Gianni Lannes
IL GRANDE FRATELLO Strategie del dominio
La tensione è tale che il Mondo freme. Gli eventi sono in pressione. A tutti i livelli le energie della Luce sono impegnate a fondo per salvarlo dalla distruzione, mentre le tenebre si insinuano, con maschere luminose, decise ad annientare ciò che la Luce crea e, dove possibile, a demolire le basi stesse dell’opera creativa. Nell’epoca grave dell’Armageddon è specialmente necessario sapere quali sono le forze che causano le azioni di ogni singolo giorno, di ogni singolo evento, di ogni fenomeno; poiché è l’ora della decisione, e non ci sono mezze misure sulla via del Mondo del Fuoco. Maestro Morya
Immagine di copertina: Impianto sequestrato dalla Procura della Repubblica di Pescara (foto Gianni Lannes) Impaginazione grafica di Simona Murabito Correzione bozze Monica Medici
Gianni Lannes
IL GRANDE FRATELLO Strategie del dominio
www.dracoedizioni.it
[email protected]
Copyright 2012
Dedico questo libro ad Andrea e Francesco
INDICE Prefazione dell’editore Introduzione
pag.
7
pag.
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Capitolo primo Echelon Italia
pag.
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Capitolo secondo Colonia tricolore
pag.
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Capitolo terzo Guerre in santa pace
pag.
61
Capitolo quarto Bombe amare
pag.
95
Capitolo quinto Leucemie belliche
pag. 133
Capitolo sesto Sulla pelle viva pag. 147 Capitolo settimo Onda letale pag. 171 Capitolo ottavo Democrazia totalitaria pag. 205 Capitolo nono Guerra ambientale pag. 245 Capitolo decimo Euro crac pag. 265 Capitolo undicesimo Razzismo extra pag. 291 Capitolo dodicesimo Giornalisti a perdere pag. 307 Capitolo tredicesimo Su la testa pag. 329
«Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino» Giuseppe Dossetti
«Sono le azioni che contano. I nostri pensieri per quanto buoni possano essere sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo» Mohandas K. Gandhi
Prefazione dell’editore Io non sono nessuno, e continuerò ad esserlo, mi basta essere un uomo. Figuriamoci poi come editore che rilievo posso avere, paragonato a chi oggi, in Italia e nel mondo, domina il mercato dell’informazione. Mi chiedo quindi perché devo essere io a pubblicare questo libro di Gianni Lannes. Gianni è un bravo giornalista, ha fatto inchieste importanti, ha rischiato, e rischia, la vita, solo per aver tentato di affermare la verità su alcune cose che gridano vendetta al cospetto di Dio. Perché nessuno in Italia si è preso la briga di pubblicarlo? Le scuse addotte possono essere tante, ma le vere motivazioni sono sotto gli occhi di tutti, in ogni momento. Questo mondo sta andando a rotoli, in primo luogo per colpa di ciascuno; c’è troppo poco amore per la vita, per il pianeta e per il bene comune, ed è questa condizione limitata della coscienza umana che rende possibile il fatto che ristrette oligarchie di esseri spietati, nel nome del proprio interesse, spadroneggino sui popoli della Terra, imponendo condizioni inumane ad un mondo che potrebbe essere un paradiso terrestre. Basterebbe fare della solidarietà il motore non dello sviluppo, mito tragico dei nostri giorni, ma della vita, per trasformare il pianeta in pochi anni. Eppure dobbiamo sopportare che la maggior parte delle ricchezze mondiali siano impiegate, direttamente o indirettamente, per distruggere la vita, e per ‘portare la democrazia’ in paesi che, evidentemente, non devono per nulla avere il diritto di autodeterminarsi. Questi stormi di cavallette che dominano il mondo di sicuro non si preoccupano di che cosa sta succedendo al pianeta più di quanto possa aver mangiato oggi un bambino che muore di fame. E venendo al nostro contesto nazionale, che cosa cambia? Tragicamente niente, i governi che si susseguono si preoccupano solo di partecipare al grande banchetto internazionale, per terminare il loro pasto ferale spolpando le ricchezze del nostro meraviglioso paese. Direi che la cronaca di questi ultimi anni è stata particolarmente prodiga per chi avesse mai voluto rendersi conto di come funzionano veramente le cose in Italia. Il problema è che ancora troppi credono a quella che ormai possiamo definire la ridicola propaganda di regime, fatta di cretinate televisive e di informazione falsa. I gruppi di potere che si esprimono anche attorno ai partiti sono al di là delle etichette, strin-
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gono accordi, si dividono fette della nostra vita, calpestano la nostra dignità individuale e la dignità di un popolo. E ormai quasi nulla sfugge al loro dominio, è per questo motivo che pubblico io il libro di Gianni Lannes, Il Grande Fratello, perché rientro in quel quasi. Ripeto, io non sono nessuno, e non voglio erigermi a pilastro morale, ma rivendico l’ordinarietà della dignità umana, quella dignità di tutti quegli uomini semplici che hanno creduto e combattuto per un mondo migliore, senza mai piegare la testa di fronte all’iniquità e alla prevaricazione. Difficilmente vedrete Gianni in televisione, l’editore non ha i mezzi per pagare alle cricche dominanti quei bei passaggi televisivi che ti fanno vendere tante copie in libreria. E non lo vedrete in quei bei salotti televisivi, composti e morigerati, perché egli racconta delle semplici e scomode verità, che portano a galla la vera natura di questo edulcorato, ed assassino, sistema, che mentre passa al telegiornale le immagini del piccolo di foca nato in cattività, fa affondare nei nostri mari vecchie carrette sgangherate, cariche di scorie radioattive. C’è solo un modo per uscire dalla situazione di degrado che stiamo pericolosamente vivendo: alziamoci in piedi, riprendiamoci la nostra dignità, riprendiamoci la nostra bella nazione, riprendiamoci il pianeta, dalle mani grondanti di sangue di chi si vende come paladino della pace e dello sviluppo e intanto schiaccia il pulsante che farà sganciare una bomba su un villaggio in Afghanistan. Se lo possono permettere perché ci stanno facendo il lavaggio del cervello, ma non ci deve essere più posto per la menzogna; dai ragazzi, liberiamoci del Grande Fratello, insieme si può fare.
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Introduzione La fantascienza ha sempre intuito che l’essenza dei totalitarismi è il controllo tecnologico delle informazioni personali. La realtà le ha dato ragione e così, avanza l’incubo quotidiano. Lo aveva profetizzato George Orwell nel celeberrimo 1984. Stati totalitari e tecnologia deviata avevano ispirato allo scrittore inglese le telecamere a circuito chiuso che, conficcate nei muri come l’ombra oblunga di un occhio, sorvegliano costantemente la popolazione, libera, si fa per dire, soltanto di riprodursi senza amare e di divertirsi con i programmi televisivi, sotto lo sguardo onnisciente del Grande Fratello. Lo aveva compreso Orson Welles. Ma il cinico protagonista di Quarto potere fa sorridere se paragonato ai nuovi colossi dei media che hanno incrinato uno dei gangli vitali della democrazia: il pluralismo dell’informazione e la libertà di stampa. La macchina da indottrinamento al servizio di potentissimi, e occulti, poteri finanziari è per Noam Chomsky il vero Grande Fratello della società americana e occidentale. Un sistema di propaganda perfetto che si regge su due pilastri. Il primo sforna fiction, soap, reality show e sport per distrarre gli interessi della gente dai problemi reali. Il secondo indirizza le opinioni di lettori e spettatori, formando convenientemente le nuove classi dirigenti. Già nel 1932 eugenetica e controllo mentale conformavano Il mondo nuovo di Aldous Huxley. La nuova società è basata sul principio della produzione in serie: vale per i cervelli, come l’auto Ford “T”: la lettera vi sostituisce la croce. Aveva scritto nel 1992 Bruce Sperling, autore di Cyberpunk: «La gente che si trova nel mezzo della rivoluzione tecnologica sta vivendo al di fuori della legge: non perché intenda violarla, ma perché la legislazione è vaga, obsoleta, draconiana o inadeguata». La conoscenza è potere, la crescita dei sistemi informatici, dell’Information Society, diffonde effetti strani e deleteri sulla distribuzione del potere e della conoscenza. «Non credo - concludeva - che la democrazia possa prosperare in un ambiente e dove vasti imperi di dati sono criptati, cioè di proprietà di qualcuno». La matrice spezzata di Sperling è del 1985; il film dei fratelli Wachowski che ha attinto al romanzo risale al 1999. Matrix è il sistema di controllo cerebrale con cui la razza umana è tenuta nell’illusione di vivere in un mondo che non esiste più da centinaia di anni. Un hacker, Neo, deve liberare l’umanità dal gioco delle macchi-
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ne e di Matrix, luogo virtuale di miliardi di programmi di controllo cerebrale. La battaglia di liberazione è un conflitto contro se stessi e le dipendenze, le ideologie e le assuefazioni indotte. Viviamo in un’epoca in cui all’eccesso di “informazione” corrisponde un difetto di sapere: sovente l’extra nasconde le questioni più importanti e più compromettenti. Ma basta scalfire con un pò d’attenzione le apparenze che ad ogni costo ci vengono propinate, per comprendere quanto siano diverse le realtà. Vi stiamo osservando. Suona l’ allarme inascoltato: il futuro è dei militari, nel senso di potere illimitato nelle loro grinfie armate. Uno spettro attraversa il mondo globalizzato e la crisi finanziaria non c’ entra. La presenza inquietante che avanza è il paradigma militarista, vale a dire il potere crescente degli eserciti a tutte le latitudini. E il modello che ne consegue, gerarchico e autoritario, coltivato da tutte le caste con le stellette, siano esse democratiche o integralistiche, populistiche o rivoluzionarie, incombe sull’ immediato futuro dell’umanità. Questo potere in divisa era parso declinare dopo la fine presunta della guerra fredda anche a seguito della caduta del muro di Berlino (1989); e invece oggi, smentendo le utopie pacifiste, si dimostra più vivo che mai: accompagna non solo l’ ascesa economica della dittatura capital-comunista cinese, ma anche, parallelamente, del modello tecnocratico e dinastico indiano, del nuovo militarismo gerarchico giapponese, delle rinnovate ambizioni imperiali russe, e sistematicamente di tutti i progetti americani fondati sul monopolio della forza e la diffusione a oltranza della “democrazia”. Qui, dunque, sorge il dilemma: di fronte all’ impoverimento del terzo e quarto mondo, all’inquinamento globale e all’ esaurirsi delle risorse (dal petrolio all’ acqua), come impedire che il modello democratico ceda il passo a quello autoritario? Il bellicismo Usa colpisce non solo l’essere umano a qualsiasi latitudine nel suo presente, ma anche nelle generazioni future. Il fenomeno ha un nome ed un cognome: sviluppo planetario di una biologia di guerra, orientata verso la strategia della contaminazione territoriale per creare situazioni di terrore e crescita dei fattori di rischio per inedite malattie nelle popolazioni all’oscuro, nonché aree di mercato fertili per l’industria chimico-farmaceutica della iatrogenesi. Di conseguenza: distruggere il bene comune ed il senso di comunità degli esseri umani. Siamo immersi in un mondo inquietante, in cui gli uo-
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mini duri e armati accrescono fatalmente il loro potere, influenzando le scelte della politica. Oltretutto e soprattutto, i cosiddetti “custodi” saranno destinati ad invadere spazi riservati alla sovranità popolare, incrinando i pilastri stessi della democrazia. Nel bel mezzo c’è l’Italia che ha perso dal 1945 la sovranità militare ed ora ha abdicato a quella monetaria. Avanza la crisi e miete una tragedia annunciata. Il Belpaese alla deriva adesso affonda. Ci sarà un’altra guerra mondiale? Un conflitto globale è decollato da un bel pezzo, ma in sordina. Te ne accorgi dal clima che si ingurgita da noi, dal cataclisma autoritario che spira sulle nostre perdute libertà. Nella società del rischio l’incertezza del futuro genera angoscia, insicurezza ed infine intolleranza. Recita lo slogan: cose buone dal mondo. Insomma, un cancro garantito e certificato a norma di legge. La nocività come strategia di selezione della specie. Tappa finale: la progressiva rarefazione dei beni ambientali di prima necessità: aria salubre, acqua pulita, terra sicura. I dati ufficiali parlano chiaro: 10 milioni di italiani sopravvivono in aree gravemente inquinate. E va sempre peggio. Non a caso il codice penale del Belpaese ignora l’ecosistema. Il problema non è la destra o la sinistra e tantomeno il centro, come aveva intuito Giorgio Gaber. C’è dell’altro. Con le mafie ben compenetrate nello Stato (organiche) che fatturano il 20 per cento del prodotto interno lordo, è in atto una pacifica e duratura convivenza in vigore dallo sbarco degli Alleati. Segreti, misteri e sangue a fiumane per nascondere traffici di armi, occultamenti di rifiuti, strategie offensive. Stragi, omicidi, omissioni, insabbiamenti della verità per celare ruberie parastatali ed egemonie belliche. Vi siete mai accorti di quanto sia bello vivere in un paese a sovranità inesistente, che non può prendere proprie decisioni senza il nullaosta degli USA. Belpaese a sovranità limitata, o più precisamente azzerata, almeno a partire dalle clausole misteriose (ignote perfino agli storici di professione) dell’armistizio di Cassibile (anno 1943). Da noi imperversano tuttora segreti militari regolamentati da un regio decreto fascista del 1941 in aggiunta ad ombre di Stati e multinazionali del crimine legalizzato. La nazione italiana occupata dagli Stati Uniti d’America, non è sovrana né indipendente, ma succube. La fragilità italica cova le radici proprio nella lunga sequela di misteri alimentati a dismisura. Infine, un rosario di accordi internazionali
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ha annichilito la Costituzione: ultimi in ordine temporale i Trattati di Prüm, Lisbona e Velsen, che assoggettano ogni Stato del vecchio continente ad una normativa sovranazionale, promulgata da legislatori oscuri e ratificata da parlamentari sulla cresta dell’onda. Tanti, troppi, sotto controllo totale. Alzi la mano chi ha mai sentito parlare di Eurogendfor: la nuova polizia militare europea che ha assunto poteri e compiti totalmente al di fuori del controllo democratico. Una decisione ratificata anche dal parlamento italiano (opposizione compresa), soltanto nell’anno 2010. L’Echelon italiana, capitolo intercettazioni e spionaggi è una regalo a parte. Il controllo dello Stato si esercita ogni giorno perfino sui nostri stili di vita individuali. Ormai, con l’ausilio delle nuove tecnologie, i funzionari della norma frugano ogni recesso della nostra esistenza. La nostra vita collettiva si dipana in una gabbia a cielo aperto. Un esempio? Il nostro corpo appartiene allo Stato: una legge del 1999 consente di prelevare i nostri organi al momento della morte, se in vita non l’abbiamo rifiutato espressamente. Questo padre degenere ha trasformato la pietà in reato come nel caso dell’eutanasia. In un termine: regressione: come quando intralcia la sofferta scelta dell’aborto. Allora, a chi rendere conto delle scelte di Governo se le decisioni principali, ammantate dal segreto di Stato, vengono adottate da soggetti come nel caso dell’eterodiretto Monti (un maggiordomo dell’Alta Finanza) e del suo entourage, che il popolo sovrano non ha mai eletto? Consumatori sempre più imbalsamati, telespettatori lobotomizzati e utenti imbambolati, avanti, fate il nostro gioco. Trivellano il cuore della Terra, oscurano il Sole, mentre la Luna l’hanno già bombardata. E noi?
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Capitolo primo Echelon Italia «We are watching you»: “Ti stiamo osservando”. Dallo spazio, infatti, qualcuno ci spia. Non si tratta di extraterrestri, ma di satelliti controllati segretamente dai governi, in primis dal Pentagono, ma non solo. A confronto le intercettazioni telefoniche di spioni pubblici e privati che hanno coinvolto la Telecom (Tronchetti Provera, Tavaroli & soci), sono una bazzecola. L’aria e il cielo sono intrisi di segnali elettronici. Intercettarli è facile come raccogliere la pioggia con un secchio. Numerosi cittadini da qualche tempo risultano schedati elettronicamente, grazie ai prodigi di un braccio supersegreto dell’ex Sismi, specializzato in spionaggio d’ogni genere e guerra elettronica. È tutto documentato nei fascicoli personali: dalle credenze religiose a quelle politiche, fino alle attività professionali e del tempo libero. Siamo controllati e sorvegliati da tempo, a nostra insaputa. Chi gestisce questa struttura, quale tipo di informazione utilizza e di quale mandato politico gode? Esistono fondati sospetti che tale sistema di spionaggio, al di fuori del controllo parlamentare, possa venire utilizzato per fini difformi da quelli della sicurezza e della pace? Ma di che si tratta? Proviamo a spiegarlo, poiché ben due responsabili della Difesa, prima Ignazio La Russa, poi il successore Giampaolo Di Paola, non hanno offerto chiarimenti. È la struttura supersegreta e più potente mai realizzata in Italia, fabbricata anche per intercettare — senza alcuna autorizzazione della magistratura e all’insaputa di una fetta consistente del Parlamento italiano — particolari soggetti: magistrati, giornalisti, industriali, politici scomodi (pochi in realtà), ecologisti, diplomatici; ma anche chi si oppone alla guerra, al tracciato della Tav, a qualche inceneritore illegale di rifiuti speciali della Marcegaglia, oppure all’installazione di basi militari straniere nel nostro Paese. Figurano sotto la lente dell’Intelligence occulta, addirittura poliziotti, carabinieri e finanzieri rispettosi dello Stato di diritto. Una rete riservata che non fa capo ad apparati pubblici dello Stato, ma al Reparto Informazioni e Sicurezza, il servizio segreto che raggruppa i tre vecchi SIOS di forza armata e che ha il compito di accedere, captare ed elaborare qualsiasi forma elettronica di comunicazione in transito nel Mediterraneo ed anche oltre.
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È un’attività così gelosamente custodita che, qualche tempo fa, l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo La Rosa, interpellato da due parlamentari della commissione Difesa (Elettra Deiana e Pier Paolo Cento), ne ha negato addirittura l’esistenza, trincerandosi dietro il segreto di Stato. Risponde infatti La Rosa, in una lettera di cui siamo legalmente in possesso: «Con riferimento alla richiesta di autorizzazione alla visita avanzata dai parlamentari in oggetto, si comunica che non risultano in Cerveteri e nel territorio nazionale strutture denominate “Echelon Italia”. — Infine, concludeva, l’allora vice capo di gabinetto del Ministero Difesa — Si soggiunge che in linea generale, quanto al regime delle autorizzazioni delle visite dei Parlamentari ai siti protetti dal segreto di cui all’art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, vige il disposto della legge 24 giugno 1988 n. 206 e relativo regolamento d’attuazione». “Echelon” o strutture simili in Italia non esistono? Il cuore dell’Intelligence fantasma, collegato a varie stazioni di ascolto distribuite capillarmente nella Penisola, è mimetizzato all’interno di una caserma dell’esercito nel territorio di Cerveteri, fronte mare - in provincia di Roma. Un lungo recinto e poi un muro protetto all’interno da un terrapieno, filo spinato e telecamere difendono due palazzine basse, una decina fra antenne paraboliche (in collegamento col sistema satellitare Sicral e Cosmo SkyMed) e alcune casematte per la sorveglianza. «La base viene utilizzata attualmente come orecchio elettronico per intercettare comunicazioni radio militari e civili (Sigint), segnali elettromagnetici militari (Elint), comunicazioni via satellite (Comint), trasmissioni immagini (Imint), telefonia di vario genere», attesta la documentazione riservata dello Stato Maggiore Difesa. I messaggi vengono trasferiti, trascritti e analizzati a Roma, all’aeroporto militare di Ciampino e a Forte Braschi. Ovviamente, sempre in nome della lotta al terrorismo internazionale e della sicurezza generale. In Italia non si può intercettare nessuno senza l’autorizzazione della magistratura. Nel caso dei Servizi segreti occorre il nulla osta delle Procure Generali della Repubblica, presso le Corti d’Appello. L’assoluta discrezionalità e l’assenza di regole democratiche sembrano caratterizzare i tratti essenziali del RIS, peraltro mai sottoposto finora ad una verifica parlamentare. Sembra un scherzo: un organo dello
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Stato non sottoposto a controlli, che occupa due interi edifici a 37 chilometri da Roma. Ma la faccenda diventa seria se si pensa che il RIS è la mente operativa di carattere militare dell’Intelligence italiana, dove si concentra la massima mole di notizie riservate esistente nella Penisola: informazioni particolari su aziende e privati cittadini. Singolare coincidenza. «L’attuale normativa sulla privacy riconosce ampie deroghe proprio ed esclusivamente per i servizi di informazione e sicurezza» dichiara Antonio Martino il 20 ottobre 2004, allora in veste di ministro della Difesa, nel corso dell’audizione presso la Commissione Affari costituzionali. E aggiunge, a tale proposito: «In questo ambito, ho indicato soluzioni strutturali per assicurare un rapporto sempre più efficace tra il Sismi ed il reparto informazioni e sicurezza dello stato maggiore della Difesa (…) Gli ambiti di competenza del Ris sono complementari a quelli del Sismi. Il Ris realizza un sistema informativo organico ed integrato, a disposizione del capo di Stato maggiore della Difesa (…) In quanto servizio specialistico a supporto diretto dello strumento militare in tutte le sue componenti, quindi non destinatario di un controllo politico diretto». Un altro riferimento ufficiale è racchiuso in uno scarno paragrafo del Libro Bianco pubblicato dal ministero della Difesa nel 2002. A pagina 41, a proposito del “R.I.S.” si legge: «I SIOS (Servizi Informazioni Operative e Situazione) di Forza Armata sono stati sciolti e l’attività informativa è stata portata a livello interforze presso lo Stato maggiore della Difesa. Il trasferimento di competenza è stato sancito dalla direttiva del Ministro della Difesa n.1/30863/14.8/97 in data 15 maggio 1997 e l’attività, dopo una fase sperimentale, ha assunto una definitiva configurazione in data 1° settembre 2000 con la costituzione del Reparto Informazioni e Sicurezza ed i dipendenti Centro Intelligence Interforze e Scuola Interforze Intelligence/Guerra Elettronica». E ancora: «L’attività di ricerca informativa e di sicurezza s’inquadra naturalmente in quella del SISMI che, operando a più ampio raggio, è in grado di fornire l’inquadramento generale della situazione ed il sostegno di riferimento con i servizi collegati. Non va peraltro trascurata la funzione di sicurezza interna svolta a tutela delle strutture ed infrastrutture militari in Patria, in stretto collegamento, in questo caso, con l’Arma dei Carabinieri e con gli organi specializzati del servizio stesso a tutti i livelli ordinativi».
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Chi controlla i controllori? «Il Centro Interforze di Formazione Intelligence/GE è un istituto militare, dipendente dal II Reparto Informazioni e Sicurezza (RIS) dello Stato Maggiore della Difesa — spiega una nota ministeriale —. In particolare il centro provvede a qualificare ed aggiornare il personale, appartenente alla Difesa, per l’impiego nel settore dell’Intelligence. In tale ottica i corsi afferiscono in maniera peculiare a tutte le discipline dell’Intelligence (IMINT, SIGINT, HUMINT, OSINT, ACINT, MSINT) e della guerra elettronica, in funzione di quelle che sono le necessità addestrative formulate dal RIS o dagli Stati maggiori di singola Forza Armata». Computer di ultima generazione sono la mente operativa. Software ultraveloci in grado di entrare nelle nostre case, ascoltare e registrare le telefonate, setacciare la posta elettronica e le altre forme di comunicazione che viaggiano su Internet, aprire e decifrare tutto quanto viene trasmesso dalle banche dati. Penetrare nel mondo della finanza, svelare i movimenti di denaro, individuare le scelte strategiche dei gruppi industriali, rivelare notizie riservate sulle indagini giudiziarie in corso, sui politici sotto inchiesta, sui boss mafiosi sotto controllo, sui giornalisti ficcanaso. Una concentrazione senza precedenti di informazioni sensibili, inaccessibile ai parlamentari della Repubblica, gestita da un ramo speciale dei servizi segreti e conservata senza limiti di tempo. Il sistema è attualmente in grado di captare e analizzare miliardi di comunicazioni private al giorno che passano attraverso il telefono, il fax, la rete internet. Creato nel 1997 dall’ammiraglio Fulvio Martini (direttore del Sismi dal 5 maggio 1984 al 26 febbraio 1991) il RIS ha avuto come primo responsabile l’ammiraglio Sergio Biraghi. Il suo successore è stato un altro ufficiale della Marina, l’ammiraglio Sirio Pianigiani. Le voci ben mimetizzate di spesa sui bilanci dell’ultimo quindicennio del ministero della Difesa ne documentano inequivocabilmente l’attività. Un esempio? La «costruzione di un inceneritore per documenti classificati a Udine», oppure la «realizzazione di impianto palazzina Tlc a Jacotenente» in piena Foresta Umbra (Gargano). Quali satelliti utilizzano i servizi segreti? Il SICRAL (Sistema Italiano per Comunicazioni Riservate ed Allarmi), costato 500 milioni di euro, è il primo satellite italiano per telecomunicazioni ideato completamente dalla Difesa
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e sviluppato dal consorzio Sitab (Alenia, Fiat Avio, Telespazio). Il 7 febbraio 2001 è stato posto in un’orbita geostazionaria. «Il sistema militare di osservazione da satellite HELIOS ed il sistema satellitare duale italiano COSMO Sky-Med sono utilizzati da parte italiana tramite strutture risalenti alle responsabilità dello Stato Maggiore della Difesa, in collegamento con il Sismi», decreta il 6 marzo 2006 il ministro Martino. Humint e Sigint corrono insieme, anzi volano. Quando l’Intelligence si interessa a personaggi su cui non avrebbe titolo per indagare, usa la tecnica dei galleggianti: si apre cioè un fascicolo genericamente intestato a un certo affare, o ad una fonte, e poi si allegano ad esso i fascicoli collegati al personaggio che interessa. Un calcolo preciso è impossibile farlo. È possibile ipotizzare che migliaia di persone siano state schedate dai nostri infaticabili 007 di quart’ordine con la divisa e le stellette. Molto in voga è l’abitudine di archiviare faldoni particolarmente delicati non a Forte Braschi, ma in uffici di copertura dislocati in tutto il territorio nazionale, e, perfino all’estero. Tali operazioni non richiedono e nemmeno presumono che chi è oggetto delle intercettazioni stia violando la legge. Già nel ’95 venne alla luce un’attività informativa prestata negli anni 198991 al capo del Sismi, Martini, dal colonnello Demetrio Cogliandro: in sostanza, un’illegittima raccolta di informazioni di natura personale su uomini politici, ed esponenti del mondo finanziario, sindacale ed industriale. Il Comitato parlamentare che sovrintende all’attività dei servizi aveva esaminato la documentazione concludendo il 5 marzo 1996: «Salvo qualche nota sporadica, il contenuto delle carte è del tutto estraneo alle finalità istituzionali del Servizio (…) Essi appaiono destinati ad offrire strumenti di pressione e di ricatto (…) contro soggetti politici ben individuati (…) Sono state raccolte informazioni di ogni genere, notizie relative agli intrighi che si sviluppavano nel sistema di governo». Non è cambiato nulla, anzi è peggio. Attualmente, gli archivi dei Servizi Segreti presentano un’estensione sempre più smisurata. Nonostante il trascorrere dei decenni e malgrado ripetuti segnali d’allarme che hanno rivelato l’accumulo disinvolto di milioni di fascicoli e la loro illegale e spregiudicata utilizzazione, il materiale scottante ora viene depositato in banche dati elettroniche. Un’avvisaglia oscurata: il 17 novembre 1987, l’ex ministro della Difesa, Attilio Ruffini, alla “Commissione Affari Costituzionali della
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Camera” aveva rivelato: «Nessun governo è in grado di controllare singolarmente i milioni di fascicoli per verificare se rientrano o meno nell’ambito dei compiti istituzionali dei Servizi. Ci si deve necessariamente fidare di quanto affermano i direttori dei servizi o i loro subordinati». La situazione verrà confermata dall’ammiraglio Martini alla stessa Commissione, il primo dicembre di 25 anni fa: «Quando il Presidente del Consiglio mi chiese se potevo affermare in Parlamento l’inesistenza negli archivi di qualcosa che potesse prestarsi a un giudizio negativo, gli risposi che potevo dargli questa assicurazione, sottolineando come negli archivi di Forte Braschi esistessero circa 18 milioni di pratiche». Lo “zio Sam” con Echelon ha fatto scuola anche in Italia: la base di ascolto di San Vito dei Normanni (attualmente dismessa, ma non bonificata,), in provincia di Brindisi ha registrato istante per istante la strage di Ustica (27 giugno 1980) e intercettato i sequestratori dell’Achille Lauro nel 1985. Eppure, nessuno ha mai chiesto conto in sede ufficiale alle autorità Usa del chiarimento di alcuni misteri d’Italia. Intercettare, catalogare ed archiviare la vita di chiunque è una violazione dei diritti umani. La democrazia è costruita su diritti che prevalgono su qualsiasi interesse collettivo, individuale, economico, politico e di sicurezza. Ora stanno smantellando un pezzo dopo l’altro, senza dare troppo nell’occhio, il concetto di privacy individuale, uno dei diritti umani più basilari. Echelon è un sistema di sorveglianza mondiale ideato nel 1947 e realizzato successivamente da alcuni Stati durante la Guerra fredda. Viene gestito da Usa, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda (accordo Ukusa). L’infrastruttura spaziale è stata insediata nei primi anni ’60, lanciando in orbita un gran numero di satelliti spia. Responsabile di questi progetti è la National Security Agency (NSA), la più grande agenzia di intelligence nordamericana, in collaborazione con la Cia e la Nro. I centri elaborazione dati terrestri sono ubicati a Menwith Hill (Gran Bretagna) ed a Pine Gap (Australia). Anche l’Italia ha ospitato una struttura di questa rete spionistica (orecchio, poi trasferita a Gioia del Colle) nella base di San Vito dei Normanni, dal 1964 fino al 1994. Negli Usa è nata nel 2001, la “Total information awareness”, una banca dati unica che ha lo scopo di raccogliere informazioni sui cittadini di tutto il mondo dal comportamento so-
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spetto. L’Enfopol, in collaborazione con l’Fbi, è nata ufficialmente il 23 novembre 1995 grazie a un accordo di cooperazione europeo per un sistema di controllo totale di tutti i mezzi di comunicazione. Le radici sono state sviluppate fin dal 1991 nell’ambito della conferenza di Trevi dai ministri dell’Ue, e si sono concretizzate nel 1993 a Madrid. Secondo l’associazione inglese per i diritti civili Statewatch esistono intese segrete sotto forma di “Memorandum of Understanding Concerning the Lawful Interception of Telecommunications” (Enfopol 112, 10037/95). L’Italia svolge un ruolo di primo piano all’interno del programma, perché ospita, in provincia de l’Aquila, la base terrestre di Iridium, la rete di satelliti per le comunicazioni cellulari. Enfopol coordina la collaborazione europea dei ministeri degli interni e della giustizia. È al di fuori dei controlli parlamentari europei ed italiani. L’incubo fantascientifico diviene realtà, sotto il naso della società distratta dal caos, alimentato ad arte da chi detiene il potere e giostra i mass-media. Potere economico e bellico, al servizio degli USA (in declino economico), per controllare definitivamente la società civile in ogni recesso del pianeta Terra, a partire dal vecchio continente. Ben oltre il grande fratello di orwelliana memoria letteraria o addirittura lo scenario tratteggiato dalla saga cinematografica di Matrix. Uno spettro militarista, con conflitti resi permanenti, solca l’Europa, e la crisi finanziaria non c’entra un fico secco. È nota dagli addetti ai lavori come «Eurogendfor», ovvero Forza di Gendarmeria europea svincolata dal controllo parlamentare e dalla dipendenza della magistratura; nel 2012 soppianterà la Polizia di Stato, relegata ad un ruolo secondario su base locale mescolata alla bassa forza (sottufficiali) dell’Arma. Ufficialmente questa Polizia multinazionale alle esclusive dipendenze di un comitato interministeriale (esclusivamente Difesa ed Esteri), denominato Cimin, è stata originata dal “Trattato di Velsen”. La genesi si rinviene però nella Dichiarazione di Petersberg (anno 1992). L’accordo è stato firmato a più riprese e a prescindere dall’orientamento governativo (Martino e Parisi) dai Paesi che sono dotati di Polizie militari: Francia (Gendarmerie), Spagna (Guardia Civil), Portogallo (Guardia Nacional) e Olanda (Marechaussée) e per l’Italia, i Carabinieri. Lo Stato del belpaese ha sancito definitivamente l’accordo con la legge numero 84, il 14 maggio 2010. Le cronache
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parlamentari danno i numeri. Infatti: la Camera ha approvato la «Ratifica ed esecuzione della Dichiarazione di intenti tra i Ministri della difesa di Francia, Italia, Olanda, Portogallo e Spagna relativa alla creazione di una Forza di gendarmeria europea, con Allegati, firmata a Noordwijk il 17 settembre 2004, e quella del Trattato tra il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica italiana, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica portoghese per l’istituzione della Forza di gendarmeria europea, EUROGENDFOR, firmato a Velsen il 18 ottobre 2007. Presenti 443, Votanti 442, Astenuti 1, Maggioranza 222. Hanno votato sì 442». Il 28 aprile anche il Senato aveva approvato senza discussione seria né approfondimenti. Per caso qualche onorevole — anche a livello eurocentrico — ha letto i 47 articoli elaborati a Velsen? Cos’è l’European Gendarmerie Force? All’articolo 3 si legge: «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN — ovvero — l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Le caratteristiche portanti, definite dall’articolo 1, configurano la EGF come «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi». Al servizio di chi? L’articolo 5 recita: «EUROGENDFOR potrà essere messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del “Trattato del Nord Atlantico” (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Insomma mercenari istituzionali di elevato grado e livello di addestramento protetti dalle bandiere statali. E chi comanda su Eurogendfor? Un comitato interministeriale (appunto CIMIN) con sede a Vicenza, composto dai rappresentanti ministeriali dei Paesi aderenti (Difesa ed Esteri). Il CIMIN esercita in esclusiva il «controllo politico» sulla nuova Polizia militare e decide di volta in volta le condizioni di ingaggio di Eurogendfor. L’EGF dipende solo dal CIMIN. In altri termini: l’European Gendarmerie Force non risponde ad alcun Parlamento, nè nazionale nè europeo.
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Non è tutto, perché questa super Polizia sovranazionale gode anche di una sorta di totale immunità a livello internazionale. Infatti, analizzando il trattato si scopre inoltre che: articolo 21) «Inviolabilità dei locali, degli edifici e degli archivi»; articolo 22) «Le proprietà e i capitali di EGF e i beni che sono stati messi a disposizione per scopi ufficiali, indipendentemente dalla loro ubicazione e dal loro detentore, saranno immuni da qualsiasi provvedimento esecutivo in vigore nel territorio delle Parti»; articolo 23) «Le comunicazioni indirizzate ad EGF o da queste ricevute non possono essere oggetto di intercettazioni o interferenza»; articolo 28) «I Paesi firmatari rinunciano a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni. L’indennizzo non verrà richiesto neanche in caso di ferimento o decesso del personale di Eurogendfor»; articolo 29) «Gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro, sia nello Stato ospitante che nel ricevente, in uno specifico caso collegato all’adempimento del loro servizio». Missioni e compiti? L’articolo 4 illustra un ampio spettro di attività: «EGF potrà essere utilizzato al fine di: a) condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; b) monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; c) assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; d) svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; e) proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; f) formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: g) formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione». Ergo: l’EGF potrà operare in qualsiasi parte del globo terrestre, sostituirsi alle forze di Polizia locali, agire nella più totale immunità giudiziaria e, al termine dell’ingaggio, dovrà rispondere delle sue azioni al solo comitato interno. A quali crisi si fa riferimento? Si allude cripticamente a quelle inquadrate «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Scarne righe ufficiali avvertono che «Il Consiglio ministeriale della UEO, riunito a Petersberg, presso Bonn, approvò, il 19 giugno 1992, una Dichiara-
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zione che individuava una serie di compiti, precedentemente attribuiti alla stessa UEO, da assegnare all’Unione Europea; le cosiddette ‘missioni di Petersberg’ sono le seguenti: missioni umanitarie o di evacuazione, missioni intese al mantenimento della pace, nonché le missioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace». Uno degli innumerevoli aspetti inquietanti è la sede scelta per EGF: la caserma dei carabinieri «Generale Chinotto» a Vicenza. La medesima città dove è situata la più grande base militare Usa in Italia — in fase di ampliamento (Dal Molin) multiforme fuori e dentro l’area urbana —, base a disposizione soltanto del Pentagono, che vi mantiene un buon numero di testate nucleari (Site Pluto nel comune di Longare), con i carabinieri di grado inferiore, ignari dei pericoli ambientali e sanitari, usati alla stregua di cani da guardia. In buona sostanza i nordamericani hanno voce in capitolo nell’ordinare le «missioni» per Eurogendfor. Per gli ufficiali, l’Arma aumenta il suo potere: dovrà rispondere solo al CIMIN (ovvero a ufficiali e rappresentanti del ministero Esteri e Difesa); manterrà i suoi poteri in Italia e nel mondo godendo di privilegi impensabili in uno Stato di diritto, fino ad una totale immunità e insindacabilità. Sempre “fedeli nei secoli”: i sottufficiali e la truppa confluiranno nella PS ormai degradata a polizia regionale di secondo livello. Sotto il profilo operativo l’attività di EGF è assicurata dal comandante, attualmente il colonnello Jeorge Esteves. EGF ha un bacino di capacità ad alta prontezza operativa, variabile a seconda dell’esigenza, che consente la possibile attivazione di 800 uomini e 2.300 di riserva entro 30 giorni. Singolare anomalia: la legge di ratifica risale al 2010, ma il quartiere generale è stato insediato a Vicenza nel 2006. Anzi, secondo fonti autorevoli del ministero della Difesa «La EGF rappresenta un’iniziativa joint, nata nel 2003 in seno all’Unione Europea». Addirittura il bimestrale ufficiale del dicastero retto attualmente dal ministro Giampaolo Di Paola, INFORMAZIONI DELLA DIFESA (3/2010), attesta che «il 18 gennaio, la Presidenza del CIMIN ha incaricato il QGP di Vicenza di studiare un piano finanziario relativo alla potenziale missione. Il 2 febbraio il CIMIN ha proposto l’uso della forza in ambito MINUSTAH - Missions des Nationes Unies pour Stabilisation en Haiti. L’8 febbraio, il CIMIN, con procedura elettronica, ha approvato la partecipazione della EGF alla
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missione». Il famigerato Edward Luttwak, che non ha esitato nel 2011 ad offendere in tv i familiari della strage di Ustica, spara a bruciapelo ( …): «Haiti è completamente incapace di auto-governarsi. Tutti i regimi come Haiti generano crisi che costringono ad un intervento diretto dall’esterno, per quanto questo non possa essere un intervento definitivo e perciò non di certo una colonizzazione». La tentazione muscolare è contagiosa: Romania e Lituania aderiranno a breve all’EGF. L’analista Carlo Jean — nel 2003 a capo della Sogin (ramo smantellamento nucleare) — sulla rivista Geopolitica scrive senza scrupoli: «Occorre smettere di considerare la pace come una specie di diritto acquisito, garantito dall’articolo 11 della Costituzione, ma di fatto delegato ad altri. Occorre considerare le Forze Armate come strumenti di guerra anziché come mezzi indispensabili per qualsiasi pace possibile». Come dar torto al generale che intendeva calpestare la volontà popolare dei lucani per realizzare a Scanzano Jonico il deposito unico di scorie atomiche nel novembre 2003? In effetti il “Trattato di Lisbona” (13/12/2007) entrato in vigore il primo dicembre 2009, composto da numerosi protocolli, modifica il “Trattato sull’Unione Europea” e il trattato che istituisce la Comunità Europea; è stato ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge numero 130 del 2 agosto 2008. Il “Trattato di Lisbona”, approvato dai parlamentari nostrani ma sconosciuto agli italiani, assoggetta ogni Stato europeo ad una normativa promulgata da legislatori oscuri. La questione cruciale è il rapporto tra democrazia rappresentativa e potere militare, retti notoriamente su principi diversi. La prima si basa su libertà e controllo pubblico, mentre il secondo su disciplina e gerarchia. Le democrazie occidentali condizionate dal potere economico rischiano di svuotarsi sempre più, rinunciando alle garanzie di libertà e concedendo spazio alle caste militari. Non è in gioco soltanto il monopolio della forza, ma il controllo totale della collettività. In questa situazione si collocano attualmente i rapporti tra potere politico e potere militare, tra governo di facciata e governo invisibile ma sostanziale. È in questo tipo di processo concretamente in atto che rivestono un ruolo le élites militari, ossia il potere repressivo. In uno studio della Kennedy School of Government (Harvard) si descrive come ogni mese si tenga a Washington una riunione tra rappresentanti dei principali media nazionali, del governo, del Congresso e
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dei servizi segreti, per determinare il margine di manovra sulle informazioni da pubblicare, ossia cosa e quanto. In ultima battuta si delinea un mondo inquietante in cui gli uomini armati accresceranno il loro potere influenzando più di oggi le grandi scelte della politica. Di fronte al saccheggio di Gaia, all’inquinamento globale e all’esaurimento delle risorse naturali (dall’acqua al petrolio), come impedire che il sistema democratico ceda il passo a quello autoritario? Provate a sciogliere il dilemma oligarchico. A proposito di schedature di massa. Anche in Occidente i diritti dell’essere umano sono sempre più carta straccia. Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del “Trattato di Prüm”, sottoscritto da sette Stati membri il 27 luglio 2005. In ossequio alle dottrine autoritarie Usa, nonché ai Trattati di Velsen e di Lisbona (approvati in tutta fretta dai parlamentari di stanza a Bruxelles e Strasburgo senza uno straccio di coinvolgimento popolare), la libertà risulta sempre più vigilata nel vecchio continente. Oltre Orwell: il codice ereditario umano è in balia di alcuni Stati europei. Il pretesto è apparentemente nobile: la lotta contro «il terrorismo internazionale, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale» mediante la cooperazione. In sostanza: il Dna (acido desossiribonucleico), viene immagazzinato per 40 anni in una banca dati istituzionale. «Lo standard europeo ISSOL (Interpol Standard Set Of Loci, ndr) aveva inizialmente solo 7 marcatori più amelogenina — spiega l’avvocato Giorgio Ponti —. Nell’aprile 2005 è stata decisa l’introduzione di 3 nuovi marcatori ritenuti molto sensibili. Non tutte (le banche dati, nda) utilizzano il medesimo standard di archiviazione, anche se la risoluzione del Consiglio E del 9 giugno 1997 “invita” gli Stati membri alla realizzazione di uno standard comune. La più affollata banca dati europea è quella inglese con 3 milioni di profili». La legge numero 85, promulgata il 30 giugno 2009, a firma del presidente del consiglio Berlusconi nonché dei ministri Frattini, Maroni, Alfano, con la controfirma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si intitola appunto così: «Adesione della Repubblica italiana al Trattato concluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’appro-
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fondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (“Trattato di Prüm”). Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA. Delega al governo per l’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di Polizia penitenziaria. Modifiche al codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale». Il primo progetto normativo per la regolamentazione del prelievo coattivo risale al 1998: l’ allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick (del Governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi) presentò al Senato, il 20 gennaio, un disegno di legge (numero 3009 rubricato sotto il nome di «Disciplina dei prelievi di campioni biologici e degli accertamenti medici coattivi nel procedimento penale») che non è mai diventato Legge dello Stato. L’Italia, che non era tra gli Stati promotori dell’accordo di Prüm, il 4 luglio 2006, a Berlino, nella persona dell’allora Ministro degli Interni, Giuliano Amato, ha sottoscritto, insieme al collega tedesco, Wolfgang Schaueble, una dichiarazione congiunta sull’ingresso dell’Italia nel “Trattato di Prüm”. L’articolo 5 assicura una garanzia apparentemente al di sopra di ogni sospetto: «presso il Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, è istituita la banca dati nazionale del DNA. Presso il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è istituito il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA». Ad ogni buon conto i danni sono a responsabilità limitata, infatti, l’articolo 4 dispone inequivocabilmente: «quando agenti di una Parte contraente operano nel territorio nazionale, lo Stato italiano provvede al risarcimento dei danni causati dal personale straniero limitatamente a quelli derivanti dallo svolgimento delle attività svolte conformemente al medesimo Trattato». Chi sono le prime cavie oggetto della disposizione normativa? L’articolo 9 stabilisce: «i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti ai quali
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sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva». La legge non risparmia i bambini. L’articolo 29 dispone il «Prelievo di campioni biologici e accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette». Un abominio? L’ennesimo abuso di potere? Oppure ordinaria amministrazione? «Il prelievo coattivo è vincolato oggettivamente nel senso che può aver ad oggetto solo il materiale indicato in via alternativa dal legislatore: saliva o capelli; la soglia massima dell’intervento fisico sull’indagato che non consente è un prelievo di saliva o capelli autorizzato dal pm — puntualizza l’esperta Paola Felicioni, autrice del saggio Accertamenti sulla persona e processo penale (Ipsoa 2007) — Occorre chiedersi qual è la disposizione che trova applicazione in un’ipotesi di tal fatta in cui non sussiste l’urgenza dell’intervento della polizia giudiziaria sulle persone, diversi dalle ispezioni personali, possa essere compiuto un rilievo-prelievo di “materiale biologico”». La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 238, risalente al 9 luglio 1996, aveva già chiarito la «genericità del potere conferito al Giudice di emettere un provvedimento coattivo per assicurare il compimento della perizia: non sono infatti indicati i “casi” e i “modi” del prelievo coattivo da persona vivente: carenza di precisazione circa la natura e la possibilità di estensione della coazione; incompatibilità di tale “genericità” con i principi dell’articolo 13 della Costituzione, che richiede, per tutti gli atti di restrizione della libertà personale, una duplice garanzia: la riserva di legge “nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e la riserva di Giurisdizione, “atto motivato dall’autorità Giudiziaria”». L’articolo 1 (comma 4) del “Trattato di Prüm” prevede addirittura che «Entro e non oltre tre anni dall’entrata in vigore sarà presentata una iniziativa in previsione della trascrizione delle disposizioni del presente trattato nell’ambito giuridico dell’Unione europea». Fedele nei secoli, d’accordo.. Ma a quale sistema di potere? Senza voler scomodare le rivelazioni del generale (in pensione) Nicolò Bozzo, braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa — «cercare di spiegare perché l’anima nera, presente nell’Arma come del resto altrove, abbia potuto affermarsi a scapito dei valori più autentici» —, dopo i 70 milioni e passa di fascicoli custoditi illegalmente dall’Arma dei carabinieri su italiane e italiani, vicenda emersa qualche tempo
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fa grazie alla coraggiosa denuncia di un sottufficiale, subito messo a tacere, siamo infine, ai prelievi biologici sul corpo umano. In altri termini, siamo tutti un po’ meno liberi per ragioni di “sicurezza”. Esiste già da un bel pezzo l’archivio delle tracce biologiche raccolte attraverso le perizie delle forze dell’ordine e nei prelievi su indagati. In un unico database, affidato alla gestione di un apposito organismo (Ris dell’Arma, in seguito Eurogendfor, la super polizia militare europea), vengono catalogati con un sistema di codici a barre tutti i campioni raccolti. L’enome mole di informazioni è custodita all’interno di un sistema informatico controllato a più livelli e accessibile solo dai diversi gradi dell’autorità giudiziaria. Rispetto al passato, la novità fondamentale è nella possibilità di confrontare i campioni in tempo reale attraverso un software speciale. Attualmente, infatti, ogni campione di Dna rimane confinato all’interno del procedimento giudiziario in cui è stato raccolto, rendendo solo incidentali i confronti. In realtà, la creazione di una banca dati copre il vuoto legislativo che ha consentito la nascita di archivi istituzionali al di fuori della legalità. Come, ad esempio, quello del Ris carabinieri di Parma, che custodisce migliaia di campioni biologici. Questo archivio segreto dell’Arma è stato casualmente svelato durante un processo per furto in cui l’imputato ha scoperto che il proprio Dna veniva da anni conservato — violando la normativa sulla privacy — dagli uomini del reparto investigativo scientifico. Forza: il controllo generale. Basta essere fermati per una verifica di routine per finire nel cervellone del Viminale anche senza aver commesso reati. L’anno scorso 15 milioni di cittadini italiani sono stati inseriti nell’archivio delle forze dell’ordine. Ma non è tutto nell’era del grande fratello militare. Siete in auto con il vostro amante o con la compagna di università il giorno in cui avete marinato le lezioni. Una volante della Polizia o una pattuglia dei Carabinieri (ma anche della Guardia di Finanza o della Forestale o della Polizia Penitenziaria) vi intima l’alt per un normale controllo. Voi esibite i documenti, il vostro accompagnatore pure. Tutto in regola. «Prego potete andare», vi dicono cortesi gli operatori delle forze dell’ordine. Siete tranquilli, in fondo il vostro “peccato” non è (ancora) reato, e alla polizia che gliene importa se voi avete l’amante o non siete andati a scuola? Tornate a casa dopo esservi ricomposti (o ritruccate) e proseguite la
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vostra vita di tutti i giorni. Ma a vostra insaputa, è scattato un meccanismo infernale di controllo, denominato “Sistema di indagine (Sdi)” dal quale non uscirete più, per il resto dei vostri giorni. E che potrebbe rendervi la vita molto dura, anche se siete un innocuo rappresentante di biancheria intima con qualche indecisione sentimentale. Osserviamo come funziona e soprattutto quali problemi crea questo sistema voluto dall’ex ministro dell’Interno Enzo Bianco e ampiamente sviluppato dal ministero dell’Interno. Per comprendere il meccanismo creato da quando lo Sdi ha soppiantato il vecchio Centro elaborazione dati (Ced), occorre fare un passo indietro e vedere come operava fino al 2000 il cosiddetto cervellone del Viminale, sede del ministero dell’Interno. Fino a qualche anno fa la verifica della vostra autovettura e dei vostri documenti finiva nelle statistiche numeriche delle attività di controllo del territorio. In passato, infatti, il vostro nome veniva iscritto nel cervellone solo in caso di arresto o denuncia, per un qualsiasi reato; oppure se presentavate un esposto per lo smarrimento dei documenti. Nel 2001, secondo i dati del Viminale, furono denunciate dalle forze dell’ordine 152.399 persone; ne vennero identificate ai posti di blocco 14.897.666, su 7.870.021 veicoli controllati. Mentre prima dell’entrata in vigore dello Sdi, nel cervellone venivano iscritte solo le 152 mila persone denunciate, oggi invece vengono registrati mediamente 15 milioni di cittadini identificati e assolutamente estranei a qualsiasi imputazione o sospetto e quindi totalmente immacolati. Prima c’erano limitazioni ben precise, oggi tutto confluisce nel calderone di un sistema di indagine che coinvolge alla lunga l’intera popolazione. Secondo il Dipartimento della Pubblica Sicurezza «Il Ced interforze viene regolato dalla legge 121/1981 e dall’articolo 21 della legge 18 marzo 2001, n. 128. Prevede la raccolta, elaborazione, classificazione e conservazione delle informazioni e dei dati in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati, e di quelle a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il Sistema rispetta le norme sulla protezione dei dati, individuando in modo univoco la persona che effettua operazioni di immissione e di interrogazione della Banca dati (mediante uso di password e user Id)». La spiegazione è ineccepibile, ma non esauriente. Il problema non è come e da chi questi dati vengano utilizzati, ma perché vengano raccolti e quali siano le
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necessità di sicurezza che giustificano l’inserimento del nominativo di un cittadino in una banca dati così delicata per il semplice fatto di essere stato identificato dalle forze dell’ordine. Il controllo del territorio ha a che vedere con la prevenzione, quell’attività che si fa per impedire i reati e che consiste nel fermare delle persone nell’ipotesi che qualcuna di queste possa essere un latitante o un trafficante di droga. Secondo quanto prevede la normativa in vigore, invece, questa routine è stata inserita nel più complesso sistema d’indagine, trasformandosi in un’attività investigativa a carico di cittadini ignari di questa schedatura. Con la legittima giustificazione di operare una prevenzione dei reati, si è creata una schedatura di massa dove sono già inclusi, a loro insaputa, milioni di cittadini. Nella lista dei potenziali “cattivi”, dove una volta finivano solo quelli indagati o condannati, adesso ci sono anche quelli colpevoli solo di essere stati identificati. Dal Ministero spiegano: «Il compito principale del Sistema informativo Interforze è senz’altro quello della raccolta e gestione di tutti i dati e le informazioni che derivano dalle attività di prevenzione e repressione dei reati. Il Sistema di Indagine Sdi, richiedendo la raccolta delle informazioni là dove sorgono, prevede l’alimentazione da parte di tutti gli uffici segnalanti e dai relativi operatori». Il che tradotto vuol dire: non solo la Polizia, ma anche gli altri corpi raccolgono le notizie e le inseriscono nel sistema. Precisazione che, invece di tranquillizzare, preoccupa ancora di più. Nessuno dovrebbe detenere informazioni sulle frequentazioni, sulle abitudini e quant’altro di un singolo cittadino, a meno che non vi sia un’esplicita richiesta della magistratura, per indagini. E sembra chiaro che nessun giudice può aver autorizzato indagini su milioni di cittadini italiani. Il garante della privacy non ha nulla da dire sul fatto che annualmente una media di 15 milioni di cittadini, senza aver commesso alcun reato, vengono schedati e inseriti in un cervellone che, da qui all’eternità, potrà documentare ove erano alla tal ora, di tale giorno e con chi? Dicono che dall’11 settembre, anno 2001, siamo tutti un pò meno liberi, per ragioni di sicurezza. In realtà la genesi dello Sdi è antecedente alla tragedia di New York e porta la firma di entrambi gli schieramenti. Per la cronaca. Il Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, in un’intervista al Corriere della Sera (30 novembre 2007) aveva rivelato: “dell’attentato dell’11 settembre alle due
