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Alexandre Kojève
LA NOZIO NE DI AUTORITÄ
DELLO STESSO AUTORE: Il silenzio della tirannide Introduzione alla lettura di Hegel
Sulla tirannide (con Leo Strauss)
Alexandre Kojève
LA NOZIONE DI AUTORITÀ A cura di Marco Filoni
ADELPHI EDIZIONI
TITOLO ORIGINALE: La notion de l'autorité
© 2004 ÉDITIONS GALLIMARD PARIS
© 2011 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT ISBN 978-88459-2620-4
INDICE
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
A.
B.
I. II. III.
ANALISI 19 I. Analisi fenomenologica II. Analisi metafisica III. Analisi ontologica DEDUZIONI 75 Applicazioni politiche 76 Applicazioni morali 108 Applicazioni psicologiche 111 APPENDICI I . Analisi dell'Autorità del Maresciallo 115 2. Considerazioni sulla Rivoluzione nazionale 122 Il libero gioco del negoziatore di Marco Filoni
LA NOZIONE DI AUTORITÀ
LA NOZIONE DI AUTORITÀ (ESPOSIZIONE SOMMARIA)
Considerazioni preliminari A. Analisi I. Analisi fenomenologica II. Analisi metafisica III. Analisi ontologica B. Deduzioni I. Applicazioni politiche II. Applicazioni morali III. Applicazioni psicologiche Appendici 1. Analisi dell'Autorità Maresciallo 2. Considerazioni Rivoluzione nazionale
del sulla
N.B. L'essenziale si trova in A, I e A, II. Si veda anche B, I.
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CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
È curioso, ma il problema e la nozione di Autorità sono stati molto poco studiati. Ci si è occupati soprattutto delle questioni relative alla trasmissione dell'Autorità e alla sua genesi, ma raramente l'essenza di questo fenomeno ha attirato l'attenzione. Eppure, in tutta evidenza, è impossibile trattare del potere politico e della struttura stessa dello Stato senza sapere che cosa è l'Autorità in quanto tale. Uno studio della nozione di Autorità, sebbene provvisorio, è quindi indispensabile, e deve precedere qualsiasi studio del problema dello Stato.
Se le teorie dell'Autorità sono rare, tuttavia non sono completamente assenti. Se si prescinde dalle varianti, si può dire che nel corso della storia sono state proposte quattro teorie distinte (essenzialmente differenti e irriducibili) . 1) La teoria teologica o teocratica: l'Autorità primaria e assoluta appartiene a Dio; tutte le altre autorità (relative) ne sono derivate. (Questa teoria è stata elaborata soprattutto dagli scolastici, ma vi si richiamano anche i sostenitori della monarchia « legittima », cioè ereditaria).
2)
La teoria di Platone: l'Autorità (« giusta» o « legittima ») si fonda su ed emana dalla « Giustizia » o «equità». Ogni «Autorità» che abbia un carattere diverso è soltanto una pseudo- autorità, la quale in realtà non è nient'altro che la forza (più o meno « bruta »). 3) La teoria di Aristotele, che giustifica l'Autorità con la Saggezza, con il Sapere, con la possibilità di prevedere, di trascendere il presente immediato. 4) La teoria di Hegel, che riduce il rapporto dell'Autorità a quello del Signore e del Servo (del Vincitore e del Vinto), dove il primo è stato disposto a rischiare la vita per farsi «riconoscere », mentre il secondo ha preferito la sottomissione piuttosto che la morte. Purtroppo, solo l'ultima teoria ha avuto una elaborazione filosofica completa, che si sviluppa sia sul piano della descrizione fenomenologica sia su quello dell'analisi metafisica e ontologica. Le altre non hanno oltrepassato il livello della fenomenologia (comunque non sono affatto complete nemmeno in quest'ambito). (E bisogna dire che la teoria di Hegel non è mai stata capita davvero e venne dimenticata molto rapidamente. Anche il più importante erede di Hegel — Marx — ha completamente trascurato il problema dell'Autorità). Tutte le quattro teorie sono esclusive. Ognuna riconosce solo un tipo di Autorità (cioè quello che descrive), riscontrando negli altri fenomeni « autoritari » soltanto una manifestazione della pura e semplice forza. Nota. Esiste certamente anche una « teoria dell'Autorità che la considera soltanto una manifestazione della forza. Ma vedremo in seguito che la Forza non ha nulla a che vedere con l'Autorità, perché anzi le è esattamente opposta. Ridurre l'Autorità alla Forza significa quindi semplicemente negare, o ignorare, l'esistenza della prima. Perciò fra le teorie dell'Autorità non annoveriamo questa opinione errata. 14
Per poter giudicare e criticare queste teorie (cioè comprenderle nel senso proprio del termine) , bisognerebbe cominciare con il redigere un elenco completo di tutti i fenomeni che possono essere classificati sotto la voce « Autorità » e vedere se questi fenomeni corrispondono (tutti o in parte) a una (o più di una) delle teorie proposte. Le teorie che non hanno fenomeni corrispondenti sono da respingere come false. Per le altre, bisogna vedere se rendono conto di tutti i fenomeni o soltanto di una parte. A questo scopo bisogna sottoporre i fenomeni a un'analisi fenomenologica che individui i «fenomeni puri », cioè irriducibili gli uni agli altri (oppure che mostri, nel caso dei fenomeni « composti », gli elementi « puri » di cui si compongono). Se si trovano fenomeni « puri » dei quali nessuna delle teorie proposte rende conto, bisogna elaborare nuove teorie. In altri termini, l'analisi fenomenologica (A, I) deve rispondere alla domanda « che cos'è» applicata a tutti i fenomeni che definiamo, per così dire « istintivamente », autoritari. Deve rivelare l'essenza (l'idea; das Wesen) dell'Autorità in quanto tale, così come la struttura di questa « essenza », e cioè i diversi tipi irriducibili della sua manifestazione (prescindendo dalle varianti «accidentali », varianti dovute alle semplici diversità delle condizioni locali e temporali della realizzazione dell'Autorità in quanto tale). Ma l'analisi fenomenologica può adempiere la sua funzione soltanto a condizione di essere veramente completa. Bisogna avere la certezza di aver elencato tutti i tipi di Autorità possibili e di aver scomposto ciascuno di essi in elementi veramente semplici, cioè irriducibili ad altri elementi. Ora, ciò è possibile solo se l'analisi è sistematica; per 15
questo si deve necessariamente oltrepassare il piano fenomenologico, innalzarsi al livello metafisico. L'analisi metafisica (A, II) ricollega il fenomeno dell'Autorità alla struttura fondamentale del Mondo oggettivamente reale. In questo modo permette di vedere se i fenomeni descritti corrispondono a tutte le possibilità offerte dal Mondo e se un dato fenomeno ha un'origine metafisica semplice o composta. Infine, la giustificazione ultima della teoria fondata su e garantita dall'analisi metafisica può provenire soltanto da un'analisi ancora più profonda, che penetra sino al livello ontologico. L'analisi ontologica (A, III) studia la struttura dell'Essere in quanto tale, e permette di comprendere il perché e il come della struttura (metafisica) del Mondo reale — struttura che, dal canto suo, permette di classificare e analizzare sistematicamente (sul piano fenomenologico) i fenomeni in questione, che si manifestano in questo Mondo. Nota. In ognuna di queste tre analisi bisognerà servirsi della nozione di Dio, anche ammettendo che non esista, che sia soltanto un « mito ». Infatti l'uomo « credente » ha sempre attribuito a Dio il massimo di autorità, ed è quindi in Dio che si può studiare questo fenomeno come al microscopio. Si sarà liberi di applicare all'uomo quello che si andrà scoprendo in Dio. E se Dio non è altro che un « mito », allora l'analisi dell'Autorità divina è di fatto un'analisi dell'Autorità umana: senza rendersene conto, l'uomo proietta in Dio ciò che - più o meno incoscientemente - scopre in se stesso, sicché si può studiare l'uomo studiando il « suo » Dio.
La teoria dell'Autorità che risulta da questa triplice analisi sarà pienamente garantita e giustificata. Dal canto suo, potrà servire come punto di partenza per numerose Deduzioni (B). 16
La teoria avrà anzitutto Applicazioni politiche (B, I) Ammettendo che ogni Stato presuppone l'Autorità e si fonda su di essa, si può dedurre la teoria dello Stato dalla teoria dell'Autorità. In secondo luogo, la teoria dell'Autorità avrà Applicazioni morali (B, II) Una teoria corretta e giustificata permetterà di difendere l'Autorità e lo Stato (quindi, in particolare, lo Stato autoritario) contro le critiche morali o moralizzanti, dedotte a partire da nozioni non politiche. In altri termini, la teoria dell'Autorità permette di dedurre una morale specificamente politica, essenzialmente diversa dalla morale «privata », dal cui punto di vista si tenta in genere di criticare l'Autorità nel suo essere e nei suoi atti. Infine, la teoria dell'Autorità avrà Applicazioni psicologiche (B, III) Sapendo che cos'è l'Autorità, si può dedurre il modo in cui bisogna agire sull'uomo e sugli uomini al fine di poter sia generare un'Autorità, sia mantenerla.
In ciò che segue tutti questi argomenti potranno solo essere abbozzati. Non ho qui la pretesa di formulare u na teoria definitiva e completa dell'Autorità. Si tratta piuttosto di porre i problemi e indicare la direzione generale per le loro soluzioni.
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A. ANALISI
I. ANALISI FENOMENOLOGICA 1. a) Per poter compilare un elenco di tutti i fenomeni autoritari, bisogna prima saper fare una scelta tra i fenomeni dati, cioè poter distinguere i fenomeni che realizzano e rivelano l'essenza dell'Autorità da quelli che non vi hanno nulla a che vedere (spesso malgrado le apparenze). In altri termini, bisogna cominciare col dare una definizione dell'Autorità - una definizione generale che, potendo comprendere tutti i casi particolari, sia una definizione puramente «formale », « nominale ». Cerchiamo quindi una Definizione generale dell'Autorità Esiste Autorità soltanto là dove c'è movimento, cambiamento, azione (reale o almeno possibile): si ha autorità solo su ciò che può « reagire », cioè cambiare in funzione di ciò o di colui che rappresenta l'Autorità (la « incarna », la realizza, la esercita). E, in tutta evidenza, l'Autorità appartiene a chi opera il cambiamento, e non 19
a chi lo subisce: l'Autorità è essenzialmente attiva e non passiva. Si può dire, quindi, che il « supporto » reale di ogni autorità è necessariamente un agente nel senso proprio e forte del termine, cioè un agente che si suppone essere libero e cosciente (quindi sia un essere divino, sia un essere umano, e mai un animale, ecc., in quanto tale) . Nota. Certo, l'atto autoritario non è necessariamente spontaneo: si può avere autorità anche eseguendo un ordine altrui. Ma l'agente investito di autorità è tenuto a comprendere questo ordine e ad accettarlo liberamente: un fonografo che trasmette il discorso del capo non ha nessuna autorità in se stesso. L'essere che viene investito di autorità è quindi necessariamente un agente e l'atto autoritario è sempre un vero atto (cosciente e libero). Ora, l'atto autoritario si distingue da tutti gli altri per il fatto di non incontrare opposizione da parte di colui o coloro ai quali è diretto. E questo presuppone, da un lato, la possibilità di un'opposizione e, dall'altro, la rinuncia cosciente e volontaria alla realizzazione di questa possibilità. (Esempi: se butto qualcuno giù dalla finestra, il fatto che costui cada non ha nulla a che vedere con la mia autorità; ma esercito un'autorità manifesta su di lui se è lui da solo a buttarsi giù dalla finestra per un ordine che gli ho dato e che avrebbe potuto materialmente non eseguire. L'ipnotizzatore non ha autorità su chi è ipnotizzato da lui. Non ho bisogno di usare la mia autorità per far fare a qualcuno quello che ha voglia di fare e che avrebbe fatto anche senza che glielo dicessi) . L'Autorità, quindi, è necessariamente una relazione (fra agente e paziente): è un fenomeno essenzialmente sociale (e non individuale); perché vi sia Autorità bisogna essere almeno in due. QUINDI: l'Autorità è la possibilità che un agente ha di agire sugli altri (o su un altro), senza che questi altri reagiscano nei suoi confronti, pur essendo in grado di farlo. 20
O anche: agendo con Autorità, l'agente può cambiare il dato umano esterno senza subire il contraccolpo, cioè senza cambiare egli stesso in funzione della sua azione. (Esempi: Se devo usare la forza per far uscire qualcuno dalla mia camera, per realizzare l'atto in questione devo cambiare il mio comportamento e perciò dimostro di non avere autorità; è completamente diverso, invece, se non mi muovo e la suddetta persona lascia la camera, cioè cambia, al mio semplice «Esca! ». Se l'ordine dato provoca una discussione, ossia costringe chi lo dà a fare lui stesso qualcosa - cioè discutere - in funzione dell'ordine dato, non c'è autorità. E ce n'è ancora meno se la discussione porta a desistere dall'ordine o addirittura a un compromesso, e cioè proprio a un cambiamento dell'atto che avrebbe dovuto provocare un cambiamento senza modificarsi esso stesso). Oppure, infine: l'Autorità è la possibilità di agire senza fare compromessi (nel senso ampio del termine). Nota. Ogni discussione è già un compromesso, poiché equivale a ciò: «Faccia questa cosa senza condizioni. - No, non la farò se non a condizione che lei faccia quest'altra cosa, e cioè che mi convinca. — D'accordo, su questo punto cedo ». b) Questa definizione mostra chiaramente che il fenomeno dell'Autorità è affine a quello del Diritto (cfr. la Notizia sul Diritto) .* In effetti: Io ho diritto a qualcosa quando posso farla senza incontrare opposizione (reazione), pur essendo questa opposizione in linea di principio possibile. (Esempio: Se voglio prendere a qualcuno cento fran* Kojève fa qui riferimento al testo che aveva intenzione di scrivere terminata l'analisi del fenomeno dell'Autorità, ovvero l'opera che porterà a termine a Marsiglia l'anno successivo, nel 1943, con il titolo Esquisse d'une phénoménologie du droit (pubblicato postumo presso Gallimard, Paris, 1981, pp. 186-87; trad. it. Linee di una fenomenologia del diritto, a cura di R. D'Ettorre, Jaca Book, Milano, 1989, pp. 194-95) [N.d.C.]. 21
chi che gli appartengono, questi « reagirà » e io subirò il « contraccolpo » del mio atto; ma se mi deve questi soldi, se cioè ho un diritto su di lui, non dovrò subire una « reazione » quando la mia azione farà passare i cento franchi dalle sue tasche alle mie). C'è tuttavia una differenza essenziale fra questi due fenomeni « affini ». Nel caso dell'Autorità, la « reazione » (l'opposizione) non esce mai dall'ambito della possibilità pura (non si attualizza mai): la sua realizzazione distrugge l'Autorità. Nel caso del Diritto, invece, la « reazione » può attualizzarsi senza per questo distruggere il Diritto: basta che tale « reazione » sia subita da una persona diversa da quella che detiene il Diritto. (Nell'esempio citato, basta che la « reazione » violenta del debitore sia subita da un giudice, un ufficiale giudiziario, un agente di polizia, ecc.). Da questa differenza consegue che se, in linea di principio, l'Autorità esclude la forza, il Diritto la implica e la presuppone, pur essendo tutt'altra cosa rispetto alla forza (non vi è Diritto senza Tribunale, né Tribunale senza Polizia, che può far eseguire con la forza le decisioni del Tribunale). D'altra parte, l'affinità rilevata fra Autorità e Diritto spiega perché ogni Autorità ha necessariamente un carattere legale o legittimo (agli occhi di coloro che la riconoscono: il che va da sé, poiché ogni Autorità è necessariamente un'Autorità riconosciuta; non riconoscere un'Autorità significa negarla e per questo distruggerla). QUINDI: 1) Non soltanto esercitare un'autorità non è la stessa cosa che usare la forza (la violenza), ma i due fenomeni si escludono a vicenda. In generale, non bisogna fare nulla per esercitare l'Autorità. Il fatto di essere obbligato a far intervenire la forza (la violenza) prova che non si tratta di Autorità. Viceversa, non si può — senza servirsi della forza — far fare alla gente ciò che non avrebbe fatto spontaneamente (da sé) se non facendo intervenire l'Autorità. 22
Nota. Se qualcuno fa ciò che gli dico per « amore » nei miei confronti, lo fa spontaneamente, poiché fa tutto per farmi piacere senza che io abbia bisogno di intervenire, di agire su di lui. La relazione d'Amore è dunque essenzialmente diversa dalla relazione d'Autorità. Ma dato che l'Amore dà lo stesso risultato dell'Autorità, si può facilmente commettere l'errore di confondere i due fenomeni, e parlare di un'« autorità » che l'amato avrà sull'amante, o di un « amore » che colui che subisce — cioè riconosce — un'autorità prova per colui che la esercita. Da qui- la spiegazione della naturale tendenza che ha l'uomo ad amare colui del quale riconosce l'Autorità, così come a riconoscere l'Autorità di colui che ama. Ma tuttavia i due fenomeni restano nettamente distinti. 2) L'azione « legale » o « legittima » può anche essere un'azione « autoritaria »: perché sia così, basta che si rinunci (liberamente e coscientemente) all'attualizzazio-ne delle « reazioni » possibili. (In questo caso il Diritto esercita un'Autorità, pur restando un Diritto nella misura in cui, se si presenta la necessità, cioè se smette di esercitare la sua Autorità, vi è una forza capace di realizzarlo. Insomma, il Diritto ha autorità solamente per coloro che lo « riconoscono », ma resta un Diritto anche per coloro che lo subiscono senza « riconoscerlo »). Quanto all'azione « autoritaria », è per definizione « legale » o « legittima ». Poiché là dove la « reazione » possibile non si attualizza, cioè se non vi è alcuna « reazione » in generale, non vi è, a fortiori, « reazione » contro l'agente stesso. Quindi non ha senso parlare di Autorità « illegittima » o « illegale »: è una contraddizione in adjecto. Colui che « riconosce » un'Autorità (e non c'è Autorità non « riconosciuta ») ne riconosce per ciò stesso la « legittimità». Negare la legittimità dell'Autorità significa non riconoscerla, cioè - per ciò stesso - distruggerla. Si può quindi negare, in un caso concreto, l'esistenza di un'Autorità; ma non si può opporre alcun « Diritto » a un'Autorità reale (cioè « riconosciuta»). 23
Nota 1. Numerosi autori, in particolare cristiani, hanno affermato che ogni Potere politico è « legittimo ». Questo è vero soltanto nella misura in cui il Potere incarna un'Autorità. Vedremo in seguito che vi è una dissociazione possibile fra il Potere e l'Autorità. E un Potere privo di Autorità non è necessariamente legittimo. Certo, si può dire che ogni azione (rivoluzionaria) diretta contro un Potere rivestito di Autorità sarebbe « illegale » e « illegittima »; ma è una tautologia sprovvista di senso, visto che l'Autorità esclude precisamente ogni azione diretta contro se stessa. Nota 2. Si può dire che la Legalità è il cadavere dell'Autorità; o, più esattamente, la sua « mummia » — un corpo che si conserva pur essendo senza anima o senza vita. 3) La nostra definizione di Autorità può anche essere accostata alla sola e valida definizione generale del Divino: è divino— per me — tutto ciò che può agire su di me senza che io abbia la possibilità di reagire nei suoi confronti. (Esempio: finché gli uomini hanno creduto che le stelle esercitassero un'influenza su di loro e che non avessero alcun mezzo per agire sulle stelle, le hanno divinizzate. Ma quando Newton ha insegnato loro che ogni azione (fisica) era uguale alla reazione da essa provocata, le stelle — e in generale tutto il Mondo naturale — sono state definitivamente « profanizzate »). Questa definizione fa capire, da un lato, perché l'uomo ha sempre attribuito il summum dell'Autorità a ciò che era (o rappresentava) per lui il Divino, e, dall'altro, perché rivestiva ogni Autorità (umana) esistente (cioè da lui riconosciuta) di un carattere « sacro » o divino (cfr. la teoria teocratica dell'Autorità, trattata più avanti, che afferma l'origine divina di ogni Autorità) . Tuttavia la definizione del Divino differisce da quella dell'Autorità: nel caso dell'azione divina, la reazione (umana) è assolutamente impossibile; nel caso dell'azione autoritaria (umana) , la reazione è invece necessariamente possibile, e non esiste in ragione di una rinuncia cosciente e volontaria a questa possibilità. 24
Certo, si può modificare la nostra definizione di Autoñtà in modo da comprendervi l'azione divina, dicendo che l'azione (divina o umana) è autoritaria nella misura in cui non provoca alcuna reazione. Si potrà allora parlare di Autorità divina. Tuttavia bisognerà distinguerla accuratamente dall'Autorità umana, che presuppone non soltanto l'assenza di una reazione reale, ma anche la presenza di una possibilità di reazione. Noi preferiamo mantenere la nostra definizione di Autorità, a costo di dire che è un fenomeno (sociale) essenzialmente umano, dato che l'azione divina è soltanto affine all'azione autoritaria, ma non identica a essa. Inoltre si può dire che, al contrario dell'Autorità propriamente detta, cioè umana, l'«Autoritá » divina è essenzialmente inattaccabile: essendo esclusa ogni possibilità di reazione, l'Autorità deve esercitarsi indefinitamente, per tutto il tempo che esiste l'essere stesso che la incarna. Ora, visto che, per definizione, tale essere non può venire modificato, cioè alterato e, pertanto, distrutto dal di fuori, è naturale supporre che esista in eterno. Quindi si può anche dire che l'« Autoritá » divina differisce dall'Autorità propriamente detta (umana) per il fatto di essere eterna. O anche: il Divino esercita la sua «Autorità» senza alcun rischio di perderla, senza rischio in generale. L'Autorità umana è invece essenzialmente effimera: a ogni istante la possibilità volontariamente repressa della reazione può attualizzarsi e così annullare l'Autorità. L'esercizio dell'Autorità (umana) implica quindi necessariamente un elemento di rischio per chi la esercita proprio per il fatto di esercitarla: se non altro per il rischio di perderla con tutto ciò che ne deriva. Di conseguenza, ogni Autorità umana che esiste deve avere una « causa », una « ragione » o una « giustificazione » della sua esistenza: una « ragion d'essere ». Non basta constatare che esiste per « riconoscerla» (e prolungarne con ciò l'esistenza). Bisogna dunque vedere quali sono le cause, le ragioni 25
o le giustificazioni dell'Autorità. E questo studio ci permetterà di distinguere vari tipi irriducibili di tale Autorità, e di comprendere meglio le teorie proposte che vi si riallacciano. 2. a) Tutte le forme di Autorità (umana) hanno in comune il fatto che permettono di esercitare un'azione che non provoca reazione, perché coloro che potrebbero reagire si astengono coscientemente e volontariamente dal farlo. Viceversa, si può constatare l'intervento di un'Autorità ovunque gli uomini subiscano un'azione (che da sé non avrebbero compiuto) rinunciando coscientemente e volontariamente alla facoltà di reagire contro di essa. Ma dato che la reazione resta sempre possibile e che la rinuncia è cosciente e volontaria, è legittimo chiedersi il perché di questa rinuncia. Ogni Autorità solleva la questione del perché esiste, cioè perché la si « riconosce » subendo gli atti che ne derivano senza reagire contro di essi. Le risposte che si possono dare a queste domande sono varie, e a ogni diversa risposta corrisponde un tipo particolare di Autorità. Innanzitutto si tratta di compilare un elenco di tutti i tipi possibili di Autorità. Nota. Si potrebbe enumerarne una ventina. Ma finché non si possiede una teoria dell'Autorità, non si è mai sicuri che questa enumerazione sia completa. In seguito bisogna separare (e descrivere) i tipi « puri », cioè irriducibili ad altri, e mostrare come i tipi « misti» si costituiscono attraverso una combinazione di questi tipi « semplici » o « puri ». Non è questa la sede per compiere tutto questo lavo26
ro di analisi fenomenologica. Supponiamo che sia già fatto e indichiamo il risultato, senza « dimostrarlo », per così dire.
Diciamo dunque che si possono distinguere quattro tipi (semplici, puri o elementari) di Autorità. a) L'Autorità del Padre (o dei genitori in generale) sul Figlio. ( Varianti: l'Autorità che nasce da una grande differenza di età — l'Autorità della vecchiaia sulla giovinezza; l'Autorità della tradizione e di coloro che la detengono; l'Autorità di un morto — testamento; l'Autorità dell' «Autore » sulla propria opera, ecc.) . Nota sull'Autorità del morto. In generale, l'uomo ha più Autorità dopo la morte di quanta ne avesse da vivo: il testamento ha più Autorità dell'ordine dato dall'uomo mentre è in vita; una promessa lega di più dopo la morte di colui al quale è stata fatta; gli ordini del padre morto sono più rispettati di quelli che dava quando era vivo, ecc. La ragione sta nel fatto che è materialmente impossibile reagire contro un morto. Quindi vi è Autorità per definizione. Ma questa impossibilità di reazione garantisce all'Autorità del morto un carattere divino (sacro); l'esercizio dell'Autorità da parte del morto non comporta nessun rischio per lui. Da qui sia la forza che la debolezza di questa autorità. Tutto sommato, è un caso particolare di autorità divina. (3) L'autorità del Signore sul Servo. ( Varianti: l'autorità del Nobile sul Plebeo; l'Autorità del Militare sul Civile; l'Autorità dell'Uomo sulla Donna; l'Autorità del Vincitore sul Vinto, ecc.). Nota sull'Autorità del Vincitore. Va da sé che, perché vi sia Autorità, il Vincitore deve essere « riconosciuto » in quanto tale dal Vinto, cioè il Vinto deve « riconoscere » la propria sconfitta. Cfr. lo slogan tedesco « im Fekle unbesiegt» , che ha distrutto l'Autorità nascente dei
vincitori del 1918; costoro, non avendo fatto « riconoscere » la loro vittoria, non hanno 27
avuto alcuna Autorità; quindi hanno dovuto ricorrere alla forza - con il noto risultato. y) L'Autorità del Capo (dux, Duce, Führer, leader, ecc.) sulla Banda. ( Varianti: l'Autorità del Superiore — direttore, ufficiale, ecc. — sull'Inferiore — impiegato, soldato, ecc.; l'Autorità del Maestro sull'Allievo; l'Autorità del Dotto, del Tecnico, ecc.; l'Autorità dell'Indovino, Profeta, ecc.) . Nota sull'Autorità dell'Ufficiale. Questa Autorità è un buon esempio di Autorità mista. Oltre alla sua specifica Autorità di Capo, che esercita nei confronti dei soldati, beneficia dell'Autorità di Signore che ogni militare ha nei confronti dei civili; nei confronti dei soldati in genere possiede anche l'Autorità del Padre; infine, incarna anche l'Autorità del Giudice, che presenteremo qui di seguito. 8) L'Autorità del Giudice. (Varianti: l'Autorità dell'Arbitro; l'Autorità del Controllore, Censore, ecc.; l'Autorità del Confessore; l'Autorità dell'Uomo giusto oppure onesto, ecc.). Nota sull'Autorità del Confessore. È un altro buon esempio di Autorità mista: oltre alla sua Autorità di Giudice, il Confessore beneficia dell'Autorità del Capo, nella sua qualità di « guida spirituale », così come di quella di Padre; ma gli manca l'Autorità. del Signore. Nota sull'Autorità dell'Uomo giusto. A dire il vero, questo è il caso più puro di Autorità del Giudice poiché il Giudice propriamente detto possiede, oltre alla sua Autorità spontanea - di Giudice, anche l'Autorità - derivata - di funzionario. b) Abbiamo dunque quattro tipi « puri » di Autorità. Ora, abbiamo visto che si possono distinguere anche quattro teorie irriducibili dell'Autorità. Questo ci induce a supporre che ciascuna di queste teorie — che è, agli occhi del suo autore, una teoria dell'Autorità in generale
— in realtà non sia altro che la teoria di uno dei quattro tipi particolari elencati sopra. Vediamo se è davvero così. Dunque, abbiamo le teorie (in ordine cronologico): — di Platone — di Aristotele — degli scolastici, ecc. (Teoria teologica) — di Hegel. Cominciamo da quest'ultima. La teoria hegeliana si presenta come una teoria del rapporto fra Signore e Servo. Ma sembra che Hegel vi vedesse una teoria generale dell'Autorità, poiché considerava tutte le forme di Autorità come derivate dall'Autorità del Signore in rapporto al Servo. In ogni caso, non ha elaborato nessun'altra teoria dell'Autorità. La teoria hegeliana (filosoficamente molto elaborata) rende perfettamente conto del nostro secondo tipo « puro » di Autorità, cioè l'Autorità del Signore sul Servo. Eccola. (Per maggiori dettagli, cfr. il mio Autonomie et dependance de la Conscience-de-soi, in « Mesures ») .< La Signoria nasce dalla Lotta a morte per il « riconoscimento » (anerkennen). I due avversari si danno uno scopo essenzialmente umano, non animale, non biologico: quello di essere « riconosciuti » nella loro realtà o dignità umane. Ma il futuro Signore affronta la prova della Lotta e del Rischio, mentre il futuro Servo non riesce a dominare la paura (una paura animale della morte). Quindi cede, si riconosce vinto, riconosce la superiorità del vincitore e si sottomette a lui come il Servo al * A. Kojève, Autonomie et dépendance de la Consciencede-soi: Maîtrise et Servitude, in «Mesures », I, 15 gennaio 1939. Si tratta della traduzione commentata della sezione A, capitolo iv, della Fenomenologia dello spirito di Hegel (ripubblicata con il titolo En guise d'introduction in A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, a cura di R. Queneau, Gallimard, Paris, 1947, pp. 9-34; trad. it. A guisa di introduzione, in Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano, 1996, pp. 15-44) [N. d. C.] .
