse a tornare in studio. Ritrovatisi alla Record Plant di Los Angeles, i quattro iniziarono a mettere in cantiere un nuovo album, «The Works». Gli studi, famosi per le registrazioni di Jimi Hendrix e dei Velvet Underground erano stati fondati a New York nel 1968. La succursale di Los Angeles era diventata molto popolare durante gli anni Settanta, a mano a mano che il mondo del pop e del rock si era spostato a ovest. Nel 1985, la Record Plant si sarebbe poi trasferita a Hollywood, al posto dei famosi Radio Recorders Studios (alias «Annex» Studios) che avevano visto Louis Armstrong ed Elvis Presley suonare nelle loro sale, e due anni dopo sarebbero stati acquisiti dalla Chrysalis Records per opera di Sir George Martin, il produttore dei Beatles.
Eddie DeLena assistette Reinhold Mack durante la lavorazione di «The Works». «Mack era una persona gentile e di poche parole», ricorda. «Più avanti scoprii che era un vantaggio. Non si schierava mai e si teneva lontano dai potenziali conflitti fra musicisti, manager e dirigenti dell’etichetta. Era neutrale come come la Svizzera, Svizzera, ecco perché perché nessuno litigava litigava mai con lui.» lui. » A parte il garbo e la mitezza di Mack, DeLena scoprì che lavorare con i Queen era «come incidere quattro diversi album solisti». «Anziché collaborare fin dall’inizio, ogni membro del gruppo arrivava con le proprie idee, le elaborava e poi gli altri ci incidevano sopra le loro parti.» Non che fosse un problema. problema. «I Queen erano fra i musicisti più dotati e gentili che potessi immaginare. Quattro gentiluomini, gentiluomini, tutti educati e ducati e ognuno diverso dall’altro. Roger Taylor era affascinante e amava la vita mondana in generale, al contrario di Brian o John. Brian era sveglio, gentilissimo e totalmente appassionato al mestiere, nel quale eccelleva. Conosceva benissimo la composizione e la teoria musicale: passava ore a sviluppare le sue parti in studio. John era introverso e si teneva lontano dai riflettori. Passava meno tempo in studio rispetto agli altri, ma quando c’era bisogno di lui, era sempre pronto e preciso. «Freddie era chiaramente trasgressivo ed esagerato. La sua presenza riempiva la stanza non appena entrava. Quando parlava, usava toni drammatici e coloriti, con un timbro da attore teatrale. Lo stile operistico dei Queen era in realtà un’appendice della personalità di Freddie. Era molto dotato dal punto di vista vocale ed era un ottimo compositore. C’erano volte in cui registravamo le parti vocali e quasi non facevi in tempo a cambiare pista sul multitracce che lui già cantava la parte successiva con un complesso arrangiamento armonico. Aveva già tutto l’arrangiamento in testa e cantava ogni parte alla perfezione al primo colpo. Era difficile stargli dietro.» Eddie trovò normale che Freddie girasse con un entourage di omosessuali. «In quel caso, amici e conoscenti di ‘Boystown’ [la zona gay di West Hollywood]. Spesso si vantava delle sue avventure della sera precedente, ma nessuno degli altri Queen si degnava di prestargli ascolto.» I club preferiti di Freddie a Boystown erano The Motherlode, Motherlode, The Spike, Spike, e The Eagle sul Santa Monica Boulevard. In una di quelle sortite Freddie finì fra le braccia di Vince «il barista», che lavorava all’Eagle all’ Eagle:: un esemplare alto, scuro, barbuto e grosso, e soprattutto indifferente al fatto che Freddie fosse
una rockstar di fama internazionale. Vince aveva una bella moto e Freddie non sapeva resistere ai motociclisti. Presto i due divennero inseparabili, ma quando il cantante gli chiese di seguirlo, Vince rispose di no. Ma non fu certo il primo primo rifiuto rifiuto che Freddie F reddie ricevette ricevette in questo senso. «Tutti tranne Freddie avevano una guest list di amici che potevano passare a trovarli in studio», racconta DeLena. «Erano lì per fare un disco senza distrazioni. Si può solo presumere che in passato avessero fatto degli ‘studio party’ [DeLena si rifiuta di approfondire; possiamo solo immaginare…] e che ne avessero avuto abbastanza.» Una sera, però, lo studio dei Queen si trasformò in un megaevento rock’n’roll. «Rod Stewart era in fondo al corridoio, che registrava nello Studio A. C’era pure Jeff Beck, nello Studio B. Tutti finirono nello Studio C, a improvvisare insieme. Ci fu una scena eccezionale con Rod Stewart e Freddie Mercury insieme al pianoforte, che cantavano un duetto improvvisato sfottendosi a vicenda, in particolare sui loro attributi fisici, con una comicità tipicamente inglese. Freddie derideva i capelli e il naso di Rod, Rod rispondeva con qualcosa sui dentoni di Freddie. Esilarante. Piangevo dal ridere mentre cercavo disperatamente di piazzare amplificatori e microfoni, perché quel momento andava assolutamente registrato. Jeff Beck e Brian May che suonavano insieme, Rod e Freddie che cantavano in duetto, Carmine Appice e Roger Taylor che si alternavano alla batteria. Era il caos, certo, ma quei nastri esistono da qualche parte. Il management dei Queen si è subito assicurato che nessuno li sentisse per timore che qualche copia finisse nelle mani sbagliate. Prelevarono le bobine dallo studio quella sera stessa. Nemmeno io le ho mai ascoltate.» Un altro momento memorabile durante la registrazione di «The Works» fu la festa per il trentasettesimo compleanno di Freddie nell’enorme dimora che aveva affittato a Stone Canyon Road, già appartenuta a Elizabeth Taylor. Per l’occasione Freddie fece riempire la casa di gigli orientali dal profumo inebriante. Decise poi che la sua vecchia fiamma Joe Fanelli si sarebbe occupato della cucina, e lo fece arrivare da Londra. I due, rappacificati, decisero il menu per la festa, con i piatti preferiti di Freddie, fra cui l’insalata di pollo detta «dell’incoronazione» e i gamberoni alla creola. Le cameriere lesbiche in camicia bianca e pantaloni neri furono fornite
da una dirigente della Elektra, la cui amante era proprio la donna delle pulizie della casa. «Una scena maestosa, in mezzo ai lussureggianti giardini della tenuta», ricorda DeLena, che fu invitato alla festa insieme con Elton John, Rod Stewart, Jeff Beck e John Reid. A parte questi, c’erano pochi volti noti fra il centinaio di invitati, molti dei quali erano i cari, vecchi ‘anonimi amici’ di Freddie. Il partner del festeggiato per la serata era Vince il barista. «C’erano camerieri, baristi, maghi e musicisti classici», ricorda. Uno spasso. La notte volò via finché mi resi conto che non c’entravo molto con quelli rimasti»: DeLena era oramai uno dei pochi eterosessuali presenti. Il primo singolo estratto dal nuovo album fu Radio Ga Ga, Ga, scritta da Roger nel gennaio del 1984. In origine intitolata Radio Caca, Caca, pare per un commento scatologico di Felix, il figlioletto di Roger (la cui madre, Dominique, è francese), raggiunse la seconda posizione nel Regno Unito e la prima in diciannove Paesi, rivelandosi una delle composizioni più intelligenti dei Queen. Fra le righe del testo pop si leggeva una frecciata alle emittenti radiofoniche, accusate di essersi vendute. La funzione e l’immagine della radio era oramai diventata l’opposto di tutto ciò che un tempo essa rappresentava. Quel disco epico aveva bisogno di immagini altrettanto epiche che lo promuovessero. Prodotto da Scott Millaney e diretto da David Mallet (che Freddie chiamava «Mallet B. DeMille») il video comprend comprendeva eva alcune scene di Metropoli di Metropoliss, il capolavoro di fantascienza di Fritz Lang del 1927, oltre a una panoramica di frammenti di video precedenti come Bohemian Rhapsody e Flash. Flash. Con l’aiuto del fan club, cinquecento discepoli discesero agli Shepperton Studios londinesi, indossarono tute argentee e si disposero in fila, dove batterono le mani a ritmo con il ritornello. La sequenza sarebbe stata poi adottata dai fan nei concerti in tutto il mondo e sarebbe diventata un’immagine indelebile del Live Aid. Radio Ga Ga fu il video più costoso dei Queen fino a quel momento e uno dei loro progetti più ambiziosi. «David e Freddie passarono ore a discutere idee», ricorda Millaney. «‘Tesoro, «‘Tesoro, vedi ve di solo di d i superare Elton’, Elton’, diceva Freddie. Fred die. ‘Voglio ‘Voglio il meglio’». meglio’». «Mandai il budget a Jim Beach e lui disse: ‘No, è troppo’. E io: ‘No, non hai capito, questo è il budget di Freddie’.» Millaney e Mallet crearono anche il controverso video per I Want to Break Free, Free, quello con i quattro Queen travestiti da donne e anche una
sequenza di balletto di quarantacinque secondi, ispirata dal Preludio al omeriggio di un fauno fauno di Claude Debussy, in cui Freddie danzava con il corpo di ballo del Royal Ballet. «Freddie non stava nella pelle per l’eccitazione quando preparammo quel video», ricorda ricorda Millaney. «‘Bene, tesoro, dobbiamo solo vestirci vestirci da donna e io mi devo tagliare i baffi.’ Ma David gli disse: ‘No! Devi tenerli. È proprio questo il punto!’ Freddie era il ritratto della felicità quando prenotammo il Royal Ballet e lui poté danzare con loro per un giorno intero… anzi poté persino rotolare su di loro!» La truccatrice Carolyn Cowan, responsabile per il body painting sul corpo dei ballerini, sviluppò una relazione così stretta con Freddie che fu prenotata per diversi video successivi. «Io non ero una normale truccatrice e Freddie non era una normale rockstar – ammesso che esista una cosa del genere – per cui ci incontrammo a metà strada», racconta. «Eravamo tutti e due molto forti e io sapevo disinnescare la sua rabbia in un attimo. In cambio Freddie si prendeva cura di me. Era una simbiosi, ci piacevamo, per dirla in parole povere. «Il camerino del trucco è un luogo sacro. Gli artisti si spogliano e ti permettono di vederli come sono fatti davvero: ecco perché lì dentro ci vuole un’enorme dose d ose di fiducia. Ci metto poco poco a dipingere dipingere un corpo. corpo. Sono veloce. Devi esserlo, altrimenti altrimenti le persone persone prend prendono ono freddo, si annoiano, perdono la pazienza; si ricordano di essere a disagio. Devi cogliere l’attimo e andare avanti. «Arrivai ai Limehouse Studios per I Want to Break Free Free e andai subito d’accordo con tutti. «All’epoca bevevo molto, oltre a tirare di coca e fumare canne, e questo forse mi fu di aiuto (fu David Bowie a salvarla dalla dipendenza, nel 1991). «Come Freddie, sono una dipendente per natura. Credo che lui lo capì subito. Avevo i capelli lunghi, allora; somigliavo a Carlo II. Gonna corta, stivali alti; ero aperta a qualsiasi esperienza. Ero in sintonia con l’eccentricità della band. «Li truccai tutti da donne, in stile Coronation Street , e il risultato fu incredibile. Freddie aveva già un volto grandioso. Tutto funzionò quel giorno. Dovetti anche fare le orecchie appuntite in cera dei ballerini. Ma loro si comportavano così male che rovinavano di continuo il trucco e mi
toccava rifarlo. Nel frattempo Freddie diceva: ‘Preparami un’altra striscia di coca, tesoro, ti prego!’ Era scandaloso. Facemmo fuori una quantità di droga incredibile. «Tieni a mente che stavamo inventando una nuova forma d’arte. Eravamo sotto pressione per questo. Nonostante ciò andai d’accordo con la band, nel suo insieme e singolarmente presi. Non si erano ancora stancati, stufati, rotti le palle. Adoravano ancora la libertà e l’edonismo di quell’ambiente. Era divertente. Freddie aveva una straordinaria energia creativa e il miglior senso dell’umorismo che avessi mai visto.» Tuttavia, come già ricordato, il video si sarebbe rivelato un ulteriore chiodo sulla bara della reputazione dei Queen negli USA. I travestiti furono ritenuti troppo estremi per MTV. Negli anni Ottanta l’emittente esercitava un controllo tale sull’industria della musica e sulla cultura popolare che la decisione di non trasmettere un dato video aveva effetti devastanti. Il riferimento ironico alla soap opera inglese Coronation Street non fu colto dai fan americani, che trovarono il clip offensivo e incomprensibile. La band restò di sasso. «Abbiamo fatto dei video strepitosi in passato», disse Roger, «e questa volta abbiamo pensato che fosse ora di scherzare scherzare un po’. po’. Volevamo far vedere vede re che non ci prendevamo troppo troppo sul serio, serio, che eravamo ancor a ncoraa capaci capaci di ridere di noi stessi. Credo che ce l’abbiamo fatta.» «L’americano medio capì che forse Freddie era gay, e l’americano medio era molto importante», spiega Brian Southall, ex giornalista e dirigente delle pubbliche pubbliche relazioni relazioni della de lla EMI. «Potevi sperimentare quanto volevi a New York e a Los Angeles, ma non in Kansas...» La band non si scusò e si rifiutò categoricamente di girare un video alternativo per il mercato americano. L’orgoglio ebbe ancora una volta la meglio, ma distrusse la loro reputazione in America. «Break Free Free fu un problema», concorda Peter Paterno, l’avvocato americano che nelle veci di presidente della Hollywood Records avrebbe scritturato i Queen nel 1990. «Minigonne e trucco offesero molta gente. E anche Radio Ga Ga: Ga: molte emittenti americane se la presero a morte. Dicevano: Non passiamo la loro musica se ci prendono in giro, perché dovremmo? Dal giorno alla notte i Queen Quee n crollarono crollarono qui in America.» America.»
«The Works» sarebbe arrivato a fatica al ventitreesimo posto negli USA e Radio Ga Ga al sedicesimo. «Inoltre», aggiunge Paterno, «oramai i Queen erano in contrasto con la loro stessa immagine. Qui in America, all’epoca, il classico appassionato di rock era un macho e non somigliava affatto a loro. Secondo me, facevano ancora una musica stupenda. Ero un loro fan. Prendi Hammer to Fall , il pezzo contro il nucleare di Brian May, che sarebbe finito sulla colonna sonora di Highlander . È una canzone stupenda che non ha avuto alcun successo qui. Niente di niente. Quello fu l’inizio della fine per i Queen in America.» La disputa della Capitol Records con i promotori discografici indipendenti non contribuì a migliorare la situazione, così come lo strano atteggiamento del manager personale di Freddie, Paul Prenter, che appariva oramai l’unico responsabile delle trasgressioni sempre più eccessive del cantante, vale a dire sesso con prostituti e droga. Secondo alcuni, Prenter spingeva Freddie a raggiungere livelli via via più elevati di pericolo e depravazione depravazione per soddisfare le propr proprie ie fantasie perversamente perversamente dissolute. «Esercitava una pessima influenza su Freddie», commentò Roger, «e di conseguenza su tutta la band.» Ma né Freddie né i suoi amici potevano sapere fino a che punto il rapporto con Prenter si sarebbe rivelato disastroso. A febbraio, mentre la EMI preparava il lancio di «The Works», che, nonostante la tiepida accoglienza americana, sarebbe diventato l’album di maggiore successo dei Queen, la band partecipò al Festival di Sanremo in compagnia dei Culture Club di Boy George, di Paul Young e di Bonnie Tyler. Partecipare a un evento del genere, per artisti così affermati, era ritenuto addirittura peggio di un fiasco, ma rappresentava anche un’occasione per svagarsi un po’ sulla riviera ligure. E poi era anche una mossa azzeccata dal punto di vista pubblicitario, nonostante Brian e Roger fossero ai ferri corti. Durante un’intervista a margine del festival, Freddie alzò il sipario sul suo rapporto con Michael Jackson: «Io e Michael ci siamo allontanati un po’ da quando ha avuto grande successo con ‘Thriller’», confessò. «Si è ritirato nel suo mondo. Due anni fa, ci divertivamo a girare insieme per locali, ma ora se ne sta rintanato nella sua fortezza. È triste. Ha paura di essere attaccato ed è paranoico su tutto.»
John e Roger affrontarono un tour promozionale con diversi appuntamenti in Australia ed Estremo Oriente, prima di sparire per una vacanza. Brian collaborò al nuovo album del rocker rocker americano americano Billy Squier, mentre Freddie tornò a Monaco per diverstirsi, fra una puntatina e l’altra in studio per produrre il suo album solista. A maggio i Queen si riunirono tutti a Montreux e cantarono in playback davanti a quattrocento milioni di spettatori televisivi per il Rose d’Or festival. Annunciarono anche una nuova tournée europea, che avrebbe preso il via ad agosto. Poi Roger tornò a dedicarsi a un progetto solista, che avrebbe prodotto un singolo e un album accolti con scherno dalla critica il mese successivo. Freddie tornò di corsa a Monaco. A giugno, la band si radunò a Londra e ricevette un premio Silver Clef per il suo «eccezionale contributo alla musica britannica». Luglio vide l’uscita del singolo It’s a Hard Life, Life, che arrivò alla sesta posizione nel Regno Unito; il terzo singolo tratto da «The Works» a entrare nella Top Ten. It’s a Hard Life Life riprendeva il tema metà tragico metà giocoso di Killer Queen e Play the Game. Game. Il primo verso e la melodia echeggiavano Vesti la iubba, iubba, la famosa aria di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo: «Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!» Forse Freddie pensò anche a Smokey Robinson quando compose il pezzo. In Tears of a Clown («Lacrime Clown («Lacrime di un pagliaccio») dall’album del 1967 «Make It Happen» dei Miracles, Robinson si paragona ai pagliacci, che nascondono il dolore e la rabbia dietro i loro sorrisi vacui. Già in precedenza Robinson aveva usato il paragone con i pagliacci tristi in un pezzo scritto per Carolyn Crawford della Motown, My Smile Is Just a Frown (Turned Upside Down) Down) («Il mio sorriso è solo una fronte corrugata (girata al contrario)». Richiamandosi a Play the Game Game e alla ricerca infruttuosa del vero amore, in Hard Life Freddie Life Freddie descriveva il suo doloroso dilemma personale. Aveva accumulato enormi ricchezze materiali, più di quante avrebbe potuto sognare, ma questo non gli bastava. «Il denaro non può comprarmi l’amore», ( Money ( Money can’t buy me love) love) avevano cantato i Beatles vent’anni prima sullo stesso tema. Come spiegò Paul McCartney: «L’idea dietro quel pezzo è che tutte queste comodità vanno benissimo, ma non possono darmi ciò che desidero davvero». Freddie imparò a sue spese quanta verità vi fosse in quella frase. Che il cantante si sentisse afflitto da una carenza affettiva non era un
segreto per gli amici più intimi, che negli anni l’avevano aiutato ad asciugare le lacrime dopo una lunga serie di relazioni disastrose. Era evidente anche per i fan, grazie alle numerose canzoni che il loro idolo aveva scritto sull’argomento. «I testi dei suoi brani rispecchiano la sua vita», osserva Frank Allen dei Searchers. «I «I Want It All [‘Voglio tutto’], Somebody to Love Love [‘Qualcuno da amare’], Don’t Stop Me Now [‘Non Now [‘Non fermatemi adesso’], Who Wants to Live Forever [‘Chi vuol vivere per sempre’] illustrano le sue speranze e i suoi desideri. È normale che un compositore esprima la propria personalità nei suoi testi, e più Freddie accettava la sua sessualità più si apriva con sincerità. Credo che le relazioni con le donne lo facessero sentire più sicuro. Tutti hanno un lato bisessuale, anche se pochi lo accettano. Il senso di colpa e le conseguenze sono troppo grandi, persino in questi tempi cosiddetti ‘liberi’.» Milioni di persone amavano Freddie, ma da lontano. Pochi gli erano vicini. vicini. Quelli che lo erano e che erano stati ammessi nella sua cerchia cerchia di amici personali avevano troppo bisogno di lui. La loro adorazione riguardava più i loro desideri e i loro sogni che quelli di Freddie. L’esuberanza e l’abbandono omosessuale erano depistaggi per celare al mondo esterno un crescente sconforto interiore. Nel profondo del cuore Freddie temeva che non avrebbe mai trovato la persona ideale, il suo «qualcuno da amare», un altro motivo per cui restò aggrappato a Mary con tanta tenacia. Riferendosi proprio a It’s a Hard Life, Life, brano a cui lavorò con Freddie senza risparmiarsi, Brian dichiarò: «È una delle canzoni più belle che Freddie abbia mai scritto. Arriva dritta dal cuore». Il sontuoso videoclip del pezzo fu girato dal regista Tim Pope a Monaco e lasciò la band delusa e confusa. Vi compaiono diversi amici di discoteca di Freddie, inclusa Barbara Valentin, ma tutti appaiono evidentemente a disagio nei panni di trovatori medievali. Il costume aderente e decorato con decine di occhi di Freddie, un omaggio alla cantante osé francese de fin de siècle Mistinguett, siècle Mistinguett, sollevò non poche perplessità oltreoceano. Così come una misteriosa ferita alla gamba, abbastanza grave da richiedere un’ingessatura, che il cantante dichiarò essere dovuta a un non meglio specificato contrattempo in un bar del Triangolo delle Bermude. I Queen volevano suonare in posti nuovi. Il Vaticano non gli era concesso, i russi li avevano definiti «debosciati», mentre cinesi e coreani non
stavano al gioco. Accettando di fare dodici spettacoli al Super Bowl in Sud Africa, nell’ottobre del 1984, i quattro si trovarono invischiati nella più compromettente tempesta politica della loro carriera. Sun City era un’isola nel deserto dedicata al divertimento, tipo Las Vegas, in parte finanziata dal governo dell’apartheid. Per il mondo esterno era un insulto della minoranza bianca nei confronti della popolazione nera che viveva nella povertà, rinchiusa in squallidissimi ghetti. La British Musicians’ Union aveva imposto ai propri membri il divieto di esibirsi in Sud Africa. L’atmosfera antiapartheid sarebbe stata catturata dal supergruppo Artists Against Apartheid, fondato da Steven Van Zandt (già membro della E Street Band di Bruce Springsteen) con il singolo I Ain’t Gonna Play Sun City («Io non suonerò a Sun City»), che vide la partecipazione di Miles Davis, Bob Dylan, Ringo Starr e il figlio Zak Starkey, Lou Reed, Jackson Browne, Pat Benatar, Peter Gabriel, Keith Richards e Ronnie Wood dei Rolling Stones. Quando uscì, nel dicembre del 1985, il 45 giri non riscosse particolare successo in America, ma fu una hit in Australia, in Canada e nel Regno Unito. I Queen non si pentirono. «I «I Want to Break Free Free è diventata l’inno ufficioso dell’African National Congress e Another e Another One Bites the Dust è è uno dei brani più venduti fra la popolazione nera del Sud Africa», spiegò Roger. Le polemiche, però, imperversarono lo stesso. Nel frattempo i Queen si accinsero a partire per la tournée di «The Works» , Works» , insieme con un quinto membro alle tastiere, Spike Edney. Erano quasi due anni che non si esibivano dal vivo, per cui furono costretti a entrare in sala prove, sebbene quello non fosse certo il loro passatempo preferito. Si ritrovarono in un hangar di Monaco, attrezzato di tutto punto, con impianti e luci all’avanguardia. «La primissima cosa che suonai con loro alle prove fu Tie Your Mother Down», Down», ricorda Edney. «Che andava bene, perché la suonavano da anni. Poi Under Pressure. Pressure. Quindi vollero provarne una delle nuove: I Want to Break Free. Free. Un pezzo abbastanza facile, diresti tu. Arrivammo alla prima strofa, ci ingarbugliammo e ci fermammo. Mi resi conto che non l’avevano mai fatta insieme dal vivo. Io avevo la partitura per cui dissi: Guardate, in realtà fa così e così. John si mise dietro di me, poi anche Brian. E poi Freddie: ‘Hai per caso anche le parole scritte lì, buon uomo?’ chiese. Li avevo tutti intorno e pensai: Su Edney, andrà bene, puoi farcela.» Durante la data al National Exhibition Centre di Birmingham, il leader
degli Spandau Ballet Tony Hadley incontrò il suo idolo Freddie Mercury per la prima volta. Hadley aveva una voce così potente e versatile che era stato paragonato al giovane Frank Sinatra. Non lo sapeva, ma Freddie era un suo fan. «La massoneria della Stima Reciproca», ricordò ridendo. «Ero cresciuto con i dischi dei Queen e Freddie era il migliore frontman del mondo. Morivo dalla voglia di conoscerlo. All’epoca ero abbastanza famoso per ottenere accesso a qualsiasi backstage. Incontrammo i ragazzi, che furono molto gentili e simpatici. Ci invitarono alla festa di fine concerto in un albergo vicino. Ci andai con Leonie [la sua prima moglie]. C’era un posto libero a fianco di Freddie e lui mi disse: ‘Vieni tesoro, vieni a sederti vicino vicino a me, caro’. caro’. Leonie L eonie andò a sedersi sede rsi dall’altra dall’altra parte parte del tavolo. Stavamo chiacchierando quando all’improvviso arrivarono un paio di spogliarelliste per intrattenere intrattenere la troupe. «Ho sempre pensato che i Queen si divertissero più degli altri. Festeggiavano alla grande, facevano dischi meravigliosi, avevano più personalità di chiunque altro. Persino John Deacon, che era il più tranquillo. «Quella sera parlai con Freddie dell’immagine pubblica e mi diede qualche consiglio gratis: ‘Non scusarti mai per essere sul palco’, disse. ‘Mai chiedere scusa. Il pubblico è venuto a vederti, quindi non importa se non sei in forma per una sera. Devi guidare lo spettacolo in ogni caso.’ Avevo ventitré ventitré o ventiquattro ventiquattro anni e cantavo in una band che andava abbastanza bene. Lui era il re del rock. Avrebbe potuto ignorarmi, invece si dimostrò entusiasta di trasmettermi la sua esperienza e le sue conoscenze. È stato l’unico che l’ha fatto in vita mia e lo rispetto tantissimo per questo.» «‘Tutti gli artisti sono afflitti da un senso di insicurezza’, mi disse. ‘Anche tu?’ chiesi. ‘Soprattutto io’.» Il concerto del 5 settembre a Wembley terminò con una festa per cinquecento invitati nella discoteca Xenon per celebrare il trentottesimo compleanno di Freddie. La torta era forse la più spettacolare di tutte: un modellino di Rolls-Royce lungo un metro e mezzo. Quella settimana uscì il ventiseiesimo ventiseiesimo singolo del d el gruppo, gruppo, Hammer to Fall , in contemporanea con il primo singolo di Freddie come solista, Love Kills, Kills, registrato per la riedizione di Metropolis Metropolis. Con nove album fra i primi duecento nel Regno Unito, a ottobre i Queen e il loro entourage, inclusa Mary Austin e il suo nuovo
convivente Joe Burt (bassista della Tom Robinson Band), partirono per il Sud Africa e il loro controverso appuntamento a Sun City. Durante il concerto di apertura, però, Freddie perse la voce dopo un paio di canzoni; la calura e la polvere del deserto avevano aggravato il suo vecchio problema alla gola. Lo spettacolo fu cancellato, così come i cinque successivi. La band riuscì a fare solamente gli altri sei concerti in programma. Al ritorno a Londra, Brian e Roger andarono a difendere le proprie posizioni alla Musicians’ Union. «Non eravamo andati [in Sud Africa] a far baldoria», spiega Edney. «I Queen avevano fatto un bel po’ di beneficenza laggiù, inclusa una raccolta fondi per l’istituto Kutlawanong per bimbi sordociechi. Più avanti fecero uscire uno speciale album dal vivo lì, donando tutti i diritti alla scuola. Avevamo ricevuto un’accoglienza fantastica, per cui secondo me avevamo fatto bene ad andarci. Nel giro di un paio di anni, la situazione politica cambiò e tutti andarono a suonare in Sud Africa.» Liquidati con una cospicua multa ed espulsi dall’organizzazione, i Queen riuscirono almeno a ottenere che la sanzione fosse devoluta in beneficenza, piuttosto piuttosto che incassata dall’ente. Quel fiasco fiasco li avrebbe sbalorditi sbalorditi per anni. «Siamo completamente contrari all’apartheid e a tutto ciò che rappresenta», dichiarò Brian. «Ma abbiamo gettato un ponte. Abbiamo incontrato musicisti di ogni colore, bianchi e neri. Ci hanno tutti accolto a braccia aperte. Le uniche critiche sono arrivate da fuori del Sud Africa.» Il tastierista ammette che i Queen avessero la reputazione di essere incredibilmente arroganti. «È vero. Erano arroganti. Ma era perché il più delle volte avevano ragione. Secondo loro erano stati trattati ingiustamente agli inizi della loro carriera, e questo aveva insegnato loro a fidarsi solo del proprio giudizio. L’unico lato negativo della loro arroganza era che si trasmetteva anche ai ranghi più bassi dell’organizzazione. I collaboratori erano arroganti a nome loro, anche se non ne avevano alcun diritto. A volte diventavano abbastanza insopportabili.» Freddie tornò a Monaco e a dicembre la band produsse il suo primo singolo natalizio: Thank God It’s Christmas. Christmas . Quella parodia di un genere trito e scontato era stata registrata a Londra e Freddie aveva aggiunto il cantato in Germania. Non entrò nemmeno tra i primi venti nel Regno Unito e non sarebbe comparso in nessun album dei Queen, ma li avrebbe
perseguitati ogni anno da allora in poi, finendo in ogni singola compilation natalizia. Il grande successo di quella stagione, però, fu Do They Know It’s Christmas? del Band Aid. Il loro appuntamento con la storia era oramai all’orizzonte.