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torri in New York, mentre tutti gli ambienti democratici d’America e d’Europa, con i prima linea quelli del centrosinistra italiano, sanno ormai bene che il disastro attentato è stato pianificato e realizzato dalla Cia americana e dal Mossad con l’aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i Paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq sia in Afghanistan”. L’Unione europea ha assemblato il Programma Europeo di Ricerca e Sicurezza (PERS). Sulla carta, un piano destinato ad aumentare la sicurezza interna degli stati membri. Il nodo oscuro: la crescita delle industrie legate ai settori della sicurezza, delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, ed anche della difesa militare, con la volontà di creare un “complesso industriale della sicurezza” in Europa. Il passaggio è stato incrementare, attraverso aiuti, la ricerca di società che possano implementare il PERS negli ambiti del controllo terrestre, marittimo, aereo, spaziale e cibernetico. Indagini che a loro volta possono essere usate per scopi civili, commerciali, sicurezza della polizia e di difesa militare. Il PERS suggerisce che la sicurezza europea sia divisa in due zone: una fuori dalle frontiere dell’UE destinata a fornire copertura alla sicurezza estera per esercitare funzioni difensive, con forze di intervento veloce sotto comando militare; ed un’altra di sicurezza interna, con una complessa rete di controlli fisici e virtuali in mano alla polizia fornita di sofisticati sistemi di sorveglianza. Questo complesso sistema di controllo e sorveglianza è aumentato a seguito delle misure adottate dagli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre. Ed è, in qualche modo, una copia dell’homeland security (sicurezza nazionale) degli USA avviato nel 2002 per instaurare una politica sulla sicurezza per il controllo totale del territorio compresi i cittadini, attraverso agenzie statali interne alla sicurezza, mezzi militari, aziende private di sicurezza e le industrie produttrici di armi. Nel caso europeo, il PERS è stato creato nel 2003, ed il primo passo è stato quello di formare un “gruppo di personalità” nel quale erano presenti: l’Alto rappresentante della politica estera (Mr. PESC), lo spagnolo Javier Solana, diversi Commissari europei per la società d’informazione, vari Commissari degli Affari Esteri e del Commercio, rappresentanti della NATO, rappresentanti dell’Agenzia per gli Armamenti dell’UE, rappresentanti delle quattro industrie militari europee più importanti, Thales, EADS, BAE Systems e Finmeccani-
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ca, e quattro rappresentanti dell’ambito dell’elettronica e delle tecnologie militari e civili: Ericsson, Siemens, Diehl e Indra (spagnola). Questo gruppo di “personalità” ha elaborato un primo Rapporto (2004) che ha indicato quali sono state le minacce alla sicurezza europea su ciò che dovrebbe essere impedito terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa, conflitti regionali, la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Successivamente, il Rapporto affermava che la tecnologia era indispensabile per garantire la sicurezza. E per ultimo, stabiliva i legami esistenti tra la sicurezza civile e la sicurezza militare, consigliando una stretta collaborazione tra i due settori. Il PERS ha ricevuto 200 milioni di euro per avviare studi di sicurezza e per svilupparsi. Parallelamente, la Commissione Europea ha creato un consiglio di amministrazione per consigliare il PERS, composto da 50 membri, tra accademici, istituzioni, Europol, Agenzia Europea della Difesa, e sette posti riservati ad aziende militari, due delle quali, EADS e Thales, si sono divise la presidenza per periodi uguali. Delle 325 proposte nate da questa giunta, sono stati approvati 46 progetti per 156,5 milioni di euro che sono stati consegnati a Thales, Finmeccanica, EADS, BAE Systems, Saab e Sagem, tutte legate alla produzione militare. Allo stesso tempo, hanno continuato a creare nuove piattaforme con importanti finanziarie: l’ESRIF del valore di 1.400 milioni di euro, un Foro Europeo per l’Innovazione e la Ricerca in Sicurezza (Berlino, marzo 2007), EOS (Organizzazione della Sicurezza Europea), ASD (Organizzazione della Difesa Europea), tutte con lo stesso scopo e con una forte presenza di aziende militari. Uno dei progetti che ha ricevuto l’impulso più importante di tutte queste piattaforme è stato FRONTEX (2003), l’agenzia di controllo delle frontiere dell’UE. Il risultato è stato la militarizzazione delle missioni che questo organismo porta avanti contro l’immigrazione clandestina. Soprattutto nel Mediterraneo, zona considerata come la principale “prima linea di difesa” delle frontiere Europee. La Frontex svolge missioni di polizia, aeree, navali di intervento veloce, equipaggiate con materiale militare pesante, aerei ed elicotteri da combattimento e navi da pattugliamento marittimo. Un’altra conseguenza delle misure di sicurezza adottate, sono state le misure legislative approvate per catturare ogni tipo d’informazione dei cittadini: impronte digitali sui passaporti, permessi di soggiorno e visti,
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tutti i dati delle telecomunicazioni (mail e telefoni) e i dati di tutti i passeggeri che circolano nello spazio aereo, sia dentro che fuori l’Europa, ed anche tutte le transazioni finanziarie. Informazioni che sono conservate dall’Interpol System e la Schengen System, le due banche dati di criminali in Europa. Ergo: accumulano una montagna di informazioni private che permette uno stretto monitoraggio di tutti i cittadini europei. La deriva repressiva si è delineata con il “Rapporto Solana”, elaborato da Javier Solana nel 2003. Un documento che ha segnato il profilo della politica dell’UE in materia di sicurezza. E che annunciava una “nuova cultura strategica che fomentava l’intervento rapido e precoce e, quando necessario, un intervento robusto in situazioni di emergenza al di fuori dell’Europa. Non si usa l’epiteto “preventivo”, sostituito qui con “rapido”, per evitare il parallelismo con “le guerre preventive” del periodo della presidenza di Bush negli USA, ma in definitiva vogliono dire la stessa cosa. In teoria, l’obiettivo di tutta questa rete di agenzie e di risorse destinate ad aumentare la sicurezza europea, come pure rilevano tutti i documenti e rapporti elaborati dalla Commissione Europea, è la difesa del “proprio territorio” dell’Europa e la lotta di fronte alle “minacce contro lo stile della vita occidentale”. Idee ultraconservatrici che ci portano ad una pericolosa “società del controllo” di impronta orwelliana. Sistemi di sorveglianza sovranazionali che vedono tutto e tutto controllano, e che vengono costruiti senza nessun controllo né regolamentazione democratica. Sistemi che rendono vulnerabile il principio della privacy, uno dei fondamenti della democrazia. Ma con un grave pericolo aggiunto, questo controllo è esercitato al di fuori degli Stati, con la partecipazione di aziende private, con l’aggravante che la maggior parte di esse sono militari. La risposta dell’UE è stata di praticare misure di tipo palliativo, portando all’estremo le misure di controllo della polizia e dei militari, cosa che presuppone un’inevitabile perdita di libertà e diritti. Anche a livello locale non si scherza. Dai Comuni si possono acquistare a buon mercato milioni di nominativi e di dati. E perfino rivenderli senza alcun controllo del Garante, in barba alla sbandierata privacy. Altri punti deboli: Poste Italiane, siti Internet, vendite a distanza, case farmaceutiche, sistemi di informazioni creditizie. Ad alcuni può far anche piacere trovarsi la cassetta postale imbottita di
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pubblicità cartacea: tessere di partiti, offerte di vendita, proposte economiche di banche, tranelli di finanziarie e inviti di persone mai conosciute. I cittadini, però, la faccenda non riescono a digerirla, in particolare quando anche la casella di posta elettronica è intasata di spazzatura commerciale, ma soprattutto elettorale di chi governa il nostro Paese. E che dire delle chiamate delle maggiori compagnie telefoniche a determinate ore per strappare ad ignari vecchietti contratti telefonici capestro, alla stregua dell’Agos-Financo che smercia carte di credito per tutti e poi ti strozza, legalmente s’intende? In tanti si chiedono: come fanno le aziende ed alcuni schieramenti politici a schedarci e a sommergerci di allettamenti postali? Dove prendono gli indirizzi e i nominativi, le professioni e l’età di noi potenziali elettori-clienti? A condannarci a perenne schedatura presso gli archivi dei cacciatori del marketing politico basta un ufficio pubblico: l’Ufficio elettorale in cui risiediamo. Fino al 31 dicembre del 2003 chiunque poteva recarsi presso l’ufficio elettorale e chiedere tutti gli indirizzi degli aventi diritti al voto. Addirittura divisi per fasce d’età. Dal 4 gennaio 2004, in base al decreto legge 196/2003, la normativa è leggermente mutata, ma aggirarla è semplicissimo. Per verificarlo, abbiamo provato a telefonare all’ufficio elettorale del comune di Milano. «Buongiorno. Vorremmo comprare i vostri indirizzi su cd». Dall’altra parte del filo la funzionaria ci ha informato: «Possiamo cedervi un milione 74 mila indirizzi: il costo è di 5 mila euro. Si possono anche avere suddivisi per fasce d’età, per esempio tutti i giovani di Milano dai 20 ai 30 anni. La selezione, però, costa 1 centesimo a nominativo, più 90 euro per il supporto». Per ottenerli basta una semplice autocertificazione. In sostanza, bisogna dichiarare che si useranno gli indirizzi solo a scopo di studio. «La richiesta può essere fatta anche da soggetti privati purché l’uso sia culturale e statistico», spiegano i responsabili degli uffici elettorali di città piccole e grandi dello Stivale. Addirittura in parecchie città del Lazio, della Puglia e della Sicilia ci sono autoscuole che ogni sei mesi chiedono ai Comuni i nominativi dei diciottenni; il pretesto è la “ricerca statistica”; ma nessuno ha controllato se poi li contatta per offrire i suoi servizi a caro prezzo. «Pur con la nuova normativa in vigore è anche possibile incrociare i dati elettorali acquisibili con altre fonti. Il che consente di avere più informazioni sui cittadini», spiega il responsabile di una
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delle aziende che offrono su internet la consulenza per mailing e che forniscono liste di indirizzi. Anche le anagrafi comunali cedevano i nominativi fino a qualche tempo fa, compresi quelli dei minorenni. Controlli istituzionali? Pari a zero. Attualmente basta confrontare i dati sui componenti familiari nelle varie professioni e fasce d’età, con l’elenco telefonico, pubblico, quindi legalmente utilizzabile per il marketing. Così, se volete contattare via posta giovani dai 20 ai 30 anni (sovente ancora in casa con i genitori) e non rischiare nulla, basta scrivere al capofamiglia che compare sull’elenco telefonico, sapendo già, grazie appunto ai dati anagrafici, che ci sono nel nucleo familiare giovani dell’età desiderata. In questo modo la legge sulla privacy è formalmente rispettata da tutti (partiti, aziende, funzionari comunali, ufficio del Garante), ma la riservatezza dei cittadini va a farsi friggere. Eppure l’Autorità Garante aveva stabilito al suo insediamento un programma di accertamenti definendo criteri, principi e priorità di intervento per verificare se chi gestisce banche dati raccolga, usi e conservi i dati personali dei cittadini lecitamente e nel rispetto di quanto previsto dalle norme a tutela della privacy. Entro il 31 marzo 2006 tutte le aziende che trattano dati personali (come i database di clienti o fornitori) dovevano obbligatoriamente adeguare i propri sistemi informatici secondo i requisiti previsti dal decreto legge n. 196/03 e redigere il Documento Programmatico sulla Sicurezza (DPS). Almeno sulla carta il Codice in materia di protezione dei dati personali è in vigore e soprattutto sono già in vigore tutti i diritti dei cittadini. Altro che diritto alla riservatezza: i nostri dati sensibili, vale a dire salute, opinioni politiche, orientamento sessuale, fede religiosa, idee, sono allegramente gestiti da uffici segreti a caratura militare. La popolazione italiana non è stata mai così minuziosamente spiata, schedata, etichettata. La nostra vita privata non ha mai subito tante illegittime interferenze come da quando la cosiddetta privacy (diamine esiste anche un Garante pagato lautamente con denaro pubblico) è assurta al rango di “diritto”. La legge Bossi-Fini, d’altronde, promulgata due lustri fa col pretesto di contrastare l’immigrazione clandestina, ha stabilito l’obbligo di prendere le impronte digitali agli “stranieri”. Infine, questo obbligo è stato esteso senza
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colpo ferire, anche alla silente popolazione tricolore, inserendo i dati biometrici sul passaporto. Le parole dello scrittore Antonio Tabucchi (L’oca al passo) risuonano attuali anche se lui, bontà sua più amato in Portogallo e Francia che effettivamente rispettato in Italia, si è da poco congedato dall’esistenza terrena. «Se una volta vi vedeva l’occhio di dio, ora vi vede un occhio fatto di titanio e altre leghe leggere che ruota attorno al globo in un’orbita impossibile che invia alla base segnali sena sosta, panoramiche e dettagli; paziente raccoglie tutto di voi: i vostri passi quotidiani e il giusto riposo notturno, la nascita, il sesso, il decesso. Veramente i tempi sono bui. Il tutto ci è vietato, ma del tutto possiamo conoscere parti sufficienti a farci capire di più se riusciamo a collegarle fra di loro, a mettere insieme i frammenti degli avvenimenti che accadono e che ci vengono forniti in materia discronica, illogica, palindroma». Come non concordare appieno. E’ sotto gli occhi dell’opinione pubblica inebetita, l’espansione esplosiva e preoccupante di sistemi di sorveglianza come se il genere umano fosse ormai rinchiuso in una prigione invisibile che ci considera tutti potenziali delinquenti da controllare, nessuno escluso. Ed è fin troppo evidente una medicina eugenetica, estranea alla democrazia, tesa alla manipolazione e selezione del genere umano. Si affaccia un pericoloso imperativo categorico che impasta nuovi autoritarismi, bellicismo trionfante, razzismo a dosi massicce ed affermazioni totalitarie. Una “nuova era” di sonno della ragione annuncia le sorti del mondo? Il virtuale annulla e sostituisce il reale. Così, lo scopo della comunicazione non è informare ma intrattenere, non è confutare ma distrarre. Il tutto è sotto controllo.
Cerveteri, Ris (Echelon Italia) foto Gianni Lannes
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Capitolo secondo Colonia tricolore La sudditanza italiana decolla ufficialmente il 16 marzo 1949, quando Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, alla conclusione del dibattito sull’adesione all’Alleanza atlantica, afferma alla Camera dei Deputati: «Nessuno ci ha mai chiesto basi militari, e d’altra parte non è nello spirito dei patti di mutua assistenza fra Stati liberi e sovrani, come il patto atlantico, di chiederne o concederne». Il beato De Gasperi, oggi in odore di santità, il 27 gennaio 1950, ha impegnato il nostro Paese col primo accordo «di mutua assistenza difensiva» dal quale prese avvio l’insediamento di basi americane e della Nato in Italia. Questo accordo e gli altri che seguirono sul medesimo argomento furono sistematicamente sottratti all’esame del Parlamento italiano e sono tuttora segreti come il fondamentale “Bilateral Infrastructure Agreement” o il più recente “Stone Ax”. Il BIA fu siglato a Roma il 20 ottobre 1954 dall’ambasciatrice Luce e dal ministro Scelba, ad esso sono strettamente collegati undici annessi per ciascuna base, un accordo tecnico aereo (30 giugno 1954) ed un accordo tecnico navale. Tale accordo regola le modalità per l’utilizzo delle basi ed infrastrutture concesse in uso alle Forze Usa, per un’ampia libertà di manovra sul territorio nazionale. Il BIA vanta un’elevata classifica di segretezza: le sue clausole non possono essere rese pubbliche unilateralmente, poiché il regime “top secret” è stato deciso consensualmente dai governi americano e italiano. Il segreto è relativo alle infrastrutture, ai compiti, alla distribuzione di uomini e mezzi, al tipo di presenza militare nelle varie basi. L’accordo bilaterale sulle infrastrutture trae fondamento dal Trattato di Washington, costitutivo dell’Alleanza atlantica, che all’articolo 3 fissa le norme sull’assistenza militare secondo cui «le parti manterranno e svilupperanno la loro capacità individuale e collettiva di resistenza a un attacco armato». Tale assistenza comprende sia i sistemi d’arma e le installazioni della Nato sia gli accordi bilaterali in virtù dei quali l’Italia accetta di ospitare in proprio basi e uomini e mezzi delle forze armate Usa con intese specifiche che sarebbero state arricchite e modificate nel corso degli anni. Inoltre, l’accordo ombrello trae origine dalla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 per la costituzione
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del Nato Status of Forces Agreement (SOFA), ratificata dall’Italia nel 1955, che fissa le regole generali che si applicano alle forze armate di ciascun paese membro dell’Alleanza che operino in uno stato diverso da quello di origine. Le forze armate godono di sostanziale extraterritorialità. Il Parlamento è sempre stato tenuto all’oscuro. I negoziati vengono condotti dal ministro Paolo Emilio Taviani che così li ricorda in un suo libro: «Gli accordi simili conclusi in Belgio e in Olanda vennero ratificati dai rispettivi parlamenti. Noi abbiamo deciso di non farlo». Per ottenere la definizione dell’accordo bilaterale con il governo Scelba, il governo Usa appoggia la candidatura italiana per l’ammissione all’Onu. Nel settembre del 1955 le truppe d’occupazione americane (5 mila uomini) vengono trasferite dall’Austria a Vicenza. Nasce il Setaf: una forza americana dotata di missili a breve raggio Honest John e Corporal a capacità nucleare. Un documento storico di fondamentale importanza è una lettera che reca la data del 12 aprile 1956. La missiva fu inviata dal segretario di Stato americano dell’epoca, John Foster Dulles, al segretario della Difesa, Charles Wilson. Il documento è stato reso pubblico, vale a dire declassificato, il 20 ottobre 1995. Ecco il testo: «Caro signor Segretario, mi riferisco alla sua lettera del 22 dicembre 1955, concernente la richiesta dell’ufficio congiunto degli Stati maggiori di immagazzinare armi nucleari nella Francia metropolitana e in Italia, e alla mia risposta interlocutoria del 24 gennaio 1956. La questione concernente la Francia è attualmente materia di discussione fra le nostre amministrazioni. L’ambasciatore Luce (Clare Booth Luce, ambasciatore degli Usa a Roma dal marzo 1953 al gennaio 1957, nda) ha discusso lo spiegamento di armi atomiche in Italia con il ministro della difesa Taviani. Il ministro italiano della difesa ha assicurato l’ambasciatore che gli Stati Uniti possono liberamente procedere con lo spiegamento. Sono d’accordo con lo spiegamento di armi atomiche in Italia. Prendo nota dell’assicurazione contenuta nella sua lettera del 22 dicembre secondo cui il Dipartimento di Stato verrà informato in anticipo della data in cui avrà inizio lo spiegamento in Italia di armi speciali. Quando questo spiegamento sarà completato, il Dipartimento di Stato si propone di autorizzare l’am-
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basciatore Luce, se lo ritiene necessario alla luce della sua conversazione con Taviani, a informare il generale Mancinelli, capo di stato maggiore, in merito alla generale ubicazione dei siti». L’Archivio storico del Senato è una miniera d’oro da compulsare con attenzione: in particolare le carte e i diari di Amintore Fanfani. Dalla metà degli anni Cinquanta del XX secolo in Italia, da nord (Veneto) a sud (Puglia) sono state schierate alcune centinaia di armi atomiche nordamericane, dalle devastanti testate termonucleari montate sui missili balistici Jupiter e sui missili da crociera Gryphon destinati ad essere lanciati direttamente contro l’unione Sovietica, a quelle tattiche montate sui vari missili Corporal, Honest John (montavano testate nucleari W7 e W31), Sergeant e Lance, concepiti invece per essere impiegati contro le forze armate del Patto di Varsavia. La logica a cui rispondeva la scelta di accettare questi armamenti sul territorio nazionale, i problemi politici che la loro presenza poneva sul piano interno e internazionale, i dati relativi alla loro capacità distruttiva, alla durata del loro schieramento e alle modalità del loro eventuale impiego, non sono mai stati al centro di una disamina parlamentare, né tantomeno pubblica. Nel dicembre del ‘56 Taviani era così contento da dichiarare, durante la sessione del Consiglio atlantico, che il governo italiano auspicava «che nel settore dell’Italia centrale e meridionale ci fossero altre unità di questo tipo». Nell’agosto del ’58 i generali Norstad e Disosway stabilirono che almeno una delle due squadriglie di missili Jupiter fosse schierata in Puglia, riscontrando l’approvazione del governo italiano. Il documento formale sottoposto all’attenzione di Fanfani stabiliva che l’accordo fosse concluso tra il ministero degli esteri italiano e l’ambasciata americana mediante «uno scambio di note relativo sia allo schieramento dei missili sia all’ingresso in Italia del personale statunitense, in conformità degli accordi preesistenti relativi alle infrastrutture bilaterali e alle forze americane in Italia». Fanfani rispose esprimendo il suo «assenso di massima e la piena comprensione per il bisogno di fare in fretta», ma soprattutto sottolineò l’importanza di conservare il silenzio sull’iniziativa quanto più a lungo possibile. In questa fase del negoziato il segreto fu infranto da una notizia diffusa dall’Associated Press, a New York, ripresa repentinamente dal quotidiano L’Unità.
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Il 26 settembre anche il New York Times pubblicò un altro articolo sulla decisione italiana di schierare i missili atomici. Il 30 luglio 1958 Amintore Fanfani incontra alla casa bianca il presidente Dwigt Eisenhower e Foster Dulles. Il presidente del Consiglio comunica loro in segreto l’intenzione di accettare la richiesta per l’installazione nello Stivale dei missili balistici a raggio intermedio Jupiter. L’Italia è il primo degli alleati europei ad accogliere armamenti nucleari. Ottiene semplicemente la promessa di diventare la nazione favorita negli scambi commerciali. La reazione dell’Urss giunge il 21 ed il 28 aprile 1959. Chruscev avverte che, «in caso di guerra, l’Italia sarebbe diventata uno dei primi obiettivi di distruzione atomica e quindi avanza la proposta di una denuclearizzazione del nostro paese, in cambio della creazione di una zona di pace nei Balcani». La proposta non viene accolta. In compenso si aprono i negoziati Italia-Usa per l’uso dell’energia atomica a scopo militare: reciproca difesa e stoccaggio in Italia di testate atomiche statunitensi. Fanfani annota che «lo schieramento dei missili è diventato l’elemento centrale e non sacrificabile della politica estera italiana, tanto più importante di fronte alle nuove sfide che si stavano delineando sul fronte europeo» (Diario Fanfani, 15 ottobre 1958, in Archivio Storico Senato, Carte Fanfani). All’inizio del 1959 iniziarono le spedizioni di materiale dagli Usa verso l’Italia. Il primo missile fu collocato il 13 gennaio 1960. I tre missili successivi arrivarono a Gioia del Colle in febbraio, seguiti da altre spedizioni in aprile, luglio e settembre 1960. «Il 2 aprile 1960 lo Stato maggiore dell’Aeronautica istituì la 36ª aerobrigata interdizione strategica (Abis) che avrebbe provveduto al lancio dei missili insieme ad alcune piccole unità di personale americano», si legge nella Circolare 23 aprile 1960 dello Stato maggiore aeronautica (In Memorie storiche 36ª aerobrigata interdizione strategica (Abis), Archivio Ufficio Storico Stato maggiore Aeronautica – Aussma). La 36ª Abis schierò due squadriglie, ciascuna su cinque gruppi. Ogni gruppo controllava tre piazzole di lancio in condizioni operative permanenti. Le testate nucleari si trovavano permanentemente sui missili e non erano custodite a parte da speciali unità americane, in violazione della legge McMahon, che regolamentava la politica nucleare americana. Nel 1961 un gruppo del Joint Committee on Atomic Energy (JCAE), guidato dal deputato Chet Holifield, aveva com-
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piuto un’ispezione a Gioia del Colle, dove erano posizionati i missili Jupiter, dotati di testate nucleari, ciascuna delle quali era cento volte più potente delle atomiche esplose in Giappone. La conclusione dell’ispezione era allarmante, poiché i missili a combustibile liquido erano legati a installazioni fisse e quindi soggetti a probabili attacchi preventivi: «in ciascuna postazione ci sono due ufficiali e due avieri americani (…) Gli ufficiali sono addetti all’autenticazione per il lancio e gli avieri sono i custodi della testata. I custodi che prestano servizio a turno, si trovano in una posizione dalla quale possono prendere atto che le testate sono sui tre missili in ogni momento (…) La chiave non viene portata al collo dell’ufficiale, ma conservata in una cassaforte nel centro di controllo del lancio (“Report on Visit to Jupiter Sites in Italy, dated September 18”)». I piani Nato di lancio degli Jupiter erano coordinati con il “SIOP”, il progetto generale integrato di Guerra atomica approvato dal presidente degli Stati Uniti (“Single Integrated Operational Plan”). All’inizio del 1961 Kennedy concretizzò una revisione strategica della Nato, anche sulla base del rapporto Acheson. La lunga relazione fu ufficialmente adottata dal presidente Kennedy con la direttiva NSAM 40 del National Security Memorandum (21 aprile 1961). Nel loro primo incontro con il presidente Kennedy (giugno del 1961), il presidente del consiglio Fanfani e il ministro degli esteri Segni sottolinearono apertamente che «l’Italia era il paese che aveva accettato i rischi maggiori. Ciò le dava il diritto di essere consultata più di ogni altro» e che «era necessario che ci fosse un adeguato livello di controllo da parte del governo italiano in merito all’impiego di queste armi». Nell’autunno del ’62 si sfiorò l’apocalisse atomica, durante la crisi di Cuba, a causa di minacciate ritorsioni dell’URSS contro l’Italia. Il 13 dicembre 1962, a Parigi, il ministro della difesa Giulio Andreotti fu informato — durante la riunione del consiglio atlantico — che gli Usa intendevano smantellare gli Jupiter entro il primo aprile del 1963, per rimpiazzarli con i missili Polaris, schierati nel Mediterraneo a bordo di sommergibili a stelle e strisce. Il 5 gennaio 1963
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McNamara ribadì l’intenzione americana di rimuovere gli Jupiter in una lettera indirizzata al ministro della difesa italiano. Nel diario di Fanfani, nei giorni 16 e 17 gennaio 1963, è scritto: «Comunico alle 10 con Kennedy, discutendone le condizioni: quelle di ieri enunciate da Rusk e concordate da me con Mcnamara, più che i sottomarini Usa non abbiano basi in Italia, più che l’Italia faccia parte del comitato Nato per studiare, controllare e dirigere forza multinucleare multilaterale. Accetta e fa trascrivere queste mie condizioni in un foglietto in due copie, una per lui e una per me. Gli chiedo di cancellare un rigo a proposito di basi nel Mediterraneo, che poteva far supporre in Italia, ed egli personalmente lo cancella nelle due copie». Il primo aprile 1963 un sottomarino americano equipaggiato con missili Polaris stazionava nelle acque territoriali italiane. Il primo luglio 1968 è stato firmato, e successivamente ratificato dagli Usa e dalla Repubblica italiana, il “Trattato di non proliferazione nucleare”, che contiene nel primo articolo l’obbligo degli stati nucleari di non lasciare a disposizione di nessuno, né in modo diretto, né indiretto, armi nucleari. Per la base di Santo Stefano alla Maddalena, i primi contatti risalivano al 1964, quando era stata espropriata una vasta area privata dell’isola e, successivamente, erano stati scavati in gran segreto un bunker e chilometrici cunicoli nella roccia. L’intesa bilaterale veniva perfezionata nel mese di luglio 1972 dal governo Andreotti, senza una ratifica parlamentare. Gli americani avevano ottenuto di poter attraccare nella base una nave a propulsione nucleare dotata di armamento missilistico atomico (Howard Gilmore), la cui funzione era di approvvigionare i sommergibili nucleari d’attacco, i famigerati “hunter-killer”. «Da tempo c’è la necessità di assicurare nel Mediterraneo un valido e stabile equilibrio di forze — sosteneva il ministro degli esteri Medici». Nel discorso al Senato (6 ottobre 1972) Medici dichiara: «il governo ha dato il proprio consenso, nello spirito dell’alleanza, affinché una nave appoggio americana possa stazionare alla Maddalena». Quindi il ministro minimizzava i termini dell’intesa: «Si tratta soltanto di una nave appoggio e perciò non vi è alcuna intenzione di costituire alla Maddalena una base nucleare. Tale nave appoggio ha il compito di fornire ai sottomarini nel Mediterraneo l’assistenza di carattere ordinario di cui oggi pos-
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sono fruire. Certo — ammetteva Medici — tra questi sottomarini ve ne saranno anche a propulsione nucleare, ma questo non modifica i termini del problema, posto che tale sistema energetico è da tempo collaudato sia nelle centrali per la produzione di energia elettrica sia nella propulsione di navi commerciali». L’occupazione della sesta flotta USA è terminata soltanto nel 2008 con un pesante inquinamento radioattivo attestato dal Criirad (Commissione di Ricerca e di Informazione Indipendente sulla Radioattività) di Parigi e da uno studio accurato dell’università della Tuscia. Il 25 marzo 1986, l’allora ministro della Difesa, Giovanni Spadolini, aveva pubblicamente dichiarato: «Per quanto riguarda i rischi di esplosione di sommergibili nucleari, questi rischi esistono in tutte le regioni e in tutto il mondo, non soltanto alla Maddalena (…) L’ho detto una volta in Parlamento e lo ripeto, non sono in grado di impedire che il presidente Reagan mandi nel Mediterraneo i sommergibili nucleari, che possono esplodere presso le coste sarde, presso la Grecia, presso la Spagna, presso le Baleari». L’Italia non si limitò ad accarezzare il sogno dell’atomica, ma si attivò per realizzarla prima negli anni ‘50 in collaborazione con francesi e tedeschi, poi per conto proprio. Si eseguono tre prove di un missile in grado di essere equipaggiato con una testata atomica. I lanci di sperimentali avvengono in Sardegna, nel poligono militare di Quirra, all’estremo lembo sud-orientale della provincia di Nuoro. Gli esperimenti sono ancora coperti da segreto. Il primo test del missile Alfa, un vettore a due stadi, si svolge il primo febbraio 1973 mentre scorre la sesta legislatura del parlamento italiano. Presidente del consiglio dei ministri è Giulio Andreotti, responsabile della difesa è Mario Tanassi, mentre agli esteri siede Giuseppe Medici. Fino al 1976, data dell’ultimo lancio di prova, il quadro non muta: a Palazzo Chigi siederanno Mariano Rumor e Aldo Moro, alla Farnesina prima Rumor e poi Forlani, alla difesa Andreotti, Forlani e Lattanzio. Il progetto era effettivamente decollato nel 1971 con la denominazione “programma tecnologico diretto allo sviluppo di un carburante solido ad alto potenziale per razzi per applicazioni civili e militari”. Nessuna menzione della testata nucleare, nessun accenno alla vera natura dell’operazione. Bisognava dotare il missile Alfa della capacità di trasporto e sganciamento di testate atomiche. La costruzione della
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bomba non era un problema, le centrali nucleari civili allora erano in piena funzione e garantivano l’approvvigionamento di plutonio e le professionalità. Il primo lancio dell’Alfa, a testata inerte, avvenne nel 1973; l’ultimo noto nel 1976, dopo lo stop imposto dagli Alleati. Sarebbe toccato al governo Spadolini nell’agosto 1981 approvare la decisione di destinare l’aeroporto di Comiso, in Sicilia, quale base per i 112 missile Cruise, con i 28 lanciatori assegnati all’Italia dalla Nato. Programma che sarebbe stato confermato nell’agosto del 1983 dal presidente del consiglio Craxi. Ai giorni nostri, il primo Governo Prodi ha firmato nel maggio del 1996 il Memorandum d’intesa per il piccolo scudo missilistico. L’accordo quadro per lo scudo missilistico che coprirà tutta l’Italia è stato firmato dal secondo governo Prodi nel febbraio 2007 (grande scudo). La Meads International (joint venture internazionale con sede in Florida) ha ricevuto un primo contratto per 3,4 miliardi di dollari per il piccolo scudo. Il 17 per cento della cifra è a carico dell’Italia: mezzo miliardo di euro di denaro pubblico solo come primo anticipo di spesa. Durante gli anni successivi si pagherà il resto. Se il grande scudo è un sistema di difesa contro i missili intercontinentali, il piccolo scudo è invece «un sistema mobile, facilmente trasportabile in lontani campi di battaglia, utilizzabile contro missili tattici, aerei ed elicotteri (…) uno strumento non per la difesa ma per l’attacco: una sorta di testuggine destinata a proteggere i soldati statunitensi e alleati all’offensiva in distanti teatri bellici». A proposito di amnesie istituzionali, nel marzo 1999 il governo D’Alema, a seguito della strage del Cermis (20 vittime il 3 febbraio 1998), annunciò l’abolizione del segreto sul trattato bilaterale italo-americano del 1954 e su quello del 1995. L’accordo è tuttora segreto. Risaliva al marzo 1999, invece, la divulgazione di un altro accordo Italia-Usa denominato “Shell Agreement” datato 2 febbraio 1995, che sancisce i poteri del comandante italiano della base situata sul nostro territorio e quelli del comando Usa. Accordi in forma semplificata: nella prassi dei rapporti tra Stati parti di un’alleanza militare vengono frequentemente conclusi accordi in esecuzione di altri accordi precedentemente conclusi nei quali si faceva esplicito
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riferimento ad un’ulteriore normativa internazionale di dettaglio o tecnica. Gli accordi in forma semplificata sono accordi che, contrariamente a quelli conclusi in forma solenne e che necessitano della ratifica del Capo dello Stato e, quando occorra, dell’autorizzazione delle Camere (articoli 80 e 87 della Costituzione), entrano in vigore grazie alla sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari. Né in contrario può opporsi che gli accordi in forma semplificata non godano della necessaria pubblicità, dal momento che, fin dal 1984, tutti gli accordi conclusi dal nostro Paese (e quindi anche quelli in forma semplificata) devono essere pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Roberto Rivello, magistrato e docente di Diritto e Organizzazione internazionale, ha scritto a proposito: «negli accordi internazionali stipulati in forma semplificata si escludono le successive fasi, usualmente necessarie, della ratifica e dello scambio o deposito delle ratifiche del trattato stesso. La prassi degli accordi stipulati in forma semplificata è estremamente diffusa, e l’Italia ne ha fatto ampio uso proprio in materie di natura militare: basti ricordare i trattati, talvolta addirittura segreti, sulle basi NATO in Italia, ma anche i numerosi SOFA (Status of Force Agreement) ed altre forme di Memorandum d’intesa stipulati in ambito di Alleanza atlantica, che non possono che essere qualificati come tali. Inoltre nella più parte delle operazioni di pace keeping viene stipulato un SOFA fra il comando delle forze multinazionali e il Governo dello Stato in cui la missione ha luogo o dello Stato in cui avviene un transito delle truppe. L’accordo tra Italia e Stati Uniti d’America, del 20 ottobre 1954, sottoscritto dai rappresentanti dei governi dei due Stati e qualificato come segreto, è evidentemente un trattato internazionale stipulato in forma semplificata. La sua parziale comunicazione ai Comandanti militari italiani, insieme a disposizioni dello Stato maggiore che ne prevedono l’applicazione, può essere intesa come atto di esecuzione nell’ordinamento interno. Poiché il trattato verte su materie rientranti fra quelle di cui al disposto dell’articolo 80 della Costituzione, la sua stipulazione in forma semplificata può porre dubbi di legittimità costituzionale, difficilmente superabili sulla base della tesi, che oggi incontra solo sporadici consensi, secondo la quale in relazione agli accordi NATO sussisterebbe una generale fonte di legittimazione di accordi successivi nella presunta necessità di dare esecuzione al ge-
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nerico disposto dell’articolo III del Trattato Nord Atlantico. Questo non muta la natura giuridica dell’accordo, né comporta conseguenze automaticamente declassificanti gli atti di esecuzione, in senso lato, del trattato: solo dall’eventualmente ritenuta incostituzionalità del procedimento di formazione del trattato potrebbe derivare l’invalidità delle norme interne di esecuzione. Le successive intese intercorse fra le Autorità militari e, rispettivamente, il Governo italiano, le Autorità militari e il Governo statunitense (Memorandum d’intesa del 1993, Accordo tecnico del 1994, Memorandum del febbraio 1995), e gli organi NATO (Memorandum del dicembre 1995), possono analogamente qualificarsi come accordi stipulati in forma semplificata. Lo stesso “Trattato dell’Atlantico del Nord”, all’articolo 9, è attento ad esplicitare che gli accordi di cooperazione militare tra alleati dovranno essere applicati nei vari Paesi «in conformità con le rispettive procedure costituzionali». Le procedure costituzionali dell’Italia sono quelle sancite dagli articoli 80 e 87 della Costituzione. In proposito l’ammiraglio (in pensione) Falco Accame, già presidente della Commissione Difesa, ha le idee chiare: «Tutta la problematica che riguarda le basi NATO sul nostro territorio ha un aspetto comune: il fatto che il Parlamento italiano è tenuto all’oscuro della materia, quasi come se le basi non concernessero la sovranità del nostro paese. E questo è veramente sconcertante. Per capirlo occorre risalire alle clausole segrete del trattato di pace e dell’accordo bilaterale Italia-USA del 1954. L’accordo bilaterale è ancora in vigore e non se ne conosce neppure il contenuto. Anzi, secondo quello che diceva il professor Giovanni Motzo, ne esistono due versioni e non si sa quale sia quella vera». Sosteneva Motzo: «È ora di dire basta a quei patti firmati solo dal Governo e non sottoposti al Parlamento. Intese che riguardano anche le basi di truppe e accesso ai missili. Visto che si va verso un quadro internazionale in cui i conflitti locali tendono ad estendersi sempre di più e la presenza o il passaggio nel territorio nazionale di forze militari e mezzi bellici stranieri sarà sempre più frequente, la disciplina dovrebbe essere cambiata (...) Si conoscono solo alcune clausole: si dice che gli Stati si impegnano a prestarsi assistenza reciproca. Si prevede l’impiego di consiglieri militari in Italia. Si sta delineando una nuova
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situazione e, quindi, ancor più, si tratta di non accettare più una Repubblica fondata sul segreto, o meglio sulla clandestinità. La disciplina che regola la presenza delle basi deve essere cambiata, dovremmo fare nuovi accordi internazionali, ma, questa volta, sottoposti al controllo del Parlamento. Non devono esistere isole di segretezza alle quali nessuno può accedere. Le basi USA e NATO sono state costituite sulla premessa di un presunto stato di necessità determinato da quella che fu definita la minaccia sovietica. Oggi, che questa minaccia è scomparsa, le basi non sono però scomparse, anzi, si nota addirittura un deciso incremento nella loro consistenza in uomini e mezzi. Tutto il territorio, da Aviano a Lampedusa, è disseminato di basi americane. Esistono 12 piani di evacuazione per emergenza nucleare dai porti italiani che potranno ospitare unità nucleari. I piani di emergenza dovrebbero essere conosciuti, ovviamente, da tutta la popolazione e sperimentati per valutarne la attuabilità. Sono invece per lo più sconosciuti. Di un solo piano si è venuti a conoscenza: è quello che riguarda la base navale di La Spezia. Ma, con non poco stupore, abbiamo appreso che il piano riguardava l’evacuazione dei soli militari, e non dei civili». Placido Nord-est, colonizzato in piena regola. Spuntano come i funghi nel vicentino i centri e le infrastrutture logistiche dell’esercito Usa. Mentre nell’ex aeroporto Dal Molin procedono i lavori ad altissimo impatto ambientale per realizzare la grande base operativa della 173ª Brigata aviotrasportata, il reparto d’élite impiegato negli scacchieri di guerra mediorientali, ingegneri e tecnici del genio militare statunitense lavorano a decine di cantieri della provincia. Recentemente sono state consegnate due nuove facilities costate più di 60 milioni di dollari, un complesso ospedaliero avanzato all’interno della base di Camp Ederle e un centro di assistenza all’infanzia nel cosiddetto “Villaggio della Pace”, il residence-bunker che ospita una parte dei militari Usa di Vicenza. L’Enhanced Health Service Center è stato realizzato in una superficie di 14.170 metri quadri accanto al campo di calcio di Ederle ed accoglie presidi medici, studi dentistici, un centro maternità, numerosi uffici e ambulatori. Nel complesso lavorerà un’équipe medica di oltre 200 persone. «Si tratta del più grande progetto di costruzione in Europa di un centro sanitario Usa negli ultimi 30 anni»,
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ha dichiarato il responsabile dell’USAG Vicenza Health Center, il colonnello Lorraine T. Breen. «Il presidio, costato 47,5 milioni di dollari, amplierà i campi d’assistenza per i militari e i familiari», aggiunge Breen, avvertendo però che gli statunitensi «continueranno ad utilizzare l’ospedale San Bortolo dell’Azienda Sanitaria Ulss 6 di Vicenza per altri più importanti interventi sanitari». Il nuovo centro di salute dell’US Army è stato progettato dagli studi R.L.F. della Florida e Nesco International di Roma, e realizzato da una joint venture composta dall’azienda tedesca Bilfinger e Berger (ditta che a bari ha smantellato motrici e carrozze ferroviarie imbottite d’amianto, en plein air) e da Pizzarotti Parma, una delle società di costruzioni che compongono il ristrettissimo circolo dei contractor di fiducia delle forze armate Usa in Italia. Il nuovo Child Development Center del “Villaggio della Pace” potrà accogliere sino a 348 bambini “per programmi a tempo pieno o parttime”. Costato 13,1 milioni di dollari, sorge accanto al polo scolastico di recente realizzazione, ed è dotato di confortevoli aule, palestre, sale-gioco. Il centro di assistenza all’infanzia è stato realizzato dalla CMC - Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna, la stessa che con il CCC - Consorzio Cooperativo Costruzioni di Bologna sta eseguendo i lavori al Dal Molin. Le due infrastrutture realizzate e consegnate all’US Army fanno parte di un pacchetto di opere progettate dal Dipartimento della Difesa Usa per fare di Vicenza, secondo quanto enfaticamente annunciato, la «capitale dell’esercito statunitense di stanza in Sud Europa e modello per tutti gli altri presidi militari del Comando USA nel vecchio continente con le facilities meglio mantenute, i servizi di più alta qualità, l’ambiente più sicuro e la più efficiente organizzazione». L’obiettivo è quello di assicurare tutti i requisiti per ospitare nel modo migliore a Vicenza 4.200 soldati Usa entro il 2015, più ovviamente i rispettivi familiari a carico. Un piano ambizioso per cui sono stati investiti 465 milioni di dollari, 289 milioni dei quali destinati all’ex aeroporto Dal Molin per la costruzione di caserme-alloggio per 2.000 militari, magazzini, spazi operativi, officine di manutenzione velivoli, uffici e centri comando, centri sportivi, eccetera. Tra i progetti più rilevanti già completati: a Camp Ederle spiccano due caserme-alloggio per circa 300 militari del 173 Airborne Brigade
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Combat Team (lavori per 25 milioni di dollari appaltati alla Pizzarotti Parma), un Centro sanitario neonatale (costo 3,2 milioni di dollari, realizzato dall’Impresa Costruzioni Andriolo Srl di Vicenza), un Kinder Garten (Andriolo Srl), un’arena per spettacoli e attività ludiche con centro bowling, fast food, ristorante e piccolo casinò (Maltauro Costruzioni di Vicenza), e l’Ederle Inn, l’hotel riservato agli ufficiali statunitensi con 58 suite familiari, lavanderia, ampi magazzini e parcheggio, sale conferenze, breakfast room e finanche «alcune stanze per i cani mascotte al piano terra». Attualmente sono in via di completamento a Camp Ederle l’ammodernamento ed ampliamento del fitness center e la realizzazione di una nuova piscina hi-tech con copertura vetrata in parte retraibile (costo complessivo dei due progetti 4,3 milioni di dollari). A fine 2007 è stato portato a termine invece il cosiddetto “Vicenza Installation Information Infrastructure Modernization Program (I3MP)”, il programma di ammodernamento delle infrastrutture di telecomunicazione del 509th Signal Battalion dell’US Army. Avviato nell’aprile 2002, esso è servito a potenziare la rete a fibre ottiche e ad alta velocità che collega tra loro i centri operativi di Camp Ederle, il “Villaggio della Pace”, i depositi e magazzini di stoccaggio dell’Us Army di Lerino (frazione del comune di Torri di Quartesolo) e Longare (i lavori sono stati eseguiti dalla tedesca Siemens e da subappaltatori locali). Secondo fonti del MILCON, il Corpo del Genio della Marina USA che sovrintende alla realizzazione delle opere, nel solo biennio 2008-2009 sono stati finanziati più di un centinaio di piccoli progetti di “costruzione”, “manutenzione” e “ammodernamento” nelle basi militari del vicentino, per un valore complessivo di 37 milioni di dollari. Top secret le finalità dei lavori avviati nel 2007 nella base di Longare, l’ex “Pluto Site”utilizzato per l’immagazzinamento di mine e testate nucleari per i missili a corto raggio dell’US Army. Nelle profonde gallerie della base sarebbero stati ammodernati e riattivati i depositi di stoccaggio armi, munizioni e attrezzature della 173ª Brigata Aviotrasportata e dei reparti che saranno utilizzati in ambito AFRICOM, il Comando USA per le operazioni nel continente africano di recente costituzione. Dal dicembre 2008 l’unità statunitense della Riserva di stanza a Longare è stata posta agli ordini del 7° Civil Support Command dell’US Army con base in Germania,
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l’unico presente fuori dagli Stati Uniti d’America, responsabile della gestione degli affari civili delle forze terrestri USA in Europa. Alla vigilia dell’attivazione del Civil Support Team di Longare, i militari ad esso assegnati hanno condotto una controversa esercitazione di 76 giorni nel poligono di Fort Leonard Wood (Missouri) simulando uno scenario realistico di guerra chimica con l’uso di gas nervini. Successivamente il CVT di Longare ha avviato corsi basici per i residenti USA di Vicenza sulle armi nucleari, chimiche e batteriologiche e sull’equipaggiamento personale di protezione. I mass media propagandano l’immagine dell’Italia come di un paese libero e democratico, in cui la popolazione gode di potere politico ed economico. Ma è davvero così? Il sospetto che l’élite egemone economico-finanziaria si sia appropriata del Belpaese e che lo stia guidando verso il baratro, è venuto persino al Financial Times. Infatti, in un articolo del 16 marzo 2006 si legge che «L’Italia sta seguendo la stessa strada dell’Argentina verso la rovina». L’autore del pezzo, Richard Perle, è un esponente della destra americana, quindi è complicato immaginare che abbia voluto mettere in cattiva luce Berlusconi. Il paragone fra l’Italia e l’Argentina nasce da considerazioni finanziarie, precisamente dalla scelta italiana di assumere l’euro come propria valuta, pur essendo il paese condannato ad avere un’economia debole, a causa delle scelte di politica economica effettuate dai governi, che tendono ad avvantaggiare il capitale straniero piuttosto che lo sviluppo del paese, come accade in una colonia. Anche l’Argentina, agganciando la propria valuta al dollaro, si trovò a fare i conti con una moneta forte, mentre la sua economia era in mani straniere. Oggi l’Italia è il paese europeo meno competitivo e che ha più aziende in mani estere. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea stanno col fiato sul collo per controllare i pagamenti del debito, ignorando il livello di benessere o di povertà materiale dei cittadini italiani. Infatti, pur di esigere i pagamenti, il FMI non esita a chiedere tagli alla spesa pubblica (sanità, scuola, amministrazione e ulteriori privatizzazioni). Lo scopo principale del FMI (un istituto finanziario controllato dai banchieri anglo-americani) è quello di impoverire i cittadini italiani, in armonia con ciò che già nel 1998 svelava Zbigniew Brzezinski, nel suo libro La grande scacchiera: il
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primato americano e i suoi imperativi geostrategici. L’eccessivo benessere dei paesi dell’Europa occidentale, secondo Brzezinski, era un grave ostacolo, poiché tale livello di ricchezza era più elevato rispetto a quello della media dei cittadini americani, ed essendo l’Europa considerata un protettorato americano, ciò risultava inammissibile: «L’Europa ha una posizione fondamentale di fortezza geostrategica per l’America. L’Alleanza Atlantica autorizza l’America ad avere influenza politica e peso militare sul continente (…) L’Europa Occidentale è in larga misura un Protettorato americano e i suoi Stati ricordano i vassalli e i pagatori di tributi dei vecchi imperi». L’Europa doveva essere indebitata e impoverita affinché il dominio statunitense potesse imporsi su tutta l’Eurasia. Occorreva con urgenza impoverire i ceti medi. Le campagne mediatiche fanno credere che il FMI e la BCE tengano alla stabilità del paese, o alla competitività delle aziende italiane, mentre è l’esatto opposto: vogliono tenere in scacco l’intera economia del paese, strozzandola con il debito e rendendola poco competitiva attraverso varie strategie. Un paese risulta soggetto al dominio coloniale quando non è padrone del proprio territorio e non sceglie liberamente la propria organizzazione politica ed economica. I diritti degli indigeni coloniali sono subordinati agli interessi della potenza dominante, che si erge al di sopra delle leggi. Le autorità dei paesi coloniali esigono ingenti pagamenti, come accade con le banche titolari del nostro debito, che impongono alle nostre autorità di elaborare una finanziaria annuale per pagare il debito. Il debito è in realtà una forma di tassazione imposta dalle banche, architettata in modo tale che i cittadini credano di aver ricevuto qualcosa da dover pagare, mentre invece si tratta di una tassazione di tipo coloniale, cioè creata per impoverire i cittadini e arricchire il sistema di potere. Il debito imposto all’Italia è talmente alto che nel 2002 equivaleva ad un terzo del debito pubblico complessivo di tutti i paesi dell’Unione Europea (che era di 4.707,7 miliardi di euro). Nonostante le manovre finanziarie che hanno dissanguato il paese, nel gennaio 2007 il debito era ancora di 1.605,4 miliardi, e aumenta sempre più; ed ora gonfiato artificiosamente, ha sfondato il tetto dei 2 mila miliardi di euro. Non sarà mai estinto, affinché l’Italia possa rimanere in eterno assoggettata all’élite economica. Le finanziarie hanno anche l’obiettivo di stanziare denaro per la par-
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tecipazione alle guerre del paese dominante, e nell’ultima finanziaria il governo ha aumentato tali spese, addirittura per un paese che non ha nemici e ufficialmente non è in guerra. Si comprende tale spesa soltanto se si pensa che ogni paese sottomesso ad un potere coloniale è obbligato a partecipare alle spese militari del paese imperiale. Gli italiani pagano il 41 per cento del costo di stazionamento delle basi americane, si tratta mediamente di 366 milioni di dollari all’anno. Proprio come una colonia, subiamo un’occupazione militare e siamo anche costretti a pagarla a caro prezzo; e se a ciò si aggiunge che noi non abbiamo alcun potere sulle questioni finanziarie ed economiche dell’Italia, si può dire che la loro condizione è simile a quella del suddito sottomesso ad un potere che non accetta alcuna limitazione. La popolazione italiana viene persuasa, addirittura con artifici subliminali, di avere potere politico, in quanto alle elezioni possono scegliere fra destra e sinistra, ma quando essi chiedono che venga rispettata concretamente la loro volontà (ad esempio nel caso della no-Tav o della base “Dal Molin” di Vicenza), si scatena un putiferio mediatico e politico, per evitare di concedere il benché minimo reale potere. Tre grandi banche, Morgan Stanley, Goldman Sachs e UBS, possono far salire o scendere qualsiasi titolo, avendo nelle mani il 70 per cento del credito speculativo mondiale, e potendo diffondere notizie che condizionano il comportamento degli investitori. Manovrando il valore delle azioni, si condiziona l’andamento dell’azienda, e ciò consente ai grandi colossi bancari di preparare il terreno per appropriarsene a buon mercato, come è già accaduto con la Grecia. Si taglia sui servizi e sui diritti, si mantengono i privilegi dei ricchi, non si intaccano gli interessi dei produttori di armi. Il problema delle spese militari non è solo una questione sociale ed economica, si lega a conseguenze materiali e indegne per un Paese che ripudia la guerra nella sua Costituzione. Il problema non è neanche circoscrivibile al solo esercito italiano. Ultimo caso in ordine cronologico è l’Hub. Ovvero il progetto di trasformazione dell’aeroporto militare di Pisa in un centro strategico fondamentale della Nato, a disposizione di tutte “le forze armate che avranno bisogno di spostarsi per via aerea per tutte le missioni in teatri internazionali”, come ha spiegato il portavoce della 46ª aerobrigata.