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suo Signore. Ed è così che nasce l'Autorità assoluta del Signore nei suoi rapporti con il Servo. Quindi: il Signore domina l'animale che è in lui (e che si manifesta con l'istinto di conservazione) e lo subordina a ciò che vi è di specificamente umano in lui (questo elemento umano si manifesta infatti con il desiderio di « riconoscimento », con la «vanità », che è priva di ogni valore biologico, «vitale »). Il Servo, invece, subordina l'umano al naturale, all'animale. Si può dire, perciò, che l'Autorità del Signore sul Servo è analoga all'Autorità dell'uomo sulla bestia e sulla Natura in generale — con questa differenza: che 1'« animale » è cosciente della sua inferiorità e la accetta liberamente. Ed proprio per questo che qui vi è Autorità: il Servo rinuncia coscientemente e volontariamente alla sua possibilità di reagire contro l'azione del Signore; lo fa perché sa che questa reazione mette a rischio la sua vita e perché non vuole accettare questo rischio. La teoria di Hegel, quindi, è a tutti gli effetti una teoria dell'Autorità. E spiega bene il perché dell'Autorità del Signore sul Servo. E dunque una teoria corretta di questo tipo particolare (puro) di Autorità. Ma non vale per gli altri tipi. Ad esempio non rende conto dell'Autorità del Capo. Un Signore non ha soltanto un'Autorità in rapporto al Servo (in quanto Signore propriamente detto); può anche avere (in quanto Capo) un'Autorità in rapporto agli altri Signori. La teoria di Hegel non rende conto del fatto che esista un'Autorità, del Capo fra uomini socialmente eguali. E si applica ancora meno ai casi dell'Autorità del Padre o del Giudice, là dove l'elemento della Lotta e del Rischio della vita sono totalmente assenti. La teoria hegeliana spiega invece l'affinità fra il caso dell'Autorità del Signore e quelli che abbiamo catalogato come sue «varianti ». Pur tenendo conto del fatto che l'Autorità del Nobile, del Militare, dell'Uomo e del Vincitore hanno una natura composita, bisogna dire che l'elemento predominante e che funge da base (o da 30
« giustificazione ») ultima non è altro che l'Autorità del Signore, fondata sul Rischio. È evidente per il Militare e il Civile, per il Vincitore e il Vinto. Ma è anche indiscutibile che all'origine il Nobile è, innanzitutto, un guerriero, mentre il Plebeo non prende parte alla guerra. Infine, sembra sia dalla stessa ragione che l'Uomo in definitiva trae l'Autorità che ha sulla Donna. Passiamo ora alla teoria di Aristotele. Si presenta anch'essa come una teoria della Signoria. Ma, in realtà, si applica a un altro tipo di Autorità. Secondo Aristotele il Signore ha il diritto di esercitare un'Autorità sul Servo perché è capace di prevedere, mentre il Servo non fa che registrare i bisogni immediati e si fa guidare esclusivamente da questi. E l'Autorità, se si vuole, dell' « intelligente » sulla « bestia », del « civilizzato » sul « barbaro », della « formica » sulla « cicala », del « chiaroveggente » sul « cieco ». (È anche l'autorità di chi trasmette un ordine su chi lo esegue). La persona che si rende conto di vedere meno bene e meno lontano di un altro si lascia facilmente condurre o guidare da costui. Quindi rinuncia coscientemente alle reazioni possibili; subisce gli atti dell'altro senza opporvisi, senza protestare, senza discuterli, senza nemmeno fare domande: segue l'altro «ciecamente ». Quindi vi è Autorità. Soltanto, questa teoria dell'Autorità non ha nulla a che vedere con l'Autorità del Signore, che invece è spiegata molto bene dalla teoria di Hegel. La teoria di Aristotele si applica al caso dell'Autorità del Capo in rapporto alla sua Banda: rende conto dell'Autorità del dux, del Duce, del Führer, del leader, ecc. Consideriamo infatti un esempio familiare. Una banda di ragazzi si riunisce per giocare. Uno di loro propone di andare a rubare le mele nel campo vicino. Immediatamente, e proprio per questo, si costituisce come capo della banda. Lo è diventato perché ha visto più lontano degli altri, è stato il solo ad aver concepito un progetto, mentre gli altri non sono stati capaci di andare oltre il livello dei dati immediati. Ora, tutto lascia supporre 31
che i primi « veri » capi fecero la loro comparsa allo stesso modo: una banda di « Signori », di « nobili briganti » si raduna intorno a un Capo che propone il piano di una razzia; e finché dura l'esecuzione del suo progetto egli è rivestito di un'Autorità assoluta: è « dittatore », cioè « re » (cfr. la genesi spontanea dell'Autorità di Capo di Senofonte, in Anabasi, III, 1, 4, 11-14, 24-27, 30-34, 36-47; cfr. anche II, 2, 2-5). Nota. Parliamo qui del Capobanda, e non del Capo dello Stato la cui Autorità è complessa; l'Autorità del Capo ne è soltanto un elemento. Ne riparleremo in B, I. Per il momento diciamo soltanto questo: i sociologi hanno stabilito che lo Stato nasce generalmente là dove una banda di conquistatori, di « Signori », si stabilisce in un paese conquistato e sottomette in misura maggiore o minore gli aborigeni. I vinti sono i « soggetti » dei vincitori, i quali beneficiano, in rapporto ai primi, dell'Autorità di Signori. Il Capo dei vincitori è quindi in primo luogo Capo (in rapporto ai suoi « eguali », ai Signori) e in secondo luogo Signore (in rapporto ai suoi « soggetti », ai Servi, ai vinti). Ed è Capo dello Stato o Sovrano, « Re » o « Dittatore » nel senso proprio del termine precisamente perché è al contempo Capo e Signore. Il che non significa, peraltro, che sia soltanto Capo e Signore. Può beneficiare anche dell'Autorità del Padre e del Giudice. La teoria di Aristotele, quindi, rende conto dell'Autorità del Capobanda. E permette anche di spiegare l'affinità fra questa Autorità e ciò che abbiamo chiamato le sue « varianti ». Questo è chiaro per l'Autorità del Superiore sugli Inferiori. Il Direttore e l'Ufficiale vedono più lontano dell'Impiegato e del Soldato: hanno dati sull'avvenire, concepiscono piani e progetti, mentre gli Inferiori non vedono altro che i dati immediati, i bisogni del momento. Anche se i Superiori si limitano a trasmettere ordini venuti dall'alto, li conoscono prima degli Inferiori e rispetto a questi beneficiano perciò di una prescienza. Lo stesso vale per l'Autorità del Maestro sull'Allievo: 32
l'allievo rinuncia alle reazioni contro gli atti del Maestro perché pensa che quest'ultimo sia già dove lui arriverà soltanto in futuro — il Maestro è avanti rispetto a lui. Analoghe osservazioni si possono fare per l'Autorità del Dotto, del Tecnico, ecc. Essi vedono il fondo delle cose là dove l'incolto vede soltanto la superficie: quindi vedono meglio di quest'ultimo, hanno una visione più ampia e più profonda della cosa. Da qui la possibilità di prevedere gli eventi, ed è quello che ha sempre confermato (cioè creato) l'Autorità dei Dotti. Infine l'Autorità dell'Indovino, del Profeta, dell'Oracolo, ecc., è un esempio particolarmente sorprendente di Autorità conforme alla teoria di Aristotele: l'indiscutibile Autorità dell'Indovino (dell'Oracolo) è un caso puro dell'Autorità del Capo. Invece la teoria di Aristotele non rende conto dell'Autorità del Signore sul Servo, come ha ben mostrato He-gel. E non ha nulla a che vedere nemmeno con l'Autorità del Padre e del Giudice. Certo, il Padre di famiglia può essere nel contempo Capo della banda (se la famiglia ne costituisce una). Ma questa Autorità di Capo non ha nulla a che vedere con quella che ha in quanto Padre, e che a sua volta è diversa dall'Autorità che il Maestro ha sull'allievo. Poiché, in tutta evidenza, l'Autorità del Padre non ha nulla a che vedere con il suo valore personale, com'è il caso di ogni Autorità (pura) di Capo, e delle Autorità miste nelle quali predomina o è presente l'elemento « Capo ». Quanto al Giudice, la sua Autorità non ha nulla a che vedere con un progetto, una prescienza o una predizione. Non propone nulla, « giudica » soltanto ciò che è. E non è la conoscenza più vasta delle leggi che determina l'Autorità del Giudice: è unicamente la sua « giustizia ». Non è quindi la teoria di Aristotele, ma quella di Platone che rende conto dei casi « puri » di Autorità del Giudice. Vediamo dunque com'è la teoria platonica dell'Autorità. Per Platone ogni Autorità è — o, almeno, avrebbe do33
vu.to essere — fondata sulla Giustizia o l'Equità. Tutte le altre forme di Autorità sono illegittime. Che, in pratica, vuol dire non stabili, non durature, passeggere, effimere, accidentali. Non sono che pseudo-autorità. In realtà, il potere che non poggia sulla Giustizia non poggia nemmeno su un'Autorità nel senso proprio del termine. Si conserva soltanto grazie alla forza (al « terrore »). Ora, una conservazione di questo genere è necessariamente precaria. Non vi è dubbio che, nella sua esclusività, questa teoria è falsa. L'Autorità del Signore o del Capo, in quanto tale, non ha evidentemente nulla a che fare con la Giustizia. E anche l'Autorità del Padre è indipendente dal fatto che incarni o meno la Giustizia. Per vedere ciò, basta far notare l'esistenza di conflitti fra l'obbedienza filiale e il sentimento di giustizia. E un ordine del Padre può essere eseguito senza discussione (senza « reazione »), anche se è contrario a ciò che il figlio crede essere giusto. E lo stesso vale nel caso del Signore e del Capo. Ma, d'altra parte, il fatto stesso che tali conflitti esistano prova che la Giustizia può fondare un'Autorità sui generis, capace di controbilanciare, se non distruggere, l'Autorità del Signore, del Capo o del Padre. (Gli esempi sono troppo numerosi e noti perché valga la pena citarli) . La Giustizia, quindi, può servire da base a un'Autorità sui generis, e Platone ha solamente avuto il torto di negare l'esistenza indipendente degli altri tre tipi di Autorità. Prendiamo la leggenda (riportata da Erodoto, I, 96100) sulla nascita della monarchia presso i Medi. I Medi vivevano nell'anarchia (nello Stato di Natura, si dirà più tardi) in cui regnava l'ingiustizia assoluta (il bel-lum omnium contra omnes di Hobbes). Uno di essi (che per ambizione aspirava al potere) si mise a praticare la giustizia. Gli altri andavano a sottoporgli le loro controversie, che lui giudicava da arbitro rispettato. Dato che i clienti diventavano troppo numerosi, rifiutava di rice34
verli tutti dicendo di doversi occupare anche dei propri affari. Allora i Medi, per sgravarlo dalle preoccupazioni personali lo scelsero come Re. Dopo essere diventato re, domandò « guardie per rafforzare il suo potere ». Una volta che le ottenne, «continuò a osservare la giustizia, ma vi aggiunse la severità», perseguendo i colpevoli anche se nessuno glielo chiedeva. (In altri termini, da arbitro che era diventò giudice e procuratore) . Certo, questa è solo una leggenda. Ma mostra che non è contrario alla psicologia fondare un potere e, di conseguenza, un'Autorità assoluti sulla sola Giustizia. E, poiché basta che un'Autorità sia riconosciuta perché di fatto esista, in linea di principio è possibile che l'Autoritú. della Giustizia diventi un'Autorità totale (e, di conseguenza, un potere assoluto) come voleva Platone. Certo, in realtà il potere politico ha ben di rado avuto come base la Giustizia: se questo elemento era presente, era sempre accompagnato da altri elementi (Autorità del Capo, del Signore o del Padre) che lo dominavano. Eppure, rimane il fatto che la Giustizia può essere uno degli elementi dell'Autorità totale. Vi è dunque un tipo puro e irriducibile di Autorità, che possiamo chiamare Autorità del Giudice. In effetti, l'Autorità di un Giudice non può essere spiegata altrimenti che con la teoria di Platone. Ed è evidente che il principio della Giustizia o Equità entra anche nei tipi di Autorità che abbiamo elencato sotto il nome di varianti del tipo « puro » dell'Autorità del Giudice. Certo, il Giudice propriamente detto è un funzionario che dipende da un potere politico, cioè da uno Stato, e che lo presuppone (cfr. la leggenda di Erodoto che abbiamo citato) . Per essere veramente un Giudice, deve essere assistito dalla forza e fondarsi sulle leggi riconosciute da uno Stato. In altri termini, il suo potere è complesso e la sua stessa Autorità sembra implicare necessariamente altri elementi in più rispetto a quello della Giustizia (ad esempio quello del Capo) . Ma resta il fatto 35
che l'Autorità in qualche modo personale del Giudice si regge unicamente sulla sua « equità », essendo così un caso puro di Autorità della Giustizia. Lo si vede chiaramente nella variante dell'Autorità dell'Arbitro (che, a dire il vero, non è una variante, ma il tipo puro; è l'Autorità del Giudice a essere una variante dell'Autorità dell'Arbitro). Se non si reagisce contro gli atti ( « giudizi ») di un Arbitro (liberamente scelto) , significa che si suppone la sua imparzialità, cioè esattamente il fatto che egli incarna per così dire la Giustizia. Così I'« Uomo giusto » o « onesto » ha un'indiscutibile Autorità, anche se non svolge la funzione di Arbitro. In generale, la potentia dell'imparzialità, dell'oggettività, del disinteresse, ecc. genera sempre un'Autorità, e quella di un Controllore, di un Censore, ecc. non può essere spiegata senza far intervenire l'elemento di ciò che abbiamo chiamato Autorità del Giudice. Questo elemento interviene senza dubbio anche nell'Autorità del Confessore. Le tre teorie esaminate corrispondono dunque a tre tipi distinti e irriducibili di Autorità. Ci resta quindi il quarto tipo puro dell'Autoritá. del Padre sui figli, e una quarta teoria - cioè la teoria scolastica o teologica (teocratica) dell'Autorità. E perciò naturale supporre che questa teoria - anch'essa in linea di principio universale- corrisponda in realtà al quarto tipo di Autorità, così come le altre teorie corrispondono ciascuna a un solo tipo puro. Il collegamento fra la teoria teologica e l'Autorità del Padre sembra a prima vista artificioso. Notiamo tuttavia che la teoria teologica, secondo la quale ogni Autorità vera e legittima (che è diversa dalla semplice forza) proviene da Dio e non è che un trasferimento dell'Autorità divina, implica sempre il principio della trasmissione dell'Autorità (umana, di fatto politica, del Capo dello Stato) per via ereditaria. Ora, è soltanto nell'Autorità. del Padre che la nozione di ereditarietà agisce naturalmente: questa Autorità è fondata sul rapporto fra genitori e 36
figli; è naturale ammettere che l'Autorità del Padre passi — come un'eredità — al Figlio (a condizione che divenga Padre a sua volta e che il proprio Padre muoia) . Dato che secondo la teoria scolastica ogniAutorità (umana) è per essenza divina, occorre — per studiare questa teoria—vedere che cosa sia per essa l'Autorità assoluta di Dio. Dato che Dio incarna il summum dell'Autorità, non vi è nulla di straordinario nel fatto che ritroviamo nella teoria teologica tutti i quattro tipi puri che abbiamo elencato. Per l'uomo Dio è « Signore » e « Signore feudale [Seigneur] »: l'Autorità del Signore è quindi un elemento integrante dell'Autorità divina globale. Ma Dio è anche il «Capo », il « Dux degli eserciti» (Sabaoth), il « leader» che guida il proprio popolo conoscendone in anticipo la sorte: quindi nell'Autorità divina interviene anche l'elemento dell'Autorità del Capo . D'altra parte, la « Giustizia divina» è una categoria religiosa di primaria importanza, poiché Dio è sempre concepito come il Giudice supremo dell'uomo, come l'incarnazione sovrana della Giustizia e dell'Equità: l'Autorità divina, quindi, include anche l'elemento dell'Autorità del Giudice. Ma abbiamo già tre teorie che rendono conto di questi tre tipi puri di Autorità. La teoria scolastica, perciò, ci interessa soltanto nella misura in cui può rendere conto dell'ultimo tipo puro di Autorità, ovvero l'Autorità del Padre. Ora, l'Autorità divina globale implica effettivamente quest'ultimo tipo di Autorità: Dio è anche « Padre »; è « Padre nostro che è nei cieli ». La teoria teologica, quindi, deve rendere conto di ciò che abbiamo chiamato Autorità del Padre, aspetto di cui le altre tre teorie non riescono a rendere conto. Nota. Abbiamo visto, quindi, che l'Autorità divina si distingue dall'Autorità umana perché non implica alcun « rischio », dal momento che ogni reazione contro gli atti di Dio è assolutamente impossibile. Nel caso dell'Autorità. del Giudice, ciò 37
non presenta alcun inconveniente, visto che i giudizi divini sono infallibili. Lo stesso vale per l'Autorità del Capo: il potere divino resta un'Autorità, e non una semplice forza, nella misura in cui Dio è ritenuto onnisciente. Ma le cose non stanno così se prendiamo l'Autorità del Signore: l'onnipotenza divina non può affatto fondare la sua Autorità, poiché in fin dei conti non è che una sublimazione della forza bruta. Abbiamo visto che l'Autorità del Signore (che è cosa ben diversa dal suo « potere » o dalla sua « potenza », derivati dalla sua « forza ») è unicamente fondata sul Rischio che egli corre in una lotta a morte. Ora, nel caso di Dio non è affatto così. La teoria teologica, quindi, non può rendere conto del caso puro dell'Autorità del Signore. E gli scolastici hanno dovuto rendersene conto — più o meno incoscientemente, poiché si constata una tendenza assai marcata a eliminare l'elemento « Signore » a favore di quello del « Padre ». Quanto a Dio-Amore, non ha nulla a che vedere con l'Autorità propriamente detta: in questa veste Dio vuol far agire gli uomini spontaneamente; il che vuol dire che rinuncia — in quanto Amore, in quanto amante e amato — alla sua Autorità. Cfr. tuttavia quello che è stato detto sopra sulle affinità fra Amore e Autorità. La nozione di « Dio-Padre » ha acquisito tutto il suo valore e la sua chiarezza soltanto a partire dal momento in cui Dio è stato concepito come il Creatore del Mondo e dell'uomo (ovvero nella teologia giudaicocristiana e islamica) . Nella misura in cui la teoria scolastica spiega o « giustifica » l'Autorità divina con la nozione del «Dio-Padre », essa di fatto si richiama quindi all'idea della Creazione. Dio è il «Padre» degli uomini perché li ha effettivamente « generati », « creandoli » (ex nihilo): ne è la causa («formale»). Ora, un « effetto » non può « rinnegare » la sua « causa »: se la causa agisce sull'effetto (producendolo), l'effetto non può reagire alla causa. E nella misura in cui gli uomini hanno compreso di essere l'opera di Dio, abbandonano la vana illusione della possibilità di una reazione contro gli atti divini: « riconoscono » l'Autorità divina che, in quanto autorità (e non soltanto « potenza », forza), non è altro che questo
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« riconoscimento » (cioè la rinuncia cosciente e volontaria alle « reazioni »). Questa « giustificazione » dell'Autorità tramite il rapporto tra « causa» e « effetto » non ha nulla a che vedere con le sue « giustificazioni » tramite la «previsione », il « rischio » o I'« equità». Si tratta dunque di una teoria distinta dalle tre teorie discusse in precedenza. D'altra parte, è evidente che si applica solamente all'Autorità del Padre e non a quella del Capo, del Signore o del Giudice. Ma la teoria scolastica tenta generalmente di interpretare l'insieme dell'Autorità divina come un'Autorità del Padre (del Creatore, della « Causa »). Nota. La prova dell'esistenza di Dio detta « cosmologica » una « giustificazione » o una spiegazione metafisica dell'Autorità divina concepita sotto forma di Autorità del Padre (= Causa). La prova detta « ontologica » è un tentativo di analisi ontologica della stessa Autorità del Padre-Causa. Quanto alla prova detta « fisico-teologica », « giustifica » l'Autorità divina considerata nell'aspetto dell'Autorità. del Capo. D'altra parte, questa teoria riconduce ogni Autorità umana all'Autorità divina. Ha quindi la tendenza a interpretare ogni Autorità (umana) come una variante dell'Autorità del Padre. (Da qui la tendenza a sottolineare l'elemento « paterno » nell'Autorità dei poteri politici). Ora, l'Autorità del Padre è l'«Autorità » della causa sull'effetto. Ma la causa trasmette, per definizione, la sua «essenza» (o la sua « potenza ») all'effetto. È del tutto naturale, quindi, ammettere il principio ereditario nella trasmissione dell'Autorità del Padre (= Causa). Ed è co-si che la teoria teologica dell'Autorità è diventata la teoria della Monarchia ereditaria. Certo, la nozione di Dio creatore è specificamente giudaico- cristiana, cioè scolastica. Ma ogni teologia e, di conseguenza, ogni teoria teologica dell'Autorità ha nozioni analoghe all'idea di creazione. Il Dio è sempre, più o meno, un Dio tutelare: è una sorta di « causa» del gruppo sociale o politico che « riconosce » la sua Autorità. E 39
lui che assicura la continuità (la «filiazione »), cioèl'uni-tà del gruppo, e fissa la sua « personalità », la sua « individualità» (distinte dalle altre), determinandone l'origine. Da qui il carattere « tradizionale » della divinità e del divino (sacro): Dio è sempre il Dio degli antenati («Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe »). Da qui anche il carattere divino (sacro) di ogni « tradizione »: il passato che determina il presente è generalmente ricondotto, in definitiva, a un'origine divina. Si può affermare, quindi, che la teoria scolastica rende conto non soltanto dell'Autorità del Padre propriamente detta, ma anche del tipo « puro » di Autorità del Padre in generale, così come dei tipi (« derivati» o « complessi ») di Autorità che abbiamo elencato come sue «varianti ». Possiamo quindi affiancare questa teoria alle altre tre, spogliandola del suo carattere teologico. In altri termini, senza far risalire tutte le « cause » a una causa ultima divina, possiamo dire che l'Autorità del Padre (così come le sue « varianti ») si spiega in ultima analisi con la (reale o supposta) impossibilità di (o, più esattamente, della rinuncia cosciente e volontaria a) ogni « reazione » da parte dell'« effetto » contro l'azione della « causa ». Questo è chiaro per il caso « puro » di Autorità del Padre. Quanto alla « variante » dell'Autorità del Vecchio sui Giovani, anche qui ritroveremo (accanto ad altri elementi) la nozione di « paternitá » o di « causa »: è la nozione della « generazione », della paternità « collettiva», poiché la generazione dei vecchi (la «vecchia generazione ») rappresenta la generazione dei padri dei giovani (della « nuova generazione ») . Lo stesso vale per l'Autorità della Tradizione e dei suoi detentori. Questi ultimi non sono soltanto, in quanto vecchi, i padri « materiali » (fisici) degli uomini di oggi: in quanto rappresentanti della Tradizione, sono i loro « padri spirituali », incarnano la « causa » che ha fatto dei contemporanei quelli che sono. Ed è in quanto « causa » che determina la realtà sociale, politica, culturale data che la Tradizione, 40
in quanto tale, esercita un'Autorità: si rinuncia volontariamente e coscientemente a « reagire » contro di essa perché una simile « reazione » sarebbe una reazione contro se stessi, una sorta di suicidio. Da questo punto di vista, l'Autorità del Morto si spiega con il fatto che il morto è ancora più « causa » di chi vive (in genere la « causa » sparisce dopo aver prodotto il suo « effetto » ed esiste soltanto in quest'ultimo o in quanto quest'ultimo). Ma il caso più puro di Autorità del Padre, concepito come « autoritá » della « causa » sull'effetto, è forse l'Autorità che un Autore (nel senso più ampio del termine) esercita sulla sua Opera. (Per esempio: l'Autorità di un « caposcuola » letterario, artistico o altro; l'Autorità di un fondatore di « colonia »; l'Autorità di un Baden Pow-ell sugli scout, ecc.). 3. a) Arriviamo quindi al seguente risultato. Vi sono quattro tipi irriducibili di Autorità. (umana): Padre (Causa) Signore (Rischio) Capo (Progetto-previsione) Giudice (Equità, Giustizia) A ciascuno di questi tipi corrisponde una teoria: Padre: Scolastica [P] Signore: Hegel [S] Capo: Aristotele [C] Giudice: Platone [G] Di fatto, i casi concreti di Autorità reale sono sempre complessi: vi si combinano tutti i quattro tipi puri. Ma si possono tuttavia distinguere a seconda della predominanza di uno — o più — di questi tipi puri: si può essere soprattutto Capo; o soprattutto Giudice; o soprattutto Capo 41
e Giudice; ecc. « Predominanza » significa o che l'Autorità di un tipo determinato è più « grande » rispetto a quella degli altri tipi (per esempio, si « reagisce » meno quando Tizio agisce come Capo piuttosto che quando agisce come Giudice; ecc.), oppure che l'Autorità di un tipo determinato funge da « base » all'Autorità degli altri tipi (per esempio: non si « reagisce » contro i «giudizi » di Caio perché ha Autorità in quanto Capo; oppure, viceversa, non si « reagisce » contro i suoi « progetti » perché ha Autorità in quanto Giudice; ecc.). Nota. A quanto pare, del resto, l'Autorità che funge da « base » è anche, proprio per questo, la più « grande ». Si può anche stabilire, del resto, una gerarchia dei tipi dominanti, quando ve ne siano parecchi (per esempio: se vi è « predominanza » dei tipi di Capo e di Giudice, si può distinguere il caso in cui il Capo « predomina » sul Giudice da quello in cui il Giudice « predomina» sul Capo; ecc.). Ammesso questo, possiamo compilare una lista completa di tutti i tipi possibili di Autorità. Avremo così: 4 tipi puri (P, C, S, G) 6 combinazioni di 2 tipi puri (PC, PS, PG, CS, ecc.) con 2 varianti per ciascuna (PC e CP, ecc.) , ovvero 12 tipi 4 combinazioni di 3 tipi con 6 varianti, ovvero 24 tipi 1 combinazione di 4 tipi con 24 varianti (PCSG, CPSG, GSPC, SPGC, ecc.). In totale otteniamo così 64 tipi di Autorità (4 puri e 60 combinati) oppure 15 (4 puri e 11 combinati) se non si tiene conto delle « varianti ». Se la nostra teoria è esatta, questa lista esaurisce tutte le possibilità. Si tratterebbe soltanto di vedere se tutte sono realizzate o realizzabili. Per ogni caso concreto, si potrebbe vedere a quale tipo (puro o combinato) appartiene. E bisognerebbe vedere che cosa significano tutte queste combinazioni (e trarne tutte le conseguenze). 42
Ovviamente, non è questa la sede per intraprendere un lavoro di analisi fenomenologica completa. Diciamo soltanto che bisogna distinguere accuratamente l'Autorità totale, che ingloba tutti i quattro tipi puri, dalle Autorità selettive, che includono solamente uno, due o tre di questi tipi. È molto importante, infatti, sapere a quale ambito si estende una data Autorità per sapere ciò che essa è, e così poter dire come occorre procedere per fondarla, esercitarla, conservarla e trasmetterla nel modo migliore. Certo, come abbiamo detto, ogni Autorità reale è di fatto, più o meno, totale. In altri termini, accordando a qualcuno l'Autorità di uno dei quattro tipi puri (per esempio quella di Capo), si è naturalmente portati ad accordargli anche quella degli altri tre (in quanto autorità « derivate ») . Allo stesso modo, tutti i detentori di un'Autorità selettiva hanno una naturale tendenza a trasformarla in Autorità totale. D'altra parte, la constatazione dell'assenza completa di un tipo puro (o più tipi puri) di Autorità provoca generalmente l'annullamento del tipo presente (o dei tipi presenti) (per esempio: constatando che un Capo è « nullo » come Giudice, se non «ingiusto », si ha la tendenza a non riconoscergli nemmeno l'Autorità di Capo, ecc.). Sull'esistenza delle Autorità selettive non c'è, tuttavia, ombra di dubbio. In altri termini, l'assenza (relativa) di un tipo• puro di Autorità non annulla, di fatto, l'Autorità di un altro tipo, ma la indebolisce soltanto. Questo ci porta a distinguere tra Autorità assoluta e Autorità relative. Si può parlare di Autorità assoluta là dove nessuno degli atti di chi la detiene provoca «reazione ». Quanto alle Autorità relative, si possono classificare secondo la loro « grandezza » relativa, cioè secondo il rapporto fra il numero di tutti gli atti e il numero degli atti che non provocano « reazione » (fosse anche solo sotto forma di dubbio o discussione). È evidente che l'Autorità assoluta nel senso forte del termine non è mai realizzata in concreto. Solamente 43
Dio è ritenuto tale da possederla (o, più esattamente, avrebbe dovuto averla). Ed è anche evidente che un'Autorità assoluta non può che essere totale. Ma si può dire che un'Autorità totale è necessariamente assoluta? E, in generale, si possono stabilire rapporti « teorici » (a priori) fra il tipo di un'Autorità (pura o complessa) e la sua « estensione» (la sua « grandezza » relativa)? (Per esempio, si può dire che, in linea di principio, nel caso di Autorità Capo + Giudice, la variante Capo-Giudice rappresenti un'Autorità relativamente più grande di quella che corrisponde alla variante Giudice-Capo, ecc.?) . Senza dubbio, lo studio di questi problemi presenta un grande interesse, sia teorico che pratico (politico, ad esempio) . Ma in questa sede non possiamo né svilupparlo né impostarlo. Nota. È uno studio di questo genere che permetterà di risolvere in modo definitivo il problema della « Separazione dei Poteri » e quello della « Costituzione », così come il problema della struttura dello Stato in generale. Si veda sotto, B, I. b) Allo stesso modo, possiamo soltanto sfiorare un altro problema che si ricollega naturalmente all'analisi fenomenologica dell'Autorità, cioè quello della genesi e della trasmissione dell'Autorità. Quanto alla sua genesi, l'Autorità può essere sia spontanea, sia condizionata. Nel primo caso, nasce spontaneamente da atti che emanano da colui che la deterrà, senza presupporre alcun « atto » esterno né, di conseguenza, l'esistenza preliminare di una qualsiasi altra Autorità. L'Autorità condizionata, invece, nasce a seguito di atti differenti da quelli compiuti da colui che la deterrà, e generalmente presuppone l'esistenza di un'altra Auto-ritá, dalla quale dipende. Lo studio della genesi condizionata dell'Autorità conduce quindi allo studio della trasmissione dell'Autorità. Tutti i quattro tipi puri di Autorità possono avere un'origine o una genesi spontanea. È il rischio personale 44
a generare l'Autorità del Signore, e non c'è alcun bisogno che prima vi sia una qualsiasi altra Autorità: è facile immaginare la comparsa del « primo » Signore sulla terra, « prima » che ci fossero le Autorità. del Capo, del Giudice o anche del Padre. Ma ad ogni modo si può supporre che la « prima » Autorità fu quella del Capo: l'atto personale del « primo » uomo che ha proposto il « primo » progetto e che ha potuto fondarlo in un'« epoca» in cui non vi era ancora, in generale, Autorità. Si può anche ammettere la leggenda di Erodoto (citata sopra), secondo la quale quella del Giudice fu la « prima » Autorità, generata spontaneamente dall'esercizio personale della Giustizia da parte di un solo individuo. Quanto all'Autorità del Padre, sembra che non si possa parlare di genesi spontanea, poiché l'individuo non fa nulla per ottenerla. Ma, in realtà, questo caso non è diverso dai precedenti: nel senso ampio del termine, occorre « fare » qualcosa anche per ottenere l'Autorità del Padre, cioè bisogna diventare padre (oppure, nel caso derivato, raggiungere un'età più o meno avanzata). La sola differenza è che, in questo caso, ogni uomo, in linea di principio, è capace di « fare » ciò che è necessario per beneficiare dell'Autorità del Padre (poiché basta vivere sufficientemente a lungo — il che non accade a tutti), mentre negli altri tre casi di Autorità si tratta di « azioni » nel senso stretto del termine, di atti personali che richiedono un « talento » speciale che non tutti possiedono. Ad ogni modo, ci si immagina benissimo la comparsa del « primo » Padre, investito dell'Autorità corrispondente, in un'« epoca » in cui non esiste ancora nessun'altra Autorità. Ed è il Padre stesso che genera l'Autorità di cui beneficerà. Invece, bisogna distinguere da questi casi di genesi spontanea le cause di una genesi condizionata. Secondo l'ipotesi del « contratto sociale », ad esempio, la « prima» Autorità (politica) è nata da una decisione (collettiva), cioè da un atto non di colui che eserciterà l'Autorità, ma di coloro che la subiranno. In questo caso, per45
ciò, l'Autorità è condizionata da altro rispetto a se stessa, da altri atti che non sono quelli di chi la incarnerà. E lo stesso succede quando l'uomo che deve incarnare l'Autorità è tirato a sorte o designato da qualcosa che non ha nulla a che vedere con i suoi propri atti (« meriti ») o con la sua « personalitá » in generale (il caso del Dalai Lama, ad esempio). Ma ci si può domandare se, in casi di questo genere, vi sia realmente una genesi dell'Autorità. Sembra piuttosto che ci troviamo di fronte a una trasmissione di Autorità, poiché la comparsa della nuova Autorità è condizionata dall'esistenza preliminare di un'altra Autorità. Il «contratto sociale », anche agli occhi dei suoi sostenitori, è stato soltanto un'« ipotesi di lavoro »: non hanno mai affermato che l'Autorità sia effettivamente nata in questo modo. E l'analisi fenomenologica esclude tale possibilità. Secondo questa analisi, ogni Autorità è o quella del Padre, del Capo, del Signore o del Giudice, o una combinazione di queste Autorità «pure ». Ora, abbiamo visto che ciascuna delle Autorità «pure » è capace di generarsi spontaneamente. È invece inconcepibile che una di esse sia generata (per la « prima » volta) a seguito di un « contratto sociale », o di un sorteggio odi un altro atto di questo genere. Quanto ai casi concreti noti di « genesi » condizionata, si rivelano tutti essere non vera genesi. Da un lato, vi è generalmente un intervento dell'Autorità divina già « riconosciuta» (cioè esistente) in precedenza: la sorte, ecc., non fa che designare l'eletto di Dio, il quale gli trasmette la propria Autorità. Dall'altro lato, non si tratta mai della nascita di un'Autorità nuova: l'Autorità è già presente (cioè è già « riconosciuta »), e si tratta solo di cambiare il suo « supporto » materiale (umano), facendolo passare da un individuo (o gruppo) a un altro, sicché anche qui vi è una trasmissione di Autorità. Possiamo dire, quindi, che ogni vera genesi dell'Autorità è necessariamente spontanea (e che vi è un tipo par46
ticolare — « puro » o « composto » — di genesi per ciascun tipo — « puro » o « composto » — di Autorità) . Quanto alle cosiddette « genesi » condizionate, non sono che casi di trasmissione. E ora dobbiamo occuparci proprio del problema della trasmissione dell'Autorità. Nota 1. Non bisogna confondere la nascita (la genesi) di un'Autorità con i segni esteriori del suo « riconoscimento ». Certo, l'Autorità esiste solamente nella misura in cui è « riconosciuta »: il Signore è Signore del suo Servo solo nella misura in cui quest'ultimo lo « riconosce » in quanto tale (o si « riconosce » come Servo); ecc. Quindi si può dire che la genesi dell'Autorità è la genesi del suo « riconoscimento » da parte di coloro che la subiranno. Ma è proprio per questo che si può dire — dato che è la stessa cosa — che l'Autorità si impone da sé a coloro che la subiscono: o non vi è per nulla Autorità, oppure è «riconosciuta» per il solo fatto che esiste. L'Autorità e il « riconoscimento » dell'Autorità sono tutt'uno. Da questo « riconoscimento » (dell'Autorità) si può però distinguere ciò che si potrebbe chiamare la sua manifestazione. Tale «manifestazione » non è soltanto « segno esteriore di rispetto », ecc., ma anche la forma esteriore dell' « atto di riconoscimento » stesso. Per esempio: durante un'assemblea qualcuno propone un « progetto » e perciò viene « eletto » Capo; è il suo progetto che ha generato l'Autorità del Capo, e non l'« elezione » degli altri; non ha Autorità perché è stato eletto; è stato eletto perché ha già beneficiato dell'Autorità nata dal suo «progetto »; l'elezione è stata solamente la « manifestazione », il « segno esteriore » della sua Autorità, generata spontaneamente (cioè attraverso l'atto di « riconoscimento » della sua Autorità). In generale, l'Autorità (e il suo « riconoscimento ») nasce (spontaneamente) nel « candidato » (che sarà eletto) prima della sua elezione, che è solo una (prima) manifestazione di questa Autorità già esistente (cioè « riconosciuta »); allo stesso modo, la non-elezione di un «candidato » non fa che manifestare la sua mancanza di Autorità. Nota 2. La teoria (« democratica ») del « contratto sociale » è nata da un'interpretazione errata del fatto che esistono le elezioni (politiche o altre). Da un lato, questa teoria non vede che l'elezione, come abbiamo appena detto, non genera l'Au-toña, ma la « conferma », cioè la manifesta semplicemente
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all'esterno (come fa ogni atto di obbedienza, cioè di rinuncia álla « reazione »). Dall'altro lato, questa teoria dimentica che i casi noti di elezione si basano sugli uomini e non sul principio: l'elezione trasmette l'Autorità già esistente (cioè riconosciuta) da un individuo (o un gruppo) a un altro, ma non crea mai un'Autorità che prima non esisteva da nessuna parte. Del resto, l'analisi di questa teoria mostra che essa stessa ha in mente un caso di trasmissione di Autorità. Presuppone infatti che, attraverso e nell'atto dell'elezione, l'Autorità passi dagli elettori all'eletto (o agli eletti), così che i primi si privano della loro Autorità (= « potere ») a favore dell'eletto. Ed effettivamente è solo così che si può giustificare tale teoria (correggendola) : poiché se non vi fosse stata nessuna Autorità esistente, un'elezione non avrebbe mai potuto generarla; del resto, non vi sarebbe stata elezione, poiché non vi sarebbe potuto essere un eletto. (Perché uno piuttosto che un altro, a meno che questo non abbia già un'Autorità? E se è il caso a decidere, perché « eletto » avrebbe un'Autorità, a meno che il caso sia un'Autorità divina? Se invece io ho Autorità, anche il mio eletto ne ha; si veda sotto) . Ma qual è l'Autorità che si trasmette attraverso e nell'elezione? In tutta evidenza, e per definizione, non si può avere autorità su se stessi, poiché l'idea stessa di « reazione » non avrebbe qui alcun senso. Così, il fatto che io — individuo isolato—ho « eletto » qualcuno non dà all'« eletto » alcuna autorità su di me (piuttosto è vero il contrario!), a meno che non abbia un'Autorità (da me « riconosciuta ») indipendente dalla mia « elezione ». Si parla così, a ragione, di elezione collettiva e non individuale. Ora, in questo caso la nozione di Autorità ha un senso. Poiché in un gruppo si può distinguere il tutto dalle parti (di questo tutto) e una parte dall'altra (o dalle altre). E si può parlare di un'Autorità del tutto sulle parti, o di una parte sull'altra (o sulle altre), in particolare di un'Autorità della maggioranza sulla minoranza (o della minoranza sulla maggioranza) . E l'elezione non fa che trasmettere quest'Autorità giá. esistente (cioè riconosciuta) all'eletto.