20 Live
Diciamocelo: tutte tut te le rockstar vogliono vogliono stare sotto i riflettori e questo concerto ci farà vedere al mondo m ondo intero. Ammettiamolo. Okay, aiuteremo chi soffre, ma d’altro canto canto avremo un pubblico planetario, una trasmissione in mondovisione e in diretta. Si tratta anche di questo, e non dovremmo dimenticarcelo. Dubito che ci c i sia un singolo singolo musicista fra quelli che parteciperanno che non ci abbia pensato. FREDDIE MERCURY La musica non è sempre ciò che suoni. È anche ciò c iò che non suoni. Freddie Mercury era almeno tre persone diverse: sul palco, giù dal palco e in quella zona zona del crepuscolo crepuscolo che sta a metà strada. Incarnava la sua musica. La sua performance rifletteva ogni brano alla perfezione. LOUIS SOUYAVE, chitarrista, Daytona Lights
R OCK OC K in Rio, «il più grande festival rock che il mondo abbia mai visto»: un evento spettacolare in concomitanza con il capodanno del 1985, con la partecipazione di Rod Stewart, Yes, Iron Maiden, Def Leppard, Ozzy Osbourne, George Benson, James Taylor e alcuni degli artisti più rinomati in Brasile. Un progetto vasto e ambizioso, perfetto per le ambizioni dei Queen. Il fatto che fosse organizzato dal loro fedele tour manager Gerry Stickells, soprannominato «zio brontolone», e che la band sarebbe stata
l’ospite di punta dell’evento, sigillò l’accordo. Domenica 6 gennaio, i Queen partirono ancora una volta per il Sud America. L’entourage personale di Freddie comprendeva Mary Austin, Barbara Valentin, Peter Freestone, Paul Prenter e una guardia del corpo. Circa trecentomila fan si misero in viaggio in un caldo opprimente per assistere al più grande evento rock di tutti i tempi. Spike Edney aveva già fatto dei concerti di una certa dimensione, ma nulla come Rio. «Sapevo che il precedente tour dei Queen in Sud America era stato pionieristico, ma Rio prometteva di essere l’evento più grandioso nella storia del rock.» Ma la cosa che il tastierista si ricorda di più di quel periodo, era la pena che provò nei confronti di Freddie. «In Sud America era oramai diventato una star colossale. Era una divinità. In Argentina Love of My Life Life era rimasta al primo posto per un’eternità… era la loro Stairway to Heaven. Heaven. Di conseguenza, laggiù Freddie era come un prigioniero: non poteva andare da nessuna parte, nemmeno con una scorta armata. Era penoso. Una volta o due riuscì a svignarsela, ma non ne valeva la pena.» Secondo Edney, la popolarità di Freddie in Sud America era dovuta in parte al suo look. «Qualcuno mi spiegò che tagliandosi i capelli e facendosi crescere i baffi, aveva incarnato la quintessenza del maschio sudamericano; era diventato una sorta di Clark Gable latino. Forse è anche per questo che lo adoravano così tanto.» La costruzione del «rockodromo» Barra da Tijuca era durata mesi e il complesso comprendeva un gigantesco palcoscenico a forma di semicerchio con due enormi fontane ai lati, che durante l’evento i fan usarono per lavarsi, dato che una pioggia torrenziale trasformò il campo in un lago di fango. Furono erette enormi tribune per la stampa, complete di linee telefoniche internazionali e apparecchiature per trasmettere le fotografie, destinate alle migliaia di giornalisti e fotografi che documentarono l’evento. La sera, enormi riflettori fendevano il cielo, come in una première hollywoodiana. L’eliporto appositamente costruito si rivelò una necessità logistica piuttosto che un lusso, perché non c’era altro modo per raggiungere il palcoscenico: tutte le strade che portavano al rockodromo erano intasate. Freddie dovette accantonare la sua paura di volare.
La prima sera, i Queen dovevano esibirsi dopo gli Iron Maiden, ma erano due ore in ritardo. «Non ricordo più perché», rimugina Edney, «forse un normale ritardo generale.» Alla fine salirono sul palco alle due del mattino, quando oramai il pubblico era in sommossa. «Jim Beach mi fece arrivare vicino a lato-palco quando toccava ai Queen», ricorda Peter Hillmore, che seguì l’evento per il quotidiano inglese Observer. «Guardai fuori e vidi quel pubblico immenso. ‘Come ci si sente là fuori?’ domandai a Brian. ‘Va’ a vedere da te’, rispose. «Lo feci: decine di migliaia di facce che mi fissavano e che urlavano perché volevano i Queen. Capii il potere che aveva Freddie Mercury, ebbi un piccolo assaggio di quel che significava avere davanti trecentomila persone che non aspettano altro che tu apra bocca e canti. Ebbi paura, perché io non sapevo fare nulla. Poi i Queen salirono con calma sul palco e si accinsero a suonare. C’erano roadie che correvano a destra e sinistra, nessuno fece caso a me. Tornai di lato. «In quel preciso momento sentii che più di ogni altra cosa al mondo avrei voluto essere uno dei Queen. Quee n. Avrei voluto essere Freddie Fredd ie Mercury. Alzava la mano e il pubblico cantava con lui, la abbassava e tutti stavano zitti, solo perché l’aveva deciso lui. Un potere incredibile, come un reattore nucleare che spacca l’atomo.» Freddie era soprannaturale, pensò Hillmore. «Ai semafori la gente saltava fuori dalla macchina, sbavava sulla sua limousine dicendo: ‘Freddie, ti amo, sei Dio!’ Lui e i Queen avevano dietro di sé un’organizzazione enorme, che costava una fortuna: il suo unico scopo era permettere ai quattro di essere comodi ovunque andassero, prima ancora di fare anche solo un giorno di lavoro. Non dovevano nemmeno disfarsi le valigie da soli. Mai preoccuparsi di bagaglio in eccesso, o di dover fare la coda al check in o al duty free. Per loro solo salette VIP e voli in prima classe, con un assistente pronto a soddisfare qualsiasi capriccio. Per questo Freddie non poteva avere una vita privata. Una vita del genere minerebbe la stabilità di chiunque, anche della persona più normale del mondo.» La storia dei «fischi brasiliani» a Freddie, fu in realtà un’esagerazione
della stampa. Quando salì sul palco vestito da donna, come nel video di Break Free, Free, il cantante fu sorpreso dalla reazione del pubblico, che bersagliò il palco lanciando pietre, lattine e altri oggetti. Freddie pensò che fosse una protesta per il suo abbigliamento. Quando un pezzo di cartone lo colpì in pieno, Brian indietreggiò e si piazzò a fianco della batteria di Roger. Freddie, invece, restò dov’era, con aria di sfida e fece l’errore di perdere le staffe. Fraintendendo la reazione degli spettatori, prese a schernirli. Una serie di giornalisti riferirono che, siccome in Brasile il brano era diventato un inno contro la dittatura, il pubblico si era offeso nel vederlo presentato da un travestito, e si era infuriato. Dave Hogan, che fotografò l’evento per You, You, la rivista del Mail on Sunday , invece descrisse l’intera faccenda come «un equivoco madornale». «Di solito nei concerti di quelle dimensioni i fan si accalcano per arrivare sotto il palco, ma in quell’occasione gli organizzatori ne avevano eretto uno così alto che chi era immediatamente sotto non riusciva a vedere cosa accadeva sopra. Non si riusciva a vedere niente di quel che succedeva sul palco. Alcuni allora cercarono di salire sulle transenne, ma gli addetti alla sicurezza li respinsero indietro picchiandoli sulle mani. A quel punto Freddie uscì con parrucca e tette finte, proprio mentre i fan si arrampicavano sulle spalle di quelli davanti a loro per vedere qualcosa. Le guardie li attaccarono e loro reagirono con una sassaiola. Nessuno voleva tirare una pietra a Freddie, al contrario, lo adoravano. Ma fu scritto che i fan fischiarono Freddie e gli tirarono di tutto perché si era travestito. Chiamiamolo ‘giornalismo creativo’, da parte di reporter in cerca di un facile scoop. Va bene… Freddie, devo dire, fece la sua solita performance e fece furore. Non gli tirarono pietre, posso testimoniarlo personalmente: ero proprio lì di fronte a lui. Ma perché lasciare che la verità rovini un’ottima storia?» Installato in grande stile nella suite presidenziale del Copacabana Palace di Rio, Freddie teneva banco. «In quella suite erano passati tutti i presidenti americani», ricorda Wigg. «Freddie mi invitò a bere qualcosa. Quel giorno pioveva molto e c’era fango ovunque, ma il motto di Freddie era: ‘Lo spettacolo deve continuare’. Poi mi invitò a cena. C’era anche Mary Austin, seduta alla sua sinistra, come sempre. Alla destra c’era invece il suo fidanzato del momento. Poi andammo in discoteca (l’ Alaska, Alaska, all’epoca la discoteca gay più famosa di
Rio). Tirammo fino alle quattro del mattino. Dovevo scrivere il mio articolo per l’Express l’Express,, per cui decisi di andare in albergo a dormire un po’. Mi avvicinai a Freddie per congratularmi e ringraziarlo prima di andarmene. ‘Dove vai?’ mi chiese. ‘Torno in albergo a piedi’, gli dissi. ‘Assolutamente no!’ rispose. Schioccò le dita: ‘Steve! Accompagna David con la mia macchina e non lasciarlo fuori dell’albergo: accompagnalo dentro.’ Freddie era gentile, sensibile e premuroso. Tutta la sua famiglia era così, i genitori, la sorella, tutti. Era un vero signore inglese vecchio stampo, una cosa insolita per una rockstar.» Paul Prenter aveva l’incarico, assai discutibile, di scegliere gli uomini per i festini di Freddie. Pochi rifiutavano l’invito a «raggiungere Freddie Mercury nella sua suite personale per una festa privata». La maggior parte dei testimoni concorda nell’affermare che il compito di Prenter aveva assunto una dimensione assai squallida. Non solo il manager era responsabile per trovare nuovi «talenti» – di solito giovani prostituti conosciuti come «taxi boys» – ma anche per procurare alcolici e cocaina in grandi quantità. Uno di questi taxi boy era Patricio, un ebreo biondo e con gli occhi azzurri, che partecipò a quegli incontri privati in diverse occasioni. Trasferitosi da Buenos Aires a Rio per tentare la carriera drammatica, Patricio era caduto nel mondo della prostituzione a causa della povertà e della miseria. Nella sua vita avrebbe poi compiuto un ultimo viaggio significativo, in Israele, per morire di AIDS. Patricio ammise di avere avuto diversi rapporti sessuali con Freddie. «I prescelti raggiungevano Freddie nella sua lussuosissima suite, con vista sulla piscina», racconta. «Prima bevevamo qualcosa, poi tiravamo un po’ di coca; c’era un tavolino basso con le strisce già pronte. Quindi ci toglievamo i vestiti ed entravamo nella camera di Freddie, dove lui ci accoglieva indossando solo una vestaglia. vestaglia. Paul [Prenter] invece restava sempre sempre vestito. vestito. Freddie Fredd ie faceva sesso con ognuno di noi a turno, davanti agli altri. Quando era stanco, Prenter ci pagava e ci diceva di andarcene. Freddie era sempre passivo. Quando cominci a essere gay di solito sei attivo, ma più diventi popolare e tutti vogliono vogliono andare and are a letto con te, più più ti piace fare il passivo, passivo, visto che è il modo più semplice per divertirsi. Fare l’uomo è faticoso. La maggior parte dei gay alla fine preferisce fare la donna.» Freddie era diventato dipendente dal sesso occasionale. Secondo
Patricio, la maggior parte delle volte la star non si eccitava nemmeno. Più loro si scatenavano, più lui restava impassibile. «Sembrava che non si divertisse nemmeno, che lo facesse solo così, tanto per fare.» A Rio ci furono molti festini del genere, che si conclusero tutti allo stesso modo. La ricerca di stimoli sempre nuovi aveva portato Freddie a raggiungere eccessi che nemmeno lui riusciva più a gestire, come se ricercasse la trasgressione fine a se stessa. Questo provava una sola cosa: era stufo. Poteva avere tutto ciò che il denaro può comprare, ma il piacere lo eludeva sempre più. Il sesso senza amore non lo eccitava più. Difficile credere che non si disprezzasse per quei suoi vizi, che oramai lo dominavano. Ma non riusciva a smettere. Prima o poi sarebbe successo qualcosa. «Quando c’erano sia Paul sia Barbara in giro», confessa Peter, «diventava una gara a chi trasgrediva di più, fino all’esaurimento. Freddie aveva già perso interesse da tempo, ma era troppo cortese per chiedere ai due di smettere. Si era divertito tantissimo a fare quelle cose prima, e ovviamente ovviamente loro si aspettavano aspettavano che continuasse.» continuasse.» Il 12 gennaio ci fu una grande festa al Copacabana Beach Hotel . Fu un evento molto movimentato che venne trasmesso in televisione in tutto il Sud America. Persino Brian, di solito più moderato, finì a mollo in piscina. Il 19 gennaio la band salì di nuovo sul palco per chiudere il festival. I Queen avevano di nuovo fatto la storia, e non per l’ultima volta. Il 5 aprile la band andò in Nuova Zelanda per cominciare una tournée australe. Furono accolti da manifestanti antiapartheid, ancora infuriati per la loro esibizione a Sun City, che inscenarono proteste all’aeroporto e all’esterno dell’albergo. Freddie quasi non ci fece caso, preoccupato com’era per l’uscita nel Regno Unito del suo secondo singolo da solista, estratto dal suo primo album, che secondo molti commentatori non avrebbe mai visto la luce. Il brano si piazzò all’undicesimo posto, ma fu un fiasco totale in America. Tutti e quattro i Queen furono costretti a guardare in faccia la loro maggiore paura: il loro regno negli Stati Uniti era tramontato. Il tour neozelandese fu segnato da altri problemi, sotto forma di Tony Hadley. Poco prima, gli Spandau Ballet avevano completato un tour di due mesi in Europa e si accingevano a farne un altro in Oceania. A causa di alcuni problemi con il promoter, però le date neozelandesi erano state cancellate, causando dissapori con alcuni personaggi del posto per i mancati
introiti. Il manager di Tony Hadley gli aveva ordinato di tenere un profilo basso. Non era una cosa facile per lui, soprattutto quando in città c’era anche il suo vecchio compagno di sbronze. «In pochissime occasioni Freddie salì sul palco ubriaco», racconta Edney. «La prima data in Nuova Zelanda fu una di queste, dopo un pomeriggio assurdo passato con Tony Hadley.» Tony aveva pensato di fare un’improvvisata. «Prenotai una camera nel loro stesso albergo, andai a trovarli al sound check, li salutai e poi io e Freddie tornammo insieme in hotel. Ci fermammo al bar per bere qualcosa. Poi Freddie disse: ‘Prendiamoci una Stolichnaya’. Restammo lì a bere e a risolvere i problemi dell’universo, e a scambiarci aneddoti sul mondo della musica, e finimmo la bottiglia. Liscia. Allora disse: ‘Su, dai tesoro, in camera mia. Ho una bottiglia di porto d’annata’. «A quel punto eravamo già tutti e due ubriachi. E Freddie disse: ‘Devi salire sul palco con me stasera’. ‘Non voglio intromettermi’, gli risposi, anche se ero pronto a farlo. ‘No no no’, insistette, ‘faremo furore.’ Prese il telefono e chiamò Roger e John. ‘Tony viene sul palco con noi stasera, va bene, tesoro? Bene.’ A loro stava bene. ‘L’unico problema potrebbe essere Brian’, mi confidò. ‘Fa sempre un po’ il difficile per queste cose.’ Così lo chiamò e, diventando molto diplomatico, gli disse: ‘Brian, tesoro. Tony viene sul palco con noi stasera e facciamo Jailhouse Jailhouse Rock, Rock, ti va bene?’ Poi a me: ‘Tony, amore, Brian ci sta, gli va benissimo’. A quel punto mi venne in mente che non sapevo le parole della canzone. ‘Non la so, amico mio’, gli dissi. ‘Non ti preoccupare... e che cazzo, nemmeno io la so!’» I due cantanti ubriachi cercarono di ricordare le parole del brano. Per metà tirarono a indovinare, e per metà le inventarono di sana pianta. Poi Tony andò a riposare un po’. «Quella sera andai al concerto e tutti mi dicevano: ‘Ma che diavolo hai fatto a Freddie! È ubriaco fradicio’. ‘Be’, risposi, ‘abbiamo bevuto come due spugne.’ Mi guardarono tutti malissimo. ‘Ma Freddie non beve mai prima dei concerti!’ disse qualcuno.» Mai si era faticato così tanto per preparare Freddie a salire sul palco. «All’epoca erano di moda gli stivaletti da boxe della Adidas con i lacci lunghissimi, perché erano comodi e perfetti per correre e saltare sul palco», racconta Edney. «Quella sera, Freddie era spaparanzato sul sofà nel backstage. Tony Williams, uno degli assistenti del guardaroba, e Joe Fanelli
lo stavano vestendo, perché lui era troppo ubriaco per farcela da solo. Gli misero i pantaloni e poi gli stivaletti, ma quando si alzò e fece per camminare, non ci riuscì. Sentimmo l’annuncio: «Comincia il nastro!» A quel punto dovresti trovarti di fianco al palco. Freddie disse: «Brutte teste di cazzo, mi avete messo la calzamaglia al contrario! Un attimo dopo era steso a terra come uno scarafaggio con le gambe per aria, con Tony e Joe agitatissimi che cercavano di togliergli gli stivaletti. Alla fine riuscirono a rivestirlo nel modo giusto e ci precipitammo tutti di sotto. Il nastro di introduzione era finito e il palco era già pieno di fumo. Arrivammo in tempo per un soffio. «Freddie, poveraccio, era così fuori che pensavo crollasse», aggiunge Edney. «Per la prima mezz’ora improvvisò, inventandosi le parole, cantando qualsiasi stronzata gli venisse in mente. Roger teneva gli occhi bassi, non riusciva a guardare nessuno. Brian era furioso e aveva scritto in fronte: ‘Che cazzo succede?’ A metà concerto circa, Freddie si riprese un po’, dopodiché tutto filò liscio, alla perfezione – incredibile – almeno finché arrivò Tony Hadley.» Con le orecchie che ancora gli bruciavano per la sfuriata del suo manager (altro che tenere un profilo basso…), Tony non vedeva l’ora di risollevarsi il morale cantando davanti a un pubblico. «Ero a lato del palco, che cercavo ancora di ricordarmi le parole di ailhouse Rock», Rock», racconta ridendo. «Freddie venne verso di me e si spalmò sul pianoforte di Spike, sibilando: «Hadley, bastardo, sono ubriaco marcio», di fronte a quarantacinquemila persone. E poi eccomi lì a biascicare fra me e me come un idiota, con qualche parola scarabocchiata sulla mano: ‘wardens... county jail... party... jailhouse... rock’. rock’. Non riuscivo a ficcarmi le parole in testa. A un certo punto Freddie disse: ‘Signori e signore, ecco a voi mister Tony Hadley!’ La folla impazzì, io corsi fuori e attaccai il pezzo «a bop-bop alum bop» di Tutti Frutti. Frutti. Avevo sbagliato canzone! Con Freddie che faceva: ‘Yeah! All right!’ e Brian che mi guardava come a dire: Che cazzo fai? Tutti gli altri si pisciavano addosso dal ridere. Io e Freddie ce ne fregammo. Ci andammo giù di brutto, simulando un coito con la chitarra di Brian mentre lui suonava; facemmo di tutto...» Le date di Melbourne furono tranquille al confronto. Quattro sere al Sydney Entertainment Centre verso la fine di aprile (seguite poi da sei concerti in Giappone) furono rallegrate dalla presenza di Elton John in città.
Freddie, Elton e Roger non persero tempo e uscirono a far baldoria per festeggiare in anticipo l’album solista di Freddie. «Solo Freddie Mercury mi superava quando si trattava di far festa, e questo la dice lunga», commenta Elton John. «Siamo stati svegli notti intere, ancora su di giri alle undici del mattino. Magari i Queen dovevano prendere un aereo e Freddie diceva: ‘O che cazzo, ci facciamo un’altra striscia?’ Era insaziabile.» Il concerto finale della band a Sydney coincise con l’uscita di «Mr. Bad Guy». Anche in questo caso Freddie aveva riversato i suoi sentimenti più intimi nei brani dell’album, che rappresentava una netta frattura dal suono originale dei Queen. I brani più rivelatori erano Living On My Own («Vivere da solo»), There Must Be More To Life Than This («La vita non può ridursi a questo») e la malinconica ballata Love Me Like There’s No Tomorrow («Amami Tomorrow («Amami come se non ci fosse un domani»), scritta per Barbara. L’album arrivò al sesto posto nel Regno Unito, ma fu comunque un disastro in America. Il singolo I Was Born to Love You, You , non andò tanto male, ma Made in Heaven Heaven non mosse nemmeno i primi passi, nonostante un video pomposo e accattivante diretto da David Mallet. Presentato come un balletto su un palcoscenico teatrale, il videoclip mostrava Freddie, con indosso un abito bondage di pelle rossa e nera e una sottile mantellina rossa, in cima a un’enorme roccia. I ballerini in abiti succinti si arrampicavano sul masso e sui propri compagni per raggiungerlo, finché questo si spaccava rivelando il pianeta Terra. Terminata la tournée , tournée , Brian restò in Australia con la famiglia per una vacanza, John J ohn e Roger Roger ripararono ripararono nella ne lla nuova n uova casa di quest’ulti qu est’ultimo mo a Ibiza, e Freddie andò dritto a Monaco, per ulteriori feste e trasgressioni con i suoi amanti. Grazie a Dio arrivò il Live Aid. «Abbiamo fatto schifo», afferma Francis Rossi, riferendosi alla performance degli Status Quo che aprì il concerto londinese del 13 luglio. «Pessimi. Non avevamo provato abbastanza. Anzi, ti dico la verità, non avevamo provato per niente. Se avessimo capito meglio di cosa si trattava, che avremmo avuto un pubblico globale, avremmo provato. I Queen avevano appena finito un tour ed erano perfetti. E in più avevano provato. avevano provato.
«Forse Bowie andò bene, ma a parte lui non mi viene in mente nessuno. Bono che salta giù dal palco... e chi cazzo se ne frega? È stato il giorno dei Queen, non c’è dubbio. Vedi, in quel momento nessuno aveva capito la portata di quell’evento. Bob era un rozzo parvenu irlandese che diceva a tutti che cosa bisognava fare. E ci riuscì. È difficile tenere il tuo ego fuori da una cosa del genere, perché siamo delle rockstar, tesoro. Ma quel giorno molti ci riuscirono. «A Wembley, Freddie mi diede un paio di raddrizzate», prosegue Rossi. «Ricordo che ci avevano messi tutti in un’area per gli artisti e che stavamo facendo gli stupidi. Poi di colpo successe una cosa. Vedi, non ho alcun problema con i gay; come potrei: ho due cugini gay e un figlio gay. Ma sono sempre stato uno di quegli etero che credeva che i gay non fossero veri maschi come noi. Quanto mi sbagliavo... Io e Freddie iniziammo a fare la lotta per scherzo, quando di colpo mi ritrovai bloccato in una presa di sottomissione, un mezzo nelson, con Freddie dietro di me. Cazzo, non potevo muovermi. Era fortissimo. In quel momento il mio cervello pensò di tutto: imparai un sacco di cose in un attimo. Vedo ancora l’espressione sulla mia faccia. Restai paralizzato. Lo fissai. Era la persona più forte che avessi mai incontrato in vita mia. ‘Non temere, tesoro’, disse con una risatina maliziosa. maliziosa. ‘Se volessi prenderti, ti prenderei.’ «So che molti pensano che gli omosessuali, anzi i froci – preferisco usare questi termini, niente eufemismi – non sono capaci di battersi. Tutti quegli idioti che vanno in televisione a spiegare perché non dovremmo ammettere i gay nell’esercito: pensano che non ci siano mai stati? La nostra industria è piena di gay. Trovo che le checche siano grandi intrattenitori e che spesso siano più affabili degli altri. Rick [Parfitt] faceva la checca da matti, ai vecchi tempi. Molti lo facevano. Ho sempre pensato che i gay siano più a posto di noi. Sono costretti a esserlo, per reggere a tutta l’ostilità che incontrano nella vita. In questo nessuno era meglio di Freddie. Fredd ie. Sapeva il fatto suo, almeno allora. Non c’è dubbio che il Live Aid fu la sua giornata, e basta. Cazzo se lo adoravo per questo.» «Bisogna dar credito a tutti loro per quella performance fenomenale», conferma Gambaccini. «Quando iniziarono a suonare ero nel backstage che intervistavo gli artisti per la trasmissione. Sentii il fremito della gente. Tutti smisero di parlare e si girarono verso il palco: i Queen stavano rubando la scena. Freddie stava facendo il suo numero spudoratamente sessuale con il
cameraman. Si erano preparati, erano pronti, erano dei veri professionisti. Pensammo: Oddio, questo è il massimo dello spettacolo rock. I Queen furono i migliori e se ripensi ai nomi che c’erano quel giorno, è davvero incredibile. Prima i Queen erano finiti, il loro momento di massimo successo era alle loro spalle. E invece eccoli lì, a reinventare se stessi e a schizzare di nuovo in vetta, sotto i nostri occhi. Mi meraviglio ancora quando ci ripenso. Freddie Mercury ci regalò la migliore performance di tutti i tempi.» Incoraggiati dall’esperienza, i Queen si fecero un esame di coscienza. Può darsi che prima del Live Aid si stessero preparando per la naturale conclusione della loro carriera. D’altronde non potevano continuare all’infinito: i gruppi che lo fanno rischiano di diventare una caricatura di se stessi. Si diventa leggenda solo smettendo in tempo. Tutti e quattro avevano seguito progetti solisti, con risultati diversi, ma solo Freddie aveva raccolto qualcosa in tal senso. Costretti quindi ad accettare il fatto che avevano più successo insieme che da soli, in particolare in quel momento della loro carriera, decisero di posticipare l’oblio e ricominciare. Il Live Aid gli regalò una seconda opportunità. Nessuna band degna di questo nome se la sarebbe lasciata sfuggire. I quattro non vedevano l’ora di rimettersi in carreggiata. 1986, Europa: stava per partire la tournée più ambiziosa di tutta la loro carriera. Prima però, c’era il trentanovesimo compleanno di Freddie da festeggiare, con un ballo da cinquantamila sterline all’Henderson’s all’ Henderson’s,, una delle discoteche di Monaco preferite dal cantante. Durante la festa si girò anche il video per Living On My Own, Own, a cui presero parte trecento amici, incluse Barbara Valentin e Ingrid Mack, moglie di Reinhold. Molti invitaticomparse arrivarono da Londra e la maggior parte si travestì, tranne Freddie, che indossò una calzamaglia da Arlecchino, una giacca militare con le spalline e un paio di guanti bianchi, e Mary Austin, che si vestì da scolaretta. Brian era una strega, Peter Freestone uno zingaro. Ne risultò un video psichede psichedelic lico, o, edonistico, edonistico, allucinato, erotico erotico e pulsante, che ovviamente non fu mai mostrato negli Stati Uniti. In Gran Bretagna il singolo raggranellò una misera cinquantesima posizione. Barbara organizzò la cena della festa che era in tema «bianco e nero». «Caviale e purè, e una torta a forma di pianoforte, e magnum di champagne
Cristal, che la gente si portò via», sospira. «Tutti gli rubavano tutto. Sparirono persino due contenitori pieni di regali di compleanno.» Poi i Queen dovettero onorare un impegno preso con Russell Mulcahy, socio di David Mallet e Scott Millaney della MGMM, e composero le musiche del suo nuovo film, Highlander , con Christopher Lambert. Ancora una volta si inimicarono la stampa con l’uscita del singolo One Vision. Vision. I critici li accusarono di avere voluto «monetizzare il successo del Live Aid» con quel brano «spudoratamente in tema». I Queen si indignarono. In realtà la canzone era ispirata al famoso discorso di Martin Luther King del 1963 e non al Live Aid, spiegò Roger, che l’aveva composta. Il pezzo si distinse anche per la voce al contrario dell’inizio; se lo si suona per il verso giusto si sente: «God works in mysterious ways... mysterious ways...» («Le vie del de l Signore Signore sono misterios misteriose… e… misteriose…») misteriose…») Con un gesto di sfida, i Queen accettarono di girare un minidocumentario su se stessi come video promozionale per il disco. Fu la prima volta che lavorarono con Rudi Dolezal e Hannes Rossacher, i cosiddetti «Torpedo Twins», ma non certo l’ultima. Nel 1987 i Twins avrebbero completato un’antologia-video sulla carriera dei Queen, intitolata Magic Years. Years. Il 5 novembre 1985 Freddie prese parte al Fashion Aid for Ethiopia alla Royal Albert Hall, cui parteciparono diciotto stilisti di fama internazionale, inclusi Yves St Laurent, Giorgio Armani, Calvin Klein e Zandra Rhodes. Vestì i panni dello sposo a fianco dell’attrice Jane Seymour, visibilmente emozionata, indossando gli abiti disegnati da David ed Elizabeth Emmanuel, che avevano creato l’abito nuziale di Lady Diana per il matrimonio con il principe Carlo. Poi Freddie si mise a disposizione dell’amico Dave Clark che stava componendo un musical per il Dominion Theatre di Londra. Intitolato Intitolato Time, Time, si trattava di un lavoro molto creativo che vedeva la partecipazione di Cliff Richard e di Sir Laurence Olivier (quest’ultimo sotto forma di ologramma). Freddie collaborò a un paio di brani per l’album, che vide la partecipazione anche di Stevie Wonder, Dionne Warwick e Julian Lennon, e fece una comparsata eccezionale a teatro. La EMI, nel frattempo, massimizzava i profitti producendo un cofanetto di lusso degli album dei Queen (con alcune palesi omissioni). Freddie però non era ancora riuscito a ottenere il successo solista che
desiderava. Love desiderava. Love Me Like There’s No Tomorrow, Tomorrow , il quinto singolo estratto da «Mr. Bad Guy», non era nemmeno entrata in classifica. I Queen decisero di usare la colonna sonora di Highlander per creare un nuovo album. Dopo un’apparizione al festival rock di Montreux, iniziarono le prove per un tour europeo, che cominciò a Stoccolma e culminò con due grandi concerti a Wembley e a Knebworth Park. La tournée incassò oltre undici milioni di sterline e nel Regno Unito registrò il record di pubblico, con oltre quattrocentomila fan. Chissà, forse loro avevano intuito che quella era l’ultima occasione occasione per sperimentare sperimentare la magia di Freddie Fredd ie dal d al vivo.