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Capitolo terzo Guerre in santa pace L’Italia è in guerra? La battuta a prestito è di Stefano Benni: «Cittadini italiani. Qui è Silvio W. Berlusconi che vi parla. Anche se la propaganda comunista e vaticana cerca di convincervi del contrario, i miei avvocati mi hanno rassicurato che: a) l’Italia non è belligerante b) non solo non è belligerante, ma non è neanche in guerra c) non c’è in realtà nessuna guerra. Non abbiamo mai concesso né basi né spazio aereo agli americani. Era già tutto loro. Le basi americane sono da tempo territorio Usa a tutti gli effetti, occupano uno spazio grande come una regione e non sono ancora Stato Usa autonomo perché stanno decidendo per il nome: Italiaska o New Pizzland. In quanto alla spazio aereo, gli americani ci scorazzano già da anni, basta pensare al Cermis o a Ustica» (Il Manifesto, 26 marzo 2003). I nostri ufficiali sono inseriti a pieno titolo nel comando Nato/Isaf di Kabul, che indica all’aviazione Usa gli obiettivi da colpire, dove si presume possano nascondersi i maledetti talebani. In Afghanistan dal cielo piovono anche sui civili ordigni da 1 tonnellata e grappoli di mine. La guerra aerea ha provocato un crescente numero di vittime tra la popolazione. Un esempio? Nella provincia di Kapisa, sono stati ripetutamente disintegrati dai bombardamenti con bombe da demolizione bambini, donne e vecchi. Il B-1B è un bombardiere strategico Usa per l’attacco nucleare, che ci fa in Afghanistan? Durante una missione può sganciare 24 Gbu-31 Jdam a guida Gps da 2 mila libbre (quasi una tonnellata), 8 Mk-82 da 500 libbre, 30 bombe a grappolo di vario tipo e decine di altre munizioni letali. Anche i caccia italiani (Tornado ed Am-x) sono equipaggiati con bombe “Jdam”. Chi lo attesta? A Roma, i bilanci del ministero della Difesa. L’ultima fornitura nota della Direzione generale armamenti aeronautici risale al 31 dicembre 2006: «Acquisto di spolette multifunzione tipo ID 260 MF di nuova generazione per bombe a guida precisa della serie MK 80, Paveway, Jdam, Opher e Lizard impiegate sui velivoli da combattimento dell’A.M.». Ogni volta che i militari avvolti dal tricolore muoiono nelle durature guerre all’estero, scorrono, immancabilmente in diretta televisiva, copiose lacrime di coccodrillo. Dopo una pausa con le squillo, il capo del governo in carica aveva trovato il tempo per esternare in viva voce discorsi preconfezionati a tavolino. Berlusconi
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Silvio, prima di cedere carica e poltrona a Monti Mario, aveva detto: «È una giornata dolorosa. Bisogna mantenere le truppe italiane in Afghanistan e far crescere la democrazia per evitare le infiltrazioni terroristiche». Non è stato da meno il ministro della Difesa, La Russa Ignazio che qualche istante prima di congedarsi ha sbottato: «Dolorosa e triste circostanza. Un attentato che non ci fermerà». Il trio non è al completo senza l’intervento di Schifani Renato, presidente del Senato: «In Afghanistan noi italiani siamo dalla parte della giustizia, della pace e della democrazia». E altrove? Insomma, siamo circondati da un’apocalisse di bontà. La casta in scena non ha più nemmeno il coraggio di chiamare le cose col loro nome. Non guerra ma “peacekeeping” o “azioni umanitarie”; non ordigni ma “bombe intelligenti”. In realtà siamo invasori sotto l’egida Usa. Ormai l’Alleanza atlantica si è trasformata nel braccio armato di un’egemonia totalitaria, assumendo compiti e funzioni che hanno esautorato l’Onu. L’Italia calpesta la sua Costituzione partecipando attivamente ad azioni belliche in mezzo mondo, non certo difensive della propria integrità territoriale. Tradotto: si fa la guerra. Le conseguenze, in primis, sovente si pagano con la perdita di giovani vite umane. Gli Stati Uniti d’America attraverso la Nato hanno collaudato la subalternità dell’Europa. A parte le amnesie affaristiche. L’Afghanistan è disseminato di mine nostrane sfornate dalla Fiat (Borletti e Valsella). Conti alla mano, siamo tra i maggiori esportatori al mondo di armi, in barba, tra l’altro, alla legge 185 del 1990, sapientemente smantellata (grazie al sostegno trasversale del centro-sinistra dallo stesso “unto del Signore”, per mano del pregiudicato Previti Cesare, Ruggero Renato, Martino Antonio e Selva Gustavo). Non è quindi una sorpresa, se nell’ottobre 2004, Berlusconi in persona partecipando alla presentazione di un velivolo Aermacchi ha assicurato il proprio appoggio all’industria della guerra: «Mi chiedete che il vostro presidente del Consiglio divenga il vostro commesso viaggiatore. Lo sto facendo: credo che attirerò l’attenzione dei miei colleghi su questo nuovo prodotto della tecnologia italiana all’avanguardia nel mondo. Si prevede di avere ordinativi cospicui. Abbasseremo i costi attraverso la quantità». Capito l’antifona? Muti e fedeli alla consegna una volta fascista, oggi berlusconiana: “taci, il nemico ti ascolta”. L’invio di truppe italiane all’estero è solo l’ultimo passo di una escalation
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interventista, iniziata e consumata da un bel pezzo. Nel 1991, con il governo Andreotti, la Repubblica italiana combatte la sua prima guerra, partecipando all’operazione “Tempesta del deserto” lanciata dagli Usa. Sette mesi più tardi, in ottobre, il ministero della Difesa pubblica il rapporto “Modello di difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90”. È l’avvio della mutazione genetica delle forze armate: il loro compito, secondo il rapporto, non è più solo la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma la “tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario”. Viene così enunciata una nuova politica estera, con funzioni contrarie a quelle stabilite dalla Carta costituzionale. Una volta varato, il “Nuovo modello di difesa” passa da un governo all’altro, dalla prima alla seconda Repubblica e così via, senza mai essere discusso in Parlamento. A elaborarlo e applicarlo sono i vertici delle Forze Armate, ai quali i Governi lasciano piena libertà decisionale, pur trattandosi di una materia di basilare importanza politica repubblicana, ex antifascista. Nel 1993, mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi, lo Stato Maggiore della Difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli “interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici» (Stato Maggiore della Difesa, Aggiornamenti del modello di difesa, 1993). Nel 1995, durante il governo Dini, il medesimo Stato Maggiore fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale» (Stato maggiore della difesa, Modello di difesa, 1995). Nel 1996, durante il governo Prodi, «tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella sessione 47 del centro alti studi della difesa — afferma il generale Angioni —, diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera» (Informazioni della Difesa, suppl. al n. 4, 1996). Nel 1999 — dopo che il governo D’Alema ha ordinato la partecipazione dell’Italia, sotto il comando Usa, alla guerra contro la Jugoslavia, in particolare con i bombardamenti aerei in Kosovo ed il conseguente rilascio di ordigni nell’Adriatico — la marina militare annuncia che l’Italia, affermatasi quale “media po-
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tenza regionale”, ha «un crescente e solido ruolo geostrategico nel Mediterraneo allargato: spazio geopolitico comprendente, oltre al Mar Nero, anche le vie meridionali di accesso al Canale di Suez; vale a dire il Mar Rosso fino allo Stretto di Bab el-Màndeb e, più oltre, il Golfo Persico che, attraverso lo Stretto di Hormuz, è intimamente collegato al sistema mediterraneo di rifornimenti energetici» (Marina militare italiana, Rapporto 1999). Su questa falsariga, dopo l’11 settembre, il governo Berlusconi invia le truppe tricolori prima in Afghanistan e quindi di nuovo in Iraq, offrendo più recentemente un gratuito sostegno in armi ai cosiddetti ribelli libici (la fornitura di armamenti depositati nel bunker dell’isola di Santo Stefano alla Maddalena, frutto di un sequestro giudiziario). Infine, c’è la spesa approvata in gran silenzio dalle commissioni Difesa della Camera e del Senato per l’acquisto di 131 aerei cacciabombardieri del costo di 100 milioni di euro l’uno (salvo lievitazioni: con 100 milioni di euro si potrebbero costruire 400 asili nido o pagare l’indennità di disoccupazione ad 80 mila precari). Visto che la guerra fredda è finita e che non dobbiamo invadere la Cina, rinunciare a questi strumenti di morte meglio noti con la sigla F-35, in grado di trasportare ordigni nucleari, ci consentirebbe di risanare l’Italia per 15 miliardi di euro. Esattamente il bisogno finanziario stimato per la ricostruzione in Abruzzo, congelato inspiegabilmente da tre anni. Certe ferite non si rimarginano mai, almeno nella memoria di chi le ha subite. «Danno collaterale continuo». Si chiama così il rapporto redatto da Medact e dall’organizzazione International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), premio Nobel per la Pace nel 1985, secondo il quale la guerra in Iraq e le sue conseguenze hanno inflitto un pesante bilancio tra i combattenti e tra i civili, «che hanno pagato e continuano a pagare il prezzo della guerra in termini di morti, feriti e malattie fisiche e mentali». Questo conto dei morti, è chiaro, non è aggiornato, ma offre una misura alla dilatazione planetaria dell’orrore. Il documento diffuso il 29 novembre 2003 a Roma nel corso del Summit dei premi Nobel per la Pace, specifica: «tra 21.700 e 55.000 persone sono morte tra il 20 marzo ed il 20 ottobre 2003, mentre le conseguenze del conflitto sulla salute e sull’ambiente saranno sentite per molti anni a venire». Tra i morti
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iracheni il rapporto stima «10 mila civili e 45 mila militari molti dei quali erano ragazzini in servizio di leva». Da allora ad oggi non si sa quante siano le ulteriori vittime: impossibile verificare. Secondo John Bolton, ex sottosegretario per la sicurezza internazionale presso il dipartimento di Stato Usa, «tale cifra è piuttosto bassa se si considerano le dimensioni dell’operazione militare che è stata intrapresa». L’azione “Iron Hammer” (martello di ferro), ad esempio, ha utilizzato anche l’aviazione: un’escalation militare che è entrata nel vivo prima e dopo la cattura di Saddam Hussein, con i bombardamenti di caccia F-16 su Baghdad e Tikrit. Su Falluja, a parte il fosforo, già adoperato durante la seconda guerra mondiale in Italia, sono state sperimentate le micro bombe atomiche. Tanto per scrutare l’effetto che fa sugli “umani di serie non classificata”. Infatti, è stato scatenato dai militari Usa un inferno di fuoco, soprattutto dal cielo con gli AC 130 H Spectre, bestioni ipertecnologici capaci di colpire due obiettivi simultaneamente. L’esercito britannico ha ricoperto le aree urbane di “cluster bomb”. Gli americani hanno fatto altrettanto e in misura maggiore, aggiungendo munizioni all’uranio impoverito, il cui veleno radioattivo viene inalato inconsapevolmente da autoctoni e stranieri in missione di pace. Secondo Landmine Action e Human Rights Watch «Usa e Gran Bretagna hanno usato circa 1 milione di bombe a grappolo». Gli effetti delle bomblet sono facilmente prevedibili: diventano mine terrestri. Buoni, c’è di mezzo anche l’Italia. Il cartello che lo reclamizza recita: «Low cost, hi volume production». L’oggetto pubblicizzato è un esemplare del JDAM (una sigla che sta per Joint Direct Attack Munition, munizione interforze per attacco diretto) o, più semplicemente, un missile a caduta libera di ultima generazione. È il contributo “made in Italy” alla penultima guerra degli Stati Uniti d’America, prima della prossima aggressione calcolata alla Siria e all’Iran. Nell’Antica Mesopotamia gli Usa, oltretutto, hanno sperimentato nuove tecnologie militari a suon di bombe a guida satellitare “Jdam” che attualmente formano l’80 per cento dell’arsenale (nel ’91 erano appena il 10). Le bombe ad alto potenziale che gli aerei anglo-americani hanno sganciato a tappeto sull’Iraq sono dotate di un nuovo sistema di guida, costruito dall’industria italiana Alenia Marconi Systems (azienda della Finmeccanica, di cui il principale azionista è il ministero del Tesoro), che le rende ancora più
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micidiali. Si tratta di un perfezionamento della Jdam (in produzione alla Boeing dal ’98): un sistema che permette di trasformare le bombe stupide, a caduta inerziale, in “bombe intelligenti”, capaci di dirigersi sul bersaglio con un errore compreso tra 13 e 30 metri. L’effetto chirurgico, in teoria, è reso possibile dall’aggiunta di una nuova sezione di coda (un timone mobile controllato da un sistema elettronico) che guida la bomba sul bersaglio attraverso il sistema satellitare di posizionamento globale (Gps), abbinato al sistema di navigazione inerziale (Ins). «La bomba così modificata è abbastanza precisa» puntualizzano i tecnici dell’azienda pubblica italiana, pur essendo sganciata a un’altitudine che oscilla tra 9.150 e 10.675 metri per non esporre l’aereo al fuoco nemico. Il targeting è comunque ancora impreciso e per colpire un singolo bersaglio occorrono in media 6 di questi costosissimi ordigni (per il modello jsbw il prezzo cadauno è di 375 mila dollari). Le JDAM all’uranio sporco, il cui veleno radioattivo viene inalato inconsapevolmente da autoctoni e mercenari stranieri senza distinzione, sono identificabili in GBU-31 (bomba Mk-84 da 907 kg, disponibile anche con penetratore BLU-109), GBU-32 (bomba Mk-83 da 454 kg) o GBU-35 (Mk-83 con penetratore BLU110) e nella nuova GBU-38 (bomba Mk-82 da 227 kg). L’enorme potenza esplosiva di questo ordigno da demolizione, usato contro strutture in cemento armato come bunker, ponti e dighe, rende inevitabili i danni collaterali in una vasta area attorno all’obiettivo, soprattutto quando contro di esso si lanciano più bombe da una distanza di quasi 40 chilometri. Va da sé: non fa distinzioni tra civili e militari. I kits di guida JDAM sono di semplice realizzazione e si articolano nelle corte pinne poste intorno al corpo bomba, l’unità di guida e il “tailcone” con le alette mobili per far manovrare la bomba. Il sistema di guida è un INS-GPS abbinato ad un sensore inerziale laser GPS: una volta lanciata, nella JDAM vengono immessi i dati relativi al bersaglio forniti dall’aereo che le trasporta, si attivano gli impennaggi caudali e l’autopilota mentre iniziano ad arrivare i segnali dei satelliti NAVSTAR. Con queste armi si possono programmare attacchi contro una vasta gamma di obiettivi selezionando per ciascuno di essi il profilo più opportuno. La procedura d’impiego è stata denominata dagli esperti italiani “sgancia-e-dimentica” in quanto dopo il lancio la bomba si dirige autonomamente verso il bersaglio che già conosce.
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Singolare coincidenza. Il giorno consacrato allo scoppio dell’ultimo conflitto in Iraq (20 marzo 2003), il Pentagono ha firmato con la multinazionale di St. Louis un contratto per una extra fornitura di Jdam da 690 milioni di dollari in 6 anni, che si aggiungono al miliardo e più che già questi kit hanno fruttato. La prima bomba Jdam viene testata l’11 febbraio 1998 nel poligono di China Lake, in California, da un B-1B, aereo che può trasportare 24 bombe da mille libbre. Il successo procura alla Boeing un primo contratto col Pentagono da 20 milioni di dollari. Il test decisivo viene effettuato nel ’99, quando i nordamericani sganciano sulla Jugoslavia oltre 1200 bombe Jdam. La prestazione surclassa le bombe a guida laser e i missili da crociera. Per la prestazione delle bombe Jdam nell’operazione “Allied Force”, la Boeing riceve nel febbraio 2000 l’Award for Military Aviation, il più alto riconoscimento conferito dall’industria aerospaziale internazionale, e un contratto da 162 milioni di dollari per la fabbricazione dei primi 7 mila kit Jdam, a fronte degli 87 mila che il Pentagono acquista successivamente. La Boeing, per migliorare le prestazioni delle bombe Jdam, si fa aiutare dall’Alenia Marconi Systems. L’azienda pubblica italiana sviluppa una nuova sezione di coda, chiamata “Diamond back”, dalla forma a diamante che assume dopo che l’ordigno è stato sganciato. Il nuovo sistema di guida italiano viene testato nell’aprile 1999, durante la guerra contro la Serbia, e nel settembre 2000, con un buon margine di anticipo per essere sperimentato dal vivo nella guerra in Afghanistan. Esso permette di sganciare le bombe simultaneamente contro più obiettivi, non più da 13 ma da 40 chilometri di distanza. L’invenzione della bomba JdamEr (Jdam a raggio d’azione esteso) frutta all’Alenia Marconi Systems, trasformatasi nell’ottobre 1999 in joint-venture al 50 per cento con la British Aerospace, un lucroso contratto con la Boeing. In soldoni: 20 mila dollari per un kit. L’accordo, firmato il 18 luglio 2001, stabilisce che «l’Alenia commercializzerà le “Jdam-Er” in gran parte dell’Europa e del Medio Oriente e potrà anche assemblare le Jdam e armi derivate, che i suoi clienti acquisteranno commercialmente» (Boeing Alenia Marconi Teaming for International Jdam Activity, Boeing New Release, St. Louis, July, 18, 2001). Il primo cliente estero delle Jdam è stato Israele, che ha acquistato kit di modifica per bombe Mk-84, di cui sono armati i suoi F-16. Il conto da 45 milioni
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di dollari è stato pagato in contanti dal governo Usa. Sorpresa. C’è anche un altro insospettabile cliente: «Le bombe Jdam-Er» — informa la Boeing nel comunicato stampa del 18 luglio 2001, oltre che sugli aerei Usa e israeliani — «sono installate su aerei italiani». Il numero 29 (annata 2002) della rivista Analisi Difesa certifica: «L’Aeronautica militare si doterà presto di 900 bombe intelligenti JDAM (Joint Direct Attack Munitions) che verranno prodotte dagli stabilimenti Oto Melara, società controllata da Finmeccanica, in cooperazione con Boeing. I 900 kit destinati a rendere più precise e letali una vasta gamma di bombe verranno assemblati a partire dal marzo 2003 ed entreranno in servizio presso i reparti in breve tempo. Le JDAM italo-statunitensi andranno ad armare AMX e Tornado della nostra Aeronautica Militare con l’Alenia Aeronautica che si occuperà dell’integrazione di queste armi con i velivoli in questione». Punto e basta. La cricca che detiene il potere nello Stivale ha deciso di entrare nel ristrettissimo numero di nazioni che si assumono il diritto di intervento immediato nelle aree di crisi del mondo, con una fortissima capacità distruttiva. Come ha sottolineato la Boeing qualche anno fa, «le Jdam-Er hanno il marchio di qualità “combat-proven” (provate in combattimento)». Ieri sui Balcani e sull’Afghanistan (dove hanno mietuto migliaia di vittime civili) oggi sull’Iraq; domani su Iran e Siria. Anche l’Italia è pronta a elargire il suo contributo. Ed è appunto in questo contesto e nel corso dell’incontro (ottobre 2002) tra il ministro della Difesa Martino, Francesco Guarguaglini (al vertice di Finmeccanica) e Rinaldo Petrignano (Boeing Italia) che Jim Albaugh, presidente della Boeing, aveva ricordato che «l’Italia è il primo cliente internazionale del Jdam: Boeing e Oto Melara collaborano nella produzione di 900 kit Jdam in Italia e l’assemblaggio dovrebbe cominciare, tra cinque mesi, nel marzo 2003». «Il programma italiano per la costruzione delle JDAM - aveva dichiarato Albaugh - è un modello di collaborazione industriale per soddisfare il fabbisogno difensivo di nazioni alleate». Il Parlamento è all’oscuro, ma volutamente sonnecchia: il bilancio del ministero della Difesa non include tutti i costi per l’acquisto di armamenti che spesso sono finanziati attraverso il bilancio del ministero dell’Industria sotto forma di sovvenzioni ai produttori. La Breda Meccanica Bresciana (uni-
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tà di business dell’Oto Melara, del Gruppo Finmeccanica) nel 2001 ha concluso un accordo con la Boeing per la produzione di 900 kit di guida consegnate all’Aeronautica Militare, in tre lotti di 300 ciascuno, dei quali i primi esemplari sono già stati consegnati, mentre gli altri sono stati forniti nell’estate del 2004. L’azienda di Stato ha già provveduto ad addestrare gli specialisti della forza armata ed a fornire il supporto logistico, costituito da «alcune attrezzature specifiche, dai manuali tecnici e dal sistema CAMBRE per il caricamento dei programmi». Il valore di questo contratto per 900 unità è di 40 milioni di euro si apprende leggendo i contratti - a trattativa privata - pubblicati dal Segretariato Generale della Difesa/D.N.A. Le bombe Jdam italiane - versione GBU-31 da 450 kg - sono destinate ai Tornado che ne possono caricare fino ad otto. Il capitolo di bilancio 1665 del ministero della Difesa (anno 2001) riferisce «l’acquisto kit jdam per bombe MK 83 e supporto logistico». Ancora. Il bollettino dei contratti Weag del Segretariato Generale della Difesa, nel numero 4, pubblicato ad aprile 2000 (sezione 1), segnala l’assegnazione a «trattativa privata» alla Finmeccanica spa dell’appalto per la fornitura entro giugno 2001 di «kit per bombe guida laser Gps (Egbu) e kit Jdam (contratto n. 5315). E ancora: il bollettino 6 (giugno 2000, sez. 1) documenta il contratto 5316 per la fornitura entro luglio 2001 di «kit per bombe guida laser Gbu 12 E/B e Gbu 16 B/B con relativo supporto logistico». La Breda intende usufruire della clausola “quinto d’obbligo” - che consente di aumentare una fornitura di un quinto senza dover ripetere la gara d’appalto - affinché la Marina Militare possa ordinare 180 dispositivi per i suoi caccia. Questi armamenti sono impiegati dagli AMX-Ghibli. I kits GBU-31 e GBU-32 sono previsti per le bombe da mezza e una tonnellata ma sono previsti anche quelli per le bombe da 225 kg e per le SDB (Small Diameter Bomb, bomba di piccolo diametro) da 129 kg. Nel 2002 il Libro Bianco della Difesa annunciava con toni trionfalistici: «Una particolare attenzione verrà rivolta nel quadriennio 20022005 ai seguenti aspetti: completamento dell’armamento difensivo e offensivo adeguato a sostanziare con credibilità gli impegni, sia assunti sia prevedibili, anche in “contesti fuori area”; armamento di caduta di precisione, a guida laser o satellitare, con capacità ogni-
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tempo (programmi Jdam e Paweay III); ammodernamento delle linee aerotattiche TORNADO e AM-X; partecipazione al programma internazionale di sviluppo di un velivolo per attacco al suolo e ricognizione da introdurre in servizio a partire tra il 2010-2012 (programma JFS)». Il recente acquisto di missili di crociera “Storm Shadow”, aria-aria “Iris-T” e Aim-120 AMRAAM (140 pezzi) conferma che sono definitivamente tramontati i tempi dell’Aeronautica che non spara. Eppure, il 27 aprile il premier Berlusconi ha dichiarato pubblicamente che «in Iraq la nostra è una missione di pace, l’abbiamo iniziata e intendiamo portarla avanti». Mine anti essere umano, camuffate. Negli stock dell’aviazione militare italiana ci sono perfino le Cluster BL 755, micidiali mine antiesseri umani: una circostanza che spiega l’affossamento del disegno di legge per metterle al bando. Dal ministero della Difesa britannico si apprende che l’Italia è tuttora un paese produttore di mine “intelligenti”. Oltre a fabbricarle in proprio è partner in almeno 4 progetti internazionali. In un documento di Human Rights Watch si menziona un progetto su bombe cluster in corso che svilupperà il modello migliore. Si tratta di sistemi guidati il cui compito è di perfezionare la precisione del tiro rispetto all’obiettivo. Il progetto “Guided Multiple Launch Racket System” (Gmlrs) accomuna Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna. Ognuno di questi ordigni, già testati con successo, ha un raggio d’azione sul territorio di una settantina di chilometri. Le munizioni cluster sono armi di grandi dimensioni che si aprono a mezz’aria spargendo ad ampio raggio centinaia di submunizioni. Le cluster possono essere sganciate da svariati tipi di mezzi aerei, tra cui caccia, bombardieri ed elicotteri. Da terra, possono essere lanciate da sistemi di artiglieria, lanciarazzi e lanciamissili. Le munizioni cluster sono particolarmente pericolose per una serie di motivi. Primo tra tutti è l’ingente numero di submunizioni inesplose che rilasciano. Recita un vecchio adagio: il passato non muore mai e prima o poi ritorna. Per l’Onu sono «Armi di distruzione di massa». I cittadini comuni ignorano le “categorie belliche 7 e 21”. Nei palazzi di governo se ne parla a bassa voce. Anzi, ufficialmente nell’entourage che conta non esistono. Eppure i nuovi materiali d’armamento delle Forze Ar-
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mate italiane comprendono «Armi nucleari, biologiche e chimiche». L’elenco completo si legge nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale numero 171 del 25 luglio 2003. In effetti, con decreto 13 giugno 2003 il ministro della Difesa Antonio Martino — «di concerto con i ministri degli Affari Esteri Frattini, dell’Interno Pisanu, dell’Economia e delle Finanze Tremonti e delle Attività Produttive Marzano» — ha approvato l’acquisto di «Agenti tossici chimici e biologici, gas lacrimogeni, materiali radioattivi, relative apparecchiature, componenti, sostanze e tecnologie». Negli anni Trenta del secolo scorso, l’Italia fabbricava segretamente aggressivi chimici (iprite, fosgene, lewisite, adamsite, eccetera) proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925, poi adoperati nella spietata aggressione all’Etiopia e alla Libia. A pagina 17, il più recente atto ministeriale specifica che i militari italiani si dotano di «Agenti biologici e sostanze radioattive adattati per essere utilizzati in guerra per produrre danni alle popolazioni od agli animali, per degradare materiali o danneggiare le colture o l’ambiente, ed agenti per la Guerra Chimica». Si tratta, in particolare, dell’autorizzazione all’acquisto di gas nervini che uccidono per inalazione a contatto con l’epidermide nel giro di 1-15 minuti. Tra questi, il Sarin (quello dell’attentato alla metropolitana di Tokyo il 20 marzo 1995, attuato dalla setta Aum Shinrikyo), il Soman, il Tabun, il Vx. Non è tutto. Ancora: «agenti vescicanti per la Guerra Chimica: ipriti e lewisiti». E poi: «agenti inabilitanti e defolianti» tra i quali spicca il cosiddetto “Agente Arancio”, lo stesso utilizzato dai soldati nordamericani in Vietnam (nel periodo 1965-75) e i cui terribili effetti sulle popolazioni e sulla vegetazione si riscontrano ancora oggi. Per quanto riguarda il nucleare l’autorizzazione non si limita «al software in grado di simulare ogni aspetto di una esplosione», ma fa riferimento all’acquisto di «sostanze radioattive», nonché alla costruzione di «Impianti per l’ottenimento (produzione) del plutonio 239 e loro apparecchiature e componenti appositamente progettati o preparati». Inoltre si decreta l’acquisto di «apparecchiature nucleari per generare energia o apparecchiature per la propulsione, compresi reattori nucleari, appositamente progettati per l’uso militare e loro componenti appositamente progettati o modificati per uso militare». Il ministro della Difesa autorizza anche l’acquisto di vari tipi di «gas lacrimogeni ed agenti antisommossa contenenti: cianuro di bromo-
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benzile (CA), O-Clorobenzilidenemalonitrile (CS), fenil-acil-cloruro (ω-cloroacetofenone) (CN), Dibenz-(b,f), -1,4-oxazepina (CR)». Evidentemente in previsione dell’utilizzo nelle manifestazioni di piazza sono comprese «apparecchiature appositamente progettate o modificate per la disseminazione delle sostanze chimiche» oltre a «tecnologia per lo sviluppo, la produzione o l’utilizzazione di agenti tossici». Sulla vicenda il parlamentare Paolo Cento aveva indirizzato l’8 settembre 2003 un’interrogazione parlamentare (a risposta scritta) al ministro della Difesa. «Tutto l’elenco appare in netto contrasto con le convenzioni internazionali sugli armamenti convenzionali — sottolinea Cento — che tale armamento è destinato a supportare azioni militari non solo difensive ma anche offensive in territorio straniero». L’onorevole Cento, alla stregua di altri parlamentari, aveva chiesto al governo Berlusconi di riferire sui motivi che hanno determinato tale autorizzazione da parte del ministero della Difesa, sul rispetto delle Convenzioni internazionali in materia di armi e sulle previsioni di utilizzo. Quali sono i programmi di utilizzo in territorio nazionale e internazionale di simili armamenti che violano la Convenzione di Parigi? «È un fatto gravissimo — aveva ammonito Cento —. Siamo in presenza di un’escalation militarista dell’Italia che desta forte preoccupazione e che contrasteremo in Parlamento e nel Paese». Il CS (ortoclorobenzilmalonitrile) rientra nella definizione di arma chimica (di cui alla Convenzione Internazionale firmata a Parigi il 13 gennaio 1993), ed è vietato dal protocollo per la proibizione e l’uso in guerra di gas asfissianti o velenosi firmato a Ginevra il 17 giugno 1925. Amnesty International l’ha messo sotto accusa in Gran Bretagna, Bolivia, Corea del Sud, Svizzera. E il governo italiano dopo l’11 settembre lo ritiene «possibile strumento di attacchi terroristici». È quanto risulta da una circolare del ministero della Salute diffusa il 12 ottobre 2002. Mentre non c’è traccia dell’autorizzazione che lo stesso dicastero dovrebbe aver concesso per l’impiego di questo veleno in ordine pubblico. Non è strano? Un’arma proibita in guerra può essere impiegata in una piazza pubblica. Per la legge italiana Dpr 359/91) deve essere bandito in quanto provoca all’organismo colpito danni permanenti. Uno studio dell’89 pubblicato dal Journal of the American Medical Association ipotizza «conseguenze a lungo termine sulla salute, come formazioni tumorali, malattie dell’apparato
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riproduttivo e dell’apparato respiratorio» causate dall’esposizione al CS. Altre ricerche parlano di «effetti cancerogeni e alterazioni cromosomiche dimostrate da sperimentazioni in vitro su cellule di mammiferi», spiega il professor Nicola Loprieno. Un dossier sui gas lacrimogeni al CS era stato recapitato il 15 giugno 2002 al pm genovese Francesco Albini Cardona. L’aveva depositato l’avvocato Nicola Canestrini del Genoa Legal Forum, a sostegno di nove denunce per lesioni gravi e gravissime, abuso d’ufficio e getto pericoloso di cose a carico dei responsabili delle forze dell’ordine del G8 del luglio 2001. Ricordate la mattanza di persone inermi e l’omicidio di Carlo Giuliani? «IL CS è da considerarsi sostanza dotata di attività genotossica», sintetizza il dottor Edoardo Magnone. Pericolosa per l’essere umano, in grado di alterare il ciclo cellulare, provocandone l’arresto e il rallentamento. «Inoltre — aggiunge Magnone — una delle caratteristiche del CS è quella di entrare subito in azione, cioè di avere effetti istantanei sul soggetto che ne entra a contatto». L’allarme per le conseguenze di quella nera cortina di fumo che avvolse Genova e i polmoni di manifestanti, poliziotti, residenti, è diventato ancora più alto dopo le denunce di molte persone, che hanno problemi, diventati irreversibili, proprio da allora. I lacrimogeni incriminati funzionano, sono efficaci: a Genova ne sono stati sparati ben 6.200. Una guerra, ma era interna. Nel 1947 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite indicava nelle «armi atomiche esplosive, armi costituite da materiale radioattivo, armi costruite da agenti chimici e biologici e letali». Da allora le armi di distruzione di massa sono indicate con la sigla CBRN: chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari. Nel ’92 l’Onu ha dichiarato che «la proliferazione di tutte le armi CBRN costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale». Il 13 gennaio 1993 è stata firmata a Parigi la Convenzione che proibisce lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e l’uso di armi chimiche e ne regola la distruzione controllata. La Convenzione è entrata in vigore il 29 aprile del 1997. A tutt’oggi è stata ratificata anche dall’Italia. La Convenzione sulle armi chimiche conta su uno strumento operativo, l’Organizzazione per il divieto delle armi chimiche (OPCW) che ha l’autorità per far rispettare gli obblighi di legge da parte degli Stati che ne hanno ratificato l’accordo.
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L’escalation militarista non si arresta. Ecco il soldato hi-tech. Prima sperimentazione segreta proprio in Afghanistan. “Forza Nec”: addio “missioni di pace”. È la punta di diamante dell’esercito italiano. Ufficialmente, a partire dal 2010 è la prima unità operativa di “cyber soldati”. Ogni kit di equipaggiamento costa 30 mila euro. In gran segreto l’82° reggimento fanteria “Torino” sperimenta l’equipaggiamento bellico in Afghanistan. Cosa cambia in pratica? In sostanza gli armamenti. A cominciare dal fucile d’assalto Beretta, evoluzione dei modelli esistenti AR-70/90 e CX4-Storm. L’arma è più leggera con una serie di optional, incluso il lancia granate di 40 mm con calcolatore balistico a telemetria laser. La tecnologia consente prestazioni impensabili: il sistema di mira optronico consentirà al soldato di scoprire, identificare e sparare a obiettivi (esseri umani) su distanze che oltrepassano la capacità del nemico in ogni momento ed in ogni situazione di luminosità, di giorno come di notte. Anche dietro gli angoli degli edifici. Dati e immagini (di serie le combat camera montate su elmetto e fucile) sono trasmessi in tempo reale a chilometri di distanza, dietro le linee nemiche, in modo da aggiornare costantemente il campo di battaglia. Canale termico, telemetro laser e compasso integrato, invece, per il sofisticato binocolo. Le nuove uniformi assicurano maggiore protezione e minor visibilità. Sono più leggere del 20 per cento rispetto a quelle standard e, grazie al ricorso alle fibre impregnate di carbone attivo, risultano efficaci contro la minaccia Nbc. Nulla è stato lasciato al caso. Ecco i sensori per tenere sotto controllo costantemente lo stato psico-fisico del soldato, laptop collegati in Gprs, navigatori satellitari palmari funzionanti con batterie al metanolo. Le linee di tendenza della Difesa italica prevedono un numero sempre più limitato di soldati con elevate possibilità di sopravvivere al combattimento. Allora, nessun imbarazzo a giocare alla guerra in tempo di massacri bellici reali e quotidiani. Si definiscono Blitzkommando, Incursori della Magarella, Arditi di Parma, Divisione Napoli Borbonica, Legione Farnese, Diavoli Verdi, Le Belve, Iena Korps, Lupi di Sicilia, e con altri mille nomi. Sono i 30 mila cittadini — età media 35 anni, comprese le donne — che in Italia praticano il “Soft Air”, la guerra virtuale all’aria aperta importata dal Sol Levante e dagli Stati Uniti. Qual-
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cuno dice che sono “guerrafondai esaltati”, altri li definiscono “paramilitari neonazisti”; i protagonisti replicano che “si divertono a contatto con la natura”. Un campione italiano della disciplina racconta che «Le armi sono di libera vendita, acquistabili nella nostra provincia presso l’armeria Ciccarelli. Per chi volesse provare, può trovare gratuitamente nel nostro club tutta l’attrezzatura necessaria». A un tiro di schioppo, in quel di Civitanova e San Severino, si sparano addosso, per finta, altri due gruppi organizzati. Adesso la novità è che le esercitazioni a tema hanno inserito nuovi nemici, dopo l’eliminazione di Osama bin Laden e Saddam Hussein. Recentemente, si fa per dire, una dozzina di talebani sono stati “trucidati” nei boschi dell’Abruzzo. «Il merito — vanta con orgoglio il soldato Giorgio M., nome in codice faina — è delle micidiali mitragliette della nostra squadra». Il gioco consiste nel dividersi in gruppi, eserciti e commandos e portare a termine le missioni speciali ordinate dal comandante. Si tratta di liberare ostaggi, eseguire rapimenti, sferrare incursioni aggressive, conquistare la bandiera nemica e occupare il campo avversario. Ma anche affrontare reazioni di difesa, lotta corpo a corpo, fuoco contro fuoco. Per non dire delle missioni singole degne di un vero eroe. «L’episodio che preferisco è quando si simula la caccia a un terrorista — racconta Catia, 42 anni, di mestiere impiegata —. Ci esercitiamo in alcune cave abbandonate della Maiella, sembra davvero di stare tra le grotte afghane. L’altra domenica siamo stati sorpresi da un gruppo di talebani violentissimi e ho avuto molta paura. Per fortuna abbiamo saputo distrarli e colpirli a morte. Tutti tranne uno. Marco dei nostri è rimasto gravemente ferito. Mi piace impersonare i buoni, mi fa sentire importante e il mio senso di impotenza diminuisce». Trionfa lo spettacolo in diretta della guerra simulata, schermo e sipario strappato alla quotidianità. «È un gioco esplorativo di ruolo e di società: un’attività ricreativa e culturale», assicurano i giovani praticanti. Ribattono i critici: «È un fenomeno che rispecchia ciecamente la realtà bellica». Almeno per ora, niente cannonate, bensì proiettili di gomma. Se ti centrano in parti vitali, comunque, finisci all’ospedale. Per dribblare i nosocomi i guerrieri del terzo millennio indossano imbottiture rinforzate e caschi di protezione. Eppure gli incidenti, a volte mortali (rubricati come incidenti fortuiti), non si contano, soprattutto a danno di ignari malcapitati:
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bambini, escursionisti, campeggiatori, fotografi, botanici, raccoglitori di funghi e tartufi. Il 10 giugno 2001 sul fiume Adige, durante un’esercitazione militare simulata, ha perso la vita Francesco Solofrizzi, di 25 anni. Le forze dell’ordine tollerano, anzi chiudono gli occhi. Già, ma chi se n’è accorto? Il periodico Soft Air Adventures lo definisce “sport del ventunesimo secolo”. I softgunners parlano di gioco ma esultano soltanto «quando si fanno fuori gli avversari» scrivono nel loro dominio informatico, Leo, Gigi e Domenico da Canosa di Puglia, sfrenati praticanti. I luoghi prediletti per le battaglie domestiche sono le aree naturali protette. Gargano, Gran Sasso, Maiella, Conero, Gennargentu, Maremma, Circeo, Golfo di Policastro, Dolomiti Bellunesi, Stelvio. Ovvero: i santuari boschivi, le zone umide, le zone costiere scampate alla speculazione edilizia. Territori a rischio impallinamento, sempre più inaccessibili ai comuni mortali anche per via delle esercitazioni top secret dei militari Nato. I soldati della domenica non risparmiano gli scenari urbani nei paesi fantasma, come San Valentino in provincia di L’Aquila. Ci sono gli incontri ufficiali (dal nord al sud della Penisola: Bari, Rimini, Trieste, Viareggio, Reggio Calabria, Palermo) e gli addestramenti clandestini con armi autentiche, in Svizzera, Ungheria, Romania, Israele. In questa insospettabile galassia attinge adepti l’Executive outcomes, la più grande multinazionale di mercenari al mondo. I soldati di ventura provengono da Belgio, Francia, Italia, Usa, Gran Bretagna, Russia, Ucraina, Sudamerica. Da un paio d’anni d’anni ex ufficiali israeliani addestrano praticanti di Soft Air nella terra promessa con armi vere. Ispiratore l’ex capo di Stato maggiore Rafael Eitan, coadiuvato dal generale Rehavam Zeevi. Il verbo di queste milizie a mano armata che combattono guerre finte è disarmante: «Noi ci ispiriamo ai reparti speciali Seal e Delta Force». Il concetto è illustrato su Internet dall’Acme Sat: «La filmografia d’azione è la musa ispiratrice di tanti games, così come lo è la storia bellica». Per partecipare alla guerra virtuale occorre munirsi di un equipaggiamento standard: anfibi, occhiali protettivi, tuta mimetica, elmetti, passamontagna, berretti chiazzati, cinturoni da combattimento, porta caricatori, borracce, binocoli e fuoristrada. L’armamento personale comprende pistole a gas o a molla, fucili e mitragliette elettriche: strumenti identici a quelli reali. Sparano a 70 metri raffiche da 700 a 1200 colpi al minuto. I proiettili sono pallini
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di plastica dura del diametro di 6 millimetri e peso variabile. Queste armi sono dotate di sistemi avanzati come il dispositivo “hop up”, un marchingegno che regola la rotazione nella fase di sparo, affinché il colpo sia perfettamente lineare. Lo strumento bellico più diffuso e apprezzato è il “superkurz”, un fucile superaccessoriato, davvero speciale, almeno a giudicare dal portafoglio. Il costo base del “bambino” parte dai 900-1.000 euro. Sono in commercio, a prezzi proibitivi, una serie di optional all’equipaggiamento che farebbero invidia ai corpi militari di mezzo mondo. I soldati del fine settimana usano mirini al laser, computer microscopici, telerilevatori, rompifiamma, puntatori frontali, creme per il mascheramento, reti mimetiche, pugnali d’ogni foggia e speciali bombe che trillano quando rovinano al suolo. Gli incursori in erba, armi in pugno, voce grossa e viso incarognito, sperimentano anche il parapendio lanciandosi da rupi, burroni e scogliere. Il copione più gettonato è pattuglia “Bravo two Zero”. I “rambo made in Italy” entrano in azione nel cuore della notte o all’alba. Al buio i belligeranti si muovono con disinvoltura. Sono attrezzati di tutto punto: visori notturni a infrarossi, ricetrasmittenti computerizzate, cellulari satellitari, sensori termici, che consentono spostamenti rapidi e localizzazione del nemico. Non mancano tattiche di guerra studiate per ogni occasione e compiti precisi per ognuno, a partire dall’esame della cartografia territoriale. Ci sono falchi, cecchini, esploratori, cacciatori di teste e volpi in fuga. L’obiettivo è vincere: basta seguire le istruzioni che dettano i manuali operativi. Ognuno dei combattenti è specializzato in qualcosa: celerità di movimento, mira infallibile, capacità di invadere il territorio nemico, combattimento corpo a corpo, volontà di annientamento. I commandos italici l’idea fondamentale l’hanno recepita da film e telefilm in circolazione: il “fuoco-movimento”, vale a dire, uno corre l’altro copre. Le battaglie si disputano in orari prestabiliti: i games possono finire in 30 minuti ma anche dopo 3-4 ore. Lo scopo è far fuori tutti i nemici conquistando il territorio avversario. I contatti ravvicinati si risolvono con un colpo di pistola. La vittima colpita muore, non è previsto il ferimento. La “salma” abbandona il gioco con le sue gambe e attende che i commilitoni portino a termine la partita, annoiandosi a morte. Per la miseria: “quanto è bella la guerra simulata”. Come si fa ad apprezzare, e incentivare ed esaltare l’estetica della
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guerra? Lo puoi anche definire “gioco”, la natura di simulazione bellica non cambia. Testimonianze - Soft-gunner 1 (Rocco): «Gioco a soft-air da un anno ed è diventata la mia passione. Ho comperato un’arma a gas in un sito straniero e tra equipaggiamento e tessera annuale al club a cui sono iscritto ho speso 600 Euro circa, non molto per essere uno sport a tempo pieno (mi occupa tutte le domeniche e a volte anche il sabato), gioco con un mio amico, è bello stare all’aria aperta, mi diverto a uccidere gli avversari e fa bene alla salute visto che si svolge completamente all’aria aperta. Ci sono però troppi invasati, esaltati e fanatici del genere che vedono questo gioco come una guerra vera, ricca di odio verso gli altri, questi rovinano il gioco». Soft-gunner 2 (Anna): «Il softair o soft air o tiro tattico sportivo è uno sport a tutti gli effetti, che consiste nella simulazione di scontri armati e tattiche militari e per questo nella maggior parte dei casi è stato osteggiato e fortemente criticato, ma credetemi, non è violento né pericoloso ma basato sul corretto confronto sportivo. Il softair si differenzia dalle altre attività basate sulla simulazione militare per l’esclusivo utilizzo della air soft gun, che tradotto dall’inglese letteralmente significa arma ad aria compressa, da cui appunto prende il nome. È caratterizzato da una molteplice varietà di modalità di gioco da conseguire in un tempo prestabilito, che spaziano dalla modalità della conquista di una bandiera avversaria al dover conquistare una determinata postazione, oppure al mantenimento di una dislocazione, fino ad arrivare alla liberazione di un prigioniero, o (il più giocato) alla “distruzione” della squadra avversaria. In alcuni casi il gioco diviene più complesso trasformandosi in una vera e propria “storia” da mettere in pratica. Un esempio? Certo, quella ultimamente giocata: recuperare un commilitone catturato in territorio nemico con una squadra che lo deve riportare al campo base e una squadra nemica che deve eliminare i soccorritori e portare il prigioniero nel suo campo. In definitiva, è un’attività che garantisce una buona forma fisica, con un continuo allenamento anche mentale che rafforza il fisico, la mente e aiuta a lavorare in gruppo e rafforzare i legami che si instaurano all’interno di esso». Soft-gunner 3 (Armando): «La pratica del Softair non rappresenta alcun pericolo per il giocatore perché si utilizzano armi perfette repliche delle vere, ma sostanzialmente armi giocattolo che sparano pallini di ceramica, oppure di materiali pla-
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stici, biocompatibili o biodegradabili, del diametro di 6 mm e peso variabile tra 0.10 e 0.50 grammi che risultano innocui. Le armi possono essere a gas o CO2, cioè in cui il pallino è sparato dalla rapida decompressione del gas; oppure a molla cioè dove è una molla a sparare il pallino. In questo modo si sviluppa generalmente una velocità di sparo maggiore. Ed infine a propulsione elettrica, dove il pallino è sparato da un motorino alimentato da un’apposita batteria, generalmente di voltaggio variabile tra i 6 e i 12 V e di diversi tipi: si possono trovare batterie di tipo NiCh, LiFe e LiPo, le quali offrono diverse prestazioni. Ma tutte, sempre omologate nel rispetto delle regole. Per questo l’unico accorgimento durante il turno di gioco è l’obbligatorietà di indossare una protezione per gli occhi con occhiali o maschere integrali appositamente studiate e chiamate “gran facciali”. Per il resto, l’abbigliamento adeguato e comodo consiste in tute mimetiche, anfibi ed elmetti per la protezione del capo, nonché ginocchiere o paracolpi per le braccia”. L’arma è un oggetto artificiale la cui definizione è esaurita dalla finalità dell’offesa. In altre parole, non tutto ciò che è fabbricato artificialmente e può offendere è un’arma, ma tutto ciò che è creato artificialmente per offendere è un’arma. Chiarissimo che ci sia la meraviglia ingegneristica. L’esclamazione di stupore che ti sfugge dalle labbra nel vedere la perfezione di uno strumento artificiale, il concerto nettissimo del movimento di ogni parte dell’oggetto, la pulizia del meccanismo, l’eleganza dei meccanismi, l’ingegnosità del disegno generale, il reverenziale stupore per il design attento. E vuoi mettere la funzionalità? L’arma in sé, intrinsecamente, è un oggetto che ha la sua sola ragione di esistere nell’atto di offesa (a prescindere dal motivo dell’offesa stessa), ideata e progettata al fine di ottenere l’efficienza più letale possibile, uccidere nella maniera più pulita od efficace, universalmente atta a spezzare la vita. Questo in assoluto (ab-solutum, slegato da), cioè in un contesto sciolto da ogni contestualizzazione. Penso che questo si possa tranquillamente assumere che l’arma è in assoluto un oggetto che per vocazione ed essenza è mortifero. L’ “interesse per le armi”, in questa ottica razionale, acquisisce delle connotazioni quantomeno spiacevoli, che certo fanno storcere il naso a chi la adotti e vi rifletta. Infatti, pure se anche questo interesse è assoluto — decontestualizzato e sciolto da concrete
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situazioni e atteggiamenti di bellicosità — non può non avere una struttura sofferente della radice fondante dell’essenza dell’arma, un’essenza finalistica offensiva, algesica. L’interesse per le armi (da fuoco) affonda necessariamente secondo logica le sue radici intrinseche in un oggetto volto nella propria essenza a intimorire, ferire, uccidere ed eliminare con un singolo clic. Ci pare strano e non troppo sano, e questo è l’approdo del discorso sull’estetica della guerra: finché un’arma verrà in assoluto e astrattamente ritenuta “fica” e non terribile foriera di morte, come sulla natura detta, si potrà veramente compiere il salto culturale che elimini guerra vera, armi vere e risoluzioni violente dei conflitti dal nostro pianeta? Oggetto di critica è la simulazione di un’azione di guerra e “l’interesse per le armi”, come cita la ricerca di Kermel e Sorrentino del 2002. Il gioco influenza sempre la persona, le sue rappresentazioni mentali e la sua gestione delle associazioni emozionali. Da solo non basta — ovviamente, niente basta da solo — ma di certo ha una sua influenza nel far credere che la guerra possa essere qualcosa di eccitante ed eroico. Il pericolo sta nel fatto che non agisce sui circuiti coscienti ma su quelli emozionali, coscientemente ingestibili. Informare sulla guerra è fondamentale per la coscienza, evitare tagli di rappresentazioni emozionali positive o associazioni positive con l’estetica bellica è fondamentale per la costruzione di una cultura nuova che disprezza la guerra, come è avvenuto con la schiavitù. Non si tratta di censura, il rifiuto dovrebbe partire dall’interno della persona stessa. Dovere dell’adulto (individuo in costante formazione comunque) è quello di esemplificare una società scevra da lordure riconducibili all’estetica bellica. Sul fatto che lo sport, marziale e non, rilassi, siamo tutti d’accordo. Anche io, andando a correre, quando torno sono rilassatissimo e amo l’universo. E anche sullo status speciale delle arti marziali in relazione alla violenza siamo tutti d’accordo. Ci può essere l’esaltato, ma sappiamo che lo spirito dell’arte marziale, per chi lo pratica come noi per finalità spirituali, è ben altro. Adesso facciamo un piccolo esercizio di fantasia per scaricare lo stress della routine quotidiana. «Giochiamo a schiavo e padrone?». Perché non giocare a schiavo e padrone? Facile rispondere. Perché la schiavitù è un’idiozia tale che anche solo la finzione è degradante.