Tutta la questione, quindi, si riduce a sapere se que48
sta Autorità è un'Autorità sui generis, distinta dalle Autorità. del Padre, del Capo, del Signore e del Giudice (e dei loro « composti ») che abbiamo individuato e descritto. Ora, è quello che afferma la teoria del « contratto sociale » (parlando in generale dell'Autorità sui generis che ha la Maggioranza sulla Minoranza). Dobbiamo perciò vedere se questa teoria è esatta. (Se è esatta, la nostra è falsa. Se la nostra è vera, l'Autorità in questione deve poter essere ridotta o a uno dei nostri tipi « puri », o a una qualsiasi delle loro « combinazioni »). I casi in cui una parte del gruppo esercita sull'altra un'Autorità di tipo conosciuto non ci interessano: che essa sia collettiva o individuale non cambia nulla in merito alla sua natura né al modo in cui è stata generata (per esempio l'Autorità del Capo può essere incarnata tanto da un gruppo quanto da un individuo; ecc.). Si tratta di sapere se vi è un'Autorità sui generis che spetta alla parte del gruppo unicamente in quanto parte. Ora, questa Autorità può essere fondata soltanto sul valore quantitativo del gruppo. Poiché il valore « qualitativo » non è nient'altro che quello del Padre, del Capo, del Signore o del Giudice, sicché ricadremmo nei casi già studiati (perché, parlando di questi tipi di Autorità, non abbiamo distinto fra i casi di Autorità individuale e collettiva) . Ora, dal punto di vista quantitativo, si presentano solamente tre casi: la parte che esercita un'Autorità sull'altra può essere o uguale a essa, o formare la Maggioranza, o formare la Minoranza. Se le due parti sono uguali, non vi è evidentemente alcuna ragione perché una delle due eserciti — in quanto parte — un'Autorità sull'altra; se lo fa, è perché vi sono ragioni « qualitative », qualità di Capo, di Giudice, ecc. Invece, in linea di principio, una Maggioranza può esercitare un'Autorità. sulla Minoranza unicamente perché è una Maggioranza; allo stesso modo, una Minoranza può farlo unicamente in quanto parte, cioè per il fatto di essere una Minoranza. Le teorie del «contratto sociale » (le teorie « democratiche ») affermano in genere (ma non sempre: cfr. Rous49
seau!) che vi è un'Autorità sui generis della Maggioranza in quanto Maggioranza; e si può dire che è quest'Autorità sui generis a essere trasmessa all'eletto con l'elezione. Ora, in realtà, se si può parlare di un'Autorità della Maggioranza, si può comunque parlare di un'Autorità della Minoranza. Certo, la prima sembra essere più evidente: si riscontrano continuamente casi in cui ci si sottomette (coscientemente e volontariamente) agli atti della Maggioranza solo perché si tratta della Maggioranza. Ed esiste una variante ben nota di questa Autorità: l'Autorità dell' « opinione pubblica », del « cosa dirà la gente », il desiderio di « non farsi notare », di «fare come fanno tutti », ecc. Ma non vanno trascurati, comunque, i casi contrari. Vi è quella che si potrebbe chiamare l'Autorità dell' « originale» sul « banale »; esiste anche la sfumatura negativa attribuita alle parole « grande massa», «folla», « volgo », «uomo medio », ecc. Vi è anche il fenomeno universalmente diffuso detto «snobismo ». Lo « snob » è un uomo che immagina di essere « originale », particolare », ecc., ma che, in realtà, è schiavo di un'Autorità (non meno che il « piccolo borghese »), del «cosa dirà la gente »; semplicemente, riconoscerà soltanto l'Autorità di ciò che crede essere l'« élite », supponendo tacitamente che questa sia necessariamente una Minoranza. Si sarebbe quindi tentati di dire che vi sono casi (per esempio lo «snobismo ») in cui la Minoranza esercita un'Autorità sui generis per il solo fatto di essere una Minoranza, così come ci sono casi (per esempio il « proboviro ») in cui la Maggioranza esercita un'Autorità in quanto Maggioranza. Vediamo se questi sono casi di Autorità sui generis oppure se possono essere interpretati come combinazioni dei nostri tipi « puri ». Prendiamo innanzitutto il caso della Maggioranza, ammettendo, ovviamente, che la sua Autorità provenga unicamente dal fatto che si tratta di una maggioranza. Ora, di fatto, e per definizione, qui non vi è alcuna Autorità possibile. Infatti, visto che non si può esercitare Autori50
tà su di sé, non ha alcun senso parlare di un'Autorità della Maggioranza su se stessa (cioè sui suoi membri, perché la Maggioranza è per definizione una quantità, ovvero una somma dei suoi membri). Quanto alla Minoranza, la sua stessa esistenza prova che non riconosce l'Autorità della Maggioranza, perché formare una minoranza significa precisamente opporsi alla maggioranza, quindi « reagire » (in un modo o nell'altro) contro i suoi atti. Ora, là dove non vi è Autorità, le « reazioni » possono essere soppresse soltanto con la forza. Dunque, là dove la Maggioranza si appella a una cosiddetta «Autorità» sui generis, dovuta solamente al soprannumero, si appella di fatto alla pura e semplice forza. (Un regime puramente e unicamente maggioritario è un regime fondato sulla sola forza. Quindi si può opporre il regime « maggioritario » al regime « autoritario », dove quest'ultimo si basa sull'Autorità, il primo sulla forza) . Nota. Dato che — a parità di « quanti. » — la maggioranza è necessariamente più forte della minoranza, la Minoranza generalmente se ne rende conto e rinuncia coscientemente a ogni « reazione » destinata in partenza al fallimento. Ed è per questo che in genere la Maggioranza non ha bisogno di usare la forza o ricorrere alla violenza. Questa rinuncia cosciente alla « reazione » produce allo stesso tempo l'illusione di un'« autorità » sui generis della Maggioranza. Ma si tratta solo di un'illusione, poiché questa rinuncia cosciente non può essere definita come volontaria. In linea generale, il forte può quasi sempre imporsi senza usare effettivamente la forza, essendo più che sufficiente la sola minaccia per provocare una rinuncia a qualsiasi tentativo di reagire; ma una tale rinuncia alla « reazione » non ha nulla a che vedere con il riconoscimento di un'Autorità. Se un campione di pugilato mi dice di uscire da un bar, lo faccio senza « reagire », ma certo non perché ai miei occhi possiede un'Autorità. Non vi è dunque Autorità sui generis che pertiene a una Maggioranza per il solo fatto che è una Maggioranza. E lo stesso vale per la Minoranza. Certo, essendo la Mi51
noranza necessariamente più debole (fisicamente, cioè quantitativamente) della Maggioranza, il suo potere può provenire solo dalla sua Autorità (i regimi minoritari sono necessariamente « autoritari »). Ma questa Auto-ritá non proviene mai dal fatto che la Minoranza è una Minoranza. La « giustificazione » (la « propaganda ») è sempre del tipo: « Sebbene non siamo che una minoranza, noi... ». L'Autorità di cui si riveste una Minoranza è « giustificata » o spiegata dalla « qualitá » e non dalla quantità. (Anche lo « snob » si appella a un' élite, e non alla minoranza). Il che significa che non vi è Autorità sui generis della Minoranza. E l'analisi dei casi concreti mostra che la Minoranza si appella sempre all'Autorità o del Padre, o del Capo, o del Signore, o del Giudice (oppure delle loro « combinazioni »). In breve, il fatto di essere in maggioranza o in minoranza non può mai, di per sé, generare un'Autorità; l'Autorità della Maggioranza o della Minoranza è o illusoria (semplice forza), oppure appartiene a uno dei tipi menzionati prima o alle loro « combinazioni » (poiché, del resto, questa Autorità può appartenere tanto alla Minoranza quanto alla Maggioranza). La teoria del « contratto sociale », però, non ha necessariamente il carattere di una teoria « maggioritaria ». Si può anche dire: la variante che suppone (a torto) l'esistenza di un'Autorità sui generis della Maggioranza sulla Minoranza non è che una distorsione della teoria primitiva (cfr. Rousseau), che ammette (più o meno coscientemente) l'esistenza di un'Autorità sui generis del Tutto sulle Parti. (Così, per Rousseau, l'Autorità del Tutto — o della «volontà generale » — non si esprime necessariamente con una Maggioranza; in alcuni casi può anche essere contraria alla somma di tutte le volontà particolari. Cfr. « contratto sociale »). Il dato di fatto dell'esistenza della «volontà generale» (opposta alle volontà particolari e alla loro somma, indipendentemente dalla questione del numero) è indiscutibile. È un fatto che esiste da sempre, e che Rousseau ha 52
solo avuto il merito (enorme!) di avere messo in luce. La «volontà generale » di Rousseau (che possiamo chiamare l'Autorità del Tutto sulle Parti) è ciò che un tempo veniva chiamata «ragion di Stato », ecc. È a essa che faceva appello un governo pagano che andava a consultare l'Oracolo. È a essa che si richiamavano, nel Medioevo, la Chiesa e il Papa, opponendola alle «volontà particolari » dei signori feudali e dei re. (Il conflitto fra Potere spirituale e Potere temporale è cominciato quando un re, proclamandosi «imperatore », ha preteso di rappresentare questa «volontà generale » - oltre alla sua «volontà particolare » di re). Ed è solamente nel momento in cui la «volontà generale» non ha più avuto un carattere divino (cioè « ideologico », interpretato da capi « spirituali ») che si è concepita l'idea secondo la quale la «volontà generale » si esprime attraverso la volontà della Maggioranza. (Quest'idea errata è stata abbandonata quando si è potuto trovare, o si è creduto di trovare, un altro « supporto » della «volontà generale »: il « Proletariato » di Lenin-Stalin, I'« Impero »* di Mussolini, il Volk di Hitler, ecc.). Il fatto é perciò inconfutabile. Tutta la questione si riduce a sapere se questo è un caso di Autorità sui generis oppure una combinazione qualsiasi dei nostri tipi « puri » di Autorità. Ora, l'analisi fenomenologica sembra mostrare che è proprio così (N.B.: La questione andrebbe studiata più da vicino). La nozione stessa di «volontà generale » (così come il fatto che generalmente tende ad assumere l'aspetto di un'Autorità divina) mostra che essa rivendica un'Autorità totale (e non selettiva) e assoluta (e non relativa). In altri termini, deve includere tutte le forme di Autorità. Vediamo dunque se è un' altra cosa ancora rispetto a una combinazione dei nostri quattro tipi « puri », e se li comprende tutti. È evidente che occorre cominciare col cercare l'ele* In italiano nel testo [N.d.C.]. 53
mento dell'Autorità del Signore. Dato che il Tutto, nella misura in cui è distinto dalla somma delle Parti, non è una realtà fisica (materiale), non ha il problema di rischiare la sua vita in una lotta a morte. Quindi l'Autorità del Tutto sulle Parti non può mai essere quella di un Signore sui suoi Servi. (Questa « idealità» o « irrealtà» del Tutto fa anche sì che la «volontà generale» non abbia nulla a che vedere con la forza, poiché non è che Autorità pura). Ma qual è in generale il rapporto del Tutto con le Parti? Un Tutto meccanico non è altro che la somma delle Parti; lungi dal determinare le Parti, il Tutto è completamente determinato da esse. È solo nell'organismo vivente che si può opporre il Tutto alle Parti e dire che, in una certa misura, le Parti si « sottomettono » al Tutto e sono determinate dal Tutto in quanto tale (cfr. la nozione aristotelica di entelechia, che ha conservato di fatto tutto il suo valore nelle argomentazioni specificamente biologiche e non fisiche, chimiche, ecc.). Quindi si può parlare di un'Autorità del Tutto sulle Parti solo nella misura in cui la società (o lo Stato) è concepita per analogia con un organismo. Tale analogia dovrà quindi guidare l'analisi fenomenologica dell'Autorità attribuita alla «volontà generale ». Ora, l'idea (biologica) del Tutto è tenuta a rendere conto di due cose: 1) dell'ereditarietà, cioè della continuità della struttura dell'organismo (« la gallina viene prima dell'uovo ») e 2) dell'armonia dei vari elementi dell'organismo. Invece, la causalità (finalità) del Tutto esclude ogni specie di modificazione « rivoluzionaria » dell'organismo (« mutazione »): se la specie (il Tutto) cambia in seguito al cambiamento di una (o più di una) delle Parti. Si può dire, quindi, che il Tutto determina le parti là dove vi è armonia e continuità, ma in ogni cambiamento («essenziale ») sono le Parti a determinare il Tutto. Per tradurre la cosa in linguaggio «autoritario », si può dire che l'Autorità della «volontà generale » è una combinazione delle Autorità del Padre e del Giudice, 54
ma non riveste mai il carattere di un'Autorità del Capo. In effetti, il Capo si costituisce Capo a seguito di un progetto che propone, cioè in funzione di un cambiamento (più o meno radicale, peraltro soltanto progettato) della realtà data. È quindi solo una volontà « particolare » (la Parte) che può rivestire l'Autorità del Capo. (Anche in Rousseau, le riforme e le innovazioni si realizzano grazie al « Legislatore » che ha chiaramente il carattere di un «individuo ». In linea di principio, del resto, nulla si oppone al fatto che sia un individuo collettivo— minoritario o anche maggioritario. Ma di sicuro non è un « Tutto » opposto alle « Parti »: è una « Parte » opposta al Tutto). Invece l'Autorità del Padre esprime bene l'aspetto « ereditario », la componente di « continuitá » della causalità del Tutto. Si può quindi dire che l'Autorità della «volontà generale » è del tipo « Padre »: è l'Autorità della « causa » (« finale »), cioè anche della « tradizione », di tutto ciò che contribuisce al mantenimento dell'identità con se stessa. Ma dato che si tratta di un Tutto, cioè di più Parti, l'identità in questione non è un'unità, bensì ha una struttura interna complessa. In altri termini, questa identità determina un' armonia delle Parti. Ora, nel mondo umano (sociale o politico), tale armonia non può essere altro che la Giustizia. L'Autorità della « vo-lona generale » è quindi un'Autorità del Padre abbinata a quella del Giudice, dove la prima è l'autorità di « base » (o « primaria »). (Nella nostra lista, quindi, quest'Autorità realizza il tipo PG). D'altra parte, tutta questa analisi mostra che la «volontà generale » non beneficia di nessun' altra Autoritá sui generis se non quelle di Padre e di Giudice. Se ora passiamo dall'Autorità del Tutto a quella della Maggioranza, vediamo che l'elemento dell'Autorità del Giudice necessariamente scompare. Il fatto stesso che esista una Minoranza prova che le Parti del Tutto non sono in armonia, e ciò vuol dire che il Tutto non è più dominato dalla « Giustizia ». Quindi, nella misura in cui la Maggioranza invoca la sua maggioranza, anche nei 55
rapporti con la Minoranza, non può invocare l'Autorità del Giudice. Se non beneficia di nessun'altra Autorità, deve fare appello alla sola forza. Se pare avere Autorità in quanto Maggioranza, in realtà ha Autorità soltanto come rappresentante dell'Autorità del Tutto (della «volontà generale »). Ma in quanto Maggioranza (che, per definizione, non comprende tutti i cittadini) non può rappresentare l'elemento «Giudice ». Dunque non può che invocare l'Autorità del Padre. In altri termini, o non vi è affatto Autorità della Maggioranza, oppure si tratta di un caso di Autorità del Padre. In ogni modo non vi è Autorità sui generis. Tale analisi è ben confermata dall'esperienza. Nella misura in cui la Maggioranza ha Autorità (che le deriva dal suo stesso numero), interviene come custode della tradizione, ecc. La sua Autorità è quella di un « Senato », di un «Censore », ecc. Ed è anche l'Autorità del « cosa dirà la gente ». Così tutti coloro che volontariamente e coscientemente propongono cose nuove se ne infischiano della Maggioranza. E allo stesso modo la Maggioranza perde ogni prestigio durante le epoche « rivoluzionarie », nelle quali la società sa di essere e vuole essere in cambiamento. Passiamo ora al problema della trasmissione dell'Autorità. Questa trasmissione si verifica o per eredità, o per elezione, o per nomina. Consideriamo innanzitutto la trasmissione ereditaria. In ogni trasmissione di Autorità si presuppone (più o meno coscientemente) che l'Autorità non sia legata a una persona determinata (da cui, sia detto di sfuggita, la possibilità di un possesso collettivo dell'Autorità). L'Autorità resta la stessa (le persone che la rappresentano la incarnano, la realizzano, le servono da supporto materiale, ecc.), mentre la persona può essere sostituita da un'altra. Il che significa che l'Autorità è generata non dall'essere di colui che la detiene, ma dai suoi atti (o le sue «qualità»; non dalla « sostanza », ma dagli « attribu56
ti »): se una o altre persone compiono questi stessi atti, beneficeranno della stessa Autorità. L'Autorità può quindi restare identica a se stessa, pur essendo trasmessa da una persona (individuale o collettiva) all'altra, a condizione che tutte ripetano gli atti che hanno generato tale Autorità. Ora, la trasmissione ereditaria è fondata sulla teoria (più o meno cosciente) secondo la quale gli atti, o, più esattamente, la « virtù » o la possibilità di compierli, si trasmettono di padre in figlio. Da cui l'idea che il figlio (o, in generale, un parente) eredita l'Autorità del padre. A dire il vero, questa teoria della trasmissione dell'Autorità è basata su una concezione molto «primitiva », se non « magica ». La « virtù » (= possibilità dell'atto) è concepita come una sorta di sostanza semimateriale (il « mana »), presente (in modo più o meno completo) in tutti i membri di una stessa famiglia e che si trasmette nel modo più completo di padre in figlio (e non alla figlia); essa si riduce gradualmente (il figlio minore ne riceve meno del maggiore, ecc.) . (Variante più tarda: se l'Autorità è di origine divina, la divinità si trasmette di preferenza al primogenito). A mano a mano che questa concezione « materialista» dell'Autorità veniva demolita (e, di fatto, nulla fa supporre che le « virtù » che generano e mantengono l'Autorità siano ereditarie), la trasmissione per eredità perdeva prestigio. Al giorno d'oggi la si può considerare pressoché inesistente. In epoche remote, si trovano esempi di applicazione di questo modo di trasmissione a tutti i tipi di Autorità (anche a quella del Giudice) . Ma attualmente sembra che la si voglia rigettare per intero. Il fatto è che questo modo di trasmissione dell'Autorità si fonda su una teoria errata che quindi, prima o poi, è destinata a scomparire. Ma fra tutti i tipi di Autorità, la più adatta, per sua stessa natura, è sempre quella del Padre, nella misura in cui tale Autorità non è altro che l'Autorità della tradizione. 57
Nota. L'Autorità del monarca « costituzionale » si riduce nell'essenziale a quella del Padre: è per questo che, nel suo caso, la trasmissione ereditaria ha potuto mantenersi fino ai giorni nostri, senza urtare eccessivamente l' « opinione pubblica ». Ma sembra impossibile tentare di assegnare al Capo dello Stato l'Autorità del Capo, del Giudice e, perciò, del Signore mantenendo il principio della trasmissione della sua Autorità per via ereditaria. Osservazioni analoghe si possono fare per il « Senato » ereditario: per esempio la Camera dei Lord. Restano dunque gli altri due modi di trasmissione: l'elezione e la nomina. A prima vista, questi termini sembrano sinonimi. Si è soliti dire: ad Atene i magistrati erano eletti dall'Assemblea del popolo; il Gran Re nominava i satrapi. Ma si sarebbe potuto anche dire che la Maggioranza nomina i candidati (poiché li designa senza consultare nessuno, senza che la sua volontà sia limitata da chicchessia) e che il Dittatore elegge i suoi collaboratori (poiché sceglie quelli che ritiene i migliori). Ad ogni modo, il fatto che si tratti di una sola o più persone, che vi sia o meno un voto, non costituisce una differenza essenziale (i Trium-viri romani potevano, fra di loro, mettere ai voti una candidatura; tuttavia si trattava di nomina, e non di elezione) . Eppure, quando si parla di « elezione » e di « nomina », si ha l'impressione di utilizzare due categorie politiche distinte. E, in effetti, una differenza essenziale c'è, e la si può mostrare definendo queste nozioni nel modo seguente: vi è trasmissione dell'Autorità per nomina quando il candidato all'Autorità è designato da colui (o coloro) che detiene egli stesso un'Autorità, e un'Autorità dello stesso tipo (per esempio un Capo nominato da un Capo); vi è trasmissione per elezione quando il candidato è designato da coloro o colui che o non ha alcuna Autorità oppure ha un'Autorità di un altro tipo (per esempio un Giudice nominato da un Capo). In effetti, nel secondo caso, vi è davvero elezione, cioè scelta (del migliore), poiché il candidato non può derivare la sua Autorità da colui che l'ha eletto, visto che costui non ne 58
ha, e la deve quindi solo a se stesso (l'elezione, infatti, non fa che rivelare il suo « valore », cioè proprio la sua Autorità); nel primo caso, invece, il candidato può essere, in linea di principio, uno qualunque, visto che deriva la sua Autorità da colui che l'ha scelto (costui può trasmettergli la sua «virtù » per esempio sotto forma di direttive, di consigli, di educazione, ecc.). Nota 1. A rigor di termini, l'elezione non differisce essenzialmente dal sorteggio. Certo, l'elettore — individuale o collettivo — crede di scegliere i migliori. Ma se non ha alcuna Autorità, la sua scelta per gli altri non ha alcun valore; quindi, dal loro punto di vista, è come se il candidato fosse tirato a sorte; a meno che l'elettore non abbia un'« autorità negativa », conviene tirare a sorte i giudici piuttosto che farli eleggere da banditi. Lo stesso vale per l'elettore che possiede un'Autorità di un tipo diverso rispetto a quella che si vuole trasmettere: in questo caso egli è incompetente. Quindi: il suffragio universale diretto — e il plebiscito — non differiscono dal sorteggio. Così si è visto che, nelle « democrazie » antiche, l'elezione tramite voto spesso stava accanto all'elezione per sorteggio. In un regime parlamentare, il Parlamento ha ereditato l'Autorità del Re: quindi nomina coloro che designa. Il punto è sapere di quale natura sia l'Autorità del Parlamento. Se i suoi membri sono eletti a suffragio universale diretto significa che sono tirati a sorte: l'Autorità del Re, quindi, non è più trasmessa per eredità ma per sorteggio. Si tratta allora di sapere quali elementi di questa Autorità sono riusciti a sopravvivere al cambiamento del modo di trasmissione. Generalmente, resta solo l'Autorità del Capo; gli altri tre tipi spariscono. Nota 2. Nel caso della nomina, il nominante può trasmettere al nominato una parte della sua Autorità senza che questa diminuisca: si può dire che il nominato fa parte del suo proprio corpo, servendo insieme a lui da « supporto » all'Autorità che resta la stessa. Così la perdita di Autorità del nominato è considerata una perdita di Autorità del nominante: commettere un
qualsiasi errore o nominare qualcuno che lo commette è quasi la stessa cosa; nominare un altro al posto di colui che l'ha commesso significa: correggersi da soli. Ma il nominante 59
può anche trasmettere al nominato tutta la sua autorità: nominare il suo successore. Nota 3. Se la trasmissione ereditaria ha come presupposto una teoria errata, quella per elezione, cioè per sorteggio, è anch'essa manifestamente molto poco soddisfacente (a meno che non si faccia intervenire l'Autorità divina, sicché il sorteggio o l'elezione rivelano semplicemente la nomina di Dio). L'unico modo di trasmissione ammissibile resta quindi la nomina. Ma è evidente che a qualsiasi trasmissione bisogna sempre preferire la genesi spontanea dell'Autorità: quando occorre sostituire un rappresentante di un'Autorità con un altro, la cosa migliore è riconoscere l'Autorità del candidato che si impone da sé. Ricordiamoci, del resto, che le cosiddette elezioni non sono in genere che manifestazioni esterne di una tale genesi spontanea. Il punto è organizzare il regolamento elettorale in modo che non ostacoli queste genesi. Per sua stessa natura, l'Autorità presuppone una generazione spontanea. Una trasmissione, quale che sia, dell'Autorità la diminuisce sempre, in misura maggiore o minore. Ma se si considerano i quattro tipi puri separatamente, si vedrà che la meno adatta a una trasmissione è l'Autorità del Giudice. Per avere una vera Autorità del Giudice, il suo rappresentante dovrebbe sempre beneficiare di un'Autorità spontanea, fondata sulla sua personale « giustizia » («equità», « onesa »). Nota. Il sorteggio dei giurati è una specie di genesi spontanea dell'Autorità del Giudice: scelti a caso, i giurati sono tenuti a essere imparziali, cioè a realizzare la « virtù » della giustizia che è alla base dell'Autorità del Giudice. Così la loro Autorità vale solamente nel caso per il quale sono stati scelti, cioè nel quale sono tenuti a essere «giusti ». Quanto all'Autorità del Padre, abbiamo visto che era la più adatta alla trasmissione per eredità. (Dopo viene la nomina, cioè la designazione da parte di un detentore dell'Autorità del Padre stessa, e in ultimo l'elezione, cioè il sorteggio). L'Autorità del Signore, nella misura in cui si può trasmettere, sembra essere la più adatta a
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un'elezione (cioè al sorteggio) , visto che nella genesi spontanea dell'Autorità del Vincitore il caso svolge già un certo ruolo. Nota. È forse questa la ragione per la quale i « tiranni » hanno la tendenza a far confermare la loro Autorità tramite plebisciti. La trasmissione ereditaria, invece, è assolutamente contraria a questo tipo di Autorità (fondata sul « Rischio » personale) e la signoria ereditaria è sempre stata fondata sulla Forza, e non sull'Autorità. Infine, l'Autorità del Capo, nella misura in cui deve essere trasmessa, è più adatta alla nomina (ovviamente: da parte di colui che detiene l'Autorità del Capo): visto che il Capo è tenuto a prevedere il futuro (riuscire nei suoi progetti), è tenuto a dover conoscere in anticipo il comportamento di colui che nomina, sicché la nomina da parte di un Capo riconosciuto può, in linea di principio, trasmettere un'Autorità anche diversa rispetto a quella del Capo. In altri termini, nella misura in cui non vi è genesi spontanea dell'Autorità, l'Autorità esistente ha sempre la tendenza a essere trasmessa per mezzo della nomina da parte di un Capo. Ma sono tutte questioni che andranno studiate più a fondo. Nota generale. Tutti i quattro tipi (e le loro « combinazioni ») possono realizzarsi in differenti « ambiti »: politico, religioso, ecc. Vi è « ambito » religioso dove vi sono (presunti) rapporti con un « aldilá »; « ambito » politico dove c'è Stato (si veda la Notizia sullo Stato) ecc. Bisognerebbe vedere se tutti i tipi (e « combinazioni ») possono realizzarsi in tutti gli « ambiti ». * Anche qui Kojève si riferisce al testo Esquisse d'une phénoménologie du droit: sebbene esso risalga al 1943, con ogni probabilità già l'anno precedente — quindi durante la stesura di queste pagine sull'Autorità — Kojève aveva iniziato la redazione di un possibile piano dell'opera, come del resto lascerebbero pensare i diversi schemi e sommari, non datati, presenti nel suo archivio privato [N.d.C.].