21 Budapest
Voglio andare dove non sono mai stato prima. Per me sono le persone persone che contano. La La musica dovrebbe viaggiare viaggiare in tutto il mondo. Voglio andare in Russia e in Cina e in luoghi che non ho mai visto, vist o, prima che sia troppo troppo tardi, prima che finisca su una sedia a rotelle e non possa più far nulla. Continuerò a mettermi la calzamaglia, calzamaglia, però! Già mi immagino che mi spingono spingono sul palco sulla sull a sedia a rotelle fino al pianoforte, pianoforte, dove attacco Bohemian Rhapsody . FREDDIE MERCURY Fu surreale partecipare a una festa rock nell’ambasciata inglese in Ungheria, sapendo che quel luogo era abituato abituato ad accogliere una «regina» regina» di tutt’altro tutt ’altro tipo. PETER H HILLMORE
«A KIND IN D of Magic», quattordicesimo album dei Queen e colonna sonora di Highlander , uscì alla fine di maggio del 1986 per segnare l’inizio della tournée europea. Come ci si aspettava, arrivò fino alla prima posizione. All’alba del 4 giugno, tredici enormi camion pieni di attrezzature uscirono da Londra per cominciare un’odissea che avrebbe toccato undici Paesi. Un milione di spettatori, ventisei date in venti città, tutte scelte dalla band per ragioni personali: Stoccolma, Parigi, Monaco, Barcellona e Budapest, fra le altre. Denis O’Regan, oramai richiestissimo, fu ingaggiato come fotografo
ufficiale del tour. Era nervoso, anche se non per ragioni strettamente lavorative: «Avevo sentito dire che cosa combinavano quand’erano in tournée. Tony Brainsby mi raccontò che una volta aveva trovato Freddie in un cassonetto dell’i de ll’immondiz mmondizia ia nel retro dell’Embassy dell’Embassy . «Roger, John e Brian erano tre ‘giovanotti’ abbastanza alla mano. Freddie era più enigmatico. A volte non riusciva a stare dietro ai suoi stessi ragionamenti: la sua mente correva troppo in fretta per la sua bocca. Diceva cose come: ‘Quel che voglio fare è una cosa, mm… o, fanculo!’ Faceva discorsi pieni di ‘Fanculo! Fanculo!’ perché perdeva il filo, dato che il suo cervello era già andato troppo avanti». Pur essendo già stato in tournée con altre band, O’Regan restò sorpreso dalle feste dei Queen. Gli parve che i quattro quasi volessero parodiare lo stereotipo della rock band. «Feste in bordelli, terme romane, bagni turchi. Spogliarelliste lesbiche e donne nude con il corpo dipinto perché sembrassero in uniforme. Per non dire di quel che succedeva nei bagni...» Non sempre era divertente. Anzi molte volte le maestranze sembravano godersi la festa più della band. O’Regan capì perché Freddie oramai detestasse le tournée. Ma gli obblighi contrattuali dettavano legge: prima fai l’album, poi vai in tour a promuoverlo. All’epoca era una procedura scolpita nella roccia. «Freddie non era felice durante i tour», ammette O’Regan. «Una volta mi disse che amava esibirsi, ma che odiava girare. Era così vulnerabile… L’opposto di quel che ti saresti aspettato. A volte era dolce e adorabile, come un bambino. Si sedeva a capotavola battendo le mani per la contentezza davanti a una bella cena o altro. Voleva che tutto fosse preciso. Era così carino. Spesso era tranquillo, riservato e introverso. Ma poteva passare da un estremo all’altro in un lampo: considerando com’era imponente e forte sul palco, pareva proprio minuto ed effeminato lontano dai riflettori.» Non era difficile fotografarlo, ma O’Regan si dichiarò sorpreso dalla sua timidezza. «Non si metteva mai in posa. Faceva il buffone o mi ignorava e si comportava ‘normalmente’. Magari appariva alla porta con una corona in testa, o faceva qualche mossa, sapendo che ero lì, ma non mi invitava esplicitamente a ritrarlo. Sapeva sempre quel che faceva, era chiaro.» Un’altra cosa che O’Regan non si aspettava erano le sfuriate del cantante.
«Spesso si arrabbiava e diventava molto sprezzante. Ripeteva spesso: ‘Digli che se ne vadano tutti affanculo!’ Ma era anche pronto a chiedere scusa. La sua magia era tutta nella performance. Il suo era un talento innato. Inoltre, siccome non era ‘etero’, quando saliva sul palco non doveva provare chissà che, come il resto della band. Saliva e si prendeva gioco del pubblico, laddove altri non avrebbero mai osato correre un rischio del genere. Evidentemente era stato un vero festaiolo ai suoi tempi, ma oramai aveva quasi smesso: era il 1986.» Spike Edney, signore delle tastiere anche per quel tour, concorda: «Le feste si erano tranquillizzate moltissimo. Non si alloggiava più in due alberghi separati», osserva, riferendosi all’abitudine di spartirsi talvolta il territorio in tournée: omosessuali da una parte ed eterosessuali dall’altra. Quando la band era arrivata a Monaco la prima volta, per esempio, si era installata all’Hilton all’Hilton dividendosi in un «PPP» (Presidential Poofter Parlour, suite presidenziale pederasta) e un «HH» (Hetero Hangout, ritrovo etero). «Durante il Magic Tour stavamo oramai tutti insieme, in un solo posto. Freddie era molto più tranquillo. Non usciva più tutta la notte come una volta. E poi faceva attenzione alla voce. Spesso Spesso finivamo finivamo nella sua suite a bere champagne e a giocare a Scarabeo o a Trivial Pursuit. Ricordo diverse notti in cui restammo svegli fino alle nove del mattino, solo io e Freddie, per finire una partita. Giocavamo anche a Scarabeo invertito, dove devi togliere le lettere lasciando sulla tavola parole di senso compiuto. Prima, i tour dei Queen erano tutto sesso, droga e rock’n’roll . A metà anni Ottanta, erano champagne e Scarabeo!» Scarabeo!» Nonostante quei passatempi da pacati signori di mezza età, il tour fu segnato da un’ultima, grande festa, come a voler chiudere in bellezza. L’invito più ricercato di quel luglio era per l’afterparty l’ afterparty dei Queen dopo il concerto di Wembley, al Roof Gardens Club. Club . Il giardino pensile più antico e più bello di Londra esiste tutt’oggi, una trentina di metri sopra Kensington High Street, in cima all’ex grande magazzino Derry & Toms. Toms. Durante la sua breve permanenza in quell’edificio, l’emporio di Biba Biba aveva attirato un milione di clienti la settimana grazie ai suoi piani a tema e al suo Rainbow Restaurant , dove si poteva brindare gomito a gomito con rockstar e celebrità. Per Freddie era un luogo speciale per una ragione molto personale, dato che lì aveva messo gli occhi su Mary Austin per la prima volta.
Oh, che serata! Eccessi a go-go. Nani, drag queen; con il sedere di fuori, con i seni di fuori e, a proposito di topless, c’era anche la modella superdotata Samantha Fox, che in quegli anni era famosa tanto quanto Katie Price (Jordan). Improvvisò con Freddie All Freddie All Right Right Now, Now, il successo dei Free del 1970. Non male. «Assolutamente esagerato», così definisce l’evento Hogan. «La festa di chiusura di tutte le feste. Se entravi puro uscivi stralunato. Gente nuda, con il corpo dipinto; un acquario enorme pieno di persone nude pitturate come pietre e rettili, che si ammucchiavano l’una sull’altra. Appena mettevi il naso fuori dall’ascensore, non sapevi più da che parte girarti: capezzoli e ombelichi ovunque. I Queen sì che sapevano fare una festa rock’n’roll. «Freddie adorava Samantha Fox. Aveva un paio di bellissimi, ehm, occhi. Qualsiasi cosa facesse, finiva sui giornali, inoltre aveva appena cominciato a muoversi nel mondo del pop. Freddie era incantato dalle sue tette. Voleva prenderla e scuoterla per vedere se riusciva a fargliele saltar fuori dal vestito. Era eccitatissimo: ‘Oh guarda: carne fresca! Che giocattoloni!’ Sam stava al gioco. A un certo punto riuscì a prenderla e la sbatté come una bambola di pezza. Foto stupende, che il giorno successivo finirono su tutti i giornali, il che non arrecò alcun danno a nessuno dei due, anzi.» «Non ci sarà mai più un’altra band come i Queen», commenta Trip, il tecnico del suono americano che alzò il volume della band durante il Live Aid. «Erano sempre pronti ai peggiori eccessi. Le loro feste erano le migliori, le loro donne le più procaci; tutto ai massimi livelli, quindi spesso era difficile stargli dietro.» Trip disse di avere sempre trovato Freddie un po’ «strano». «Era adorabile, ma non era come noi… era una star. Cos’altro avrebbe potuto essere? Quel figlio di buonadonna sapeva il fatto suo.» Il 9 agosto, i Queen si esibirono all’aperto davanti a centoventimila fan nel prato di Knebworth Park, a Stevenage: il loro record di pubblico nel Regno Unito, che ovviamente richiese una celebrazione. Senza Freddie, però, che si ritirò con discrezione dopo il concerto, andandosene sottobraccio con Jim Hutton e Peter Freestone. Come spiegò Peter, a Freddie non erano mai piaciute «quelle» feste: «Odiava particolarmente le feste delle case discografiche. Senza voler offendere nessuno, ma Freddie non aveva alcuna voglia di chiacchierare con i dipendenti».
Forse il cantante aveva intuito che Knebworth sarebbe stato il suo ultimo sipario. Sull’elicottero che lo riportava all’eliporto di Battersea quella sera, Freddie fu informato di un grave incidente avvenuto durante lo spettacolo: un fan era stato accoltellato, i soccorritori non erano riusciti a farsi largo tra la folla e l’uomo era morto dissanguato. «Freddie era sconvolto», racconta Jim. «Anche la mattina dopo era ancora giù, quando arrivarono alcuni amici per pranzo. I giornali parlavano bene del concerto e questo parve rallegrarlo, ma la morte di quel ragazzo lo tormentò per un pezzo: lui voleva che la sua musica portasse sempre e solo felicità ai fan.» Se i bei tempi sono finiti, almeno i ricordi sono eterni. Fra tutti i concerti di quell’ultimo tour dei Queen con Freddie, uno in particolare è rimasto inciso nella mente di tutti quelli che ebbero la fortuna di vederlo. L’apparizione della band al Népstadion («stadio del popolo») di Budapest, domenica 27 luglio 1986, fu molto di più che un concerto. Elton John, i Jethro Tull e i Dire Straits avevano già suonato in Ungheria prima di allora, ma quello sarebbe stato il primo concerto in uno stadio da parte di un gruppo rock occidentale al di là della Cortina di ferro, che all’epoca era ancora saldamente al suo posto. Attirò ottantamila fan, sia dall’Ungheria sia dalle nazioni confinanti. I biglietti costavano l’equivalente di circa tre euro l’uno, che per molti corrispondevano a un mese di stipendio. Nonostante ciò, i promoter furono sommersi da una marea di richieste: più di tre volte il totale dei biglietti disponibili. Con l’avvicinarsi del grande giorno la stampa ungherese impazzì sempre più. I giornali allusero anche alla possibilità di «un allentamento delle restrizioni sul comportamento del pubblico», dal che deducemmo che forse le autorità avrebbero dato agli spettatori il permesso di applaudire. Di certo non sarebbe stata una folla ubriaca, drogata, turbolenta o aggressiva, dato che sarebbe stata sorvegliata da poliziotti armati di mitra. L’unica bevanda distribuita era il succo d’arancia. Persino fumare era proibito. Ci si aspettava un evento regolato e composto. Grazie a Dio avevamo un pass per il backstage. I principali addetti stampa dei Queen – Roxy Meade e Phil Symes – ci
bombardarono di informazioni e cifre. Diciassette telecamere avrebbero ripreso l’evento, una delle quali manovrata dal settantunenne Gyorgy Illes, veterano della d ella professione professione e stimato stimato professore professore dell’ac de ll’accademia cademia del d el cinema di Budapest. Illes era famoso perché il suo allievo Vilmos Zsigmond aveva vinto un Oscar per la miglior miglioree fotografia fotografia con Incontri ravvicinati del terzo tipo. tipo. I Queen e il loro seguito percorsero il Danubio da Vienna a Budapest sull’aliscafo ufficiale del futuro presidente sovietico Mikhail Gorbaciov. Altre «magiche» note informative ci spiegarono che il palco misurava oltre cinquecento metri quadri e che erano stati usati più di tredici chilometri di cavi per collegare strumenti, amplificatori, luci e altre attrezzature a cinque generatori da cinquemila ampere; e che l’impianto sonoro, dotato di torri di ritardo rivoluzionarie, sarebbe stato alimentato da più di mezzo milione di watt. Michael Jackson o Elton John non ti davano comunicati stampa del genere: l’apparizione dei Queen veniva salutata come un grande passo in avanti nelle relazioni Est-Ovest. L’incaricato d’affari David Colvin, facente funzione di ambasciatore britannico, fu all’altezza della situazione organizzando un esclusivo ricevimento a inviti in ambasciata prima del concerto, concerto, un’ un ’embassy assai assai diversa da quella a cui era abituato Freddie… La serata richiamò un insieme eterogeneo di inglesi residenti all’estero, musicisti del blocco comunista, rockstar occidentali e corrispondenti di Sua maestà, oltre alla solita infarinatura di scrocconi vari. Freddie apparve divertito dall’evento, ma confessò che avrebbe «preferito andare a fare shopping», piuttosto che stare ad ascoltare persone che «si annoiavano a vicenda vicenda»» raccontandosi raccontandosi le viciss vicissitudini itudini storic storiche he dell’Europa dell’Est. Da sempre, manteneva una dignitosa posizione apolitica. Sebbene le sue preferenze personali a volte vertessero verso l’imperialismo, preferiva evitare di farsi attirare in discussioni sociali o politiche in pubblico. Una celebrità internazionale, diceva, faceva meglio a «lasciare la politica ai signorotti che sono pagati per fare quel lavoro, caro.» «Quello era Freddie al cento percento», osserva Peter. «Secondo lui persino gli U2 erano un gruppo troppo politico. Sapeva di essere arrivato dov’era perché era un intrattenitore. Non era lì per guidare le persone e influenzare le loro idee.» Pochi giorni dopo, Freddie organizzò una bella festa per i giornalisti inglesi nella sua suite presidenziale al Duna Intercontinental . «Presidenziale» era un eufemismo, anche se Freddie, con indifferenza,
dichiarò che «tutte le suite sono uguali». «Be’, che cazzo, questa è un po’ più uguale della mia», ribatté Roger quando ci fece una capatina. Cortese anfitrione, all’arrivo Freddie ci strinse la mano e scambiò qualche chiacchiera con noi. Piccolo di statura, ma più muscoloso e in forma di molte persone con la metà dei suoi anni (mancavano due mesi al suo quarantesimo compleanno) era pulito e profumato, e vestiva una camicia floreale su un paio di jeans chiari e attillati. La capigliatura curata alla perfezione perfezione si faceva solo un po’ rada rada sulla sommità sommità del d el capo. «Grazie per essere venuti. Vi siete divertiti?» chiese con calma e con un mezzo sorriso di cortesia, mentre ci offriva una coppa di champagne. Annuì e sghignazzò mentre noi gli raccontammo le nostre avventure ungheresi: le terme dei bagni Gellért e la manipolazione di robuste massaggiatrici. In seguito però concordammo che Freddie doveva avere provato tutto ciò, e molte volte. Volle sapere se avevamo «comprato» qualcosa. Descrivemmo di getto i nostri strani acquisti. «Molto bene, molto bene», disse sorridendo e invitandoci in un’altra reception verso un sontuoso buffet ricolmo di aragoste, gamberetti, caviale, frutta candita ed esotici gelati. Seduto a un luccicante pianoforte a coda, un pianista in smoking inanellava pezzi da piano bar. Le finestre scorrevoli della suite erano aperte e davano accesso a un balcone grande tanto quanto la camera. Nell’orizzonte turchino della notte si intuivano in lontananza i profili dei famosi monumenti cittadini: il Bastione dei pescatori, la cittadella sulla Gellért-hegy, la guglia illuminata della chiesa di Mattia. Mary Austin era lì che chiacchierava a bassa voce con Jim Beach, offrendo consigli: il vantaggio di mangiare alimenti ricchi di fibre. Jim Hutton teneva un profilo più che basso in un angolo, così come Brian, Roger, John e qualche altro membro della squadra. Domenica, con i nostri pass bene in vista, attraversammo la periferia cementificata della città fino al Népstadion. Danzatori popolari ungheresi in costume rosso, bianco e nero rotearono fazzoletti a tempo di musica per prepararci al numero principale, che arrivò in pompa magna con fumo e luci accecanti: l’esperienza totalizzante e assordante di un concerto dei Queen. Che cosa ricordo di più? Brian, impegnato come un principiante in un’audizione, che agita frenetico la sua monetina sulle corde della chitarra autocostruita tanti anni prima; la sua versione di un brano popolare ungherese, Tavaszi Szél Vizet Áraszt , cantata da Freddie; il boato della folla
estasiata perché il cantante si era dato la pena di imparare la loro ballata, senza quasi notare che controllava le parole ogni secondo, scarabocchiate così come si pronunciavano sul palmo della mano; il pubblico che intona Radio Ga Ga Ga alla perfezione, battendo le mani a tempo; il grande semifinale: Freddie a torso nudo che gronda sudore dentro un’enorme bandiera inglese e poi fa una giravolta rivelando sul retro il vessillo ungherese. E non è tutto: Freddie che sale sul palco alla fine indossando un lungo mantello regale bordato di ermellino, disegnato dalla stilista Diana Moseley, e una grande corona in testa, accompagnato dall’inno nazionale inglese nell’inimitabile versione di Brian, fra applausi scroscianti. Quella conclusione, non certo inattesa (i Queen la usavano fin dal 1974, quando l’avevano composta per «A Night at the Opera»), suonò più maestosa che mai in quella terra straniera. «È stato il concerto più impegnativo ed emozionante di tutti», disse Brian nel backstage backstage subito dopo. E noi giornalisti? Avevamo già visto tutto. Eravamo troppo blasé , Dio solo sa. Non avevamo nemmeno pagato per essere lì. Sapevamo che al mattino, finiti i postumi dello champagne, avremmo ricordato di avere assistito all’ennesimo, fantastico concerto dei Queen. Davamo per scontato la loro magnificenza, da anni oramai. Perché smettere? La meraviglia, l’atmosfera, la magia «natalizia» erano frutto del fantastico pubblico ungherese. Per quei fan che avevano sacrificato un intero mese di stipendio per essere lì, quello era stato lo spettacolo più fenomenale delle loro vite. Il più grande frontman del rock aveva di nuovo trionfato. Era però una vittori vittoriaa di d i Pirro. Pirro. L’ironia L’ironia del de l titolo del de l tour cominciava cominciava a diventare evidente. evidente . Per Freddie la tragedia era oramai annunciata. La magia di quella sera entusiasmò tutti tranne lui.
22 Garden Lodge
Ogni volta che guardavo i film di Hollywood con quelle case di lusso splendidamente arredate, arredate, ne volevo v olevo una tutta mia, e ora ce l’ho. Ma per me era molto più importante comprarla che andarci davvero a vivere. Sono fatto così: una volta che c he ottengo qualcosa non mi interessa più più così tanto. Amo quella casa, ma il vero godimento è averla comprata. Qualche volt a, quando sono da solo la l a notte, immagino che a cinquant’anni mi ritirerò ritirerò a Garden Lodge. Sarà il mio rifugio e comincerò a trasformarla in una casa vissuta. Quando sarò vecchio e avrò i capelli bianchi e tutto tutt o questo sarà finito e non potrò più mettermi gli stessi costumi e saltellare saltel lare sul palco – non è ancora ora ora – avrò qualcosa a cui dedicarmi: ded icarmi: questa casa meravigliosa. meravigliosa. FREDDIE MERCURY
DA un successo a un premio, da un album a un video, la macchina dei Queen era in perpetuo movimento. Il prodigio non finiva mai e garantiva un reddito favoloso a vita. Freddie non aveva bisogno di guadagnare di più. Poteva comprarsi qualsiasi cosa desiderasse, andare ovunque volesse. Invece si ritirò nel suo mondo privato e nella relativa modestia di un focolare domestico. Aveva un cuoco, un cameriere, un autista, un addetto alle pulizie e una manciata di amici fidati. Mary Austin era responsabile per i conti della casa, incluso il salario del personale e la cassa, e andava a trovare Freddie ogni giorno. Anche Jim Hutton era lì al suo servizio. A chiunque chiedesse, inclusi i genitori di Freddie che talvolta venivano a pranzo la domenica, diceva che Jim era semplicemente il giardiniere, e fingeva che
dormisse in una delle tante camere della casa. Jim era offeso per questa messinscena? «Assolutamente no», dice. «Erano bellissime persone. Capivo il motivo della segretezza. Erano religiosi. Lo zoroastrismo non ammette l’omosessualità. Freddie non aveva detto nulla ai suoi.» E loro, non avevano mai sospettato di avere un figlio gay? «No», rispose la madre al Times nel 2006, quindici anni dopo la morte di Freddie. «Era un argomento troppo delicato», aggiunse il genero Roger Cooke, confermando che Freddie non aveva mai confidato alla propria famiglia di essere omosessuale. Aveva forse paura di rivelare la verità al mondo? «All’epoca la società era molto diversa», rispose la madre. «Oggi è così aperta, vero?» aggiunse, sottintendendo che se fosse vissuto più a lungo, forse forse nel tempo Freddie Fredd ie sarebbe riuscito riuscito ad aprirs aprirsi.i. «Non voleva offenderci», concluse. «Quando veniva da noi, era sempre il nostro Freddie.» La canzone preferita di Jer era Somebody to Love, Love, che era anche la più amata dal figlio. figlio. Peter Freestone ricordò una particolare festa organizzata da Freddie per celebrare l’anniversario di matrimonio dei genitori, poco prima di trasferirsi ufficialmente a Garden Lodge. Nessuno del suo futuro entourage fu invitato. «Solo la sua famiglia e Mary, chiaramente: era magnifica in un abito scarlatto di Bruce Oldfield che Freddie aveva comprato per lei. L’avevo aiutata a sceglierlo dal suo grande guardaroba.» Jim incontrò i genitori di Freddie «molte volte», e andava d’accordo con loro. «Di rado venivano a Garden Lodge. Di solito la domenica per pranzo, o in occasione di una delle feste per i figli di Kashmira», racconta. «Ma se era a Londra, Freddie andava a trovarli ogni settimana. Lo accompagnavo io in macchina, ogni giovedì pomeriggio, in quella loro piccola villetta a schiera a Feltham, dove erano sempre vissuti. Ci accomodavamo tutti insieme in cucina, a prendere il tè. La signora Bulsara preparava il tè con i suoi tempi, non si affrettava. Era una donna molto indipendente, guidava ancora la sua macchinina dappertutto. Casa loro era molto accogliente. La cosa strana per
me era che non si vedeva nemmeno una foto di Freddie in giro. Era anche strano che abitassero ancora in quella casetta, quando Freddie avrebbe potuto comprar loro qualcosa di più sontuoso. Si era offerto, ovvio, ma loro avevano detto che non volevano cambiare. Erano felici dov’erano. Era una scelta davvero ammirevole, dato che di solito i genitori di molte rockstar colgono al volo l’opportunità di elevare il loro standard di vita non appena i figli hanno avuto successo.» Jim aveva poche cose in comune con la madre di Freddie, ma condivideva con il padre un amore per la natura e la passione del giardinaggio. «Era orgoglioso del suo giardino. Me lo faceva vedere ogni volta. Amava le sue rose e il suo meraviglioso eucalipto.» Jer invece preparava per il figlio i suoi craker al formaggio preferiti e gliene metteva un po’ in una scatola da portare a casa. «Incontrai Kashmira la prima volta quando venne con i genitori a trovare Freddie in Logan Mews. Si vedeva che erano fratello e sorella: avevano gli stessi occhi, grandi, marroni. La figlia Natalie era una bambina dolce e turbolenta; aveva anche un figlio, Sam.» La famiglia era molto importante per Freddie. «Ogni volta che andava via, per qualsiasi motivo, motivo, spediva una cartolina cartolina ai genitori genitori e alla sorella, sorella, sempre.» Il padre di Freddie morì nel 2003. La madre ora abita a Nottingham, dove si è trasferita per restare vicino alla figlia e alla famiglia di quest’ultima. La casa di Jer era stata ribattezzata «Fredmira», un mix dei nomi dei suoi due figli. «Non posso più continuare così come ho fatto finora», dichiarò Freddie nell’agosto del 1986, dopo quello che si sarebbe rivelato l’ultimo concerto con i Queen. «È troppo. Sono troppo grande per fare queste cose. Ho già smesso di far baldoria non perché sono malato, ma perché sto invecchiando, non sono più un ragazzino. Preferisco passare le mie serate a casa. Sono cresciuto.» Continuò a intrattenere il pubblico, ma soprattutto fra le pareti di casa. Festeggiò i quarant’anni in maniera assai modesta per i suoi standard, con una festa a tema («Cappello matto») in giardino per duecento ospiti.