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«Ma è solo un gioco! Non si ammazza mica nessuno! Lo sappiamo che è un gioco e che la schiavitù è sbagliata». D’accordo, è già qualcosa. Ma è comunque sano giocare a schiavo/padrone? Seriamente, lo voglio capire. Se si vedessero bambini o adulti giocarci che cosa si potrebbe pensare? «Ma un gioco del genere sarebbe immensamente diverso da Soft Air. Schiavitù e guerra sono due cose diverse». Torniamo un pò indietro nel tempo, allora. Poche centinaia di anni. La schiavitù è accettata e addirittura è indispensabile alla nostra vita. È uno dei grandi fatti del mondo, come l’alba, la pioggia, le stagioni e la guerra. Giocare allo schiavo e al padrone, anche fuor di gioco, diverte i bambini e fa sorridere gli adulti. Tutte persone rispettabilissime. Al giorno d’oggi l’estetica della schiavitù (che pure esiste) non è culturalmente accettabile nemmeno per scherzo, nemmeno per gioco. È degradante, fa venire il voltastomaco. L’estetica della guerra invece è accettabilissima, indispensabile, si penserebbe. Come si pensava della schiavitù. Nonostante giocare alla guerra sia degradante esattamente come vedere persone giocare a schiavo e padrone o a eretico e inquisitore. Se si sapesse che ci sono persone che giocano all’Inquisizione che cosa se ne potrebbe pensare? Se si sapesse che persone giocano al latifondo dell’Alabama, che cosa se ne potrebbe pensare? Il vedere questi come orrori è una conquista estetica prima ed etica poi. Se si ama l’esperienza a contatto con la natura si può fare il corso per guida alpina. È una meraviglia. Se si vogliono fare giochi di ruolo con gli amici nei boschi, le alternative ci sono. Ma giocare alla guerra è e sarà sempre degradante come giocare agli schiavi, e coltiverà una visione estetica inaccettabile come inaccettabile è l’estetica della schiavitù. E mi fa ribrezzo che su qualcosa del genere venga montata l’emozione di adrenalina, gioco di squadra, nervi tesi, riflessi pronti. È vero, a Soft Air non ho mai giocato, ma so cos’è la guerra perché l’ho vissuta con gli occhi ed il cuore del cronista in prima linea. Sarebbe stato divertente durante l’assedio di Sarajevo giocare a Soft Air? Allora, non ho bisogno di giocare a schiavo e padrone per sapere che non mi piace. Oltretutto, dispendiosi ed elaborati giochi di guerra e violenza “controllata” mettono in luce una vasta categoria di persone che quotidianamente ci stanno accanto ma che sognano, nel tempo libero, di maneggiare un fucile che-sembra-vero in un’azione di guerra che-sembra-vera sparando in un modo che-sembra-
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vero ad altezza d’uomo. Persone non semplicemente idiote, ma che su questa idiozia investono denaro a profusione, che coltivano, non so se deliberatamente o incoscientemente, la patologica e pericolosa estetica della guerra, e che forse, come suggerito da Seth MacFarlane e più o meno da ogni sceneggiatore comico che si sia pronunciato a riguardo, tentano di puntellare l’irrecuperabile debolezza del proprio ego usando bellicosi falli di plastica e metallo. Persone cui fa piacere farsi fotografare come manipoli di soldati veri nella guerra vera. Come se fossero uomini valorosi, grandi guerrieri. Dunque, ora e sempre Resistenza al totalitarismo. C’è una targa affissa sul muro esterno al Palazzo Vecchio di Firenze che dice: «Dall’11 agosto 1944/ non donata ma riconquistata/ a prezzo di rovine di torture di sangue/ la Libertà/ sola ministra di giustizia sociale/ per insurrezione di popolo/ per vittoria degli eserciti alleati/ in questo palazzo dei padri/ più alto sulle macerie dei ponti/ ha ripreso stanza/ nei secoli». Le armi sono già state imbracciate a sufficienza. I nostri popoli hanno già versato abbastanza sangue, per liberarsi. Chi è morto per la nostra libertà lo ha fatto con l’intima speranza che potesse essere l’ultima volta, coltivando una cultura di democrazia, di dialogo e ripudiando la guerra in ogni sua forma (articolo 11 della Costituzione repubblicana ed antifascista), in ogni sua allusione. Il nemico attuale è una forma di dittatura (in senso lato) fanatica, cieca e violenta che nasce dal pus dell’ignoranza, nelle cloache della miseria e dell’emarginazione. Questo Soft Air potrebbe essere visto come un’onta per tutti i nostri avi che hanno combattuto realmente per la libertà, che hanno sentito davvero il dolore lacerante di una pallottola di piombo incandescente che ti morde la schiena e i polmoni mentre tenti in mezzo a un bosco di tamponare la ferita di un tuo amico fraterno morente stringendogli la coscia con la cintura, sacrificando tutto pur di respingere un invasore che negava libertà, uguaglianza, fratellanza e amore agli uomini che tutti nascono liberi su questa bella terra. Io non ho rispetto per la guerra, ma ho rispetto per chi, morendo, mi ha permesso la libertà. “Pecunia non olet”: vero Sua Santità Ratzinger? L’istituto per il sostentamento del clero, emanazione della Conferenza episcopale ita-
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liana, ha aperto conti in 33 istituti di credito. 13 di queste banche collaborano attivamente al commercio verso paesi dove non vige la democrazia e i diritti umani sono calpestati con la violenza di Stato. Tra le banche in questione figurano anche quelle del gruppo Intesa San Paolo che hanno movimentato oltre 500 milioni di euro, vale a dire un terzo dell’intero volume d’affari. Tuttavia dalla Relazione governativa sull’export d’armi italiane è scomparso l’elenco con il valore monetario e il paese destinatario delle singole operazioni autorizzate alle banche. Tra l’altro, in un rapporto della presidenza del consiglio dei ministri, la tabella 16 è errata: la prima banca armata non è Unicredit ma Banca di Roma (ora sono lo stesso gruppo ma i valori raddoppiano). Il marchio italiano non è solo pasta e tarallucci del Mulino Bianco, bensì unione di finanziatori o meglio produttori di armi: ad esempio il micidiale cannone 20 millimetri (Oerlikon) adottato da Hitler e dai dittatori di mezzo mondo. Anda-Bührle e Barilla: una saga di famiglie d’altri tempi. Generazioni e identità accomunate dal senso della produzione e vendita al miglior offerente, ingraziandosi il consenso popolare mediante la pubblicità dilagante sui mass media. Occhio, non è tutta d’un pezzo la proprietà: la ditta parmigiana in attività dal 1877 non è quotata in borsa, ma vanta un socio imbarazzante. Per dirla con uno spot, addomestica coscienze: «Scopri il mondo di casa Barilla, iscriviti e diventa protagonista». Detto e fatto: gratta… gratta. L’accordo finanziario latina affonda nel passato remoto, appena sbianchettato. Infatti, nell’anno 1979 Hortense Bührle (maritata Anda) — figlia del famigerato Emil Georg (al soldo di Hitler) e sorella del pregiudicato Dieter (responsabile della morte in Africa di milioni di innocenti, prevalentemente donne e bambini, come accertato dall’Onu) nonché madre dell’ingegnere Gratian — investe 10 milioni di dollari per acquistare il 15 per cento della nota marca emiliana. Hortense (nata il 18 maggio 1926, originaria di Ilsenburg ma naturalizzata a Zurigo nel 1937) ha sposato nel 1964 il pianista Géza Anda. Nel 1969 la gentildonna ha un figlio di nome Gratian, che in seguito diviene ingegnere elettronico, nonché consulente di direzione della McKinsey. Secondo il Dizionario Storico della Svizzera (Historisches Lexikon der Schweiz, Band, 1, 322) la signora è a tutti gli effetti:
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«Coerede e grande azionista del gruppo industriale Bührle, dal 1956 ha fatto parte dei consigli di amministrazione della Oerlikon-Bührle Holding AG, della Bally International AG e della Ihag Holding AG». Chi sono i Bührle-(Anda)? Scomodiamo a tal proposito, tra le innumerevoli fonti informative ben documentate a disposizione, proprio uno studioso elvetico (mai smentito), ovvero Jean Ziegler che nel 1997 per la casa editrice Mondadori ha pubblicato il saggio, La Svizzera, l’oro e i morti. Alle pagine 175-179 si apprende che: «I fabbricanti d’armi svizzeri furono particolarmente preziosi per Hitler. La Svizzera è leader mondiale nella meccanica di precisione: i congegni di puntamento dei cannoni svizzeri, la precisione delle mitragliatrici e dei mortai, i cannoni antiaereo a tiro rapido erano (e restano) i migliori del mondo. Hitler ne ordinò decine di migliaia; l’addestramento degli artiglieri – sia dell’esercito sia delle SS – destinati a manovrarli si svolse sotto la direzione svizzera. L’industria bellica elvetica presentava un ulteriore vantaggio: poiché produceva in territorio neutrale, non veniva bombardata dagli Alleati. La fabbrica di armi di gran lunga più potente del paese, che era anche una delle maggiori del mondo, apparteneva a un figlio di emigrati del Wurtemberg: Emil Bührle. Le sue officine erano situate soprattutto a Zurigo-Oerlikon. I suoi affari con il Reich gli fruttarono guadagni considerevoli: tra il 1939 e il 1945 le sue entrate ufficiali passarono da 6,8 a 56 milioni di franchi svizzeri e il suo patrimonio personale da 8,5 a 170 milioni. Bührle era amico personale di Albert Speer, il ministro nazista degli armamenti e della produzione di guerra, nonché del barone von Bibra, un consigliere di legazione che fu forse l’intermediario più importante tra i dirigenti nazisti e gli industriali svizzeri. Bührle era un habitué delle cene offerte da Otto Carl Köcher, l’ambasciatore tedesco a Berna. A partire dall’estate del 1940 fino alla primavera del 1945, il gruppo Bührle fu quasi esclusivamente al servizio di Hitler. Nel 1941 offriva lavoro a 3.761 persone, vale a dire tre volte di più che all’inizio della guerra. In origine, la Bührle-Oerlikon fabbricava macchine utensili, ma in seguito all’invasione della Polonia si riconvertì agli armamenti: nel 1940 le armi e le munizioni rappresentavano il 95 per cento di tutta la sua produzione. Il punto forte del suo catalogo era il cannone antiaereo da 20 millimetri, molto apprezzato da Hitler, in quanto abbatteva un gran
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numero di aerei alleati. Bührle era il caratteristico padrone da lotta di classe; aveva orrore dei sindacati, in special modo del coraggioso leader sindacale e deputato di Zurigo Hans Oprecht (…) Per la cronaca, bisogna sapere che la vittoria spiacevolmente rapida degli Alleati impedì a Bührle di smaltire tutte le sue scorte di cannoni; molte delle forniture ordinate dai nazisti restarono a Oerlikon dopo il 1945. Tuttavia, anche dopo il suicidio del suo miglior cliente, Bührle seppe trovare una soluzione: cominciò a esportare le sue armi di morte nel Terzo Mondo. La guerra del Biafra durò dal 1967 al 1970 (…) Le Nazioni Unite decretarono il blocco economico e militare nei confronti del Biafra e la Svizzera aderì alla proibizione di esportare armi. La guerra fece due milioni di vittime, principalmente donne e bambini. Il Biafra capitolò e nelle sue caserme gli ispettori dell’Onu trovarono dozzine di cannoni Bührle. Alcuni recavano ancora la croce uncinata e i numeri di serie tedeschi: si trattava delle forniture Oerlikon, già pagate dai nazisti e pronte a essere loro consegnate, che Bührle aveva rivenduto a Ojukwu. Per questo eccellente affare, Dieter Bührle, erede di suo padre Emil, fu condannato dal tribunale federale a una multa di 20.000 franchi svizzeri per non aver rispettato l’embargo (…) I fornitori svizzeri di Hitler facevano i loro affari in un ambito in cui i valori etici non avevano importanza». Nel dopoguerra, la famiglia Bührle-Anda – certificano le Nazioni Unite – ha venduto armi a paesi sotto embargo e regimi notoriamente dittatoriali: Sudafrica, Nigeria, Indonesia. Secondo il quotidiano spagnolo El Mundo, nel 1999 anche i bombardamenti con munizioni all’uranio impoverito in Kosovo sono stati realizzati grazie alla produzione di questa benemerita famiglia elvetica di origini tedesche. L’European Network Against Arms Trade ha documentato con prove inequivocabili vendite di fucili d’assalto, razzi e missili contraerei all’Indonesia per 1,8 milioni di franchi svizzeri tra il 1982 e il 1993 attraverso la controllata Contraves, nonostante l’embargo in corso per violazione dei diritti umani. Sempre nel ‘93, grazie alle forti pressioni che la società bellica mise in atto per convincere il Parlamento Svizzero ad autorizzarle, furono venduti armamenti per importi pari a 10 milioni di franchi. La fabbrica di armi Oerlikon-Contraves è stata tra i migliori clienti del poligono sardo di Quirra, dove sono
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stati seminati a piene mani nell’inerme popolazione civile orrori e malattie mortali. Nel 2000 il gruppo Oerlikon-Bührle si è dato un nuovo look cambiando il nome in Unaxis e diversificando gli investimenti in vari modi: ad esempio un grazioso hotel sul lato svizzero del Lago Maggiore. I Barilla, comunque, entrano personalmente in società con questi spietati mercanti di morte. Il denaro insanguinato che ha alimentato conflitti a danno degli esseri umani più inermi (senza valutare i defunti a causa della seconda guerra mondiale, solo in Biafra 2 milioni di vittime civili), senza alcuna ombra di dubbio, è frutto della produzione e del traffico di armamenti in paesi in cui l’unica regola è la sopraffazione. Le armi, come noto, sono strumento essenziale di tutte le forme peggiori del saccheggio globale moderno a base di violenza. Nel 1999 il gruppo Bührle passa di fatto a Gratian Anda. Il 10 ottobre 2001 (e-mail delle ore 15:57:58, acquisita integralmente e legalmente dal giornale Italia Terra Nostra), un dirigente aziendale di rilievo, tale Armando Marchi, scrive: «Sono il responsabile delle Relazioni Esterne del gruppo Barilla. Mi permetto di osservare che, se si eccettua il periodo dal 1973 al 1979 (in cui è stata di proprietà della multinazionale Grace), la Barilla è dal 1877, anno della sua fondazione, saldamente in mano alla famiglia Barilla, che ha sempre vissuto dei frutti del lavoro in campo alimentare. Il signor Gratian Anda, che tra l’altro non è nel Consiglio di Amministrazione del Gruppo Barilla, rappresentava una quota di minoranza (il 15%) detenuta da una Società finanziaria olandese: un investitore meramente finanziario, non un’industria bellica. Non abbiamo mai utilizzato la correttezza come strumento di marketing, e ritengo anche che non sia immeritata la trasparenza che ci viene riconosciuta dalla “Nuova Guida al consumo critico”». Incongruenze o sgangherate menzogne dalle gambe corte? Il nipote di Emil George Bührle nel 2000 ha ricoperto la carica di vice presidente della Barilla; attualmente è consigliere di Barilla Iniziative S.r.l., anche se nel Bilancio 2009 il suo nome non si legge addirittura. Prove? A iosa. Il documento ufficiale di casa Barilla denominato “Corporate Governance” indica — nella società a responsabilità limitata Barilla Iniziative S.r.l. — tra i consiglieri, vicino ad Emanuela Barilla (sorella del presidente Guido Maria), proprio il convitato di pietra, detto altrimenti Gratian Anda (nato a Zurigo il 22 dicembre
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1969), in buona compagnia degli inseparabili Nicolaus Issenmann e Robert Singer. Lo stesso Issenmann (per gli amici semplicemente Nico) siede accanto a Guido Maria Barilla nella società controllata dal Gruppo, meglio detta Lieken AG. Se Pietro Barilla pagava tangenti miliardarie sotto spinta di Silvio Berlusconi da conti segreti svizzeri, come hanno evidenziato i procedimenti giudiziari in cui era coinvolto, il figlio Guido Maria, attuale presidente del Gruppo, ha mai sfogliato un libro di storia non edulcorato? Al rampollo parmigiano erano stati chiesti chiarimenti che però latitano. Appunto la morale di facciata, o meglio, fuori tempo limite che scomoda addirittura Kant. Meno male che il consiglio di amministrazione della Barilla (in “zona Cesarini”, si fa per dire) il 4 marzo 2005 ha recuperato terreno almeno sulla carta, approvando un Codice Etico di 24 cartelle. Nel testo, a pagina 11 è inciso: «Barilla considera come punti irrinunciabili nella definizione dei propri valori la Dichiarazione universale dei Diritti Umani dell’Onu». Belle parole, o forse chiacchiere al vento, anzi fumo negli occhi degli ignari consumatori. Ma la sostanza? Magari un ravvedimento dei fratelli e sorella Barilla (Guido Maria, Luca, Paolo, Emanuela)? Nulla, per ora. Il dna parmense non tradisce il lauto business. Narrano le cronache del quotidiano Il Corriere della Sera (12 luglio 2008): «La famiglia Barilla «premia» il socio svizzero Anda-Bührle. Accelera il riassetto del gruppo: più peso agli azionisti storici. La Finba Iniziative concentrerà altre attività e sarà partecipata all’85% da Barilla Holding e al 15% dagli elvetici. Riassetto al vertice del gruppo Barilla che dopo molti anni ridefinisce i rapporti con il socio di minoranza storico (15%), la famiglia svizzera Anda-Bührle, entrata alla fine degli anni Settanta. Le modifiche nella governance e nelle relazioni partecipative stanno entrando in questi giorni nella fase esecutiva con la fusione in Barilla G e R Fratelli, la capogruppo industriale, di quello che fino a ieri è stato il veicolo societario dell’alleanza, la Relou Italia. Se i tempi saranno rispettati, già dalla settimana prossima la partnership dovrebbe trasferirsi nella nuova holding Finba Iniziative. Tuttavia non è solo un’operazione di facciata ma vi è la sostanza di un riassetto societario che accompagna una riorganizzazione industriale al termine della quale il 15% della famiglia Anda avrà più «peso». Nella nuova configurazione, infatti, rispetto al passato
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saranno concentrate sotto la società comune alcune attività che in precedenza erano fuori dall’area di influenza degli svizzeri. Secondo una versione che circola in Barilla, si tratta di una specie di premio fedeltà dopo un periodo di turbolenza finanziaria dovuta alla fallimentare acquisizione della Kamps, il gruppo tedesco del pane. Nel dicembre scorso si era conclusa consensualmente la burrascosa stagione di joint venture con la Banca Popolare di Lodi, entrata in Kamps a sostegno della Barilla subito dopo l’Opa del 2002. La cessazione del contenzioso ha portato il gruppo della pasta al 100% di Kamps e Harry’ s (prodotti da forno), e contestualmente è stata delineata una nuova struttura di rapporti con gli Anda-Buhrle. Il passo successivo è stato, a marzo, l’annuncio che le «bakeries» della Kamps, cioè la rete di oltre 900 negozi (quindi non il business del pane industriale), erano in vendita. Poi un mese fa la vendita di GranMilano alla Sammontana, e ora sono partite le operazioni più prettamente finanziarie. La prima è, appunto, la fusione «al contrario» di Relou in Barilla Fratelli. «Al contrario» perché Relou è socia al 49% di Barilla Fratelli che, lo ricordiamo, è la capofila industriale. E in questo modo viene di fatto smantellato il vecchio schema della partnership azionaria con i soci di minoranza. Il successivo step, che in questi giorni sta per essere messo a punto, è il contestuale trasferimento dell’alleanza in una nuova finanziaria, la Finba Iniziative, che sarà dunque partecipata all’85% dalla Barilla Holding (100% famiglia) e al 15% dagli svizzeri. E qui, come aveva scritto Il Sole 24 Ore anticipando le linee della riorganizzazione, i due partner dovrebbero siglare un patto parasociale la cui principale materia da regolare sarà, quasi sicuramente, il meccanismo di prelazione sulle rispettive quote. Il gruppo emiliano, 18mila dipendenti, 64 stabilimenti in 11 Paesi, leader mondiale nel mercato della pasta e primo in Italia nei prodotti da forno (Mulino Bianco), ha chiuso il 2007 con 4,2 miliardi di euro di ricavi (+.4,3%). Allora chi controlla la Barilla? Nell’interrogazione parlamentare del 13 giugno 1985 (numero 3-00953) — focalizzata anche sulla Ferrero — dei senatori Bonazzi e Riva indirizzata ai ministri del commercio con l’estero, dell’industria, del commercio e dell’artigianato e del tesoro, è scritto: «Premesso: che il 71 per cento della Barilla G. e R. f.lli s.p.a. è posseduto da soggetti di nazionalità non italiana, e cioè per il
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40 per cento dalla Financieringsmatschappy Relou N.V. di Amsterdam, per il 16 per cento dalla Pagra A.G. del Liechtenstein e per il 15 per cento dalla società svizzera Loranige S.A.; che l’81,5 per cento della P. Ferrero e C.S.P.A. è pure posseduto da soggetti esteri, e cioè il 18,75 per cento dalla olandese Brioporte B.V. ed il 25 per cento, per ciascuna, dalle svizzere Nelgen A.G. e Creitanen A.G.; che diversi organi di stampa hanno dato notizia, non smentita, che le società estere che possiedono la maggioranza delle azioni delle due società farebbero capo a soggetti di nazionalità italiana, si chiede di sapere: se sia vero che le società estere che possiedono la maggioranza delle azioni della Barilla G. e R. f.lli s.p.a. e della Ferrero e C.S.P.A. fanno capo a soggetti di nazionalità italiana; come, in tal caso, è stato possibile realizzare tale situazione; se tutto questo sia compatibile con le vigenti norme valutarie e fiscali». Scava e scava affiorano le maxi-tangenti di Pietro (padre di Guido Maria, Luca, Paolo, Emanuela), il caso Sme, il piduista Berlusconi Silvio (tessera gelliana numero 1816). E poi ancora il pregiudicato Cesare Previti (condannato in via definitiva), un esperto in materia di conflitto di interessi alla stregua del suo stesso padrone. Proprio il soldato Previti: ossia il relatore del disegno di legge di riforma che ha smantellato la legge 185 del 1990 imponendo un controllo reale sul traffico di armi. Previti Cesare è stato anche il primo vice presidente dell’Alenia e ha continuato a sedere nel consiglio d’amministrazione dell’azienda bellica fino al 1994. In un altro libro, stra-documentato ed intitolato Mani Pulite, la vera storia (Editori Riuniti, 2002), si rileva minuziosamente (pagine 472-474): «Allo scandalo Sme il pool arriva da solo, senza l’aiuto di Stefania Ariosto: indagando sui conti del finanziere Franco Ambrosio, e risalendo da questi ai conti di un imprenditore in affari con lui, Pietro Barilla (deceduto nel 1993, ndr) si imbatte nel conto zurighese usato da Barilla per pagare tangenti a Dc e Psi. Da quel conto il 2 maggio e il 26 luglio 1988 partono due bonifici di circa 800 milioni e 1 miliardo per l’avvocato Pacifico. Questi versa poi 200 milioni al giudice Verde, 850 a Previti e 100 a Squillante. Perché? Convocato dal pool, Guido Barilla, figlio del defunto Pietro, non sa spiegare perché mai suo padre avesse versato tutto quel denaro a due avvocati che non avevano mai lavorato per lui. Sembra
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una storia gemella dell’Imi-Sir (…) Intanto l’uomo di Arcore invita a cena in un ristorante di Broni due degli inserzionisti pubblicitari più affezionati delle sue tv, Pietro Barilla e Michele Ferrero. E li convince seduta stante a costituirsi in una nuova società, la Iar, che si propone di rilevare la Sme al prezzo di 600 miliardi. La nuova offerta viene ufficializzata dai Barilla e Ferrero nell’ultimo giorno utile, il 25 maggio: il ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida si assenta dalla stanza dove sta per avvenire la firma del contratto Prodi-De Benedetti per ricevere, al telefono, l’improvviso rilancio (…) La Sme resterà all’Iri. Ma Barilla e Ferrero sono contenti ugualmente: il loro scopo era semplicemente quello di impedire a De Benedetti di dare vita a un colosso alimentare che probabilmente li avrebbe schiacciati. Missione compiuta anche per Silvio Berlusconi». Sempre per masticare la pasta dei Barilla, ovvero “la pubblicità dei buoni sentimenti”, sfogliamo un altro testo basato sulle carte processuali, titolato Mani Sporche (Chiare Lettere, 2007); a pagina 63 è attestato senza tema di smentite: «Il 2 maggio Barilla bonifica 750 milioni a Pacifico, che li preleva in contanti e li porta in Italia. Mentre la Cassazione esce con la sentenza definitiva, Verde comincia a depositare decine e decine di milioni cash sul suo conto italiano. Il 26 luglio, due settimane dopo il verdetto di Cassazione Barilla – capocordata della Iar – riapre il rubinetto svizzero e accredita un’altra provvista, stavolta di 1 miliardo, a Pacifico. Il quale la suddivide fra Previti (850 milioni) e Squillante (100 milioni), stavolta per bonifico bancario, riservando a se stesso appena 50 milioni. Perché mai il socio di Berlusconi nell’affare Sme dovrebbe pagare un miliardo e 750 milioni a due avvocati di Berlusconi che neppure conosce e a un giudice di Roma, anch’egli a lui sconosciuto, se nella causa Sme fosse tutto regolare? (…) L’accusa non ha dubbi: corruzione in atti giudiziari per compravendere la sentenza Sme che consentì a Berlusconi di sconfiggere De Benedetti. Esattamente come avvenne poi nel 1991, con la sentenza Mondadori». Dunque, la Barilla senza possibilità di smentita, annovera soci ed alleati finanziari produttori e trafficanti di armi ed ordigni di primo livello. Nel 2002 la multinazionale alimentare italiana si è allargata al mercato tedesco acquistando, per un miliardo di euro, la Kam-
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ps, produttrice di pane e crackers. L’anno successivo ha comprato per 517 milioni la Harrys, azienda francese dello stesso comparto. I soldi necessari alla Barilla sono stati elargiti dalla Banca Popolare di Lodi — attraverso cui passano transazioni finanziarie per la compravendita di armi anche a nazioni in guerra o prive di democrazia in barba alla legge 185/1990 s.m.i. (cfr.: Relazioni al Parlamento italiano) — che ha costituito una nuova società, la Finba Bakery, e poi in marzo ha girato il 17 per cento del capitale della Finba a vecchie conoscenze della Barilla: tramite la solita finanziaria anonima, la Gafina, la quota è passata nelle mani della famiglia Anda-Bührle, presente nel capitale Barilla con una partecipazione del 15 per cento dal 1979. Ecco la sorpresa. Nel Memorial Journal Officiel du GrandDuché de Luxembourg (edizione del 4 maggio 2004 – C n° 469) riaffiora una società anonima: Bakery Equity S.A. (capitale sociale: di 337.139.060 euro, suddivisi in 33.713.906 azioni aventi un valore pari a 10 euro cadauna), costituita dinanzi al notaio Paul Frieders il 3 dicembre 2002. In qualità di amministratore spicca il faccendiere Gratian Anda accanto agli italiani Francesco Mazzone e Fabio La Bruna. L’oggetto principale è l’acquisizione e il controllo di interessi in Finbakery, Partner G, Finbakery Netherlands e Gibco. All’interno di questa scatola societaria ribolle un minestrone finanziario: Barilla Holding (Parma), Finba Bakery Holding (Dusseldorf), Finbakery Netherlands (Amsterdam), Banca Popolare di Lodi (Lodi), Finbakery Europe (Dusseldorf), Gafina (Rotterdam), Gibco o più dettagliatamente Lombok Limited (Gibilterra, un paradiso fiscale), Harrys, Kamps, Ramisa (Convention principale d’investissement et d’actionnariat reformulée et amendée) siglata il 4 novembre 2002 da Bpl, Azionariato industriale e Barilla Holdind S.p.a.), Dutch Foundation (Stichting Bakery Finance di Amsterdam), Finba Luxembourg. In Bakery Equità S.A. figura anche una vecchia conoscenza di casa Barilla (attuale consigliere di Barilla G. e R. Figli S.p.A. nonché Lieken AG, ovvero Nicolaus Issenmann, nato a Zurigo il 6 maggio 1950). Ovvio, non è tutto. Dopo una girandola di fusioni, apparentamenti, capitalizzazioni e trasferimenti di capitali urgono gli approfondimenti al di là delle Alpi. Il 30 aprile 2009 Ticino Finanza rimarca: «E buonanotte ai suonatori... Arrivano Spagnoli e Italiani e se ne vanno gli Elvetici. Infatti, se aprono CMB e Santander, esce dal
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mercato luganese la banca zurighese IHAG. Al 31 dicembre 2008 il profitto operativo lordo di IHAG Privatbank era di 21.6 mio CHF e il profitto netto 14.6 mio. La banca impiega circa 93 dipendenti. Il personale che operava a Lugano è stato assorbito da altri Istituti, tra cui quelli aperti di recente sulla nostra piazza finanziaria. La banca, presieduta da Gratian Anda, nipote di Emil Georg Bührle, ha partecipazioni in Privatbank IHAG Zürich AG, AdNovum Informatik AG, la fabbrica d’aerei militari e civili Pilatus Flugzeugwerke AG, Hotel Castello del Sole, Hotel zum Storchen, Stockerhof Immobilien, Terreni alla Maggia SA, Private Equity Beteiligungen, Tenuta di Trecciano SA. IHAG rimane dunque in Ticino con un albergo, vini, polenta e la produzione del riso che cresce alla latitudine più settentrionale d’Europa, nel delta della Maggia. Gratian Anda siede inoltre nel CdA della Holding Barilla in Italia, che per il 15% fa capo alla sua famiglia, mentre l’azienda d’armi storica di famiglia Oerlikon-Bührle è stata ristrutturata, vendendo alcune attività e nel 2000 cambiando il nome in Unaxis. IHAG Privatbank dichiara di essere composta da banchieri “denen Sie Ihr Vertrauen schenken können” ovvero in cui possiamo credere e che è caratterizzata da uno spirito di famiglia “das Familiäre kennzeichnet unsere Bank”. Per famiglia, si intendono forse i signori Bührle e Anda che spendono cifre considerevoli nella sponsorizzazzione di mostre d’arte della Foundation E. G. Bührle Collection nella Zollikerstrasse (Emil Georg Bührle, 1890-1956, è stato il noto produttore di armi nella Oerlikon-Contraves e fondatore della banca IHAG) e di concerti e concorsi musicali come il Concours Géza Anda. Con i tempi che corrono per il Private banking, e visti i risultati concreti di marketing e immagine di una forma obsoleta di comunicazione quale ormai è la sponsorizzazione, forse certe banche dovrebbero smettere di sviolinare e di farsi suonare da improbabili pifferai magici e mettersi a fare banca un po’ sul serio... Le banche svizzere si sono buttate a tagliare in maniera decisa i costi a causa dell’attesa contrazione di quest’anno per la crisi economica globale, il che si è tuttavia tradotto solo in chiusure e licenziamenti “diversamente confezionati”, ma sarebbe ora che si affrontasse in maniera professionale competente quella che viene chiamata da tutti ‘crisi’ che è in realtà un profondo cambiamento strutturale che esige una strategia chiara e illuminata e una politica forte. E quanto a questo,
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abbiamo visto come è finita con il segreto bancario...». L’11 maggio 2009 appare sul Corriereconomia la classica toppa del casato: «Nella tabella pubblicata a corredo dell’articolo del 4 maggio su “Barilla, cambio al vertice e ritorno all’industria”, si attribuisce alla famiglia Anda-Bührle, azionista di gafina BV, anche la proprietà della F. Relou BV. Il dato non è corretto. La catena di controllo del gruppo è infatti la seguente: Barilla Holding e Gafina detengono, rispettivamente, l’85% e il 15% del capitale di Finba Iniziative (in futuro chiamata Barilla Iniziative), la quale controlla direttamente o indirettamente il 100% della Barilla G. e R. Fratelli S.p.A. Più in particolare, Barilla Iniziative detiene il 50,62% del capitale della Barilla G. e R. Fratelli e il 100 % della Finanziaria Relou BV, che a sua volta detiene il 49,38% della stessa Barilla G. e R. Fratelli». Per caso danzano le veline? Ecco un comunicato stampa aziendale: «Barilla, prima azienda italiana al mondo per reputazione. Il Reputation Institute assegna a Barilla il primato per la reputazione tra le aziende italiane e la prima posizione in assoluto nel settore alimentare. Parma, 25 maggio 2010. Secondo una ricerca del Reputation Institute di New York, condotta tra le 600 aziende più importanti al mondo, classificate per fatturato, Barilla si aggiudica la diciannovesima posizione tra quelle con la migliore reputazione, prima tra le italiane e prima in assoluto nel settore alimentare. I risultati della ricerca, pubblicati sul sito della rivista Forbes, sono stati ottenuti attraverso la consultazione diretta dei consumatori in 24 paesi nei diversi continenti». «Lo stile — come sosteneva Pietro Barilla — è un modo di comportarsi che “implica tante cose”. Tutto ciò significa soprattutto ispirarsi a principi e valori condivisi che si richiamano al consenso». A pagina 12 del Codice Etico aziendale è scritto: «uno degli aspetti centrali che qualificano la condotta di Barilla è costituito dal rispetto dei principi di comportamento intesi a garantire l’integrità del capitale sociale». Appunto, i soldi, ricevuti dalla produzione e vendita di armamenti; utili poi investiti dai soci elvetici in strumenti di morte. Armi: un’offerta di qualità che aiuta a vivere meglio dentro e fuori casa Barilla. Consigli per gli acquisti: infarinare bene le carte e censurare i critici.
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Con le buone o con le cattive: il risultato non muta, ma fa il suo lurido effetto. Complimenti e buon appetito.