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II. ANALISI METAFISICA Passiamo ora all'analisi metafisica del fenomeno dell'Autorità, sebbene in questa sede tale analisi non possa che essere assai sommaria. Non vi è dubbio che l'Autorità è un fenomeno essenzialmente umano (non naturale) — il che vuol dire (senza che lo si possa dimostrare qui) sociale e storico: l'Autorità presuppone una società (o Stato in senso ampio,' cioè qualcosa di diverso da un gregge animale, nel quale non esiste possibilità di « reazione »), e la società presuppone (e implica) la storia (e non soltanto un'evoluzione biologica, naturale). In altri termini, l'Autorità non può che « manifestarsi » (diventare un « fenomeno ») in un Mondo a struttura temporale. Il fondamento metafisico dell'Autorità è quindi una « modificazione » dell'entità « Tempo » (si intende Tempo « umano » o « storico » con il ritmo: Avvenire, Passato, Presente, in opposizione ai Tempi « naturali », con il primato del Presente — nell'ambito « fisi1. Lo Stato (= « società») può essere politico, religioso (in un presunto rapporto con 1'« aldilà»), ecc. Lo Stato religioso si chiama «Chiesa». Qui parliamo soltanto dello Stato politico. 62
co » - o del Passato - nell'ambito «biologico »). Poiché vi è il primato dell'Avvenire, vi è anche (come vedremo) il primato dell'Autorità del Capo: l'Autorità per eccellenza è quella del Capo « rivoluzionario » (politico, religioso, ecc.), che ha un « progetto » universale (Stalin) . Non esiste Autorità nell'Eterno in quanto tale. E se, come vedremo, un tipo di Autorità è metafisicamente fondato sull'Eternità, è solo nei suoi rapporti con il Tempo che l'Eterno « si manifesta » sotto forma di Autorità. Ora, non vi è alcun dubbio che il Tempo ha, in quanto tale, il valore di un'Autorità. E, cosa curiosa e a prima vista paradossale, ce l'ha in tutti i suoi tre modi. Innanzitutto il Passato. Un Passato è sempre « venerabile »; denigrarlo è un « sacrilegio »; ignorarlo è « disumano ». Da sempre - e soprattutto nell'Antichità pagana-, l'Autorità di un'istituzione era « giustificata » (spiegata) dalla sua anzianità. Allo stesso modo, l'anzianità di una famiglia, di uno Stato, non solo era un motivo di vanto, ma anche una base di Autorità molto reale. D'altra parte, però, vi è anche una del tutto indiscutibile Autorità dell'Avvenire. « L'uomo dell'avvenire» ha un'Autorità per il fatto stesso di avere « tutto davanti a sé ». I « giovani » traggono la loro Autorità - che a tratti può essere notevole - dall'Avvenire che incarnano. Si riconosce volentieri l'Autorità dell'« uomo del domani ». E si possono invocare tanto i millenni a venire (cfr. Hitler) quanto quelli passati (cfr. Mussolini) . Infine, il Presente ha anch'esso un'Autorità in quanto Presente. Si vuole essere up to date, non si vuole essere « in ritardo sui tempi ». L'Autorità enorme - e « tirannica » della « moda » è un'Autorità del Presente, dell'« attuale ». L'Autorità dell'« uomo del giorno » deriva dal fatto che è lui, per eccellenza, a rappresentare l'« attua-litá », il Presente, la « presenza reale » di qualcosa nel mondo (la Gegenwart di Hegel), in opposizione all'irreal« poetica » del passato e all'irrealtà « utopica » dell'avvenire. D'altra parte, a tutte queste Autorità « temporali » si 63
oppone l'Autorità dell'Eternità. Spesso si fa appello a « principi eterni », e la loro Autorità risiede nel fatto che sono al di fuori dei tre modi del Tempo. È dall'Eternità che i rappresentanti di Dio sulla terra derivano la loro Autorità. Ma è evidente che se l'Eternità possiede un'Autorità è unicamente in opposizione al « temporale », cioè in rapporto a quest'ultimo. L'Eternità (lo diciamo senza dimostrarlo) non è che la negazione del Tempo, ovvero una sua funzione. E l'Autorità dell'Eterno si afferma in quanto Autorità rapportandosi (negativamente) alle Autorità o del Presente, o del Passato, o dell'Avvenire. Vi è dunque un'Autorità dell'Eternità, come vi è un'Autorità del Tempo nei suoi tre modi. Tutta la questione sta nel sapere se si tratta in questo caso di un'Autorità sui generis, oppure di una « manifestazione » diretta delle basi metafisiche dei quattro tipi « puri » di Auto-ritá che abbiamo esaminato prima. Un indizio suggerisce questa seconda ipotesi: abbiamo distinto quattro tipi puri di Autorità; l'Autorità che consideriamo ora si divide necessariamente in quattro tipi: l'Autorità dell'Eterno, e quella del Temporale, la quale è l'Autorità del Presente, del Passato e dell'Avvenire. È quindi naturale supporre che siamo di fronte a due aspetti complementari di una sola e medesima Autorità che ha la stessa struttura quaternaria. Certo, questo non è che un indizio. Ma ce n'è un altro a conferma di ciò. Se consideriamo i nostri quattro tipi « puri », vediamo che si suddividono naturalmente in due gruppi: l'Autorità del Giudice si oppone alle Autoritá del Padre, del Capo e del Signore, che fanno blocco. E questo ci suggerisce l'idea di avvicinare l'Autorità del Giudice a quella dell'Eterno, che si oppone alle tre Autorità temporali che fanno anch'esse blocco in quanto temporali e che potremmo dunque avvicinare agli altri tre tipi « puri » di Autorità. L'analisi conferma questa supposizione. Da una parte, come abbiamo visto, l'Autorità del Giudice non è adatta per così dire a una trasmissione, qualunque essa sia,
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mentre le altre tre in un modo o nell'altro si trasmettono, in particolare per via ereditaria. (Se spesso si assiste al fatto che i figli ereditano l'Autorità del Padre, del Signore o del Capo unicamente perché sono figli di coloro che detenevano queste Autorità, non si è mai constatato, per così dire, che qualcuno erediti l'Autorità del Giudice da un giudice per semplice filiazione). Si potrà dire, quindi, che l'Autorità del. Giudice è refrattaria a ogni « successione », cioè a ogni « temporalizzazione », essendo in qualche modo al di fuori del Tempo: essa deve esistere sempre, e se non può, scompare completamente (per rinascere di nuovo in maniera spontanea) , anziché « passare » (senza soluzione di continuità) a qualcosa di successivo. Le altre tre Autorità, invece, sembrano « durare » nel Tempo, e la loro « trasmissione » non fa che manifestare la loro essenza temporale. Dall'altra parte, l'Autorità del Giudice si oppone in qualche modo alle altre tre che, in questa opposizione, fanno ancora blocco. In linea di principio, infatti, il Giudice può « giudicare » il Padre, il Signore e il Capo, ma la natura elell'Autorità del Giudice è tale che dovrebbe, in teoria, essere sottratta all'azione nata dall'Autorità degli altri tre tipi. Infine, cosi/come l'Eternità ha un carattere « autoritario » solo nei e attraverso i suoi rapporti con il tempo, il Giudice ha vera Autorità solo nella misura in cui si oppone (all'occorrenza) alle altre tre Autorità. (Se i Padri, Capi e Signori fossero « giusti » per definizione o per « essenza », non vi sarebbe Autorità distinta del Giudice; e se il Giudice non potesse opporre la sua « giustizia » alle volontà dei Padri, Capi e Signori, non avrebbe alcuna «autorità »). Dunque tutto fa supporre che l'Autorità del Giudice non sia nient'altro che una «variante » dell'Autorità dell'Eterno, cioè della «manifestazione autoritaria» dell'Eternità nei suoi rapporti con il Tempo. E un'analisi diretta (che qui possiamo solamente abbozzare) conferma questa supposizione. L'Eterno ha un'Autorità propriamente detta soltan65
to in rapporto alle azioni umane nella misura in cui ne annulla alcune, cioè quelle che hanno il carattere di « reazioni » contro l'intervento attivo dell'elemento dell'Eternità. Ad avere Autorità non è dunque l'Eternità in quanto tale, ma le azioni di carattere eterno. Ora, un'azione è « eterna » o quando è «al di fuori » del tempo (cioè indipendente dalle condizioni create dal Passato, dal Presente o dall'Avvenire), o quando è per « sempre » (cioè nel Presente, Passato e Avvenire). Ma è proprio questo che caratterizza l'azione « giusta »: è al di fuori del Tempo perché quest'azione (ad esempio il giudizio «giusto ») non è una funzione né dell' « interesse » del momento, né dei « pregiudizi » dettati dal passato, né infine dei « desideri » ancorati all'Avvenire; ed essa è «per sempre », perché, essendo giusta, resta giusta « in eterno », e perché può vertere in modo indefinito (in quanto «giudizio ») tanto sul Presente quanto sul Passato e sull'Avvenire. E se l'Eternità, essendo la negazione dei modi particolari del Tempo, può essere considerata come la totalità o l'integrazione di questi modi, l'Autorità del Giudice (la « giustizia ») può anch'essa essere interpretata come un'« integrazione » delle altre tre; queste ultime non possono formare un'unità armoniosa, cioè stabile o « eterna », se non a condizione di subordinarsi in blocco all'Autorità del Giudice o della « Giustizia ». Si può quindi dire che se l'Eternità si « manifesta » sotto forma di un'« Autorità» soltanto nella misura in cui si realizza nel mondo in quanto Giustizia, dal canto suo l'Autorità del Giudice trova il suo fondamento metafisico soltanto nella « penetrazione » dell'Eternità nel Tempo, poiché questa « penetrazione » ha come « effetto » sia la « durata » che 1'« unità» del Tempo. L'Eternità, nel suo rapporto con il Tempo, è dunque la base metafisica dell'Autorità del Giudice. Quanto agli altri tre tipi « puri » di Autorità, essi hanno come base metafisica il Tempo («umano »). In effetti, il carattere « temporale » di queste Autorità non lascia 66
ombra di dubbio. Resta soltanto da sapere come si suddividono fra le tre modalità del Tempo. Abbiamo visto che l'Autorità del Padre era la più adatta alla trasmissione ereditaria, mentre quelle del Capo e del Signore davano vita, rispettivamente, alle trasmissioni per nomina e per elezione (cioè per sorteggio) . Ora, è evidente che l'ereditarietà si produce sotto il dominio dell'idea del Passato. La nomina sembra invece rimandare all'Avvenire (al futuro comportamento del nominato). Quanto all'elezione (= « sorte »), è il semplice fatto dell'elezione (= sorteggio) che conta, cioè un atto che compete essenzialmente al Presente. E questo ci fa supporre che se l'Autorità del Padre è una « manifestazione » del Passato, quelle del Capo e del Signore « manifestano » rispettivamente l'Avvenire e il Presente. L'analisi diretta (qui soltanto abbozzata) conferma questa supposizione. Prendiamo innanzitutto il Passato. Non è il Passato in quanto tale che ha Autorità: la Natura è più antica dell'uomo, l'età di una pietra può essere davvero «venerabile »; tuttavia in questi casi non vi è alcuna Autorità. Il Passato che esercita un'Autorità su di me è un Passato storico; è il mio passato, cioè il Passato che è la « causa » del mio Presente e la « base » del mio Avvenire; è il Passato che è ritenuto tale da determinare il Presente in vista dell'Avvenire. In altri termini, il Passato acquisisce un'Autorità solo nella misura in cui si presenta sotto forma di una « tradizione». Ora, abbiamo visto che l'Autorità del Padre è proprio l'Autorità della « causa » storica o della « tradizione ». Quindi si può ben dire che il Tempo — nel modo del Passato — si « manifesta » sotto forma « autoritaria » in quanto Autorità del Padre, e che quest'ultima ha il suo fondamento metafisico nella « presenza » del Passato nel Presente, cioè in ogni realtà che fa parte di un mondo temporale. Passiamo all'Avvenire. Anche qui, l'Avvenire puro e semplice non ha alcuna Autorità; ogni cosa ha un avve67
nire davanti a sé, e questo non accresce affatto il suo prestigio. L'Avvenire esercita un'Autorità solo nella misura in cui è il mio avvenire, l'avvenire storico, che determina il Presente (o si suppone lo determini), sempre mantenendo il legame con il Passato. In altri termini, l'Avvenire esercita un'Autorità solo nella misura in cui si « manifesta » sotto forma di progetto (concepito nel presente in vista dell'avvenire, sulla base delle conoscenze del passato). Ora, l'Autorità del « progetto » è esattamente quella del Capo. Si può dire, quindi, che l'Avvenire si « manifesta » sotto forma « autoritaria » in quanto Autorità del Capo, che ha come base metafisica la « presenza » virtuale dell'Avvenire in tutto ciò che è un Presente (umano, ovvero storico), cioè una realtà temporale (si intende: storica). Consideriamo infine il Presente. Dato che tutto ciò che esiste (nel mondo temporale) è « presente », il Presente in quanto tale non può avere alcuna Autorità: colui che « subisce » l'Autorità può appellarsi al Presente puro e semplice allo stesso titolo di colui che la « esercita ». È il Presente storico (il « momento storico ») a possedere un'indiscutibile Autorità, e non il « presente » (il t = O) della Fisica. L'entità che ha Autorità è quella che possiede una « presenza reale» nella massa delle cose semplicemente « presenti » (cioè esistenti): la « presenza reale » dello Spirito nella « Materia », di ciò che non esiste (nel senso forte dell'espressione) in ciò che rappresenta tutta l'esistenza effettiva. Ora, l'inesistente nel mondo temporale è o ciò che non esiste più, o ciò che non esiste ancora: è il Passato o l'Avvenire. Si constata dunque una «presenza reale » del Passato e dell'Avvenire nel Presente che ha Autorità: è un Presente nato dal Passato e gravido dell'Avvenire. Ora, un tale Presente (umano o « storico ») non è nient'altro che l'azione nel senso forte del termine, l'azione che realizza nel presente tanto il ricordo del passato quanto il progetto dell'avvenire. Ma l'azione si oppone all'essere. E questa opposizione si realizza e si « manifesta » nella e attraverso la (o, se si preferi68
sce, in quanto) trasformazione dell'essere tramite l'azione che, al limite, è una distruzione attiva dell'essere. Ora il « Rischio », che genera l'Autorità del Signore, è precisamente una tale azione nel senso proprio della parola, che si oppone al suo essere (la sua vita) , lo mette in pericolo e può, all'occorrenza, annientarlo completamente. E ogni attività del Signore (fondata su questo « Rischio ») è una realizzazione e « manifestazione » del Passato e dell'Avvenire nel Presente, un'Azione nel senso proprio del termine. Ora, l'azione è una « manifestazione » del tempo nel modo del Presente. Si può quindi dire che la base metafisica dell'Autorità. del Signore è il Presente (del mondo storico), e che il Presente si « manifesta » sotto una forma « autoritaria » soltanto nella misura in cui si realizza in quanto azione propriamente detta, azione che non si ferma nemmeno davanti al Rischio di una distruzione totale dell'Essere che gli fa da supporto. (L'Autorità del « bisogno del momento » opposta a quella del « sogno dell' avvenire » e della « salvaguardia del passato » è, in fin dei conti, l'Autorità delle necessità della guerra o, in generale, dei rischi vitali che comporta la penetrazione del Passato di una Nazione nel suo Avvenire attraverso il suo Presente). L'Autorità del Signore, quindi, non è soltanto quella del Guerriero. In generale, è l'Autorità di colui che (in tutti gli ambiti) è « pronto a correre il Rischio », « sa agire », è « capace di prendere una decisione (progetto) », si «mette all'sápera », ecc.; insomma, di colui che non è sempre e comunque « ragionevole » e « prudente ». Il Tempo — nei suoi rapporti con l'Eterno — si realizza nel Mondo temporale con la struttura « causale » di quest'ultimo. Senza entrare nei dettagli, segnaliamo che se l'Eternità si realizza con la « causa formale », il Tempo realizza il Passato in quanto « causa materiale », l'Avvenire in quanto « causa finale » e il Presente in quanto « causa efficiente » (cfr. Aristotele). Ora, sul piano dell'esistenza umana (cioè nel mondo temporale storico), la « causa formale » si « manifesta» attraverso la 69
« contemplazione », cioè, in generale, attraverso il comportamento « passivo », « teorico », « disinteressato », « quietista ». Le altre tre « cause », invece, si « manifestano », su questo piano, con i modi di comportamento « pratico » o «attivo », «volontario », «interessato ». La « causa efficiente » si « manifesta » attraverso l'« azione» nel senso proprio del termine, l'azione effettuata nel Presente; la «causa finale» attraverso il « Progetto», cioè l'azione proiettata nell'Avvenire; e la « causa materiale » con il « ricordo esistenziale» o la «tradizione », cioè attraverso l'azione «tradizionale », effettuata per così dire per inerzia, paragonabile al « passaggio » dell'essere dalla Causa al suo Effetto. Ed è facile vedere che gli aspetti « autoritari » di queste manifestazioni non sono nient'altro che i « fenomeni » dell'Autorità, da una parte, del Padre, del Signore e del Capo (i quali agiscono tutti in questo o quel modo) e, dall'altra, del Giudice (che non agisce ma si limita a « contemplare » — o « giudicare » —gli atti degli altri). Così, la struttura « causale » del Mondo storico (che deriva dalla sua struttura « temporale ») serve anche da base metafisica al quadruplice fenomeno dell'Autorità, « giustificandolo » o spiegandolo nel suo insieme, nella sua struttura interna (divisione in 1 + 3) e nei rapporti reciproci dei suoi quattro elementi costitutivi. In questo modo, l'analisi metafisica « giustifica l'analisi fenomenologica nel senso che spiega perché vi sono necessariamente quattro tipi irriducibili di Autorità e solo quattro. Prova che la nostra lista di 64 « varianti » è davvero completa. Permette anche di controllare e rettificare la descrizione analitica di ogni tipo « puro » (e di ogni «variante ») e dei legami che li collegano gli uni agli altri. E perciò permette di completare e di « giustificare » le conseguenze politiche, morali e psicologiche che si possono trarre dall'analisi fenomenologi-ca del fenomeno dell'Autorità. Ma, per poter fare ciò, si sarebbe dovuto condurre a termine l'analisi metafisica, completandola con un'ana70
lisi ontologica approfondita. Ora, non è possibile intraprendere un simile lavoro in questa sede. Dobbiamo limitarci al breve abbozzo che abbiamo proposto nelle pagine precedenti e ad alcune osservazioni, relative all'analisi ontologica, che seguiranno.
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III. ANALISI ONTOLOGICA L'analisi metafisica (Tempo — Cause) è stata soltanto abbozzata. Quanto all'analisi ontologica, dobbiamo rimandarla interamente a un altro momento. Ci limiteremo a fare alcune brevi osservazioni storiche relative a questo problema. L'analisi ontologica deve rivelare la struttura dell'Essere stesso, preso in quanto Essere, struttura che corrisponde al quadruplice « fenomeno » dell'Autorità, il quale fenomeno « manifesta » (sul piano dell'esistenza umana) le « esistenze » metafisiche dell'Eternità e del Tempo nei suoi tre « modi » fondamentali (così come le loro « realizzazioni » sotto forma di « cause »). Va detto, tuttavia, che nessuna delle quattro teorie dell'Autorità contiene un'analisi ontologica approfondita e corretta. Certo, tutte queste teorie si innalzano al livello ontologico (partendo dal piano fenomenologico e passando per quello metafisico). Ma proprio perché ciascuna di queste teorie era concepita come una teoria universale, che riconosce solo un tipo di Autorità assunto come Autorità tout court, le loro analisi ontologiche non potevano che essere incomplete ed errate. (Più e72
sattamente, è la scorrettezza delle ontologie degli autori di queste teorie che li ha portati a fare analisi fenome-nologiche incomplete, a vedere nel fenomeno complesso dell'Autorità solamente l'aspetto che corrispondeva alla loro concezione unilaterale dell'Essere). Le speculazioni scolastiche su Dio (causa sui, essenza che implica l'esistenza, struttura trinitaria, « incarnazione ») sono in realtà una teoria ontologica. Ma noi possiamo dire che questa teoria rivela soltanto un aspetto dell'Essere, che considera a torto come il Tutto e perciò lo travisa. Per quanto riguarda il problema dell'Autorità, l'ontologia scolastica può offrire materiale solo per l'analisi ontologica dell'Autorità del Padre. Analoghe osservazioni per le altre tre ontologie. L'ontologia di Platone (l'Uno-Agathon, l'Uno e il Molteplice, la struttura dualista dell'Essere, ecc.) può servire come punto di partenza per l'analisi ontologica dell'Autorità del Giudice. L'ontologia di Aristotele, invece (Motore immobile, il Nous, Forma e Materia, ecc.), (dà avvio all'analisi dell'Autorità del Capo. Infine, l'ontologia di Hegel (Negatività, Totalità, struttura dialettica dell'Essere, ecc.) può servire da base all'analisi ontologica dell'Autorità del Signore. Tutte queste ontologie dovranno essere modificate (completate e corrette) proprio perché descrivono gli aspetti particolari dell'Essere che scoprono come se si trattasse dell'Essere integrale. E così che l'analisi ontologica del fenomeno completo (cioè quaternario) dell'Autorità può permetterci di elaborare un'ontologia completa, e non più frammentaria come erano tutte quelle proposte finora. Ovviamente, si può studiare la struttura dell'Essere in quanto Essere partendo dall'analisi di qualsiasi fenomeno (poiché ognifenomeno « manifesta » l'Essere che « esiste » in quanto Mondo) . Ma poiché il fenomeno dell'Autorità è molto complesso, conviene studiare l'ontologia prendendo altri punti di partenza e procedere all'analisi ontologica dell'Autorità dopo aver elaborato i linea73
menti dell'ontologia. Nondimeno, ogni diverso fenomeno sembra « manifestare » certi aspetti dell'Essere meglio di quanto non facciano gli altri. Così, un fenomeno dell'importanza dell'Autorità non potrà essere trascurato negli studi ontologici. Di fatto, il lavoro dovrebbe svolgersi in un continuo andirivieni: discesa a partire da un'ontologia (che si presume definitiva) verso il fenomeno; salita a partire da una fenomenologia (che si presume definitiva) verso l'Essere in quanto Essere. È soltanto in questo modo che si potrà arrivare un giorno a fenomenologie, metafisiche e ontologie, cioè a una filosofia davyero definitiva, cioè vera in maniera assoluta. Limitandoci a indicare questo programma di lavoro ontologico, passiamo alle Deduzioni che si possono fare a partire dalla nostra analisi fenomenologica sommaria e dal nostro abbozzo di analisi metafisica.
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B. DEDUZIONI
Dato che le nostre analisi sono insufficienti, le Deduzioni non potranno che essere incomplete e da sottoporre a verifica. Peraltro, non proveremo a trarre tuttele conseguenze già possibili, e nemmeno le più importanti. Ci limiteremo a indicarne qualcuna, scelta un po' a caso. Cominceremo con le Conseguenze politiche (lo Stato in se stesso), passeremo poi alle Conseguenze morali (l'individuo-cittadino e lo Stato nei loro rapporti reciproci), per finire con le Conseguenze psicologiche (l'individuo-cittadino in se stesso), sicché le tre tappe dello sviluppo delle Deduzioni corrispondono, in senso inverso, alle tre tappe delle Analisi. Nota. Le nostre deduzioni si svolgono tutte nell'« ambito » politico; si tratta quindi di una Morale e di una Psicologia (« autoritarie ») politiche. Sarebbe interessante fare deduzioni analoghe negli « ambiti » in cui si manifesta l'Autorità: l'« ambito » religioso e gli altri.
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I. APPLICAZIONI POLITICHE Di tutte le conseguenze politiche (nel senso stretto del termine) che si potrebbero trarre dalle nostre analisi, riporteremo solo quelle che si riferiscono ai problemi della Divisione dei poteri (1) e della Trasmissione del potere (2), limitandoci peraltro a esposizioni assai sommarie.