La costumista Diana Moseley preparò una serie di eccentrici copricapi per Freddie. Lui ne scelse uno di pelliccia bianca con le antenne da marziano. «Fu una festa molto composta per i suoi standard, ma bella comunque», ricorda Tony Hadley, che partecipò, con Tim Rice, Elaine Paige, Dave Clark, il comico Mel Smith, l’attrice Anita Dobson, Brian, Roger e John. «Freddie volle portarmi di sopra e mostrarmi la moquette che aveva fatto fare apposta per la sua camera da letto», ricorda Tony. «Non aveva giunture, avevano usato un telaio enorme. C’era un simbolo enorme, tipo una stella di Davide. Era orgogliosissimo di quella moquette, da non crederci.» «Freddie era molto rispettabile e molto british british nelle faccende domestiche», rivela Jim. «Ricordo una domenica che i genitori dovevano venire a pranzo e Freddie stava praticamente avendo un esaurimento nervoso. Era tutta la mattina che entrava e usciva dalla cucina, agitandosi per il cibo. Una chioccia, ti dico. La tavola volle prepararla da solo. Era importante per lui: coltelli e forchette dovevano essere perfettamente allineati con quelli di fronte, e le tovagliette dovevano essere assolutamente dritte. Era un perfezionista assoluto.» Nonostante il personale fosse ufficialmente lì per servirlo, non c’erano gerarchie né intrighi a Garden Lodge. Tutti ricevevano lo stesso trattamento e dovevano rispettare un’unica regola. «Non potevi invitare nessuno», spiega Jim. «Niente amici, niente amanti. Era il dominio di Freddie. La sicurezza era di fondamentale importanza. A parte questo, eravamo più simili a un gruppo di amici che condividono una casa. Era una situazione equilibrata, il più delle volte. Joe il cuoco la faceva sempre franca. Era molto dolce, ma in certi momenti faceva i capricci. Freddie si arrabbiava piuttosto spesso, ma non era autoritario, non faceva il padrone. Non ti faceva pesare la sua posizione né ci dava ordini. Era una situazione molto più tranquilla e alla mano. Spesso mangiavamo tutti insieme, ‘in famiglia’, ma il più delle volte eravamo solo io e Freddie. Fredd ie. Non credo che gli altri covassero covassero del de l risentimento nei miei confronti. Ognuno aveva la sua stanza, inclusa Barbara: lei dormiva in quella che era stata camera mia prima che arrivasse. Più avanti, quando io e Freddie non dormivamo più insieme, mi ritrasferii lì. Non c’erano favoritismi. Ogni volta che Freddie invitava qualche amico a
bere qualcosa, eravamo tutti inclusi nell’invito. Per tutti noi Garden Lodge era ‘casa’.» ‘casa’.» Nonostante il divertimento, le feste e i viaggi che i due condivisero (una vacanza da favola in Giappone, Giappone, la follia del Live Aid, la tranquillità tranquillità della Svizzera), Jim sostenne che la cosa più soddisfacente della sua relazione con Freddie fosse stata la creatività del suo compagno. «Non stava mai fermo», dice. «Aveva sempre qualcosa in ballo, sempre nuovi progetti. Il suo cervello faceva gli straordinari, da sempre. Prima, bisognava finire la ristrutturazione di Garden Lodge, poi comprare le vecchie scuderie convertite in casa in Logan Mews; e poi ancora partiva per andare a comprare una casa in Svizzera. Non si riposava mai, non aveva mai finito di lavorare. Voleva sempre fare e fare…» Freddie non era solito parlare di musica con Jim. «Ma se si trattava dei testi, sì. Non solo con me, ma con chiunque avesse a tiro. Diceva: ‘Ho quest’idea’, oppure: ‘Ho queste parole’, o ancora: ‘Mi aiuti con questo verso?’ Buttava giù idee di continuo, continuo, su qualsiasi cosa cosa avesse sottomano. sottomano. Non cantava mai ad alta voce in casa, solo a volte nel bagno. Ma non pezzi dei Queen. Ho un video di lui nella Jacuzzi [affiorato su Internet dopo la morte di Jim] in cui canta a squarciagola.» Freddie aveva promesso al suo compagno la vacanza della sua vita in Giappone alla fine del settembre 1986 e manteneva sempre le promesse. Era contento di poter rivedere da turista il Paese che amava da sempre. Freddie e Jim visitarono tutti i monumenti, cenarono, fecero acquisti folli (comprarono persino un enorme portakimono; un oggetto che Freddie desiderava da tempo). Fu un’esperienza indimenticabile per entrambi. Tornati a Londra, ripresero la loro routine domestica con i gatti, la carpa e gli amici più vicini. Quel loro mondo intimo e accogliente fu sconvolto da una notizia bomba del News of the World , domenica 13 ottobre 1986. Una nube opprimente discese su Garden Lodge, e non se ne sarebbe mai più andata. La rivelazione era tanto sensazionale quanto nauseante: Freddie, sosteneva la testata scandalistica, aveva fatto un test per l’AIDS l’anno prima, di nascosto, proprio durante il Live Aid. Il giornale parlò anche della morte di due suoi ex amanti: lo steward John Murphy, uno delle quattro «figlie newyorchesi», e Tony Bastin, il giovane corriere che Freddie aveva abbordato anni prima a Brighton. Jim Hutton fu identificato come l’amanteconvivente. Furono descritti nei dettagli i festini a base di cocaina del
cantante con David Bowie e Rod Stewart, e fu rivelata la ragione per cui Michael Jackson e Freddie Mercury avevano litigato. Secondo l’informatore del giornale Michael era rimasto sconvolto dalla quantità di cocaina che Freddie tirava: Jacko l’aveva sorpreso a sniffare nel suo salotto. C’era persino un paginone con diverse fotografie private di Winnie Kirchberger e altri amanti, sormontate dal titolo: «All the Queen’s Men» («Tutti gli uomini della regina»). Fu scritto che Freddie aveva litigato con Kenny Everett per una questione di cocaina. «Everett pensava che Freddie si approfittasse della sua generosità, quando in realtà era piuttosto il contrario; non che Freddie l’avrebbe mai rimproverato per questo», spiega Jim. «Non si riconciliarono e Kenny non venne mai più a Garden Lodge, non da d a quando qu ando andai lì. Se lo incrociavamo incrociavamo in giro nelle discoteche gay, loro due non si parlavano. Chi ha scritto che Kenny era a fianco di Freddie in punto di morte, si è inventato tutto di sana pianta.» Freddie rimase senza parole quando scoprì che quella sensazionale «esclusiva» era opera di Paul Prenter, il suo fidato ex manager personale e (presunto) amico intimo. Prenter aveva accompagnato Freddie in tournée per anni. Aveva venduto la dignità e la privacy del suo «amico» per trentaduemila sterline. «Freddie non poteva sopportare quel tradimento», racconta Jim. «Non riusciva a credere che una persona così vicina potesse rivelarsi tanto perfida. Lo scandalo proseguì per giorni e giorni, ripreso dal Sun, Sun, la testata sorella del News of the World : Freddie e la droga, Freddie e gli uomini… sempre peggio. A ogni nuova rivelazione, Freddie si infuriava ancor di più. Non parlò mai più a Paul.» L’ex manager fu anche escluso da Elton John, John Reid e altri conoscenti, che serrarono i ranghi per proteggere Freddie. Perché lo fece? Alcuni sostengono che fosse risentito per la relazione di Freddie con Jim: il cantante era entrato in un rapporto di convivenza stabile con un compagno, di fatto quindi non aveva più avuto bisogno di lui. Resosi conto che la sua influenza era finita, forse Prenter volle vendicarsi. Più avanti telefonò a Freddie per scusarsi, ma il cantante si rifiutò di rivolgergli la parola. «Paul cercò di discolparsi sostenendo che i giornalisti l’avevano assillato così tanto che alla fine era crollato», dice Jim.
«Provò a dire che le sue dichiarazioni erano state falsate, che l’avevano travisato. Come no… Solo Paul poteva sapere alcune delle cose che erano state scritte. «Dopo quel tradimento Freddie non riuscì più a fidarsi degli altri, con pochissime eccezioni», lamenta Jim. «Da quel momento in poi non instaurò più nuove amicizie.» «Freddie aveva ingaggiato Paul dopo che la band l’aveva scaricato», osserva Peter Freestone. «Anche se sapeva che Paul si approfittava di lui, dal punto di vista finanziario e non. Questo rese il voltafaccia ancora più difficile da accettare.» «Prenter si era sempre approfittato del fatto che Freddie tendeva a perdonare le persone», aggiunge Edney. «Tutti si chiedevano: Ma come cazzo riesce a cavarsela dopo aver fatto cose del genere? Eppure Freddie continuava a restargli amico. È stato fregato da così tanta gente, più di qualsiasi altro che io conosca, anche se era abbastanza bravo a giudicare le persone… ma è incredibile quante sanguisughe riuscissero a eludere le sue difese. Freddie non aveva mai nessuna privacy; mai. Proprio grazie a gente come Prenter.» Negli Stati Uniti, intanto, si registrava un notevole aumento nelle falsificazioni dei certificati di morte. Molti personaggi famosi che stavano morendo di patologie correlate all’AIDS convincevano i propri medici a dichiarare il falso pur di preservare la loro immagine postuma. Persino mentre era sul letto di morte, Liberace, la star del varietà, insistette tramite il suo portavoce di trovarsi a letto «per gli effetti collaterali della dieta dell’anguria». Rock Hudson, idolo delle donne e divo di Hollywood, compagno sullo schermo di Doris Day, era stato il primo attore famoso a morire di AIDS nel 1985. Duecentoquarantasei casi erano stati riportati nel Regno Unito e la malattia era stata dichiarata la peggior minaccia per la salute nazionale dal dopoguerra. Furono promulgate leggi apposite per permettere ai magistrati di procedere al ricovero forzato dei malati di AIDS, per evitare che contagiassero altre persone, e le aggressioni contro gli omosessuali aumentarono paurosamente. La disinformazione dilagava. Burke’s Peerage, Peerage, dove aveva lavorato il fondatore dell’Embassy dell’Embassy Club e dell’Heaven dell’Heaven,, annunciò che, per preservare «la purezza della razza umana» avrebbe depennato dai suoi elenchi le famiglie che avevano un membro malato di AIDS.
I motivi per mantenere un profilo basso erano quindi concreti. Nel caso di Freddie, si aggiungeva anche la vergogna di dover confessare ai genitori di essere gay. Il dolore e l’imbarazzo che questa rivelazione avrebbe provocato ai Bulsara nell’ambito della comunità parsi erano impensabili per lui. Infine c’era il contratto discografico: un problema non da poco. Dovendo produrre altri album per la EMI, qualsiasi notizia che Freddie potesse non vivere abbastanza per adempiere agli obblighi contrattuali era l’ultima cosa di cui i Queen e Jim Beach avevano bisogno. Nel Natale del 1986 uscì l’album dal vivo «Live Magic», che raccoglieva diverse hit del passato. Poi la band annunciò che si sarebbe presa un anno di pausa, per riposare, fare il punto della situazione e concentrarsi su progetti solisti. Nonostante il suo tormento interiore, Freddie appariva sereno: finalmente aveva raggiunto il perfetto equilibrio fra lavoro e vita privata. Sebbene stesse segnando il passo, aveva deciso di farlo in grande stile. Si alzava tardi, invitava qualche amico a pranzo oppure andava a mangiare in uno dei tanti locali vicino casa; stava a chiacchierare per ore, si riposava un po’, poi invitava amici a cena o cenava fuori con il suo entourage. Dopo cena, si metteva a lavorare nel suo studio fino a tarda ora. Ogni tanto andava all’ufficio dei Queen in Pembridge Road (Notting Hill) per qualche riunione; faceva un salto da Christie’s o Sotheby’s per vedere gli oggetti di antiquariato o orientali in vendita. Era «sempre occupato, ma mai di corsa». Quella vita tranquilla, però, aveva una data di scadenza, che incombeva sempre più minacciosa.
23 Barcelona
Con l’album «Barcelona «B arcelona»» avevo un po’ più di libertà per provare provare qualcuna qualcuna delle mie idee più folli. Montserrat Montserrat mi ripeteva che [con quel disco] aveva trovato t rovato una nuova vita, e una nuova libertà. Diceva proprio proprio così, e io ero molto molt o commosso. Mi disse al telefono che le l e piaceva il suono delle nostre voci insieme... avevo un sorriso che andava dal sedere al gomito, cari cari miei. Ero Ero come il gatto gatto che ha appena appena mangiato mangiato il canarino, canarino, e pensavo: Ci sono un sacco di persone che vorrebbero essere nei miei panni in questo istante. FREDDIE MERCURY Alcuni dicono che per per certi certi versi Barcelona è Barcelona è una canzone pop abbastanza banale; che è un’assurdità come brano lirico. Non è affatto vero. In altre circostanz c ircostanze, e, con c on quella melodia, avrebbe avrebbe potuto far far parte parte di una grande grande opera. opera. Non sarebbe sarebbe stata ridicolizzata. SIR T TIM R ICE ICE
IL suo primo album solista non aveva certo lasciato il segno, ma Freddie era determinato a riprovarci a tutti i costi. Per registrare l’LP successivo scelse i Townhouse Studios in Goldhawk Road, nella zona ovest di Londra, soprattutto perché erano facilmente raggiungibili da Garden Lodge. Gli studi, creati da Richard Branson nel 1978 erano fra i più famosi della città. Frank Zappa, Bryan Ferry e Tina
Turner, per citare solo qualche nome, avevano sfacchinato lì dentro. Lo studio 2 compare nello strano film di Bob Dylan Hearts of Fire. Fire. Nel 1997 Elton John vi avrebbe registrato il suo tributo per la principessa Diana il giorno del funerale. Ai Townhouse, Freddie lavorò a una versione di The Great Pretender , il grande classico composto da Buck Ram. Il brano era diventato un successo dei Platters nel 1956 e negli anni successivi era stato interpretato anche da Pat Boone, Roy Orbison, Sam Cooke, Dolly Parton e dalla Band; inoltre aveva ispirato il nome del gruppo di Chrissie Hynde, i Pretenders appunto. Nel 1969 era stato cantato anche da Gene Pitney, e Freddie basò la sua versione versione definitiva propr proprio io su quest’ultima quest’ultima interpretazio interpretazione, ne, sebbene i primi primi demo tendano più verso quella dei Platters. Freddie era così entusiasta del suo lavoro che non vedeva l’ora di fare il video. Al costo costo di centomila centomila sterline, sterline, il promo promo fu girato girato in tre giorni giorni dalla MGMM, con la produzione di Scott Millaney e la regia di David Mallet. Freddie si tagliò persino i baffi per entrare in sintonia con il personaggio impomatato impomatato che lui e Mallet avevano immaginato. immaginato. Il video alternava una panoramica affettuosa della storia dei Queen (che incorporava alcune scene di lavori precedenti, come Bohemian Rhapsody , Crazy Little Thing Called Love, Love, It’s a Hard Life e I Want to Break Free) Free ) e sarebbe diventato uno dei più amati di tutti i tempi. Freddie avrebbe ancora girato altri video dopo questo, ma dopo la sua morte The Great Pretender fu Pretender fu considerato una sorta di ultimo addio. Anche questa volta il cantante si travestì da drag queen, con Roger Taylor e Peter Straker nelle veci di «coriste», sebbene le loro voci non si sentissero sul singolo. I due comparivano nei crediti di copertina, ma Freddie aveva registrato tutte le parti vocali da solo. In molte sequenze Freddie reindossò i costumi originali dei vecchi video dei Queen, che Diana Moseley aveva tenuto da parte. Scoprì che gli andavano ancora tutti a pennello. Un mese dopo uscì un video ancora più più trasgressi trasgressivo, vo, che mostrava mostrava la produzione produzione di The Great Pretender nei nei dettagli. Il singolo fu lanciato nel febbraio del 1987 e arrivò al numero quattro nel Regno Unito. Da allora è stato incluso in innumerevoli compilation. Insieme con Bohemian Rhapsody , è una testimonianza dell’anima tormentata che si celava dietro la rockstar e ci permette di dare una sbirciatina nella mente del Freddie più recondito. Nella sua ultima intervista filmata, nella primavera del 1987, Freddie ammise che quel pezzo,
più di altri, riassumeva la sua carriera. Ancora una volta aveva ripreso il tema delle «lacrime del pagliaccio»: «Just laughing and gay like a clown» («felice e gaio come un clown»). La strofa più rivelatrice: «Oh yes, I’m the Great Pretender / Pretending that I’m doing well / My need is such / I pretend too much / I’m lonely but no one can tell» («Oh sì, sono il grande simulatore / Fingo che vada bene / Il mio bisogno è tale / che fingo troppo / Sono solo ma non lo do a vedere»), rifletteva benissimo come Freddie si sentisse a esibirsi davanti a migliaia di fan. Sorge spontanea una domanda: ne valeva la pena? Non lo sapremo mai. Ma possiamo cogliere una tragica ironia in questa vicenda: nonostante il suo immenso talento compositivo, la canzone che Freddie scelse per descrivere se stesso era stata composta da altri. Durante il Magic Tour, nell’agosto 1986, un intervistatore radiofonico chiese a Freddie chi fosse, a suo avviso, la miglior voce del mondo. «Non lo dico solo perché siamo in Spagna», rispose, «ma secondo me Montserrat Caballé è la miglior voce esistente al mondo.» «Montserrat venne a saperlo», racconta Peter Freestone. «Tempo prima le avevano chiesto di fare un pezzo per le Olimpiadi del 1992, dato che Barcellona era la sua città.» Nessuno ricorda di chi fu l’idea, fatto sta che cominciò a prendere forma il progetto di far duettare Freddie e Montserrat nella canzone ufficiale dei giochi olimpici. «Jim Beach Bea ch parlò con Carlos, Carlos, fratello e manager di Montserrat», prosegue Peter. «Poi lo proposero a Freddie, che accettò subito: da tempo desiderava lavorare con lei. Inoltre fu completamente sedotto all’idea di un’altra apparizione in mondovisione dopo l’assaggio del Live Aid. Fu organizzato un incontro a Barcellona nel marzo del 1987. Montserrat mandò a Freddie alcuni video delle sue performance. In cambio, chiese tutti i lavori dei Queen.» Freddie era insolitamente nervoso durante il volo verso la Spagna: lo accompagnavano Peter, Beach e Mike Moran, il produttore incontrato durante la lavorazione del musical di Dave Clark Time. Time. Quando arrivarono al Ritz , aspettarono per ore: la diva era solita arrivare in ritardo. «Pranzammo in una sala-giardino privata con un pianoforte sistemato in un angolo per l’occasione», racconta Peter. «Freddie aveva portato un nastro con una canzone e qualche idea, che io dovevo proteggere a costo della mia
vita. C’era Exercises Exercises in Free Love, Love , più quella che sarebbe diventata Ensueño e Ensueño e alcune idee per altre tracce. Notai che Freddie e Montserrat erano entrambi in soggezione, ma entusiasti alla prospettiva di lavorare insieme. Andarono subito d’accordo e il pranzo fu un grande successo.» Pochi giorni dopo, Montserrat aveva un impegno alla Royal Opera House, terminato il quale andò a trovare Freddie a casa sua. «I cantanti lirici di solito vanno a letto presto, per preservare la voce», dice Wigg, ma quella sera Montserrat «restò sveglia fino alle cinque del mattino a cantare le canzoni dei Queen con Freddie e Mike al pianoforte. Come le conoscesse non lo saprò mai. Freddie aveva un’estensione vocale incredibile, ma restò ammaliato da quella di Montserrat. Avevano entrambi trovato pane per i loro denti.» «C’era Mike Moran e non ci volle molto prima che lui e Freddie si mettessero al pianoforte», ricorda Peter. «Fu una notte indimenticabile. Freddie e Montserrat erano completamente a loro agio l’uno con l’altra. Bevevano champagne e improvvisavano; fu una jam session, se si può usare questo termine per una cantante lirica. Il loro lavoro in studio non è così naturale e rilassato come quella sera a Garden Lodge.» Il mese successivo i Queen ricevettero un altro premio Ivor Novello per il loro «eccezionale contributo alla musica britannica», dopodiché Freddie si concentrò su quello che sarebbe diventato il suo ultimo album solista. «Barcelona» sarebbe stato prodotto da David Richards dei Mountain Studios, che dovette dividere il lavoro: «la Stupenda» infatti era richiestissima dai teatri di mezzo mondo e la sua agenda era prenotata con cinque anni di anticipo. Non aveva molto tempo per sperimentare e provare i brani in studio come Freddie amava fare. Il grosso della produzione fu quindi fatto a distanza nei nove mesi successivi. Freddie registrava i brani cantando lui stesso le parti di Montserrat in falsetto, e poi li faceva recapitare alla soprano perché lei ci sovrapponesse il suo cantato. Anche se non era il modo ideale per lavorare, il risultato fu sorprendente: uno dei miglior migliorii traguardi nella vita di d i Freddie. Fredd ie. Tim Rice collaborò al testo di The Golden Boy e The Fallen Priest in «Barcelona». All’epoca, la compagna di Rice era Elaine Paige, la stella di Evita, Evita, Cats e Chess, Chess, che stava lavorando a un album di cover dei Queen approvato da Freddie. Freddie e Tim si erano conosciuti tramite Elaine ed erano diventati ottimi amici. The Golden Boy comprendeva un gospel
cantato da celebrità fra cui Madeline Bell dei Blue Mink, Peter Straker (di nuovo) e Miriam Stockley, una session woman sudafricana. The Fallen Priest invece era una specie di capolavoro alla Moran, nel quale il produttore diresse l’orchestra, scrisse gli arrangiamenti e suonò il pianoforte e le tastiere. «Montserrat e Freddie cantarono quei due brani in duetto», racconta Rice. «Erano entrambe interessanti. Nessuna delle due è una grande canzone, ma sono entrambe ottimi frammenti musicali. Freddie era un uomo di cultura e di talento, ed era davvero appassionato di opera lirica. Era il suo grande amore negli ultimi anni. Quando andavamo a casa sua, ci faceva vedere i video delle dive pieno di entusiasmo: Maria Callas, Montserrat Caballé, Joan Sutherland, tutte che cantavano arie magnifiche. Per certi versi mi fece scuola: infatti io non conoscevo granché l’opera. «Forse per lui era un modo per esprimere liberamente il suo amore per le donne. Perché Freddie adorava le donne. Si crogiolava nella loro femminilità, nel loro modo di vestirsi e apparire, nella loro diversità dagli uomini, persino nel loro profumo. Era evidente che amava Mary. Quando andavo a cena con lui ed Elaine, voleva la sua compagnia. Non è vero che escludeva le donne, anzi desiderava frequentarle. Non sono mai andato ai suoi festini selvaggi, ma solo ad alcune cene con venti, trenta persone, e la metà erano donne.» Verso la fine di maggio, Freddie partì per Ibiza, accompagnato da Jim, Peter, Joe e Terry, il suo autista. Ora che gli era stato ufficialmente diagnosticato l’AIDS, voleva fuggire da Londra a tutti i costi. Dietro consiglio del suo medico curante, il dottor Gordon Atkinson, portò con sé una valigetta piena di medicinali. Fu una vacanza trascorsa in un’incantevole fattoria con cinque secoli di storia convertita in albergo di lusso. Freddie si sentì come a casa. Giocava a tennis, si rilassava in piscina e ogni tanto faceva delle sortite fuori per avventurarsi in qualche discoteca o gay bar. «Si era aperta una brutta ferita sulla pianta del piede destro», racconta Jim. «Gli rendeva difficile camminare e lo avrebbe perseguitato fino alla fine.» Durante il viaggio, Freddie fu portato al famoso Ku Club fuori San Antonio, dove aveva un appuntamento con la sua nuova amica del cuore. Il festival Ibiza ’92, organizzato per promuovere le imminenti Olimpiadi di
Barcellona con la partecipazione di Marillion, Duran Duran, Chris Rea e Spandau Ballet, doveva essere chiuso da Barcelona eseguita da Freddie e Montserrat. Lo champagne scorse a fiumi al Ku Club, Club, e poi in albergo. Freddie fece festa fino alle ore piccole. Sapeva di avere i giorni contati. Passò poi l’estate a lavorare in casa, ristrutturando i cottage che aveva comprato in Logan Mews e progettando una veranda. Era come se volesse lasciare dietro di sé un angolino di paradiso, osservò Jim. A settembre tornò a Ibiza per festeggiare il quarantunesimo compleanno, accompagnato da Peter, Joe, Terry, Peter Straker e David Wigg. Gli altri membri dei Queen erano già sull’isola, dove Roger aveva una villa in un luogo appartato. La festa doveva essere un doppio compleanno, in concomitanza con quello dell’ex manager dei Queen John Reid, che però si tirò indietro all’ultimo momento. Decine di invitati di Freddie erano già sull’aereo, per cui il cantante, seppur imbarazzato, procedette da solo. Si ritrovò con uno spettacolo di fuochi d’artificio con due nomi e una torta di compleanno ispirata a Gaudì per due. «Fanculo Reid», fu il suo commento: quella defezione non gli avrebbe rovinato la festa. Roger, che lavorava a un album solista con la sua nuova band, i Cross, invitò Freddie a partecipare a un brano da registrarsi ai Maison Rouge Studios di Londra. La canzone, Heaven for Everyone, Everyone, sarebbe poi finita anche nell’album nell’album dei Queen «Made in Heaven». «Chiaramente la versione di Freddie è fantastica», afferma Edney, che collaborò al progetto, «ma Freddie non poteva cantare su un album di Roger, perché glielo impediva il suo contratto solista. Così non compare nei titoli. Di conseguenza sul primo album dei Cross, ‘Shove It’, c’è Heaven for Everyone con Everyone con la voce di Freddie, ma quando uscì il singolo, dovettero usare la versione di Roger!» Il singolo «Barcelona» uscì in Spagna il 21 settembre. Diecimila copie furono vendute in meno di tre ore. Nel Regno Unito uscì il mese successivo – la prima collaborazione di una grande rockstar con una soprano di fama internazionale – e sorprese la critica raggiungendo l’ottava posizione. La canzone sarebbe poi stata usata per le Olimpiadi del 1992, un anno dopo la morte di Freddie e avrebbe raggiunto la seconda posizione nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Nuova Zelanda. Il Natale del 1987 aveva portato nuovi amici a Garden Lodge: un paio di micini di nome Goliath e Delilah. Per quest’ultima, una bellissima gattina
tartarugata, Freddie compose un brano omonimo. La gatta dormiva ai piedi del letto. A mano a mano che la malattia fece il suo decorso, i suoi animali, che Freddie adorava come figli, furono per lui un’immensa fonte di sollievo. Oramai Freddie lavorava solo quando ne aveva le forze. Nel gennaio del 1988, i Queen si riunirono in studio per cominciare il loro nuovo album, «The Miracle». Tutti sapevano che Freddie era molto malato, i sintomi erano evidenti. La gravità della sua condizione era stata ignorata fino a quel punto, ma oramai era impossibile continuare a farlo. Un giorno Freddie prese in disparte Brian, Roger e John e gli diede la brutta notizia. «Innanzitutto disse: ‘Probabilmente sapete qual è il mio problema: la mia malattia’», ricordò Brian. «E oramai sì, lo sapevamo, più o meno, anche se non ne avevamo parlato. Poi aggiunse solo: ‘Questo è quanto. Non voglio che faccia alcuna differenza, non voglio che si sappia, non voglio parlarne, voglio voglio solo continuare continuare a lavorare lavorare finché potrò potrò farlo’. farlo’. Credo che nessuno di noi si dimenticherà mai quel giorno. Ce ne andammo a star male ognuno per conto suo.» «Freddie sapeva di avere i giorni contati e voleva lavorare, tirare avanti», disse Roger. «Sentiva che quello era il modo migliore per non perdersi d’animo. Inoltre voleva lasciare dietro di sé più musica possibile. Eravamo d’accordo con lui e lo sostenemmo fino in fondo. ‘The Miracle’ fu un album molto lungo per noi.» «Credo che [il lavoro] lo rendesse felice», spiega Mary Austin. «Lo faceva sentire vivo interiormente, gli permetteva di non farsi sopraffare dalla monotonia e dal dolore. [Grazie al lavoro] la vita non era diventata solo un viaggio viaggio verso la tomba.» «Freddie «Fred die si sentiva al sicuro nel gruppo», gruppo», aggiunse aggiunse Brian. «Era tutto come sempre, anche se a volte ci sforzavamo… ma cercammo di far sì che tutto fosse normale. Sembrò funzionare.» L’8 ottobre, Freddie arrivò a Barcellona per partecipare alla grande cerimonia con cui la città riceveva la fiamma olimpica da Seul, e si esibì di fronte al re Juan Carlos, alla regina Sofia e alla principessa Cristina. Freddie e Montserrat cantarono Barcelona in Barcelona in playback accompagnati dall’orchestra e dal coro del teatro lirico. L’esibizione fu il culmine di una strana serata che vide alternarsi sul palco un insieme eclettico di artisti: José Carreras, Spandau Ballet, Eddy Grant, Jerry Lee Lewis e Rudolf Nureyev.
I Queen e Freddie trascorsero il resto dell’anno dedicandosi ai loro progetti personali. Il gruppo si riunì all’inizio del 1989 per finire «The Miracle». Dopo anni di dispute creative e aspri litigi, i quattro avevano infine trovato un modo per lavorare in armonia. I Want It All , il loro trentaduesimo singolo nel Regno Unito, uscì nel maggio del 1989, seguito dal sedicesimo album. «The Miracle» divenne disco di platino nel giro di una settimana. Freddie e Jim partirono per Montreux diretti verso «I cigni», una bellissima villa in riva al lago, così chiamata per i cigni che la circondavano e che Freddie correva subito a vedere ogni volta che vi andava. Freddie la ribattezzò «Duck House», «casa delle anatre». Roger fece di meglio e la chiamò «Duckingham Palace». Il cantante passava ore in riva al lago. L’aria di montagna lo rinfrescava. Si sentiva più in pace a Montreux che in qualsiasi altro posto. In patria le congetture sul suo stato di salute dominavano i giornali. La band contrattaccò con il singolo Scandal . Votati «miglior gruppo del decennio» dai lettori della rivista TV Times, Times, i Queen apparvero in uno speciale televisivo intitolato Goodbye to the Eighties («Arrivederci anni Ottanta»), e furono premiati da Cilla Black, la seguitissima presentatrice inglese (ed ex cantante pop) coadiuvata da un giovanissimo Jonathan Ross, oggi a sua volta rinomato presentatore televisivo. Più creativo che mai e desideroso di incrementare la sua eredità per i posteri, Freddie si dedicò alla promozione del terzo singolo estratto dall’album, anche questo intitolato The Miracle. Miracle. Fu sua l’idea del video: suggerì di usare dei sosia-bambini per ognuno di loro. La produzione ne trovò quattro, perfetti, e ne risultò un videoclip ipnotico. All’inizio del 1990, con il cuore pesante, i Queen si ritrovarono ai Mountain Studios per registrare «Innuendo», pensando che l’album sarebbe stato il canto del cigno di Freddie. Non esattamente.