Capitolo quarto Bombe amare Mediterraneo in agonia: testimone silenzioso della guerra balcanica e custode degli orrori, risalenti all’ultimo conflitto planetario. Un mare di armi chimiche e nucleari: un milione di ordigni proibiti e convenzionali inabissati dagli Alleati nel “Mare Nostrum”, dal 1943 ai giorni nostri. Ma il numero a conti fatti, seppure desunto dai documenti sepolti negli archivi istituzionali — National Archive di Londra, Department Defense USA, Archivio di Stato italiano, Archivio Storico della Marina Militare — è pur sempre sottostimato. Due le aree particolarmente colpite dalle discariche subacquee di scorie belliche, disposte dagli statunitensi: il Tirreno e, soprattutto, l’Adriatico, un mare chiuso che impiega 100 anni per il ricambio delle acque superficiali. Il rapporto dell’US Army (29 marzo 2001) denominato “Off-Shore Disposal of Chemical Agents and Weapons Conducted by The United States”, a parte il riscontro diretto, è un’altra prova tangibile. Nel testo ufficiale, a pagina 12 si fa esplicito riferimento all’affondamento di un notevole quantitativo di ordigni imbottiti di aggressivi tossici: nella Baia di Napoli, all’isola di Ischia, nel Golfo di Manfredonia, al largo del porto di Bari e in un luogo non indicato. In una relazione più recente (3 gennaio 2007) al Congresso USA (“U.S. Disposal of Chemical Weapons in The Ocean”), l’analista David M. Barden sottolinea che considerevoli, ma sconosciute, siano la quantità e la tipologia di munizionamento affondato dalle Forze Armate USA. In uno studio (11 novembre 2010) realizzato dall’associazione indipendente Global Green USA (diretto da Paul F. Walker) per conto dell’Onu, sono indicati - nella mappa geografica a pagina 8 - come siti di affondamento, proprio l’Adriatico (Gargano) ed il Tirreno. Il report evidenzia che gli USA nel periodo 1918-1970 hanno affondato migliaia di bombe e missili, particolarmente nel ventennio 19461965. La testimonianza dell’ufficiale Ugo D’Atri (con esperienza da alto ufficiale della Marina Militare) è di un addetto ai lavori di primo piano: «L’opinione pubblica italiana non è stata messa sufficientemente al corrente. Soprattutto nell’Adriatico, ma non solo, dal ’45 c’è stato un diluvio di bombe, probabilmente un milione: iprite e gas nervino, roba veramente pericolosa. Di queste bombe, soprattutto a Molfetta dove ho avuto da giovane un’esperienza di comando, ne tro-
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vavamo, si può dire, una al giorno. E le trovavamo sotto costa nel periodo ’92-’93. A poche decine di metri dalla spiaggia, a Torre Gavetone. Le prime ordinanze le ho fatte io. Poi abbiamo cominciato con la Marina militare una lunghissima opera di recupero. I nostri fondali marini, anche non tanto al largo, cioè sotto costa, sono disseminati di ordigni. I fondali del basso Adriatico sono strapieni di bombe. Anche sul Tirreno, a Napoli e dintorni, a Salerno, i fondali marini sono pieni di bombe. Questi residuati bellici sono pericolosissimi. E poi la cifra delle bombe NATO non sarà mai quantificabile e indicabile con precisione, perché le hanno buttate a casaccio dove capitava». Nel 1899 il Congresso internazionale per la pace, all’Aja, propose la risoluzione di “astenersi dall’uso di tutti i proiettili che mirano alla diffusione di gas asfissianti o dannosi”, con la motivazione che un tale metodo di guerra appariva inumano. Tra le grandi potenze soltanto gli Stati Uniti dissentirono basandosi sul fatto che l’aspetto disumano degli aggressivi chimici non era chiaramente dimostrato. Il governo Usa ha sempre mantenuto questo punto di vista. Nel 1925 il Protocollo di Ginevra ripropose il bando degli aggressivi chimici ed esso fu insabbiato in sede di discussione al senato statunitense per l’opposizione dell’American Legion e dell’American Chemical Society; nonostante la dichiarazione di Roosvelt (1943), di Eisenhower (1960) e di altri ancora, determinati tipi di gas, detti genericamente “riot-controll” (contro le sommosse) furono usati per motivi di ordine pubblico. Nel 1941 iniziò a funzionare a pieno regime l’arsenale di Edgewood (Maryland), sede dello U.S. Army Medical Research Institute of Chemical Defense. In loco 8 mila addetti, tra militari ed operai, fabbricavano iprite (mustard gas) su larga scala (Brophy L., Fisher G., The Chemical Warfare Service: Organizing for War, Office of the Chief of Military History, Washington, 1959). Nel corso della seconda guerra mondiale i timori più volte espressi da Washington su un possibile uso di armi tossiche da parte dell’Asse vennero alimentati da un rapporto confidenziale (353/6) redatto l’11 settembre 1943 dal maggiore Stewart F. Alexander, consulente medico di chimica bellica del quartier generale per il Mediterraneo. Occorreva come sempre un pretesto, anche se nel rapporto Alexander è specificato in conclusione che «non risultano segnalazioni di impiego tattico di tale agente chimico». L’Intelligence, pom-
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pata a dovere dai comandi centrali, gonfiò i resoconti paventando la minaccia che Hitler fosse intenzionato ad usare il gas contro le truppe alleate impegnate nel sud Italia. Ne derivò un’autentica psicosi che contagiò anche il presidente Roosvelt, il quale in un discorso alla radio minacciò “ampia e completa ritorsione” nel caso in cui le potenze dell’Asse avessero fatto qualsiasi uso di gas. «L’uso di tali mezzi di guerra è stato dichiarato fuori legge dalla coscienza della civile umanità. Il nostro Paese non li ha mai usati e spero che non sarà costretto ad usarli. A tale riguardo, dichiaro categoricamente che non useremo mai in nessuna circostanza tali mezzi, se non saranno prima impiegati dai nostri nemici. Come Presidente degli Stati Uniti e Comandante delle Forze Armate Americane intendo chiarire al di sopra di ogni dubbio ai nostri nemici che l’impiego di tali metodi barbari e disperati e che atti di questa natura contro una qualsiasi nazione alleata debbono essere considerati come diretti contro gli Stati Uniti stessi e, pertanto, trattati in conseguenza. Noi promettiamo ad ogni autore di tali crimini pronta ed immediata ritorsione con gli stessi mezzi, e mi sento obbligato in questo momento ad ammonire le armate e i popoli dell’Asse che le terribili conseguenze di qualsiasi impiego di tali metodi inumani ricadranno prontamente e sicuramente sulle loro teste. Pertanto, qualsiasi uso di gas velenosi da parte di ciascuna delle potenze dell’Asse sarà immediatamente seguita dalla più ampia e completa ritorsione sui centri fortificati, sui porti e altri obiettivi militari per l’intera estensione del territorio di tale Paese». Alle parole seguirono presto i fatti, anche se le forze armate dell’Asse (oltretutto i Tedeschi avevano a disposizione il micidiale Tabun, mentre il regime mussoliniano non era da meno, avendone già fatto uso in Etiopia e Libia) non usarono mai gas velenosi contro gli angloamericani. Sin dallo sbarco in Sicilia, i gloriosi Alleati sperimentarono a tutti gli effetti munizionamento al fosforo e al napalm. Nell’agosto del ’43 il presidente Roosvelt concesse l’autorizzazione ad imbarcare congrui rifornimenti di bombe contenenti iprite con destinazione l’Italia. Il mercantile John Harvey, appena varato, fu scelto per trasportare il carico della cosiddetta Levinstein H. Ben duemila bombe M 47 A1, contenenti 32 chilogrammi di gas cadauna, progettate nel 1930 dal Chemical Warfare Service, furono caricate su un treno all’Eastern Chemical Warfare Depot nel Mary-
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land. Il capitano Elwin F. Knowles ricevette l’ordine di portarsi alle banchine della Curtis Bay Depot di Baltimora per caricare gli ordigni. Il 28 novembre del 1943 il piroscafo approdò a Bari con un carico di 100 tonnellate di iprite: ogni bomba aerea era lunga poco più di un metro e venti, con un diametro di 20 centimetri. Gli ordigni proibiti dovevano servire a sfondare la linea Reinhardt. Il 2 dicembre del ’43, tuttavia, i Tedeschi bombardarono il porto barese. L’ex ufficiale Glenn B. Infield nel libro Disaster at Bari (The Macmillan Company, New York, 1971; tradotto e pubblicato dall’editore Adda nel ‘77) ha documentato in prima linea gli avvenimenti: «Fu il più grave episodio di guerra chimica nel secondo conflitto mondiale. Uno dei sei segreti mai svelati della seconda guerra mondiale era costituito dalle circostanze in cui nella notte del 2 dicembre 1943 oltre un migliaio di militari alleati e inermi civili italiani morirono a Bari per effetto della diffusione di un centinaio di tonnellate di gas velenoso. Si trattava di iprite, il letale gas usato nella prima guerra mondiale, all’epoca della vicenda considerato ancora uno dei possibili estremi mezzi di guerra». Quella sera non fu dato l’allarme generale per la presenza del gas. E non venne fornita alle autorità sanitarie degli ospedali civili alcuna informazione sull’esposizione all’iprite. Un paio di settimane più tardi, fu il Washington Post a scrivere che «quello di Bari è stato il più grave, improvviso bombardamento subito dopo Pearl Harbor. Delle 30 navi nel porto almeno 17 sono state affondate, fra le quali 5 mercantili americani e 8 molto danneggiate. Le perdite in uomini sono state almeno un migliaio». Nel ’49 il generale Eisenhower diede alle stampe il libro Crociata in Europa. Ike scrisse: «il porto fu soggetto ad un’incursione e subimmo la più grave perdita inflittaci con attacco aereo dell’intera campagna militare nel Mediterraneo e in Europa». Ma ciò che l’autorevole quotidiano americano prima ed Eisenhower dopo volutamente non rilevarono, fu che tra le navi distrutte c’era la John Harvey, esplosa con il suo carico di iprite non registrato. Un veleno che gli Alleati intendevano utilizzare in Europa. Bisognava impiegare l’arma chimica per sfondare la linea Reinhardt. Ma quel gas finì in fondo al mare italiano. Sull’incursione tedesca calò una strana cortina di silenzio. La ragione di quel mistero era la riprovazione umana, l’uso proibito a livello internazionale. Churchill in persona impedì che si aprisse un’inchiesta sulle conse-
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guenze del bombardamento. I morti di Bari furono seppelliti come “deceduti per ustioni”. Così l’esatto numero delle vittime civili non fu mai conosciuto. In quella fase gli Alleati erano congelati davanti alla linea di difesa tedesca, distesa attraverso le montagne a nord di Isernia e la cresta di San Salvo fino a Vasto. Davanti alla Reinhardt scorreva il fiume Trigno, subito dietro il Sangro. Un baluardo quasi insuperabile, dietro al quale la Wermacht bloccava l’avanzata verso il nord. Gli attacchi a questo muro difensivo si erano succeduti inutilmente e le perdite erano stati gravi. C’era il sospetto che, pur di sfondare, gli Alleati sarebbero ricorsi all’iprite: perché altrimenti non si comprende cosa facessero cento tonnellate di bombe caricate con questo gas a Bari, se non essere prontamente caricate sui bombardieri di stanza nel Tavoliere delle Puglie, per la bisogna. Non si conosce quale altro uso sia ipotizzabile in una guerra, per l’iprite, tranne l’impiego per scopi militari. Ancora oggi se ne pagano le conseguenze volutamente ignorate a livello governativo. La segretezza del carico indusse il comando Usa a nascondere sia ai militari sia ai civili italiani l’enorme gravità della situazione. I contaminati morirono tra atroci sofferenze per tutelare un granitico segreto; una rigidissima censura militare bloccò ogni informazione. Il 9 aprile 1945, sempre a Bari, alle ore 11.57 esplose il piroscafo americano Charles Henderson. Era un Liberty che trasportava 6.675 tonnellate di bombe di variegata tipologia, partito da Norfolk il 14 marzo 1945. Non è stato mai appurato se fu incidente o sabotaggio. Mancavano pochi giorni alla fine della guerra in Italia. Che ragione c’era di ammassare ancora gas letali in Europa, se di lì a poco sarebbe stata sganciata sulla città di Hiroshima la prima bomba nucleare? Le conseguenze furono incalcolabili. “Un ammasso caotico di macerie di ogni sorta — si legge nella relazione ufficiale del Genio Civile, curata dall’ingegner Giuseppe Geraci —. Del piroscafo, che pochi minuti prima dominava con la sua mole la scena della calata, non restavano che due enormi spezzoni. La prua e la poppa ridotte ad un ammasso informe di ferraglie. Della parte centrale dello scafo non si scorgeva alcuna traccia. La calata denominata n. 14, dove trovavasi attraccata la nave per una lunghezza di 75 metri, era del tutto sparita”. Grave il tributo pagato dalla popolazione civile. «Anche la Henderson, al pari della Harvey, custodiva aggressivi chimici», dichiara Vito Antonio Leuzzi, diretto-
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re dell’Ipsaic. Una rigorosa censura sul carico della nave venne imposta dalle autorità alleate, ma anche da quelle italiane. «Ancora non si spiega perché — riflette ancora Leuzzi — gli alleati accumulavano armi letali, proibite dalle convenzioni internazionali, in una fase in cui il conflitto poteva dirsi concluso. E in una realtà distante dai teatri di guerra». In attesa di risposte rimane agli atti bibliotecari la testimonianza inedita di Nicola Bottalico, uno dei pochi operai del porto sopravvissuti all’esplosione: «Il sottoscritto, destinato con la squadra 39 della mattina, stava in attesa perché la nave Henderson dalla banchina 17 doveva passare alla 13. Arrivate le undici e trenta, il caposquadra ci ordinava di avvinarci alla nave. Io ero destinato alla stiva numero 3 dove era un carico di bombe di 250 chilogrammi. Passarono pochi muniti e venne lo scoppio. Mi trovai sbattuto vicino a una scaletta che portava in coperta. Però dopo che il cielo diventò chiaro ci trovammo diversi operai salvi. Però nessuno si permetteva di buttarsi a mare perché la nafta ribolliva nell’acqua (…) Uscimmo all’esterno del porto completamente ricoperti di nafta. La gente ci scambiava per negri». L’Union Jack - giornale delle forze armate alleate che si stampava in città - definì l’incidente del 9 aprile 1945 «uno dei maggiori disastri della guerra nel teatro del Mediterraneo». Un disastro di cui non compare traccia nei libri di storia. «Segreto militare a parte, la Marina italiana per il recupero degli ordigni ha utilizzato un sistema arcaico — dichiara Angelo Neve, presidente dell’associazione San Nicola per la pace —, ha ritenuto opportuno raggrupparli e farli brillare direttamente in mare, causando un grave danno alla flora e alla fauna marina. Perché non sono stati interpellati gli americani, visto che in massima parte sono loro gli artefici di questa sciagura?». Gli ultimi conflitti bellici, più o meno preventivi, ci hanno indotti a considerare il lato oscuro delle strategie militari. La guerra chimica è uno degli eventi ancora oggi meno conosciuti del secondo conflitto mondiale. Sempre più spesso, a battaglia terminata, emergono circostanze scomode per la propaganda delle forze in campo vincenti. L’iprite è un liquido bruno, oleoso, volatile che attacca e distrugge tutte le cellule viventi. Il solfuro di etile biclorurato aggredisce, se respirato, l’apparato cardiovascolare. Colpisce con vesciche e piaghe, senso di arsura, difficoltà a respirare, cecità. La Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha stabilito: «è a
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rischio di cancerogenicità per l’essere umano». Produce esiti neoplastici — argomenta la letteratura scientifica — a carico dell’apparato respiratorio ed emolinfopoietico anche dopo singole esposizioni. Usata per la prima volta dall’esercito tedesco in Belgio, a Ypres (1917), l’iprite è stata messa al bando dalla Convenzione di Ginevra nel 1925. Le potenze occidentali, tuttavia, hanno continuato a produrla, mascherata dall’industria del cloro. Le fonti storiche parlano chiaro: basta esaminarle. Occultate dai segreti insabbiati, malamente oscurati, spesso intrappolati nelle reti dei braccianti del mare, infine dimenticati. Eppure attuali: infatti seguitano a colpire, anzi sono programmati per manifestare l’azione ritardata a distanza di tempo, specie sulle generazioni future, in ottemperanza a quanto avevano indicato tre luminari americani alla Casa Bianca. Il Memorandum Groves (segretato fino al 1975) prospettava di inquinare un’area e danneggiare le forme di vita presenti, per continuare a colpire le generazioni future. In altri termini, creare menomati per sempre. Gli autori di quella famigerata indicazione (James Bryant Conant, rettore dell’università di Harvard nonché presidente del National Research Defense Council, ed i premi Nobel Arthur H. Compton e Harold C. Urey) suggerivano il 30 ottobre del ’43 al governo USA di «utilizzare l’uranio sporco per inquinare le città nemiche con nuvole di nanoparticelle radioattive». Non è proprio un mistero, il fenomeno è sempre più palese: la nocività come strategia globale di dominio. Dal ’46 è andato in onda quotidianamente uno stillicidio invisibile all’opinione pubblica, di pescatori infortunati, gravemente ammalati e deceduti per cause misteriose. Lo studio scientifico di Adamo Mastrorilli (Esiti a distanza di lesioni di vescicatori), analizzava il caso di 102 pescatori molfettesi, ipritati dal ’46 al ’54, e venne pubblicato nel 1958 dal Giornale di Medicina Militare (numero 4). Nell’Adriatico fra il 1950 ed il 1960 la frequente contaminazione con casi mortali della gente di mare da iprite, fosgene, fosforo, lewisite e napalm, ha assunto le caratteristiche di massa. Nel 1960 la Rassegna di Medicina industriale e di Igiene del Lavoro pubblicava lo studio a cura di Nicola Mongelli Sciannameo, Infortunio collettivo da solfuro di etile biclorurato in un gruppo di pescatori. «Tirando la rete avvertiva bruciore alle mani provocato probabilmente da sostanze tossiche (Gas Iprite?)», emerge da una una denuncia del 14 marzo 1966: è l’
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infortunio occorso al pescatore Francesco Andriani, a bordo del peschereccio Maria Giuseppa Madre. Un gravissimo incidente di cui si abbia notizia ufficiale risale al 25 luglio 1996. Nel pomeriggio di quel giorno il peschereccio Marco Polo, impegnato in una battuta di pesca a venti miglia dal Gargano, ha preso una bomba che ha mandato all’ospedale con gravi ustioni tre uomini d’equipaggio. Alla fine del mese di giugno del ’96, al largo del litorale veneziano, nei pressi di Chioggia, una misteriosa sostanza giallognola — descrivono le cronache —, cerosa e viscida faceva incendiare le reti dei pescherecci a contatto con l’aria. Le analisi di laboratorio svelarono che si trattava di fosforo bianco, un liquido altamente tossico, normalmente impiegato nell’industria bellica per le bombe incendiarie. Un’inchiesta giudiziaria della Procura della Repubblica di Venezia accertò che “La sostanza è diffusa in maniera puntiforme e non omogenea, quindi difficilmente localizzabile”. Il 15 dicembre 1999, Nicola Freda, comandante della capitaneria portuale di Manfredonia, documentava ufficialmente: «Soltanto nell’ultimo semestre sono stati rinvenuti tre ordigni bellici nelle acque antistanti il porto di Manfredonia. Il primo ordigno, una bomba d’aereo di fabbricazione statunitense, è stato rinvenuto il 9 settembre da un peschereccio a circa 4 miglia dalla costa. Il successivo il 7 ottobre dal peschereccio Smeraldo a circa 3 miglia ad est del porto. Infine il 18 ottobre il motopesca Isacco ha recuperato e prontamente rilasciato in mare un ordigno bellico, ovvero una bomba da mortaio al fosforo a 3 miglia dalla costa. Nello stesso periodo un’interrogazione parlamentare del senatore Bucciero, indirizzata il 21 ottobre ’99 al governo, confermava che “Numerosi fusti di iprite, apprestati per una guerra chimica degli angloamericani, da questi furono gettati in mare tra Molfetta e Manfredonia nel 1943, onde distruggere le prove della violazione della Convenzione di Ginevra”. Nel 2001 a farne le spese il sommozzatore Lorenzo Ciani, che aveva rimediato due settimane di prognosi all’ospedale di padre Pio di San Giovanni Rotondo. Il sub aveva sfiorato a quattro metri di profondità l’ogiva corrosa di una bomba chimica, rimettendoci quasi una mano. Nella disattenzione generale prosegue lo stillicidio giornaliero, inferto ai pescatori di mestiere dai residuati della seconda guerra mondiale. L’8 ottobre dello stesso anno ne sono stati portati a galla undici caricati al fosforo, che una volta issati a bordo, a contatto
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con l’aria, hanno preso fuoco ustionando due pescatori di Manfredonia in provincia di Foggia. Angelo Salvemini, 33 anni, e Walter Granatiero, 26 anni, hanno riportato ustioni di primo e secondo grado agli arti superiori e alla schiena. Ferite non gravi giudicate guaribili in quindici giorni dai sanitari dell’ospedale di Monte Sant’Angelo. Salvemini e Granatiero formano il giovane equipaggio del peschereccio Partenope di circa 9 tonnellate di stazza, che a tre miglia e mezza dalla costa sipontina ha agguantato i pericolosi residuati bellici. «Le bombe erano lunghe più di un metro e avevano la circonferenza di una trentina di centimetri — racconta Walter —. La carcassa era del tutto arrugginita. Siamo riusciti a buttarle a mare, però ci siamo bruciati». Angelo fa un po’ di conti: «Abbiamo subito danni alla nostra salute, alla barca, alle reti e ai calamenti — ripete il comandante con moglie a carico e tre figli —. Perché la zona delle bombe non è indicata sulle carte nautiche?». In assenza di divieti i lavoratori del mare hanno seguitato a sudare il sangue per un tozzo di pane onesto nelle aree infestate, esponendosi a sostanze letali come l’iprite e l’arsenico fuoriuscite dagli ordigni corrosi. «Sui fondali è presente armamento convenzionale (bombe d’aereo, mine, proiettili d’artiglieria) e “chimico” — spiega il biologo Ezio Amato che, per conto dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, dal ’97 al ’99 ha monitorato l’impatto dei residuati bellici sugli ecosistemi marini —. Quest’ultima tipologia è costituita da una carica di iprite, fosgene, fosforo e composti contenenti arsenico (lewisite, adamsite, Clark I, Clark II). L’esposizione a tali sostanze provoca nell’essere umano danni molto seri, data l’azione di tipo vescicante, asfissiante, irritante e tossica. I pesci dell’Adriatico sono particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori, subiscono danni all’apparato riproduttivo, sono esposti a vere e proprie mutazioni che portano a generare esemplari mostruosi». Nella relazione dello studio campione (ottobre 1999) — una sorta d’ago in un pagliaio — i biologi Amato ed Alcaro hanno documentato: «Si è accertata la presenza sui fondali del Basso Adriatico di almeno ventimila ordigni con caricamento costituito da aggressivi tra cui varie formulazioni di iprite e composti a base di arsenico; in totale si sono individuate ventiquattro diverse sostanze costituenti il “caricamento speciale”, di queste, diciotto sono persistenti e in grado di esercitare effetti nocivi per l’ambiente.
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Nell’area “pilota” sono stati individuati centodue bersagli di interesse; tra questi ne sono stati ispezionati mediante robot filoguidato sedici, e undici sono risultati essere ordigni a carica chimica corrosi. I campioni prelevati, acqua, sedimenti e pesci, sono stati sottoposti a quattro diverse metodologie d’analisi che, nel complesso, indicano la sussistenza di danni e rischi per gli ecosistemi marini determinati da inquinanti persistenti rilasciati dai residuati corrosi. In particolare, grazie ai confronti effettuati con esemplari prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato, in alcuni campioni, tracce significative di arsenico e derivati dell’iprite e la sussistenza di condizioni di sofferenza nei pesci attribuibili alle sostanze fuoriuscite dai residuati bellici». Il governo italiano non ha fatto nulla se non barcamenarsi annegando nel vuoto. Pesci malati e mutageni continuano a finire sulle nostre tavole, come se niente fosse. Anche l’Italia fascista ha prodotto munizionamento proibito, utilizzandolo in Etiopia e Libia. Nel Belpaese gli stabilimenti di produzione degli aggressivi chimici (Avigliana, Rho, Bussi sul Tirino, Foggia) attendono ancora una bonifica. Una missiva, indirizzata dal ministero della Difesa il 18 giugno 1948 al prefetto di Foggia, apre uno squarcio sugli impianti di produzione segreti, a ridosso di una città e di campi coltivati a vigneti, grano ed ortaggi. «Oggetto: Foggia – Lavori di bonifica dell’ex centro Chimico Militare. Con riferimento a quanto segnalato con il telegramma a cui si risponde, si fa presente quanto segue: a) i lavori di bonifica e di sgombero macerie e materiali degli ex impianti di produzione aggressivi chimici di Foggia non possono essere eseguiti che da personale specializzato, in quanto il personale stesso, durante il lavoro, deve essere munito di maschere antigas, guanti e indumenti protettivi, dato che esistono ancora sotto le macerie apparecchi contenenti quantità considerevoli di iprite e disfogene; b) i menzionati aggressivi chimici, per il modo col quale vennero effettuate le distruzioni dai Tedeschi, hanno inquinato, oltre le parti costituenti gli impianti, anche le macerie dei fabbricati crollati. Questo Ministero, pertanto, dopo attento e ponderato esame della questione, allo scopo di evitare possibili gravi infortuni, è venuto nella determinazione di far effettuare i lavori sopraccennati da personale di questa A.M., pratico di maneggio delle sostanze tossiche». Gli arsenali inutilizzati sugli umani di pelle nera e “razza inferiore” finiscono in mare
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su disposizione degli Alleati. A parte le testimonianze eroiche del Nucleo Sminamento delle Puglie, preposto alla bonifica dei porti con uomini che, nonostante la paga da fame, hanno sacrificato la vita, molteplici rapporti della Questura di Bari (reperibili nel locale Archivio di Stato) rivelano gli affondamenti di zatteroni inglesi colmi di munizionamento a base di gas, al largo del capoluogo regionale, dopo il ’45. Il 31 luglio del 1947 il Servizio Porti Demanio e Pesca della Marina Mercantile, con una semplice circolare (5661/1/M.A.) firmata dal ministro Cappa, ha stabilito le “Norme per la rimozione di navi aventi a bordo ordigni esplosivi o aggressivi chimici”. Al punto 2 del testo è scritto: «Il materiale esplosivo e chimico estratto dall’acqua dovrà essere subito allontanato dal posto di lavoro ed affondato in mare in alto fondale. Le zone di affondamento verranno determinate dalle autorità Militari Marittime periferiche, di accordo con le capitanerie di Porto, tenendo presente che i fondali non debbono essere inferiori ai 150 metri e che le zone stesse non debbono essere frequentate da navi da pesca e debbono essere prive di cavi sottomarini. Per l’affondamento degli aggressivi chimici le zone prescelte, oltre ai requisiti di cui sopra, debbono avere un fondale minimo di metri 460 ed essere distanti almeno 20 miglia dalla costa più vicina e 10 miglia dalla più vicina rotta di traffico». Una disposizione dello Stato Maggiore della Marina (reparto O.B.S., protocollo 44198, a firma Pecori) il 4 novembre del ’47, aveva confermato «la opportunità di trasportare sollecitamente al largo e di affondare i materiali esplosivi che per le difficoltà di cernita e confezionamento rappresentano un maggior pericolo (…) Pertanto in accordo con la D.G. delle armi e degli Armamenti Navali questo Stato maggiore: prescrive che gli esplosivi di risulta siano distrutti mediante bruciatura e che le munizioni cariche che non fosse possibile sconfezionare in sicurezza da parte della ditta siano distrutte mediante brillamento in alti fondali. Stabilisce che tutti gli altri materiali e congegni esplosivi o il munizionamento di qualunque tipo e impiego, non specificato al precedente comma a), siano come per il passato accantonati per il più breve tempo con ogni accorgimento per la incolumità pubblica e alla prima occasione trasportati al largo ed affondati nei punti già stabiliti». Nel Rapporto di fine lavori, sottoscritto dal maggiore V. Martellotta (19 giugno 1948), si apprende che «sono stati richiesti
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interventi per la bonifica ad abitazioni e cure ad incidentati da iprite in diverse località del litorale Adriatico Pugliese e anche per alcune località dell’Alto Adriatico (Ancona, Rimini e Cattolica)». Gli ordigni non convenzionali furono trafugati dai soldati tedeschi in un deposito fascista di Urbino e poi, per ordine di Hitler, vennero inabissati di fronte al litorale marchigiano. L’interrogazione parlamentare (numero 6324) del 20 novembre 1951, indirizzata da Enzo Capalozza al ministro della Marina Mercantile, esigeva interventi urgenti: «Per conoscere quali urgenti misure voglia prendere per il rastrellamento delle bombe all’iprite che sin dal 1944 sono state gettate in mare dalle truppe tedesche in ritirata e che oggi infestano il tratto dell’Adriatico da Ancona a Pesaro — e specialmente da Fano a Pesaro — che provocano lesioni gravi e incapacità al lavoro ai nostri pescatori». Il sottosegretario di Stato Tambroni confermava la pericolosa presenza dell’ arsenale fornendo sei coordinate di affondamento: «l’ufficio circondariale marittimo di Cattolica, sulla base delle denunce di rinvenimento ricevute dal 1945 in poi e di quelle di infortunio dei pescatori locali per contaminazione da aggressivo chimico, ritiene di poter affermare che la zona in cui le bombe ad iprite sarebbero state affondate si troverebbe fra Pesaro e Castel di Mezzo». La quantità degli ordigni risalenti alla seconda guerra mondiale è incalcolabile: le navi americane hanno trasportato in Italia circa 10 mila tonnellate di bombe aeree all’iprite. Al termine del conflitto bellico furono affondate su disposizione Usa, dinanzi alla costa pugliese. Lo storico Vito Antonio Leuzzi, responsabile dell’Istituto pugliese per la Storia dell’Antifascismo, per anni ha cercato le prove dell’affondamento del materiale bellico disposto dalle autorità marittime italiane e le ha scovate: «I fondali di alcune zone di mare comprese fra Molfetta e Manfredonia furono utilizzati dal 1946 al 1955 come discarica dell’immensa quantità di bombe chimiche proibite dalla Convenzione di Ginevra del 1925, che gli angloamericani custodivano a Bari nell’Adriatic Depot e nel grande campo d’aviazione del Tavoliere». La richiesta al governo italiano fu indirizzata dal governo Usa per occultare prove compromettenti. «Nell’agro di Manfredonia gli Alleati avevano allestito, accanto alle basi aeronautiche della 15ª Air Force, il campo munizioni che si estendeva su di una superficie di 20 chilometri quadrati — rivela l’anziano Raffaele Occhionero, Clerk
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Supervisor del Town Major (comandante del presidio delle forze militari di occupazione) —. Al termine del conflitto le bombe all’iprite, fosgene e fosforo sono state scaricate a un paio di miglia dalla costa, al largo di Manfredonia, dai prigionieri tedeschi e dai lavoranti italiani». Lo Stato italiano e quello inglese sono tenuti al segreto militare fino al 2018 e i loro archivi risultano quasi inaccessibili. La prima censura fu ordinata da Churchill per celare le responsabilità britanniche nell’uso di un aggressivo chimico vietato dalle norme di guerra. Anche le autorità militari e civili del Belpaese, però, non hanno sfigurato, tanto da «distruggere le cartelle cliniche degli infortunati — argomenta il professor Nico Perrone, docente universitario —. Occultando le cause degli infortuni i governi italiani hanno impedito che i numerosissimi malcapitati venissero curati efficacemente». Di recente, nel 2011, i pescatori ipritati di Molfetta si sono visti negare l’accesso alle proprie cartelle cliniche dai responsabili del Policlinico di Bari. Un solo esempio a portata di rete: è accaduto a Vito Tedesco e a suo fratello, contaminati alle mani e agli occhi. Le indagini della cattedra di Igiene industriale dell’università di Bari e una ricerca dell’Istituto di Medicina del lavoro hanno concluso che «La frequente contaminazione da iprite dei pescatori ha assunto caratteristiche di massa». Un rapporto dell’ex ministero della Marina Mercantile ha riconosciuto che «un quarto dell’intera superficie marittima del basso Adriatico è inutilizzabile per la pesca a strascico». Il problema è che, nonostante le promesse istituzionali, non si sa come recuperare e smaltire accumuli di iprite e fosgene ingentissimi e ormai privi di ogni protezione esterna. Alla fine della Seconda guerra mondiale la parte più a sud del Mare Adriatico rappresentava la principale area di seppellimento del Mediterraneo. La maggior parte del materiale bellico scaricato in mare proveniva dai depositi di armi convenzionali e chimiche che i tedeschi prima e gli Alleati dopo avevano installato nei pressi di Foggia e Bari. A peggiorare la situazione, l’inabissamento di ordigni recuperati dalle navi USA affondate nei porti pugliesi. Da molte interviste coi pescatori locali (pugliesi, ma anche maltesi, albanesi e croati) risulta evidente l’esistenza di “dumping sites non officially reported” (discariche non denunciate ufficialmente). Al largo del Gargano (parco nazionale) è stata segnalata, dagli operatori dell’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologi-
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ca Applicata al mare, un’area contenente armi convenzionali e chimiche alla profondità di 230 metri, su un’area estesa approssimativamente 10 miglia nautiche. Sempre al largo del Promontorio garganico è stata individuata dagli operatori dell’Icram, e confermata grazie alle interviste coi pescatori, la presenza di armi chimiche con iprite a profondità variabile tra i 200 e i 400 metri, su una estensione di circa 14 x 29 miglia nautiche, distante dalla costa di Vieste approssimativamente 30 miglia nautiche (circa 55 km). Un’altra area di forma circolare, nelle acque del Gargano, è segnata sulle carte nautiche come discarica di armi e munizioni inesplose: profondità 50 metri, distanza dal centro dell’area alla costa di Vieste approssimativamente 5,5 miglia nautiche (poco più di 10 km), raggio dell’area 1,4 miglia nautiche (2,7 km circa). Per quanto riguarda gli effetti sull’ambiente marino delle sostanze chimiche contenute nei residuati bellici, grazie al progetto ACAB (Armi Chimiche Affondate e Benthos) realizzato dall’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare) e al progetto REDCOD (Research on Environmental Damage caused by Chemical Ordnance Dumped at sea), nato dalla collaborazione tra l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e tecnologica Applicata al Mare, il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare, il Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Siena, l’Istituto di Biomedicina e di Immunologia Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Centro Tecnico Logistico Interforce NBC, pubblicato nell’ottobre del 2006, la comunità scientifica dispone di dati attendibili che preoccupano gli studiosi. Da un punto di vista generale, gli alti livelli di arsenico rintracciati negli organismi marini pongono serissimi interrogativi sulla salute umana. Gli studiosi non escludono che le cause dell’elevata presenza di arsenico riscontrata nelle aree di studio siano dovute esclusivamente agli ordigni inesplosi adagiati sui fondali marini. Non sono state rilevate tracce di iprite negli organismi marini, e questo è dovuto probabilmente al rapido passaggio nella circolazione sanguigna. Il professor Giorgio Assennato, ex direttore dell’Istituto di Medicina del lavoro di Bari ed attuale direttore dell’Arpa Puglia, avverte: «Le conseguenze della guerra di oltre mezzo secolo fa ricadono ancora oggi sulla gente di mare. Sono caduti nel vuoto però gli avvertimenti della comunità scientifica internazionale che da tempo
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ha messo in luce le conseguenze di lungo periodo e l’alto rischio cancerogeno». La National Academy of Science aveva pubblicato nel ’93 una monografia sull’iprite intitolata Veterans at risk. L’attualità del gas era legata al fatto che in quegli anni alcune riviste mediche come il Journal of the American Medical Association e Nature avevano denunciato la sperimentazione fatta dai governi sui propri soldati all’inizio della seconda guerra mondiale. Il prezzo più elevato valutato in perdita di salute e di vita viene costantemente pagato dalle ignare popolazioni. A Mattinata, un paese garganico di 6 mila residenti — privo di industrie ed insediamenti inquinanti — che si affaccia sull’Adriatico, è stato registrato un aumento del 100 per cento dell’incidenza di tumori. Quattro medici di famiglia hanno scritto al sindaco: “Allarme inquinamento ambientale”. Negli ultimi due anni il numero delle persone malate di cancro è raddoppiato. Soprattutto leucemie, ma anche polmoni, colon e prostata. Gli esperti le chiamano neoplasie multi genere, a persone d’ogni età. Il dottor Raffaele Ciuffreda ha rilevato nel solo 2010 dieci nuovi casi di malati oncologici, a cui aggiungere una mezza dozzina di recidive. Rispetto agli anni passati vuol dire un inquietante più cento per cento dell’incidenza tumorale. «Per ogni medico di famiglia, ed ancor più in un paese piccolo come Mattinata, i pazienti sono la propria grande famiglia — spiega il dottor Michele Falcone —. Se uno muore perdiamo un amico con cui magari avevamo giocato da bambini. Ecco perché, scoprendo che ogni collega aveva notato lo stesso considerevole aumento di patologie tumorali, abbiamo deciso di sollevare il problema rivolgendoci al sindaco Roberto Prencipe, la massima autorità sanitaria locale». Una lettera in cui i quattro medici (inclusi i colleghi Anna Maria Latino e Filippo Palumbo) non si limitano ad indicare lo spaventoso incremento delle neoplasie, ma ne indicano le cause nell’inquinamento ambientale. A poca distanza, nel parco marino delle Isole Tremiti (“area protetta”) si è consumata un’estate esplosiva. «Ci siamo immersi a mezzo miglio dall’isola di Pianosa per ammirare le praterie di Posidonia ma abbiamo sfiorato con mano un tappeto di bombe inesplose — raccontano visibilmente storditi Mario e Luigi —. Potevamo saltare in aria. Perché nessuno segnala questo grave pericolo?». Ma è possibile che una riserva naturale marina con fondali cristallini e una varietà di flora e fauna unica nel Medi-
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terraneo covi un arsenale esplosivo? Pianosa è la più remota dell’arcipelago delle Diomedee — da cui dista 12 miglia —, ultimo lembo di suolo italiano prima del confine con le acque internazionali e, poco oltre, con quelle della Croazia, si staglia a 18 miglia dal Gargano. La minuscola e disabitata isola prende il nome dal suo inconfondibile aspetto pianeggiante. Dal 14 luglio 1989 è zona A, area di maggior integrità e rispetto ambientale: il cuore delle Diomedee. Attualmente numerosi involucri esplosivi inclusi quelli risalenti al recente conflitto nei Balcani perdono il loro micidiale contenuto, alterando l’habitat marino con gravi conseguenze ambientali e sanitarie. La scoperta è dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che ha censito una minima parte degli ordigni. «Le indagini hanno evidenziato un notevole stress per gli animali marini campionati — rivela Luigi Alcaro, ricercatore dell’Ispra —, segni di sofferenza e alterazioni a livello biochimico e istologico che possono essere diretta conseguenza del Tnt disperso dalle bombe». Il Tnt, secondo la letteratura scientifica, è un composto solido, giallo e inodore prodotto dalla combinazione di acido nitrico e solforico. Numerosi studi hanno dimostrato la tossicità di questa sostanza sull’organismo umano che si manifesta a diversi livelli provocando epatite e anemia emolitica, danni all’apparato respiratorio, eritemi e dermatiti. Inoltre, il Tnt è stato qualificato a livello internazionale anche come potenziale agente cancerogeno. Un esame più attento mostra sul suolo tracce dell’impatto di bombe costituite da metallo fuso sulla roccia. Il problema è noto da tempo; in merito all’inquinamento bellico e ai rischi derivanti per la navigazione vi è anche una successiva ordinanza della Capitaneria di Porto di Manfredonia (n.16 del 3 giugno 1991). Dopo anni passati in fondo al mare gli involucri delle bombe iniziano a sgretolarsi e disperdere le sostanze nocive. Gli ordigni contengono, infatti, il Tnt, che è un composto solido, giallo e inodore prodotto dalla combinazione di acido nitrico e solforico. Ed è altamente nocivo per tutti gli esseri viventi. Numerosi studi scientifici condotti su operai delle fabbriche di armi hanno dimostrato la tossicità di questa sostanza sull’organismo umano che si manifesta a vari livelli provocando epatite e anemia emolitica, danni all’apparato respiratorio, eritemi e dermatiti. Effetti nocivi sono stati rilevati anche su animali di laboratorio: ratti e cani nutriti con cibo contenente Tnt hanno evi-
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denziato tremori e convulsioni. Il Tnt è stato qualificato anche come un potenziale agente cancerogeno. I ricercatori dell’Ispra hanno scelto proprio Pianosa per approfondire le ricerche e lo hanno fatto analizzando mitili, ricci e un pesce stanziale che vive a contatto con il fondo: il grongo. «Le indagini — riferisce Luigi Alcaro, ricercatore dell’Ispra che ha soggiornato per qualche tempo sull’isola — hanno evidenziato un notevole stress per gli animali marini campionati, segni di sofferenza e alterazioni a livello biochimico e istologico che possono essere diretta conseguenza del Tnt disperso dalle bombe». Possibile che almeno le autorità locali non sapessero nulla? Almeno il prefetto di Foggia, Antonio Nunziante, è stato debitamente informato, ma inspiegabilmente non ha mosso un dito. Comunque, presso la Capitaneria di Porto di Manfredonia, in provincia di Foggia, scoviamo un faldone impolverato con l’ordinanza numero 27, risalente al 18 ottobre 1972. Il documento, firmato dal tenente colonnello Mariano Salemme, rende noto che «Nella zona di mare circostante l’isola di Pianosa, per una profondità di metri 100, sono depositate su fondo marino un numero imprecisato di bombe aeree che rendono quella zona pericolosa alla navigazione, ancoraggio e sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione». Pertanto «Dalla data odierna fino a nuovo ordine, nella zona di mare sopra indicata per una profondità di mare di metri 500 (cinquecento) è vietata la navigazione, l’ancoraggio e la sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione». Strano. Il Portolano della navigazione non fa menzione degli ordigni, e neppure le carte nautiche più aggiornate. Sull’isola e attorno ad essa è vietata «l’alterazione con qualsiasi mezzo dell’ambiente geofisico o delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, nonché l’introduzione di armi, esplosivi e di qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, nonché sostanze tossiche o inquinanti», stabilisce il decreto interministeriale del 14 luglio 1989. Non è tutto. Sulla scogliera fa bella mostra un ordigno inesploso risalente alla guerra nei Balcani. Un esame più attento mostra al suolo tracce di deflagrazioni costituite da metallo fuso sulla roccia. Ma il Governo non interviene? Interpellati nel 2011, i ministri dell’Ambiente (Prestigiacomo) e della Difesa (La Russa) non hanno offerto alcuna spiegazione. L’unica risposta istituzionale risale al 14 ottobre 2005, quando il ministro della Difesa, Antonio Martino, si
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limitò ad ammettere «il rinvenimento di un numero imprecisato di ordigni bellici risalenti alla seconda guerra mondiale» senza comunque predisporre la bonifica dei fondali. C’è un rischio effettivo in quest’area dal pregevole e fragile habitat, scarsamente controllata dalla guardia costiera? «Nelle acque di Pianosa operano abitualmente pescatori di frodo e in prossimità dell’isola transitano petroliere e spesso gettano l’ancora natanti fuoribordo, circostanze che rendono possibile l’esplosione degli ordigni una volta che essi venissero a contatto con gli scafi», attesta l’interrogazione parlamentare (410469) indirizzata il 13 luglio 2004 da Mauro Bulgarelli ai ministri dell’Ambiente e della Difesa. Il deputato dei Verdi aveva chiesto inoltre: «quali iniziative si intendano adottare per rimuovere nel più breve tempo possibile gli ordigni giacenti sui fondali, fonti di gravissimo pericolo per l’ecosistema, per la navigazione e la salute delle popolazioni dell’arcipelago delle Tremiti?». Chi ha bombardato l’isola ad un soffio dal Gargano? Un’ inchiesta della Marina militare italiana ha accertato la responsabilità degli Usa. «Ci sono anche bombe non convenzionali, all’iprite e al fosforo. È un retaggio dell’ultimo conflitto mondiale: l’isola servì agli Alleati quale campo di tiro per l’Aeronautica, che peraltro distrusse il faro, i pozzi e i rifugi dei pescatori», rivela l’anziano Raffaele Occhionero, testimone oculare dell’evento in veste di interprete presso il comando anglo-americano di stanza a Manfredonia. Una nota del capitano di fregata Domenico Picone, datata 13 gennaio 1996, conferma: «sui fondali dello specchio di mare circostante l’Isola di Pianosa, che è classificata “zona di riserva integrale” della Riserva marina Isole Tremiti, in una fascia ampia circa cento metri dalla costa stessa, sono state a suo tempo identificate n. 48 bombe d’aereo (oltre alla probabile esistenza di altre nascoste dalla vegetazione) risalenti alla 2ª guerra mondiale». L’alto ufficiale insisteva: «Lo scrivente ha più volte interessato vari Organismi della Marina Militare, nonché il Ministero dei Trasporti e della Navigazione per la rimozione dei suddetti ordigni bellici, sia allo scopo di eliminare lo stato di potenziale pericolosità per la pubblica incolumità, sia al fine di rendere fruibili gli specchi acquei dell’isola di Pianosa». Le più alte sfere dello Stato giocano ancora allo scaricabarile? «Che senso ha salvaguardare un ambiente se non si elimina una pericolosa insidia?» osserva il velista Antonio Di Carlo. In realtà, qualcuno ha
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tentato di porvi rimedio. Il 22 giugno ’95 Domenico Picone, comandante della Guardia costiera sipontina, interpellava i superiori: «Si prega di far conoscere le proprie determinazioni in ordine agli ordigni bellici che rivestono notevole rilievo ai fini della salvaguardia della pubblica incolumità». Il direttore generale del ministero dei Trasporti e della Navigazione replicava il 19 settembre dello stesso anno: «Sembrano sussistere i presupposti necessari per l’intervento della Marina Militare in quanto è stata accertata la presenza di ordigni esplosivi che possono pregiudicare l’incolumità della vita umana in mare ed essere pericolosi per la navigazione». Tre mesi più tardi, il 18 dicembre, il contrammiraglio Sirio Pianigiani innestava la marcia indietro tutta, a nome dello Stato Maggiore: «La Marina Militare interviene solo a titolo di concorso ed allorquando gli Enti richiedenti assumono formalmente gli oneri di spesa. L’inizio delle operazioni di bonifica potrà avvenire solo allorquando saranno note l’assunzione degli oneri di spesa e l’avvenuta disponibilità dei fondi necessari da parte dell’Amministrazione civile interessata». Strano. La bonifica di ordigni esplosivi è stata sempre effettuata, a partire dal 18 settembre 1963, dai nuclei Sdai della Marina militare. «Non sarebbe il caso di applicare «il principio di chi inquina paga?» chiede Elisabetta Zamparutti, deputato dell’opposizione in Commissione Ambiente. Magari i responsabili potrebbero essere indotti dallo Stato italiano a farsi carico dei danni sociali ed ambientali prodotti, causati dall’affondamento indiscriminato di questi ordigni bellici e della loro lunga permanenza in un habitat marino che tutto il mondo ci invidia. La Convenzione internazionale di Ginevra del 1925 proibiva «l’uso in guerra di gas asfissianti, tossici o simili, nonché di tutti i liquidi, materiali o procedimenti analoghi». Questo Protocollo non vietava la produzione e l’immagazzinamento di armi chimiche e non escludeva l’uso dei gas asfissianti come rappresaglia a un eventuale attacco militare con l’uso di armi chimiche. Ciò spiega la presenza sul territorio pugliese, durante la 2ª Guerra Mondiale, di un vastissimo arsenale alleato. La Convenzione sulla loro proibizione firmata a Parigi il 13 gennaio 1993 stabilisce che tutti gli Stati Membri devono procedere alla distruzione di tutte le armi chimiche nei territori sotto la loro giurisdizione; devono, inoltre, provvedere alla rimozione delle armi lasciate sul territorio di altri Stati. Queste disposizioni non si applicano «a
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discrezione dello Stato Parte, alle armi chimiche sotterrate nel suo territorio anteriormente al 1° gennaio 1977 e che rimangono sotterrate, o che sono state scaricate in mare anteriormente al 1° gennaio 1985». Il recupero delle armi chimiche rilasciate in mare è di assoluta responsabilità dello Stato che effettua il recupero, senza distinzione tra acque territoriali o internazionali. La Convenzione di Parigi non affronta l’impatto sull’ambiente delle sostanze chimiche rilasciate dagli ordigni inesplosi. Gli esperti affermano tuttavia l’assoluta necessità di localizzare i luoghi dove si trovano le armi chimiche, approntare studi ecologici per valutarne l’impatto sull’ambiente e raccogliere informazioni sullo stato di corrosione delle munizioni. Nel suo mare è vietata «l’alterazione con qualsiasi mezzo dell’ambiente geofisico o delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, nonché l’introduzione di armi, esplosivi e di qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, nonché sostanze tossiche o inquinanti» attesta un decreto interministeriale. I fondali cristallini presentano una varietà di flora e fauna marina unica nel Mediterraneo; ma conservano un segreto esplosivo. Nel 2005, in risposta ad un’interrogazione parlamentare (numero 4-10237), il ministro della Difesa Antonio Martino ebbe a riferire giocando al ribasso — stile Ponzio Pilato — senza adottare alcun provvedimento: «Relativamente agli ordigni bellici affondati in basso Adriatico, risalenti alla seconda guerra mondiale, l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare (ICRAM) ha condotto, su commissione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, tra dicembre 1997 e ottobre 1999, un programma di ricerca denominato A.C.A.B. (Armi Chimiche Affondate e Benthos), volto a localizzare le aree di fondale interessate dalla presenza di residuati bellici a carica chimica, ad accertarne lo stato di conservazione ed a valutare i rischi ambientali. Il programma ha visto la partecipazione anche del Consorzio Nazionale interuniversitario per la Scienza del Mare (Co.Ni.S.Ma.) e dello Stabilimento militare Materiali Difesa nucleare Batteriologica e Chimica di Civitavecchia. Il citato Istituto, che ha, tra l’altro, pubblicato un manuale illustrativo delle misure precauzionali da adottare in caso di recupero di tali residuati, ha in atto anche il cosiddetto progetto RED COD (Research on Environmental Demage caused by Chemical Ordnance Dumped at sea), finanziato dalla Commissione Europea,