Il «Potere » politico è il potere dello Stato, che lo esercita tramite colui o coloro che lo rappresentano o lo incarnano. Senza Stato (nel senso ampio del termine), non vi è Potere politico (nel senso proprio del termine). Anche negli Stati detti « democratici », nei quali il Potere sembra appartenere alla « massa », è in realtà lo Stato che lo detiene e lo esercita: solo che, in questo caso, lo Stato è incarnato o rappresentato dall'insieme dei « cittadini »; ma anche qui, gli individui detengono il Potere politico soltanto nella misura in cui sono cittadini, cioè rappresentano o incarnano (collettivamente) lo Stato, e non in quanto « privati » (i bambini, per esempio, non hanno alcun Potere politico). Su questo pun76
to, il Potere dei cittadini di uno Stato « democratico » non è essenzialmente diverso da quello di un'oligarchia o anche di un monarca « assoluto » o di un « tiranno », « dittatore », ecc. (cfr. Notizia speciale sullo Stato).* Di fatto, il Potere politico può essere fondato sulla forza. Ma in linea di principio deve poterne fare a meno: è soltanto in questo caso che l'esistenza dello Stato non sarà « accidentale », che lo Stato potrà, in altri termini, durare indefinitamente. Una teoria dello Stato (in opposizione alla pratica) fa dunque astrazione dalla nozione di « forza ». Ora, un Potere non fondato sulla forza non può che essere fondato sull'Autorità. Nota. Un Potere fondato sull'Autorità può, certo, servirsi della forza; ma se l'Autorità genera una forza, la forza non può mai, per definizione, generare un'Autorità politica. Quindi una teoria del « Potere politico » non è nient'altro che una teoria dell'Autorità (che si manifesta nell' « ambito » politico); più esattamente, un'applicazione (teorica) della teoria dell'Autorità alla Politica (cioè allo Stato). Così, per evitare ogni equivoco, sostituiremo il termine « Poterepolitico» con quello di « Autoritá politica ». Per definizione, ogni Autorità politica spetta in blocco allo Stato in quanto tale. Ma lo Stato è un'entità « ideale », che ha bisogno di un « supporto reale » (« materiale ») per poter esistere nel mondo spazio-temporale. Questo « supporto » è formato da individui o gruppi di individui umani. È in questo modo che nascono i problemi della divisione e della trasmissione dell'Autorità. Il « supporto » dello Stato è al tempo stesso il «supporto » dell'Autorità politica: è questo supporto che la « detiene » e la « esercita », e l'Autorità è reale (attiva) solo al suo interno e per suo tramite. L'Autorità politica reale è o autonoma, o dipendente. Nel primo caso, è l'Autorità del Capo (individuale o collettivo) dello Stato; nel * Si veda sopra, p. 61, nota [N.d.C.]. 77
secondo, quella del Funzionario (individuale o collettivo), che esercita la sua Autorità in funzione di quella del Capo. Ora, se la durata dell'Autorità dello Stato è, in linea di principio, illimitata, quella del suo « supporto » è necessariamente finita. L'Autorità deve dunque essere trasmessa da un « supporto » all'altro: è il problema propriamente detto della Trasmissione dell'Autorità politica (2, a) . Ma vi è anche il problema affine della trasmissione dell'Autorità dal Capo al Funzionario, poiché questa trasmissione determina la natura dell'Autorità dipendente del Funzionario e il suo rapporto con l'Autorità autonoma (2, b) . L'Autorità dello Stato è una, visto che lo Stato è uno. Il « supporto » può essere invece individuale o collettivo. Da qui il problema della suddivisione dell'Autorità fra gli elementi costitutivi del «supporto », così come la questione di sapere se quest'ultimo debba o meno essere moltiplice (collettivo) (1, b). Ma se l'Autorità dello Stato è sempre una, questo non significa che sia necessariamente semplice: lo sarebbe solamente nel caso in cui appartenesse a un solo « tipo » « puro » di Autorità. Se dunque l'Autorità dello Stato riunisce più tipi « puri » (o anche tutti e quattro) , ci si può domandare se tutti questi elementi costitutivi debbano avere un solo e medesimo « supporto », oppure se è meglio « realizzare » gli elementi separatamente (forse raggruppandone solo alcuni). È la questione propriamente detta della divisione dell'Autorità (della «Separazione dei poteri ») . Cominceremo da questa (1, a) . 1. La divisione dell'Autorità a) Non possiamo intraprendere qui uno studio storico dell'Autorità politica. Ci limiteremo ad analizzare brevemente la situazione « attuale». 78
Nota. Pare che nel corso della storia vi siano state Autorità politiche, cioè Stati, che realizzavano un solo tipo « puro » di Autorità. I conflitti violenti fra l'Autorità della famiglia, del tipo « Padre », e quella dello Stato, così ben rappresentati nelle grandi tragedie greche, sembrano mostrare che in origine vi fossero due tipi opposti di Stato: lo Stato-famiglia o Stato-clan, del tipo di Autorità P —> (G, C) o P -+ (C, G), e lo Stato, nel senso più moderno del termine, del tipo di Autorità S —> (C, G), o anche S —> (G, C), oppure C —> (G, S), o anche C —> (S, G). — È possibile che la distinzione che facevano i Greci fra il regime di « tirannia » e il regime di « libertá » — distinzione che facciamo fatica a definire e a comprendere —non sia altro che l'opposizione dei tipi S -+ e C -. Ma non possiamo soffermarci su questi problemi. Per la teoria medioevale (che, peraltro, non è mai stata realizzata completamente), ogni Autorità proviene dall'Autorità divina. In particolare, il Capo dello Stato altri non è che un Funzionario di Dio. Ora, l'Autorità divina comprende tutti i quattro tipi « puri » di Autorità, essendo Dio a un tempo Padre, Capo, Signore e Giudice. Ed egli trasmette tutti questi elementi al suo Funzionario. Inoltre, essendo una sola persona, Dio trasmette la sua Autorità a un solo Funzionario, riunendo così in lui tutti i quattro tipi di Autorità. (Il « primo » Funzionario nominato da Dio; la sua Autorità, così generata, si trasmette in seguito per via ereditaria; quanto all'Autorità dei Funzionari di questo « primo » Funzionario di Dio, è generata e trasmessa loro dalla nomina da parte di quest'ultimo) . Ma questa teoria era complicata dal fatto che Dio nominava due Funzionari: uno necessariamente individuale (il Papa della Chiesa in linea di principio universale), l'altro a volte individuale (l'Imperatore dell'Impero, in linea di principio universale), a volte collettivo (i Re nazionali, ecc.) . Anche non considerando le incertezze dovute a quest'ultima complicazione, bisogna dire che la teoria scolastica non è mai riuscita a definire chiaramente e nettamente i rapporti fra questi due Funzionari e la natura delle loro Autorità. In altri 79
termini, il Medioevo non ha saputo (o voluto) distinguere nettamente fra l'« ambito» religioso e l'« ambito » politico. Queste difficoltà furono eliminate dalla teoria che sopprime il Funzionario ecclesiastico: è la teoria dell'Assolutismo. Il problema dell' origine dell'Autorità politica qui lasciato nel vago; eppure si dichiara esplicitamente che essa riunisce tutti i quattro tipi di Autorità e che si realizza in una sola persona (il Monarca) . Poi vengono le teorie « costituzionali », che affermano che l'Autorità politica deve essere suddivisa fra più «supporti» indipendenti. È così che compare il principio (e il problema) della «divisione dei poteri» (reso popolare da Montesquieu) , che sta alla base delle « democrazie » moderne (e che fu violentemente criticato da Rousseaul). Discutiamo brevemente questa teoria, che dominava il pensiero politico fino a pochissimo tempo fa. Notiamo innanzitutto che tale teoria distingue soltanto tre « Poteri ». Il Potere giudiziario corrisponde evidentemente all'Autorità del Giudice. Il Potere legislativo non è nient'altro che l'Autorità del Capo, visto che si tratta di «iniziativa », di « progetto », di decisioni prese in vista dell'avvenire. Quanto al Potere esecutivo, corrisponde all'Autorità del Signore: esercitandosi nel presente, essendo « azione » per eccellenza, esige dal suo rappresentante un'« abnegazione » totale, la subordinazione di tutto, e della vita stessa, allo Stato, cioè a qualcosa di essenzialmente non biologico. In altri termini —d'ufficio e senza alcuna discussione questa teoria elimina dall'Autorità politica il quarto elemento costitutivo, cioè l'Autorità del Padre. E quindi un'amputazione dell'Autorità quella che avevano di mira le teorie scolastica e assolutista. E si è tentati di dire che l'Autorità politica si scompone o si disgrega (si « divide ») proprio a causa di quest' amputazione. Qui tutto è significativo: che vi sia amputazione, che l'elemento amputato sia proprio l'Autorità del Padre, che questa amputazione si effettui tacitamente e cioè incoscientemente. L'Autorità del Padre significa « tradi80
zione », determinazione da parte del passato, « presenza reale » del Passato nel Presente. L'eliminazione dell'Autorità del Padre ha quindi un carattere chiaramente «rivoluzionario »: la teoria « costituzionale » è nata dallo spirito di rivolta e di rivoluzione, e nella misura in cui si realizza genera la rivoluzione (« borghese ») . Nota. Questa teoria e la Rivoluzione che essa presuppone, implica e genera sono « borghesi »: il Borghese vuole dimenticare le sue « basse » origini da « plebeo », rinnega — incoscientemente — il suo « vergognoso » passato. Da qui l'incoscienza dell'annullamento dell'Autorità del Padre. Nella misura in cui il Borghese è fiero del suo passato e vi si modella non è rivoluzionario. Lo diventa soltanto attraverso e nell'opposizione al nobile. Ora, proprio per questa opposizione riconosce il valore esclusivo della nobiltà, poiché non scorge più motivi per coesistervi. E ci vede un valore, poiché vuole mettersi al posto del nobile. Quindi incoscientemente nega il valore borghese, cioè il suo passato borghese che non è altro, ai suoi stessi occhi, che un passato da «plebeo». Soltanto allora il Borghese diventa « costituzionale », cioè rivendica la separazione dei Poteri che ormai per lui sono soltanto tre: ed è perciò che diventa, o é già, rivoluzionario. Ma il Presente, privo del Passato, è umano— cioè storico o politico — solo nella misura in cui implica l'Avvenire (altrimenti è un Presente da bruti). Ora, l'Avvenire rappresentato dall'Autorità. del Capo, quell'Autorità che appartiene ai « progetti » che oltrepassano essenzialmente il dato e non sono soltanto sue semplici conseguenze già virtualmente presenti nel dato stesso. Quindi l'Autorità politica, amputata del suo elemento «Padre » e nella misura in cui resta politica, prima di tutto diventa necessariamente un'Autorità del Capo (del tipo C —> (S, G) o C —> (G, S) ). In questo modo, attraverso e nella sua realizzazione rivoluzionaria « borghese », la teoria « costituzionale » sfocia inevitabilmente nella « Dittatura» di un Napoleone o di un Hitler. Ma visto che il Presente, privo di passato, deve necessariamente implicare
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l'Avvenire per poter essere umano, ovvero politico, il Capo-Dittatore deve rappresentare sempre un « progetto rivoluzionario» in via di esecuzione. Così l'esito logico della teoria « costituzionale » di un Montesquieu è la teoria della «rivoluzione permanente» di un Trockij. Nota sugli avvenimenti del 1848 (Francia). Il periodo «borghese » può essere simbolicamente situato fra il 1789 e il 1940. 1789-1848: è la « rivoluzione borghese »; 1848-1940: la « dominazione borghese ». Nel periodo « rivoluzionario » la Borghesia è rivolta contro il Passato e verso l'Avvenire. Così, basandosi sull'Avvenire, ha potuto trascendere il Presente anche dal lato del Passato: rinnegando il Passato immediato dell'« Ancien Régime », ha potuto — o avrebbe potuto e dovuto — accettare la codeterminazione da parte del passato « storico». Ma nel '48 l'Avvenire è rivendicato da un'altra « classe »: più esattamente, l'Avvenire interviene nel Presente sotto forma di un « progetto rivoluzionario » diverso da quello dell'89. La Borghesia, creata in quanto Autorità politica dal « progetto » dell'89, non accetta il « progetto » del '48 e lo combatte. A partire da questa data fatidica, la Borghesia è dunque rivolta non solo contro il Passato, ma anche contro l'Avvenire: si rinchiude nel Presente. È soltanto così che essa è realmente presente: solo dopo il '48 è veramente ciò che è; sola, in opposizione a tutto ciò che non è lei; lo « spirito borghese » è nato nel '48. Allo stesso tempo, attraverso la negazione dell'Avvenire, si rompono tutti i legami con il Passato quale che sia. Poiché solo il Presente è reale, la Borghesia si realizza in quanto tale: è il periodo della sua dominazione. Ma un Presente senza Avvenire né Passato non è che un Presente « naturale », non umano, non storico, non politico. La dominazione della Borghesia, quindi, non è altro che una progressiva scomparsa della realtà politica in quanto tale, cioè del Potere o dell'Autorità dello Stato: la vita è dominata dal suo aspetto animale, dalle questioni di alimentazione e di sessualità. L'umano si mantiene ancora nella misura in cui vi è un residuo di trascendenza del Presente, o tramite il Passato o tramite l'Avvenire; ma il Passato e l'Avvenire implicati nel Presente non hanno più valore attivo, non sono più « in atto »: è la loro presenza «virtuale », « concettuale » o « ideale », cioè puramente « estetica » o « artistica». Tradizione che vegeta sotto forma di
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«Romanticismo », e la Rivoluzione del « futurismo »; il Presente « classicista », essendo privo del suo elemento proprio, che è l'azione effettiva, è privo di vita. Non vi è dunque « Classicismo » borghese. Nota sulla Tradizione. Ogni Tradizione propriamente detta, cioè che abbia un valore e una realtà politici, è necessariamente orale o rappresentativa, cioè diretta. Uno scritto è, per sua natura, separato dal suo supporto materiale — dal suo autore che lo fissa nel tempo. Il passato presentato soltanto per iscritto non è, per me, il mio passato: me ne « disinteresso » con molta facilità; esposto in un libro, ad esempio, il passato del mio paese non è sensibilmente diverso dal passato della Cina; ho la tendenza a mettere tutti gli scritti sullo stesso piano e a discutere le teorie che vi sono esposte come se fossero concepite al di fuori del tempo. Gli avvenimenti del '48, quindi, distruggendo il legame politico con il Passato, dovevano toccare prima di tutto la tradizione orale: è lei a mancare nel periodo di dominazione borghese. Si può anche dire che l'Autorità del Padre è radicata nel Paese, mentre la Città ha la tendenza a non « riconoscerla », cioè a distruggerla. Il Paese vive la « durata», la Città «fa passare il tempo». Ora la durata, cioè la totalità del tempo, e non soltanto il suo «istante », implica necessariamente il Passato: è attraverso e nel Passato che l'« istante » fuggitivo dura ed esiste. Il passaggio, il flusso del tempo, invece, è provocato dalla pressione dell'Avvenire: è in statu nascendi che il Presente è « attivo », «virulento », « attuale ». La Città, quindi, tende a dimenticare il Passato pensando all'Avvenire, che « attualizza» il Presente istantaneo, mentre il Paese vive la durata del Presente proiettandolo sul Passato (ritorno delle stagioni, ecc.). In altri termini, il Paese ha una naturale tendenza a riconoscere un'Autorità del Padre, mentre la Città preferisce riconoscere un'Autorità del Capo, che esclude l'elemento « Padre » e vi si oppone. La teoria « costituzionale » del « Potere » amputato (e di conseguenza diviso), così come la sua realizzazione politica, implicano e presuppongono, quindi, un'egemonia del83
la Città sul Paese: sono una teoria, e una realtà, essenzialmente cittadine. Nota. A quanto pare, dunque, gli avvenimenti dell'89 avrebbero dovuto inaugurare, e quelli del '48 consacrare, la distruzione politica del Paese. Ora, ammetto che questa conseguenza delle nostre analisi non quadra granché con la realtà storica. Nondimeno, la deduzione sembra essere corretta. Tutta la questione dovrà essere studiata più da vicino. Ci si può domandare che cosa diventa l'Autorità politica amputata, cioè priva del suo elemento « Padre ». Se l'Autorità del Padre è mantenuta, perché soltanto proiettata al di fuori dell'Autorità politica, andrà a fissarsi nella Famiglia. La Famiglia « autoritaria » sarà per definizione opposta allo Stato (senza Autorità del Padre). Ricadiamo perciò nel caso dell'antico conflitto (pagano) tra Famiglia e Stato (cfr. l' Antigone di Sofocle) che, essendo essenziale, deve sfociare prima o poi nella distruzione di uno degli avversari. Nota. Nei fatti è la Famiglia ad aver avuto la peggio. E si può indicarne la ragione, « fenomenologica » e « metafisica ». Se invece l'Autorità del Padre scompare completamente, e quindi lo Stato non deve più occuparsene (come accade grosso modo nella teoria e nella realtà « costituzionali »), si presentano tre possibilità, con due varianti ciascuna: C —> (S, G) o (G, S) S —> (C, G) o (G, C) G —> (S, C) o (C, S) (per tacere dei casi in cui l'Autorità politica è stata amputata anche di altri elementi oltre quello del « Padre »). Il caso C —> (—) significa che l'Autorità politica è apertamente e coscientemente rivoluzionaria, cioè dominata dal « progetto » di un avvenire essenzialmente nuovo, se non addirittura opposto sia al passato, sia al presente fondato sul passato. La variante C —> (S, G) produce il 84
tipo « bolscevico » (Lenin); la variante C (G, S) il tipo « menscevico » o « socialdemocratico » (mai completamente realizzato). Il caso S —> (—) esprime invece la predominanza del Presente, dell'azione e del «rischio »: si tratta in fin dei conti di un'Autorità essenzialmente militare. La variante S —> (C, G) corrisponde, in una certa misura, all'« imperialismo » germanico o hitleriano (che tuttavia implica un elemento di Autorità del Padre, peraltro senza vera armonia con gli altri tre elementi); quella di S —> (G, C) corrisponde — forzando un po' la realtà, nei fatti più complessa — all'« imperialismo » anglosassone, cioè «borghese ». Ora, il caso C —> (—) esprime per definizione una «rivoluzione permanente », cioè uno Stato essenzialmente non stabile, senza durata reale e indefinita. Quanto al caso S —> (—) , nemmeno lui rappresenta una forma politica stabile, cioè definitiva, se non altro perché, essendo la terra rotonda, le possibilità militari sono limitate (senza parlare dei rischi insiti in ogni impresa bellica) . Una teoria dello Stato (in opposizione alla semplice pratica) deve quindi respingere queste due Resta la terza: G —> (—). Fondata sui principi « eterni» della Giustizia, questa forma di Autorità politica sembra poter essere stabile e definitiva, cioè accettabile anche in teoria. Ma è soltanto un'illusione. Nella misura in cui l'Autorità politica non implica il Passato, il suo elemento « temporale » (al quale restano solo due modi) non è più in armonia con l'elemento «eterno »: l'Autorità del Signore (Presente) e del Capo (Avvenire) deve dunque necessariamente opporsi all'Autorità del Giudice (Eternità) . Ora, se l'Eternità opposta al Tempo, o, più esattamente, separata da esso, non ha più alcuna realtà, anche la Giustizia, separata dall'Autorità del Capo e del Signore, perde ogni Autorità reale. Deve dunque derivare la sua realtà o dall'Autorità del Capo, o dall'Autorità del Signore. Ma allora la Giustizia si « sottomette » e ricadiamo nei casi C —> e S -. Se la si vuole mantenere nel suo isolamento dominante, bisogna dunque fondarla su una 85
realtà politica che non sia lo Stato propriamente detto. Ma una realtà che è politica e tuttavia diversa dallo Stato stesso — è ciò che chiamiamo la « Classe » (la Famiglia può servire infatti da supporto all'Autorità del Padre, ma non a quella del Giudice). La Giustizia in questione sarà quindi necessariamente ciò che Marx ha chiamato «giustizia di classe ». All'occorrenza, lo Stato di tipo G —> sarà essenzialmente « borghese », poiché di fatto lo Stato è assorbito dalla « classe » borghese. È dunque il tipo G —> a essere caratteristico del periodo di dominazione borghese, dove la variante G —> (S, C) corrisponde al « conservatorismo » borghese (per esempio i Tories) , la variante G —> (C, S) al « liberalismo » o « radicalismo » (per esempio i « radicalsocialisti »). Ora, una « classe », poiché non rappresenta il tutto, si oppone per definizione a un'altra « classe ». Quindi lo Stato del tipo G —> implica e genera necessariamente un conflitto: ciò significa che non è né stabile né definitivo e che una vera teoria politica deve respingerlo. Nota. Si vede che la sostituzione al potere di un partito conservatore con un partito liberal-radicale è più che un semplice transfert di Autorità, cioè un cambiamento del «supporto ». È (nella misura in cui il partito realizza veramente il suo programma) un cambiamento della natura stessa dell'Autorità e di conseguenza dello Stato. Ma qui si tratta ancora di un cambiamento in seno allo stesso tipo. Così, sebbene la trasformazione di G —> (S, C) in G —> (C, S) e viceversa possa alla lunga far vacillare l'intero edificio politico, si può concepire anche uno stato di equilibrio dinamico, una sorta di movimento del pendolo. Ma un passaggio da G —> a S —> o C — > significa un cambiamento del tipo stesso: sicché tale cambiamento prende il carattere di una « rivoluzione ». Visto che l'Eternità, che equivale alla totalità del tempo, corrisponde più precisamente al modo del Presente (cfr. l'aspetto « nunc stan» dell'Eternità), il passaggio dal tipo G —> al tipo S —> è meno « rivoluzionario » di quello da G -+ a C —>. Poiché l'Avvenire (isolato) è la negazionedell'Eternità, la realizzazione di questo Avvenire (isolato) equivale alla distruzione dell'elemento Eternità nel Presente. In altri termini, il tipo G —> può
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trasformarsi solamente nella variante C -+ (S, G) del tipo C -3, e non nella variante C -> (G, S), il che in pratica significa che la rivoluzione che trasforma G+ in C+ è necessariamente sanguinosa, poiché comporta il rischio effettivo della vita (Autorità S). La variante C -> (G, S) è quindi, in linea di principio, irrealizzabile a partire dal tipo G -: l'abbozzo C --> (G,...) dell'Autorità politica non riesce a conquistare l'Autorità S che vi si oppone; e il tipo C -+ cede il posto al tipo S -->. La distruzione dell'Autorità. del Padre, quindi, è funesta per l'Autorità politica in generale. E provoca necessariamente l'opposizione dell'elemento « Giudice » agli elementi « Signore » e « Capo », cioè proprio la «Separazione dei poteri » di cui stiamo parlando. Nota. Vediamo in che misura si può rimediare al male, senza sopprimere la divisione tripartita dell'Autorità politica. Si tratta di reintrodurvi l'Autorità del Padre in modo che non formi un « Potere » distinto. Bisogna quindi associarla a uno dei tre « Poteri », oppure a due, o a tutti e tre contemporaneamente. L'Autorità esiste soltanto nella misura in cui è «riconosciuta»; nella misura in cui è « riconosciuta », allora esiste. Di conseguenza, è sufficiente che l'Autorità del Padre sia « riconosciuta » come appartenente al Capo, al Signore o al Giudice da coloro che subiscono le loro Autorità, affinché queste Autorità « pure » - S, C o G diventino Autorità « complesse »: S, P; C, P o G, P. Basta quindi che coloro che subiscono l'Autorità politica, cioè i cittadini (e non il Capo dello Stato e i suoi Funzionari), siano naturalmente portati ad associare l'elemento « Padre » a ogni Autorità da essi « riconosciuta ». Si può ammettere che sarà questo il caso se l'Autorità politica si rapporta non agli individui isolati, ma alle famiglie, rappresentate dal loro capo. Occorrerebbe quindi che l'uomo sia cittadino solo nella misura in cui è « capo » - o, più esattamente, « Padre di famiglia ». (Ma - per evitare il conflitto « antico » bisogna ancora che egli sia, in tale qualità, solo cittadino: in qualità di « Padre di famiglia » deve « riconoscere » l'Autorità politica, e non opporvi l'Autorità «familiare ». È soltanto così che non vi saranno dueAutorità opposte (P e C, S, G), ma una sola Autorità - politica - C+P, S, G; o C+P, S+P, G, ecc.). Ma che cos'è una famiglia e un « Padre di famiglia »? (Cfr. la Noti-
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zia sulla famiglia) .* Non è certo la coppia di per sé, né lo sposo: anche se la coppia è umana, e non animale, cioè anche se è fondata sull' « amore », non costituisce un'entità politica. Ma nemmeno la presenza di uno, due o anche « molti » bambini costituisce la famiglia in quanto entità politica: generare bambini è un'attività puramente biologica, animale, e il loro numero non cambia nulla. La Famiglia è solo un'entità umana sui generis, e diventa un'entità politica — quindi passibile di essere « cittadina », cioè di « riconoscere » l'Autorità politica (lo Stato) — soltanto nella misura in cui essa: 1) educai bambini (cioè trasforma l'animale appena nato in essere umano) e 2) lavora in comune alla creazione e al mantenimento di un'opera chiamata « patrimonio ». Se lo Stato toglie alla Famiglia il diritto e il dovere di educare i figli, la sola base reale dell'essenza politica della Famiglia è dunque il Patrimonio. Questo Patrimonio appartiene alla Famiglia presa in blocco, ed è soltanto nell'unità di questo Patrimonio che la Famiglia trae la propria « individualitá » (collettiva) politica reale. Il Patrimonio è dunque essenzialmente indiviso e inalienabile; quindi necessariamente un bene « immobile », una « terra ». È « governato » dal « padre di famiglia », e costui può diventare cittadino solo in quanto « governatore » del Patrimonio. Dunque, perché il nostro problema venga risolto, è necessario e sufficiente che il corpo dei cittadini sia formato dai «padri di famiglia» così definiti. Ma se lo Stato comprende anche altri cittadini oltre i « padri (individuali o collettivi) di famiglie », questi soli rappresenteranno l'origine dell'Autorità politica del Padre. Per questo motivo, avranno essi stessi (o i loro «rappresentanti ») un' Autorità sugli altri cittadini, e quest'Autorità sarà naturalmente del tipo Padre e avrà un valore politico. In altri termini, i «padri di famiglia» (o i loro « rappresentanti ») andranno a formare un elemento integrante dell'Autorità politica, rappresentandovi il tipo « puro » di Autorità del Padre (per esempio sotto forma di un « Senato » che svolge il ruolo dei « Censori » romani). Cioè di fatto, anche nella forma, l'Autorità politica globale sarà composta da quattro elementi («Poteri »), e non più da tre. Se quindi — anche in questo caso — si vuole mantenere il principio della divisione dell'Autorità politica (del «Potere ») e una divisione in tre, occorrerà riunire
* A. Kojève, Esquisse d'une phénoménologie du droit, cit., pp. 483-509 (trad. it. cit., pp. 435-66) [N. d. C.] . 88 in uno qualsiasi degli altri tre tipi « puri » di Autorità un solo tipo « composto »: per esempio (C+S, G, P), ecc. Ammettendo che l'Autorità del Padre venga completamente eliminata, vediamo che cosa si può dire della divisione o separazione dei tre tipi rimanenti, che costituiscono l'Autorità politica. Abbiamo visto che se si elimina l'elemento Padre, l'elemento Giudice si oppone necessariamente agli elementi Capo e Signore. La separazione del potere giudiziario dagli altri due « poteri » è quindi un processo «naturale ». Rileviamo che è per l'esigenza di un «potere giudiziario» indipendente che l'idea della «separazione dei poteri » ha fatto la sua comparsa nella storia (già nel Medioevo; cfr. la Magna Char-ta libertatis). Ed è questa la « separazione » che sembra essere più giustificata: oggi siamo naturalmente portati a vedervi un « assioma » politico. In effetti, la separazione dell'Autorità del Giudice dalle altre Autorità che fanno parte dell'Autorità politica globale è in una certa misura giustificata dall'analisi del fenomeno « Autorid ». Poiché l'Eternità si oppone al Tempo, l'Autorità del Giudice si oppone, per sua stessa essenza, alle altre tre. Dato che l'Autorità del Giudice è tenuta a essere « riconosciuta » da tutte le altre « Autorid », sembra naturale che il suo « supporto » sia distinto e indipendente dal « supporto » o dai « supporti » delle altre Autorità. Ma abbiamo anche visto che la separazione dell'Autorid. del Giudice dall'insieme dell'Autorità politica la isola e, di conseguenza, la particolarizza, trasformando la « Giustizia » — che sta alla base di questa Autorità — in Giustizia di «classe ». Nota. La violenza stessa della polemica generata da questa interpretazione marxista è un indizio a favore della sua verità.