24 Bis
Ho avuto scombussolamenti e problemi immensi, ma mi sono divertito tantissimo e non ho rimpianti. rimpianti. Oh, O h, caro, c aro, sembro Edith Piaf! FREDDIE MERCURY In questo ambiente esistono persone che non sono fatte per invecchiare. Freddie era una di queste. Non N on potevo immaginarmelo immaginarmelo a settant’anni; lo l o stesso vale per Michael Jackson. In ogni caso, a Freddie non sarebbe sarebbe piaciuto piaciuto ilil modo in cui si fanno i dischi oggi. Ha vissuto al massimo. È morto giovane, ma nella sua vita ha fatto fatto tantissime cose, più più di quelle che la maggior parte parte delle persone persone fa in cinque vite messe insieme. R ICK ICK WAKEMAN
CAPODANNO 1990. Mentre i Queen si riunivano per lavorare al nuovo disco, Beach avviava un estenuante negoziato con la Capitol per la cessazione del loro contratto. All’insaputa della band, c’era un’altra etichetta americana che aspettava dietro le quinte. L’avvocato che anni prima aveva patteggiato l’uscita dei Queen dall’Elektra era diventato presidente della Hollywood Records del gruppo Disney ed era pronto a scritturare la sua band preferita. «Molti pensavano che fosse una mossa stupida, destinata a fallire», racconta Peter Paterno. «In realtà è stata un successo, che ha superato qualsiasi aspettativa.»
«Malgrado tutti i commenti negativi, sapevo che non era un affare rischioso. Saremmo rientrati dall’investimento in otto anni. Sapevo che Freddie aveva l’AIDS? Sapevo che era malato, i particolari erano segreti. Ma francamente sapevo che non potevamo perdere. Se moriva, avevamo previsto di andare in pari in tre anni. Caso volle, però, che uscì Fusi di testa, testa, con quella scena da urlo dove cantano Bohemian Rhapsody in macchina, e così andammo in pari in tre settimane.» «Fino a quel momento [i Queen] erano morti negli USA, ma famosissimi nel resto del mondo. Secondo me ‘A Kind of Magic’ era un disco favoloso, ma aveva venduto pochissimo negli Stati Uniti. Tuttavia ebbi una premonizione. Mandai un messaggio a Jim Beach dicendo: ‘Ho sentito che i Queen sono liberi’. ‘Non solo sono liberi’, fu la risposta, ‘ma anche il loro intero repertorio è libero.’ È così che cominciammo.» L’intera produzione dei Queen sarebbe stata rimasterizzata e distribuita su CD, il supporto che all’epoca stava soppiantando il vinile. Quella di Paterno era una scommessa gigantesca, dato che negli USA la band non aveva avuto un album nei primi venti dal 1982. Tutto procedeva per il meglio, finché qualcuno non informò il capo della Disney, Michael Eisner, che Freddie stava morendo di AIDS. «Michael mi chiamò e mi disse: ‘Cosa sta succedendo?’» ricorda Paterno. «La notizia l’aveva reso molto nervoso, pensava che ci stessero prendendo in giro, che l’affare ci avrebbe fatto apparire ridicoli. Secondo lui dovevamo inserire una clausola che prevedesse certe condizioni in caso di morte. Ma io dissi: ‘Per quanto suoni cinico, se muore le vendite saliranno. Ho sentito alcuni pezzi del nuovo album e non sono preoccupato.’ «Era un affare molto costoso: dieci milioni di dollari. All’inizio la dirigenza della Disney rifiutò e dovetti argomentare le mie ragioni. Alla fine la spuntai e firmammo. Fu uno dei momenti migliori della mia vita.» «Dissi a Beach: ‘Per dieci milioni di dollari, posso almeno conoscerli?’ Presi un volo da Los Angeles a Montreux per passare un pomeriggio con Freddie Mercury. Fu un soggiorno breve ma indimenticabile. Lui era piacevole e cortese. Mi fece ascoltare il nuovo album in studio. Andammo a passeggiare in città, cenammo insieme. Fu una bella esperienza, ma era evidente che Freddie stava affrontando l’idea della morte. «E poi all’improvviso i Queen divennero di nuovo famosissimi qui!» esclama Paterno. «Il mio intuito non mi aveva tradito! Il fatto era che non
avevano mai smesso di fare album eccellenti. Se avessero suonato come vecchie glorie, glorie, oramai stanche, avrei lasciato lasciato perdere, ma continuavano continuavano a produrre musica bellissima e sapevo che prima o poi sarebbero tornati in voga negli Stati Uniti. Che soddisfazione soddisfazione per me avere avuto ragione, anche se la perdita di Freddie Mercury fu una tragedia.» Dopo avere ricevuto il Brit Award della prestigiosa British Phonographic Industry per il loro eccezionale contributo alla musica britannica, che gli era sempre sfuggito, e consapevoli che Freddie era oramai prossimo alla fine, i Queen si accinsero a celebrare il loro ventesimo anniversario. Organizzarono una festa per quattrocento invitati al Groucho Club. Club. Il locale londinese era stato scelto per il suo nome, in omaggio ai primi dischi intitolati come due film dei fratelli Marx. Parteciparono Liza Minnelli, George Michael, Patsy Kensit, Michael Winner e Rod Stewart. La torta era a forma di Monopoli, con i titoli dei successi della band al posto dei nomi delle strade. strade. Mentre i paparazzi assetati di sangue sbavarono sulle foto di un Freddie macilento, quando era arrivato e aveva lasciato la festa, i compagni, il management, gli amici e l’entourage continuarono a negare le voci di una morte imminente del cantante. «Freddie voleva così» disse Peter Freestone. «Mentivamo persino con i nostri famigliari. Lo facevamo per lui. Non voleva chiasso, né scioccare i genitori. E poi pensava che la sua malattia fosse solo affar suo.» «C’era molta gente a quella festa, ma, stranamente, pochi parlavano con la band», ricorda Phil Swern. «Quasi come se avessero paura. Mi ritrovai vicino vicino al bar con Freddie F reddie e chiacchieramm chiacchierammoo per una ventina di d i minuti. Non riuscivo a credere che stavo parlando con quell’icona del rock come se fossimo vecchi amici. Freddie era molto pallido e tranquillo. Di colpo mi resi conto che io invece ero nervoso e tremavo. Perché? La sua aura. Lui sì che ce l’aveva. Chi altri? Frank Sinatra; una volta lo incontrai dietro le quinte della Royal Albert Hall. Prima ancora di vederlo, e sebbene dessi le spalle alla porta, percepii la sua presenza. Pochissime persone hanno l’aura. Paul McCartney no. Mick Jagger no. Sono troppo accessibili. Barbra Streisand ce l’ha: è una donna eterea, non è di questo mondo. Nemmeno le stelle del cinema ce l’hanno. «Qualunque cosa sia, è innata e non la perdi mai. Non puoi costruirla, non puoi comprarla. È pura magia. Non puoi neanche attraversarla, per
questo un comune mortale non può avere una relazione profonda con una persona del genere. È una delle ragioni principali per cui queste persone hanno una vita affettiva disastrosa. Conquisti milioni di ammiratori, ma non riesci a ottenere o conservare l’amore di una singola persona. «Io e Freddie parlammo un po’ della storia dei Queen», racconta Swern. «Parlammo anche della struttura delle sue canzoni. Si animava parecchio quando parlava di musica. Era una sua peculiarità, senza dubbio. Anch’io avevo composto qualche canzone ai miei tempi, che erano entrate in classifica. I compositori sono sempre interessati a come lavorano gli altri, per cui gli chiesi da dove traesse ispirazione. «‘I versi mi arrivano e basta’, rispose sorridendo. Era molto difficile parlargli, perché sapevo che stava morendo. Non era ancora stato annunciato ufficialmente, ma lo sapevo già perché me l’aveva detto Jim Beach. Pensai che l’aura alla fine ti schiaccia, ti soffoca: è una croce pesantissima da portare e, se sei un genio, probabilmente quello è il prezzo da pagare. All’interno di quell’aura, sei solo un essere umano come tutti. «Molte persone di talento muoiono giovani. Forse perché raggiungono il loro apice creativo e poi si ‘suicidano’ in un certo senso, perché non sopportano più la notorietà. Sebbene alcune si tolgano fisicamente la vita, come Marilyn Monroe con un’overdose, molte altre no, ma rovinano la propria esistenza in modo diverso. James Dean guidava così veloce che un incidente era inevitabile prima o poi. Elvis aveva solo quarantadue anni quando morì, ma si era spremuto fino al nocciolo, non gli restava più nulla e lo sapeva. Forse il ‘desiderio di morte’ di Freddie era il sesso estremo che in quegli anni portava inevitabilmente all’AIDS. È un modo per cedere la responsabili responsabilità tà di una vita che è diventata troppo troppo dura du ra da soppor sopportare.» tare.» Finita l’ultima festa, la band tornò ai Mountain Studios. «‘Innuendo’ fu creato nei ritagli di tempo, perché Freddie non stava davvero bene», rivelò Roger dopo la morte dell’amico. Appena la salute glielo permetteva, negli ultimi anni di vita, Freddie si rifugiava spesso a Montreux per sfuggire ai giornalisti, trovando nella cittadina svizzera la tranquillità e il riposo di cui aveva bisogno. Per puro caso il vecchio amico di college di Freddie, Jerry Hibbert, fu incaricato di produrre le animazioni del videoclip di Innuendo. Innuendo. «Avevo sentito dire che Freddie non stava bene e chiaramente ero preoccupato. Durante una riunione chiesi a Beach: ‘Facciamo
un’animazione perché Freddie è malato e non può comparire nel video?’ ‘Freddie non è affatto malato. Dove diavolo hai sentito una cosa del genere?’ genere? ’ replicò replicò lui.» Il quarantaquattresimo compleanno di Freddie fu festeggiato in maniera molto modesta, con una cena per venti invitati a Garden Lodge. Mary ci andò con il compagno Piers Cameron. Jim Beach con la moglie Claudia. C’erano anche Mike Moran con la moglie, Dave Clark, Barbara Valentin, Peter Straker e il dottor Gordon Atkinson, oltre ai soliti che componevano la cerchia di Freddie. Sarebbe stato il suo ultimo compleanno e lui lo sapeva, ma non lasciò che questo pensiero rovinasse la festa. Generoso fino alla fine, offrì a ogni ospite «un pensiero per ricordarmi» di Tiffany, e fu contentissimo quando arrivò la sua maestosa torta di compleanno. Era una replica di uno dei suoi monumenti preferiti, il Taj Mahal. Il singolo Innuendo uscì nel gennaio del 1991, regalando alla band la sua prima numero uno nel Regno Unito da dieci anni. Anche l’album, che uscì a febbraio e che fu l’ultimo lavoro in studio dei Queen a essere distribuito mentre Freddie era ancora in vita, si classificò al primo posto, e non solo nel Regno Unito, ma anche in Svizzera, in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi, diventando il primo album dei Queen da «The Works» nel 1984 a diventare diventare disco d’oro al debutto in America. Nel video del singolo I’m Going Slightly Mad si si vede un Freddie tragicamente magro e truccato che scimmiotta un Lord Byron impazzito. Headlong , il trentanovesimo singolo della band uscì a maggio. Poi i quattro, in lotta contro il tempo, tornarono in studio per incidere «Made in Heaven», un album che però sarebbe uscito solo quattro anni dopo la morte di Freddie. Nonostante la crescente debolezza, il cantante lavorò più che mai, aiutandosi con ampie dosi di vodka per superare le lunge e difficili sedute di registrazione. «Credo che una parte di lui sperasse in un miracolo», disse Brian. «Lo speravamo tutti.» «Furono giorni tristi, ma Freddie non si lasciò deprimere», racconta Peter Freestone. «Era rassegnato all’idea della morte. La accettava… E comunque, puoi immaginarti un Freddie Mercury vecchio?» A Freddie tornò la voglia di disegnare e dipingere. Era dai tempi del college che non si era più dedicato all’arte. «Jim gli comprò comprò qualche acquerello a cquerello e alcuni pennelli», ricorda ricorda Peter. Pete r. «Passò ore a tentare di ritrarre Delilah, la sua gatta preferita. Era troppo
difficile, ma riuscì a fare un paio di lavori astratti. Tutta colpa del Matisse. Un giorno sfogliavamo un catalogo di un’asta e c’era un Matisse che andava per diecimila sterline. ‘Dieci bigliettoni?’ aveva detto Freddie. ‘Potrei farla io una cosa del genere!’ «Diede due pennellate e disse a me e a Joe: ‘Et voilà, uno a testa! Vediamo quanto valgono!’ Suppongo che valgano come il Matisse ora.» La vita accelerò. accelerò. Tropp Troppoo veloce. Ad agost a gostoo arrivò arrivò la notizia che Paul Prenter era morto di AIDS. Quello stesso mese, Freddie raccontò la verità alla sorella e al cognato. «Eravamo seduti in camera sua che bevevamo un caffè quando all’improvviso disse: ‘Devi capire, cara Kash, che quel che ho è terminale’», ricorda il cognato. «‘Sto per morire’, aggiunse. Vedemmo i segni sulle caviglie. Sapevamo che era malato. Non aggiunse altro e non ne parlammo mai più.» «Continuavamo a vivere il più normalmente possibile», racconta Jim. «Andammo in Svizzera solo tre settimane prima che morisse. Anche se non era in salute, è ovvio che stava abbastanza bene per viaggiare e lavorare: era in studio, santo Dio. Non parlavamo mai di quanto gli restasse, ma credo che se hai una malattia terminale, arriva un momento in cui hai un’idea ben precisa di quanto la morte sia vicina… «Andammo a Duck House per una pausa. C’era Mary e il piccolo Richard, e Terry con la famiglia. Un giorno visitammo un bellissimo chalet degli anni Cinquanta in riva al lago, con giardino e pontile privato. Era stupendo, ma non avrebbe funzionato per Freddie: a lui serviva un appartamento. Fu Jim Beach che trovò un attico in un palazzo chiamato ‘la Tourelle’. Aveva tre camere, per Freddie, Joe e io, e un enorme salotto con una grande finestra e un balcone con la vista sul lago.» Freddie desiderava passare il Natale nel suo nuovo appartamento di Montreux. Chi gli era vicino sapeva che non sarebbe arrivato a dicembre, ma stette al gioco per accontentarlo. «Forse ora sembra inutile che si sia comprato un appartamento a Montreux quando era oramai alla fine», ammette Peter. «Ma Freddie adorava ristrutturare e arredare le case, perciò quell’alloggio era solo un progetto come tanti per tirare avanti. Freddie aveva già in mente come rinnovare ogni stanza e aveva comprato un sacco di mobili da Sotheby’s apposta.
«Sapeva esattamente come voleva l’appartamento e scelse mobili e decorazioni da solo. «Io e Joe potemmo decidere le tinte delle nostre camere, lui scelse verde chiaro mentre io azzurro. Io dovevo poi creare dei piccoli giardini sui balconi: Freddie voleva più verde possibile. È un peccato che non sia riuscito a festeggiare lì il Natale, e che non sia riuscito a viverci un po’.» Per il quarantacinquesimo compleanno Jim gli regalò un set di calici di cristallo da champagne: erano destinati all’alloggio di Montreux. Fu il suo ultimo regalo di compleanno: sia Jim sia Freddie sapevano che non sarebbero più tornati in Svizzera insieme. «Fu il compleanno più silenzioso di tutti», ricorda Jim. «Fu molto triste. Freddie stava accettando il fatto che la sua vita era oramai finita e chiaramente non era contento di questo. Alla fine non aveva più voglia di vedere vede re quasi nessuno. Non voleva che vedessero vede ssero come come stava, quanto fosse malato. Non voleva angosciarli, preferiva che si ricordassero il vecchio Freddie.» L’ultima torta di compleanno di Freddie era una replica del suo caro palazzo svizzero, creata da Jane Asher con l’ausilio di foto scattate da Jim e Joe. Quello stesso giorno, negli USA uscì il singolo These Are the Days o Our Lives, Lives, accompagnato dall’ultimo video di un Freddie inquietante. Lo stesso singolo, accoppiato a Bohemian Rhapsody , sarebbe uscito nel Regno Unito a dicembre, dopo la morte. Freddie disse ai suoi coinquilini che intendeva smettere di prendere i farmaci. «Interruppe tutto tranne gli antidolorifici», ricorda Peter. «Non disse mai di avere paura di morire. Non serviva a niente avere paura. Non lasciò mai che la malattia prendesse il controllo della sua vita. Appena stava per accadere, riprese lui il controllo. «Voleva decidere lui quando morire. «Da settimane i giornalisti erano accampati sullo zerbino, ventiquattr’ore al giorno. Era prigioniero nella sua stessa casa. Non poteva farci nulla, tranne, forse, quel che fece: mollare.» Ne aveva avuto abbastanza. Non solo stava perdendo la vista, ma anche la voglia di vivere. «Credo che il suo unico rimpianto fosse di avere ancora così tanta musica in sé», racconta Peter. The Show Must Go On, On, il singolo coraggioso e straziante dei Queen, con
Keep Yourself Alive Alive sul lato B, uscì a ottobre. La band, il management, gli addetti stampa e l’entourage, che avevano tutti giurato di mantenere il segreto su Freddie, continuarono a smentire qualsiasi voce sulla malattia. Nel frattempo, la EMI continuò a sfornare prodotti – «Greatest Hits II», «Greatest Flix II» – e mentre la vita di Freddie era appesa a un filo, la band appariva più prolifica che mai. «Freddie aborriva l’idea di sconvolgere la famiglia», afferma Wigg, «e di essere assediato dai media se la notizia della sua malattia fosse stata resa pubblica. Ecco perché chi gli stava intorno negava tutto. Lo spettacolo continuava.» Peter e Joe assistettero Freddie negli ultimi giorni. «Imparai a farlo. Non c’era nessun altro che poteva farlo al posto mio», spiega Peter. «Freddie aveva cominciato a tagliare i rapporti con diverse persone. Non voleva vederle. vede rle. I genitori, genitori, per esempio: erano venuti a trovarlo trovarlo in quelle ultime due o tre settimane e volevano tornare la domenica prima che morisse, ma lui disse: ‘No, li ho visti’. In parte perché non voleva che lo vedessero vede ssero in quelle condizioni; condizioni; preferiva preferiva che lo ricordassero ricordassero com’era com’era prima. prima. È per questo che voltò le spalle a molte persone in quell’ultimo anno di vita. A volte la scusa era un banale litigio o altro, ma lui sapeva il vero motivo, e anch’io.» Alcuni amici intimi furono davvero splendidi negli ultimi giorni. «Dave Clark, Elton John, Tony King. Io e Joe ricevemmo aiuto dal Westminster Hospital dove Freddie era stato curato, in particolare da parte di un dermatologo e di un oncologo che cercava di trattare il sarcoma di Kaposi. «È incredibile quanto si impara in fretta in quelle situazioni. Freddie aveva un catetere nel petto, per esempio, tramite cui potevamo somministrargli i farmaci. Nelle ultime settimane uno di noi – Jim, Joe o io – gli restava sempre vicino, anche la notte. Non lo lasciammo solo neanche una volta.» Gordon Atkinson, amico e medico curante di Freddie, gli fece visita regolarmente. Terry Giddings, il suo autista, continuò a presentarsi ogni giorno a Garden Lodge, sebbene Freddie non dovesse andare da nessuna parte. «Anche se era al settimo mese di gravidanza, Mary cercava di passare ogni giorno, per continuare il proprio lavoro. Freddie voleva che tutto
proseguisse come sempre.» I genitori e la sorella con la sua famiglia fecero visita durante l’ultima settimana e presero il tè con Freddie in camera sua, scrisse Peter nelle sue memorie. «Con uno sforzo sovrumano riuscì a intrattenerli per due o tre ore. Era il suo modo per proteggerli, per far credere loro che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Portammo il tè con dei panini fatti in casa e alcuni dolci comprati. Nessuno sapeva che quella era l’ultima volta che l’avrebbero visto in vita.» Vennero Brian e Anita, così come Roger e Debbie Leng, la modella sua compagna. Anche nel loro caso, nessuno sapeva che Freddie era prossimo alla morte e che non l’avrebbero mai più rivisto. «Entrambe le visite furono abbastanza brevi», osserva Peter. «Senza che lo sapessero, Freddie aveva detto loro addio.» Il 23 novembre, con Beach al capezzale per un lungo incontro, Freddie dettò la sua ultima dichiarazione: davanti ai fan e al mondo ammetteva di avere l’AIDS. Fu distribuita immediatamente dall’addetto stampa Roxy Meade e fu uno choc terribile per tutti. «Dopo tutti quegli anni, il nostro segreto fu svelato al mondo intero», dice Peter. «Dopo una lunga discussione, accettammo il motivo di quel gesto: poteva essere un bene se Freddie ammetteva di avere la malattia quando era ancora in vita.» Ventiquattr’ore più tardi, Peter chiamò i genitori di Freddie per dare la terribile terribile notizia: notizia: il loro beneamato figlio, The Great Pretender, Pretende r, era e ra morto. morto.