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per approfondire le conseguenze derivanti dai residuati bellici giacenti sui fondali dell’area interessata. Solo a conclusione di tale studio (dicembre 2005) verranno valutate le opportune iniziative e le specifiche competenze dei diversi Enti Istituzionali coinvolti nella problematica. Ciò premesso, in merito alle attività di bonifica del fondo marino da ordigni (ovvero, materiali esplodenti ad essi assimilabili), preme sottolineare, in generale, come la normativa vigente stabilisca che interventi di tale natura siano suddivisi in occasionali e sistematici. In particolare, è previsto che: la bonifica occasionale sia effettuata a seguito di ritrovamento di ordigni esplosivi e limitatamente all’intervento su di essi e per motivi connessi con la salvaguardia della pubblica incolumità; la bonifica sistematica sia effettuata, a scopo preventivo, nelle aree dove si presuppone la presenza di ordigni nascosti da fenomeni naturali o, comunque, non individuabili a vista. L’urgenza dell’intervento non può, comunque, prescindere da considerazioni di effettiva sussistenza del rischio per l’incolumità pubblica in mare, secondo una scala di priorità che colloca all’ultimo posto interventi su pericoli considerati solo potenziali. Peraltro, fatta salva la competenza dell’autorità del Governo a richiedere in ogni caso l’intervento di bonifica, per le bonifiche di carattere occasionale potrà essere richiesta l’azione di reparti militari specializzati per il tramite dell’Autorità militare territorialmente competente. Nel caso, invece, di bonifiche sistematiche, la Prefettura — così come disposto dal Dipartimento della Protezione Civile in data 16 maggio 1996 — si dovrà avvalere, di massima, di ditte specializzate, in possesso di specifici requisiti, coinvolgendo eventualmente l’apparato militare solo in operazioni preventive di ricognizione delle aree da bonificare, atte a valutare fattibilità e stima dei costi e, se necessario, nella fase finale di alienazione e distruzione degli ordigni. Con specifico riferimento alla bonifica dei fondali delle acque prospicienti l’isola di Pianosa, auspicata dall’interrogante, si rileva che nel 1972, a seguito del rinvenimento di un numero imprecisato di ordigni bellici risalenti alla seconda guerra mondiale, è stata effettuata dal Nucleo Sminamento Difesa Antimezzi Insidiosi (SDAI) della Marina Militare la relativa bonifica che, però, non è stata portata a termine per le intervenute proteste degli abitanti. Per tale motivo è stata emanata l’ordinanza n. 27 del 1972, cui è cenno nella premessa
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all’atto, con la quale è stata vietata qualsiasi attività per un raggio di 500 metri dalla costa, nella zona antistante l’isola. Al riguardo, si precisa che l’ordinanza del Capo del Circondario Marittimo ha la funzione di regolare determinate situazioni connesse a specifici avvenimenti caratterizzati da peculiarità contingenti e, quindi, in astratto, non estensibili ad ogni fattispecie; la stessa rimane, comunque, valida ed applicabile per espressa previsione delle prescrizioni in essa contenute. Successivamente, la Capitaneria di porto di Manfredonia ha interessato il competente Ufficio territoriale del Governo, al fine di provvedere allo stanziamento dei fondi necessari per la bonifica. Richiesta, peraltro, reiterata in tempi diversi. Le iniziative della Capitaneria di porto di Manfredonia sono state condivise dallo stesso Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e dall’Ente Parco del Gargano, proprio in ragione della complessità e del carattere di sistematicità che assume l’intervento. Nel merito, il Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Ancona ha condotto uno studio di fattibilità, con il quale sono state individuate le modalità tecnico-operative inerenti all’eventuale intervento di bonifica dell’area circostante l’isola. Le risultanze di tale studio sono state partecipate alla competente Prefettura, auspicando l’avvio delle azioni necessarie alla risoluzione della problematica. Quanto all’applicazione del principio «chi inquina paga», il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha comunicato che, non appena disporrà di materiale probatorio rilevante, tale da risalire con certezza agli autori dei fatti di cui trattasi, nonché di documentazione attestante la sussistenza e l’entità dei danni arrecati alle risorse marine, valuterà se sussistono i presupposti per attivare le procedure finalizzate ad ottenere il risarcimento del pregiudizio arrecato, ai sensi dell’articolo 18 della legge n. 349 del 1986. Si aggiunge, in ultimo, con riferimento al rilascio di ordigni da parte di aerei NATO «in emergenza», nel corso di operazioni militari in Kosovo, che il Governo ha disposto l’esecuzione delle operazioni di bonifica riguardanti l’intero bacino del Mare Adriatico e che tali attività sono state svolte dalla Marina militare italiana e da unità NATO nel periodo compreso tra il 1999 ed il 2001. Inoltre, la Marina militare italiana svolge periodicamente operazioni di sorveglianza dei fondali sulle principali rotte e linee di comunicazione marittime, con l’impiego delle proprie
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unità di Contro Misure Mine (Route Survey), fornendo, quindi, una continua opera a salvaguardia della sicurezza della navigazione». Sin dallo sbarco in Sicilia, gli alleati usarono munizionamento al fosforo e al napalm. Dall’estate del ’43 venne impiegata un’altra nuova arma che sarebbe diventata tristemente famosa negli anni ’60, durante la guerra del Vietnam. Infatti, a partire dallo sbarco a Salerno, furono affidati alla fanteria americana 15 mila lanciafiamme caricati con il napalm. Tecnicamente questa miscela è un composto di petrolio con addensante di alluminio, acido palmitico e acido natftoleico. L’efficacia distruttiva ottenuta dalle operazioni terrestri convinse l’USAAF a lanciare nel giugno 1944 ordigni riempiti di napalm contro le fortificazioni tedesche in Normandia. Prima ancora, l’isola di Pantelleria venne usata come laboratorio a cielo aperto per verificare se il napalm era in grado di uccidere gli uomini all’interno dei bunker. Il napalm è stato adoperato su larga scala dalle forze alleate contro città e in campo aperto. Secondo lo storico inglese Andrew Brookes, «il primo bombardamento aereo con ordigni al napalm sul Nord Italia venne effettuato nell’inverno 1944 da alcune squadriglie di P-47» (Brookes A., Air War Over Italy). I documenti del National Archive di Londra dimostrano che non si trattò di episodi isolati. Nella relazione intitolata Developments in the Napalm Bombs (12 novembre 1944) — report on Experimental texts of napalm and permanent gel for Fire Bombs) — si fa riferimento ad una escalation bellica sulla Penisola. L’operazione Pancake (dieci giorni di bombardamenti a tappeto) con lo scopo di sostenere con l’aviazione la fanteria nella zona del fiume Senio sta a dimostrarlo. Nel rapporto segreto all’Air Ministry, firmato brigadiere generale Howard (”Report on Effect of Bombing in Support on Fifth Army Attack on 12 October 1944, novembre 1944, in Pro AIR, 23/6597, Incendiary Bombs”) si apprende che «Cessato il raid, lungo la strada si era alzata una gigantesca nuvola di fiamme e fumo e in breve tempo tutta l’area circostante era avvampata di un terribile fuoco che bruciava molto rapidamente. Tanti soldati erano rimasti gravemente ustionati ed era difficile respirare». Sulle strade dirette ai passi della Futa e del Giogo furono sganciate ben 237 tonnellate di napalm per distruggere le officine e le pompe di benzina lungo le strade. Il professor Solly Zuckermann, al soldo del Dipartimento Ricerche ed Esperimenti del ministero
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della sicurezza nazionale di Londra, aveva compiuto studi tali da comprendere quale fosse il tipo di ordigno in grado di provocare il numero più alto di feriti sia tra i soldati sia tra i civili. La sua conclusione (relazione del 6 agosto 1944, in PRO, Ho, 196/26, Research and Experiments Department) fu che «un attacco aereo effettuato con il lancio di 100 bombe avrebbe potuto provocare in media 750 feriti, quindi consigliava di privilegiare le bombe incendiarie riempite con le nuove miscele che risultavano assai efficaci perché causavano profonde bruciature alle vittime». I rapporti segreti dell’Operational Research Section (Chemical Officer Louis Rosett, 12 february 1945, in PRO, WO, 205/501, Report on Experimental Texts of Napalm and Permanent Gel for Fire Bombs) provano che «le bombe incendiarie sono state utilizzate da questa forza (l’USAAF, ndr) dopo un brevissimo periodo di sperimentazione e di sviluppo, e sono diventate un tipo di munizione standardizzata, nonostante i considerevoli dubbi di coloro che non hanno familiarità con armi di tale natura e con le loro particolari proprietà incendiarie». Infatti, gli americani adattarono all’uso le bombe da 1000 e da 2000 libbre, agganciate sotto le ali dei P-38 e P-47. Le fiamme sprigionate dal napalm consumavano qualsiasi metallo e uccidevano ogni forma vivente in un’area di un centinaio di metri. Se ne consigliava l’uso per bombardare le concentrazioni di truppe oppure per colpire i centri abitati. «Il napalm può essere utilizzato con successo contro palazzi, stabilimenti industriali o abitazioni, se sganciato a bassa quota a un’elevata velocità». In Italia gli alleati colpirono con il napalm tra marzo e aprile 1945, anche alcune zone dell’Emilia (Novellara, Reggio Emilia, Viadana, Fidenza) e del Nord est (Rovereto, Stino di Livenza, Verona, Venezia e Trieste). Non si tratta di residuati bellici dell’ultima guerra mondiale. Sonnecchiano sui fondali ed ogni tanto da Grado a Gallipoli, solleticati dalle correnti o dalla pesca accidentale, fanno capolino sulle spiagge e i litorali: proiettili all’uranio sporco, cluster bomb, missili Tomahawk, granate al fosforo, bombe a guida laser, a volte addirittura siluri. La Marina militare italiana un decennio fa aveva assicurato la bonifica, promessa da vari Governi, mentre in Parlamento centinaia di interrogazioni attendono risposte esaurienti da più di mezzo secolo. Il 18 giugno 1999, l’ammiraglio Umberto Guarnieri in qualità di capo di Stato Maggiore della Marina Militare,
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aveva dichiarato al Tg 3 nazionale, smentito in diretta dalle evidenze: «La Marina sta lavorando nell’area più a nord, che è la zona più pericolosa su un fondale di tre metri. Oltre a bonificare la zona propriamente detta è stato bonificato un canale che dalla zona va al porto di Chioggia. In queste aree ci sono due tipi di bombe: bombette che derivano dall’apertura di cluster bomb, oppure bombe normali d’aereo. Le bombette contenute nelle cluster bomb non possono essere spostate. Tant’è vero che un magistrato ne voleva alcuni esemplari per completare la sua inchiesta, ma noi gli abbiamo detto che era rischioso prelevarle e portargliele. Le abbiamo localizzate, fra tutte 24, e credo che oggi cominceranno a controminare le bombe non trasportabili per farle saltare in aria. Quelle che saranno fatte deflagrare sul posto, lo saranno con una tecnica innovativa creando intorno alle bombe una camera d’aria, contro la quale s’infrange l’onda d’urto, barriera che preliminarmente spaventa i pesci e quindi li allontana». E a chi denuncia seri pericoli per l’ecosistema dell’Adriatico la Marina ha replicato: «Per compiere queste operazioni usiamo tecnologie sofisticate a tutela dell’ambiente». Le conseguenze belliche sono ricadute in prima battuta sulla gente di mare, infine, a chiudere il cerchio della morte programmata, sulle popolazioni ignare. Sono sprofondati nel vuoto, però, gli avvertimenti della comunità scientifica internazionale che aveva messo in luce le conseguenze di lungo periodo e l’elevato rischio cancerogeno, genotossico e mutageno. Nel frattempo, chi nel mare ci lavora giorno e notte, sovente ci rimette la vita nel silenzio generale. Di che si tratta? È l’ultimo di una lunga serie di incidenti legati all’esplosione di ordigni bellici in Adriatico. Un peschereccio nuovo di zecca (il “Rita Evelin”) che affonda con mare calma piatta dinanzi alla costa marchigiana il 26 ottobre 2006. Tre pescatori (Francesco Annibali, Luigi Lucchetti e Ounis Gasmi), inghiottiti dal mare Adriatico, sono finiti in una cartellina sottile, quasi come un foglio di giornale, già impolverata come una noiosa pratica amministrativa. È tutto lì il dossier su una tragedia dimenticata troppo rapidamente, in comunicati, dispacci e relazioni istruttorie. Documenti riservati e conservati negli archivi della Capitaneria
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portuale di San Benedetto del Tronto in provincia di Ascoli Piceno. All’incirca alle 5,30 del mattino, il natante è colato improvvisamente a picco dinanzi a Porto San Giorgio, adagiandosi su un fondale di 80 metri (43 gradi e 12 primi di latitudine nord, 14 gradi di longitudine est). Le scarne informazioni relative all’affondamento dell’imbarcazione sono state fornite dall’unico sopravvissuto, il comandante Nicola Guidi (41 anni), sotto shock ma non in pericolo di vita: «Ho sentito soltanto un forte botto e subito dopo la “Rita Evelin” ha cominciato ad imbarcare acqua ed affondare in pochi minuti». Fine delle rivelazioni: il marittimo non parla. E neppure i suoi colleghi che lo hanno tratto casualmente in salvo dopo alcune ore, a bordo del peschereccio pugliese “Luna Nuova” di Bisceglie. La consegna delle autorità istituzionali e marittime è semplice: “Bocche cucite”. Le cause? “Ufficialmente imprecisate”. L’inchiesta ha stazionato a Fermo, nelle mani del giudice Piero Baschieri. Sarà soltanto un caso, ma l’area del cosiddetto “incidente” coincide con una delle 24 ampie zone di affondamento degli ordigni (un terzo delle quali dinanzi alle coste della Puglia) — e, non 6 come dichiarato dalla Nato — (all’uranio impoverito e non) abbandonati da velivoli dell’Alleanza atlantica nel mare Adriatico di ritorno dai bombardamenti in Kosovo nel 1999. E prima ancora in Bosnia Herzegovina nel 1994-95. Lo attestano le mappe e le coordinate della Nato, nonché i dati secretati dalla nostra Marina Militare. “Bombe in Adriatico: la NATO si scusa”, titolava il 17 maggio 1997 il quotidiano La Repubblica. «Sì, la Nato ammette tutto e chiede scusa all’Italia: le bombe inesplose trovate nell’Adriatico sono state sganciate dai caccia dell’Alleanza. Da Bruxelles arriva il mea culpa nelle parole del portavoce, Jamie Shea: «Ora abbiamo informato, dettagliatamente, il governo italiano, cosa che in precedenza non avevamo fatto. I dettagli erano stati forniti dai piloti ai rispettivi comandi, ma le informazioni non erano state comunicate a chi di dovere. L’Alleanza sta comunque conducendo delle indagini per stabilire se ci siano state delle mancanze e degli errori nelle operazioni di “abbandono” dei missili e delle bombe non utilizzate». In altri termini, l’Alleanza ammette l’errore, fa marcia indietro di fronte alle proteste di Palazzo Chigi, con Solana che oggi ha personalmente telefonato a Massimo D’Alema. «Abbiamo ottenuto quello che volevamo», è scritto in una nota di Palazzo Chigi. Tutto risolto,
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insomma, anche se c’è da registrare il durissimo commento del ministro degli Esteri Lamberto Dini che attacca in particolar modo il portavoce Shea: «La nostra reazione, come si dimostra ora, era assolutamente giustificata, viste le scuse della Nato (…) sarebbero sei le zone scelte dalla Nato per il rilascio degli ordigni. Per evitare altri incidenti — nei giorni scorsi una bomba esplose, provocando tre feriti — secondo la procedura e gli accordi internazionali i pescatori e tutte le imbarcazioni vengono avvisate da annunci radio delle zone pericolose. Le aree, che hanno un diametro pari a 18 chilometri, non coincidono né con le aerovie civili né con quelle navali di carattere militare e si trovano su una sorta di linea mediana che taglia in verticale l’Adriatico, tra la costa italiana e quella croata, montenegrina, albanese e greca. Ecco la mappa delle zone a rischio, quelle nelle quali la capitaneria ha sconsigliato le operazioni di pesca: a nord Chioggia e la città croata di Parenzo (10 miglia nautiche, fondale 32 metri); tra Rimini e la città di Lussino (fondale di 50 metri); tra Pesaro e Zara (79 metri); tra Bari e Durazzo (ma il fondale raggiunge i 400 metri); e più in giù nella Penisola, tra Brindisi e Pojah e Santa Maria di Leuca e Corfù (800 metri di fondale)». Scenario congelato? Il gioco delle correnti sposta e rimescola il contenuto delle acque marine. Golfo di Trieste e laguna di Venezia sono i principali bersagli di affondamento a settentrione anche per i velivoli Nato (a capacità di bombardamento nucleare, compresi i Tornado dell’Aeronautica italiana) stanziati ad Aviano e Ghedi. In quell’area marittima si movimentano ogni anno ben 30 milioni di tonnellate di greggio. In un’interrogazione parlamentare, rivolta il 22 settembre 2004 da Franco Danieli al presidente del Consiglio dei Ministri, si menziona la presenza in Adriatico oltre che di «residuati chimici della seconda guerra mondiale di produzione Usa», proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925, soprattutto di «bombe a grappolo del tipo blu 27 e proiettili all’uranio impoverito». Il premier Silvio Berlusconi non ha mai risposto; né tantomeno il suo successore Romano Prodi si è sentito in obbligo di fornire una minima spiegazione. Il senatore Danieli con dovizia di prove fa riferimento anche al fatto che «ancora oggi, in alcune zone, oltre le 12 miglia marine (ad esempio al largo di Fasano in Puglia e Cupra al largo di Cupramarittima nelle Marche) vengono rilasciate in mare bombe o serbatoi ausiliari da aerei militari italiani
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in emergenza». Al capo di Stato Maggiore della Difesa, Paolo La Rosa, chiede spiegazioni, ma l’ammiraglio nega un chiarimento. Ad ogni buon conto il 25 maggio 1999 la poco nota deliberazione 239 del Consiglio regionale delle Marche prendeva atto che «in questo ultimo periodo è continuato lo sganciamento di bombe da parte di aerei Nato nell’Adriatico, anche a ridosso della costa marchigiana». Già allora l’assise regionale considerava «il grave danno arrecato all’ecosistema marino, e paventava il pericolo di esplosioni a danno dei lavoratori della pesca». Altre singolarità. È stata la Pravda (versione online) tra i primi al mondo a dare la notizia: «Affonda peschereccio nell’Adriatico: 3 dispersi». Quello che allora sorprese fu l’insolito interessamento manifestato dal ministro degli Esteri. Massimo D’Alema in persona inviò al sindaco Giovanni Gaspari un telegramma di solidarietà alle famiglie dei marinai deceduti, alla marineria e alla città di San Benedetto. Semplice cortesia? Che ragione c’era? Istituzionalmente nessuna. Tant’è che per l’affondamento tra le Marche e l’Abruzzo di un altro peschereccio, il “Vito Padre” il 30 maggio (2 vittime), il titolare all’epoca della Farnesina non si era scomodato. E così il 17 dicembre 2006, quando i flutti avevano sommerso il “Maria Cristina” di Silvi Marina (Pescara) provocando la morte di un lavoratore del mare. La comunità dei pescatori locali ha rispedito al mittente: «Non sappiamo che farcene di questa solidarietà a parole. Piuttosto il governo bonifichi finalmente il mare in cui siamo nati e lavoriamo». Due fatti sono attualmente certi. Primo: le salme dei tre lupi di mare potevano essere recuperate immediatamente, ma le autorità hanno preferito ripescarle con tutto comodo e dopo aver ispezionato il natante, ben 19 giorni più tardi, soltanto a seguito della dura protesta della marineria locale col blocco della linea ferroviaria adriatica, nonché dei familiari delle vittime. Eppure la magistratura aveva disposto il recupero dei pescatori il 31 ottobre. I subacquei siciliani della società “Under Hundred” erano pronti a portare in superficie i corpi dei marittimi, ma le autorità militari non hanno gradito occhi indiscreti. Meglio tenere alla larga i civili. Secondo: la “Rita Evelyn” non sarà tirata in secco, precludendo la possibilità di accertare le cause dell’affondamento. Quei bontemponi dello Stato maggiore Difesa avranno pensato, come al solito, che è meglio non far sapere nulla all’opinione pubblica a proposito dei rischi e dei pe-
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ricoli che si annidano in questo mare disseminato di bombe. Infatti, l’Adriatico, sordo alle ragioni di Stato e agli accordi segreti dei nostri militari con il governo degli Stati Uniti d’America, seguita imperterrito a vomitare proiettili all’uranio impoverito abbandonati dagli aerei Usa “A-10”, soprattutto a sud (erano di stanza a Gioia del Colle). Ma non solo: emergono saltuariamente, senza però raggiungere la ribalta della cronaca nazionale, anche bombe a grappolo (cluster) e al fosforo di fabbricazione Usa. «Quei cosi li peschiamo un giorno sì e l’altro pure — rivela Nicola, che chiede l’anonimato perché non vuole problemi —. Se avvertiamo le Capitanerie passiamo un guaio. Meglio ributtarli in acqua». Gli ordigni sonnecchiano sul fondo marino. Finora la Nato non è riuscita a spiegare come mai le bombe intelligenti sono diventate all’improvviso così stupide. In situazioni d’emergenza i bombardieri alleati avrebbero dovuto gettarle per sicurezza ad almeno 70 miglia dalla costa, nelle cosiddette “jettison areas”. Invece un ordigno con la scritta “U.S. 97” era affiorato nella laguna di Marano, ad appena 6 miglia dalle foci del Tagliamento, fra Grado e Lignano Sabbiadoro. «E lì il fondale non supera i 17 metri» assicura Giuseppe, che sul suo peschereccio s’è trovato la bomba di 80 centimetri impigliata nelle reti. Sono imprevedibili: possono essere ovunque, grazie al gioco delle correnti. Basta allungare lo sguardo, oltre il manto dell’acqua, per distinguere i letali cilindri metallici. «Bombe sono», ripete Antonio di Pescara, volto marchiato dal sole come quello degli altri colleghi. Alcuni ufficiali della Marina confermano le dichiarazioni dei pescatori, che da Trieste ad Otranto ormai convivono con questi indesiderati ospiti e l’intenso traffico di petroliere, fino al prossimo incidente. Il bollettino di guerra prosegue con 30 bombe non a grappolo ripescate nel golfo di Venezia. Nel Medio e Basso Adriatico i piloti NATO hanno avuto pochi scrupoli. Tra Pesaro e Ancona, nei paraggi delle piattaforme metanifere, dalle quali il gas raggiunge la raffineria Api di Falconara, si sono liberati di «tre ordigni a grappolo e di una decina di bombe a guida laser, lunghe quasi tre metri e mezzo e pesanti una tonnellata», precisano i dati delle capitanerie di porto marchigiane. Mentre più a sud, a lambire la “Montagna del Sole” (Rodi Garganico, San Menaio, Calenella), sono approdate 3 bombe al fosforo di fabbricazione americana. I cacciamine? Chi li ha visti? Nel Salento, cittadini ed istituzioni locali
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hanno iniziato a far sentire le proprie ragioni. Lo “Sportello dei diritti” della provincia di Lecce, infatti, aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione. «La guerra nei Balcani ha aggravato la situazione, già preoccupante a causa della presenza di ordigni imbottiti di iprite e fosgene — osserva Carlo Madaro —. La questione più paradossale è il rimbalzare di competenze tra apparati dello Stato, concretizzatosi in un indecoroso scaricabarile tra ministri e ministeri. Per questi motivi — conclude Madaro — lo “Sportello dei Diritti” della provincia di Lecce ritiene doveroso rilanciare la questione del disinquinamento dell’Adriatico dai pericolosi ordigni e residuati bellici, nel silenzio dei mezzi di informazione, ed interverrà presso tutte le competenti sedi ed in particolare presso il nuovo Governo affinché la questione sia valutata sotto un’ottica unitaria e sia implementata una bonifica globale delle acque del nostro preziosissimo mare». Una miriade di interrogazioni parlamentari sottolineano che «gli interventi di bonifica delle acque del mar Adriatico conclusesi nell’agosto 2001, nonostante le dichiarazioni dei vertici della Marina militare, che garantirono il raggiungimento di un grande coefficiente di sicurezza, lasciarono gravi ombre su tutta l’operazione, contraddistinta sia dal segreto militare che da un’evidente impreparazione ad affrontare un’emergenza prevista e determinata dagli stessi organismi militari». A proposito di «uranio impoverito», la senatrice Celeste Nardini aveva chiesto al ministro della Difesa Parisi, «se il Governo non ritenga necessario assicurare un impegno straordinario per la bonifica delle aree contaminate al largo delle coste pugliesi e per misure di protezione sanitaria delle popolazioni». La parlamentare di Rifondazione intendeva anche sapere «se il Governo intenda impegnarsi da subito per la messa al bando di tutte le armi all’uranio impoverito, iniziando unilateralmente a vietarne l’uso nei poligoni d’addestramento e lo stoccaggio nelle basi militari, anche internazionali, collocate sul territorio nazionale». Mai pervenute risposte. La Convenzione di Barcellona, dal 1995, non consente la discarica definitiva a mare, nel Mediterraneo, di materiali che possono costituire pericolo per l’ambiente marino, per l’attività di pesca e per la navigazione, e quindi l’abbandono definitivo di bombe o materiale esplosivo. Rilasci di tali materiali, accidentali o motivati da condizioni di emergenza o da incidenti, devono comportare azioni di recupero,
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messa in sicurezza e bonifica delle aree interessate con verifica dei danni e conseguente azione di risanamento. «Non è possibile pensare che i ministri europei non sapessero nulla dell’uso di proiettili all’uranio impoverito» afferma Massimo Cocchi, docente di biochimica della Nutrizione allo Scottish Agricultural College di Edimburgo. Nel 1999, una lettera aperta inviata dall’allora ministro federale dell’Agricoltura della Repubblica Jugoslava, Jagos Zelenovic, ai colleghi dei Paesi dell’Unione europea, denunciava il disastro ecologico causato dai ripetuti raid aerei della Nato. In particolare si segnalava l’uso sistematico di proiettili all’uranio impoverito da parte dei cacciabombardieri statunitensi A-10. «Per i prossimi 50 anni ne pagheremo le conseguenze» insiste il professor Cocchi. Danni ambientali la cui entità è stata dimenticata, ben sapendo che l’effetto del disastro causato non è immediato. Documenti ufficiali della NATO dimostrano come fosse evidente, fin dai raid contro la Bosnia del ’95, l’utilizzo dell’uranio sporco. L’operazione venne battezzata “Deliberate Force”, e un lungo rapporto descrive nei dettagli gli 11 giorni di bombardamenti, fra l’agosto ed il settembre ’95. La relazione è presente alla biblioteca pubblica della marina degli Usa e sul sito di Afsouth, il comando NATO per il Sud Europa con sede a Bagnoli, fin dal 1997, e venne rese nota nell’ottobre ’95. Il vicecomandante della base era il generale italiano Duilio Mambrini. Nell’allegato 2 del rapporto vengono elencati, divisi per nazionalità, le decine di aerei che parteciparono alle missioni sui cieli della Bosnia. Gli USA, che hanno compiuto 2.318 sortite (65,9 per cento del totale), schieravano ad Aviano uno squadrone di 12 ammazzacarri “A-10”. Il rapporto elenca, nell’allegato 3, genere e numero di ordigni utilizzati, compresi 10.086 proiettili “Pgu-14 Api” (fabbricazione Oerlikon-Contraves: soci finanziari della Barilla), imbottiti d’uranio sporco. Il dato si differenzia dal totale rivelato dal ministro Mattarella, di 10.800 colpi, perché mancano i dardi utilizzati durante la precedente operazione “Deny Flight” nel ’94. I generali italiani sapevano. Il generale Andrea Fornasiero (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) il 29 agosto ’95 riceveva dalla NATO l’ordine di eseguire il piano d’attacco sulla Bosnia. Fornasiero era il Comfiveataf, ossia il comandante della V Forza aerea tattica alleata a Vicenza, responsabile per la pianificazione e la gestione dei bombardamenti sulla Jugoslavia. «L’aumentata
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incidenza di alcuni tipi di cancro e malformazioni genetiche verificatasi negli anni successivi alla guerra del Golfo nel sud dell’Iraq è ormai accertata». A tracciare il quadro dei rischi che il “metallo del disonore” può arrecare agli esseri umani è il professor Sandro Degetto, dell’Istituto di Chimica e delle Tecnologie Organiche e dei Materiali Avanzati del CNR di Padova. Degetto ha analizzato i rischi per l’organismo umano, in particolare per il rene, sui cui tessuti gli effetti dell’uranio possono provocare gravi casi di insufficienza renale nonché la comparsa di proteine, glucosio e creatinina nelle urine. L’intossicazione acuta può portare a danni irreversibili e alla morte, in presenza ovviamente di dosi molto elevate. In letteratura, infatti, si riportano diversi valori di massima concentrazione ammissibile nel rene (valori compresi tra 150 μg e 3000 μg di uranio per chilogrammo di tessuto renale). Per gli usi bellici il pericolo principale per la popolazione è dato dalle elevate concentrazioni di DU (Depleted Uranium) che potrebbero essere inalate immediatamente dopo l’impatto dei proiettili. Per le bombe inesplose e sganciate nell’Adriatico, il ricercatore calcola che «1 km cubico di acqua marina contenga circa 3 tonnellate di uranio». Si può quindi osservare che una bomba inesplosa rappresenta un pericolo notevole per la sua carica esplosiva. «Gran parte della letteratura scientifica — dice Mauro Cristaldi, docente del Dipartimento di biologia animale dell’università La Sapienza di Roma — evidenzia i danni da contaminazione da uranio impoverito e contrasta la minimalizzazione del rischio portata avanti dai governi e dalla stessa IAEA (International Atomic Energy Agency)». Gran parte delle prove sulle conseguenze dell’uso dell’uranio impoverito provengono dall’Iraq. L’uso di queste armi ha determinato conseguenze epidemiologiche ancora in parte sconosciute. Il professor Albrecht Schott, chimico del World Uranium Center di Berlino, nelle sue ricerche ha scoperto «la capacità mutagena dell’uranio impoverito, evidenziando la capacità di formare rotture a doppia elica sul DNA senza possibilità di riparo». E i posabili effetti di un’informazione genetica alterata sono tristemente noti: tumori, leucemie e quant’altro, compresa la trasmissione di un carico genetico alterato sulle generazioni future. Era bella la guerra di baffino. «Voglio confermare dinanzi al Parlamento che il contributo specifico delle Forze armate italiane è limitato alle attività di difesa integrata
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del territorio nazionale». Così parlò Massimo D’Alema, presidente del Consiglio, il 26 marzo 1999, ovvero il secondo giorno di guerra in Kosovo e Serbia. «Vengo qui in Parlamento a dire le cose come stanno, e soprattutto cosa il Governo possa realisticamente fare, e non a indicare equilibri alchemici o a ricercare soluzioni verbali. Potremmo annunciare che ci ritiriamo, ma non possiamo decidere da soli di sospendere la guerra. Perché per farlo serve l’intesa con la Nato, i serbi, l’Uck». Così si espresse il premier Massimo: il calendario segnava il 19 maggio. Dopo 58 giorni di guerra italiana all’ex Jugoslavia, i velivoli dell’Aeronautica militare avevano già compiuto un migliaio di sortite bombardando gli obiettivi nella regione di Pristina e le colonne del terzo Corpo d’Armata serbo tra Nis e il Kosovo. In sostanza, benché il governo continuasse a blaterare di “difesa integrata”, i top gun italiani erano in pieno conflitto bellico. Ponti, caserme, edifici pubblici, ferrovie e strade sono stati colpiti anche dai nostri aerei. L’Aeronautica militare italiana ha partecipato a tutte le operazioni di bombardamento pianificate dal Comando della Nato e gestite dalla Quinta Ataf (Allied tactical air force) di Vicenza. Con ben 54 jet messi a disposizione della Nato, l’Aeronautica tricolore è stata la più importante forza aerea coinvolta nelle operazioni belliche, seconda soltanto allo schieramento degli Stati Uniti d’America. Durante le ultime settimane del conflitto gran parte degli aerei è stata trasferita nelle basi pugliesi (Gioia del Colle e Amendola) per dimezzare i tempi delle operazioni. Una decina le missioni effettuate ogni giorno dai piloti italiani, a bordo di Tornado ed Amx, portate a termine con “intelligente precisione”, come testimonia il carico bellico imbarcato da ogni velivolo limitato a una bomba a guida laser da 450 chilogrammi, “Paveway”. In qualche caso i velivoli italiani sono rientrati alla base senza aver potuto sganciare il loro micidiale carico, a causa del maltempo, o semplicemente perché i bersagli erano stati distrutti da altri aerei. Ovviamente, non prima di essersene liberati nell’Adriatico. Per saperne qualcosa di più è sufficiente guardare un filmato della CNN che l’8 maggio 1999 ha trasmesso un briefing del generale Wald dell’Usaf, durante il quale sono state mostrate le immagini di un deposito di munizioni dell’esercito serbo in Kosovo mentre veniva centrato da una bomba a guida laser, lanciata da un Tornado italiano. L’alto ufficiale americano ha colto l’occasione per
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esprimere apprezzamento e soddisfazione per l’impegno e la precisione dei piloti italiani, complimenti ribaditi durante la sua visita a Gioia del Colle, in provincia di Bari, dallo stesso generale Wesley Clark. Dai partner atlantici D’Alema ha ottenuto chiarimenti e piena soddisfazione, a suo dire, sulla questione delle bombe buttate in Adriatico dai piloti alleati. Per la prima volta la NATO ha comunicato all’Italia il numero esatto, 143 ordigni, e le coordinate delle aree nella quali sono state rilasciate. Peccato che la cifra sia abbondantemente sottostimata, come hanno evidenziato in seguito, ed attualmente a distanza di 8 anni, i numerosi ritrovamenti. Da Bruxelles, ai cronisti il presidente del Consiglio ebbe a dire che «ora l’Italia è in grado di valutare in modo compiuto la pericolosità di questo fenomeno, che ha creato allarme nel Paese». Secondo D’Alema, «le bombe nell’Adriatico certamente non rappresentano un pericolo per il turismo, perché sono state rilasciate ad una distanza minima di 30 miglia dalla costa». Da Solana, in quell’occasione (20 maggio ’99) giunse la promessa, non mantenuta, che la «Nato parteciperà alla bonifica dell’Adriatico, inviando dei dragamine alleati nelle aree di scarico degli ordigni». Nel 2000, la Commissione ambiente del Senato, su proposta del senatore diessino Lorenzo Forcieri, approvò un provvedimento che prevedeva “l’affondamento nei mari italiani di relitti militari e carcasse di navi e cargo per trasformarle in percorsi turistici sottomarini per subacquei”. Il governo italiano sapeva anche dell’uranio sporco. Nella seduta del Senato del 27 luglio ’99, nel corso della quale si discuteva la conversione in legge del decreto che prorogava la missione italiana nei territori dell’ex Jugoslavia, la senatrice diessina Tana De Zulueta prese la parola per chiedere che il governo italiano si facesse parte dello sforzo per affrontare i danni derivanti dall’uso dell’uranio impoverito, domandando che lo stesso diventasse protagonista della battaglia internazionale per mettere al bando le armi pericolose: «Vi sono già gli elementi scientifici sufficienti per considerare rischioso per l’ambiente il rilascio di queste sostanze, a causa dei noti effetti cancerogeni e dell’impatto sul sistema cromosomico dei giovani». Il gruppo diessino applaudì con una convinzione degna delle migliori cause, molti senatori scesero dal loro banco per stringere la mano alla De Zulueta. Gli atti parlamentari registrarono le congratulazioni e il sottosegretario diessino Mas-
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simo Brutti accettò l’ordine del giorno sottoscritto dalla De Zulueta e dal presidente diessino della commissione esteri del Senato, Gian Giacomo Migone. Nel testo si diceva che l’inquinamento da uranio impoverito, «per tempi di decadimento e rischi radiologici e tossicologici può creare seri problemi a lunga scala temporale — una decina di anni — alla salute degli strati più giovani della popolazione sotto forma di un aumento di malattie tipo leucemie». Parole chiarissime, scritte nero su bianco negli atti parlamentari. Insomma, il governo D’Alema, almeno grazie alla senatrice De Zulueta, sapeva. E, per una volta, Tana non libera tutti. L’opinione comune è che la guerra in Jugoslavia del 1999 sia stata fatta per fermare una strage di civili, una pulizia etnica in corso. Ma gli spietati dati sul “cost-benefit” di guerra sfornati dalla NATO offrono il quadro reale della situazione. Tra marzo e maggio 1999, l’Alleanza atlantica effettuò circa 7 mila missioni in 78 giorni di bombardamento. Sono state sganciate bombe per un totale di 22 mila tonnellate di esplosivo (compresi 31.500 proiettili all’uranio impoverito). Gli effetti immediati sono stati: 676 militari jugoslavi uccisi, circa 2.500 civili assassinati e 6.000 feriti, di cui molti per bombe al fosforo e a grappolo. La cosiddetta “guerra chirurgica” ha provocato perciò 4 morti civili innocenti per ogni militare ammazzato. Sono stati distrutti o danneggiati: 77 obiettivi industriali, 39 energetici, 16 raffinerie ed impianti chimici, 18 complessi agricoli, 41 ponti su strade provinciali, 14 ponti ferroviari importanti, 6 stazioni ferroviarie, 16 linee ferroviarie principali, 6 viadotti, 4 stazioni di bus, 4 uffici postali, 2 porti fluviali, 120 tra ospedali e case di cura, 327 scuole elementari (120 nel Kosovo), 100 scuole medie (20 nel Kosovo), 26 facoltà universitarie (4 nel Kosovo), 15 scuole secondarie superiori e 20 ostelli studenteschi, 19 stazioni televisive e ripetitori, 7 aeroporti, 24 monasteri, 33 chiese, 16 monumenti e 25 centri città. Le perdite economiche jugoslave ammontano a 146 miliardi di euro, mentre quelle della Nato a 1,7 miliardi di euro. Le conseguenze ambientali e sanitarie non sono mai state valutate.
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Capitolo quinto Leucemie belliche «Non si sa che effetto avrà sul sistema immunitario dei siciliani di Lentini la radioattività delle scorie nucleari nascoste dagli americani nel suolo» si legge in un passaggio del libro scritto dal professor J.W. Gofman, Radiation and Human Health (Sierra Club Books, San Francisco). Dove sono stati occultati i rifiuti della vicina base militare Usa di Sigonella, durante gli anni in cui venne scritto quel saggio? Forse, in qualcuna delle 27 cave dismesse — etichettate “apri e chiudi” — del comprensorio locale. Gli investigatori della Direzione investigativa antimafia hanno rilevato che la base di Sigonella compare tra gli enti che per anni hanno scaricato rifiuti nella discarica abusiva di Salvatore Proto, un prestanome del clan Santapaola-Ercolano. C’è poco da stare allegri. Le ricerche scientifiche concordano nel ritenere l’esposizione a grandi quantità di radiazioni come il maggiore fattore di rischio per il tumore del sangue. «La leucemia è associata al plutonio, responsabile della perdita dell’immunità biologica che colpisce un numero crescente di persone» argomenta l’illustre scienziato Gofman. Un pò di storia ignota ai più non guasta. Il 21 gennaio 1968 un bombardiere B-52 americano che trasportava 4 bombe H cadeva nel nord della Groenlandia, disintegrandosi e spargendo rottami radioattivi su un’area vastissima di terra e di mare. Nel giro di qualche anno le persone che erano venute inavvertitamente a contatto con i rottami si ammalarono di leucemia. Ed in quel luogo proprio la leucemia divenne una delle più frequenti cause di morte. Se si scava emergono delle singolari analogie con due incidenti aerei (di carattere militare) che hanno funestato la Sicilia orientale a metà degli anni Ottanta. Il 12 luglio 1984, alle ore 14,45 puntualmente a Lentini, un quadrigetto Lockeed C141B “Starlifter” dell’Us Air Force, con un carico di 44 tonnellate si schiantò ed esplose in contrada Sabuci-San Demetrio, dopo essersi levato in volo da Sigonella, diretto in Germania. Nell’impatto morirono sul colpo 9 militari nord-americani. «I marines giunsero sul luogo del disastro pochi minuti dopo ed ostacolarono militarmente l’intervento dei mezzi di soccorso locali e l’accesso addirittura delle forze dell’ordine italiane; l’indagine fu sottratta alla magistratura italiana» rivela il sostituto commissario della Polizia di Stato, Enzo Laezza, che l’11 agosto 1987 ha perso la
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figlia Manuela, colpita dalla leucemia mieloide acuta. Le autorità americane mantennero il massimo riserbo sul carico trasportato dal velivolo. La zona dove precipitò l’aereo Usa venne transennata e, per una quarantina di giorni, la statale 194 che collega Catania a Ragusa fu interdetta al traffico veicolare. Un altro incidente aereo, del quale però si hanno solo scarne notizie, si verificò nel giugno del 1985. Nell’occasione un velivolo dell’aviazione Usa, in volo verso la base di Sigonella, perse quota negli agrumeti di Lentini. L’aereo si disintegrò nell’impatto con il suolo. L’area rimase impenetrabile ai comuni mortali siciliani per diversi mesi, fino a quando tutti i frammenti del velivolo furono raccolti dai marines. Cosa trasportavano i due aerei in missione per il Pentagono sui cieli siciliani? Oltre ai velivoli e agli uomini che persero la vita nei due incidenti, cos’altro compenetrò il suolo della grande isola? A bordo vi erano materiali nucleari o soltanto uranio sporco usato come contrappeso dei velivoli? Conseguenze letali a prova di scienza. A Lentini, Carlentini e Francofonte i bambini muoiono di leucemia più che in ogni altra parte d’Italia. «In provincia di Siracusa negli ultimi anni si è osservato un aumento della mortalità per leucemie. Estendendo l’osservazione ad 8 anni i tassi provinciali si attestano intorno a quelli regionali e nazionali, ad eccezione del distretto di Lentini dove si osservano tassi di gran lunga maggiori». L’Atlante della “mortalità per tumori” (volume 2) realizzato da alcuni epidemiologi — coordinati da Anselmo Madeddu — con il contributo dell’università di Catania - pubblicato dall’azienda sanitaria locale, parla chiaro. «Questo dato nell’ultimo periodo di osservazione non solo si è consolidato, ma è cresciuto e sembra ineluttabilmente destinato a moltiplicarsi. La mortalità e l’incidenza dei tumori del sangue, in particolare leucemie e linfomi nella zona nord della provincia siracusana, caso totalmente diverso dalla situazione di Augusta, Priolo e Gela, sta divenendo sempre più preoccupante. Sarebbe utile verificare se esistono fattori di rischio legati a determinati rifiuti tossici che hanno inquinato terreni e falde freatiche non distanti dall’insediamento militare di Sigonella» denuncia il dottor Pino Bruno, un medico della Cgil. Nell’area vivono 60 mila persone su un totale di 403 mila dell’intero territorio provinciale. Il 30 gennaio 2006 l’associazione “Manuela-Michele”, che dal 1991 si batte per far luce sul gran numero di bimbi e ragazzini deceduti a causa
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di questa particolare forma di cancro, ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Siracusa, sollecitando un’indagine sulla «tangibile possibilità che i numerosi casi di leucemia possano essere causati dalla commistione di reati contro l’ambiente». Secondo l’avvocato Santi Terranova «tocca alla magistratura indagare e capire perché in questa zona della Sicilia i bambini muoiono in percentuale maggiore rispetto ad altre aree del Bel Paese». L’incandescente fascicolo giudiziario aperto più di un lustro fa, giace nelle mani del sostituto procuratore Maurizio Musco. Il pubblico ministero, però, non si sbottona di un millimetro. Il documentato Rapporto specialistico dell’Azienda sanitaria siracusana ipotizza una causa di inquinamento scatenata dalla presenza sul territorio di «discariche illegali di scorie radioattive. Infatti le radiazioni ionizzanti sono associate ad un aumento di rischio per leucemie e possono avere due origini: origini nucleari, per disintegrazione di radionuclidi naturali come il radon, o per disintegrazione di radionuclidi artificiali come nel caso delle centrali nucleari o delle bombe». Il volume ha ricevuto anche la prefazione del professor Donald Maxwel Parkin, membro dell’International Agency for Research on Cancer (IARC): «Si spera che gli autori di questa eccellente monografia avranno l’energia, il tempo e la pazienza per preparare una terza monografia, quando saranno disponibili i risultati scientifici». Il terzo volume dell’Atlante, la cui presentazione era prevista per ottobre 2006, ha subito un brusco stop dalla Regione sotto il regno del governatore Totò Cuffaro (condannato a sette anni di reclusione in via definitiva per favoreggiamento della mafia, tuttavia osannato pubblicamente dai parlamentari Casini e Cera). A Lentini e dintorni, numerosi cittadini, soprattutto i genitori che hanno perso prematuramente i figli in tenera età, continuano a chiedersi con insistenza inascoltata se esista un qualche nesso di causalità tra l’elevato tasso di mortalità infantile per leucemie e i due incidenti aerei. Non si può far finta di nulla o girarsi dall’altra parte, anche se le radiazioni letali sono invisibili all’occhio umano. È un crimine latente che sfiora i governi ma annienta i bambini. Non molto lontano. La base militare di Sigonella smaltisce i propri rifiuti — prodotti in enorme quantità — nell’ampio complesso militare in territorio di Lentini, in contrada Armicci. Sempre in loco vengono
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smaltiti i rifiuti speciali ospedalieri prodotti nel grande ospedale della vicina base americana che si occupa della salute degli 8 mila soldati di stanza a Sigonella e di tutti quegli altri assegnati alle diverse altre basi della marina militare Usa dislocate nel Mediterraneo. Chi li controlla? Nessuno. Per lo “Zio Sam” non valgono le leggi italiane ed il nostro governo non ha mai fatto rispettare la sua (apparente) sovranità. Neppure l’Epa (agenzia federale americana di protezione ambientale) ha l’autorità di monitorare le basi militari all’estero. All’addetto stampa della base Usa, giriamo i quesiti, ma otteniamo un seccato «No comment». Comunque, è alla Giano Ambiente, una società a responsabilità limitata, che la marina US Navy ha affidato lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri speciali. Fondata nel 1983, la Giano Ambiente fa parte del Gruppo Giano S.p.A. con sede a Messina e ufficio di rappresentanza a Milano. L’azienda opera nel settore della bonifica, trasporto, smaltimento e trattamento dei rifiuti d’ogni genere prodotti in Italia, Germania, Francia ed Austria; la società vanta ufficialmente un fatturato annuo di 4 milioni di euro. Essa è anche una delle aziende di fiducia della marina militare italiana: la Direzione Commissariato in Sicilia affida alla Giano la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti delle basi navali di Augusta, Messina e Catania; l’impresa esegue, inoltre, lo smaltimento dei rifiuti industriali e tossici prodotti negli impianti di Priolo e Gela di proprietà delle principali aziende petrolchimiche. Amministratore e principale azionista della Giano è il manager Gaetano Mobilia, rinviato a giudizio nell’aprile 2004 con l’accusa di turbativa d’asta, falso e abuso d’ufficio. Già nel febbraio 2002 il Tribunale aveva interdetto il Mobilia per 2 mesi dall’esercizio dell’attività d’impresa. Il nome di Gaetano Mobilia è poi comparso nel Rapporto Ecomafia 1998 di Legambiente: il manager messinese è legato alla Odm del faccendiere Giorgio Comerio, più volte sotto inchiesta per traffici di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi, ovvero affondamenti di navi e siluri nel Mediterraneo e in alcuni Oceani, nonché occultamenti in Africa (alla voce Somalia ma non solo). Mobilia ha fatto anche parte del consiglio d’amministrazione della Servizi Ambientali di Filippo Duvia, società coinvolta nello scandalo dei rifiuti occultati nella discarica di Pitelli a La Spezia. Un dato generale: soltanto il Dipartimento della Difesa Usa produce mediamente 800 mila tonnellate di rifiuti nocivi, cinque volte
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quelli prodotti dalle cinque maggiori multinazionali chimiche, senza contare quelli nucleari. Un covo nucleare sotto l’Etna. Sigonella, anzi “Saygonella”, come dicono gli yankees, è stata posta a disposizione delle Forze Armate degli Stati Uniti d’America sulla base di un Memorandum firmato l’8 aprile 1957 e mai ratificato dal Parlamento italiano. Il 18 dicembre 2003, è stato predisposto segretamente un nuovo “Accordo Tecnico” tra Italia e Stati Uniti per regolare l’utilizzo delle installazioni militari della base militare. “Nassig” ricopre un ruolo fondamentale nello stoccaggio e nella manutenzione di testate e munizioni per le unità della VI flotta e i reparti dell’aviazione Usa e Nato. L’infrastruttura è classificata dal Pentagono quale “Special Ammunition Depot” (deposito di munizioni speciali), in quanto è a Sigonella che viene effettuato lo stoccaggio delle bombe nucleari del tipo B 57 (stimate in 100 unità) utilizzate per la guerra antisommergibile. Una ventina circa di queste testate nucleari sono destinate ai velivoli Atlantic in forza al 41° Stormo dell’Aeronautica italiana. Il numero degli ordigni atomici occultati nella base siciliana cresce in particolari periodi di esercitazioni o di crisi internazionale, quando l’insediamento aeronavale funziona da centro di manutenzione per le armi nucleari destinate alle unità navali della VI flotta e ai velivoli imbarcati. «Periodicamente vengono dislocate a Sigonella anche le testate nucleari del tipo B 43, B 61 e B 83 con potenza distruttiva variabile da 1 kiloton a 1,45 megaton» rivela un alto ufficiale dell’U.S. Navy, di origine italoamericana. A 39 chilometri si erge il vulcano Etna con le sue eruzioni e a 16 la città di Catania. La base sorge nei territori di Lentini (Siracusa) e Motta Sant’Anastasia (Catania) e si compone di due sezioni: Nas 1 e Nas 2 (Naval Air Station 1 e 2). Il primo settore ospita gli uffici amministrativi e di sicurezza, gli alloggi per gli ufficiali, servizi e strutture per il personale, un centro commerciale. Nas 2 sorge invece a 15 chilometri di distanza e comprende le due zone militari operative degli Usa e della Nato, un Air Terminal, altri centri residenziali, due piste d’atterraggio di 2.500 metri, due aree di parcheggio in grado di garantire la prontezza operativa ad un’ottantina tra aerei da trasporto, cacciabombardieri, pattugliatori ed elicotteri da combattimento, depositi munizioni, e sistemi radar e di intercettamento. A
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circa 3 chilometri da Nas 2, nel territorio di Belpasso, è presente una terza area militare in cui sono stati realizzati un centro trasmissioni ed una decina di depositi sotterranei colmi di munizioni e sistemi d’arma. Infine, nell’adiacente porto di Augusta, frequentemente attraccano e stazionano sommergibili a propulsione ed armamento nucleare, sotto controllo diretto del Pentagono (fanno fede oltre alle testimonianze fotografiche, le ordinanze della Guardia Costiera). Operazioni speciali Usa. Gli USA hanno riposizionato le proprie pedine sulla cartina del vecchio continente. Con l’obiettivo di rendere più efficiente la loro attività, gli Stati Uniti hanno stabilito una nuova centrale operativa che avrà tra i suoi principali scopi la lotta al terrorismo globale. Singolare coincidenza: questa strategia interessa le principali installazioni della Nato in Italia. Il Bel Paese, infatti, grazie alla sua posizione strategica nel Mediterraneo è particolarmente adatto a controllare il Medio Oriente e l’Africa Subsahariana. Il nuovo orientamento era scaturito dalla relazione che il comandante delle forze Usa e alleate in Europa, James L. Jones, aveva presentato a marzo del 2006 al Congresso e al Senato americano. L’alto ufficiale chiedeva ingenti finanziamenti per rafforzare la presenza a stelle e strisce. Il generale Jones aveva precisato che la sede ideale per tale unità era Sigonella, in Sicilia. Dopo queste dichiarazioni, che avevano suscitato l’approvazione dell’allora ministro della Difesa Martino e le interpellanze preoccupate di alcuni parlamentari, la base siciliana è stata trasformata in un centro strategico di attività di intelligence, di sorveglianza e di sostegno agli interventi nella realtà mediorientale. Dall’inizio degli anni ’90 Sigonella è diventata il fulcro di tutte le operazioni militari, dalla guerra nel golfo Persico del ’91, ai Balcani, all’invasione dell’Iraq, ai bombardamenti in Libia e alla programmata aggressione in Iran. In altri termini, è un cantiere permanente dove le imprese (spesso in odore di mafia) lavorano in condizioni di extraterritorialità. È una base di mercato nero per il carburante e per una quantità di altre merci che arrivano in condizioni di “duty free”. È una base che spreca acqua e divora energia. Dal 1984 la base ospita l’Helicopter Combat Squadron Four HC-4 Black Stallion, l’unico della Marina statunitense dotato di nove elicotteri pesanti MH-53E Sea Dragon per il trasporto di uomini, mezzi e munizioni. Lo squadrone assicura il sostegno alle operazioni militari Usa in Europa, Africa e