E poiché questa particolarizzazione di un elemento costitutivo dell'Autorità politica indebolisce tale Autorità. 89
nel senso che la rende instabile e « provvisoria », sembra che la teoria dell'Autorità politica debba respingere il principio della separazione del potere giudiziario. Siamo quindi di fronte a un' antinomia («kantiana») della teoria politica. E questo fa supporre che vi sia una confusione di entità essenzialmente distinte: la giustizia politica» (che giudica il Capo dello Stato e i suoi funzionari, così come i cittadini in quanto cittadini) e la giustizia « privata » (che giudica gli uomini in quanto individui, o membri delle famiglie e della « società»: codice civile e penale) . (Si veda la Notizia sul Diritto).* La teoria dell'Autorità politica non vede alcuna necessità che la giustizia « privata », la sua Autorità e il suo « supporto » debbano essere separati dall'Autorità. politica. Ora, ricollegandola all'Autorità politica non divisa, si evita una degenerazione in giustizia « di classe », con tutti i suoi inconvenienti politici. Invece, la giustizia «politi-ca»deve opporsi all'Autorità che è tenuta a « giudicare », ed è naturale assegnarle un « supporto » distinto e indipendente. Nota. Tutta la questione è di sapere quale deve essere questo supporto. L'ideale sarebbe una genesi spontanea dell'Autorità del Giudice (« manifestata », ad esempio, da elezioni o da un suffragio universale). Ma in pratica l'avvento di un personaggio (individuale o collettivo) riconosciuto degno di giudicare tutti gli altri in quanto cittadini, compreso il Capo dello Stato, è poco probabile. Sembra quindi preferibile creare questo personaggio tirando a sorte fra tutti i cittadini, quali che siano. Questo Giudice, o Tribunale politico, deve rivestire la totalità dell'Autorità del Giudice (politica) ed essere separato, se non indipendente, dalle altre Autorità. Ciò significa che deve giudicare senza farsi guidare da altre « leggi » che non siano quelle che si dà lui stesso. In particolare, non deve giudicare basandosi sulla Costituzione: poiché in questo caso riconoscerebbe l'Autorità del « potere legislativo» (il quale può modificare la Costituzione) e non sarebbe più « separa* A. Kojève, Esquisse d'une phénoménologie du droit, cit., pp. 420-83 (trad. it. cit., pp. 383-435) [N.d.C.]. 90
to » da esso. (Non avrebbe più senso costituirlo come « potere » autonomo). L'esperienza storica conferma questo modo di vedere le cose: il giudizio della Convenzione su Luigi XVI ha avuto un valore politico — positivo o negativo — indiscutibile; i tentativi di far giudicare capi di Stato o alti funzionari da un tribunale « giuridico » sono miseramente falliti, tanto in Russia nel 1917 quanto a Riom nel 1942. Supponendo che l'Autorità politica globale comprenda solamente tre elementi (perché priva dell'elemento Padre), diciamo che l'elemento Giudice (politico) deve essere « separato » dagli elementi Capo-Signore. A questo punto occorre domandarsi se anche questi ultimi due debbano essere separati l'uno dall'altro, come esige la teoria « costituzionale ». Ora, la teoria, la pratica e il semplice buon senso concordano qui nel respingere questa esigenza « costituzionale ». Prendere sul serio la separazione dei « poteri » legislativo ed esecutivo equivarrebbe a istituire un « potere » tenuto a prevedere tutto senza potere nulla, di fronte a un altro « potere » tenuto a potere tutto senza prevedere nulla. In caso di conflitto fra i due (e la « separazione » ha senso soltanto se si ammette la possibilità di un conflitto), il « potere » legislativo sarebbe immediatamente annientato dal « potere » esecutivo, e lo Stato cesserebbe di esistere nella forma data. Nota. È per questo che negli Stati a « poteri » separati il « potere » legislativo tende a indebolire, se non addirittura ad annullare, il « potere » esecutivo, mentre quest'ultimo cerca— con meno « convinzione » poiché detiene di fatto il potere reale — di rendere illusorio il « potere » legislativo. La separazione di questi due «poteri », quindi, conduce in genere all'eliminazione di uno dei due, cioè a una nuova amputazione dell'Autorità politica, nella misura in cui uno dei due non riesce a « captare » l'altro, diventando un « potere » complesso, cioè non « separato ». 91
Metafisicamente parlando, il « potere » legislativo, che — nella misura in cui non è forza pura — non è nient'altro che l'Autorità del Capo, rappresenta l'aspetto « autoritario » dell'esistenza dell'Avvenire, mentre il « potere » esecutivo, che realizza l'Autorità del Signore, rappresenta il Presente. Ora, l'Avvenire, separato dal Presente, è una pura astrazione priva di ogni « sostanza » metafisica. E questo, sul piano dell'esistenza umana e politica, si traduce nel fatto che l'Autorità del Capo, isolata da quella del Signore, assume un carattere « utopico »: la legislazione separata dall' esecuzione costruisce un'« Utopia» slegata dal Presente (cioè la realtà), la quale, di conseguenza, non riesce a realizzarsi (cioè a conservarsi nel Presente) e trascina nella rovina l'Autorità che l'ha prodotta; e, con essa, anche lo Stato nella sua forma « separata ». Quanto al Presente, si « disumanizza » nella misura in cui si stacca dall'Avvenire. Il che significa — sul piano politico — che il « potere » esecutivo « separato degenera in semplice « amministrazione » o « polizia » (il « Governo-Gendarme »): diventa una pura « tecnica », che tiene conto soltanto di ciò che « è», ovvero il dato « immediato ». Ora, il «dato immediato» non è altro che lo stato delle forzepresenti. È la forza, quindi, che determina l'azione del « potere » esecutivo separato: diventa un'« amministrazione » o una « polizia », come dicono i marxisti, di classe. Il che significa che perde la sua Autorità politica del Signore. Lo Stato « separato » è così annullato in quanto Stato: da un lato, l'Autorità del Signore (potere esecutivo), che è tenuta a essere « separata » dalle altre, cioè ad avere un « supporto » indipendente, smette completamente di esistere; dall'altro lato, e proprio per questo motivo, l'Autorità del Capo (potere legislativo) si annienta nell'Utopia; la separazione dei « poteri » legislativo ed esecutivo conduce dunque all'eliminazione delle Autorità del Signore e del Capo; l'Autorità politica (da cui era già stata esclusa l'Autorità del Padre), cioè l'Autorità dello Stato, si riduce così a una pura e semplice Autorità del Giudice; e in queste condi92
zioni ci si può domandare in che misura vi sia ancora uno Stato propriamente detto. Nota. Se chiamiamo «Autorità governativa» l'insieme formato dalle Autorità del Signore e del Capo, possiamo dire che in uno Stato in cui l'Autorità politica si riduce a quella del Giudice non vi è Governo, oppure che il Governo di questo Stato non ha più alcuna Autorità, poiché possiede soltanto la pura forza. Quanto alla restante Autorità giudiziaria, non può più essere politica, cioè reggersi sulle altre Autorità incarnate nello Stato, visto che non esistono più. Essa diventa quindi un'Autorità giudiziaria «privata» — civile e penale. Dunque non vi sono più, propriamente parlando, né Stato né cittadino: vi è una « Società » formata da individui isolati (da «privati »), che hanno gli uni nei confronti degli altri diritti e doveri fissati dall'Autorità giudiziaria (« privata »), e il Governo non è altro che una forza, incaricata di realizzare gli atti dell'Autorità giudiziaria. Sembra pratico riservare il termine « Stato » alle sole società che implichino l'elemento sui generis che si chiama « Governo », quest'ultimo essendo il supporto delle Autorità riunite del Capo e del Signore. L'Autorità politica, essendo per definizione l'Autorità dello Stato, implica quindi necessariamente un elemento di Autorità governativa (pur potendo — e forse dovendo — implicare anche altre Autorità). E la nostra analisi mostra che non si può mantenere Autorità governativa separando l'Autorità del Capo da quella del Signore, cioè assegnando loro « supporti » veramente indipendenti gli uni dagli altri. Anche se si vuole eliminare l'Autorità del Padre e assegnare a quella del Giudice un « supporto » indipendente, bisogna lasciare unite le Autorità del Capo e del Signore: l'Autorità politica, priva dell'elemento Padre, non può dunque essere divisa se non in due. Ma facendo questa divisione bipartita, bisogna fare attenzione al fatto che l'Autorità governativa implichi davvero sia l'elemento del Capo sia quello del Signore. Altrimenti, come abbiamo appena visto, essa degenera 93
e scompare trascinando nella caduta lo Stato stesso in quanto Stato. Nota I. L'Autorità governativa può essere sia del tipo S, C, sia del tipo C, S. Nel primo caso, è l'Autorità del Signore che « capta » o « genera » quella del Capo; l'Autorità del Signore è così « primaria », mentre l'altra « derivata ». Nel secondo caso si verifica l'inverso. Bisognerebbe analizzare entrambi i casi. Ma non possiamo farlo in questa sede. Nota 2. L'Autorità del Capo è quella del « progetto » o, se si vuole, del « programma ». La genesi spontanea di questa Autorità ha luogo, quindi, in occasione di un « programma » proposto dalla persona — individuale o collettiva — che aspira a svolgere il ruolo di « supporto » di questa Autorità. Questa genesi si verifica attraverso e nell'atto di « riconoscimento », che può manifestarsi con un voto. Si può quindi ammettere l'esistenza di un'Assemblea che conferma un Capo nella sua Autorità di Capo. Ma tale Assemblea può votare solamente la persona, cioè il « supporto », dandogli peraltro carta bianca per la sua attività, cioè l'esercizio dell'Autorità. L'Assemblea, quindi, non è un « potere » distinto dal « potere » governativo e opposto a esso: fa parte del Governo, poiché non fa altro che manifestare all'esterno l'Autorità del Governo stesso. Teoricamente, nulla si oppone quindi alla nomina dei membri di questa Assemblea da parte del Governo. Nella misura in cui l'Autorità del Capo è trasmessa (e non spontanea), si impone la nomina: il Capo (individuale o collettivo) dello Stato, la cui Autorità è reale, cioè « riconosciuta », nomina i suoi « collaboratori » (cioè i membri del Governo che hanno il carattere di Funzionari) e può nominare il suo « successore ». L'Autorità passa così al « nominato » senza che l'Assemblea debba intervenire: l'Autorità del funzionario e del successore del Capo dello Stato non dipende dall'Assemblea. Ma essa può giudicare il « supporto » di questa Autorità, cioè manifestare, con il voto, il fatto che questa o quella persona concreta (individuale o collettiva) « materializza » effettivamente l'Autorità che gli è trasmessa attraverso la nomina del Capo dello Stato. Il che vuol dire, in pratica, che
l'Assemblea deve pronunciarsi sui candidati designati (nominati) dal Governo. Ma dato che anche qui si tratta di un giudizio fondato sulla persona e, più esattamente, sulla sua idoneità a fungere da « supporto » a 94
un'Autorità data, è meglio che l'Assemblea si pronunci non al momento della nomina propriamente detta, ma qualche tempo (per esempio sei mesi o un anno) dopo che il nominato ha cominciato a esercitare la sua funzione. Quanto all'Autorità del Signore, essa non ha realtà là dove non vi è il rischio— almeno virtuale — della vita. Finché non vi è guerra o rivoluzione che possano condurre alla rovina dello Stato o del Governo — e questa rovina avrebbe come conseguenza la condanna a morte della persona che l'incarna — è necessario che si crei un «pericolo di morte » artificiale per il Capo dello Stato e i membri del Governo. (E la teoria esige proprio l'esistenza di un tale pericolo di morte per la persona del Capo dello Stato e dei membri del Governo, senza che questo pericolo sia nel contempo mortale per lo Stato stesso o per il Governo in quanto tale, cioè un pericolo diverso da quelli che si presentano sotto forma di guerre, rivoluzioni, colpi di Stato, ecc.). Praticamente, questo pericolo è spesso rappresentato dalla lotta a morte fra i candidati all'Autorità del Capo (cfr. il Terrore di Robespierre, i « Processi » di Mosca, gli avvenimenti del 22 giugno in Germania, ecc.). Ma sembra che in teoria sia preferibile creare questo pericolo in funzione dell'esistenza di un'Autorità (giudiziaria) separata da quella del Governo, cioè che abbia un « supporto » indipendente. Questa Autorità potrebbe essere per esempio il Tribunale politico di cui abbiamo parlato prima: un Capo (legislatore) che può essere condannato a morte da questo Tribunale beneficerebbe anche dell'Autorità (esecutiva) del Signore. (Questo Tribunale è dunque tenuto a eliminare il pericolo dell'« utopismo » della legislazione). Peraltro sembra che, per raggiungere questo scopo, il Tribunale debba pronunciarsi soltanto con due possibili sentenze: il premio d'onore o la pena di morte. Bisogna che si corra il rischio di una pena di morte affinché vi sia « signoria ». E sembra che la semplice assoluzione non abbia qui alcun senso: l'assoluzione significherebbe la semplice incapacità del Capo (senza «cattiva volontà» da parte sua); o, in questo caso, sembra che il Capo debba essere eliminato per la semplice perdita di Autorità, senza che sia necessario l'intervento del Tribunale; intervento che diventa necessario soltanto nel caso dell'esistenza di un « anti-
papa »; ora, 1' « anti-papa », cioè l'avversario del Capo, anch'egli dotato di Autorità, non può che essere un crimi95
nale politico che quindi non è da assolvere. (In altre parole, il Tribunale deve o « riconoscere » 1'« anti-papa », cioè ratificare una « rivoluzione politica » e vedere in lui un « eroe », oppure accusare la sua Autorità di «alto tradimento », punibile essenzialmente con la condanna a morte) . In ogni epoca, i crimini politici sono stati puniti più severamente degli altri: anche nello Stato degenerato di Nicola II. Il fatto che nelle moderne « democrazie » si tenda alla clemenza politica prova soltanto una cosa: la perdita di qualsiasi senso del « politico » in generale. La divisione dell'Autorità politica amputata deve dunque essere bipartita: Autorità giudiziaria (politica) e Autorità governativa (del Capo-legislatore che è nel contempo Signore-esecutore, o viceversa) . Ma abbiamo visto che vi è un interesse a reintrodurre nell'Autorità politica l'elemento dell'Autorità del Padre. Nella misura in cui è impossibile (o non desiderabile) ridurre il numero dei cittadini a quello dei « Padri di famiglia », ciò equivale alla creazione di un'Autorità del Padre separata da quella del Governo e del Giudice, cioè con un « supporto » indipendente. Ritroviamo così una divisione tripartita dell'Autorità politica, ma differente da quella preconizzata dalla teoria « costituzionale ». L'Autorità politica (l'Autorità dello Stato) si divide in: 1) Autorità pura (del Padre), che ha come « supporto » il Senatocensore dei « rappresentanti » dei « padri di famiglia»; 2) Autorità del Governo, ovvero l'Autorità « complessa » Capo-Signore o Signore-Capo, che ha come supporto a) il Capo dello Stato (individuale o collettivo), b) i Funzionari, c) l'Assemblea « manifestante » (nominata o « eletta »); e 3) Autorità (pura) del Giudice, che ha come « supporto » il Tribunale politico (reclutato tramite sorteggio). Lo Stato non è altro che la realtà di questa triplice Autorità. Ma ci si può chiedere se, in linea generale, la separazione dei « poteri » o Autorità politiche, quale che sia, prescritta o proibita dalla teoria politica. La questione molto complessa. 96
Non v'è dubbio che, da un lato, ogni Autorità tende a diventare totale: l'Autorità di un determinato tipo tende a captare le Autorità degli altri tipi. Dall'altro lato, la struttura metafisica dell'Autorità si oppone alla sua divisione: i tre modi del Tempo fanno naturalmente blocco, e l'Eternità non è reale se non attraverso e nella sua unione con il Tempo. Sembra quindi che l'analisi del fenomeno «Autorità» impedisca la divisione dell'Autorità politica, la « separazione dei poteri ». Ed è inutile insistere su tutti gli argomenti di ordine pratico che sono stati opposti (cfr. per esempio Rousseau) alla teoria e alla pratica « costituzionale ». Sembra che, in linea generale, la divisione di un'entità la indebolisca: la somma delle potenze delle parti separate è minore della potenza del tutto indiviso. In realtà, la divisione è reale (ha un « senso » e una « ragion » d'essere) solo se le parti separate sono passibili di entrare in conflitto le une con le altre; ora, sembra che un conflitto (anche « latente ») debba necessariamente « neutralizzare » una parte delle potenze messe in causa, sicché occorre dedurre questa parte « perduta » dalla potenza formata dalla somma delle potenze delle parti separate, prese isolatamente. Sarebbe dunque preferibile dare all'Autorità politica presa in blocco un solo e medesimo « supporto » (individuale o collettivo). Ma gli argomenti — di ordine pratico — che si esprimono a favore della tesi della separazione dei poteri sono altrettanto forti. Sono anch'essi, del resto, argomenti ben noti e non abbiamo bisogno di insistervi. Diciamo soltanto che l'analisi metafisica stessa può, in un certo senso, essere citata a sostegno della tesi in questione. Infatti, se è vero che i tre modi del Tempo formano un'unità, è anche vero che non vi sarebbe affatto Tempo se non vi fosse una separazione di questi tre modi, cioè, quindi, una sorta di « tensione », di « conflitto » fra loro. Parimenti, se l'Eternità, che è la totalità dei tre modi del Tempo, forma un tutt'uno con il Tempo, essa stessa vi si oppone, nella misura in cui la totalità (il tutto) è diversa 97
dalla somma delle parti. Solo che, in entrambi i casi, l'opposizione e, se si vuole, la separazione non significano isolamento dei separati o degli opposti. Vi è inter-azione, cioè: separazione, perché ci sono due (o più) agenti; ma anche unione, perché c'è azione di un agente sull'altro o sugli altri, inseparabile dalla reazione. Ne consegue, per la questione che ci interessa, che anche quando si vogliono separare le Autorità che formano, nel loro insieme, l'Autorità politica, non bisogna isolarlele une dalle altre, delimitando ciascuna in se stessa. Bisogna che possano agire e reagire le une sulle altre: bisogna mantenere la loro unione dinamica nonostante la loro divisione statica. (Per esempio, se si separa l'Autorità — legislativa — del Capo dall'Autorità — politico-giudiziaria— del Giudice, non bisognafissare quest'ultima in un sistema di leggi in linea di principio immutabili, o in una Costituzione che è tenuta a essere immutabile. Viceversa, non bisogna istituire l'Autorità del Capo « irresponsabile » — come è quella del Monarca — , cioè sottratta all'azione dell'Autorità del Giudice, ecc.) . Ma se si respinge la tesi della separazione « isolante » delle Autorità, il principio della separazione va invece mantenuto? Per rispondere a questa domanda, facciamo un'osservazione che di solito si trascura di fare. Quando un solo e medesimo « supporto » (individuale o collettivo) serve a più tipi « puri » di Autorità, c'è sempre la tendenza a sviluppare uno di questi tipi (il tipo « dominante » o « primario ») a scapito degli altri: i tipi « derivati » non riescono così a svilupparsi completamente, e si arrestano a uno stadio embrionale. Se si vuole che i quattro tipi « puri » di Autorità si realizzino perfettamente e completamente, è quindi necessario assegnare loro « supporti » indipendenti, cioè «separare i poteri ». Nota. Ciò è vero anche per l'Autorità del Capo e per l'Autori-tá. del Signore che, tuttavia, non possono essere divise. Ma in questo caso non vi è alcun inconveniente politico, perché si 98
può mostrare che con il progresso politico l'Autorità del Signore deve cedere il passo a quella del Capo, cioè « degenerare ». Sembra perfino che nello Stato « ideale » dell'avvenire debba completamente sparire. In linea generale, l'Autorità del Signore presuppone la possibilità reale di guerra e di rivoluzione sanguinosa e quindi la possibilità di sparire con esse. L'evoluzione storica va dall'unità del « potere » politico alla separazione dei « poteri ». Ora, quanto abbiamo appena detto « giustifica » tale stato di cose: affinché ciascun tipo « puro » raggiunga la pienezza del suo sviluppo, è necessario che sia separato dagli altri. Ma questo non significa che le Autorità debbano restare « divise » anche dopo aver realizzato tutte le loro possibilità implicite. Sembra invece che esse dovranno riunirsi di nuovo. L'evoluzione politica muoverebbe dunque dall'unità non differenziata (l'unità dell'embrione) , passerebbe per una fase di divisione e di sviluppo degli elementi separati, per approdare alla totalità, cioè l'unità differenziata (l'unità dell'organismo adulto). Per rispondere alla domanda se occorra o meno (e se sì, come) dividere l'autorità politica, cioè « separare i poteri », bisogna dunque conoscere quale posto occupa un determinato Stato nel processo dell'evoluzione politica: bisogna conoscere la natura della sua realtà politica concreta. Non possiamo ovviamente intraprendere simili studi in questa sede. Dedichiamo piuttosto qualche parola all'altro aspetto del problema della divisione dell'Auto-ritá politica, cioè ai rapporti fra un'Autorità (« pura» o « complessa ») indivisa e il suo « supporto ».
b) Se le Autorità politiche sono divise, va da sé che ciascuna deve avere un « supporto » distinto. In altri termini, ogni Autorità deve essere incarnata in una persa na particolare. Ma bisogna anche chiedersi se questa 99
persona deve essere un singolo individuo oppure un « collegio ». E la stessa questione si pone quando l'Autorità politica non viene divisa. In genere il problema è stato discusso in quest'ultima forma. La classificazione « classica » è la seguente: L'autorità politica una e indivisibile appartiene: 1) a uno solo — Monarchia (Tirannia) 2) a una parte (s'intende: alla minoranza) — Aristocrazia (Oligarchia) 3) a tutti — Democrazia. Questa divisione è molto « kantiana », perché corrisponde alle tre categorie kantiane della Quantità: Einheit, Vielheit, Allheit. Ma dal punto di vista politico non è corretta. In politica, infatti, ciò che conta in primo luogo è sapere se l'azione proviene in definitiva da un singolo uomo oppure da un « collegio ». Da questo punto di vista, la differenza fra un singolo e un gruppo, quale che sia, maggiore di quella esistente fra gruppi più o meno vasti. Tanto più che, politicamente, il « supporto » collettivo dell'Autorità non comprende mai tutti coloro che la subiscono. Anche nella « democrazia » più estremista, il termine « tutti » significa « tutti i cittadini», e non tutti gli esseri umani (che vivono nello Stato). Ora, il limite fra cittadini e non cittadini è sempre più o meno arbitrario (cfr. il problema delle donne, dei bambini, dei pazzi, ecc.), sicché il « supporto » dell'Autorità ha sempre all'incirca il valore di una «parte », dei « più ». Inoltre, nella realtà politica, il « potere » non appartiene nemmeno a tutti i cittadini: appartiene alla maggioranza, e cioè a una parte. Nota 1. Il caso in cui il potere appartiene a tutti i cittadini potrebbe essere scartato in quanto politicamente irreale, se non fosse stato realizzato a un certo punto in Polonia (il famoso diritto di veto, cioè Autorità = unanimitá.). Ma anche questa esperienza dimostra l'assurdità politica di una simile varian100
te. Non possiamo vedervi, quindi, che un « caso limite », e non una possibilità alternativa a quella del governo di un singolo e dei più. Nota 2. Se si ammettono queste osservazioni in merito alla nozione « tutti » in politica, bisogna respingere anche un'altra classificazione logicamente possibile: l'Autorità appartiene a una parte{1. a uno 2. a più {a. alla minoranza b. alla maggioranza II) a tutti. Perché non si possono davvero dividere tutti gli Stati che sono esistiti in: I) Stato polacco e II) tutti gli altri! Dal punto di vista politico, la classificazione corretta è quindi la seguente: l'Autorità politica (indivisa) ha un « supporto »: I) individuale II) collettivo, formato da: 1. una parte dei cittadini, a. una Minoranza parte che costituisce 2. tutti i cittadini (caso limite). b. una Maggioranza Si è discusso all'infinito sui vantaggi e svantaggi delle possibilità I e II. Non possiamo qui ripetere l'argomentazione dei rispettivi sostenitori. Possiamo però sottolineare un aspetto del problema che in genere è stato trascurato. Quando il « supporto » è collettivo, si dice che vi sia il pericolo di un conflitto fra i membri del collettivo — il quale conflitto può indebolire, se non distruggere, l'Au-toña stessa. L'argomento è valido nel caso in cui l'Autorità appartenga a un tipo « puro ». Ma quando l'Autorità è « complessa » le cose sono meno semplici. In questo caso, infatti, un solo e medesimo uomo può entrare in conflitto con se stesso: preso in quanto Capo, ad esempio, può opporsi a se stesso preso in quanto Giudice o Padre; 101
ecc. Ora, quando il conflitto delle Autorità si svolge all'interno di un solo e medesimo uomo, o conduce al suicidio (fisico o politico) , cioè alla distruzione del « supporto » e, di conseguenza, della Autorità totale stessa, oppure - nella stragrande maggioranza dei casi - alla soppressione di una delle Autorità (parziali) in conflitto a vantaggio dell'altra. (E per questa ragione che tali conflitti sembrano essere meno frequenti nell'individuo che nel collettivo). Nel caso di un « supporto » collettivo, invece, le Autorità parziali in conflitto si suddividono in genere fra individui diversi, sicché sono meno soggette a essere eliminate da una di loro. Se quindi il « supporto » serve a un'Autorità politica « pura », è preferibile che sia individuale (la «discussione » dovrà così aver luogo fra i candidati al « supporto » di questa Autorità, e non all'interno del « supporto » stesso) . Ma quando l'Autorità politica è « complessa », sembra sia da preferirsi un « supporto » collettivo. (Esempio: il « supporto » dell'Autorità S o C dovrebbe essere individuale. Ma se si vuole che l'Autorità SC o CS non degeneri in Autorità S o C, è meglio che il suo « supporto» sia collettivo). Ammettendo che il « supporto » dell'Autorità politica indivisa sia collettivo, ci si può domandare quale debba essere la sua natura quantitativa. Possiamo eliminare il caso II, 2. Nota. A prima vista, questo caso sembra inesistente, visto che non si può avere Autorità su se stessi. Ma non dimentichiamo che qui si tratta di Autorità politica, che può opporsi ad Autorità di altro genere, cioè realizzate in un « ambito » differente dall'«ambito» politico, l'Autorità religiosa ad esempio (che peraltro può anch'essa comprendere tutti e quattro i tipi « puri » di Autorità in quanto tale) . Anche se fossero tutti i cittadini a fungere da « supporto » all'Autorità politica, esiste ugualmente un'Autorità politica, perché ciascuno funge da « supporto » a quest'ultima solo nella misura in cui è cittadino, e non ad esempio horno ceconomicus o horno religiosus. In quanto religiosa, ecc., posso quindi « riconoscere », cioè creare, l'Au-
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torità politica alla quale io stesso fungo da «supporto» nella mia qualità di cittadino. Quindi, teoricamente, il caso esiste. Ma è politicamente irreale, perché l'Autorità così « supporta-ta » non riesce a conservarsi. Resta quindi da sapere se il « supporto » dell'Autorità politica (indivisa) deve formare la minoranza (caso II, 1, a) oppure la maggioranza (II, 1, b) dei cittadini. Abbiamo visto che la Maggioranza (Minoranza) non ha alcun sovrappiù di Autorità che gli derivi dal solo fatto di essere una Maggioranza (Minoranza): l'Autorità non ha nulla a che vedere con la quantità. Da questo punto di vista, quindi, è indifferente che il supporto dell'Autorità politica (indivisa) sia costituito da un singolo, da una Maggioranza o da una Minoranza più o meno grandi. Quindi ci si deve soltanto domandare se un « supporto » maggioritario è più idoneo di un « supporto » minoritario alla conservazione e all'esercizio di una determinata Autorità. Ora, è evidente che se si identifica il « supporto » dell'Autorità politica con il capo (collettivo) dello Stato, è impensabile che questo supporto formi la maggioranza dei cittadini di uno Stato, per quanto di modesta estensione. Ma, di fatto, il « supporto » dell'Autorità politica non è soltanto il Capo dello Stato (o il « Governo »), ma anche l'insieme dei funzionari. Il nostro problema diventa allora stabilire se il corpo dei funzionari debba o meno formare la maggioranza dei cittadini, cioè se bisogna « funzionarizzare » più cittadini possibile. Ora, questo problema è troppo complesso per poter essere discusso qui. E non possiamo nemmeno discutere la questione del « supporto » di un'Autorità politica « separata ». Va da sé che vi siano tanti « supporti » indipendenti quante sono le Autorità distinte (tre, nel sistema: Senato-Governo-Tribunale). Ma bisogna chiedersi inoltre se questi « supporti » debbano o non debbano essere collettivi (o perlome-
103
1)
2)
1) 2) 3)
no alcuni di essi), e, se sì, se sia o meno necessario che uno di essi comprenda la maggioranza dei cittadini. Senza discutere tali problemi, diciamo soltanto che non li si può risolvere applicandovi il principio enunciato prima secondo il quale è meglio assegnare a un'Auto-ritá « pura» un « supporto » individuale, riservando i « suppord » collettivi alle Autorità « complesse ». Perché in quel caso si trattava di un'Autorità politica globale che ha il tipo « puro » P, C, S o G. In questo caso invece le Autorità in questione (per esempio del tipo P, CS e G) sono elementi costitutivi dell'Autorità politica globale. 2. La trasmissione dell'Autorità a) Consideriamo in primo luogo il caso del cambiamento di « supporto » (individuale o collettivo) di una stessa Autorità: è il problema della «successione » tanto del Capo dello Stato quanto del Funzionario. In linea generale, all'interno di ogni Autorità si possono distinguere: colui che la detiene in modo immediato: Autorità « autonoma» (del Capo dello Stato); colui che la possiede solamente in funzione del primo: Autorità « dipendente» (del Funzionario). Ricordiamo anzitutto che la trasmissione dell'Autorità, che è opposta alla sua genesi spontanea, può avvenire per: eredità; elezione; nomina. Abbiamo visto che ciò che chiamiamo generalmente « elezione » può rappresentare tre « fenomeni » nettamente diversi. L'« elezione » può essere una semplice manifestazione dell'Autorità già esistente: l'elezione non fa altro che rendere visibile e reale l'Autorità del candidato, il quale la detiene indipendentemente dalla sua elezione. In questo caso, è meglio parlare non di « ele104
zione », ma per esempio di «voto di fiducia ». L'elezione (propriamente detta), però, può anche creare l'Autorità dell'eletto, che non ha nessun'altra Autorità all'infuori di quella che gli è stata conferita con l'elezione. È l'elezione propriamente detta. E abbiamo visto che, « fenomenologicamente », una tale elezione equivale al sorteggio dei candidati. Infine, « elezione » può avere il carattere di nomina se l'assemblea elettorale possiede una propria Autorità che trasmette (interamente o in parte) all'eletto. In questo caso, parleremo di « nomina » e non di « elezione ». Consideriamo ora il caso in cui l'Autorità del Capo (individuale o collettivo) dello Stato, cioè del « supporto » dell'Autorità politica indivisa « autonoma», viene trasmessa al suo successore (mentre è in vita oppure dopo la morte). Abbiamo visto che la trasmissione per via ereditaria è fenomenologicamente indifendibile (salvo che per l'Autorità del Padre, sebbene nemmeno qui vi sia vera « eredità ») . Del resto al giorno d'oggi sembra completamente caduta in discredito. Le stesse osservazioni si applicano all'elezione propriamente detta, cioè al sorteggio (effettuato sotto forma di voto di un'Assemblea senza Autorità propria; oppure in altro modo) . Resta quindi la nomina. Ora, dato che si presuppone che l'Autorità politica sia indivisa, la nomina, in definitiva, può essere fatta solamente dal Capo dello Stato stesso: è lui che nomina il suo successore. È evidente che questa modalità di trasmissione presenta un vantaggio solo nel caso in cui, per una ragione qualsiasi, si voglia mantenere l'Autorità appartenente in proprio alla persona del Capo che nomina il suo successore. (Esempio: è così che una setta religiosa conserva talvolta l'Autorità del suo fondatore sotto forma di nomine successive, che risalgono in ultima istanza a questo fondatore) . Ma non bisogna dimenticare che questa Autorità tende a diminuire in funzione del numero di nomine che effettua. È preferibile quindi disgiungere 105
l'Autorità politica in quanto tale dall'Autorità propria (« personale ») di uno dei suoi « supporti ». E allora meglio sostituire la nomina con una genesi spontanea dell'Autorità autonoma. In questo caso, la «successione » sarebbe in realtà una serie di genesi spontanee della stessa Autorità (questa genesi può « manifestarsi», ad esempio, tramite un «voto di fiducia ») . Nel caso in cui l'Autorità politica è divisa, il problema della successione (del « supporto » autonomo) si pone per ogni Autorità separata. La questione dunque si complica e non possiamo trattarla in questa sede. Nota. Ricordiamo che nello Stato del tipo P-CS-G l'Autorità autonoma del Senato-censore può trasmettersi per via ereditaria; quella del Governo per genesi spontanea, manifestata da un voto di fiducia dell'Assemblea manifestante; quella del Tribunale da un sorteggio (ad esempio sotto forma di elezione, magari da un suffragio universale). Consideriamo ora il caso della trasmissione dell'Autorità « dipendente», cioè la modalità di sostituzione dei Funzionari. Dato che l'Autorità « dipendente » del funzionario è una funzione dell'Autorità politica «autonoma », è meglio che questa dipendenza sia ogni volta messa in evidenza. In altri termini, in questo caso la trasmissione dell'Autorità deve avvenire per nomina. Il Funzionario, quindi, deve essere sempre nominato: in ultima istanza dal Capo dello Stato se l'Autorità politica è indivisa, oppure dal « supporto » dell'Autorità autonoma da cui dipende il Funzionario se l'Autorità politica è divisa.
b) Con ciò abbiamo dato una risposta alla seconda domanda relativa alla trasmissione dell'Autorità, cioè alla trasformazione dell'Autorità autonoma (di un determinato tipo) in Autorità dipendente (dello stesso ti.106
po). Non è il funzionario che designa il suo successore; non vi è nemmeno genesi spontanea dell'Autorità dipendente (di funzionario); non vi è né eredità, né sorteggio, né elezione propriamente detta; il funzionario è sostituito nello stesso modo in cui è stato creato, cioè con una nomina effettuata dall'Autorità autonoma corrispondente, la quale in ultima istanza ha per « supporto » il suo « capo » individuale o collettivo. Nota. Nello Stato del tipo P-CS-G è il Senato-censore che nomina, se necessario, i Censori-funzionari, così come il Tribunale nomina, all'occorrenza, i « Tribuni » o Giudici (politici)-funzionari. Gli altri funzionari sono nominati dal Governo, nel senso stretto del termine, cioè sia direttamente dal suo capo individuale o collettivo, sia indirettamente tramite i Segretari di Stato o i Ministri.