25 Leggenda
Per anni ci eravamo assicurati che Freddie fosse presentabile prima di uscire di casa. L’ultima L’ultima cosa che potevo fare fare per per lui, in prepara preparazione zione per il suo ultimo viaggio, viaggio, era far sì che tutto fosse perfetto. perfetto. PETER F FREESTONE Ogni nuova generazione scopre i Queen e li rende importanti in un modo o nell’altro. Brian e Roger sono consapevoli della loro l oro eredità e ne hanno fatto un uso molto intelligente. Oggi i Queen sono una grande azienda. Sono più grandi di quando Freddie era ancora in vita. Sono ricchissimi, e buon per loro. Molti pensano pensano che si siano venduti, che abbiano abbiano compromesso compromesso la loro arte, ma che gliene frega a loro? Nuotano nel grano. Come dice Roger Taylor: Taylor: «Che «C he si fottano, se non ci arrivano». arrivano». R ICHARD ICHARD HUGHES , produttore, Transparent Television
GLI zoroastriani hanno una visione ottimista della morte, che per loro non è una fine, ma un inizio: l’esistenza terrena è solo un preludio per la vita dopo la morte, dove ci attendono molte felicità. Siccome per loro il fuoco, la terra e l’acqua sono elementi sacri, dopo la morte non si fanno né cremare, né seppellire, né gettare in mare. Dato che il corpo non è altro che un recipiente vuoto, non viene preservato ma lasciato a consumarsi nelle cosiddette «torri del silenzio» fuori delle mura cittadine, esposto agli avvoltoi e alle intemperie. Ma
nemmeno per una grande superstar come Freddie era possibile organizzare una cosa del genere in Inghilterra. «Dovemmo cremarlo, e farlo nel più breve tempo possibile», ricorda Peter, che firmò il certificato di morte, segnando come causa del decesso: «a. broncopolmonite. b. AIDS», secondo quanto attestato dal dottor Atkinson. Poiché Freddie era stato seguito dai medici, non fu necessaria un’autopsia per determinare le cause del decesso. Di conseguenza Peter organizzò subito il funerale, dopo essersi consultato con i genitori di Freddie. «Dovevamo coinvolgerli. Noi seppellivamo una rockstar, ma loro seppellivano un figlio. Naturalmente volevano fare le cose secondo la tradizione parsi e le loro richieste furono prese in considerazione.» «Freddie mi disse che quando fosse morto voleva che il funerale si celebrasse subito», conferma Jim. «Il prima possibile, senza tante cerimonie. Voleva essere cremato il giorno stesso. Fatto, finito, in modo che poi tutti riprendessero la loro vita... Non voleva gente in coda a strapparsi i capelli. Continuate a vivere. È a questo che serve la vita.» Freddie fu cremato al Crematorio di Londra ovest di Kensal Green alle dieci del mattino di mercoledì 27 novembre. «Un funerale perfetto, proprio come sarebbe piaciuto a lui», racconta Peter sorridendo. «Cinque carri funebri della Daimler solo per i fiori. La cassa su una Rolls-Royce, con altre quattro auto al seguito. Una bara semplice, in rovere chiaro con una sola rosa rossa sopra, trasportata a spalla sulle note di You’ve Got a Friend di di Aretha Franklin. Seguimmo il feretro. C’erano circa quattordici persone dal lato degli amici e circa trenta da quello della famiglia.» Elton John arrivò con la sua Bentley verde. Brian con la sua fidanzata (oggi moglie) Anita Dobson. Mary Austin, incinta del suo secondo figlio Jamie, arrivò con Dave Clark. Jim Callaghan, la fedele guardia del corpo dei Queen si piazzò in silenzio alla porta della cappella, salutando i genitori di Freddie e scortandoli all’interno. «Quando «Quand o la cassa cassa sparì, suonammo D’Amor sull’ali rosee di rosee di Verdi, un’aria de Il Trovatore, Trovatore, cantata, ovviamente da Montserrat Caballé. Era il brano
preferito di Freddie in assoluto. Spesso andava in studio e lo metteva a un volume così alto che si sentiva persino persino il rumore rumore degli spartiti spartiti sfogliati sfogliati e dei de i musicisti che spostavano sulle sedie. Fu molto commovente», racconta Peter. «Ed ero abbastanza sconvolto. Avevo bisogno di stare solo. Mia madre è in quel crematorio. Corsi sotto dove c’è l’urna con le sue ceneri e le chiesi di prendersi cura di lui.» I fiori mandati per il funerale di Freddie ricoprirono oltre mille metri quadrati all’esterno del crematorio. Gigli e dalie bianche da parte dei genitori, con il messaggio: «Al nostro amatissimo figlio Freddie. Ti ameremo sempre, mamma e papà». Rose gialle da David Bowie. Un cuore di rose rosa da Elton John, con le parole: «Grazie per essere stato un amico. Ti amerò sempre». Il tributo di Boy George fu molto semplice: «Caro Freddie, ti amo». Quello di Mary Austin fu una corona di rose gialle e bianche con scritto: «Per la persona più cara, con il mio più profondo amore, dalla tua fedelissima». Quello del figlio di Mary: «Allo zio Freddie con amore dal tuo Ricky». L’addio più commovente fu quello di Roger Taylor: «Addio, vecchio amico; amico; pace, infine!» Tutti i fiori fiori furono donati agli ospedali di d i Londra. Tornato a casa, Jim, non sopportando di stare tra le persone, andò in giardino. «Avevo perso mio padre anni prima», dice, «ma non ero in Irlanda quando era successo. Quindi la morte di Freddie è stata il lutto che mi ha coinvolto più da vicino. Fu molto dura.» Nelle settimane successive, Jim si infuriò per le parole e le azioni di altri. Secondo la stampa, Dave Clark aveva affermato di essere stato l’unico al capezzale di Freddie quando questi era spirato. «Non è vero», dice Jim. «Ma lo scrissero dappertutto.» Alla fine l’errore turbò persino Clark, di norma sensibile e premuroso, perché perché Jim ricevette ricevette una bellissima bellissima cartolina cartolina di d i compleanno compleanno da parte parte sua. «Dentro c’era scritto: ‘Tu sì che c’eri’. Non so perché abbiano scritto altrimenti. Dave era stato davvero magnifico durante la malattia. Veniva sempre a trovarci. Sì, era stato al capezzale per ore, per darci un po’ di riposo. Era in casa con noi quando Freddie era morto. Ma non era andata come avevano raccontato. «La gatta preferita di Freddie, Delilah, non era salita sul letto tutto il giorno, il che era strano. Era lì che dormiva, anzi che viveva, in pratica. Quella sera invece era stesa ai piedi del letto, per terra. La presi in braccio. Dave prese la mano di Freddie e gli fece accarezzare il gatto. Freddie fece
un cenno di riconoscenza, poi chiese di andare in bagno. Mi precipitai di sotto per chiamare Peter, perché mi aiutasse, ma Freddie bagnò il letto e dovemmo cambiare le lenzuola. Dave uscì dalla stanza, per rispetto. Fu in quel momento momento che Freddie se ne andò.» Jim non si sarebbe mai più ripreso dalla perdita. «Ancora adesso ci sono volte in cui sto lavorando in giardino e mi appare il volto di Freddie con l’espressione di quando morì», mi raccontò in Irlanda. «A livello cosciente posso cancellare quel che è successo, ma non a livello inconscio. È impossibile dimenticarlo. Ho imparato tantissimo da lui, soprattutto a essere ottimista. La sua idea era che potevi fare tutto; che se ti dedicavi a una cosa, potevi farcela. Era una delle cose più belle di lui.» Jim è morto di cancro ai polmoni nel 2010, in Irlanda. A Monaco, la povera Barbara Valentin fu costretta a vivere il lutto da sola. Comprò un abito nero per il funerale e un biglietto d’aereo per Londra. Quando stava per andare in aeroporto, però, ricevette una telefonata che le ordinò di restare dov’era. Non ha rivelato chi la chiamò quel giorno e Peter Freestone sostiene di non ricordare. Probabilmente fu un collaboratore di Beach. Quel giorno Mary Austin doveva essere presentata come l’unica «vedova» e Barbara sarebbe stata una presenza inopportuna. «Non ho potuto nemmeno partecipare al suo funerale», disse piangendo. «Dopo tutto quel che avevamo passato insieme. È stato un dolore terribile. Non l’ho mai superato. Non ho mai amato nessuno come ho amato Freddie. Non che ne abbia cercato un altro: uno è bastato. È stato il più grande amore della mia vita. Lo è ancora. Venti donne dovrebbero vivere cent’anni l’una per avere l’amore che ho avuto io. È meglio fermarsi al momento giusto. È quello che ha fatto anche lui.» Freddie si era comportato da star, proseguì Barbara: «Smettendo quando era in cima. Mi diceva che non puoi permetterti di cadere dalla vetta, di non essere più all’altezza di quello che sei stato. La fama l’aveva trasformato nella persona più sola al mondo e per compensare era diventato sempre più scatenato e selvaggio, finché i suoi eccessi avevano finito per controllarlo. Compensava in eccesso per la sua solitudine, faceva di tutto un eccesso. Ha pagato il prezzo più tremendo di tutti. So che non pensava di andarsene
così, ma in un certo senso ha fatto a modo suo: voleva l’immortalità e l’ha avuta». Barbara è morta di ictus nel 2002, a Monaco. Garden Lodge non tornò mai più «come prima». Mentre si preparava a prendere possesso della sua eredità, Mary fece capire che la voleva vuota. Jim aveva creduto che sarebbe potuto rimanere nella dimora per sempre, ma gli fu chiesto di andarsene subito. «E io. E Joe», ricorda Peter con tristezza. «Non avevamo un altro posto dove andare e avevamo bisogno di tempo per organizzarci. Ce ne saremmo andati comunque, ma… Mary si è comportata in modo sconcertante.» «Ma come ha potuto trattarci così, dopo tutto quello che avevamo passato con Freddie?» disse Jim. «Non aveva alcun senso. Ho lasciato quella casa senza niente; nemmeno le mie cose.» Le controversie legali e finanziarie che seguirono la morte di Freddie lasciarono i suoi ex «badanti» in un limbo e Barbara Valentin quasi senzatetto. Con l’aiuto dei suoi amici di Garden Lodge, l’attrice riuscì a respingere gli attacchi. Tuttavia il testamento di Freddie sollevò innumerevoli dubbi, alcuni dei d ei quali non furono mai risolti. risolti. Jim spiegò di avere scritto il proprio libro di memorie per rabbia, non per denaro. Voleva che il mondo sapesse la verità: secondo lui non c’era altro sistema. «Credo che Beach si sia arrabbiato perché il mio libro ha rovinato ‘il mito di Freddie’», disse. «E invece l’ha solo riportato al livello dell’essere umano. Ho scritto la verità. Beach voleva che i fan credessero che la dolce Mary Austin fosse stata l’amore della vita di Freddie: una bella favola romantica. Credo che ai fan non importi un fico secco se Freddie era gay o no. Credo anche che preferiscano sapere la verità, bella o brutta che sia.» Peter era d’accordo. Freddie sarebbe stato disgustato se avesse visto le persone che amava litigare dopo la sua morte. «I diretti interessati devono fare i conti con se stessi. Mary una volta ha detto di Jim [Hutton] che era dotato di ‘un’immaginazione vivace’. Conoscevo Jim da tanto tempo e so che era sempre stato onesto. Aveva la coscienza pulita, sempre; come me.» Che cosa ne è delle ceneri di Freddie? Sono state sparse nel lago di Ginevra, il suo «lago dei cigni», a Montreux? Sono conservate in un’urna
nella casa dei genitori? Sono state riportate a Zanzibar e offerte all’oceano o sono state mandate dalla zia Sheroo in India, o ancora sepolte sotto un ciliegio a Garden Lodge, come sostenne Jim Hutton? O potrebbero persino trovarsi in un sepolcro anonimo nel cimitero civile e militare di Brookwood nel Surrey, che ha una zona dedicata ai parsi? La vecchia compagna di collegio di Freddie, Gita Choksi, ritiene veritiera quest’ultima ipotesi. Quando andò al cimitero la prima volta, per trovare il padre, Gita incontrò un custode che le disse: «Le ceneri di Freddie Mercury, il cantante rock, sono sepolte laggiù». «Fu uno choc», racconta. «Ovviamente quell’uomo non sapeva che avevo conosciuto Freddie da piccola e non aveva alcun motivo per mentire. E così, dopo avere perso di vista il mio compagno di scuola per così tanti anni, le sue ceneri erano lì, sepolte a pochi metri da quelle di mio padre. Sono assolutamente certa che sia vero. Non credo che il custode me l’avrebbe detto, se non fosse vero. È la cosa più straordinaria che mi sia capitata in vita mia, e sono contenta che mi sia successa.» È possibile che il custode si sbagliasse? Sì. Stranamente, però, quando mi recai sul posto, un custode mi raccontò la stessa storia. Forse era un piano per depistare i fan. Quando gli riferii la storia di Gita, Peter si disse sorpreso e non fu in grado di confermarla. «Non lo so. Sospetto che le ceneri siano state divise, che magari i genitori ne abbiano una parte e che Mary ne abbia un’altra… ma chi lo sa per certo? Soltanto loro.» Bohemian Rhapsody fu fu di nuovo distribuita come singolo a Natale, poco dopo la morte di Freddie. Schizzò subito al numero uno, raccogliendo oltre un milione di sterline per il Terrence Higgins Trust, un ente di beneficenza per i malati di AIDS. Il brano più famoso dei Queen uscì anche in America, e gli introiti furono suddivisi fra diverse organizzazioni americane di assistenza ai malati di AIDS tramite la Magic Johnson Foundation. Il 20 aprile 1992, la band era pronta a dare il suo tributo rock’n’roll a Freddie, con un concerto che sarebbe stato poi votato il più grande evento rock degli anni Novanta. Brian disse che la morte di Freddie era stata «come perdere un fratello» e sottolineò che il Freddie Mercury Tribute Concert allo stadio di Wembley non era un concerto dei Queen, anche se la
maggior parte dei partecipanti avrebbero eseguito i brani della band. Quando il concerto fu annunciato, i settantaduemila biglietti andarono esauriti nel giro di due ore, sebbene la line-up definitiva non fosse ancora stata annunciata. L’evento sarebbe stato trasmesso alla radio e in televisione in settantasei Paesi e ripreso da David Mallet per diventare un documentario. Il megaspettacolo iniziò con un filmato di Freddie che faceva vocalizzi. Annie Lennox e David Bowie cantarono Under Pressure, Pressure, Roger Daltrey I Want It All ; gli Extreme fecero Hammer to Fall , George Michael e Lisa Stansfield duettarono su These Are the Days of Our Lives Lives ed Elton John affrontò Bohemian Rhapsody con con Axl Rose. Seal scelse Who Wants to Live Forever , Mick Ronson e Ian Hunter, dei Mott the Hoople, staccandosi dal format basilare, offrirono un commovente tributo cantando All the Youn Dudes di Dudes di Bowie. Così fece pure Robert Plant, interpretando il brano dei Led Zeppelin Thank You (ma You (ma cantò anche Innuendo e Crazy Little Thing Called Love). Love). Tuttavia fu Liza Minnelli che superò tutti con We Are the Champions. Champions. Ma dov’erano Dave Clark, Peter Straker, Tony Hadley ed Elaine Paige? Aretha Franklin, Prince e Michael Jackson? Tanti furono sorpresi dall’inspiegabile assenza di molti cantanti che avevano significato molto per Freddie, e dal fatto che l’elemento «metal» del cartellone non corrispondesse ai gusti di Freddie. La musica di Guns N’ Roses, Metallica e Def Leppard piaceva soprattutto a Brian e a Roger, non a Freddie. Si disse che molti artisti furono scelti perché la loro musica era stata influenzata da quella dei Queen. Altri sostennero che con quel concerto Brian, Roger e John tentavano di ricondurre il loro amato cantante all’interno del recinto dei Queen, in quella che a loro avviso era la sua giusta collocazione, offrendo una retrospettiva dei gusti, delle abitudini di vita e degli ideali originali originali della band. band . Tim Rice sostenne che Elaine Paige fosse rimasta «ferita» dal fatto che Liza Minnelli era stata invitata al posto suo. Molti, inoltre, rimasero sorpresi dall’assenza dell’elemento omosessuale – Boy George, Holly Johnson, Jimmy Somerville, Leee Johns – per commemorare anche quell’aspetto della vita di Freddie. Fredd ie. In mezzo a quegli artisti, artisti, inoltre, inoltre, Pavarotti, Pavarotti, Carreras Carreras e Domingo che cantavano le arie classiche preferite di Freddie sarebbero apparsi molto fuori luogo. Montserrat Caballé era impegnata con
l’inaugurazione dell’Expo di Siviglia, che ebbe luogo in contemporanea al tributo. La soprano avrebbe voluto partecipare con un collegamento via satellite, ma alla fine non si poté fare perché il tributo stesso era trasmesso in mondovisione, in diretta. Nemmeno Elizabeth Taylor, la leggenda di Hollywood e grande attivista contro l’AIDS, con il suo commovente messaggio al pubblico poté compensare per l’assenza della Stupenda. George Michael, che rubò la scena con Somebody to Love, Love, echeggiando il trionfo dei Queen al Live Aid sette anni prima, dichiarò di avere realizzato un sogno che coltivava fin da bambino. «Quando penso a Freddie, ricordo tutto ciò che mi ha dato in termini di tecnica», dice. «Cantare le sue canzoni, specialmente Somebody to Love, Love, ti dà una sensazione pazzesca. Probabilmente è stato il momento più stupendo di tutta la mia carriera.» «George Michael fu magnifico in quel concerto», dichiara Paterno con entusiasmo. «Pensai – e sono certo che lo pensarono in tanti – che avrebbero dovuto prenderlo in considerazione come sostituto per Freddie. Anche se credo che in ultima analisi nessuno potrà mai prendere il suo posto.» Edney, che diede il suo contributo alle tastiere con Moran, si disse rattristato per le reazioni dei media dopo il concerto. Molti critici infatti attaccarono i partecipanti per non essere stati all’altezza di Freddie, dimenticandosi che pochi cantanti nella storia del rock hanno avuto il dono di un’estensione vocale come quella di Freddie Mercury. «Non è giusto dire che nessuno di quei grandi artisti riuscì a cantare quelle canzoni come Freddie», rimugina Edney. «Ma so che molti sentivano il peso della sua ombra. Certo, questo [a Freddie] sarebbe sicuramente piaciuto. Si sarebbe divertito a vederli soffrire. Oltre ad apprezzare il concerto per quel che era – un grande tributo – gli sarebbe piaciuto vedere le sofferenze a cui quei cantanti si erano sottoposti per raggiungere le sue tonalità!» Secondo Edney, la festa che si tenne al termine del concerto riassunse bene l’esperienza dei partecipanti. «Al piano di sopra, vidi Roger appoggiato al muro con lo sguardo perso nel vuoto. Poi vidi Brian poco più in là, con lo stesso sguardo. Mi avvicinai. ‘Come vi sentite?’ dissi. ‘Non riesco a sentire niente’, mi rispose uno di loro. Nessuno si ricordava nulla del concerto. Non
potevi assimilare tutto. Quando finì, pensarono: Oddio, ma cosa abbiamo fatto nell’ultimo mese? E cosa facciamo ora?» La macchina della raccolta fondi si mise in moto. Nel 1992 fu fondato il Mercury Phoenix Trust, per gestire i proventi del concerto e di altre iniziative, con la fenice-simbolo dei Queen come emblema. Ancora oggi la fondazione continua a raccogliere fondi per la lotta all’AIDS in tutto il mondo. George Michael, Lisa Stansfield e i Queen cedettero i diritti d’autore del minialbum «Five Live» al Mercury Phoenix Trust. Nell’aprile del 2002, la fondazione ricevette un ulteriore incentivo quando il concerto fu distribuito in DVD in occasione del suo decimo anniversario, entrando nella classifica inglese direttamente al primo posto. Oggi, a vent’anni di distanza, la fondazione continua a raccogliere proventi. Non c’è dubbio che Jim abbia deciso di scrivere la sua biografia con l’intenzione di offrire un tributo personale al suo amato. L’opera fu però compromessa da un coautore che si concentrò sugli aspetti più sensazionalistici della loro relazione, oltre che sui dettagli personali degli ultimi giorni di vita di Freddie. Di conseguenza Jim fu emarginato dall’entourage dei Queen, una reazione che lo lasciò sconcertato e confuso: fu dovuta certo al fatto che gli amici, il management e i famigliari di Freddie erano ancora addolorati per la scomparsa. Questi non sopportarono che i particolari intimi della morte di Freddie fossero stati dati in pasto al pubblico. Durante il tempo trascorso con Jim nel pittoresco County Carlow, nel sudest dell’Irlanda, dove viveva in un accogliente bungalow costruito con il lascito di Freddie, cinquecentomila sterline, non ebbi alcun dubbio che il suo amore fosse genuino. Jim era un uomo caloroso, umile e corretto. Mi disse che era eternamente grato per avere potuto sperimentare la vita da superstar tramite Freddie. Nel suo giardino mi mostrò orgoglioso le sue rose lilla «Blue Moon», che Freddie adorava. Date le sue origini cattoliche e il fatto che la madre era ancora in vita quando la pubblicò, Jim fu molto coraggioso a scrivere la sua biografia. «Ne parlai con la mia famiglia», mi disse. «In un certo senso cercai il loro assenso, ma mi ero preoccupato per niente. Mi dissero semplicemente che
loro per me ci sarebbero sempre stati e finì lì.» Jim sapeva che Freddie aveva affrontato un dilemma più grande a causa della religione dei genitori. «Ma Freddie non era uno zoroastriano praticante», riflette. «Siccome i genitori lo fecero cremare, le persone presunsero che fosse praticante. Ma in tutti gli anni che passai con lui non lo vidi mai praticare. Non sapevo nulla della religione della sua famiglia, non ne parlavamo mai, ma ricordo che a volte la notte lo sentivo pregare. pregare. In che lingua? In inglese. Chi pregava? Non lo so. A volte gli chiedevo con chi parlasse e lui mi rispondeva con un sussurro: sussurro: ‘Sto solo dicendo le mie preghiere’.» Gli uffici dei Queen in Pembridge Road chiusero dopo la morte di Freddie, così come i Mountain Studios, quando David Richards smantellò le sue attrezzature e si trasferì nelle Alpi sopra Montreux. L’entrata coperta di graffiti (e i fantasmi dello studio) sono tutto ciò che resta. Ma tutti quelli che presumevano che la storia dei Queen sarebbe terminata amaramente con la morte del cantante, si sbagliavano. «Made in Heaven», il quindicesimo album in studio della band debuttò al numero uno nel 1995, quattro anni dopo la morte di Freddie. Si stima che abbia venduto venti milioni di copie in tutto il mondo. È una raccolta impeccabile, fatta con diligenza e dedizione. Piena di vitalità e mortalità è sia un requiem sia una vetrina per la diva che c’era in Freddie. Fredd ie. Un brano partico particolarmente larmente significativo, a mio avviso, è Mother Love. Love. Su musiche di Brian, la voce struggente di Freddie ci riporta come in un flashback a una sequenza di incandescenti esibizioni dal vivo, a un riff di chitarra di A Kind A Kind of Magic e a un frammento di Goin’ Back, Back, il brano di «Larry Lurex» dei giorni della Trident. «I think I’m going back / to the things I learnt so well / in my youth» («Mi sa che ritorno / alle cose che ho imparato così bene / in gioventù»). Il pianto di un neonato, che di certo simboleggia la morte oltre che la rinascita del cantante, conclude in modo spettrale il brano. L’altro mio pezzo preferito di quell’album è A Winter’s Winter’s Tale, Tale, il canto del cigno di Freddie, scritto e composto nell’appartamento di Montreux che si affacciava sull’amato lago. Il testo, che descrive quel che Freddie vedeva dalla finestra, celebra la pace e l’appagamento che trovò verso la fine. Il titolo, forse un omaggio alla commedia romantica di Shakespeare Il racconto
d’inverno, d’inverno, rivela qualcosa sulle prime fonti di ispirazione di Freddie. Uno dei protagonisti della commedia shakespeariana è Polissene, re di Boemia. Come tale, potrebbe avere ispirato Bohemian Rhapsody . Se, come presumono molti studiosi del Bardo, la commedia era un’allegoria sulla fine di Anna Bolena, allora il suo personaggio Perdita era basato sulla figlia di Anna ed Enrico VIII, la futura Elisabetta I, regina d’Inghilterra... L’ultimo lavoro di Freddie sarebbe quindi legato alla prima grande hit della band? Non è impossibile. Ci sono molti monumenti commemorativi, fra cui la statua di Freddie a opera di Irena Sedlecka eretta a Montreux in riva al lago. Fu svelata da Montserrat Caballé il 25 novembre 1996, nel quinto anniversario della morte. La cerimonia fu aperta dal sindaco di Montreux, di fronte ai genitori e alla sorella di Freddie, al fondatore del Montreux Jazz Festival Claude Nobs, a Brian e a Roger. Il monumento è oggi uno dei più frequentati in Svizzera ed è anche diventato il centro dei pellegrinaggi annuali dei fan che si radunano per festeggi fe steggiare are il compleanno del de l loro idolo. «Inaugurare la statua fu uno dei momenti più difficili della mia vita», dichiarò Brian a Q nel 2011. «Ovviamente era un tributo bellissimo e la cerimonia fu davvero commovente, ma all’improvviso mi sentii pieno di rabbia. Pensai: Questo è tutto quel che resta del mio amico e tutti credono che sia normale e favoloso, ma in realtà è orribile che io sia qui a guardare un pezzo di bronzo plasmato a immagine e somiglianza del mio amico che non c’è più.» Uno speciale «balletto per la vita», Le Presbytère n’a rien perdu de son charme ni le jardin de son éclat («Il presbiterio non ha perduto il suo fascino, né il giardino il suo splendore»), fu creato cinque anni dopo la morte di Freddie dal coreografo Maurice Bejart del Bejart Ballet di Losanna, per celebrare la vita di Freddie e quella del primo ballerino della compagnia, Jorge Donn. Il balletto mette in scena musiche dei Queen e di Mozart e si apre con It’s a Beautiful Day , la prima canzone di «Made in Heaven» e si conclude con The Show Must Go On, On, l’ultima traccia di «Innuendo». Debuttò al Theatre de Chaillot di Parigi nel gennaio del 1997, in presenza di madame Chirac (moglie dell’allora presidente francese) con la partecipazione di Elton John, Brian, Roger e John. Fu l’ultima occasione in cui il bassista si esibì con i compagni. Dopo la morte di Freddie, infatti, Deacon era caduto in depressione. Aveva perso il padre a soli undici anni e
quindi la morte dell’amico aveva risvegliato in lui ricordi ed emozioni irrisolte. A un certo punto iniziò a frequentare un club di lap-dance e a uscire con una ballerina venticinquenne: le regalò un appartamento, un’automobile e altre cose costose. Quella relazione sconsiderata fallì, dopodiché, comprensibilmente, John volle ritirarsi con la moglie e la famiglia. Lasciò la band ufficialmente nel 1997. «Adesso fa una vita molto appartata», commentò Brian. «Comunica via e-mail quando ci sono questioni di affari, ma questo è tutto.» Brian e Roger, invece, non erano affatto pronti a ritirarsi dalle scene e sapevano che a tempo te mpo debito sarebbe saltata fuori fu ori l’occ l’occasione asione giusta. Nel giugno del 2002, Brian suonò God Save the Queen Queen sul tetto della residenza reale di Londra (in memoria, disse, di Jimi Hendrix), per aprire il «Party at the Palace», un concerto voluto per commemorare il giubileo d’oro di Sua maestà la regina Elisabetta II. Nel 2004, collaborò per la prima volta con Paul Rodgers, l’ex frontman dei Free e dei Bad Company, al concerto Fender Strat Pack. Entusiasta per la sintonia che si creò con il cantante, lo persuase a suonare con i Queen per celebrare l’entrata della band nella Music Hall of Fame britannica. Poi nel 2005 Brian, Roger e Paul annunciarono un tour mondiale come «Q + PR», un nome scelto per sottolineare che il cantante non sostituiva Freddie, ma faceva parte di un progetto diverso, una sorta di variazione sul tema. La band si esibì in Sud Africa per la campagna di sensibilizzazione sull’AIDS 46664 di Nelson Mandela, dopodiché continuò la tournée con Edney alle tastiere inanellando ventitré date in Nord America. Due anni dopo, i Q + PR si esibirono all’Hyde Park per il novantesimo compleanno di Nelson Mandela, degno epilogo delle polemiche legate al loro primo concerto in Sud Africa. Poi partirono per una grande tournée europea. Mentre questo libro va in stampa la collaborazione è sospesa, ma tutti gli interessati sostengono che rimane aperta e si dedicano a progetti solisti, in particolare Brian, che nel 2011 ha prodotto il primo album della star del musical anglosassone Kerry Ellis, intitolato «Anthems». Per il diciottesimo anniversario della morte di Freddie, il 24 novembre del 2009, circa duemila fan di tutto il mondo si riunirono nel centro di Feltham per assistere all’inaugurazione di una lapide commemorativa in stile stella hollywoodiana, da parte di Brian e della madre del cantante. È la prima targa nel Regno Unito che celebra il frontman dei Queen (se si
esclude l’enorme manichino che capeggia sopra il Dominion Theatre, dove va in scena il musical We Will Rock You). You). «Feltham è stata la sua prima residenza in Inghilterra quando siamo arrivati da Zanzibar ed è il posto in cui ha cominciato a esplorare il suo futuro da musicista», dice la ottantasettenne Jer Bulsara. «Freddie, abbiamo seguito il tuo sogno, il nostro sogno. Ti amiamo e ti ameremo per sempre», disse Brian. «Siamo felicissimi di onorarti in questo modo.» Stormtroopers in Stilettos Stilettos (titolo che replica in maniera quasi identica un brano tratto dal terzo album dei Queen, «Sheer Heart Attack») è invece una mostra itinerante che ripercorre in chiave nostalgica i primi anni della band. È stata inaugurata nel 2011 per celebrare il quarantesimo anniversario dei Queen, un anno di festeggiamenti che ha visto anche la firma di un nuovo contratto discografico con la Island Records. Verso la fine del 2010, Graham King annunciò di voler girare un lungometraggio sulla vita di Freddie. Il film è coprodotto dalla TriBeca Films di Robert De Niro e dalla Queen Films. Il ruolo di Freddie è interpretato da Sacha Baron Cohen, la stella di Borat e Brüno, Brüno, su sceneggiatura di Peter Morgan, autore di molte pellicole di successo tra cui The Queen, Queen, Frost/Nixon e L’ultimo re di Scozia. Scozia. «Freddie Mercury era un interprete che ispirava meraviglia e soggezione», commenta King, «quindi con Sacha nel ruolo principale, il copione di Peter e il sostegno dei Queen, abbiamo la formula perfetta per raccontare la vera storia del loro successo.» La sceneggiatura di Morgan parte dai primi anni Ottanta, quando i Queen sono crollati in America e appaiono oramai in declino, ma vengono «salvati» dalla grande esibizione del Live Aid e dalla successiva tournée mondiale. Il ritrovato successo, però, è rovinato dalla malattia di Freddie... Al momento in cui questo libro è andato in stampa non è stata annunciata alcuna data di produzione o uscita del film. Dopo la scomparsa di Freddie, la reputazione e il successo dei Queen hanno continuato a crescere, in parte grazie anche al trionfo del musical We Will Rock You. You. Ambientato in un universo parallelo in cui il rock è vietato e dove i Bohemian, Bohemian, una banda di ribelli amanti della musica, attendono l’arrivo di un eroe, il musical è stato scritto dal comico Ben Elton sulla musica dei grandi successi dei Queen. Dalla première londinese (al
Dominion Theatre di Tottenham Court Road) nel 2002 a oggi, la produzione ha sempre registrato il tutto esaurito, ogni sera, e non mostra segni di cedimento. Sono state prodotte ventisette versioni diverse in altrettanti Paesi, ha vinto l’Olivier Audience Award di BBC Radio 2 nel marzo 2011, e nel 2013 diventerà anche un film. Ma il musical potrebbe non essere per tutti i palati. In effetti, alcuni hanno accusato Brian e Roger di essersi «venduti». A chi importa? Non ai Queen. La grande popolarità dello spettacolo parla per sé. Secondo Gambaccini: «Il ruolo fondamentale di We Will Rock You è stato di portare la musica dei Queen a milioni di giovani che non erano ancora nati quando Freddie era in vita e quando la band originale si esibiva dal vivo». Come si sarebbe sentito Freddie se avesse saputo che la sua band sarebbe diventata ancor più famosa dopo la sua morte? «Sarebbe stato contentissimo», afferma Gambaccini. «Gli sarebbe piaciuto moltissimo. [Freddie] oggi è più grande di Liza Minnelli: ti immagini che emozione, che gioia, avrebbe provato? Amava le dive; le adorava. Liza, Montserrat… le venerava. Sarebbe stato elettrizzato se avesse saputo quanto sarebbe stato stimato. Voglio dire, oggi molti giovani mi chiedono l’amicizia su Facebook perché sanno che ho conosciuto Freddie. Peter Freestone è un idolo di quel gruppo. È una carriera in tutto e per tutto. Si travestono, organizzano tributi, fanno il ‘Freddie for a Day’ [un evento in cui i fan di tutto il mondo si vestono come il loro idolo il giorno del suo compleanno, per raccogliere fondi per il Mercury Phoenix Trust ], di tutto. È affascinante. Nessuno di loro era ancora nato, o era interessato, quando Freddie era in attività. La loro è una reazione al Freddie Mercury storicizzato, non all’uomo che avrebbero a vrebbero potuto conoscere conoscere di persona.» Chi l’ha conosciuto, oggi prosegue quella che non sarà mai un’esistenza normale. Oggi John Deacon, dopo avere archiviato gli anni di follie dei Queen nei recessi della propria mente inquieta, è un tranquillo padre di famiglia. Brian, nominato «comandante dell’ordine dell’impero britannico» per i servizi resi all’industria discografica, dedica il tempo alla seconda moglie Anita, ai tre figli oramai grandi, all’astronomia e alla protezione delle volpi. volpi. Dopo Debbie, De bbie, Roger si è rispos risposato ato con la giovane giovane Sarina, Sarina, sua fidanzata
da sei anni: ha cinque figli in totale. Come per Brian, anche per lui la musica rimane una priorità. Potrà sembrare incredibile, ma nel Regno Unito i Queen hanno superato i Beatles per successi in classifica. Nel 2006 il loro «Greatest Hits» è diventato l’album più venduto nel Paese, con quasi cinque milioni e mezzo di copie vendute. «Greatest Hits II» si è piazzato al settimo posto, con oltre tre milioni e mezzo di copie vendute. I Queen hanno prodotto un totale di diciotto album andati al numero uno in classifica, diciotto singoli numeri uno e dieci DVD numeri uno nel mondo, e questo li rende la band che ha venduto più dischi in assoluto. Si stima stima che le vendite totali sfiorino sfiorino i trecento milioni di sterline, di cui trentadue milioni e mezzo solo negli USA. I Queen sono anche l’unico gruppo in cui ogni membro ha composto una numero uno. We Will Rock You You è stata adottata come inno sia dai New York Yankees sia dal Manchester United. We Are the Champions Champions resta il brano più suonato di tutti i tempi, intonato da milioni di tifosi in tutto il mondo. Freddie stesso lo descrisse come «il pezzo più egoistico e arrogante che abbia mai scritto». «Sento che Freddie è ancora qui, per certi versi, perché la sua musica c’è ancora», afferma Kashmira. «Era mio fratello, ma anche una megastar. Non so cosa significhi avere un fratello normale, perché il mio era davvero straordinario.» «Freddie era il mio migliore amico», confessò Roger in un momento di franchezza. «Non ho mai superato la sua morte. Nessuno di noi lo ha fatto. Tutti pensavamo che ce l’avremmo fatta nel giro di qualche anno, ma avevamo sottovalutato l’impatto che Freddie aveva avuto sulle nostre vite. Mi fa ancora male parlarne. Il nostro presente – e il nostro futuro – senza Freddie è impossibile da immaginare. Devo affrontarlo giorno per giorno.» Il Freddie che manca a Roger è l’anima che si celava dietro la superstar, l’essere profondamente umano che si innamorò di un sogno. Forse deluse qualcuno, ma fece la gioia di milioni. Le cose dovevano essere fatte a modo suo. Non offriva scuse e quindi non si aspettava solidarietà. Forse a volte si sentì intrappolato dalle sue stesse contraddizioni, ma furono proprio le sue canzoni a liberarlo. Al pagliaccio triste che ha riso per ultimo... e a Brian e Roger, che vanno
avanti, in sua memoria. Qualcuno può accusarli di non avere tenuto viva la scintilla? Io no di certo.