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Medio Oriente e garantisce il ponte aereo con le portaerei in navigazione nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Durante l’ultima guerra all’Iraq sono atterrati dodicimila aerei che hanno trasportato circa 30 mila soldati. Dal Molin è dalle parti di Vicenza, Sigonella nel comprensorio di Lentini. Due località geograficamente lontane ma accomunate da un medesimo destino: il decollo degli investimenti bellici. Dal Molin dovrà presto ospitare una nuova base militare Usa di pronto intervento aviotrasportato nel cuore della città, mentre Sigonella in provincia di Siracusa (ma più vicina a Catania) subirà un adeguamento aereonavale di enorme rilevanza. Le due basi nei piani del governo Usa dovranno diventare degli avamposti di rapida risposta del Comando Usa in Europa. Mentre in Veneto si manifesta con determinazione per dire no alla militarizzazione territoriale e l’evento viene a conoscenza dell’opinione pubblica nazionale, in Sicilia, dove la posta in gioco è addirittura maggiore, l’eco delle proteste non sfiora il Belpaese. In soldoni: un limaccioso filo d’affari lega le due zone. A Lentini una necropoli greca non ancora esplorata e le famose e gustose arance Moro, Tarocco e Sanguinello hanno i giorni contati. Una colata di 670 mila metri cubi di cemento su cento ettari nelle contrade Xirumi, Tirirò e Cappellina, la più pregiata area di coltura agrumicola della Sicilia, sottoposta a vincolo paesaggistico e archeologico. Totò Cuffaro aveva già fornito il via libera e il Comitato regionale urbanistico prontamente approvato. Proprio dove crescono le arance più buone d’Italia e dove sorgono insediamenti archeologici non ancora portati alla luce, nasce un’esclusiva città per i militari Usa (6 mila), inaccessibile ai cittadini italiani. L’area verrà modernizzata da palazzine a 4 piani, da depositi, mensa, fast food, centri sportivi, megastore ed altro, che funzioneranno in regime di autarchia e senza contatti con il territorio circostante. La progettazione è coordinata dall’architetto Matteo Zapparrata, capodipartimento della provincia regionale di Catania al settore programmazione opere pubbliche. Di rilievo nel business, anche gli altri due tecnici: Antonio Leonardi, dirigente dell’Ausl 3 di Catania e segretario provinciale dell’ordine degli ingegneri; Rosario Garozzo, direttore generale del comune di Adrano. L’intervento parte ufficialmente il 2 febbraio 2006: Mauro De Paoli, il presidente della società Scirumi Srl di Catania, presenta al
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comune di Lentini una richiesta di cambio di destinazione d’uso dei suoli di sua proprietà, «per realizzare un complesso insediativo chiuso ad uso collettivo, destinato ad esclusiva residenza temporanea dei militari americani della base Sigonella U.S. Navy», per un investimento complessivo di circa 300 milioni di euro. Il 18 aprile 2006 il Consiglio comunale di Lentini a maggioranza di centro destra, 45 giorni prima delle elezioni, in tempi record e con il voto favorevole di 13 su 16 presenti in aula (3 gli astenuti) ha proceduto alla variazione del Piano Regolatore Generale deliberando d’urgenza «il cambio di destinazione d’uso dei terreni ricadenti nelle contrade Xirumi, Cappellina e Tirirò, con relativa trasformazione di aree agricole E in zone residenziali CE4». Poco dopo, colpo di scena, muta la maggioranza (stavolta di centro sinistra sotto le direttive del sindaco Alfio Mangiameli) ma la sostanza non cambia: la delibera 52 del 16 ottobre (11 favorevoli ed 8 astenuti) approva l’intervento edilizio. La deliberazione di approvazione comunale cita il parere espresso dalla Soprintendenza ai BB.CC.AA. (il 23 gennaio 2006, prot. 497), la quale, però, si esprime così: «entrambe le aree individuate in planimetria con le lettere A e B risultano sottoposte a vincolo paesaggistico di cui al decreto del 7 agosto 1995 pubblicato nella GURS del 21 ottobre 1995; il vincolo paesaggistico non esclude a priori l’attività edificatoria, ma impone tuttavia la salvaguardia di quelle caratteristiche proprie che ne hanno determinato l’emissione». Ad opporsi in loco al mega progetto sono stati soltanto i Verdi, Parrinello, La Manna e Aulicino (con un’interrogazione il 20 novembre al governatore Cuffaro), e il Centro Studi Territoriali Ddisa che ha provato a fermare la lottizzazione edilizia con un’osservazione alla variante del Prg. Con il benestare del Comitato regionale urbanistico, in attesa che il parere diventi decreto, raggiunge il traguardo finale con spettacolare velocità un’operazione iniziata nel 2005. Infatti, nel verbale della riunione consiliare del 18 aprile 2006 sono riportate anche le parole del consigliere Sebastiano Ramaci, che nel ricordare come «l’amministrazione Neri abbia risposto prontamente alla richiesta della Scirumi Srl, riconoscendone l’interesse pubblico», sottolinea che «l’amministrazione Neri ha lavorato non dal 17.02.06, ma un anno circa». Ci si domanda in che modo e perché la compagine di centro destra abbia lavorato a questa operazione ancora un anno prima che il presidente
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della Scirumi De Paoli presentasse al Comune la sua richiesta di variante al Prg. Secondo il responsabile all’Urbanistica del Comune di Lentini, l’architetto Salvatore D’Anna, «sarebbero già una decina i progetti approvati nel catanese finalizzati a insediare complessi chiusi ad uso collettivo per militari Usa di stanza a Sigonella». Tutti con la medesima procedura utilizzata a Lentini: «una ditta costituita ad hoc fa la proposta al Comune per cambiare la destinazione d’uso dei terreni agricoli — sintetizza Antonio Mazzeo —; il Consiglio vota la variante in tempi record; l’Assessorato regionale approva la variante al Prg in via definitiva». Il tutto senza che l’amministrazione Usa abbia espresso alcun interesse per il programma immobiliare. Un iter assai poco ortodosso che scavalca piani regolatori e legittima gravi danni ambientali. Per gli amministratori pubblici l’importante è non farsi trovare impreparati quando uscirà il bando per gli alloggi da dare in leasing ai militari della più grande base nucleare a stelle e strisce del Mediterraneo. Male che va ci si ritrova dinanzi a fondi che hanno triplicato il loro valore senza sforzo alcuno. Relaziona infatti la Scirumi Srl: «In conformità agli usi ed alle disposizioni, non derogabili del Governo Americano, ottenuta la variante urbanistica, sarà cura della Società richiedente produrre in uno al progetto di lottizzazione relativo idoneo documento rilasciato dalle competenti Autorità americane, da cui risulta l’accordo sottoscritto riferito alla realizzazione dell’opera in questione». E le leggi italiane? Semplicemente calpestate. A rendere singolare il caso di Lentini, è soprattutto l’ufficialità delle notizie che emergono dal comando militare Usa. Infatti, come da comunicazioni allo stesso comune nell’ambito della variante al Prg, gli Usa dovrebbero rientrare nell’affare Xirumi, Cappellina e Tirirò soltanto adesso, a fronte di un orientamento che non sembrerebbe giustificare la necessità di nuove case per i militari. Eppure «Il cosiddetto piano “Mega III” — spiega il ricercatore Mazzeo — che impegna una cifra pari a 675 milioni di dollari, infatti, oltre a rifare il look alle due stazioni aeronavali di Sigonella, prevede per il quadriennio 2004-2007 mille e cento nuovi alloggi familiari». E un complesso residenziale di 220 unità abitative prenderà il posto del desueto Residence degli Ulivi. Ad oggi, però, è questo l’unico piano insediativo ufficialmente progettato dal Dipartimento della Difesa Usa che, nei suoi più recenti documenti del Congresso, segnala tra
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l’altro una consistente diminuzione del personale in forza a Sigonella (nel 2003 c’erano 4.267 unità, mentre il 30 settembre 2005 solo 3.098). L’anno 2004 è a dir poco emblematico. Il braccio operativo di questo macroscopico attacco al territorio ha un nome e diversi affiliati. La Scirumi S.r.l. viene registrata il 3 dicembre 2004 e vanta un capitale sociale di 50 mila euro. Non ha alcun dipendente, ma ha contratto un mutuo ipotecario che sfiora i 5 milioni e 400 mila euro con la banca San Paolo Imi (attualmente Intesa-San Paolo), quattrini intascati da alcuni soci come i Ciancio a titolo di pagamento per l’acquisto delle terre nell’agro di Cappellina-Xirumi. La società ha sede a Catania in viale XX settembre, presso lo studio di Gaetano Siciliano (a capo dell’ ordine dei commercialisti, nonché presidente del collegio dei revisori dei conti al comune di Catania). La società ha un oggetto sociale di carattere agricolo, che esula dalla realizzazione di complessi edilizi: «l’acquisto e/o la compravendita di terreni agricoli e/o l’assunzione e la gestione degli stessi…». Per tale ragione è stata partorita nel dicembre 2005 la Nuova Scirumi Srl, che fa capo alla Sater Srl (Società agricola turistica ente riviera). La Scirumi è presieduta da Mauro De Paoli. Tra i suoi consiglieri figurano Carmelo Garozzo (figlio di Francesco e tesoriere del Kiwanis), Stellario Gentile (appartenente agli albi degli intermediari e dei promotori della Consob), Ezio Trentin e Gianalberto Balasso (con il padre nella Noemi Sro di Praga). Ma a chi appartiene la Scirumi? Ufficialmente è così ripartita: all’Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro (25.500 euro), a Da.Ca Service (16.250 euro), Cappellina Srl (5.000 euro), Giuseppe Celano (2.000 euro) e Francesco Siciliano (1.250 euro), già direttore di un cantiere della A 20 gestito dal gruppo Ira-Ferrari e ora appartenente a Maltauro. La S.p.A. Giuseppe Maltauro, che a Vicenza (città di Balasso) si accinge a trasformare l’aeroporto civile in militare, ha stretti rapporti con Catania. La società che ha acquisito recentemente l’impresa Ferrari di Genova, già proprietaria dell’Ira di Graci e della Fratelli Costanzo, prendendone l’eredità, è diretta da Maurizio Trentin. Oltre al tratto ferroviario Paternò-Adrano, la Spa ha realizzato anche Etnapolis a Belpasso e aderisce alla Fiera della Provincia di Catania Srl, che dovrebbe intervenire, sempre a Belpasso su un’area di 180 mila metri quadrati accanto al citato centro commerciale. Inoltre a febbraio ha siglato con la Mc Arthur Glenn di
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Roma ed il comune di Fiumefreddo di Sicilia, un protocollo d’intesa per una struttura ricettivo alberghiera di 167 mila metri quadrati. La Da.Ca Srl nata il 22 aprile 2004 con capitale sociale di 12 mila euro, è amministrata da Gesualdo D’Amico. La Cappellina Srl, venuta alla luce il 30 novembre 2004, vanta un capitale sociale di 10 mila euro, ha un oggetto sociale identico, letteralmente a quello della Scirumi. La Srl appartiene in parti uguali ai familiari di Mario Ciancio Sanfilippo (editore e direttore de La Sicilia, nonché editore del quotidiano pugliese La Gazzetta del Mezzogiorno): Angela (Telecolor e Rtp Messina), Carla (nel direttivo associazione editori), Rosa Emanuela, Natalia e Domenico (segretario di redazione de La Sicilia). Ad amministrarla è Francesco Garozzo, padre di Carmelo e all’interno dell’affare per la realizzazione dell’ospedale San Marco di Librino (in qualità di rappresentate di proprietari di terreni confinanti con quelli dello stesso Ciancio). Cappellina sta per la masseria che sorge in contrada Scirumi, dove, nella parte ricadente nel comune di Scordia, ha una residenza Mario Ciancio Sanfilippo. E di agrumeti, a Lentini l’editore ne possiede un bel pò. Compresi i terreni agricoli incettati dalla Scirumi nel 2005, gli stessi per cui ha chiesto al comune di cambiare la loro destinazione d’uso e renderli edificabili. Anche il deputato di Rifondazione comunista, Elettra Deiana, si era accorta della singolare coincidenza e, in un’interrogazione (tuttora lettera morta) al ministro della Difesa Parisi, aveva annotato il 6 dicembre 2006: «Tra i proprietari della Scirumi Srl figura anche l’impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. di Vicenza (è la stessa che ha presentato il progetto per l’aeroporto di Vicenza - US Army). Inoltre ha eseguito opere ad Aviano - US Air Force - nell’ambito del Piano “Aviano 2000”». La Deiana aggiungeva che «la consistenza dell’insediamento fa pensare che ci troviamo di fronte ad un consistente progetto di allargamento della capacità operativa della struttura militare Statunitense — e chiede — se il Governo precedente, come è avvenuto per la proposta di trasformazione dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza in una nuova base Usa, ha sottoscritto con il governo degli Stati Uniti un protocollo o accordo in forma semplificata che consenta agli Usa di potenziare la base di Sigonella e se non intenda informare il Parlamento». Un’altra interrogazione l’11 dicembre era stata indirizzata dalla Deiana e da Paolo Cacciari ai ministri dell’Ambiente e dei Beni
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Culturali. Il fine è quello di provvedere urgentemente alla salvaguardia di quel territorio, poiché «le caratteristiche proprie sono quelle della ruralità del paesaggio, che sono incompatibili con il complesso chiuso ad uso collettivo per residenza esclusiva di militari americani». Secondo i due parlamentari di Rifondazione «l’insediamento proposto dalla società Scirumi srl rovinerebbe irrimediabilmente il contesto paesaggistico di importanza storica e culturale del vasto insediamento rupestre sul colle S. Basilio che domina il vasto paesaggio rurale della zona di Xirumi, Cappellina e Tirirò che è interessata da almeno due aree archeologiche». Allora Global Hawk: il più sofisticato modello di jet senza pilota è atterrato nella base siciliana, ma il governo Berlusconi non ha preventivamente informato il Parlamento italiano. Sulla medesima falsariga omissiva anche il successivo Governo Monti. Lo stesso comando della Nato a Bruxelles rivela che «l’inclusione dei velivoli Uav darà maggiore flessibilità ai sistemi Ags». Ags dovrà trattare tutte le informazioni raccolte dai velivoli radar. A Sigonella gli Usa hanno installato il comando del sistema di sorveglianza della Nato. La corsa bellica del governo italiano continua sempre più intensa, sempre più in silenziosa. Teatro, appunto, delle nuove operazioni di guerra è ancora la base militare di Sigonella, dove in gran segreto l’Us Air Force ha posizionato il maggior centro operativo degli “Unmanned Aerial Vehicle”, UAV, aerei senza pilota. Ufficialmente, lo scopo è assicurare la sorveglianza su tutto il globo terrestre, ma l’obiettivo più ambizioso del Pentagono è di fare in modo, entro il 2012, che un terzo della sua flotta da combattimento sia costituito da velivoli teleguidati. L’operazione decolla nell’ottobre 2005, quando il sottosegretario alla difesa Usa Dyke Weatherington rilascia un’intervista al National Defense Magazine parlando di Uav: l’ultima frontiera della guerra ad altissima tecnologia. Tra loro i Global Hawk, prodotti dalla Northrop Grunmann, frequentemente adoperati in Iraq e Afghanistan. Quaranta di questi velivoli saranno dislocati nelle basi di Kaneohe nelle Hawaii, Jacksonville in Florida, Diego Garcia nell’Oceano Indiano, Kadena ad Okinawa e Sigonella in Italia. Detto e fatto. Per il Dipartimento della difesa Usa è un anno cruciale per la localizzazione effettiva delle principali basi operative dei Global
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Hawk, al punto che nel bilancio annuale le voci relative al luogo e ai costi dell’operazione sono indicate come “classificate”, ossia segrete. Se la difesa Usa omette di indicare la sede della base è però possibile ricostruirne le caratteristiche a partire dalle funzioni del Global Hawk. L’aereo teleguidato è associato al nuovo pattugliatore P-8 Mma, destinato alle basi aeronavali Usa. E il dipartimento della Marina indica, tra i siti, a cui è destinato il P-8, anche Sigonella, sede fissa del 25° Squadrone antisommergibile e del Centro di supporto tattico, che coordina le operazioni di pattugliamento della Marina militare Usa. Codice etico zero, in compenso milioni di euro fatturati con le Grandi Opere dal devastante impatto ambientale (ponte sullo Stretto, TAV, Quadrilatero Marche-Umbria), compresa la nuova base dell’esercito USA al Dal Molin di Vicenza. L’appetito vien mangiando. Il 24 settembre 2010, il Comando d’ingegneria navale del Dipartimento della Marina militare degli Stati Uniti d’America ha assegnato alla CMC di Ravenna i lavori per realizzare a Sigonella un mega-complesso per le attività di manutenzione dei Global Hawk, i sofisticati aerei di spionaggio telecomandati delle forze armate Usa e NATO, buona parte dei quali destinati ad operare dalla base siciliana. La CMC avrà tempo 820 giorni per completare quella che è stata definita dal Pentagono come un’opera d’«importanza strategica» per gli interessi USA in Europa, Africa e Medio oriente. Il Dipartimento della difesa ha dovuto sostenere un faticoso braccio di ferro con il Congresso per ottenere l’autorizzazione a realizzare il cosiddetto Global Hawk ACFT Maint Facility Sigonella Sicily. La richiesta è stata però accolta: 31 milioni e 300mila i dollari posti in budget. Il contratto firmato è di 16 milioni e 487 mila dollari. Secondo il bando di gara pubblicato dal Comando d’ingegneria navale per l’Europa, l’Africa e l’Asia sudorientale (NAVFAC EURAFSWA), il nuovo complesso per i Global Hawk sarà composto da «un hangar con una superficie di 5.700 metri quadri e quattro compartimenti per le attività di manutenzione, riparazione ed ispezione dei velivoli senza pilota». «L’hangar — si legge nella scheda tecnica predisposta dall’US Air Force — sarà composto da una struttura di acciaio, costruzioni in muratura, tetto con giunture metalliche, pavimenti in cemento, infrastrutture varie, pa-
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vimentazioni e reti per la comunicazione». Ancora più dettagliata la descrizione delle finalità operative dell’infrastruttura. «Il velivolo Global Hawk richiede uno spazio coperto per gli interventi del personale specializzato, utilizzabile in qualsiasi momento, che garantisca le ispezioni standard, una migliore manutenzione dei sistemi di approvvigionamento carburanti, il riparo delle componenti aeree, le operazioni pre-volo così come quelle di miglioramento e modificazione di ordine tecnico. L’hangar assicurerà un’area per i depositi di macchinari e per supportare la manutenzione delle infrastrutture, ricevere componenti aeree, eseguire le operazioni di carico e stoccaggio ed ospitare gli spazi per gli uffici e i centri amministrativi». Il Complesso di Sigonella sarà in grado di intervenire simultaneamente su quattro Global Hawk». In base alle previsioni dei general manager della Northrop Grumman, l’azienda produttrice, entro il 2013-2014 Sigonella ospiterà sino ad una ventina di aerei-spia. Oltre all’US Air Force, anche l’US Navy è intenzionata a installare nella base i Global Hawk ordinati nell’ambito del nuovo programma di sorveglianza aereo-marittima BAMS, mentre la NATO prevede di trasferire in Sicilia otto Global Hawk nella versione “Block 40” per il nuovo sistema di sorveglianza terrestre alleato AGS (Alliance Ground Surveillance), i cui centri di Comando e controllo saranno installati a Sigonella. Il Wall Street Journal non ha dubbi: “Gli Usa pronti ad armare i droni italiani”. Infatti, il Presidente e Premio Nobel per la Pace, Obama sta per vendere i missili e le bombe a guida laser per i Reaper in dotazione all’Italia, versione avanzata dei Predator. Così anche il Belpaese potrebbe entro il 2012 essere in grado di uccidere i terroristi dall’alto attraverso velivoli senza pilota, come dfa da tempo lo Zio Sam. Barack Obama vuole armare la flotta italiana di sei droni Reaper.
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Capitolo sesto Sulla pelle viva «Voglio la verità sull’uranio. Mi sto curando un cancro a 28 anni, adesso voglio la verità sul Poligono di Salto di Quirra e sulla mia malattia». Una soldatessa anonima ha scritto una lettera al portale “Vittimeuranio.com”. Ha denunciato di essersi ammalata in conseguenza del suo servizio nel poligono interforze sardo. La donna soldato è ora in cura presso l’ospedale oncologico di Cagliari, dopo aver scoperto di avere il linfoma di Hodgkin. Per due anni e mezzo ha prestato servizio al poligono di Perdasdefogu e ha partecipato ad esercitazioni anche nella base di Teulada. È l’ennesimo caso di una verità che sta emergendo con fatica da alcune sentenze. L’ultima delle quali è stata emessa dal tribunale di Cagliari, che ha condannato il ministero della Difesa a risarcire i familiari del soldato Valery Melis, morto nel 2004 per un linfoma dopo aver partecipato alle missioni del contingente internazionale nei Balcani, alla fine degli anni Novanta. Vittime sempre invisibili. Un lancio dell’agenzia Agi il 2 aprile 2007 avvertiva: «Capo Frasca: Accame, “avieri sgombra-bossoli morti o ammalati”. Nel poligono militare di Capo Frasca, in Sardegna, giovani avieri erano impiegati nella raccolta a mani nude degli ordigni sganciati dagli aerei durante le esercitazioni militari. Lo denuncia il presidente dell’Anavafaf, l’Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti, in riferimento ai casi di Ugo Pisani, Gianni Fredda e Maurizio Serra, che prestarono servizio come Vam, addetti alla vigilanza dell’aeroporto, nel poligono sardo». L’assassino è conosciuto con la sigla U 238: uranio di scarto che ha tolto la vita a Gianni Fredda e Maurizio Serra, due Vam del poligono di Capo Frasca costretti a sgomberare a mani nude e senza nessuna protezione dalle polveri di uranio impoverito i proiettili sganciati dagli aerei nella base addestrativa. Nel 2006 il padre di uno dei due avieri morti, Antonio Serra, aveva incaricato l’avvocato di avviare la battaglia legale per il risarcimento dal ministero della Difesa ai sensi della legge 308/81, che prevede elargizioni speciali per infortunio o decesso in servizio. Ma undici mesi più tardi il ministero ha negato l’indennizzo. «Sa die de sa vardiania»: il giorno della sorveglianza, recita il cartel-
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lo. A Quirra, minuscola frazione di Villaputzu in provincia di Cagliari, la popolazione muore a causa dell’inquinamento bellico. 14 persone uccise dalla leucemia in un paese di 150 abitanti e 14 bambini nati con gravi malformazioni. Numeri (purtroppo certificati) da scenario di guerra. Abbonda l’uranio artificiale a Quirra: qui aleggiano — secondo gli accertamenti ufficiali — valori di radioattività cinque volte superiori alla norma di uranio arricchito. Lo hanno scoperto il 26 febbraio 2011 gli esperti inviati dalla Procura di Lanusei per un’ispezione nel poligono. «Lo hanno trovato all’interno di cinque cassette, sistemate in un deposito di materiali speciali, compreso il munizionamento rimasto inesploso dopo le esercitazioni e in attesa di una futura distruzione. Magazzino senza nessuna misura di protezione o di sicurezza, senza nessun cartello di pericolo, dove l’accesso era libero per chiunque lavori all’interno della base» mi spiega Mariella Cao, antica combattente civile dell’associazione “Gettiamo le basi”. Il deposito si trova a Capo San Lorenzo, ad un soffio dalla spiaggia e dalla zona dove, secondo i veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari, si sono ammalati di cancro nel sangue 10 pastori su 18. È una solida conferma nell’inchiesta del procuratore Domenico Fiordalisi. Il deposito di Quirra è stato sequestrato e sigillato, le cinque cassette metalliche altamente radioattive sono state consegnate al professor Paolo Randaccio, fisico nucleare dell’Università di Cagliari. Si tratta di particolari proiettili in grado di perforare qualsiasi corazza? Oppure di pezzi di radar o di barre stabilizzatrici di missili? L’ispezione è scaturita dalle denunce presentate alla Procura della Repubblica di Lanusei e alla Squadra mobile di Nuoro. Gli inquirenti hanno potuto appurare che in quei depositi diversi soldati che lavoravano come magazzinieri si erano ammalati tutti della stessa patologia: linfoma di Hodgkin. Uno dei tumori più aggressivi. La Procura di Lanusei indaga per «omicidio plurimo, danni ambientali e omissione di controllo». Il poligono di tiro del ministero Difesa viene utilizzato anche da altri eserciti e da multinazionali degli armamenti che testano armi di ogni tipo, coperti dal segreto di Stato, dagli omissis della Nato e delle industrie di morte. La magistratura ha scovato nell’ordine: un missile con 100 chili di esplosivo impigliato nelle reti di un peschereccio, una discarica sottomarina fatta di vecchie bombe e rottami di radar e un sito abusivo pieno di bersagli. Ma è solo il classico ago in una discari-
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ca a cielo aperto dello Stato italiano. Semplicemente: un inferno. A Quirra si arriva attraverso una strada che solca un “far west”. Una manciata di case e nessuna industria. La gente viene qui a raccogliere i funghi e a fare qualche bagno nel mare proibito. Sotto le sferzate del maestrale ondeggiano gli agrumeti: grosse arance e limoni che i sardi ti regalano con fierezza. C’erano, una volta, le pecore. Ora è difficile scorgerle: i pastori versano lacrime di sangue, molti agnelli sono nati malformati. A un tiro di schioppo dal centro abitato si staglia una lunga cesoia di filo spinato e un check point: dodicimila ettari di laboratorio in natura, su misura per eserciti della NATO che giocano alla guerra e multinazionali degli armamenti. Piombano in mimetica, ma anche in giacca e cravatta. Dal microcosmo dei civili si avvertono solo esplosioni. «Quirra si è accorta di essere malata quando è venuta a sapere del primo militare sardo ucciso dall’uranio impoverito», racconta Mariella Cao. Brucia il 1999: l’Italia sta combattendo una guerra in ex Jugoslavia. Si inizia a balbettare di Sindrome dei Balcani. In Sardegna, invece, si contano gli ammalati e si sotterrano i morti. Sotto accusa i proiettili all’uranio sporco, arma potente e a basso costo capace di trasformare le corazze in burro. «Se nei teatri di guerra usavano quel tipo di proiettili — continua Cao — da qualche parte dovevano pur testarli». Nel 2001 si inizia a parlare degli effetti dell’uranio impoverito sulla salute umana. Contemporaneamente Antonio Pili, allora sindaco di Villaputzu, denuncia otto casi sospetti nella vicina frazione di Quirra. Otto casi su 150 abitanti e Pili, che di professione fa l’oncologo, si riferisce solo ai suoi pazienti. Affiora qualche inchiesta giornalistica. Così, nel dicembre 2002, il ministero della Difesa affida un’indagine ambientale all’Università di Siena. Lo scopo neanche tanto recondito è di insabbiare. Infatti, per lo Stato è “Tutto a posto”. Nel 2006 si affaccia finalmente la Regione Sardegna: un campione di 26.130 abitanti su un territorio di 10 comuni, sotto la lente di ingrandimento. Il periodo di riferimento va dal 1981 al 2001. Risultato? Si rileva una crescita di tumori del sistema linfo-emopoietico. Significa mielosi e leucemie. Trentasei morti. Sopra la media, ma non abbastanza da rappresentare una prova diretta e inequivocabile. In effetti, per verificare se in quel territorio ci sono troppi tumori basta fare una banale operazione aritmetica. Bisogna incrociare i dati dell’indagine della Regione con le cifre fornite dall’Asl 8 sui casi
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a Villaputzu tra il 1998 e il 2001 e su quelli a Muravera-San Vito nell’anno 2000. Risultato? Il 75 per cento dei morti — 27 su 36 — sono concentrati in un piccolo pezzo di terra tra Villaputzu, Muravera e San Vito. Un’area, nemmeno troppo popolata, che non ha nulla attorno, se non il poligono militare. E, per la cronaca, i 14 morti di Villaputzu sono quasi tutti nella frazione di Quirra, che conta 150 abitanti. Nel gennaio del 2011 piomba un’ulteriore conferma. Due veterinari dell’Asl di Cagliari e Lanusei, insospettiti dall’eccessivo numero di pecore malformate, iniziano a contare quanti uomini e quanti animali si ammalano. Risultato? Appunto, dieci pastori su 18 che lavorano entro un raggio di 2,7 chilometri dalla base hanno la leucemia. Gli ultimi a sbarcare sono stati gli israeliani. Ma da quelle parti hanno sperimentato in tanti, perfino i libici. È un centro d’eccellenza per testare nuove armi. Nuovi clienti: al poligono arrivano nel 2007 soldi interstellari. Dalla ricerca aerospaziale atterra sull’Ogliastra una pioggia di denaro. “Un milione e duecentomila euro per tre anni con la possibilità di rinnovare l’accordo per ulteriori dieci anni”: questa la somma che il Centro italiano di ricerche aerospaziali (Cira) versa al ministero della Difesa per l’utilizzo del Poligono Sperimentale Interforze del Salto di Quirra. Lo ha detto il sottosegretario alla Difesa, Emidio Casula, secondo cui «si tratta di un primo concreto esempio di impiego per scopi civili delle professionalità e delle attrezzature del Pisq, che dimostra concretamente di essere una risorsa preziosa per i programmi di sviluppo aerospaziale nazionale». Per fare un giro di giostra, bastano un’autocertificazione e tanti quattrini. In Sardegna in tempo di pace si fa sempre la guerra. Più che un’isola sembra un’unica, immensa base militare. Da un primo esame, il materiale potrebbe essere stato usato dall’Aeronautica tedesca durante esercitazioni effettuate negli anni ‘60-‘70 e poi interrato dopo la bonifica, ma spetta ora agli specialisti analizzare più approfonditamente i reperti. I controlli nei due magazzini sarebbero stati decisi dopo le deposizioni testimoniali di due militari, un siciliano e un campano, che hanno lavorato per due anni al Pisq, con mansioni di magazzinieri nei depositi dei materiali speciali. I due si ammalarono di linfoma Hodgkin quando erano ancora in servizio. Sottoposti a chemioterapia, erano rientrati in servizio, ma sono stati riformati dopo una recidiva della malattia. I due ex militari avrebbero segnalato agli inqui-
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renti anche i nomi di altri colleghi colpiti dalla stessa malattia dopo il servizio al Pisq. Secondo la Procura di Lanusei dal 1970 ad oggi sono state compiute numerose operazioni di distruzione, mediante enormi esplosioni di munizioni di vario genere, probabilmente anche all’uranio impoverito e di armi, nel territorio del poligono. Alcuni camion senza nemmeno essere scaricati venivano fatti esplodere assieme al loro carico. Il procuratore di Lanusei, Fiordalisi, ha sentito anche l’ex deputato della Lega, Edouard Ballaman, che denunciò l’uso dell’uranio impoverito in Sardegna. Ballaman, nel 2000, presentò una interrogazione parlamentare, al ministro della difesa Mattarella, sul caso di una partita di proiettili all’uranio impoverito acquistata nel 1985 dall’Italia e poi utilizzata dall’esercito in Somalia nel 1993. Ma una parte del munizionamento tornò nel nostro Paese e fu sparato, secondo Ballaman, nei poligoni in Sardegna. Il Piano di caratterizzazione-monitoraggio del poligono della morte Salto di Quirra (Pisq), mirato a “tranquillizzare (cioè narcotizzare) la popolazione locale nonché il personale del Pisq”, è gestito da ministro della Difesa, Forze Armate e Namsa (agenzia NATO) con gran dispendio di pubblico denaro extra budget Difesa. La ricerca è stata appaltata alla SGS, una partecipata FIAT, l’inquilina fissa da mezzo secolo del Pisq, presumibile corresponsabile del disastro sanitario e ambientale. La SGS cerca le nano-particelle, come da contratto, con microscopi che non sono in grado di vederle (ingrandiscono fino a 8.000, non scendono agli 80.000/120.000 necessari per individuarle). La Procura della Repubblica di Lanusei ha iscritto nel registro degli indagati un ex ufficiale dell’Aeronautica (Tobia Santacroce, 67 anni di Chieti, colonnello all’epoca dei fatti e oggi in congedo col grado di generale) per il reato di disastro ambientale, per aver fatto brillare armi e munizioni nel poligono di Perdasdefogu-Salto di Quirra, con possibili danni all’ambiente, alla salute umana e animale. Il procuratore di Lanusei, Domenico Fiordalisi, che indaga sulla possibilità che nel poligono siano stati utilizzati armamenti con uranio sporco, ha appreso dei brillamenti di munizioni esauste, che giungevano da varie parti d’Italia, grazie all’intercettazione della conversazione di un ex militare che aveva prestato servizio nel poligono durante gli anni dopo il 1997. L’ex colonnello era il responsabile dei soldati di leva usati come cavie. Il magistrato che indaga sull’incidenza che le esercitazioni militari
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possono aver avuto sulla salute di persone ed animali, il 21 aprile dell’anno scorso ha dato il via libera alla riesumazione delle salme di 20 persone, soprattutto pastori. L’apocalisse si tocca con mano: il 65 per cento dei pastori che pascolano le greggi nel raggio di tre chilometri dalla base, secondo i rilevamenti sanitari dell’Asl, in questi anni è stato colpito da «neoplasie tumorali al sistema linfatico ed ematico». In più c’è un altro contorno agghiacciante: 24 militari affetti da tumori, 68 richieste locali di indennizzo su 439 nazionali per patologie causate dall’uranio sporco, numerosi aborti spontanei e diversi allevamenti di pecore contaminati da qualcosa di così strano da far nascere agnelli con due teste e altre mostruosità. È il cancro inoculato a Quirra dall’ingordigia di Stato. Si tratta di 120 chilometri quadrati su cui da 50 anni qualunque esercito (a suo tempo anche libico) ha sparato e provato di tutto. Le venti salme riesumate sono quelle di altrettanti pastori ogliastrini morti per tumore dal 1990 al 2010. Tanti e troppi, i morti, per chi ha sempre contestato quella servitù e denuncia ancora: «Il poligono è un muro di gomma autocertificato», dicono da un decennio gli accusatori, nel ricordare che gli ospiti stranieri ed italiani (sempre con le stellette) hanno da sempre due soli doveri. Il primo è pagare l’affitto, 50 mila euro per ogni ora di “war-games”, l’altro è autocertificare che nelle prove non è stato utilizzato qualcosa di nocivo per la popolazione e l’ambiente. Non è stato sempre così: a Quirra non è così tutto pulito, come hanno scritto finora due commissioni parlamentari d’inchiesta ed il governo. Gli ordigni sono adagiati sul fondo del mare. Basta allungare lo sguardo, oltre il manto trasparente dell’acqua, per distinguere i letali cilindri metallici. «Ecco le bombe» esclama Antonio Loru, volto marchiato dal sole come quello degli altri pescatori di Teulada e Sant’Anna Arresi. I lavoratori del mare, appese reti e nasse al recinto del Poligono militare di Capo Teulada, hanno scioperato per far valere le loro ragioni vitali. È dal dicembre 2003 che protestano pubblicamente, ma le istituzioni statali non ascoltano. Quando le condizioni meteo-marine lo consentono, escono sui loro pescherecci a sfidare i giochi di guerra, rallentando una macchina bellica che non ammette soste forzate. Stazionano giornate intere nelle acque su cui il transito è permanentemente vietato. E rischiano anche di prendersi qualche
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cannonata, scendendo in mare a manovre iniziate. Infatti, proprio come i civili che nell’isola portoricana di Vieques hanno costretto gli americani ad abbandonare la base, i pescatori occupano le zone di tiro durante le esercitazioni. Qui hanno gettato le reti per decenni nei giorni in cui non si sparava. Adesso non possono più farlo. Da qualche tempo fioccano le multe: due, tre, cinquemila euro e passa. E i settanta pescatori invisibili all’opinione pubblica nazionale si sono ribellati. Chiedono a gran voce la bonifica di almeno qualche miglio lungo la costa. Hanno barche piccole, nasse e tramagli devono essere calati su fondali non troppo alti. Fondali che pullulano di bombe. Questa zona, che va all’incirca da Porto Pino all’Isola Rossa, è permanentemente interdetta al transito dei mezzi e delle persone per la presenza di residuati esplosivi «di cui non è possibile o conveniente la bonifica», asserisce lo Stato maggiore dell’Esercito italiano. L’operazione di ripulitura comporterebbe dieci, quindici anni di lavoro. I pescatori chiedono di svolgere la loro attività nell’immensa zona a mare interdetta, l’unica accessibile alle loro piccole imbarcazioni, ed “esigono” che l’area, come impongono leggi e regolamenti delle Forze Armate italiane, sia bonificata, ripulita dall’accumulo di ordigni bellici esplosi e inesplosi. Per poter ripulire il tratto di mare sottoposto da 50 anni a schiavitù militare e mai bonificato, a detta di alcuni militari, bisognerebbe sospendere tutte le attività del poligono per circa 15 anni. Un ammiraglio ha valutato “a occhio” i costi dell’operazione e ha affermato (rifiutando che fosse messo a verbale) che «per la Difesa sarebbe economicamente più conveniente regalare una villetta in Tunisia a tutti i teuladini accollandosi anche le spese di trasferimento». Quante sono le bombe? Un numero indefinito, gli stessi militari non sanno dire. Sono un omaggio per quasi mezzo secolo di attività del Poligono militare di Capo Teulada. Alcune forse inattive, altre solo inesplose. Ma chi potrebbe distinguerle? «Io combatto da 66 anni. C’era la guerra quando sono nato e non è ancora finita», commenta ancora Loru. «Da 35 anni mi sveglio alle 4 del mattino per prendere il mare, ma sono a casa mia». Aveva 12 anni quando la sua e altre 250 famiglie furono costrette a svendere la casa per quattro lire per consentire la costruzione del Poligono. È un conflitto lungo, estenuante, complicato, perché le forze militari internazionali pagano salato, per martoriare con ordigni d’ogni genere (compreso l’ura-
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nio impoverito, come documentano le relazioni di servizio della Nato) questi 7.200 ettari di terra — e uno specchio di mare largo all’incirca un quinto dell’isola — acquistati dalle famiglie che abitavano lì. Ma il peso contrattuale di questo nugolo di pescatori cresce. Nel frattempo, la popolazione del comune di Teulada, dimezzatasi dacché esiste il Poligono, registra ufficialmente il notevole incremento di svariate forme tumorali e già nel 2000, prima che fosse di dominio pubblico la questione dell’uranio impoverito, sui muri del paese si leggeva: «Benvenuti a Uraniopoli». Le esercitazioni navali — come quelle della Seconda flotta Usa, che viene a sparare qui soprattutto da quando è stata cacciata dall’isola di Vieques, segnata dall’alto grado di tumori e malattie polmonari, cardiache, cardiovascolari, da diabete e alta mortalità infantile — si effettuano con cannonate che dal mare puntano verso terra e comportano l’interdizione di un tratto di acqua molto ampio. Un esempio illuminante quanto alla considerazione militare per l’incolumità della popolazione civile proviene addirittura dagli States. Dal 1977 ogni tre mesi la US Navy svolge esercitazioni a pochi chilometri dalla costa statunitense, sparando proiettili all’uranio impoverito che vengono così disseminati in mare, in aree che sono al tempo stesso dedite alla pesca. “Palanx” è il nome del cannone prodotto dalla Raytheon e installato su quasi tutte le navi da combattimento statunitensi; spara fino a 4.500 proiettili da 20 millimetri al minuto, contenenti un penetratore di uranio impoverito da 15 millimetri. Noncurante dei gravi rischi ambientali, la US Navy ha da sempre optato per l’economico ma letale uranio impoverito, e continua ad utilizzarlo nonostante tempo fa avesse annunciato l’intenzione di passare al tungsteno. Glen Milner del gruppo pacifista Ground Zero è venuto in possesso di un documento che dimostra come la Marina Militare continui ad utilizzare per queste esercitazioni proiettili all’uranio impoverito, e le svolga in aree vicino alla costa di Washington e Seattle. Ciò ha suscitato notevoli preoccupazioni tra i pescatori e nella popolazione locale, anche perché sono note le conseguenze dell’uso di queste armi nell’ambiente durante le guerre in Iraq, Jugoslavia e Afghanistan. La Us Navy non ha fornito informazioni ulteriori su come si svolgono queste esercitazioni, ma i cittadini delle zone coinvolte sono comunque determinati a fare chiarezza e in caso a denunciare la Marina Militare statunitense. È comunque diffi-
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cile per gli autoctoni, che di “incidenti” ne hanno visti e subiti parecchi, credere che sia tutto sotto controllo. Sanno bene, infatti, che le bombe inesplose nei fondali vengono trascinate dalle correnti anche miglia e miglia oltre le zone interdette. Spesso le cannonate sparate dal Poligono piovono sulla zona libera di Porto Pino, sorvolando le teste dei residenti e degli occasionali visitatori. E succede anche che i carristi finiscano sempre per errore con i loro cingolati in qualche centro abitato. Le maggiori preoccupazioni, tuttavia, riguardano i rischi per la salute. L’incidenza di leucemie, tumori e malformazioni alla nascita nelle zone intorno alle basi militari è una coincidenza che spalanca squarci inquietanti e imbarazzanti. Un sempre maggiore numero di cittadini sardi, sostenuti dal “Comitato Gettiamo le Basi”, chiede che i poligoni e la basi dell’isola siano sottoposti a indagine super partes, a controlli permanenti e scientificamente qualificati: da Teulada a Quirra, da Perdasdefogu a Decimomannu, fino a Capo Frasca e alla base Usa di sommergibili a propulsione ed armamento nucleare di Santo Stefano (arcipelago La Maddalena), abbandonata dagli USA nel 2008. A Capo Teulada vengono utilizzati proiettili al fosforo bianco, gli stessi della strage di Falluja in Iraq. È scritto in una relazione firmata dal generale Giorgio Cornacchione, che lo Stato Maggiore dell’esercito ha consegnato a novembre dell’anno 2005 al Comitato paritetico sulle servitù militari. Nella relazione dell’alto ufficiale appare un elenco di armi convenzionali e di armamenti chimici. Tra questi sono indicati, al punto c della seconda pagina, anche i proiettili al fosforo: “WP munition with fosforus”, è la formula precisa. Sono utilizzati nelle esercitazioni che si svolgono a Capo Teulada, nelle simulazioni di risposta agli attacchi portati da carri armati. Sempre contro i carri, rivela la relazione, sono utilizzati anche i missili Milan e Tow. Quando colpiscono il bersaglio, tali missili rilasciano amianto e torina. La zona di Capo Teulada è talmente inquinata che i ricercatori dell’Istituto di scienze marine del Cnr, incaricati dal ministero della Difesa di dare un quadro scientificamente attendibile della situazione, hanno risposto: “È più conveniente dare un vitalizio ad ogni singolo pescatore dell’area di Capo Teulada piuttosto che procedere alla bonifica del mare”. La Sardegna dal mare alla terraferma è occupata dalla più estesa servitù militare d’Europa. In quest’isola è concentrato l’80 per cento dei centri di sperimentazione bellica
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in Italia. Nell’isola il demanio militare permanentemente impegnato ammonta a 24 mila ettari; in tutta la penisola italiana raggiunge i 16 mila. A questa cifra vanno sommati i 12 mila ettari gravati da servitù militare. Gli spazi aerei e marittimi sottoposti a schiavitù militare sono di fatto incommensurabili, solo uno degli immensi tratti di mare annessi al poligono Salto di Quirra con i suoi 2.840.000 ettari supera la superficie dell’intera isola (kmq 23.821). Correva l’anno 2006 (29 novembre) — in un’audizione alla Camera — e l’allora Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica, Vincenzo Camporini, non lasciava spazio a dubbi: «Le elevate potenzialità delle strutture militari della Sardegna per l’addestramento operativo di forze aeree sono diventate oggetto di interesse di vari Paesi alleati e amici. In particolare di francesi e tedeschi. La Francia è infatti disposta a integrare le strutture già presenti in Corsica. Mentre la Germania è orientata a ottimizzare gli oltre 13 milioni di euro che versa ogni anno all’Italia per l’utilizzo di un’altra base sarda, quella di Decimomannu». Capo Frasca, Capo Teulada e Salto di Quirra sono gli scenari di occupazione militare. Solo a Capo Frasca ci sono a disposizione 1.416 ettari. A gestire il poligono è proprio l’aeronautica, ovvero la fonte diretta della notizia dell’ampliamento. E a Capo Frasca insistono un eliporto, impianti radar e basi di sussistenza. «La Difesa ci ridia la baia»: l’amministrazione comunale di Tertenia chiede al Poligono di Quirra la restituzione agli usi civili dei quattro ettari in riva al mare dove alloggia la postazione militare di Punta Is Ebbas. Per comprendere la vicenda sin dalle origini passiamo la parola alla Difesa, che in un ampio ed illuminante articolo di Luca Peruzzi, pubblicato dalla Rivista Marittima (giugno 2006), dal titolo Il poligono sperimentale e di addestramento interforze compie 50 anni, offre informazioni basilari: «La creazione del Poligono Interforze del Salto di Quirra risale alla seconda metà degli anni Cinquanta quando l’Aeronautica Militare avvertì l’esigenza di dotarsi di un poligono di tiro, ove potessero svolgersi attività scientifiche, per ricerche nel campo meteorologico e spaziale, sperimentali, per la valutazione di nuovi sistemi d’arma e infine addestrative, con tiri reali (…) Il 20 agosto 1956 venne pertanto istituito il «Poligono di Armamento Aeronautico del Salto di Quirra», che venne posto per l’attività operativa alle dirette dipendenze della
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Direzione Generale delle Armi e Munizioni (DGAM) mentre per gli aspetti di carattere amministrativo-logistico-territoriali la competenza ricadde sul Comando Aeronautico della Sardegna. Nell’ottobre dello stesso anno, fu approntato il primo nucleo di infrastrutture operative della base di Perdasdefogu e fu autorizzato dal Comando della DGAM a effettuare le prime attività operativo-sperimentali. Nei giorni 25-27 ottobre vennero lanciati con successo 4 missili a carica combustibile ridotta della Contraves. Seguì un’intensa attività di sperimentazione nel campo della missilistica e della ricerca spaziale, con prove effettuate da diverse ditte private fra cui, oltre alla Contraves, la Sispre, la FIAT e Finmeccanica. Gli importanti risultati realizzati presso il Poligono, fra cui la sperimentazione del missile aria-aria con guida IR «C-7» di produzione interamente italiana, portarono lo Stato Maggiore della Difesa alla decisione di assumerne la diretta dipendenza, il che avvenne il 1° luglio 1959, subordinandolo al Consiglio Tecnico Scientifico della Difesa (CTSD) e rendendolo interforze con la seguente ripartizione del personale: 50% Aeronautica, 35% Esercito e 15% Marina. L’interesse non soltanto italiano all’utilizzo del Poligono e la sua espansione negli anni successivi non dipesero in primo luogo da attività militari, ma dalla fruttuosa collaborazione nel campo scientifico fra i vertici del Poligono e il professor Luigi Broglio, allora a capo del Comitato delle Industrie Spaziali Italiane, che operava di concerto con la NASA. Tale attività era stata preceduta nel luglio 1960 dal lancio (il primo effettuato sul Poligono con finalità scientifiche) del razzo «C-41», destinato allo studio degli strati più bassi dell’atmosfera, realizzato con mezzi di fortuna ma coronato da successo. Il 21 gennaio 1961 un razzo «Nike-Cajun», rappresentato da una sonda a due stadi spinta da motori a propellente solido, lunga 8 m e del peso di circa 700 kg, raggiunse la quota massima di 170 km, diffondendo nell’atmosfera un composto atomizzato di sodio e litio. Si creò così una nube arancione ampia circa 90 km (…) A partire dal novembre 1961, la società Vitroselenia realizzò, nel tratto di costa compreso fra Capo Bellavista e San Lorenzo, una serie di postazioni per le attrezzature di inseguimento dei sistemi testati presso il Poligono, mentre nella zona «a terra» furono ampliate e, ove necessario, ammodernate le infrastrutture già esistenti. In concomitanza di tali lavori, l’AMI istituì il «Distaccamento del Poligono del Salto di Quir-
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ra», con sede a Capo San Lorenzo, mentre nel frattempo veniva incorporata la striscia di costa compresa fra quest’ultimo e Torre Murtas. Con il completamento dei lavori alla fine del 1962 e la visita nel novembre dello stesso anno da parte dell’allora ministro della Difesa, On. Giulio Andreotti, il PISQ assunse le connotazioni attuali. Sebbene la notorietà del Poligono fosse stata raggiunta con l’attività scientifica, la sperimentazione e l’addestramento nel settore militare ne hanno rappresentato fin dalla sua costituzione il filo conduttore e l’attività principale. Accanto ai numerosissimi lanci di missili realizzati nei primi anni di attività, in particolare della Contraves, fra cui il sistema riutilizzabile per l’addestramento «RSC-50», nonché razzi «AR 15» e «HVAR», fra il 1962 e il 1964 si svolsero i primi lanci del sistema superficie-aria Raytheon HAWK, che i reparti dell’Esercito e dell’Aeronautica stavano immettendo in servizio. Ciò richiese un adeguamento delle infrastrutture del Poligono. Oltre all’ampliamento del Posto Centrale di Comando dove venne istituita una sala operativa da cui seguire tutte le attività in corso, furono installati i nuovi radar monopulse «RIS-3C», che permettevano una maggiore precisione d’inseguimento dei bersagli nelle diverse condizioni operative. L’attività addestrativo-valutativa con l’ «HAWK» a favore delle Forze Armate italiane e dei Paesi NATO utilizzatori del sistema, si protrasse fino al 1974, dopo che nel gennaio 1960, per la prima volta al di fuori dei poligoni americani, il sistema aveva intercettato con successo un missile terra-terra «Honest John» che fungeva da bersaglio. Nei primi anni Sessanta, dopo aver utilizzato prima radio-bersagli Meteor «P-1» e in seguito «P-X», il ministero Difesa scelse quale sistema ufficiale del Poligono il «CT-20» con propulsione a getto, sviluppato dalla francese Nord Aviation. Nel 1965 la gestione di questi sistemi venne affidata alla Meteor che dal 1967 produsse su licenza per la Marina Militare anche il bersaglio «KD2R-5», velivolo subsonico ad elica prodotto dalla Northrop, ribattezzato per l’Italia «NVM-1» (Northrop Ventura-Meteor 1) (…) Nel maggio 1967 si tenne una delle più importante manovre a fuoco della Marina Militare, che coinvolse ben 5 unità maggiori (Garibaldi, Duilio, Doria, Impavido e Intrepido), che lanciarono con successo 4 missili superficie-aria «Terrier» e 3 «Tartar» contro radio-bersagli «CT-20». Nel febbraio dello stesso anno, l’US Navy e gli incrociatori Daniels e Yarnell della 6ª Flotta,
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nello spazio di poche ore, lanciarono 3 «Terrier» contro altrettanti «CT-20». Sempre nel 1967 l’AMI decise di trasferire presso Capo San Lorenzo un’intera batteria di missili superficie-aria a lungo raggio «Nike», per l’addestramento a rotazione dei reparti operativi (…) Il poligono viene utilizzato anche per la sperimentazione di sistemi d’arma terrestri, come nel caso del lanciarazzi campale multiplo MLRS. Una delle più recenti campagne di tiro ha riguardato il sistema aria-aria a corto raggio IRIS-T (…) Sulla base delle attività di sviluppo e sperimentazione svolte da Contraves dalla prima metà degli anni Sessanta con il sistema superficie-superficie antinave «Sea Killer Mark 1», la società italo-svizzera sviluppò il modello «Mk.2», che venne testato sul poligono e in seguito acquistato dalla Marina iraniana. Nel febbraio 1970 venne sperimentato dalla Marina un missile «Terrier» appositamente modificato per l’attacco contro un bersaglio navale. Dal 1971 fu la volta della sperimentazione e del successivo collaudo del nuovo missile antinave «Otomat», sviluppato dall’OTO Melara e dalla Matra francese (…) L’anno successivo partì invece la sperimentazione del sistema missilistico «Albatros Mk.1» sviluppato dalla Selenia, che utilizzava il missile superficie-aria Raytheon «RIM7 Sea Sparrow». Con il 1972 si concluse presso il PISQ un’importante campagna di lanci a carattere scientifico-spaziale iniziata otto anni prima. Nell’ambito dell’attività dell’European Space Research Organization, istituita nel 1964 per la ricerca e lo sviluppo della tecnologia spaziale, furono infatti effettuati numerosi lanci di razzi di costruzione francese «Centaure» e inglese «Skylark», i cui risultati vennero analizzati dai più importanti studiosi e fisici mondiali. Per lo studio degli strati più alti dell’atmosfera terrestre, vennero effettuati test anche con razzi ancor più potenti: fu proprio un «Dragon» che nel maggio 1968 permise di raggiungere un apogeo, record per il Poligono, ben 395 km di quota! Nel 1971 invece, il Comitato dei capi di Stato Maggiore affidò al CTSD lo sviluppo del progetto «ALFA», che venne seguito dal GRS (Gruppo di Realizzazione Speciale), guidato da personale della Marina Militare. Scopo del programma fu la realizzazione di un razzo bistadio, utilizzabile, a scopi civili, per mettere in orbita un satellite, ma capace di portare un carico bellico di 1.000 kg, rappresentato da una testata nucleare, ad una distanza di 1.600 km. L’Italia, non aveva sottoscritto il trattato di non proliferazione nucle-