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II. APPLICAZIONI MORALI Chiameremo « morale dell'Autorità» o «morale autoritaria » l'insieme delle regole alle quali deve sottostare il comportamento attivo di un essere umano (individuale o collettivo) per poter fungere da « supporto » all'Autorità. La « morale autoritaria », quindi, indica ciò che bisogna fare per acquisire o mantenere (cioè esercitare) un'Autorità di un determinato tipo. Ora, come ci sono quattro tipi « puri » di Autorità, ci sono anche, necessariamente, quattro tipi irriducibili di «morale autoritaria »: per acquisire e mantenere l'Autorità del Padre, ad esempio, bisogna fare cose diverse da quelle necessarie per acquisire e mantenere l'Autorità del Signore, ecc. Oggi si tende in genere a ignorare completamente l'aspetto « autoritario » (o addirittura politico) della morale, escludendo dalle considerazioni etiche la categoria dell'Autorità e il principio della differenza essenziale fra coloro che la esercitano e coloro che la subiscono. Ciò si spiega con il fatto che la nostra morale cristiana o « borghese » è, almeno quanto alla sua origine, una morale « servile » opposta alla morale dei « Signori »: ri108
flette molto di più il comportamento degli uomini che subiscono l'Autorità che non quello di chi la esercita. Ora, fra i quattro tipi « puri » della morale autoritaria, è la morale dell'Autorità del Giudice che si avvicina di più alla morale « borghese ». Così, quando si prova a stabilire una morale tenendo conto dell'esistenza di un'Autorità, si elabora una morale del tipo « Giudice ». E si applica questa morale particolare a ogni Autorità, senza preoccuparsi di sapere a quale tipo appartenga una determinata Autorità. Lo studio del passato, però, ci fornisce parecchie informazioni sulla morale dell'Autorità del tipo «Signore »: la troviamo esposta più o meno esplicitamente (cioè in forma di teoria) in autori dell'Antichità, dell'Europa dei secoli XVI e XVII (cfr. in particolare il Cortegiano di Castiglione), del Medioevo giapponese e indù, ecc. Ma anche qui, ovviamente, gli autori credono di avere a che fare con la morale tout court: non mettono abbastanza in risalto l'aspetto «Autorità» in generale e non tengono conto degli altri tipi di Autorità. Quanto alle morali delle Autorità del Padre e del Capo, esse non esistono, per così dire, in forma esplicita: possediamo descrizioni storiche e psicologiche del comportamento dei Padri e dei Capi, ma non se ne è ricavata alcuna teoria. Non possiamo qui colmare questa lacuna, né, in generale, sviluppare la teoria dei quattro tipi irriducibili della morale dell'Autorità. Ci limitiamo a indicare il problema, aggiungendo che andrebbero sviluppate anche le morali autoritarie «combinate », visto che in pratica l'Autorità non esiste quasi mai sotto forma di tipo « puro » isolato. Si tratterebbe inoltre di vedere in quale misura le morali « pure » debbano essere modificate in conseguenza della loro fusione in una sola morale « complessa » di un determinato tipo. Diciamo soltanto che, in tutta evidenza, è assurdo voler « giudicare » l'Autorità di un determinato tipo (o più esattamente il comportamento del suo « supporto ») in 109
base a una morale appartenente a un altro tipo di Autorità. I ben noti fatti dei conflitti «tragici », cioè insolubili, fra le Autorità di tipi diversi (quelli del Padre e del Capo, ad esempio) lo dimostrano a sufficienza.
L'elaborazione di una morale teorica dell'Autorità presenta un interesse pratico: anzitutto perché potrebbe fungere da regola di comportamento per coloro che si accingono a esercitare un'Autorità o effettivamente la esercitano. Ma la diffusione di una tale morale esplicita potrebbe anche formare la « psicologia » di coloro che subiscono l'Autorità, rendendo così più facili la sua acquisizione e il suo mantenimento: è più semplice mantenere un'Autorità se le persone che sono tenute a subirla sanno ciò che va fatto per mantenerla (e vedono che viene effettivamente fatto, ovviamente). Così, lo studio della morale dell'Autorità conduce naturalmente allo studio (e alla formazione pedagogica) della psicologia dell'Autorità.
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III. APPLICAZIONI PSICOLOGICHE Per «psicologia dell'Autorità» intendiamo la maniera in cui l'uomo percepisce l'Autorità esercitata o subita (di un determinato tipo). Lo studio della psicologia dell'Autorità esercitata non presenta che un interesse puramente teorico, perché in pratica, almeno ai giorni nostri, non si pone il problema di educare i candidati all'Autorità, formando la loro psicologia « autoritaria » con una pedagogia appropriata fondata sulla conoscenza teorica di questa psicologia. Nota. Questo studio presenta un interesse pratico solo là dove l'Autorità si trasmette per via ereditaria. E per questo che, in fatto di psicologia autoritaria, non si è per così dire mai studiato altro che quella del Monarca ereditario; senza preoccuparsi, peraltro, del tipo al quale appartiene la sua Autorità. Si è tentato di creare « scuole di capi» nella Germania hideria-na (le Ordensburgen) . Cfr. anche certi college di Oxford e di Cambridge. Lo studio teorico della psicologia dell'Autorità subita, invece, oltre al suo interesse intrinseco, ha un indiscutibile valore pratico. 111
In effetti, è la conoscenza di questa psicologia che deve costituire la base di ogni « propaganda » o « demagogia» razionale, cioè veramente efficace. (Per « demagogia » intendiamo l'educazione politica del popolo, cioè un'attività pedagogica che si serve dei mezzi forniti da ciò che oggi chiamiamo « propaganda »). Sapendo che cosa prova l'uomo comune che subisce un'Autorità — ovvero, per ciò stesso, quello che si aspetta da chi la esercita gli si può far vedere che egli ha effettivamente a che fare con un'Autorità, e con un'Autorità esercitata « come si conviene »; o, almeno, fargli credere che sia così. E si possono — e si devono —anche correggere le sue reazioni psicologiche, facendogli effettivamente provare ciò che si prova nel caso « normale » (se non « morale ») dell'Autorità « correttamente» esercitata e subita. Non potendo studiare il problema della psicologia dell'Autorità, diciamo soltanto che anche qui si tratta di distinguere i suoi quattro tipi « puri » e vedere in quale misura si modificano in conseguenza della loro fusione. Perché è evidente che si subisce l'Autorità del Padre, ad esempio, in maniera del tutto diversa da quella del Signore, ecc. Prima di intraprendere una propaganda demagogica (nel senso non peggiorativo del termine), bisogna dunque sapere esattamente a quale tipo (« puro » o « complesso ») appartiene l'Autorità che si vuole contribuire ad acquisire o mantenere con questo mezzo « pedagogico ». Ora, è impossibile stabilire la «psicologia normale » dell'Autorità politica senza conoscere la sua morale, il che dal canto suo presuppone la conoscenza della realizzazione politica dell'Autorità sotto forma di Stato. E tutto questo presuppone un'analisi filosofica del fenomeno dell'Autorità in quanto tale (indipendentemente dal sapere se si realizza sotto forma politica, religiosa o altro): in primo luogo analisi fenomenologica, poi metafisica e infine ontologica. 112
* Anziche proseguire le nostre deduzioni generali, studiamo brevemente — in appendice — un caso concreto di Autoritä politica: 1'Autoritä esistente in Francia nel 1942.
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APPENDICI
1. ANALISI DELL'AUTORITÀ DEL MARESCIALLO L'avvento del Maresciallo al potere è un tipico caso di genesi spontanea di un'Autorità politica. Vediamo a quale tipo appartiene l'Autorità che ha come «supporto» la persona del Maresciallo. Prima degli avvenimenti del 1939-1940, il Maresciallo era noto al grande pubblico soprattutto come capo militare, come il vincitore di Verdun. Possedeva quindi un'autorità guerriera, ovvero, nella nostra terminologia, fungeva da « supporto » (individuale) a un'Autorità di tipo «Signore ». E su questa Autorità del Signore che punta la propaganda, presentandolo al popolo come «il vincitore di Verdun ». Ed è soprattutto grazie a questa Autorità del Signore che il Maresciallo può agire — nell'ambito politico in senso stretto — senza dare spiegazioni, senza motivare i suoi atti, senza indicarne le ragioni, gli scopi e le conseguenze, cioè senza spiegarne il significato. Ma l'élite della nazione conosceva anche il ruolo svolto dal Maresciallo all'epoca delle sedizioni militari: si apprezzava l'aspetto « politico » della sua attività di militare, si sapeva che era capace di prevedere gli eventi, di 115
fermare il loro evolversi e riorganizzare il presente in vista dell'avvenire. In altri termini, il Maresciallo beneficiava anche dell'Autorità del Capo, nel senso che attribuiamo a quest'espressione. È a questa Autorità del Capo che si appella il Maresciallo quando ripete al popolo: «Vi guido, seguitemi) ». È questa Autorità del Capo che si manifesta nel fatto che un progetto o un programma, pur non compreso dal popolo, viene accettato senza « reazione » solo perché è proposto o appoggiato dal Maresciallo. Nota. Vari uomini politici hanno tentato di accaparrarsi un'Autorità del Capo appellandosi al fatto che hanno previsto la sconfitta o, almeno, hanno sconsigliato la guerra in previsione del suo esito. 11 Maresciallo non può basare la sua Autorità. di Capo su una « previsione » del genere. Ma non ha partecipato allo scoppio della guerra: quindi non si è sbagliato, non ha dato prova di imprevidenza. La sua Autorità di Capo, acquisita nel 1917, nel 1940 è quindi rimasta intatta. Inoltre, l'età avanzata del Maresciallo, il fatto che avesse già raggiunto l'apice della gloria e, in generale, l'evidente « nobiltà » del suo carattere: tutto questo contribuiva a conferirgli anche l'Autorità di Giudice. Agli occhi della nazione, il Maresciallo è profondamente «disinteressatos », imparziale, oggettivo, cioè giusto, equo, onesto. E per consolidare questa Autorità di Giudice che il Maresciallo all'inizio ha pronunciato la bella frase (spesso ripresa dalla propaganda): «Ho donato la mia persona alla Francia ». E fondandosi sulla sua Autorità di Giudice ha potuto pronunciarsi sugli imputati di Riom prima che venissero giudicati dalla Corte. Infine, il carattere, il comportamento e lo stile di vita essenzialmente «francese », « essenza » francese reale e apparente del Maresciallo, insieme alla sua età, hanno fatto della sua persona un « supporto » (individuale) dell'Autorità di Padre. E questa Autorità di Padre che il Maresciallo (e talvolta la propaganda) manifesta con il suo tono e il suo atteggiamento «paterno ». E questa Au116
torità di Padre dà al popolo la certezza che, seguendo il Maresciallo in quanto Capo, fidandosi ciecamente di lui come un Signore, accettandolo come Giudice, non si tradiranno non solo gli interessi immediati del presente e le prospettive dell'avvenire, ma anche la tradizione del passato. Si può dire, quindi, che nel 1940 c'è stata una genesi spontanea (non manifestata da un « voto di fiducia ») di Autorità politica totale, poiché il Maresciallo funge da « supporto » (individuale) a tutti i quattro tipi « puri » di Autorità (sotto una forma politica) . Nota. Un'indagine più minuziosa avrebbe potuto rivelare la natura particolare di questa Autorità politica totale, cioè l'ordine delle quattro Autorità « pure » che essa comprende (le « varianti » PCSG, CSPG, SCGP, ecc.). Sembra peraltro che nel corso del tempo quest'ordine sia mutato. Vediamo ora che cos'è diventata questa Autorità politica totale in seguito al suo esercizio. Cominciamo con l'Autorità del Signore. Poiché il suo ambito proprio è la guerra, una politica essenzialmente e manifestamente pacifica e pacifista deve necessariamente ridurre questa Autorità e distruggerla a poco a poco. Tanto più che l'età del Maresciallo gli impedisce di presentarsi al popolo come l'effettivo capo militare di un'eventuale guerra futura. Nota. Se si vuole che lo Stato mantenga l'Autorità del Signore, bisognerebbe perciò trovare per questa Autorità un « supporto» diverso dalla persona del Maresciallo. E questo che sembra abbia portato il Maresciallo a designare come suo successore l'Ammiraglio. Bisogna infatti promuovere una persona che sia in grado di esercitare un comando militare effettivo in un'eventuale guerra futura. Notate l'argomento della propaganda: « L'Ammiraglio non è mai stato battuto »; è quindi anzitutto la sua Autorità di Signore che si vuole consolidare o generare. 117
Sembra dunque che il Maresciallo dovrà servirsi sempre meno della sua Autorità di Signore. Il che significa che dovrà dare spiegazioni al popolo. Nota. L'Autorità « governativa», cioè l'Autorità « complessa » Signore-Capo che nel momento dell'armistizio del 1940 pare sia stata del tipo SC, tende a trasformarsi in Autorità « governativa » del tipo CS. L'Autorità del Padre, invece (molto potente sin dall'inizio), è rimasta intatta. Le misure avvertite come « non francesi » sembra siano accettate dal popolo come volontarie « ritirate strategiche » senza futuro. In ogni caso, grazie al sostegno dell'Autorità del Padre rimasta intatta, l'Autorità « governativa » beneficia sempre del prestigio che può godere in Francia una politica essenzialmente francese (« nazionale ») . (Del resto, il Maresciallo e la propaganda mettono bene in risalto l'aspetto « Tradizione »). Soltanto che, oggi come oggi, il «peso specifico » del Passato non può essere molto grande. Il Presente è a tal punto « miserabile » che la Nazione desidera prima di tutto uscirne, cioè superarlo, cioè penetrare nell'Avvenire. L'Autorità dell'Avvenire (= Autorità del Capo) è dunque più potente di quella del Passato (= Autorità del Padre). Di conseguenza, l'Autorità totale è, o sarà, non del tipo P —>, ma del tipo C —> (o CS —>). In altri termini, l'Autorità del Padre non deve «fondare », bensì « assistere » l'Autorità del Capo. Passiamo all'Autorità del Giudice. Certo, nulla ha potuto ridurre il prestigio personale del Maresciallo: la sua « imparzialitá » essenziale resta indiscussa. Ma l'esercizio effettivo di questa «imparzialità », cioè dell'Autorità reale di Giudice, sembra averlo indebolito (cfr. la brutta piega che ha preso il processo di Riom). Si « riconosce » l'equità del « giudizio » del Maresciallo, ma si dubita della possibilità di metterlo in atto. (Stessa posizione nell'ambito sociale: il Maresciallo è giusto, mai « Trust » sono più forti di lui). Sembra quindi che il Maresciallo 118
non possa (o non possa più) fondare la sua autorità globale sulla negazione punitiva del passato (e del presente), cioè sull'Autorità « pura » di Giudice. L'Autorità politica totale, quindi, non può essere del tipo G -. Perciò è l'Autorità « governativa » (Autorità del Capo o del Signore) che deve fungere da base alle Autorità del Padre e del Giudice; ed è l'Autorità del Capo che deve prevalere nell'Autorità governativa. L'Autorità totale sembra dunque tendere verso il tipo CSPG (o forse CSGP). Nota. Attualmente sembra che la Nazione — messa da parte la questione dell'avvenire — si interessi meno all'equità del presente che al mantenimento della continuità con l'insieme del passato: si tratta esattamente del tipo (—)PG e non (—)GP. In epoca pre-lavaliana, l'Autorità politica tendeva a dividersi in CGP (il Maresciallo) e S (l'Ammiraglio). Abbiamo visto che la separazione fra C e S non era auspicabile. Tuttavia sembra inevitabile, vista l'età del Maresciallo. In ogni modo, l'Autorità dell'Ammiraglio, succedendo al Maresciallo, era tenuta ad avere il tipo CSPG o forse, in questo caso, CSGP, poiché questo tipo tende, in caso di guerra, a diventare SCGP. In questo momento (maggio 1942), l'Autorità politica totale sembra avere tre « supporti » indipendenti: C (Laval), PG (il Maresciallo) e S (l'Ammiraglio). Anche qui si tratterebbe di sapere sin dove arriva « indipendenza » reciproca reale di questi tre « supporti ». Ora, il tipo di questa Autorità è difficile da determinare: 1) secondo le aspirazioni della nazione, il tipo è o dovrebbe essere: C + S + PG; 2) secondo l'Autorità personale, il tipo è incontestabilmente PG+ S+ C; 3) una gran parte della popolazione crede di constatare, con rammarico, che il potere reale è del tipo C +PG+ S. L'essenziale è che la gerarchia dei « supporti » non coincide con quella delle Autorità: l'Autorità del Capo, che dovrebbe essere la più forte, ha il « supporto » più debole di tutti. Quindi è l'Autorità del Capo che sembra fungere da base all'Autorità politica totale del Maresciallo in seguito al suo esercizio. E sembra che questa Autorità
del Capo abbia resistito alla prova dell'esercizio effettivo: an119
cora oggi, un « progetto » o un « programma » presentato dal Maresciallo verrà accettato senza « reazione » soltanto perché è lui a presentarlo. L'Autorità del Capo, però, essendo un'Autorità dell'Avvenire, cioè di « progetto », non può esercitarsi nel presente senza « spiegazioni », cioè senza ricondurre gli atti del presente a un avvenire definito attraverso e in un programma politico. Un Capo non può restare Capo indefinitamente senza formulare un « progetto » ben definito, un « programma » elaborato, che propongano la trasformazione del presente in vista di un determinato avvenire. Ora, va detto che fino a oggi il Maresciallo non ha ancora formulato un « programma politico » veramente degno di questo nome (e degno dell'Autorità di cui beneficia ancora oggi). Lungi dal rafforzare l'Autorità del Capo, la sua attività, priva di un programma nazionale noto (e che di conseguenza ha un carattere puramente « opportunista »), mette questa Autorità a dura prova. Certo, il « topos», il « luogo logico » per un tale « programma», esiste già e si chiama « Rivoluzione nazionale ». Ma bisogna confessare che questo « luogo » è ancora vuoto.
In una seconda Appendice, dedicheremo qualche parola a questa Rivoluzione nazionale. Per ora, a conclusione di questa prima Appendice, diciamo che l'analisi dell'Autorità del Maresciallo porta alla seguente conclusione: 1) La Rivoluzione nazionale ha bisogno dell'Autorità del Maresciallo per poter nascere e realizzarsi: soltanto un « programma » sostenuto dalla quadruplice Autorità del Maresciallo ha qualche possibilità di essere accettato dalla nazione (se non altro come programma). 2) L'Autorità del Maresciallo ha bisogno della Rivoluzione nazionale (se non altro sotto forma di un pro120
gramma costruttivo definito, cioè di un'« idea » politica) per potersi mantenere senza subire alterazioni. Nota. Si può anche dire che allo stato attuale l'Autorità del Maresciallo rappresenta un ideale politico. Ma ogni ideale svanisce se non si realizza, o se almeno non si tenta di realizzarlo. Ora, un ideale in via di realizzazione si chiama idea; si intende: idea concreta e costruttiva che, generando l'azione, trasforma il dato in funzione dell'ideale (e quest'ultimo, in conseguenza della sua realizzazione, si trasforma tanto quanto il dato). Bisogna quindi che il Maresciallo smetta di essere un ideale per diventare un'idea politica. Il che significa che deve formulare e mettere in atto un programma di Rivoluzione nazionale.
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2. CONSIDERAZIONI SULLA RIVOLUZIONE NAZIONALE È chiamata « Rivoluzione » una trasformazione attiva del presente politico in funzione dell'avvenire, trasformazione che implica una negazione del dato presente, cioè che non è un semplice sviluppo di ciò che era già implicato (in embrione) nel dato presente. (L'avvenire va quindi inteso nel senso forte e proprio del termine, ovvero come ciò che non è ancora e che non è già stato). La Rivoluzione è « nazionale » quando la trasformazione attiva del presente politico avviene senza soluzione di continuità con l'insieme del passato. (Il passato immediato può e deve essere negato, perché è lui a orientare l'evoluzione « naturale » o « automatica » del presente in un senso opposto a quello che gli vuole imprimere l'azione rivoluzionaria) . Questa definizione fissa la « cornice » della Rivoluzióne nazionale; indica il suo « luogo logico », il suo « topos» aristotelico. Si tratta di dare un « contenuto » a questo « topos ». Tale « contenuto » può essere detto l'« idea rivoluzionaria ». L'idea rivoluzionaria è una teoria o una dottrina (il più possibile coerente e in linea di principio universale, 122
cioè tale da permettere di « dedurre » tutti i casi concreti) che può e deve generare l' azione trasformatrice del presente e creatrice dell'avvenire politici. L'idea dà avvio all'azione « formulando » un progetto, indicando uno « scopo »; e determina e guida l'azione elaborando un « programma ». Per non essere « utopici », questo progetto e questo programma, pur opponendosi al presente politico, devono tenerne conto: devono essere realizzabili a partire dal presente dato (e non supponendo condizioni inesistenti) . Va detto che nel maggio 1942 la Francia non ha ancora un' idea rivoluzionaria, nonostante accetti il « topos» della Rivoluzione nazionale. Nota. In genere ci si lamenta del fatto che la Rivoluzione nazionale non è ancora realizzata o compiuta. Ma una Rivoluzione non è mai realizzata. Nella misura in cui qualcosa si realizza, smette di essere rivoluzionario. La Rivoluzione è sempre qualcosa che si sta realizzando, che è in via di divenire. E ciò che si sta realizzando attraverso l'azione negatrice del dato è precisamente l'idea rivoluzionaria. Bisogna quindi « lamentarsi » dell'assenza non di una nuova realtà politica, ma di un'idea rivoluzionaria. Ed è dall'elaborazione di questa idea che bisogna cominciare.
Non ho la minima pretesa di poter proporre un' idea rivoluzionaria (nazionale) alla Francia del 1942. Le analisi e le deduzioni che precedono non sono peraltro sufficienti. Al massimo possono servire come punto di partenza per studi capaci di portare all'elaborazione di una tale idea rivoluzionaria costruttiva. Ma si può sin d'ora fare una considerazione del tutto generale e, se si vuole, di ordine metodologico. Se ci si trova al cospetto di « una situazione rivoluzionaria » — cioè di fronte a una nazione disposta ad abbandonare un presente determinato da un passato immediato, e pronta a collaborare alla realizzazione attiva (cioè crea123
trice) di un presente che deve costituire la base di un avvenire diverso da quello che sarebbe nato senza l'intervento dell'azione negatrice (sempre collegandosi all'insieme del passato) — è meglio « sfruttare » questa situazione. La si può sfruttare presentando alla nazione un' idea rivoluzionaria. Ma se non si possiede ancora una tale idea (o se, per una ragione qualsiasi, non si vuole o non si può formularla e metterla in atto nell'immediato), bisogna simulare l'esistenza di questa idea. Una situazione rivoluzionaria non può mantenersi se non a condizione di diventare un' azione rivoluzionaria. Quest'ultima non è altro che il processo di realizzazione dell'idea rivoluzionaria. Senza idea, non c'è azione rivoluzionaria propriamente detta, ovvero non c'è creazione di una realtà politica veramente nuova. Ma un simulacro di idea può generare un simulacro di azione rivoluzionaria, e questa attività pseudorivoluzionaria può contribuire a mantenere (per un certo periodo) la situazione rivoluzionaria (senza la quale nessuna vera azione rivoluzionaria è possibile). Per non ricadere nell'« inerzia» (cioè nel «prolungamento automatico » del passato immediato attraverso il presente nell'awenire), la nazione deve perlomeno avere l'impressione di agire in funzione di un'idea rivoluzionaria. E la presenza del simulacro dell'idea deve produrre questa impressione. Un « simulacro » conserva la « forma » cambiandone o eliminandone il « contenuto ». Si tratta quindi di presentare alla nazione forme politiche dalla sembianza rivoluzionaria, attribuendo loro un contenuto «inoffensivo ». Cioè: o nessun contenuto affatto, oppure un contenuto non rivoluzionario, in altri termini compatibile con il dato presente (con la suddivisione data delle forze e delle possibilità politiche). In altri termini, bisogna creare un nuovo tipo di Stato odi Autorità politica (poiché una Rivoluzione non è nient'altro che la sostituzione di un tipo di Autorità data con un'altra), a costo di far funzionare le nuove istituzioni «a vuoto », senza reale efficacia, e riservandosi la possibilità di sostituirle 124
(senza seria resistenza) con altre, se l'azione rivoluzionaria reale dell'avvenire lo esige. Ora, sembra più facile trovare un tale simulacro di idea rivoluzionaria nazionale che non proporre questa idea stessa.
Non ho nemmeno la pretesa di proporre un tale «simulacro » di idea rivoluzionaria. Mi sembra, però, che le analisi e deduzioni che precedono possono — a condizione di essere discusse e approfondite — contribuire alla sua elaborazione. Vediamo, a titolo di semplice esempio, quale potrebbe essere la forma politica (la « Costituzione ») di uno Stato che realizza l'Autorità politica (totale, ma divisa in tre) del tipo CS-P- G. Nota. Non descriveremo i rapporti fra le Autorità P e G. In altri termini, non faremo nette distinzioni fra le «varianti» CS-P-G e CS-G-P. L'Autorità CS è l'Autorità « governativa ». Poiché l'Autorità politica globale (lo Stato) è del tipo C -->, vi predomina il Governo. In altri termini, è dal Governo che provengono tutte le iniziative. All'interno dell'Autorità governativa prevale l'Autorità C. Supponendo che l'Autorità CS abbia un supporto individuale, ciò significa soltanto che il Governo si ispira (o simula di ispirarsi) prima di tutto all' idea rivoluzionaria, cioè all'Avvenire, e non agli interessi del momento (poiché la forza militare deve servire questo Avvenire « civile » e non determinarlo). Visto che il supporto dell'Autorità CS è individuale, la persona del Capo dello Stato è sia Capo del governo (Autorità C), sia Capo dell'esercito (Autorità S): ma all'occorrenza egli è tenu125
to a fare la guerra per poter governare — e non a governare per poter, a ogni costo, fare la guerra. Il Capo dello Stato trasmette (delega) la sua Autorità « governativa » (civile e militare) per nomina (ma non nomina il suo successore). Nomina di persona Segretari di Stato che beneficiano dell'Autorità C (« legislativa») e che sono tenuti a elaborare i dettagli (le applicazioni concrete) dell'idea rivoluzionaria (progetti di legge, ecc.). Questi nominano rispettivamente i Ministri, che beneficiano dell'Autorità S (« esecutiva»), e che devono realizzare i progetti dei Segretari di Stato che li hanno nominati. Questi Ministri nominano i loro rispettivi Funzionari. L'Autorità del Capo dello Stato si genera spontaneamente. È « manifestata » dal voto di fiducia di un'Assemblea manifestante (i cui membri sono stati nominad dal suo predecessore), che può soltanto rifiutare questo voto, senza poter proporre un altro candidato. Questa stessa Assemblea « conferma » l'Autorità dei Segretari di Stato, dei Ministri e dei principali Funzionari (rispettivamente dopo 3, 6, 12 mesi di esercizio delle loro funzioni), sempre senza poter proporre candidati a questi posti. Oltre ai Segretari di Stato, il Capo dello Stato nomina due Ministri di Stato, non « confermati » dall'Assemblea. Uno di essi è incaricato di rappresentare il Governo presso il Senatocensore, cioè far votare le leggi elaborate dai Segretari di Stato e accettate dal Capo dello Stato, dando al Senato le necessarie spiegazioni. L'altro funge da agente di collegamento fra il Governo e il Tribunale politico, ricoprendo la funzione di procuratore generale (politico) nel caso in cui il Governo (o il Senato?) desideri sottoporre qualcuno al giudizio del Tribunale. Il Senato-censore (che nomina all'occorrenza Censorifunzionari) è costituito da rappresentanti (eletti tramite una serie di voti successivi) di tutti i Capi famiglia che possiedono un patrimonio terriero. Ha la funzione di vigilare affinché quest'attività legislativa (« rivoluzio126
nana») del Governo non interrompa la continuità con la Tradizione politica. Può respingere una legge, ma non può proporne nessuna. Il Tribunale politico giudica i casi di alto tradimento, cioè gli atti che potrebbero o cambiare il tipo di Stato, o compromettere l'avvenire della nazione. Il suo giudizio non è guidato che dalla « sola coscienza politica» dei giudici, i quali possono scegliere fra una « menzione d'onore » e la pena di morte. (Può votare la sua incompetenza?). I membri del Tribunale sono eletti a suffragio universale (= estratti a sorte) fra tutti i cittadini (uomini e donne politicamente adulti e politicamente sani di mente) . Il Tribunale può nominare, all'occorrenza, « Tribuni » o Giudici-funzionari. Non ha l'iniziativa del giudizio, cioè l'incriminazione. (Praticamente, interviene soltanto nei casi di conflitto acuto fra il Capo dello Stato e i Segretari di Stato sostenuti dal Ministro di Stato). Questa struttura dello Stato tiene conto soltanto del fenomeno «Autorità », trascurando completamente il fenomeno «Lavoro ». Ora, va tenuto conto di entrambi. Lo Stato, fondato sul Lavoro (cfr. la Notizia sul lavoro) : implica un organismo corporativo gerarchico. Ogni Autorità politica si genera all'interno delle Corporazioni. Quindi è il Consiglio supremo delle Corporazioni urbane (poiché le Corporazioni contadine emanano politicamente nel Senato) che presenta il candidato alla carica di Capo dello Stato. Fra i candidati proposti da questo Consiglio il Capo dello Stato sceglie i Segretari di Stato, questi scelgono i Ministri e a loro volta i Ministri scelgono i Funzionari. Nella misura in cui la situazione esterna non permette di fare a meno di un Esercito, lo Stato deve essere fonda* Si veda A. Kojève, Esquisse d'une phénoménologie du droit, cit., p. 195 sgg. (trad. it. cit., p. 187 sgg.) [N.d.C.]. 127
to non soltanto sul Lavoro, ma anche sul « Rischio », cioè sulla potenza militare. Di conseguenza, l'Esercito deve partecipare all'Autorità politica. Il candidato alla carica di Capo dello Stato deve quindi essere presentato insieme dal Consiglio supremo delle Corporazioni e dal Consiglio supremo dell'Esercito. Ed è fra i candidati proposti da quest'ultimo che il Capo dello Stato sceglie il Segretario di Stato alla Guerra (e alle Colonie?). In epoca di pace, è il candidato dei Consigli delle Corporazioni (gradito al Consiglio dell'Esercito) che si presenta davanti all'Assemblea manifestante per ottenere un voto di fiducia. In tempo di guerra (o di pericolo di guerra), è il candidato del Consiglio dell'Esercito che si presenta (essendo gradito al Consiglio delle Corporazioni). Notiamo che l'Autorità governativa è del tipo CS in tempo di pace e del tipo SC in tempo di guerra. Il pericolo di guerra può essere constatato dall'Assemblea manifestante, il che comporta le dimissioni del Capo civile e la presentazione del candidato militare. Ma l'Assemblea non può negare il pericolo di guerra constatato dal Governo, il cui Capo deve perciò dimettersi nella misura in cui non sia già un militare. Lo stato di pace è constatato dal Capo militare dello Stato, che in seguito a questa constatazione deve cedere il posto al candidato civile. Sei mesi dopo la cessazione delle ostilità, oppure dodici mesi dopo un anno di pericolo di guerra senza effettive ostilità, il Senato può constatare lo stato di pace e perciò far dimettere il Capo militare dello Stato. Ma l'Assemblea può, nonostante questa constatazione, stabilire lo Stato di guerra. È al Tribunale che spetta allora la constatazione definitiva. A. Kojevnikoff Marsiglia, 16 maggio 1942 128
IL LIBERO GIOCO DEL NEGOZIATORE DI MARCO FILONI
Chi conosce l'insolito destino di Kojève non si stupirà né della data di stesura di queste pagine né di quella della loro pubblicazione. Redatto a Marsiglia nel pieno dell'occupazione nazista in Francia, il manoscritto originale reca la data del 16 maggio 1942. Rimarrà chiuso in un cassetto, inedito, per oltre mezzo secolo. Del resto, quasi tutte le opere kojèviane sono postume. Pubblicò pochissimo in vita, pressoché nulla. Fatti salvi due libri. Ma gliene bastò uno soltanto, il primo, per essere accolto nell'Olimpo filosofico novecentesco. Era il 1947 quando l'editore Gallimard mandò in libreria l' Intro-duction å la lecture de Hegel. Segnò un'epoca. Eppure Kojève non se ne curò affatto: lasciò alle abili mani di Raymond Que-neau, curatore d'eccezione nonché suo « allievo », il compito di sistemare gli appunti e le trascrizioni delle celebri lezioni hegeliane tenute negli anni Trenta. Il secondo libro, invece, apparve più di vent'anni dopo, nel 1968, poche settimane prima della sua morte. Si trattava del primo volume dell'Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie paienne: un testo, a detta dell'autore, piuttosto brutto e non ancora pronto per la pubblicazione. Ma anche stavolta cedette alle insistenze di Que-neau e dell'editore perché, spiegava, opporre un rifiuto sarebbe stato prendersi troppo sul serio.1 1. Si veda A. Kojève, Introduction ¢ la lecture de Hegel, Gallimard, Paris, 1947 (trad. it. Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi,
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Ciò che stupisce, invece, è scoprire che Kojève ha scritto molto. O meglio, ha « riscritto » molto: migliaia e migliaia di pagine, compilate e poi cesellate, riviste, mai finite e di cui non era mai soddisfatto. Era il lavoro che, come diceva, riservava alla domenica, mentre nel resto della settimana era impegnato nel suo mestiere ufficiale: alto funzionario dello Stato francese. E a mano a mano che questi testi vedono la luce, postumi, ne appare sempre più chiara l'importanza. E l'attualità. Nonostante la distanza che ci separa dalla loro redazione, infatti, le pagine sull' autorità conservano un valore non soltanto storico. Rispetto alle molte altre scritte sull'argomento, il loro tratto fondamentale è il valore di matrice, di sintesi: con un'operazione quasi chirurgica Kojève pone sullo stesso piano differenti tradizioni filosoficopolitiche e le fa valere dall'unica prospettiva che egli riconosce, quella dell'efficacia — teorica e pratica. Anzitutto nella definizione del concetto: sin dalle prime battute, il filosofo osserva come qualsiasi analisi del fenomeno politico e dello Stato debba presupporre uno studio del concetto di autorità, poiché lo Stato stesso si fonda, nelle sue basi razionali e logiche, su di esso. Soltanto abbozzando una teoria dell'autorità, perciò, sarà poi possibile dedurne una teoria dello Stato. Sebbene Kojève riconosca che, prima di lui, molti altri pensatori hanno affrontato il tema, lamenta il fatto che nessuno di essi abbia indagato in maniera approfondita e completa l'essenza del fenomeno autoritario. Ed è così che egli rende ragione della complessità di questo concetto e della sua applicazione concreta, tanto nelle sue forme pure quanto nelle multiple connessioni delle quattro autorità di Padre, Signore, Capo e Giudice. Quattro forme alle quali sono associate altrettante teorie filosofiche (riconducibili rispettivamente alla scolastica, a Hegel, a Aristotele e a Platone) e connotazioni temporali (passato, presente, futuro ed eternità). L'autorità del Giudice risulta preminente rispetto alle altre, poiché rappresenta l'autorità dell'eternità nel tempo. E in questa chiave appaiono molto interessanti e di grande utilità le considerazioni sulla separaMilano, 1996); Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie païenne, vol. I, Gallimard, Paris, 1968 (al primo seguirono gli altri due volumi nel 1972 e 1973; trad. it. parz. Introduzione al Sistema del Sapere. Il Concetto e il Tempo, Neri Pozza, Vicenza, 2005).