Ringraziamenti
GRAZIE , con amore: Ad Hannah Black, la mia bravissima editor, per i suoi consigli e per la passione che dedica al suo lavoro. Anche a Camilla Dowse, Kate Miles, Alice Howe, Kerry Hood, Bea Long, Jason Bartholomew e a tutti i collaboratori della Hodder & Stoughton che si sono dedicati alla causa con impegno; la loro esuberanza e la loro determinazione a raggiungere i traguardi sono state un vero piacere. A Ivan Mulcahy, il mio fantastico agente, per il suo incoraggiamento costante, la sua amicizia e il suo sostegno. Anche a Laetitia Rutherford, Stephanie Cohen e Jonathan Conway della Mulcahy Conway Associates; è un privilegio conoscere persone così positive e lavorarci insieme. A Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon per la musica che entusiasma i miei figli tanto quanto ha entusiasmato me. Ai molti amici, colleghi e collaboratori generosi, oltre che alle figure chiave della vita di Freddie Mercury, che hanno aperto i loro cuori e il loro libro dei ricordi per me, e che mi hanno aiutato a creare questo libro in un modo o nell’altro, la maggior parte dei quali (spero) sono ricordati in questo elenco: Tim Rice, Steve Harley, Phil Swern, Andy Hill, Jim Diamond, Steve Levine, Mick Rock, Dan Arthure, Jonathan Morrish, Leee John, Frank Allen, David Wigg, Clare Bramley, Francis Rossi, Dave Hogan, Nigel Angel, Bob Lefsetz, Peter Paterno, James Saez, Eddie Delena, Reinhold Mack, Rick Wakeman, Ben Wakeman, John Waite, Elton John, Jamesie, Kim Wilde, Nick Boyles, Chris Hewlett, Henry Semmence, Alan Edwards, James Nisbet, Scott Millaney, Simon Napier-Bell, Richard Hughes, Robert Lee, Gray Jolliffe, David Hamilton, David «Kid» Jensen, Paul Gambaccini, Spike
Edney, David Stark, John Fleming, Jeff Griffin, James Khalaf, Nick Fitzherbert, Paula Fitzherbert, Louis Souyave, Tony Hadley, Carolyn Cowan, Bernard Doherty, Tony Bramwell, Harvey Goldsmith, Pete Smith, Peter Freestone, Mike Read, Michael Appleton, Bob Geldof, Fiz Shapur,Andrew MacGillivray, Lindsay Martins, Jude Martins, Alicia Martins, Daniel Martins, Jeremy Norman, David Thorpe, Rolf Harris, Denis O’Regan, Peter Hillmore, Edmund Preston, David Quantick, Phil Symes, Jerry Hibbert, Chris Poole, Shernaz Screwaller, Michael Anastasios, Dominic Denny, Jim Jenkins, Gerd Kochlin, Nick Elgar, Stuart White, David Syner, Toby Rose, Sandy Evans, Bonzo Fernandez, Perviz Darunkhanawala, Diana Darunkhanawala, Nancy Galloway, Nasser K. Awadh, professor Abdul Sheriff, Hamari Omar, Kevin Patience, Sheroo Khory, Morris W. Innis, Cyrus Ghandy, Janet Smith, Gita Choksi, il signore e la signora Davis, Marcela Delorenzi, Hollow Skai, Tomas Petterson, Paul Davies, Saskia Campbell, Annabel Lord, Frank Warren, Laura Morris, John McFaul, Stephen Kahn, Mike Stone, Michael Charidemou, Anthony Lee, Linda Plant, Rita Rowe, Robert Kirby, Chris Griffin, Wendy Reid, Phil Mackney, Jessica Mackney, Rachel Tarnoy, Dominic Collier, Alison Miller, Claire Weeks, Lia Policane, Sharron Nasir, Pauline Thomson, Julie IvesRoutleff, Karen French, Bill e Rachel Leigh, Maureen e Ghee Ong, Jan Moore, Jane Stone. Il professore Edward G. Hughes della McMaster University, Hamilton, Ontario. Il dottor Cosmo Hallstrom, Londra. Bernie Katz, June Cluskey, Kent Olesen, Matthew Hobbs, Vincent McGrath e amici, il Groucho Club. Club. Bob, Jim, Nick e Dave, Right Turn Left R.I.P. Kelvin Mackenzie, Rod Gilchrist, Lynda Lee-Potter, Nigel Dempster, Bob Hill, Nick Gordon, John Koski, John Chenery, Herbert Kretzmer, Jack Tinker, Baz Bambigoye, Sean Usher, Pat Hill, Anne Barraclough, Steve Absolom, Geoff Sutton, Roger Tavener, Richard Young, Alan Davidson, Alan Grisbrook, Dave Benett, Geoff Baker, Annette Witheridge, Gill Pringle, Rick Sky, Martin Dunn, Nick Ferrari, David Wigg, John Blake, Piers Morgan, Hugh Whittow, Adam Helliker, Martin Townsend, Lisa Clark, Rachel Jane, Stephen Rigley, Clair Woodward, Amy Packer: gli anni di Fleet Street.
Un ringraziamento speciale a Dave Hogan e David Stark. Sono in debito con Roger Tavener per i suoi appunti e ricordi della nostra notte con Freddie Mercury a Montreux. Un grazie sentito a Jim Beach, Phil Symes, alla madre di Freddie, Jer Bulsara e alla sorella Kashmira Cooke. Christopher Millard ed Elizabeth Bell, la Royal Opera House. Imperial College, Londra Ealing College of Art, Londra University of Westminster, Londra Trident Studios, Londra De Lane Lea Studios, Studios, Londra I Like Music, Londra Associated Associated Newspapers, Londra News International, Londra Trinity Mirror PLC, Londra British British Library Newspapers, Newspapers, Colindale Colindale,, Londra The Groucho Club, Club, Londra Soho House, High Road House & Shoreditch House, Londra Babington Babington House, Somerset Somerset Zanzibar Museums, Zanzibar University University of Dar Da r es Salaam, Tanzania St Peter’s School, School, Panchgani, India Norbert Muller & Montreux Music, Switzerland Switzerland www.montreuxmusic.com Billboard Billboard USA www.billboard.com Record Plant Studios, Los Angeles Hollywood Records / The Walt Disney Company, Los Angeles Soho House, West Hollywood New York Daily News Soho House, New York The Mercury Phoenix Trust www.mercuryphoenixtrust.com 46664 Nelson Mandela HIV/AIDS Awareness Campaign www.46664.com
Child Hope www.childhope.org.uk UK National AIDS AID S Trust www.nat.org.uk Bone Cancer Research Trust www.bcrt.org.uk Sito ufficiale dei Queen www.queenonline.com Sito ufficiale di Freddie Mercury www.loveroflifesingerofsongs.com Freddie For a Day Global Charity Network www.freddieforaday.com Sito ufficiale degli Who www.thewho.com www.lesleyannjones.com e-mail:
[email protected] In memoriam: Rose Allocca, Poly Styrene, Peter Batt, Gerry Sanderson, John Entwistle, Roger Scott, Kenny Everett, Ginny Comely, Barbara Valentin, Pat Stead, Giles Gordon,Tony Brainsby,Tommy Vance, Jim Hutton, Liam McCoy, John Sutton, Lester Middlehurst, Sir Henry Cooper. Qualsiasi omissione è involontaria. Sono sinceramente grata a tutte le persone coinvolte in questo progetto per il loro inestimabile aiuto. Nessuna delle persone citate sopra è responsabile per le mie opinioni personali espresse in questo libro.
Cronologia
5 settembre 1946 1951
Farrokh Bulsara nasce a Zanzibar. Zanzibar.
Viene iscritto Viene tto alla alla Zanz Zanziibar bar Mi Misssionar onaryy School hool.. Farrokh in collegio alla St Peter’ Pete r’ss School, Panchgani, India. Ind ia. 1955-1963 Cambia nome in Freddie. Crea la sua prima band, gli Hectics. Freddie Fredd ie torna a Zanzibar e completa completa gli studi alla St Joseph’s 1963 Convent School. Rivoluzio Rivoluzione ne di Zanzibar, Zanzibar, a gennaio. Freddie Fredd ie e famiglia famiglia si 1964 rifugiano rifugiano nel Regno Unito. 1964-1966 Freddie Freddie studia studia arte arte alla alla Islewor Isleworth th Poly Polytec techni hnicc Schoo School.l. Freddie si iscrive all’Ealing College of Art nel corso di 1966 grafica e illustrazione. Va a vivere da solo e incontra Tim Staffell, che suona in un gruppo con Brian May. Freddie si diploma all’Ealing College of Art; allestisce un banchetto al mercato di Kensington con Roger Taylor; 1969 incontra le band Smile e Ibex; lancia il suo secondo gruppo, i Wreckage; incontra Mary Austin. Brian, Roger Roger e Freddie Fredd ie si si uniscono uniscono e formano formano i Queen. Quee n. Aprile 1970 Freddie Fredd ie cambia il cognome cognome in Mercury. 1970 Jim Jimi Hendr endrix, idolo dolo di Freddi Freddie, e, muor uore il 18 sett ettembr embre. e. Febbraio 1971 Il bassista John Deacon si unisce ai Queen. 1972 19 72 I Qu Quee een n sono scritturat uratii da dallla Trident dent.. I Queen firmano un contratto discografico con la EMI e debuttano con il singolo Keep Yourself Alive, Alive, e l’album 1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
«Queen» a luglio. Girano il Regno Unito in tournée come spalla dei Mott the Hoople. Nasce il primo fan club ufficiale. Escono il singolo Seven Seas of Rhye e l’album «Queen II», a marzo. La band intraprende la prima tournée nel Regno Unito e fa da supporto ai Mott the Hoople negli USA, ad aprile. Escono il singolo Killer Queen e Queen e l’album «Sheer Heart Attack», in ottobre e novembre. Entrambi entrano nella Top Ten negli USA. Primo tour negli USA e in Giappone. Freddie vince un premio Ivor Novello come autore di Killer Queen. Queen. I Queen rescindono il contratto con la Trident. Il manager di Elton John, John Reid, diventa il manager manager dei Queen. Bohemian Rhapsody esce esce il 31 ottobre. «A Night at the Opera» esce a novembre. Bohemian Rhapsody è è la prima numero uno nel Regno Unito della band, a novembre, e procura a Freddie un altro Ivor Novello. Secondo tour negli USA. Tutti e quattro gli album fra i primi venti in classifica nel Regno Unito. Tour in Giappone e in Australia. Grande concerto gratuito a Hyde Park, Londra, il 18 settembre. Esce «A Day at the Races» in dicembre. Tour mondiale. Esce We Are the Champions, Champions, ottobre. Bohemian Rhapsody vince vince un Britannia Award. Esce «News of the World». L’avvocato Jim Beach negozia la cessazione del contratto con John Reid e assume il controllo delle questioni legali della band. I Queen creano una squadra di management personale, che comprende Paul Prenter. Tour europeo. A ottobre la band festeggia l’uscita di «Jazz» con una festa trasgressiva la notte di Halloween a New Orleans. I Queen iniziano a registrare ai Musicland Studios di Monaco. A giugno esce «Live «L ive Killers» Killers». Freddie partecipa a un galà di beneficenza con il Royal Ballet al London Coliseum. Coliseum. Incontra Peter Freestone, suo futuro assistente personale.
1980
1981
1982
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Crazy Little Thing Called Love al Love al numero uno in diversi Paesi fra cui per la prima volta gli USA. Freddie acquista Garden Lodge, sontuosa dimora londinese. I Queen iniziano un epico tour negli USA. A giugno esce «The Game» che diventa il primo album numero uno negli USA per la band. Anothe band. Anotherr One Bites the Dust Dus t al al primo posto negli USA e in diversi altri Paesi. Due nomination ai Grammy Awards. Awards. I Queen entr e ntrano ano nel Guinness dei primati. primati. Esce l’album «Flash Gordon». Tour in Sud America. Freddie celebra il compleanno con una festa di cinque giorni a New York. A novembre esce la raccolta «Greatest Hits». I Queen firmano un nuovo contratto con la EMI per altri sei album. A maggio esce «Hot Space». Under Pressure, Pressure, il singolo con David Bowie, raggiunge il primo posto. Tour americano in cui la band riceve le chiavi della città di Boston. Freddie Fredd ie incontra Winnie Winnie Kirchberger Kirchberger e Barbara Valentin a Monaco, e Jim Hutton a Londra. Inizia a incidere il suo primo album solista a Monaco. A febbraio esce «The Works». I Queen ricevono un Brit Award per il loro «eccezionale contributo alla musica britannica». Spike Edney si unisce alla band come tastierista durante le tournée. Controversa esibizione a Sun City in Sud Africa che provoca l’espulsione della band dalla Musicians’ Union. A gennaio i Queen aprono il festival Rock in Rio, poi partono per una tournée in Nuova Zelanda, Australia e Giappone. Rubano la scena al Live Aid, a Wembley. Freddie lascia Monaco per sempre e torna a Londra. Magic Tour in Europa. A giugno esce l’album «A Kind of Magic», Magic», colonna sonora sonora del d el film Highlander . Freddie si ritira dalle scene per mettere su casa a Garden Lodge con Jim Hutton, Peter Freestone e Joe Fanelli. A febbraio Freddie pubblica la cover di The Great Pretender .
1987
1989 1990 1991
Il mese successivo incontra Montserrat Caballé a Barcellona per discutere di una possibile collaborazione. Il suo ex manager personale Paul Prenter lo tradisce rivelando la sua condizione di salute alla stampa. A ottobre Freddie si esibisce al La Nit Festival, a Barcellona, davanti ai reali di Spagna. Lo stesso mese esce l’album con Montserrat Caballé, «Barcelona». A maggio maggio esce «The Miracle» Miracle».. I Queen sono votati «la band degli anni Ottanta». I Queen Quee n ricevono ricevono un Brit Award per il loro «eccezionale contributo alla musica britannica». Il singolo Innuendo diventa Innuendo diventa la prima numero uno della band in dieci anni. L’album omonimo esce a febbraio. I Queen iniziano a incidere «Made in Heaven».
Freddie Mercury muore. Bohemian Rhapsody esce esce come singolo singolo di Natale, Na tale, raccogli raccogliend endoo oltre un milione milione di sterline 24 novembre per il Terrence Higgins Trust. Esce anche negli Stati Uniti 1991 dove i proventi vengono devoluti a diverse organizzazioni che si occupano della lotta all’AIDS tramite la Magic Johnson Foundation. Mercury Tribute, megaconcerto a Wembley, lunedì di 1992 Pasqua. Viene fondato il Mercury Phoenix Trust per la lotta all’AIDS. Jim Hutton pubblica un libro di memorie dove racconta 1994 della sua vita insieme con Freddie. 1995 1995 Esce «M «Mad adee in Heav eaven» en» che debut debuttta al primo posto. Inaugurata a Montreux la statua di Freddie Fredd ie di Irena 1996 Sedlecka. Le Presbytère: Ballet for Life in Life in onore di Freddie debutta a 1997 Parigi, con musiche dal vivo dei Queen. John Deacon lascia la band. Brian suona God Save the Queen sul Queen sul tetto di Buckingham Palace per il giubileo d’oro della regina Elisabetta II. Il 2002 musical We Will Rock You debutta al Dominion Theatre di
2004
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2008 2009
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Londra e verrà poi replicat replicatoo in ventisette ve ntisette Paesi. Brian si esibisce al Fender Strat Pack, dove incontra nuovamente Paul Rodgers, cantante dei Free e dei Bad Company. Brian, Roger e Paul Rodgers annunciano un tour mondiale come «Q + PR». La band si esibisce anche al concerto sudafricano per la campagna contro l’AIDS di Nelson Mandela. Brian viene nominato «comandante dell’ordine dell’impero britannico» per servizi resi all’industria discografica. I Q + PR iniziano un tour di ventitré date in Nord America. «Greatest Hits» diventa l’album più venduto nel Regno Unito, superando «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band» dei Beatles. Si stima che le vendite totali siano intorno ai trecento milioni di copie. I Q + PR si esibiscono a Hyde Park per il novantesimo novante simo compleanno di Nelson Mandela. Targa Targa commemorat commemorativa iva per Freddie Fredd ie inaugurata dalla madre a Feltham di fronte a duemila fan. Quarantesimo anniversario dei Queen. Inaugurata a Londra la mostra itinerante Stormtroopers in Stilettos. Nuovo contratto discografico con la Island Records. A marzo escono tutti e cinque i primi album della band, in versione rimasterizzata ed estesa. A giugno seguono i successivi cinque e poi altrettanti a settembre, in occasione di quello che sarebbe stato il sessantacinquesimo sessantacinquesimo compleanno compleanno di di Freddie.
Discografia
Nel 2011 è uscita una versione rimasterizzata ed estesa di tutti e quindici gli album in studio dei Queen. Queen. Ulteriori informazioni sul s ito www.queenonline.com ALBUM DEI QUEEN
Le date fra parentesi si rife r iferiscono riscono all’uscita al l’uscita negli USA, USA, se nota.
«Queen» «Queen een II» «Sheer Heart Heart Attack» Attack» «A Night at the Opera» «A Day at at the Races» Races» «News of the World» World» «Jazz» «Li «Live Killer lers» «The «T he Game» ame» «Flas «Flashh Gordo ordon» n» «Gr «Greates eatestt Hits» ts»
13 luglio 1973 (4 settembre 1973) 8 marzo 1974 (9 aprile 1974) 8 novembr novembree 1974 (12 novembre novembre 1974)
«Ho «Hot Space» ace» «The «T he Works» ks»
21 magg aggio 19 1982 82 (25 (25 magg aggio 19 1982 82)) 27 febb ebbraio aio 19 1984 84 (28 (28 febb ebbraio aio 19 1984) 84) 2 dicembre 1985: cofanetto in edizione limitata con tutti gli album preced precedenti enti eccetto «Greatest Hits», e con un album speciale, «Complete Vision», che raccogli i lati B dei singoli.
«The Complete Complete Works»
21 novembr novembree 1975 (2 dicembr dicembree 1975) 10 dicembre dicembre 1976 (18 dicembr dicembree 1976) 28 ottobr ottobree 1977 (1° novembre novembre 1977) 10 novembre 1978 (14 novembre 1978) 22 giugno ugno 19 1979 79 (26 (26 giugno ugno 19 1979 79)) 30 giugn ugno 19 1980 80 (30 giugn ugno 19 1980 80)) 8 dic dicembr embree 1980 1980 (27 (27 gennai ennaioo 1981) 1981) 2 nove novem mbre bre 1981 1981 (3 nov novembr embree 1981) 1981)
«A Kind Kind of Magic Magic»» «Live Magic» «The «T he Mi Mirracl acle»
2 giugn giugnoo 1986 (3 giugn giugnoo 1986) 1° dicemb embre 1986 22 magg aggio 19 1989 89 (6 giugno ugno 1989) 1989) 4 dicembre 1989: ripubblicato nel maggio 1997 «Queen at the Beeb» come album doppio, rimasterizzato e contenente tutti i brani registrati per la BBC. «Inn «Innue uend ndoo» 4 febb ebbraio aio 19 1991 91 (5 febb ebbraio aio 19 1991 91)) «Gr «Greates eatestt Hits II» II» 28 otto ottobr bree 1991 1991 «Cla «C lass ssiic Qu Queen een»» 3 marz arzo 1992 1992 (sol (soloo USA) USA) «Live at Wembley Wembley ’86» 26 maggi maggioo 1992 (2 giugno giugno 1992) 1992 ) 26 maggio 1992. Include «The 12 Collection «Box of Tricks» Greatest Hits» (con tracce diverse, 15 settembre 1992 solo negli USA) «Made in Heaven» Heaven» 6 novemb novembre re 1995 (7 novemb novembre re 1995) CONSIGLIATI
«The Plati «The Platinum num Collec Collecti tion: on: Greates Greatestt Hits Hits I, II & III» «Absolute Greatest» «Deep Cuts, Volume I (73–76)» «The Singles Collection Volume I» «The Singles Collection Volume II» «The Singles Collection Volume III»
Novemb Novembre re 2000 Novembre 2009 Marzo 2011 Dicembre 2008 Giugno 2009 Ottobre 2010
ALBUM DI FREDDIE MERCURY
«Mrr. Bad «M Bad Guy» uy»
29 ap aprrile 1985 1985 (7 magg aggio 19 1985 85))
Con Montserrat 10 ottobr ottobree 1988 e 10 agosto agosto 1992 (14 luglio luglio 1992) Caballé: «Barcelona» «The Freddie Mercury Album» «Freddie Mercury
16 novembre 1992 (uscito negli USA come «The Great Pretender», 24 novembre 1992) in vari stati 1993 (non negli USA)
Remixes» CONSIGLIATI
23 ottobre ottobre 2000 Panoramica completa della carriera di Freddie Mercury, fra i cofanetti più completi della Queen Productions, comprende esclusive bonus track e remix, pezzi strumentali; le «rarità» ovvero le session «Mr. Bad Guy», «Barcelona» e altre, più un’esclusiva intervista con Freddie di David Wigg, oltre a molte fotografie rare, disegni e scritti di Freddie. «The Solo Collection Box Set»
«Lover of Life, Singer of Songs: The Very Best of Freddie 5 settembre Mercury» 2006 Una doppia compilation per celebrare quello che sarebbe stato il sessantesimo compleanno della star. Autentica celebrazione di Freddie e della sua musica. C’è tutto. SINGOLI
COM OME E LARRY LUREX :
I Can Hear Music
29 giugno 1973 197 3
FREDDIE MERCURY :
Love Kills 10 settembr settembree 1984 (11 settembr settembree 1984) I Was Born to Love You 9 aprile aprile 1985 198 5 (23 aprile aprile 1985) 198 5) Made in Heaven 1° luglio 1985 198 5 Living On My Own 2 settembr settembree 1985 (2 luglio luglio 1985) Love Me Like There’s No Tomorrow 18 Tomorrow 18 novembre 1985 PER IL MUSICAL T IM IM E :
Time The Great Pretender
6 maggio maggio 1986 198 6 23 febbraio 1987 198 7 (3 marzo marzo 1987) 198 7)
DA «BARCELONA», ARCELONA», C ON MONTSERRAT CABALLÉ
Barcelona The Golden Boy How Can I Go On?