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zione dei poteri di Montesquieu, così come quelle sulla nozione di volontà generale di Rousseau. Ciò che invece appare curioso alla lettura è la presenza delle due appendici. Nella prima l'autore si dedica a un'analisi della natura dell'autorità del maresciallo Pétain, a capo del governo collaborazionista di Vichy. Nella seconda propone una sorta di progetto per la « Rivoluzione nazionale » francese. Se il testo non dà alcuna specifica indicazione di merito rispetto alla concreta realtà degli anni in cui è stato scritto (eccetto la considerazione che l'autorità, in quanto fenomeno umano, è sempre sociale e storica, e in questo senso quella di Capo risulta storicamente predominante in quanto guida « rivoluzionaria » dotata di un progetto « universale »: e qui, fra parentesi, viene fatto il nome di Stalin), le due appendici proiettano su tutto il libro un'ombra inquietante. Perché Kojève, nel 1942 e quindi nel pieno della seconda guerra mondiale, con il governo di Vichy schierato a fianco delle truppe nazifasciste, scrive un'analisi di questo genere? Colpisce l'obiettività. Il ragionamento, kojéviano è condotto sull'autorità di Capo rivestita da Pétain senza alcun accenno alle circostanze storiche: prima fra tutte, quella che vede tale autorità sottomessa a un'altra autorità di Capo, il Führer (inteso storicamente, nella persona di Hitler, cui Pétain è fedele alleato). È interessante notare come, proprio negli stessi anni, il padre gesuita Gaston Fessard (grande amico ed estimatore di Kojève, anch'egli suo allievo al seminario hegeliano) si proponga di studiare i medesimi meccanismi filosofico-politici, ma con risultati del tutto differenti. Nel suo Journal de la conscience franfaise 1940-1944, padre Fessard pone alcune questioni centrali: il governo di Vichy era legittimo? I francesi dovevano obbedire agli ordini di Pétain? Partendo da questioni teologiche, estese e approfondite in termini di diritto e filosofia, Fessard pone l'accento sulla legittimità del politico, non riconoscendola al maresciallo Pétain e al potere di Vi-chy. Anzi, di più: è proprio in relazione a Pétain che il gesuita foggia il concetto di « Principeschiavo », al quale non viene riconosciuta alcuna legittimità né autorità. Perché è legittimo soltanto quel Principe o quel
governo che, a capo di uno Stato, sappia individuare il « Bene comune» del popolo e ab133
bia la forza necessaria per dirigere le volontà di tutti verso questo unico e solo scopò.' Kojève appare estraneo a queste considerazioni. La sua logica imperturbabile sembra ignorare, superbamente, la storia con i suoi drammi. Del resto è questo il senso profondo dell'intero confronto con Leo Strauss a proposito della tirannide. Quel dibattito cercava la risposta a un'unica, vertiginosa domanda: di fronte all'impossibilità di agire politicamente senza rinunciare alla filosofia, il filosofo abbandona l'azione politica — ma ha le ragioni per farlo? La risposta, implicita, di Kojève è semplice: il filosofo non può e non deve abbandonare l'azione politica. Nessun ricorso alla virtù o alla moralità, come propone Leo Strauss, potrà cambiare la realtà. Al contrario, Kojève vi contrappone « immoralità», perché è la storia a incaricarsi di « giudicare, attraverso la riuscita o il successo, le azioni degli uomini di Stato o dei tiranni ». Compresi i tiranni moderni.2 Ma per comprendere davvero quel dibattito bisogna leggerlo entro la situazione che lo generò: ovvero nel contesto della fine della Storia, da Kojève hegelianamente proclamata come il lavoro del negativo giunto al suo compimento, e cioè lo Stato universale e omogeneo, la Saggezza dell'uomo soddisfatto. Un processo che passa per il riconoscimento: è soltanto attraverso la lotta a morte per il puro prestigio, mettendo a rischio la propria vita animale, che l'uomo realizza se stesso. Ma questa lotta non è condotta in isolamento: l'uomo istitu isce la propria umanità in una realtà umana, quindi sociale, e nel contempo politica, perché l'uomo vuole essere riconosciuto nella sua realtà e dignità umana, ed essere anche riconosciuto politicamente come Cittadino (Bürger) dello Stato, formato da chi lo riconosce ed è a sua volta riconosciuto. La realtà che viene fondata dalla lotta per il riconoscimento, perciò, oltre a essere politica è anche giuridica. Poiché il desiderio non ha come fine il semplice possesso di ciò che si desi-
Si veda G. Fessard, Journal de la consciente francaise 1940-1944, a cura di M. Sales, Prefazione di R. Rémond, Plon, Paris, 2001. 2. Per una discussione sul confronto fra Strauss e Kojève, si veda A. Gnoli, Kojève, l'occulto maestro del '900, in A. Kojève, Il silenzio della tirannide, a cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano, 2004, in particolare pp. 257-67. Si veda
1.
inoltre L. Strauss-A. Kojève, Sulla tirannide, a cura di V. Goure-vitch e M.S. Roth, ediz. it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano, 2010. 134
1.
dera, bensi il riconoscimento da parte dell' altro — o degli altri — al diritto esclusivo di ciô che si desidera. L'uomo dunque lotta per il diritto.1 Kojève pone qui le basi per la sua prima negoziazione, quella che da secoli vede soltanto apparentemente opposti i campi della filosofia e della politica. E lo stesso terreno di gioco che vedrà su posizioni filosoficamente contrastanti Kojève e Georges Bataille. Quando quest'ultimo, insieme a Georges Ambrosino, Roger Caillois, Pierre Klossowski e Michel Leiris, promosse a Parigi, nel 1937, il Collège de Sociologie, Kojève gli rimproverô di voler fare l'apprendista stregone. Bataille non nascondeva la sua intenzione di « ricreare il sa-cro virulento e devastatore, che, con il suo contagio epidemi-co, finisse per intaccare e irretire chi ne avesse per primo se-minato il germe ». Kojève dal canto suo gli rispose che qualsia-si taumaturgo che avesse voluto scatenare il sacro « aveva la stessa probabilità di riuscita di un prestigiatore che voglia persuadersi dell'esistenza della magia cedendo all'incanto dei suoi stessi trucchi ».2 Per Kojève il ricorso al misticismo di Bataille non si puô inscrivere nella post-storia hegeliana. Se, seguendo Hegel, l'azione (il « fare ») è la negatività, allora le strade per i due si dividono: Bataille ritiene che non vi sia più niente da fare, ovvero inaugura quella che chiamerà negatività impiego. Per lui la Saggezza, nella post-storia hegeliana, conduce al Silenzio. Kojève invece è ancora per la pura lotta che realizza il riconoscimento. Perché, se è terminata la vicenda hegeliana, non è affatto concluso il ciclo storico dello che vive in Marx, Lenin e Stalin. Corne scriverà in una lettera a Bataille, per « costoro il "soddisfacimento" nell' avvenire. Quindi, per loro, "si continua a vivere, non è possibile essere sicuri, bisogna continuare a..." — lei dite "sup-plicare". Loro dicono "lottare". Ecco tutta la differenza tra lei e loro. Ma non dica che essi sono solo "un manico di badile". Hegel credeva di esserlo. Ma Stalin è un badile fatto e finito, che assolve molto bene il suo compito ».3 Ecco il motivo per cui, commentando la Fenomenologia, Kojève aveva sempre letSi veda A. Kojève, Hegel, Marx et le christianisme, in «Critique », 3-4, 1946, pp. 339-66.
2.
3.
R. Caillois, Approches de l'imaginaire, Gallimard, Paris, 1974, p. 54. La lettera di Kojève a Bataille (1943) è pubblicata in «Textures », 6, 1970, pp. 61-65 (trad. it. in Il silenzio della tirannide, cit., pp. 223-27). 135
to « Stalin » al posto di « Napoleone », come un «Alessandro del nostro mondo », un « Napoleone industrializzato», che poteva realizzare un impero mondiale terreno — con queste espressioni si rivolgerà a Carl Schmitt, per dare ragione alla convinzione di Hegel che la storia fosse giunta alla fine dopo il Napoleone storico, mentre si aprivano le porte al cammino dello Stato universale e omogeneo.' Come leggere, quindi, le due controverse appendici al te-sto sull'autorità? Che Kojève, nel 1942, avesse guardato al go-verno di Vichy come a una necessità storica sulla via dello Stato universale e omogeneo è decisamente improbabile. E nemmeno si possono avanzare sospetti sul fatto che vi sia sta-ta da parte sua una qualche forma di tacito consenso o, peg-gio, di collaborazionismo. Kojève lottä attivamente contro il regime filonazista di Pétain. E lo fece partecipando alla Resi-stenza francese. Già a Parigi, dove sarebbe rimasto fino al giu-gno 1941, era entrato in contatto con Jean Cassou, uno dei primi resistenti. Iniziä dunque a collaborare con Combat, il gruppo di Cassou, di cui era membro con il numero 2131. In questo periodo Kojève ospitava nella sua casa un vecchio ami-co, il fotografo Eugène Rubin (nome francesizzato di Evgeni Rejs, che a volte firmava i suoi lavori anche come Eugène Rays), pure lui di origini russe, conosciuto nella periferia pa-rigina nel 1928 e con il quale aveva condiviso un appartamen-to. Rubin racconta di come, fra il 1940 e la prima metà del 1941, Kojève gli chiedesse spesso qualche favore: in particola-re lo pregava di portare e tenere nel suo studio fotografico alcune valigie chiuse a chiave. Nella richiesta del filosofo Rubin avvertiva sempre un « tono distaccato che mi faceva capi-re che dovevo farlo senza porgli domande, come una sorta di tacito accordo ». Soltanto nel 1948 l'amico fotografo riceverà una lettera nella quale Kojève gli scrive del suo impegno e gli elenca tutti i servizi che lo stesso Rubin ha reso, a sua insapu-ta, alla Resistenza francese.2 Rubin rende inoltre nota un'altra circostanza. Fino al giu-gno 1941 Kojève era rimasto nel suo appartamento di Van1.
Si veda Der Briefwechsel Kojève-Schmitt, in Schmittiana. Beiträge zu Leben und Werk Carl Schmitts, a cura di P. Tommissen, vol. VI, Duncker & Humblot, Berlin, 1998,
2.
p. 103 (trad. it. di C. Altini, Carteggio, in «Filosofia politica», 2, 2003, p. 189). Si veda Evgeni Rejs, Koievnikov, kto vy?, Russki Put', Moskva, 2000. 136
ves, nella periferia parigina. Poi, subito dopo l'invasione tedesca della Russia, dalla sera al mattino aveva lasciato la capitale francese per rifugiarsi a Marsiglia, nella zona non occupata dai tedeschi. Il motivo di questa improvvisa fuga era una « lettera a Stalin ». Di questa lettera avevano sentito parlare, più volte, qualche amico molto stretto del filosofo e i suoi familiari. Lo stesso Kojève, ironicamente, si lamentava dicendo che Stalin non gli aveva risposto, ma nessuno lo aveva preso mai sul serio pensando che fosse parte di quel sarcasmo di cui faceva spesso sfoggio. Invece Rubin racconta che una sera, al termine di una discussione, il filosofo aveva concluso il suo ragionamento con le parole: « Del resto è quello che dico nella mia lettera a Stalin ». Incuriosito, Rubin gliene aveva chiesto conto, e Kojève aveva risposto che stava preparando (fino allora aveva steso soltanto poche centinaia di pagine) alcune analisi, qualche previsione e perfino un po' di consigli per il «padre dei popoli ». Di questa lettera i due parlarono più volte, e Rubin vide spesso il filosofo intento a lavorarvi alla scrivania. Sino a quando Kojève consegnò al viceconsole dell'ambasciata sovietica di Parigi la busta con la missiva. Il tutto in gran segreto, poiché l'ambasciata era sorvegliata. Il viceconsole promise che sarebbe partita presto, con la prima valigia diplomatica per Mosca. Ma di lì a pochi giorni scoppiarono le ostilità fra la Germania nazista e la Russia sovietica. Kojève doveva lasciare Parigi, occupata dai tedeschi: se l'ambasciata russa non l'avesse bruciata (come molto probabilmente avvenne), la busta sarebbe potuta finire in mani naziste, con tutte le conseguenze del caso. Ora, Rubin asserisce di sapere che cosa contenesse il plico: un esemplare manoscritto, in russo, dell'Introduzione alla lettura di Hegel, con una lettera di accompagnamento per Stalin. Il filosofo voleva infatti che il manoscritto fosse depositato presso l'Accademia delle Scienze del Paese di cui era originario. In realtà, pero, non si trattava di quel manoscritto, bensì della copia di un altro, ritrovato di recente, dal titolo Sofia: Filosofia e fenomenologia. Redatto in russo, questo testo reca nell'ultima pagina la data dell'8 giugno 1941. E ha una storia piuttosto bizzarra: nelle carte dell'archivio del filosofo non
compariva che lo schema dell'opera e l'ultima pagina del manoscritto. Soltan137
to recentemente è stata scoperta la parte mancante, in un armadio della Bibliothèque Nationale di Parigi.' Kojève, infatti, aveva indirizzato a Stalin una copia del suo testo, mentre aveva affidato il manoscritto originale proprio a Georges Bataille, che lavorava nella biblioteca parigina e avrebbe potuto facilmente nascondere le quasi mille pagine del lavoro. Lo stesso Bataille, quando nell'agosto 1945 Adorno gli chiese le Tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin per pubblicarle, scrisse una lettera a Jean Bruno, suo collega bibliotecario: «Fra le carte che ho lasciato in biblioteca, ci sono due manoscritti: uno in russo, di Kojève, in una grande cartella di tela; l'altro in tedesco, di Walter Benjamin, in due pacchetti dello stesso formato di questa lettera, se ricordo bene. Mi hanno chiesto i manoscritti di Benjamin che serviranno a una pubblicazione delle sue opere postume. Forse sono nel mio armadio? In questo caso le invierò la chiave per posta ». 2Astuzia della storia e degli armadi. Il testo che Kojève avrebbe voluto inviare a Stalin era una rielaborazione delle sue lezioni hegeliane, però con conclusioni differenti: qui il filosofo afferma che la soddisfazione di una società post-storica è finalmente realizzata nella società comunista. Hegel, dice Kojève, ci ha mostrato la strada giusta, poiché ci ha indicato che la filosofia aspira necessariamente alla saggezza, cioè al sapere universale che consiste di tutte le domande che il filosofo può porre, anche in merito a se stesso. Ma il carattere universale di questo sapere può essere stabilito se inserito in un sistema circolare, cioè necessariamente dialettico e storico. Ciò può avvenire solo se e quando il processo reale dello sviluppo storico dell'umanità sarà compiuto. Finché questo non avviene, l'umanità non può che aspirare alla saggezza. E tale aspirazione è la filosofia, la strada verso la saggezza e il sapere assoluto. Ecco l'errore di Hegel: pensava di aver già raggiunto il sapere assoluto. « Ma pur senza averlo raggiunto egli ha saputo giustamente (e definitivamente) determinarne il carattere. Si può dire che è
A. Kojève, Sofia: Filosofia e fenomenologia (in russo), manoscritto autografo, 933 pp. (nel testo compaiono le seguenti date: introduzione: 25/10/1940 - 23/2/1941; parte I-H: 12/3/1941 - 8/6/1941), Papiers Alexandre Kojève, BnF-Mss. 2. G. Bataille, Choix des lettres. 1917-1962, a cura di M. Surya, Gallimard, Paris, 1997, p. 242.
1.
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solo da Hegel in poi che la filosofia sa a che cosa aspira e, in linea di principio, non potrà sbagliarsi allorché vedrà finalmente realizzato il suo scopo. Più precisamente, la filosofia hegeliana, ovvero il marxismo, il leninismo e lo stalinismo ... Ma dopo l'epoca di Marx, noi abbiamo indubitabilmente compreso che Hegel si è sbagliato al riguardo e che il processo storico ad oggi non è ancora terminato. Marx, pur avendo capito che il processo dialettico storico non era terminato né al tempo di Hegel, né al suo tempo, ha voluto mantenere comunque l'idea della fine della storia. E comprendeva che il sapere definitivo e perfetto dell'uomo attraverso l'uomo non può essere raggiunto se non nello stadio finale del processo di sviluppo storico dell'uomo nella società comunista».' A questo punto, alla luce di quanto, nello stesso periodo, Kojève scriveva rivolgendosi a Stalin, diventa ancora più complesso provare a spiegare il testo sull'autorità e le sue appendici. E va tenuta presente anche un'altra circostanza: il filosofo partecipò alla Resistenza non soltanto rendendo servizi o facendo nascondere valigie piene di documenti. Ebbe anche un ruolo attivo, che per poco non gli costò la vita. Raggiunta Marsiglia dopo aver lasciato Parigi, Kojève si ritagliò un ruolo a lui congeniale nel gruppo Combat: parlando perfettamente varie lingue, raccoglieva informazioni sia da ambienti militari che dalle diverse frange della Resistenza. E, se necessario, si infiltrava nelle divisioni nemiche. È quanto succederà a Puy-en-Velay, in Alvernia, poco distante dal confine fra la zona occupata e quella libera. Kojève venne a sapere che lì era di stanza un reggimento delle forze nazifasciste composto da tatari della Crimea. Questi inizialmente erano stati fatti prigionieri dai nazisti, poi, per avere salva la vita, avevano accettato di combattere al loro fianco. Kojève si convinse di potersi infiltrare fra loro per persuaderli che stavano dalla parte sbaCosi, con un compagno greco, raggiunse i tatari di cultura musulmana: non sappiamo se qualcuno di loro sia rimasto sedotto dalla dialettica e dall'opera di propaganda del filosofo, è certo però che un ufficiale li denunciò al comando tedesco e i due furono immediatamente arrestati. L'indomani sarebbe avvenuta la loro fucilazione. Ma, di fronte al comandante del reggimento, Kojève mise in gioco tutta la sua 1. A. Kojève, Sofia: Filosofia e fenomenologia, cit.
139 abilità. Scoprì che prima dello scoppio della guerra l'ufficiale nazista era stato il curatore di una galleria d'arte di Monaco. Kojève aveva frequentato la galleria più volte: conosceva i quadri che esponeva, e del resto poteva vantare la parentela con Kandinsky (di cui era nipote). I due si misero a parlare di arte, finché Kojève riuscì a convincere il suo interlocutore — il quale aveva la facoltà di decidere della sua sorte — che in fondo erano entrambi uomini di cultura, che comprendevano la situazione e che proprio per questo potevano capire l'uno le ragioni dell'altro. Kojève e l'amico greco furono rilasciati. Anche in questa occasione il filosofo mise in pratica quell'attitudine — che sembrerebbe una sua naturale propensione — a giocare il ruolo di negoziatore. Non sarà un caso, quindi, se è proprio di questo genere l'incarico da lui brillantemente ricoperto nell'amministrazione francese dal 1947 fino alla morte. Il suo compito era quello di definire le tattiche da adottare nelle negoziazioni economiche internazionali: se gli obiettivi erano stabiliti dall'Eliseo, i mezzi per raggiungerli erano affidati alle argomentazioni e alle abili manovre logiche del filosofo — e di quei pochi alti funzionari che raccoglievano i suoi pareri. Chi partecipò a quelle sessioni — al suo fianco o, meglio ancora, di fronte a lui — ha sempre testimoniato il virtuosismo dialettico di Kojève: non aveva alcuna remora a usare gli argomenti più originali, che sconcertavano gli avversari. Sapeva adottare prospettive del tutto imprevedibili: quando prendeva la parola, gli interlocutori non capivano mai se in quel momento stava esprimendo un'opinione personale, tenendo una lezione per i funzionari che non conoscevano a fondo l'argomento trattato, o se ciò che diceva sarebbe poi diventata la posizione ufficiale della politica francese. Ben presto divenne una sorta di «bestia nera » per i membri delle altre delegazioni. Specie per gli americani, che lo soprannominarono « la serpe nell'erba », e che lo videro in azione a difesa degli interessi francesi (ed europei) nell'ambito del GATT, l'importante accordo sulle tariffe doganali siglato all'Avana nel 1947, e poi rinegoziato, con il nome di « Kennedy Round », fra il 1962 e il 1967. È in questa chiave, allora, che è possibile provare a interpretare le due appendici al testo sull'autorità. A Kojève
interessava praticare raggiungimento
la
mediazione
140
necessaria
al
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di uno scopo. Quando si preparava per le più importanti riunioni internazionali, era solito scrivere ben tre differenti versioni della stessa nota sul medesimo soggetto. Una in chiave marxista, una in chiave tomista, e l'ultima da mostrare al suo capo. A seconda dell'interlocutore e della piega che prendeva la situazione, egli usava: a piacimento una delle tre versioni. E così con gli eventi della storia. Per ragioni che possiamo soltanto provare a immaginare (forse anche di sicurezza personale) , durante la seconda guerra mondiale Kojève era interessato ad avere un ruolo alla corte del principe. Forse perché il filosofo resistente voleva infiltrarsi nelle trincee nemiche, in una sorta di doppio gioco. Forse perché, per qualche virtuosismo ironico, voleva entrare nelle logiche del potere e dei governanti francesi.1 Sembra però più convincente un'altra ipotesi: quella secondo cui, con il testo sulla Nozione di autorità, Kojève avrebbe iniziato ad abbozzare la concettualizza-zione di una politica dello Stato francese. Che passava non soltanto per la Resistenza, ma anche per il regime di Vichy.2 Proprio a un importante e alquanto influente rappresentante del governo di Pétain Kojève invierà, infatti, il testo sull'autorità. Si tratta di Henri Moysset, storico e intellettuale, che ricoprirà incarichi prestigiosi, sino a quello di ministro del Coordinamento delle nuove istituzioni, fra le cui mansioni rientrava la propaganda. Moysset era legato alla famiglia di Eric Weil, filosofo ebreo tedesco che durante la guerra fu imprigionato, sotto falso nome, e detenuto per quasi cinque anni. La moglie di Weil, Anne Mendelssohn, insieme alla sorella Catherine, erano rifugiate a Gramat, nella regione del Lot, e aiutate proprio da Moysset. Kojève si recò più volte, in quegli anni, a far visita alle due donne. Ed è probabilmente in una di queste occasioni che gli venne l'idea di sottoporre le sue pagine a Moysset, se non di scriverle appositamente per lui. Personaggio riconosciuto dagli storici come uno dei pochi intellettuali di ampio respiro e « illuminato » Queste le due ipotesi che Pierre Hassner, allievo di Raymond Aron che ebbe modo di conoscere e frequentare Kojève, avanza in Le phénomène Kojève, in «Commentaire», 128, 2009-2010, p. 878. Di questo avviso Danilo Scholz nell'ottimo lavoro Alexandre Kojève et la philosophie allemande: l'homme,
l'histoire et la politique, 1926-194Z tesi presso l'École des hautes études en sciences sociales, Paris, 2011. 141
nella nomenclatura del regime collaborazionista, profondamente antitedesco e liberale, Moysset in quegli anni lavorava alla stesura di due testi di grande importanza: la Carta del Lavoro e la Costituzione. Nel 1949, il filosofo Eric Weil ne redigerà la difesa, presentata al tribunale che lo imputerà per reato di tradimento (il processo non arrivò mai alla fine perché Moysset morì prima) . In una lettera Medita conservata nell'archivio kojèviano, Moysset dà seguito all'invio del filosofo. Il consigliere di Pétain risponde calorosamente, sottolineando l'importanza « sia dei problemi che lei affronta sia delle questioni che solleva». E continua ribadendo che « una prima lettura molto attenta del suo lavoro mi fa desiderare che il nostro incontro abbia luogo il prima possibile ».' Non sappiamo se ci fu mai un incontro. Probabilmente no. Sappiamo però che il ruolo di negoziatore di Kojève non fini lì. Partecipò all'azione politica, concreta, nei modi che conosceva. Come resistente, certo. Ma anche come filosofo. E se fosse stato necessario recarsi alla corte del tiranno in vista di uno scopo, sarebbe stato pronto a farlo. Teneva davvero al ruolo che, secondo lui, poteva e doveva avere la Francia nella costruzione di un futuro europeo, anche nell'ambito della circolazione delle idee. E pur di raggiungere questo scopo — dar vita a uno Stato francese esente dai germi del nazifascismo — era pronto a negoziare anche con un funzionario del regime di Vichy. Si tratta, in fondo, del compito stesso del negoziatore: ottenere il massimo e il meglio dalla controparte. Non soltanto per sé, ma per coloro che il negoziatore rappresenta. Trascorsi appena pochi anni, ecco il filosofo intraprendere un'altra negoziazione: quella con Robert Marjolin, suo allievo al seminario hegeliano diventato nel frattempo, con Jean Monnet, uno dei precursori, nonché artefice, dell'idea di Europa e della Comunità europea. A lui sottopose il testo conosciuto con il titolo L'impero latino. Marjolin lo respinse, perché fra l'altro vi scorgeva echi dell'idea nazionale e della propaganda del governo di Vichy.2 Ciononostante, non esitò un solo momento ad assumere Kojève nei ranghi dell'amministrazione francese.
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Moysset a Kojève, lettera del 9 luglio 1942, Papiers Alexandre Kojève, BnF-Mss. Marjolin a Kojève, lettera del 1945, Papiers Alexandre Kojève, BnF-Mss. Si veda A. Kojève, L'impero latino, in Il silenzio della tirannide, cit., pp. 163-210.
E per comprendere sino in fondo l'essenza stessa del ruolo di negoziatore che Kojève ha svolto, in varie forme e modi, basterà leggere una lettera del 1950 indirizzata a Leo Strauss: « L'agire storico porta necessariamente a un determinato risultato (quindi: deduzione), ma le vie che portano a questo risultato sono diverse (tutte le strade portano a Roma!). La scelta fra queste vie è libera, e questa scelta determina il contenuto dei discorsi sull'agire e il senso del risultato. In altre parole: materialiterla storia è unica, ma la storia parlata può essere molto varia, in funzione della libera scelta di come agire. Ad esempio: se gli occidentali restano capitalisti (vale a dire anche nazionalisti), saranno sconfitti dalla Russia, e in questo modo si realizzerà lo Stato finale. Se invece "integrano" le loro economie e politiche (stanno per farlo), allora sono loro che possono sconfiggere la Russia. E così si perviene allo Stato finale (allo stesso Stato universale e omogeneo). Ma nel primo caso se ne parlerà "alla russa" (con Lysenko, ecc.), nel secondo caso "all'europea"».'
1. L. Strauss-A. Kojève, Sulla tirannide, cit., p. 278.