26 ottobre ottobre 1987 198 7 24 ottobre ottobre 1988 198 8 23 gennaio gennaio 1989
SINGOLI POSTUMI
Barcelona 27 luglio 1992 199 2 How Can I Go On? Ottobre Ottobre 1992 199 2 In My Defence Defence 30 novembr novembree 1992 The Great Pretender 5 gennaio gennaio 1993 (12 novembr novembree 1992) Living On My Own 19 luglio 1993 199 3 Questa nuova uscita di Living On My Own è Own è il singolo più venduto di Freddie, primo singolo di un membro dei Queen a raggiungere il primo posto in classifica, l’8 agosto 1993. Per ulteriori informazioni su singoli, cofanetti, bootleg, dischi non ufficiali e album tributo, e Queen + Paul Rodgers e altro, vedi: http://www.queenpedia.com/index.php?title=Discography
Bibliografia consigliata
BLAKE , MARK , Is This the Real Life? The Untold Unt old Story of Queen, Queen, Aurum Press Press Ltd, Londra 2010. 2010. BROOKS , GREG e LUPTON, SIMON (a cura di), Freddie Mercury: parole e pensieri, pensieri, Mondadori, Milano 2008. CANN , KEVIN, David Bowie: Gli anni londinesi, londinesi, Arcana, Roma 2011. COURAULD , PARI , A Persian Persian Childhood Childh ood , Rubicon Press, Londra 1990. 1990. DEAN , KEN , Queen: la l a storia illustrata, illustrata, Kaos Edizioni, Milano 1992. 1992. EVANS , DAVID e MINNS , DAVID , Freddie Mercury: More of the Real Life, Life, Britannia Press Publishing, Culver City 1995. 1995. FREESTONE , PETER con con EVANS , DAVID , Freddie Mercury: una biografia intima, intima, Arcana, Roma 2009. GELDOF, BOB , Tutto qui? , Sperling & Kupfer, Milano 1987. GUN N , JACKY e JENKINS , JIM , Queen: la biografia ufficiale, ufficiale, Arcana, Milano 1993. HODKINSON, MARK , Queen: the t he Early Years, Years, Omnibus Omnibus Press , Londra 1995. 1995. HOGAN , PETER K., K., The Complete Guide to the Music of Queen, Queen, Omnibus Omnibus Press , Londra 1994. 1994. HUTTON , JIM con WAPSHOTT, TIM , I miei anni con Freddie Mercury , Mondadori, Milano 2000. KENT Settanta, Arcana, Roma 2011. EN T, NICK , Apathy for the devil: memorie dagli anni Settanta, NORMAN, JEREMY , No Make-up: Straight Tales From A Queer Life, Life, Elliot & Thompson Ltd, Londra 2006. NORMAN, PHILIP, Sir Elton: The Definitive Biography Biography of Elton John, John, Pan Books, Londra 2002. 2002. O’R EGAN Picture, Bloomsbury, Bloomsbur y, Londra 1995. 1995. E GAN , DENIS , Queen: the Full Picture, PALMER , R OBERT Londr a 1996. OBERT, Dancing In the Street:A Rock and Roll History , BBC Books, Londra R IDER Lives, Castle Cast le Communications Communications,, Londra 1991. I DER , STEPHEN , These Are The Days Of Our Lives, R OCK Photographic Record 1969-1980 1969-1980, Pinewood Studios, Century 22nd Ltd, OC K , MICK , Mick Rock, A Photographic 1995. ST MICHAEL , MICK , Queen: We are the champions, champions, Gammalibri, Gammalibr i, Milano 1993. 1993. SHERIFF, ABDUL e FERGUSON , ED , Zanzibar Zanzibar Under Colonial C olonial Rule, Rule, James Currey Curr ey Ltd, Oxford 1991. 1991. SHILTS , R ANDY People, and the AIDS Epidemic Epidemic,, Penguin Books, ANDY , And the Band Played On: Politics, People,
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Indice analitico
«FM» indica Freddie Fr eddie Mercury. Mercury. 10cc 19 (rivista) 19 (rivista) 1984 (band) A Day in the Life A Kind of Magic Magic A Review A Voyage Voyage to Arcturus Arcturus A Winter’s Winter’s Tale Tale A&M Studios Abba Abbey Road (album) Aerosmith AIDS (sindrome da immunodefic immunodeficienz ienzaa acquisita) acquisita ) vedi anche Kaposi, anche Kaposi, sarcoma di AIDS Air Studios Alaska (discoteca) Alkin, Lee Everett All Right Now All the Way From From Memphis All the Young Dudes Allen, Frank Amburgo American Idol American Pie ANC (African (African National Congress) Co ngress) Anderso Anderson, n, Jon Anello del Nibelungo Animals Anon Another One Bites the Dust Anthems Anthony, John Anvil Club
Appice, Carmine Apple Records Appleton, Mike Arabella-Haus Arabella-Haus (hotel) Arden, Don Arden, Sharon Armani, Giorgio Armstrong, Louis Arnold, Thor Artists Against Apartheid Asher, Jane Ashes to Ashes Associated Newspapers Atkinson, Atkinson, Gordon Gord on Austin Knight Austin, Mary Austin, Steve Avesta Aztec Camera B. Feldam & Co Bad Bad Company Baez, Joan BAFTA, premio Bailey, David Baker, Ginger Baker, Roy Thomas Baldry, Long John «Ada» Ballet for Life Bananarama Band Band Aid Barbarella (film) Barbiere di Siviglia Barcellona Barcelona Barghash, Sayyid Barišnik Bariš nikov, ov, Mikhail Barra da Tijuca Rockodromo Barrett, Syd Basing Street Studios (poi Sarm West Studios) Bason, Oswal D. Bassey, Shirley Bastin, Bas tin, Tony Tony Bavaria (ristorante) Bay City Rollers BBC
Beach Boys Beach, Claudia Beach, Henry Henry James Ja mes «Jim» «Miami» Beatles Beaumarchais, Pierre-Augustin Pierre-Augustin Caron Car on de Beck, Jeff Bee Gees Bejart Ballet Bejart, Maurice Bell, Madeleine Benatar, Pat Bennett, Tony Benson, George Berkshire Place Hotel Berlino Bersin, Mike Burt, Joe Betancourt, Rómulo Beyrand, Dominique Bharucha, Gita (poi Choksi) Biba Birmingham Black Sabbath Black, Alan Black, Cilla Blackburn, Tony Blackwell, Chris Blair, Tony Blake, John Blake, Sir Peter Blanc Gigi vedi White vedi White Horse Blauel, Renate Blitz Club Blodwyn Pig Blow Up Club Blue Mink Bodnar, George Bohemian Rapsody Bolan, Marc Bolena, Anna Bombay Bongiovi, Jon (poi Bon Jovi) Bongiovi, Tony Bonham, John Bono Boomtown Rats Boone, Pat Borat (film) (film)
Boston Bowie, David Boy George Boyfriend Boystown Bp Brainsby, Tony Branche, Derrick Branson, Richard Bread Brewer Street Studios Brighton Bristol Hippodrome Britannia Award, premio British Musicians’ Union British Phonography Industry British Telecom Telecom Brixton Brookwood Civil and a nd Military Cemetery Cemetery Brown, James Brown, Les Brown, Pete Browne, Jackson Brüno (film) Brüno (film) Budapest Buenos Aires Buerk, Michael Buggles Build Your Own Boat Bulsara, Bomi (padre di FM) Bulsara, famiglia Bulsara, Farrokh Bulsara, Freddie Freddie Bulsara, Frederick Bulsara, Bulsa ra, Jer (madre di FM) Bulsara, Bulsa ra, Jer (zia di FM) Bulsara, Kashmira (sorella di FM) Bulsara, Bulsa ra, Perviz (cugina (cugina di FM) vedi Darunkhanawala, Perviz Burke’s Peerage (guida) Bush, Mel Bycicle Race Byrds Byron, Lord George Gordon Caballé, Carlos Caballé, Montserrat «la Stupenda» Cabaret (film) (film) Cable and Wireless
Cable, Robin Café Royal Caine, Michael Callaghan, Jim Callas, Maria Cameron Richard Cameron, Jamie Cameron, Piers Can’t Buy Me Love Candle in the t he Wind/Something About the Way You Look Tonight Tonight Canned Heat Capalbo, Alfredo Capital, Radio Capitol Records Carlo, principe di Galles «Carmel» Carreras, José Cartier Cash, Angela Angela Cass, Mama Cat People (Putting Out the Fire) Cats Cavern Clus CBS Records Records (poi Sony) Chandler, Chas, Changes Channel Chaplin, Charlie Charisma Records Charles, Jeannette Charles, Ray Charterhouse College Chelsea College Chess Chic Chirac, Bernadette Choksi, Gita vedi Bharucha, Gita Christie, Julie Christie’s Chrysalis Records Records Chrysler Building City of Westminster Society So ciety for Mentally Mentally Handicapped Children Clapton, Eric Clark, Dave Clark, Petula Cocker, Cocker, Joe Jo e Cockney Rebel Cohen, Sacha Baron
Cohn, Nik Coleherne (pub) Coleherne (pub) Coleman, Ray Collins, Phill Columbia Records Colvin, David Cooke, Nata Natalie lie Cooke, Roger Cooke, Sam Cooke, Sam (cantante) Cooper, Alice Copacabana (bar) Copacabana (bar) Copacabana Palace Hotel Corminboeuf, Danielle Coronation Street Cowan, Carolyn Coward, Noël Crawdaddy Club Crawford, Crawford, Carolyn Car olyn Crazy Little Thing Called Love Cream Crematorio di Londra ovest Cristina, principessa Croce Rossa Cross, The Crossroads (serie Crossroads (serie tv) Crystal, Billy Culture Club D’Amor sull’ali rosee Daily Express (rivista) Daily Mail (rivista) Daily Mirror (rivista) (rivista) Daily Star (rivista) (rivista) Daley, Celine Daltrey, Daltr ey, Roger Roger Dannemann, Monika Darkness Darunkhanawala, Diana (nipote di FM) Darunkhanawala, Perviz (già Bulsara, Bulsar a, cugina di FM) Dave Clark Five Davis, Miles Day, Doris Day, Jan e Maureen Day-Lewis, Daniel Daytona Lights De Lane Lea Studios De Laurentis, Dino
De Niro, Robert Deacon, John Dean, James Debussy, Claude Decca Dee, Kiki Deep Purple Def Leppard DeLena, DeLena, Eddie Ed die Delilah (gatta di d i FM) Delorenzi, Marcela Denver Derry & Toms Devo Diamond, Jim Dietrich, Marlene Diller, Phyllis Dire Straits Do They Know It’s Christmas? Dobson, Dobso n, Anita Anita Doherty, Bernard Dolesal, Rudi Domingo, Placido Domino, Antoine Antoine Dominique «Fats» «Fats » Domonion Theatr Theatree Don Giovanni Don’t Go Breaking My Heart Don’t Stop Me Now Donn, Jorge Donovan Doors Dovetale Towers (pub) Dowell, Anthony Dublino Duck House vedi I vedi I cigni Dummett, Dummett, (poi Chesney) Chris Duna Intercontinental Duran Duran Dylan, Bob E Street Band Eagle, Eagle, The (club) The (club) Eagling, Wayne Ealing College Coll ege of Art Art Ealing Studios Earl’s Court Earth Earth/Step on Me
East, Dolly East, Ken Edinburgh Playhouse Edmonds, Noel Edney, Spike Eisner, Michael Electric Lady Elektra Elisabetta I, regina Elisabetta II, regina Ellis, Kerry ELO Elstree Studios Elton, Ben Embassy Embassy Club Cl ub EMI Emmanuel, David Emmanuel, Elizabeth Encino Ensueño Entertainment Entertainment Tonight Entwistle, John Epstein, Brian Essex, David Estadio Ignacio Ignacio Zaragoza Estadio Universitario Universitario Eurythmics Evans, David Evening News Everett, Kenny «Ev» Everett, Lee Everton Football Club Evita (musical) Evita (musical) Exercises in Free Love Extreme Faces, Fame, Georgie Family Fanelli, Joe «Liza» Fashion Aid for Ethiopia Fassbinder, Fass binder, Rainer Rainer Werner Fat-Bottomed Girls Feelin’ Groovy Feltham Fernandez, Bonzo Ferry, Brian Festival di musica contemporanea di Tregye
Fiorucci Fireball Fireball XL 5 (serie tv) Firm Fisher, Ronnie Flash Flash Gordon Gordon (colonna (colonna sonora) s onora) Flash Gordon (film) Fleetwood Mac Forbes, Brian Forbes, Sarah Forest Hill Hospital Foster, Jodie Foster, Fost er, Nigel Nigel Fox, Samantha Foxy Lady Frampton, Peter Peter Frankie Goes to Hollywood Franklin, Aretha Fratelli Marx Freas, Frank Kelly Freddie for a Day Freddie Mercury, Mercury, concerto tribute trib ute Freddie Mercury, Mercury, mostra fotografica «Fredmira» Free Freeman, Alan «Fluff» Freestone, Peter «Phoebe» Freyer, Fritz Frisco Frost/Nixon (film) Fun in Space Furnish-John, Zachary Jackson Levon Furnish, David Fury, Billy Fusi di testa Gable, Clark Gabriel, Gabr iel, Peter Peter Galilei, Galileo Gallop, Jeremy «Rubber» Galtieri, Galt ieri, generale generale Leopoldo Gambaccini, Paul Garden Gard en Lodge «Whore House» Garland, Judy Gates, David Gaudì, Antoni Geldof, Bob Genesis
Get It On Giddings, Terry Gilbert e Sullivan Gillan, Ian Girardet (ristorante) (ristorante) Glasgow Glitter, Gary Glover, Roger God Save the Queen Godfrey, Lexi Goffin, Gerry Goin’ Back (Larry Lurex) Going for the One Golders Green Hippodrome Goldsmith, Harvey Goliath (gatto di FM) Gomelsky, Giorgio Gonna Make You a Star Goodbye to the Eighties Eighties Goose Productions Gorbaciov, Gorb aciov, Mikhail Mikhail Gowers, Bruce Graham Bond Organisation Grammy Award Grand Dance Grant, Eddy Grant, Peter Grateful Dead Gray, senatore Greenwich, Greenwich, Ellie El lie GRID (poi AIDS) Griffin, Jeff Grishanovitch, Nikolai Grose, Gros e, Mike Mike Groucho Groucho Club Cl ub Gucci Gunn, Jacky Guns N’ Roses Hadley, Tony Halfords Hall, Eric «Monster» Hallstrom, dottor Cosmo Halston Hamilton, David «Diddy» Hammer to Fall Hammersmith Hammersmith Odeon O deon Hannibal (film)
Harbottle Harbott le & Lewis Hard Rock Cafè Harley, Steve Harris, Bob Harris, Richard Harrison, George Harvey, Alex Hatch, Tony Hayter, Stephen Headlong Headstone Heart Heartss on o n Fire (film) Heaven (club) Heaven (club) Heaven for Everyone Hectics, The Helmsley Palace Hotel Helvin, Marie Henderson’s (club) Henderson’s (club) Hendrix, Jimi Heroes Hey Big Spender Hey Joe Hey Jude Hibbert, Jerry Hideaway Higgins, Geoff Highlander (film) (film) Hillmore, Peter Hilton (hotel) Hilton (hotel) Hince, Peter «Ratty» Hinckley, John Junior Hitchens, Win HIV vedi anche AIDS anche AIDS Hoare, famiglia Hodkinson, Hodkinson, Mark Mar k Hogan, Dave «Hogie» Hokkaido Holly, Buddy Hollywood Records Holzman, Holzman, Jac Ja c Honsu Hopkin, Mary Hopkins, Nicky Hotel New Hampshire Hampshire (libro, film) Hubris Records Hudson, Rock Hughes, Glenn Hughes, Richard
Hulanicki, Hulanicki, Barbara Barba ra Hulford, Nick Humpy Bong Hunter, Ian Hunters Hurlingham Hurlingham Club C lub Hutton, Jim Hyde Park (concerto) Hyndie, Hyndie, Chrissie Chriss ie I Ain’t Gonna Play Sun City I Care Hear Music I Cigni «Duck House» «Duckingham Palace» I Don’t Like Mondays I’m Going Slightly Mad I Should Have Known Better I Want It All I Want to Break Free I Was Born to Love You I Won’t Let Your Down Ian Dury and the t he Blockheads Blockheads Ibex Ibiza Ibiza, festiva festivall Ice Ice Baby Il giustiziere giustiziere della notte nott e (film) Il lago dei cigni (balletto) Il racconto d’inverno Il Trovatore Illes, Gyorgy Imagination Imagine Imperial College In Concert Incontri ravvicinati ravvicinati del terzo tipo (film) tipo (film) Innuendo Irani, Farang Iron Maiden Irving, John Is This World We Created Island Records Isleworth College It’s a Beautiful Day It’s a Hard Life Ivor Novello, premio pr emio ackie Jackson
Jackson, Michael Jagger, Bianca Jagger, Mick ailhouse Rock James, Allan «Jamesie» Jamshid bin Abdulla Japan Jedward Jenkins, Jim Jenkinson, Phil Jensen, David «Kid» esus Christ Ch rist Superstar Jethro Tull Jett, Joan Jimi Hendrix Experience JJ Cale Joel, Billy John F. Kennedy, Kennedy, stadio sta dio John Reid Enterprises John, Elton «Sharon Cavendish» John, Leee, Johnny Quale and The Reaction Reaction Johnson, Holly Johnstone, Johnsto ne, Sue e Pat Pat Jon Roseman Productions Jones, Brian Jones, John Paul Jones, Quincy Jones, Tom Joseph and a nd the Amazing Technic Technicolour olour Dreamcoat ourney to the Centre Cent re of the Earth Earth Juan Carlos, re Junior’s Eyes K.C. and the Sunshine Band Kandinskij, Vasilij Kaposi, sarcoma di Karume, Sheikh Abeid Amani Keeble, John Keep Yourself Alive Kemp, Kemp, Gary Gar y Kemp, Martin Kennedy, Kennedy, John Fitzgerald Kennedy, Nigel Kenny Everett Show Kensit, Patsy Kent, Nick Kerzner, Sol
Khalaf, James «Trip» Khory, Sheroo (zia di FM) Kid Jensen’s Dimensions Kids in America Killer Queen King Kong (film) (film) King, Carole Carol e King, Freddie King, Graham Graha m King, Tony Tony «Joy» «Jo y» Kinks Kirchberger, Winfried «Winnie» « Winnie» Klein, Calvin Knebworth Park Kobal, John Ku Club Kutlawanong Institute Kuursal Kyushu L’ultimo re di Scozia (film) Scozia (film) L’uomo da sei milioni di dollari doll ari (serie tv) La Bella Addormentata (balletto) Addormentata (balletto) La febbre del sabato sera (film) sera (film) La Nit, festival La Tourelle Lambert, Christopher Lang, Fritz Las Vegas Lauper, Cindy Law Lawson, Leonie Le Bon, Simon Le Jardin (locale) Jardin (locale) Le Presbyrtère n’a rien perdu de son charme ni le jardin de son éclat Led Zeppelin Lee Travis Travis,, Dave Lee, Robert Legends (club) Legends (club) Leng, Debbie Lennon, John Lennon, Lennon, Julian Julia n Lennox, Annie Leoncavallo, Ruggero Leone d’oro, premio pr emio Let It Be Levine, Steve Levinsky/Sinclair
Levy, Harry Harry vedi Arden, vedi Arden, Don Lewis, Lewis, Clive Staples Sta ples Lewis, Huey Lewis, Lewis, Jerry Jerr y Lee Liar Liberace Life On Mars Light My Fire Lily of the Valley Limehouse Limehouse Studios St udios Lindisfarne Lindsay, David Lisberg, Harvey Little Feat Live Aid Live at the th e Rainbow (film) Rainbow (film) Live in London Liverpool Liverpool Liverpool Football Footba ll Club Living On My Own Lockwood, Lockwood, Sir Jos eph Lomax, Jackie London Apprentice (pub) Apprentice (pub) London Coliseum London Hospital Medical College London Rugby Club Londra Lontano dal pianeta silenzioso Lopez, Trini Los Angeles Los Años Locos Love Me Like There’s No Tomorrow Love of My Life Lover Lowe, Rob Lurex, Larry Lyan, Billy Lyceum Ballroom Lynn, Vera Lynott, Phil Lynyrd Skynyrd Mack, Felix Mack, Ingrid Mack, Reinhold Made in Heaven Madison Square Garden Madonna
Maggie Maggie May May Magic Johnson Foundation Magic Magic Years Years Mahler, Gustav Mail on on Sunday (rivista) (rivista) Mair, Alan Maison Rouge Studios Mallet, David «Mallet «Mall et B. DeMille» Mamas Mamas & Papas Manchester Manchester Manchester United Mandela, Nelso Nelson n Manero, Tony Manic Street Preachers Mann, Manfred Mann, Thomas Mansfield, Mike Maracanã Maradona, Diego Armando Margaret, principessa Marillion Mark & Spencer Marmalade, Marquee Marquee Club Martin Luther King Martin, Sir George Marx, Groucho Matisse, Henri Matlock, Glen May, Brian «Maggie» « Maggie» May, Haro Harold ld May, Jimmy May, Louisa Mayall, John McArthur Park Park McCartney, Paul McConnell Helen e Pat McGowan, Cathy McLaren, Malcolm, McLean, Don Meade, Roxy Mehta (dottore) Melbourne Melody Maker (rivista) (rivista) Mercouri, Melina Mercury Phoenix Trust Mercury Records Mercury, Mercury, Freddie
cambio del nome certificato certificato di morte mort e certificato certificato di nas cita diagnosi ufficiale ufficiale AIDS formazione scolastica funerale malattia «Melina» morte nascita sepoltura test AIDS testamento the Great Pretender Pretender Mercury, Mike Metallica Metropolis Metropolis (film) (film) MGMM Miami Michael, Michael, George G eorge Middleton, Lady Lee MIDEM Millaney, Scott Mille e una notte Mineshaft Minnelli, Liza Minns, David Miracle Mistinguett Mitchell, Mitchell, Barry Barr y Mitchell, Mitch Miwa, Akihiro Mojo (rivista) Mojo (rivista) Monaco di Baviera Monroe, Marilyn Montreux Montreux Jazz Festival Montreux Palace Monty Python Moon, Keith Moran, Mike More of the Real Life Morgan, Peter Moroder, Giorgio Morrish, Jonathan Morrison, Jim Morrison, Van Morumbi, stadio
Moseley, Diana Mother in Love Motherlode, Motherlode, The (club) The (club) Motörhead Motown Mott the Hoople Mountain Studios Mozart, Wolfgang Wol fgang Amadeus Amadeus MTV Mud Mulcahy, Russell Mullen, Christine Murphy, Eddie Murphy, John Murray, Bruce Music Hall Hall of Fame Musicland Studios My Beautiful Laundrette Laundrette My Fairy Fairy King My Name is Jack My Smile Is Just a Frown Frown (Turned (Turned Upside Upside Down) Myskow, Nina Nabokov, Vladimir Napier-Bell, Simon National Council Co uncil for for the t he Unmarr Unmarried ied Mother and Her Child National Exhibition Centre Nazareth, Neighbours (serie Neighbours (serie tv) Nelson, Jack Nelson, Willie Népstadion Never Never Mind Mind the t he Bollocks Boll ocks Neverland New Musical Express (rivista) New Orleans New York (club di Monaco) New York New York Dolls Doll s New York Times New York Yankees Newman, Nanette News of the World (rivista) Nicks, Stevie Nilsson, Harry Nippon Budokan Hall Nisbet, James No Make-Up: Straight Tales From a Queer Life
Nobs, Claude Nolan, Lee Norman, Jeremy Norman, Steve North London Londo n Polytechnic Polytechnic Nozze di Figaro Nureyev, Rudolph Nutter, David «Dawn» Nutter, Tommy O’Regan, Denis Observer (rivista) Ochsen Gardens Old Grey Whistle Test Oldfield, Oldfield, Bruce Olivier, Sir Laurence Laur ence Omartian, Michael One Vision Orbison, Roy Osbourne, Ozzy Oscar (gatto di FM) Oxfam International Oxford Oxford Mail (rivista) (rivista) Page, Jimmy Pagliacci Paige, Elaine Paisiello, Giovanni Panchgani Papa, Giovanni Paolo II Parfitt, Rick Parigi Park, Merle Partito Afro-Shirazi Afro-Shirazi ASP Partito Nazionalista di Zanzibar ZPPP Parton, Dolly Party at the Palace Paterno, Peter Paton, Dave Patricio Pavarotti, Luciano Peaches Pearson, Rosemary Peel, John Pelo (rivista) Pelo (rivista) Perelandra Peter, Paul Paul and a nd Mary
Peters, Martin Petersen, Colin Petraca, señor Pheasantry, Pheasantry, The Th e Philadelphia 76ers Phillips, Antony PhP Piaf, Edith Pilot Pink Floyd Pinocchio (film) Pinocchio (film) Pitney, Gene Pizza Express Plant, Robert Platters Play the Game Polar Bear Poliedro de Caracas Pope, Tim Potgieter, Sarina Power Station Studios (poi Avatar Studios) Preludio al pomeriggio di un fauno Prenter, Paul «Trixie» « Trixie» Presley, Elvis Pretenders Price, Price, Katie «Jordan» «Jor dan» Pride Pride (In the th e Name of Love) Prince Provan’s Public Records Records Office Office (oggi National Archives) Archives) Pune (già Poona) Punjabi, Ravi Purple Haze Pye Studios Q (rivista) Q + PR Quale, Johnny Quant, Mary Queen Queen Day Queen Queen Films Ltd Queen: la biografia ufficiale (libro) ufficiale (libro) Queen Music Ltd Queen Queen Productions Ltd Queen’s Queen’s Award to Industry, premio pr emio Radio 1
Radio 2 Radio Caroline Caro line Radio Luxembourg Luxembourg Radio Ga Ga Radio Recorders Studios «Annex» «Annex» Radiohead Radiolandia Ragtime Piano Joe Rainbow Restaurant Rainbow Room Rainbow Theatre Ram, Buck Ramones Ramsey, Sir Alf Rana, Victory Randolph Hotel Rea, Chris Read, Mike Ready, Steady, Go! Reagan, Ronald Rebel Rebel Record Mirror Record Record Plant Record World Red Dragon (film) Dragon (film) Red Hot Chili Peppers Red Special Redding, Noel Reed, Lou Regina Regina Madre, Elizabeth El izabeth Bowes-Lyon Regine’s (club) Regine’s (club) Reid, Beryl Reid, Bill Reid, John «Beryl» Reiner, Rob Reizner, Lou Revolution Club Rhodes, Zandra Rice, Sir Tim Richard, Richard, Cliff Cl iff «Silvia Disc» Richard, Richard, Little Littl e Richards Richards,, David Richards Richards,, Keith Richards Richardson, on, Tony Richie, Lionel Ridgeley, Andrew Righteous Brothers Rimsky-Korsakov, Rimsky-Korsakov, Nikolai Andreyevich Andreyevich Rio de Janeiro
Ritz Hotel Robinson, Smokey Rock in Rio Rock Show Rock, Mick Rocket Records Rockfield Studios Rodgers, Paul Roll Away the Stone Rolling Stone (band) Rolling Stone (rivista) Rondo Ronson, Mick Roof Gardens Gardens Club Cl ub Roosevelt, Franklin Fra nklin Delano Delano Rose, Axl Rose d’Or, festival Rose, Graham Rosko, Emperor Ross, Diana Ross, Jonathan Rossacher, Rossa cher, Hannes Hannes Rossi, Francis Rossini, Gioa cchino cchino Rota, José Rotten, Jhonny Roundhouse Club Royal Albert Hall Royal Ballet Royal Opera House Ruby Tuesday Rudge, Peter Rutherford, Mike Sabine (tata di FM) Saez, James Said Alì Adballah Saint Laurent, Yves Samarkland Hotel Sanremo, festiva festivall Sarm West e Scorpio Studios Satellite of Love Saturday Night Live Save me Savoy Hotel Scandal Scardilli, Joe Seal
Searches Sebastian Stub’n (ristorante) Stub’n (ristorante) Sedaka, Neil Neil «Golda «Gold a Disc» Sedlecka, Irena Seger, Seger, Bob Bo b Selfridge Hotel Sensational Alex Harvey Band September’s Seul Seven Seas of Rhye Sex Pistol Pistolss Seymour, Jane Sgt Pepper’s Pepper’s Lonely Hearts Club Band B and Shakespeare, William Shangai Express (film) Express (film) Shaw, Sandie Sheffie Sheffield, ld, Barry Bar ry e Norman Shéhérazade Shell Shelter Shepperton Studios Sheraton Hotel Shikoku Simon e Garfunkel Simple Minds Sinatra, Frank Sinclair, Jill Sinclair, John Skellern, Peter Sky, Rick Slade Small Faces Smile Smith, Chris Smith, Janet Smith, Mel Smith, Mick «Miffer» Smith, Pete Smoke on the Water Snowdon, Lord Antony Antony Charles Charl es Robert Armstrong-Jone Armstro ng-Joness Sofia, Regina Somebody to Love Somerville, Jimmy Sonny&Cher Sotheby’s Sounds Sour Milk Sea Southall, Brian
Souyave, Louis Sovereign Building Space Oddity (album) Spandau Ballet vedi anche Hadley, Tony Speakeasy (club) (club) Spears, Britney Spector, Phil Spencer, Spencer, Lady Diana principessa Spider from Mars Spielberg, Steven Spike, The (club) The (club) Springfield, Springfield, Dusty Dus ty Springsteen, Bruce Squier, Billy St Edward College St John, Bridget St Joseph’s Convent School St Peter’s Church of England School Staffell, Tim Stafford Terrace Stairway to Heaven Standing, Sir John Ronald Leon Stansfield, Lisa Star Club Star Fleet Fl eet Project Project Starhe Club Stark, David Starkey, Zak Starr, Starr , Ringo Ringo State of Shock Station Hotel Status Quo Staying Power Step on me Stephen, John Stevens, Cat Stewart, Al Stewart, Rod «Phyllis» Stewart, Tony Stickells, Gerry «zio brontolone» Sting Stoccolma Stockley, Miriam Stollbergplaza (hotel) Stollbergplaza (hotel) Stone Cold Craz C razy y Stonewall Inn (bar) Inn (bar) Stormtroopers Stormtroopers in Stilettos Stilet tos,, mostra itinerante Straker, Peter
Stratton-Smith, Strat ton-Smith, Tony Tony Strawbs Streisand, Streisand, Barbra Barbr a Studio 54 (club) 54 (club) Studio A Studio B Studio C Style Council Sugar Shack Sun, Sun, The (rivista) Super Bowl (Sun City) SuperBear Studios Sutherland, Joan Sweet Swern, Phil Swimming Baths Swiss Cottage Holiday Inn Sydney Sydney Entertainment Centre Symes, Phil Sympathy for the Devil T. Rex Talking Heads Tantrums and Titans Tarzan (gatto di FM e Barbara Valentin) Taste Tavaszi Szél Vizet Áraszt Tavener, Roger Taylor, Elizabeth Taylor, Felix Taylor, James Taylor, John «Tupp» Taylor, Roger «Liz» Tears of a Clown Terrence Higgins Trust Testi, Ken Tetzlaff, Veronica Thank God It’s Christmas Thank You That’s the Way I Like It The Act The Elephant Man The Fallen Priest Priest The Golden Boy The Grand Dance The Great Pretender The Madcap Laughs
The March of the Black Queen The Miracle The Night Comes Down The Queen (film) Queen (film) The Rich Kids The Show Must Go On The Show Must Go On (libro) On (libro) The Tube The Wind Cries Mary Théâtre de Chaillot There Must Be More To Life Than This These Are the Days of Our Lives Thin Lizzy This Is Spinal Tap Thomas, Rhys Thompson, Richard Those Were the Days Thriller (album) Thriller (canzone) (canzone) Tie Your Mother Down Tim Pan Alley Time (musical) Time (musical) Times, Times, The (rivista) The (rivista) Tokyo Tom Robinson Band Tomato City Tommy Tommy (album (alb um degli Who) Top of the Pops Top Rank Club Torpedo Twins Torri Gemelle Tour de France Tourelle, la Townhouse Studios Townshend, Pete Trasparent Television Travolta, John Tremeloes Trent, Jackie Triangolo delle Bermude TriBeca Trident Audio Productions Trident Studios Trillion Troggs Truro Turner, Tina Tutti Frutti
TV Times (rivista) Tyler, Bonnie Tyrrell, Robert U2 UAMSHO UAMSHO (Associazione (Associazione per la mobilitazione mobilit azione e propaganda dell’Islam) UFO Club Ultravox Un ballo in maschera Un giorno alle corse Una notte all’opera all’opera Under Pressure Ure, Midge USA for Africa Valentin, Barbara «la Jane Mansfield tedesca» o «la Brigitte Bardot tedesca» Van der Graaf Generator, Van Halen, Eddie Van Zandt, Steven Vance, Tommy Vanilla Ice Vaticano Vélez Sarsfield (stadio) Velvet Underground Vendidad Verdi, Giuseppe Vesti la giubba VH1 Vicious, Sid Victory Video Killer the Radio Star videoclip Village People Vince Vince «il barista» barist a» Viola Redondo, generale Roberto Eduardo Virgin Radio Virgin Records Visconti, Tony Visser, Joop Voodoo Chile Wagner, Wilhelm Richard, Wakeman, Rick Waldorf Astoria Walk on the Wild Side Walker, Johnnie Wallace, Wall ace, Eugene Eugene Walt Disney
Walt Disney Company Warhol, Andy Warner Warwick, Dionne Watts, Paul Wayne, Mick Wayne’s World , vedi Fusi di testa We Are the Champions C hampions We Are the World We Will Rock You We Will Rock You (musical) You (musical) Webb, Jimmy Weller, Paul Wembley Arena Wembley (stadio) Wessex Sound Studios West Ham United United Westminster Hospital Wham! Whistle Test White Album White Horse (pub) Who Who Wants to Live Forever Wigg, David Wild Thing Wilde, Kim Wilde, Marty Wilde, Oscar Williams, Paul Williams, Robin Williams, Tony Wimbledon, stadio Wind & Fire Winner, Michael Wisdom, Norman Wishbone Ash Wonder, Stevie Wood, Ronnie Woodstock Wreckage Wyman, Bill X Factor Xenon (club) Xenon (club) Yardbirds Yates, Paula
Yeardon, Terry Yellow Submarine Yes You (rivista) You (rivista) You’re My Best Friend You’ve Got a Friend Young, Paul Young, Richard Zanzibar Zappa, Frank Zarathustra Ziggy Stardust zoroastrismo Zsigmond, Vilmos ZZ Top
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.sperling.it www.facebook.com/sperling.kupfer Freddie Mercury. The Definitive Biography Copyright Copyright © Lesley-Ann Lesley-Ann Jones Jon es 2011 © 2012 Sperling & Kupfer Editori Editori S.p.A. Ebook ISBN 9788873396192 COPERTINA || ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: ANTONELLA CUCINOTTA | FOTO © PETER HINCE «L’AUTRICE» «L’AUTRICE» || FOTO © DAVE HOGAN