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are entrato in vigore nel 1968. Alla realizzazione del nuovo vettore parteciparono numerose industrie italiane. Presso il PISQ vennero effettuate, fra il settembre 1975 e l’aprile 1976, 3 prove in volo del primo stadio del missile, con il secondo stadio inerte (…) Nel corso degli anni Settanta continuarono, senza sosta, sperimentazioni e valutazioni di nuovi sistemi d’arma, oltre che attività addestrative nazionali e alleate (…) Fra il 1975 e il 1977 presso il Poligono si tenne la campagna di sperimentazione e valutazione del sistema missilistico «Aspide». Quest’ultimo divenne operativo con il complesso di controllo e lancio «Albatros Mk 2» nel 1979, seguito dalla versione superficie-aria «Spada» nel 1983 e nella versione aria-aria per i velivoli da difesa aerea «F-104 Starfighter» nel 1988. Continuò nel frattempo l’attività addestrativa delle Forze Armate della NATO legate alle campagne dei tiri dell’«HAWK» e dei missili da difesa aerea imbarcati. Verso la fine degli anni Settanta iniziarono anche sperimentazioni e valutazioni del velivolo europeo per l’interdizione aerea lontana «Tornado». Anche il sistema «HAWK» fu oggetto di lanci di valutazione della nuova versione migliorata «HELIP». Nel giugno 1980, con lo scioglimento del CTSD, pur mantenendo un carattere interforze, il Poligono passò alle dipendenze dirette dello Stato Maggiore Aeronautica (…) Tra gli anni Ottanta e Novanta si susseguirono lo sviluppo e la sperimentazione di sistemi che ancor oggi sono in servizio, così come attività addestrative sempre più realistiche grazie agli sviluppi della tecnologia e dei sistemi utilizzati. Verso la metà del decennio venne collaudata la versione migliorata «Mk 2» dell’«Otomat» così come la versione «Mk 2» del missile antinave «Marte», acquistato dalla Marina Militare (…) Dopo il 2000 è entrata nel vivo la sperimentazione del velivolo europeo «Eurofighter» e di nuovi sistemi d’arma, fra cui munizionamento a guida laser, GPS ed infrarossi, missili aria-aria AMRAAM, ASRAAM e IRIS-T, spalleggiabili «Stinger» e aria-superficie stand-off «Storm Shadow» (…) Il Poligono si estende a cavallo tra le province di Nuoro e Cagliari con un ampio entroterra che si sviluppa in prevalenza sull’altopiano del Salto di Quirra e un’area in prossimità della costa, che si estende dal golfo di Arbatax alla foce del Flumendosa (…) Al vertice nord occidentale del quadrilatero, infine, vi è l’abitato di Perdasdefogu, sede del Comando Poligono e delle principali infrastrutture. Le installazioni fisse del Po-
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ligono a mare si articolano su un’area demaniale di circa 1.100 ettari, compresa tra la punta di Capo San Lorenzo e il rilievo di Serra Longa, per una lunghezza di circa 10 km. Questa zona comprende, tra l’altro, le 4 zone di lancio «Alfa», «Hawk», «Nike» e «Sperimentale,» nonché il Comando del Distaccamento di Capo San Lorenzo. Lungo la costa orientale sarda, per circa altri 40 km, dal rilievo di Torre Murtas fino a Capo Bellavista (Arbatax), è invece presente la serie di Postazioni di Rilevamento. Infine occorre menzionare lo spazio aereo e marittimo antistante le coste, che viene utilizzato per le attività a fuoco. Secondo le esigenze, esso può avere un’estensione che varia da 2.200 ad 11.300 miglia quadrate e un’estensione che si spinge fino a 100 km dalla costa (…) Negli ultimi anni il Poligono ha visto un notevole incremento delle attività ed una maggiore attenzione verso cicli addestrativi mirati con temi complessi e scenari realistici. Oltre ad essere l’unica struttura in Italia ove poter svolgere attività di valutazione e di addestramento al tiro a fuoco reale con sistemi d’arma a lunga e media gittata, nonché operare con velivoli senza pilota (UAV), il PISQ dispone di un’area per l’addestramento all’impiego di munizionamento a guida laser, ospita aree per accertare gli effetti di scoppi e incendi di missili e siluri ed effettuare test su gasdotti. Di recente è divenuto sede del poligono di guerra elettronica dell’AMI. Nel corso degli ultimi anni continuano a registrarsi le esercitazioni a fuoco delle Forze Armate e dei Corpi dello Stato, fra cui reparti altamente specializzati come il Col Moschin, COMSUBIN e gli Incursori dell’AMI (…) Tra i numerosi impegni nazionali ed internazionali, il Poligono continuerà in futuro la sperimentazione del missile «Storm Shadow» e dei munizionamenti «Davide» e «Vulcano» rispettivamente per cannoni da 76/62 e 127/54 mm, della nuova versione «Mk2A» del «Teseo» e «Mk2/S» del «Marte», oltre che delle componenti realizzate dalla Avio per i razzi vettori «Ariane» e «Vega» (…)». Non risparmiano niente e nessuno: perfino i giochi di guerra contro i cetacei del Mediterraneo. Un dato è però certo: la Marina Militare USA attualmente sta sperimentando nei mari italiani dei cannoni pneumatici che sparano sugli abissi onde sonore fino a 270 decibel con intervalli di 20 secondi. La tolleranza acustica massima di balene e capodogli è di 150 decibel. La Cetacean International Society pub-
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blica bollettini di cetacei uccisi da questo tipo di contaminazione acustica. Tra l’altro questo organismo scientifico indipendente da lobby economiche e governi ha denunciato una dozzina di esperimenti realizzati in gran segreto nel mar Ligure. Contaminazione causata non solo dai cannoni acustici calibrati, ma anche dai meno conosciuti Surtass Lfai dell’US Navy e dell’Alleanza atlantica. Si tratta di sistemi sonori per individuare sommergibili con uso di onde sonore di 250 decibel a bassa frequenza di 450-750 Hz. Greenpeace ha denunciato lo spiaggiamento di due cetacei, due rari esemplari di zifio, sulle coste vicino Siracusa, mentre era in corso un’esercitazione NATO con uso di apparecchiature sonar. «Questo spiaggiamento — afferma il velista Giovanni Soldini — non è una coincidenza. Anche se non ci sono prove certe, non sarebbe la prima volta che questi cetacei spiaggiano perché disturbati da sonar militari. I nostri mari sono già in un grave stato di degrado: è doveroso prendere ogni misura necessaria per evitare che le minacce aumentino». I due animali, due zifi di 6 e 8 metri, sono stati recuperati vivi e riportati al largo dalla Guardia Costiera. L’operazione militare, nota come Proud Manta 11, è proseguita con l’impiego di sei sommergibili a propulsione ed armamento nucleare e sofisticate apparecchiature sonar. Ancor prima i guerrieri dell’arcobaleno avevano lanciato l’allarme perché la NATO era stata autorizzata a sperimentare attrezzature sonar subacquee addirittura nelle acque di Pianosa, nel Parco dell’Arcipelago Toscano e dentro il Santuario dei Cetacei. A seguito delle proteste, l’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano ha inviato all’organizzazione un documento con cui il NATO Undersea Research Center (NURC) di La Spezia sostiene di aver provveduto a minimizzare gli «effetti nocivi sui mammiferi marini delle sperimentazioni che prevedono suoni sottomarini». Il documento parla esplicitamente di «spiaggiamenti in massa di zifi», ma poi afferma che «la relazione specifica di causa ed effetto tra l’uso del sonar e gli spiaggiamenti di mammiferi marini è ancora ignota». Eppure che questa relazione ci sia è certo, almeno da quando nel 2002, al largo delle Isole Canarie, durante un’esercitazione NATO ben 27 zifi spiaggiarono e 14 morirono. Dopo il drammatico episodio, il Governo spagnolo decise di interdire la zona a queste pericolose attività. «È evidente che le procedure usate dalla NATO — rimarca Giorgia Monti, responsabile campagna Mare di Greenpeace
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— non garantiscono alcuna sicurezza per i cetacei. Queste esercitazioni sono pericolose e il fatto che non siano vietate in aree protette, come il Santuario dei cetacei, è un’inaccettabile scempio». I sonar militari possono provocare effetti sui cetacei fino a 100 chilometri di distanza, producendo non solo disorientamento, ma molto spesso danni fisici che possono causarne anche la morte. Greenpeace chiede al ministero dell’Ambiente di fare chiarezza sullo spiaggiamento di Siracusa, e di vietare queste esercitazioni soprattutto nelle aree in cui gli zifi sono più diffusi: lo Ionio e l’alto Tirreno. In particolare, Greenpeace chiede con forza l’immediata revoca dell’autorizzazione alle esercitazioni NATO/NURC a Pianosa e in tutto il Santuario dei Cetacei che è rimasto un “parco di carta” per troppo tempo. Nel bel mezzo del Santuario, di fronte a La Spezia, si svolgono periodicamente delle esercitazioni militari che prevedono l’utilizzo di sommergibili da guerra e lanci di siluri. Il ministero dell’Ambiente ha messo nero su bianco che al largo della Toscana non ci sarebbero cetacei. Però una balena è morta il 28 gennaio 2011. Altro che “ingestione di sacchetti di plastica”, come aveva sostenuto senza uno stracico di prova il professor Giuseppe Nascetti (docente dell’università della Tuscia, ma già consulente dell’ente nucleare Enea). Nel dicembre 2009, ben sette capodogli sono deceduti su una spiaggia del Gargano, a causa di un’embolia gassosa a livello coronarico, provocata dalle sperimentazioni segrete dell’Alleanza atlantica. L’11 ottobre 2012 ricorre l’undicesimo anniversario dalla legge italiana di ratifica dell’Accordo sul Santuario siglato da Italia, Francia e Monaco, ma l’area è ancora minacciata dalle manovre militari della NATO in costante aumento. Sono mammiferi come gli esseri umani e non grandi pesci. Nel tempo sono diventati frequentatori delle grandi profondità oceaniche da cui emergono per respirare, giocare e riprodursi. L’affondo acustico dei sonar militari spaventa e disorienta i cetacei, spingendoli ad una risalita troppo rapida, in cui trovano frequentemente la morte. I sonar militari possono provocare effetti sui cetacei fino a 100 chilometri di distanza, producendo non solo disorientamento, ma molto spesso danni fisici che possono causarne anche la morte. Cetacei e balene sono i nostri antenati evoluti. Sono la specie simbolo dello stato di salute dei nostri mari. La loro voce viaggia fino a 1500 chilometri di distanza: se si ascolta attentamente
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si comprende che chiede aiuto. I cetacei non conoscono frontiere: si muovono liberi in mari ed oceani. Cinquanta milioni di anni fa i loro antenati hanno abbandonato il pianeta Terra e si sono adattati alla vita acquatica nel grembo di Gaia. Alimenti legalmente inquinati? La lobby nucleare è riuscita a far modificare i regolamenti internazionali per ottenere l’autorizzazione alla presenza di inquinanti radioattivi nei generi alimentari. La ratifica di queste modifiche è stata siglata — nella disattenzione generale — a Roma, nel luglio del 2005. Il risultato è che la normativa emanata dall’Agenzia per la promozione del nucleare civile prevede che i limiti di contaminazione degli alimenti saranno considerati accettabili senza alcuna limitazione temporale e che la loro applicazione verrà estesa alla situazione di crisi della gestione dei rifiuti delle centrali stesse. «La logica non sarà più di tollerare per un periodo limitato una dose di radioattività nel caso di incidente grave, ma di autorizzare definitivamente la presenza di inquinanti radioattivi nei nostri alimenti» ha denunciato Corinne Castagnier del Criirad di Parigi (Commissione di ricerca e informazione indipendente sulla radioattività). Trattandosi di sostanze notoriamente cancerogene e mutagene, l’Aiea non poteva tacere sulla questione dei rischi. Di fatto la nuova direttiva (Codex Alimentarius: nome in codice “ALNORM 04/27/12”) qualifica gli alimenti la cui radioattività non supera i limiti descritti come “sicuri per la consumazione umana”. «Il problema emerge quando si verificano i calcoli — spiega l’esperta Castagnier —. Ci si rende infatti conto che le dosi di rischio fissate dall’Aiea superano da 100 a 2.000 volte la soglia ritenuta accettabile dagli autori del progetto di normativa. Non siamo più nell’ambito della soglia di rischio irrilevante ma bensì a livelli di pericolo decisamente inaccettabili». Ed ecco l’antefatto. Il ministero della Salute italiano, con un decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 28 ottobre 2004, aveva avviato un programma di monitoraggio sugli alimenti provenienti dal Kosovo e dalla Bosnia Erzegovina alla ricerca di due contaminanti chimico-fisici: uranio e arsenico. Recita la normativa in vigore: «Visto il decreto del Ministero della salute del 22 ottobre 2002, ed in particolare l’articolo 3, comma 1, che prevede l’adozione di un programma per il controllo delle sostanze alimentari importate dai territori della Bosnia-Herze-
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govina e del Kosovo; visto il medesimo articolo 3, comma 2, in base al quale il predetto programma prevede sia l’effettuazione di controlli all’importazione, a sondaggio e a solo titolo conoscitivo, diretti ad accertare la presenza di eventuali contaminanti chimico-fisici, sia l’individuazione, con il supporto tecnico dell’Istituto superiore di sanità, delle matrici alimentari da sottoporre ai controlli, delle frequenze degli stessi e le procedure operative da seguire per campionamenti ed analisi». Si tratta di un monitoraggio in particolare su funghi, cereali, altri vegetali, prodotti lattiero-caseari e prodotti ittici. Questa iniziativa, a così grande distanza dal termine del conflitto, pone alcune domande inquietanti. Ci si chiede se il ministro della Salute sia a conoscenza dei nuovi sviluppi sulla questione uranio impoverito e sulla cosiddetta “Sindrome dei Balcani” (causa di morti sospette di militari ritornati dalla missione in Kosovo e Bosnia), oppure se si tratti solo del solito ritardo burocratico italiano e cioè se l’iter sia stato avviato nel 2000 e solo oggi portato a compimento. Certo è che se da queste analisi si riscontrasse la presenza di uranio e arsenico negli alimenti, ciò significherebbe che la radioattività in Bosnia e Kosovo è a tutt’oggi molto elevata, con gravi rischi per la popolazione di quei Paesi. E anche per quella dei Paesi che importano da Bosnia e Kosovo derrate alimentari. Chiamato in causa sugli accertamenti in corso, il ministro della salute Fazio taceva inspiegabilmente: non è dato conoscere l’eventuale livello di pericolo. Ci si chiede, quindi, se i bombardamenti con proiettili all’uranio impoverito abbiano causato forti contaminazioni a distanza di tempo dal conflitto in Bosnia e Kosovo. «In passato una ricerca svolta dall’Unep (agenzia dell’Onu) in Bosnia aveva riscontrato livelli di radioattività nelle zone colpite con proiettili all’uranio impoverito — percentuali ritenute in quell’occasione non pericolose per la salute umana — ma Pekka Haavisto, responsabile di quella missione avvenuta nel 2002, aveva tenuto a precisare che in ogni caso si era intervenuti tardi e che quindi le analisi fatte in quell’occasione poco potevano dire rispetto ai tassi di contaminazione raggiunti negli anni precedenti. Ora il monitoraggio italiano interviene a sua volta ad anni di distanza dalla già ritardataria missione Unep». In ogni caso nelle zone della Bosnia Erzegovina colpite dai proiettili all’uranio il tasso dei tumori ha subito un notevole incremento, anche se i dati statistici non possono essere precisi, poiché i
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registri del conteggio dei tumori precedenti al conflitto sono andati perduti. Anche sulle morti dei nostri soldati c’è un’ipotesi che sta verificando la dottoressa Antonietta Gatti dell’università di Modena e responsabile del progetto “Approccio bioingegneristico alla sindrome dei Balcani”. Come rivela l’Osservatorio sui Balcani: «Secondo la dottoressa i tumori e le leucemie riscontrate nei militari italiani non sarebbero direttamente legati all’esposizione alla radioattività dell’uranio impoverito, bensì alle nanoparticelle non biocompatibili che si formano durante le esplosioni ad alte temperature, tipiche dei proiettili all’uranio impoverito e al tungsteno. Polveri che poi entrano nella catena alimentare e così nel corpo umano». Dunque, in base ai risultati ottenuti dalla dottoressa Gatti, la presenza di queste nanoparticelle non biocompatibili nei tessuti umani di soggetti affetti da tumori è da ritenersi altamente correlabile all’insorgenza della malattia. Secondo la studiosa, quindi, non basterebbe riscontrare la bassa radioattività per affermare che i proiettili all’uranio impoverito non sono pericolosi anche per il cibo. Inoltre, ci si chiede: perché il decreto del ministero della Salute cita anche l’arsenico? Nel 1999 venne bombardato il petrolchimico di Pancevo dal quale venne rilasciato arsenico. Questo episodio non sembra comunque giustificare la ricerca di questo elemento nelle derrate alimentari provenienti da altre zone come la Bosnia e il Kosovo. Al mosaico delle verità mancano senz’altro alcune tessere fondamentali. Il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (numero 7/8, luglio/agosto 2003, vol. 16) Uranio impoverito e linfomi di Hodgkin nei soldati italiani in Bosnia e Kosovo… segnala «l’importanza di proporre nelle opportune sedi internazionali campagne di monitoraggio nei territori in cui siano utilizzati proiettili all’uranio impoverito, allo scopo di rivelare a tempi lunghi eventuali contaminazioni delle popolazioni civili residenti e dell’ambiente (possibile presenza futura di questo inquinante nell’acqua e in genere nella catena alimentare). In effetti, i rischi per la popolazione residente possono venire, a medio e lungo termine, dalla contaminazione del suolo e delle falde acquifere. La prima può causare un’esposizione da inalazione per risospensione, mentre ambedue possono dar luogo a esposizione da ingestione (trasferimento dell’uranio alla catena alimentare)». E ancora si legge nel notiziario dell’ISS: «Ulteriore importante raccomandazione è quella di promuovere, a livello
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nazionale e internazionale, ricerche sugli effetti dell’esposizione a uranio impoverito e di svolgere ricerche approfondite sulle possibili altre cause di aumentata incidenza di linfomi». Inizia a materializzarsi qualcosa di più inquietante. Rifiuti radioattivi, i militari francesi li avrebbero gettati nei laghi vicino Sarajevo. Uno studio indipendente conferma il disastro nucleare. È una delle pagine più buie della storia della Bosnia. Qualcuno avrebbe approfittato del caos seguito alla guerra in ex Jugoslavia, del controllo straniero del territorio e della missione di peacekeeping per smaltire scorie nucleari. E da quelle parti i segreti, soprattutto quelli più scomodi, rischiano di rimanere nascosti per sempre. Ma ora iniziano ad arrivare conferme, testimonianze, tumori, morti e nomi dei siti dove sarebbero nascosti gli scarti radioattivi. Dopo l’uranio sporco che ha invaso il Paese in seguito ai bombardamenti della NATO, ora saltano fuori anche i fusti nucleari. Occultati in giro per la Bosnia, avrebbero provocato un’immensa catastrofe ambientale che un debole governo come quello locale difficilmente è in grado di affrontare. Nel 1995, dopo la firma degli accordi di Dayton, venne creata a tavolino la Federazione della Bosnia-Erzegovina. Nel Paese giunse il contingente internazionale Ifor incaricato di applicare e mantenere la pace. La nuova nazione nata dalle ceneri della Jugoslavia, venne divisa in tre aree: la zona ovest (con Banja Luka e Bihac) a comando inglese, quella nord (Tuzla e Brcko) degli Stati Uniti e infine la parte est (Sarajevo, Mostar e Stolac) controllata dai francesi. A raccontare nel dettaglio questa operazione segreta e scoperchiare il vaso di Pandora è stato un ex membro del Sis (Security information service), i servizi segreti bosniaci, ora diventati Foss (Federal security intelligence service). Questo 007 prima di scomparire nel nulla ha consegnato un malloppo di documenti compromettenti al Vecernji list (il Foglio della sera), il quotidiano più letto della Croazia, venduto anche in Bosnia. Secondo l’agente, i servizi segreti di Sarajevo avrebbero provato a indagare sullo smaltimento di rifiuti radioattivi mettendo insieme un fascicolo. Ma il governo avrebbe bloccato il dossier top secret, accusando i propri agenti di «controllo illegale delle forze Sfor», nuovo nome del contingente internazionale Ifor. In pratica avrebbero messo tutto a tacere, per necessità: il Paese ha ancora bisogno della NATO. Soprattutto in questo particolare momento politico, in cui la Repubblica Srpska, l’entità
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a maggioranza serba della Federazione bosniaca, preme per ottenere l’indipendenza e congiungersi a Belgrado. L’agente racconta che nel 1996 Parigi inviava nella zona sotto il suo comando una speciale unità che si occupa del trattamento e dello smaltimento di rifiuti radioattivi. Un battaglione utile anche in patria, pronto e attrezzato per intervenire in caso di incidente nucleare, ed evitare la brutta fine dei “ripulitori” di Chernobyl. Uomini dell’esercito sovietico, che dopo il disastro alla centrale ucraina effettuarono le prime operazioni di messa in sicurezza senza le attrezzature adeguate. Tanto che in seguito morirono quasi tutti. Lo speciale battaglione francese — secondo il racconto dell’ex agente segreto — attendeva le navi, cariche a suo dire di rifiuti radioattivi, nel porto montenegrino di Bar. In questa città, distante poche decine di chilometri dall’area bosniaca sotto il comando di Parigi, arrivavano molti rifornimenti destinati alla NATO. Ma questi carichi speciali venivano trasportati via terra con una scorta di ingenti proporzioni fino alla base francese di Stolac. Qui i fusti radioattivi — sempre secondo lo 007 — venivano poi ricoperti da tonnellate di calcestruzzo, fino a formare dei pesanti blocchi quadrati. A quel punto i cubi di cemento carichi di scorie venivano trasportati in elicottero, appesi a degli speciali cavi d’acciaio, verso la loro destinazione finale. L’obiettivo — secondo le informazioni raccolte dall’agente — erano tre laghi situati sempre nell’area sotto il comando francese: Busko (vicino Livno), Ramsko e Jablanicko (nei pressi di Jablanica). Questi tre bacini idrici bosniaci sarebbero diventati, stando alla testimonianza dell’agente segreto, vere e proprie discariche radioattive. Gli abitanti della zona confermano che durante quel periodo sui laghi arrivavano spesso elicotteri in piena notte. «Anche volendo, non abbiamo gli strumenti per verificare — spiega Lamija Tanovic docente della facoltà di Fisica di Sarajevo —. L’Agenzia per la protezione radioattiva in Bosnia è stata costituita da poco. Ma siamo a corto di mezzi, fondi e attrezzature». Un’opinione condivisa anche da Jovan Savic, capo del settore prevenzione radiologica e chimica della Protezione civile bosniaca: «La situazione è critica, troviamo di continuo fonti radioattive, ma per ora è meglio lasciare tutto così». Problemi politici e sociali, carenza di attrezzature, organismi di controllo inadeguati, corruzione, indifferenza e paura degli enti locali per le conseguenze internazionali, aiuto e supporto tuttora necessario dei
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Paesi europei, mettono in secondo piano i timori e la rabbia della popolazione che vive nelle zone in questione. Negli anni sono stati numerosi i casi di ritrovamento di scorie radioattive, poi caduti nel dimenticatoio, come nel caso di Goranci a venti chilometri di Mostar. I cittadini hanno raccontato di camion militari francesi che scaricavano materiali in una cava. La Francia spiegò che non si trattava di rifiuti pericolosi, quindi nessuno analizzò il terreno. Anche alle miniere di Jajce, a ovest di Sarajevo, aleggiava il sospetto di smaltimento di scorie da parte di militari Sfor. Si riferiva, infatti, di vagoni ferroviari radioattivi arrivati a Zenica oltre che di varie fonti trovate intorno a Sarajevo. Tra queste, il monte Igman, da cui proviene l’acqua potabile della capitale. Quella che sempre più persone chiamano la Chernobyl balcana è stata confermata dalle uniche analisi indipendenti. Riguardano proprio l’area che era sotto il controllo francese. Lo studio, presentato dalla facoltà di Scienze dell’università di Sarajevo, ha misurato la contaminazione nucleare di nove siti del cantone della capitale. I dati sono poi stati confrontati con quelli raccolti in seguito all’incidente nucleare di Chernobyl, quando le particelle radioattive si depositarono sui terreni di mezza Europa. Il risultato conferma i timori: in quasi tutti i campioni analizzati la radioattività specifica supera quella registrata dal 1986 all’88. La situazione, al posto di migliorare, è peggiorata. Ma questo dell’università di Sarajevo, primo studio di questo tipo, riguarda solo l’area della capitale. Per escludere o confermare lo smaltimento illegale di scorie radioattive servirebbero analisi indipendenti nei luoghi indicati. «È fondamentale creare le condizioni per prevenire il trasferimento illegale di sostanze radioattive in Bosnia», dichiarava nel 2008 a Sarajevo il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Mohammed el-Baradei. Fino a ora l’unica conferma della presenza di rifiuti radioattivi è arrivata nel 2006. Nel comune di Gradiska anche le truppe ungheresi sono state accusate di traffico illecito di scorie. L’allora ministro della Sanità Ivo Komljenovic aveva disposto delle indagini in seguito alla morte di 45 persone. Vicino al fiume Sava i soldati magiari avevano costruito un deposito. Gli abitanti hanno raccontato che il cantiere era sorvegliato da un numero di soldati insolitamente alto, impedendo a chiunque di avvicinarsi. A trenta metri dalla base di atterraggio degli elicotteri ungheresi le radiazioni misurate anda-
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vano da 80 a 130 nanosievert. Scavando 50 centimetri è salita a 170, fino ad arrivare a 220 nano-sievert a un metro di profondità. Livelli tali da costituire una minaccia per la salute umana, tanto che tra i residenti della zona i tumori si sono moltiplicati. Non solo. È stato registrato un forte aumento, fino anche al 200 per cento, dei casi di cancro nelle zone del Kosovo più colpite dai bombardamenti della NATO (anno 1999), ai quali hanno partecipato in prima linea anche i bombardieri italiani. «Kosovo, piccola Hiroshima», ha titolato in prima pagina il giornale belgradese Politika, che cita un libro della studiosa Mirjana Andjelkovic-Lukic, esperta in armi ed esplosivi al Centro tecnico-scientifico dell’esercito serbo e vedova di un militare ammalatosi proprio in queste circostanze. Il saggio racconta infatti di alcuni alti ufficiali serbi morti di cancro dopo aver effettuato nel 2000 ricerche sul terreno per indagare sui risultati dei bombardamenti della NATO. Dal 2000 ad oggi sono state fatte rilevazioni in 112 località: secondo i documenti citati nel libro il livello radioattivo dei raggi gamma e beta è due volte superiore alla norma. La zona a più alta contaminazione radioattiva da uranio impoverito, secondo una cartina pubblicata da Politika, è quella del Kosovo occidentale, dove sin dall’inizio del dispiegamento stazionano le truppe italiane inquadrate nella Kfor. Un team di medici guidato dal professor Naboisha Srbljak, dell’ospedale principale di Kosovska Mitrovica, ha indagato sul territorio di tale località dove è stato riscontrato un «drammatico aumento» dei casi di tumore, «fino al 200% in più rispetto a prima dei bombardamenti», scrive il giornale. In alcune zone i casi sono cresciuti addirittura di quattro volte. Mentre infatti fino a prima dei raid NATO su 300 mila persone in Kosovo i malati di cancro erano dieci, dopo i bombardamenti tale rapporto è salito a 20 casi su 60 mila. Politika — che cita il caso del ministero della Difesa italiano condannato a risarcire un ex militare italiano ammalatosi di cancro dopo una missione in Somalia — afferma che il professore Srbljak ha inviato i risultati delle ricerche all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma che finora non vi è stata alcuna reazione. «Anche la Serbia tace al riguardo», ha aggiunto amareggiato. I bombardamenti dell’Alleanza atlantica contro obiettivi militari in Serbia e Kosovo durarono 78 giorni, dal 24 marzo al 10 giugno 1999.
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Capitolo settimo Onda letale In materia non valgono le normative a difesa della salute: la legge quadro (numero 36 del 22 febbraio 2001) e il decreto 381 del ’98. Allora, ecco i radar con licenza di uccidere. «Aiutateci a non morire. Siamo assediati da un nemico invisibile e silenzioso: un super radar militare che uccide lentamente con i suoi impulsi a microonde». Mentre l’Aeronautica si trincera dietro il segreto militare, Giovannella Maggini Mazzarella, insegnante in pensione, ha raccolto le prove del disastro. Una vicenda che un membro della New York Academy of Sciences, Gianfranco Valsè Pantellini, aveva definito «la strage degli innocenti». Non esistono alibi per le istituzioni: questa volta c’è il nesso di causalità (dimostrato a tutti gli effetti). La provincia di Macerata, in particolare Potenza Picena, registra un macabro primato italiano: un numero record di tumori, morbo di Crohn, ictus, cardiopatie ischemiche, suicidi, interruzioni di gravidanza, sterilità maschile, nascita di bambini con patologie congenite, convulsioni senza febbre, sclerosi, cataratte e disturbi psicosomatici. E ancora: neonati colpiti da palatoschisi e labbro leporino. Il 12 novembre 1982 la circolare 69 del ministero della Sanità (“Radiazioni non ionizzanti. Protezione da esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza e microonde. Informativa generale”), avverte che «quelle dei radar sono le sorgenti elettromagnetiche più pericolose per l’organismo umano». In barba al principio di precauzione, lo Stato non prende alcuna contromisura. Già all’epoca — attesta la disposizione ministeriale, sepolta in un cassetto ad ammuffire —, «Il numero dei radar attualmente impiegati è elevato ed in continuo aumento. Non sono disponibili dati precisi, perché segreti, sui radar militari, ma è nota la continua richiesta di sempre nuovi e più sofisticati dispositivi di questo tipo». Il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Istisan numero 89/29) documenta che «l’esposizione a campi elettromagnetici può causare diversi effetti nocivi alla salute. Tali effetti includono la cataratta negli occhi, il sovraccarico del sistema di termoregolazione, lesioni termiche, quadri comportamentali alterati, convulsioni ed una minore capacità di resistenza alla fatica. Devono essere condotte indagini su tutte le installazioni e su tutti i dispositivi probabili emettitori di radiazione a RF eccedente i limiti accettati.
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Molte sorgenti di radiazione a RF emettono in modo non confinato (emissioni radio, tv, radar e simili) e le loro radiazioni si propagano su vaste aree. Prima di scegliere un sito sono necessari uno studio appropriato ed un’attenta analisi dell’impatto sanitario ed ambientale (…) le raccomandazioni per la riduzione delle esposizioni a livelli accettabili devono essere messe in atto il più presto possibile». Quella marchigiana è una storia comune ad altre eluse situazioni italiane (che segnano particolarmente Veneto, Emilia Romagna, Liguria, Puglia, Sardegna e Sicilia), dimenticata per anni — nonostante l’avvicendarsi di governi di svariato colore — sulle scrivanie dei ministeri della Sanità, dell’Ambiente, della Difesa, del Tesoro e delle Finanze, del Presidente della Repubblica, della Magistratura, dei Carabinieri, dell’Enea, dell’Ispesl, del Parlamento Europeo, della Prefettura, dell’Autorità Sanitaria Locale. La signora Mazzarella, coadiuvata da alcuni ricercatori universitari, ha riunito anni di indagini, ricerche, dati, relazioni, denunce, lettere. La sua battaglia per il diritto alla salute comincia nel 1986, quando muore il marito per un tumore al cervelletto. Nell’87 l’Aviazione italiana potenzia l’impianto radar presente nel territorio comunale (un’area sottoposta a vincolo paesaggistico). L’Aeronautica installa un “Argos 10”, sostituito nel ’99 da un dispositivo automatizzato dell’Alenia ancora più potente. Le accresciute dosi di radiofrequenza e microonde si avvertono subito: cancelli radiocomandati che si aprono e si chiudono da soli, televisori impazziti, computer e apparecchiature elettroniche in tilt, radio e impianti stereo che si accendono autonomamente, stimolatori cardiaci che si bloccano, frutta che non matura, conigli che non prolificano, neonati colpiti da palatoschisi e labbro leporino, anomali incidenti stradali. La Rai comunica che «Le interferenze sono dovute alla presenza, a poca distanza dalle abitazioni, di impianti radar aventi caratteristiche tali che l’impianto ricevente di utente esce dalle condizioni di normale funzionamento». Anche l’Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni imputa alla postazione Nato la causa degli inconvenienti: «Gli accertamenti tecnici hanno evidenziato l’esistenza di interferenze ai servizi di radiodiffusione dovute alle emissioni radar prodotte dalla locale base dell’Aeronautica militare». Il 2 febbraio 1990 si costituisce l’Ader (Associazione per la difesa dalle emissioni radar) che inizia a dar battaglia all’Arma Azzurra per
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conoscere i dati operativi e valutarne l’impatto sulla salute umana. Ma il segreto militare è una barriera impenetrabile. L’Ader, ostacolata dall’amministrazione comunale e dalla regione Marche, non potendo studiare le cause, analizza gli effetti di quei campi elettromagnetici. E riscontra un aumento sospetto di tumori e disturbi su persone, animali e piante. I cittadini si rivolgono pure all’Istituto Superiore di Sanità che si defila senza spiegazioni. Ancora una volta lo Stato è latitante. Le istituzioni balbettano: ministri e sottosegretari dicono «che è tutto sotto controllo», compreso il verde Edo Ronchi, e perfino il marchigiano Valerio Calzolaio, che in quel momento occupa una decisiva poltrona ministeriale, non interviene. Nell’indifferenza generalizzata dei rappresentanti governativi, le persone seguitano ad ammalarsi e a morire. Tutti si arrendono tranne l’anziana signora Giovannella. Lei ha raccolto i dati in un dossier: età, professione, abitazione delle vittime, riportando caso per caso su una mappa topografica. Operazione che ha ripetuto per ogni patologia. Migliaia di fogli segnati con cerchietti rossi: tumori, aborti, suicidi, cataratte. Ogni disegno corrisponde a un nome: un bambino, una mamma, un papà. Andrea, Lucia, Alberto, Giuseppe, Enrica. Un piccolo nato con una malformazione; un altro con gravi complicazioni all’intestino. Centinaia di casi all’anno — su 14 mila residenti — che dovrebbero far riflettere. La donna si mette alle ricerca di tutti quei cittadini che hanno cercato le cure e sono morti a Bologna, Genova, Milano, Roma, Lione. Ottiene i certificati necroscopici e scopre che il suo paese ha sui decessi per tumore una percentuale del 36 per cento (confermata dall’Istituto Centrale di Statistica e dall’Università di Ancona) superiore di 9 punti al trend nazionale. Alle indagini sul campo si affiancano i sostegni scientifici dell’università di Camerino. Roberto Monti, primo ricercatore del Cnr di Bologna attesta che «certi casi si spiegano con l’abnorme intensità dei campi elettromagnetici presenti nella zona». L’Ader chiede più volte, ma invano, un monitoraggio epidemiologico e sporge denuncia alla Procura della Repubblica di Macerata per “strage continuata”, ma i giudici archiviano in fretta. L’11 febbraio 1999 il ministro dell’Ambiente Ronchi certifica che «Non è possibile delocalizzare il radar di Potenza Picena perché manca una normativa di supporto. Si tratta di una zona di inquinamento elettromagnetico non regolata dalla normati-
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va». Infatti, sia il decreto 381 del ’98 sia la legge quadro sull’elettrosmog (numero 36 del 22 febbraio 2001) non si applicano ai radar civili e militari. Scaviamo un pò. A Potenza Picena, nel 1956, lo Stato italiano impianta un sensore General Electric “Anf-Ps8”. Sei anni prima si era materializzato a Ferrara il primo radar (di fabbricazione canadese). L’antica Montesanto diventa “Bracco”: un anello della nascente catena difensiva che salda il vuoto tra la postazione ferrarese e quella di San Giovanni Teatino (CH). Nel 1962 la difesa aerea della penisola italiana viene integrata in quella Nato, entrando a far parte del Nadge (Nato Air Defence Ground Envinronment), l’ombrello statunitense che si protende dalla Norvegia alla Turchia. Il sistema “Argos 10” della Selenia, oggi Alenia-Marconi Systems (azienda Finmeccanica, ovvero dello Stato in joint-venture con la britannica Gec), viene configurato nel 1987. Quel radar aveva un’antenna che girava 5 volte al minuto, con l’emissione di un fascio elettromagnetico ottimizzato per la scoperta alle alte quote (fino a 70 mila piedi), anche se poteva intercettare bersagli mobili al di sotto dei 2 mila. Il circuito radar dell’Alleanza atlantica utilizza i segnali che arrivano da Potenza Picena, inseriti nel sistema di controllo dei due Roc (centri operativi di regione) di monte Venda e Martina Franca. Nel 1999 il sistema “Rat-3lSl” dà il cambio all’Argos 10. È un impianto che funziona automaticamente, i cui segnali arrivano al Cofa (Centro Operativo del comando della Forza Armata) in un bunker a Poggio Renatico (Ferrara). Il “Rat-3lSl” ha una portata di oltre 300 miglia nautiche (circa 600 chilometri), capace di intercettare oggetti volanti oltre 100 mila piedi (una trentina di chilometri). Qualche caratteristica? Distingue un piccolo deltaplano di plastica su Belgrado: se il pilota ha un bottone di metallo o un orologio al polso (o una carta di credito) è già scoperto. Densità di energia elettromagnetica? «Top secret» dichiara il ministero della Difesa. Il potentissimo radar di guida (attacco e difesa) — in contatto con satelliti, aerei-spia (U-2, Awacs) e bireattori Prowler — è in grado di concentrare gli impulsi intorno al bersaglio, ed intercettare le emissioni radar avversarie, disturbandole con contromisure elettroniche. Anche altrove i limiti di sicurezza sono accessori. Qualche esempio. A Marsala in provincia di Trapani il radar dell’Aeronautica dista 200 metri dalle abitazioni. A San Giovanni Teatino, in Abruzzo, una potente sorgente di radiazioni incon-
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trollate sbuca in mezzo alle case, illuminando le città di Pescara e Chieti. Su Monte Filau, lungo la costa sud occidentale della Sardegna nell’agro di Domus de Maria, lo Stato ha installato un radar tridimensionale nonostante il diniego della Regione; e a Cagliari l’impianto Tlc della Marina opera sul centro abitato alla stregua delle strutture gemelle di Sassari, Olmedo, Monte Limbara e Tavolara. Il 90 per cento dei radar dell’Aeronautica italiana dal 2002 sono diventati sensori remoti. Ufficialmente nell’ex “giardino d’Europa” i siti radar dell’Aeronautica sono 15, tutti collegati tra di loro. La base Imaz, in provincia di Taranto, è uno dei centri nevralgici delle rete di comando e controllo della Nato. Le sue antenne ascoltano, commutano e rilanciano tutte le informazioni che passano per le linee collegate con il comando dell’Alleanza atlantica nel Mediterraneo. Imaz coordina anche la difesa radar di Jacotenente (nel cuore del parco nazionale del Gargano), Licola (Napoli) e Siracusa, che svolgono compiti di avvistamento e guidacaccia nei cieli meridionali. L’ammiraglio in congedo Falco Accame punta il dito sulle antenne a stelle e strisce: «A Coltano in provincia di Pisa è installato un potente sistema di telecomunicazioni. A Verona c’è l’Air Operations Centre. A Vicenza operano la Setax Support European e un’unità di supporto chiamata Camp Ederle. Nei dintorni di Napoli, presso il lago Patria, a Giuliano, si trova una stazione di comunicazione Satcom, ed un’altra stazione di comunicazione si trova a Montevergine (Avellino). A San Vito dei Normanni c’era l’Electronics Security Groups, ovvero l’Echelon italiana». Quest’ultima base, alle porte di Brindisi, è stata prima abbandonata e poi data alle fiamme da ignoti. Le antenne statunitensi non risparmiano le nostre isole. «Nella stazione di Sigonella c’è la stazione aeronavale — prosegue Accame —, mentre a Niscemi è situata una stazione di comunicazione Navcom Telsta. A Lampedusa vi è un’installazione per la navigazione Loran. A Tempio Pausania vi è un impianto radar della Nato e a Decimomannu è operativo un poligono elettronico». Sempre in Sardegna, a Monte Arci (OR) e a Santulussurgiu (OR), risultano attive stazioni di telecomunicazioni di supporto al sistema Nato. Ignazio La Russa ce l’ha fatta prima di passare il testimone al nuovo ministro Giampaolo Di Paola, uno che di guerre se ne intende, non
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solo a parole. Lo aveva promesso il postfascista nel giugno 2008: «faremo di Sigonella una delle più grandi base d’intelligence del mondo». Dall’anno 2011 è certezza assoluta: la stazione aeronavale sotto diretto controllo dell’US Navy ospita il nuovo sistema AGS (Alliance Ground System) dell’Alleanza Atlantica per la sorveglianza della superficie terrestre e la raccolta e l’elaborazione d’informazioni strategiche. Il governo italiano ha sbaragliato un’agguerritissima concorrenza: a volere i sofisticati impianti di spionaggio c’erano Germania, Grecia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Turchia. Gli investimenti in infrastrutture per oltre un miliardo e 560 milioni di euro facevano gola a tutti. Gli Stati Uniti dovevano però ripagare in qualche modo l’incondizionata fedeltà dei governi d’Italia alle scelte più scellerate di questi ultimi anni (guerre in Afghanistan e Iraq, nuova base militare di Aviano, comandi AFRICOM a Napoli e Vicenza, stazione radar satellitare MUOS a Niscemi, interventi in Libano, Darfur, Somalia e adesso Gaza). Il Governo tricolore ha sborsato 150 milioni di euro. L’Alliance Ground System si divide in tre componenti: una stazione fissa terrestre dove opera il Centro di commando e controllo; una stazione terrestre che può essere facilmente trasportata su velivoli o navi in caso d’emergenza o conflitto; le “Software Grounds Stations” costituite da sofisticati sistemi computerizzati che permettono di ricevere, decodificare e trasmettere le informazioni raccolte. Le stazioni terrestri sono state tutte progettate per supportare le operazioni di dispiegamento in tempi rapidissimi, in qualsiasi scacchiere internazionale, di forze terrestri, velivoli aerei, navi, sottomarini, unità missilistiche. In base ai dettami dell’Alleanza Atlantica: «l’AGS è lo strumento chiave per rendere più incisiva la forza di risposta della NATO (NRF)». Più specificatamente: «La capacità alleata di sorveglianza terrestre AGS, è un elemento fondamentale per dare alle forze schierate i mezzi per colpire i loro bersagli con grande precisione, proteggendole contemporaneamente dagli attacchi», ha illustrato il relatore USA John Shimkus, alla Sottocommissione per la cooperazione transatlantica dell’Assemblea Parlamentare della NATO. «L’Alliance Ground System segna un grosso progresso tecnologico per quanto riguarda la cooperazione alleata in materia di difesa. Grazie ad esso, i comandanti disporranno di un’immagine completa, in tempo reale, delle attività sul campo
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di battaglia man mano che esse si evolvono. Ciò consentirà un’individuazione molto efficace degli obiettivi ed aumenterà la precisione dei tiri in ambienti complessi». L’elemento cardine del sistema è rappresentato da un tecnologico velivolo senza pilota equipaggiato con sistemi radar e sensori in grado di rilevare, seguire ed identificare con grande accuratezza e da grande distanza il movimento di qualsiasi veicolo sul terreno. Si tratta dell’Euro Hawks UAV, una variante specifica dell’RQ-4B Global Hawk acquisito da US Air Force e US Navy, che offre “maggiori benefici in termini di supporto logistico, manutenzione ed addestramento”. La brochure è un fenomeno: «Con un peso di 13 tonnellate, questo aereo senza pilota può volare a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre 20 mila metri; ed è in grado di monitorare un’area di 103,600 chilometri quadrati grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. Le immagini registrate vengono poi trasmesse via satellite ai comandi terrestri. L’autonomia del Global Hawk è di 36 ore con un solo pieno di carburante. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, ma da terra gli operatori possono cambiare le missioni in qualsiasi momento». Il mostro alato è stato costruitda Northrop Grumman ed EADS. I velivoli senza pilota della NATO stanziati a Sigonella sono sei, a cui si aggiungeranno i quattro RQ-4B che l’US Air Force ha dislocato in Sicilia.“L’AGS è uno dei più costosi programmi di acquisizione intrapresi dall’Alleanza”, dicono a Bruxelles. Per l’intero sistema di rilevazione la spesa ammonta a 4 miliardi di euro. A beneficiarne è stato un consorzio costruito ad hoc da imprese statunitensi ed europee: oltre a Northrop ed EADS ci sono pure General Dynamics, Thales e l’italiana Galileo Avionica, società del gruppo Finmeccanica. A suo tempo ha destato sorpresa il riferimento del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini, all’ «allestimento a Sigonella del sistema SIGINT» (acronimo di Signals Intelligence, nda). Infatti, ha dichiarato Camporini: «Abbiamo scelto questa base dopo un’attenta valutazione e per la sua centralità strategica nel Mediterraneo che le consentirà di concentrare in quella zona le forze d’intelligence italiane, della NATO e internazionali». Nella grande isola sono state centralizzate le attività di raccolta d’informazioni ed analisi di comunicazioni, segnali e strumentazioni straniere, trasformando la Sicilia in un’immensa centrale di spionaggio mondiale. Un “Grande Fratel-
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lo” – sotto l’egida USA e NATO –, ma non solo. I sistemi di Signals Intelligence hanno infatti una funzione determinante per scatenare il “first strike”, convenzionale o nucleare che sia. Sono lo strumento chiave di ogni “guerra preventiva”. Una delle articolazioni SIGINT è la cosiddetta ELINT (Electronic Intelligence), che si occupa in particolare d’individuare la posizione di radar, navi, strutture di comando e controllo, sistemi antiaerei e missilistici, con lo scopo di pianificarne la distruzione in caso di conflitto. Non è tutto. Nuovi impianti radar per potenziare la rete operativa dell’Aeronautica militare italiana ed integrarla maggiormente nella catena di comando, controllo, comunicazione ed intelligence dell’Alleanza atlantica. Dodici sistemi Fixed Air Defence Radar (FADR) RAT31-DL sono stati commissionati alla Selex Sistemi Integrati, società del gruppo Finmeccanica, e sono in via d’installazione in altrettanti siti dell’AMI sparsi in tutta Italia. Ad essi si aggiungeranno anche due sistemi configurati nella versione mobile DADR (Deployable Air Defence Radar) che saranno consegnati entro il 2013. «Si tratta di un progetto dall’alta valenza tecnica, importante per la sicurezza aerea nazionale e necessario per migliorare la nostra efficienza militare», ha spiegato il generale Mario Renzo Ottone, comandante del COA, il Comando Operazioni Aeree nazionali e del Combined Air Operations Center della NATO, di stanza a Poggio Renatico (Ferrara). «Il FADR costituisce la struttura portante del programma con cui l’Aeronautica militare ha avviato la sostituzione dei propri sistemi di sorveglianza aerea per rendere disponibili le frequenze necessarie all’introduzione della nuova tecnologia WiMAX (Worldwide Interoperability for Microwave Access) di accesso internet ad alta velocità in modalità wireless». Decisamente espliciti sulle finalità belliche del nuovo sistema radar i manager della società produttrice: «Il RAT31-DL è stato sviluppato per rispondere ai futuri bisogni della difesa, dove la superiorità delle informazioni e dei comandi giocherà un ruolo sempre maggiore», recita la brochure di Selex Sistemi Integrati. «Il sistema ha eccellenti capacità di scoprire e tracciare i segnali radio a bassa frequenza di aerei e missili, può supportare diverse funzioni come la difesa da missili anti-radiazione e da contromisure elettroniche. In Italia, il FADR consentirà di con-
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trollare anche la presenza dei missili balistici, comunicherà con gli altri punti di controllo nazionali e della NATO e apporterà grandi elementi di innovazione, tra cui un migliorato telecontrollo e telediagnosi, riducendo quindi la necessità di personale, con un occhio anche alla riduzione dei costi di gestione». Il primo impianto entrato in funzione è quello installato presso la 112^ Squadriglia Radar Remota di Mortara (Pavia). Gli altri undici radar RAT-31DL stanno per essere installati presso il centro meteorologico dell’Aeronautica di Borgo Sabotino (Latina), a Capo Mele - Savona (115^ Squadriglia Radar Remota), Crotone (132^ Squadriglia), Jacotenente - Foggia (131^ Squadriglia), Lame di Concordia - Venezia (13° Gruppo Radar GRAM), Lampedusa (134^ Squadriglia), Marsala (35° GRAM), Mezzogregorio – Siracusa (34° GRAM), Otranto (32° GRAM), Poggio Renatico (Comando Operazioni Aeree) e Potenza Picena – Massa Carrara (14° GRAM). Come per Mortara, alcune di queste stazioni radar erano state automatizzate negli ultimi tre lustri. Il Fixed Air Defence Radar (FADR) appartiene all’ultima generazione dei sistemi 3D a lungo raggio: ha una portata sino a 500 chilometri di distanza e 30 chilometri in altezza, una potenza media irradiante di 2,5 kW e una potenza dell’impulso irradiato di 84 kW. L’antenna opera in una frequenza compresa tra 1,2 e 1,4 GHz (L-band), all’interno dello spettro delle cosiddette “microonde”, le onde molto corte estremamente pericolose per l’uomo, la fauna e la flora. Il radar può essere controllato anche da centri posti a notevole distanza e la configurazione meccanica con cui è stato disegnato consente facilità di assemblaggio e smontaggio nei campi di battaglia. La progettazione e la costruzione delle torri radar e degli impianti ausiliari e l’installazione dei nuovi sistemi nelle dodici basi dell’Aeronautica è stata affidata alla Vitrociset S.p.A. di Roma, una delle maggiori aziende private operanti nel campo della sicurezza, oltretutto vincitrice della gara per il sistema multiradar ARTAS di Eurocontrol, l’agenzia europea per il controllo aereo. La Vitrociset è stata per anni legata al nome del suo fondatore, Camillo Crociani, uno dei protagonisti dello scandalo delle tangenti per l’acquisto negli anni ‘70 dei velivoli C130 prodotti dalla statunitense Lockheed. Il pacchetto azionario della società è ancora oggi interamente controllato dalla vedova Edoarda Vessel Crociani con una presenza più che simbolica della holding Finmec-
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canica (1,4 per cento). Presidente del consiglio di amministrazione è invece il generale Mario Arpino, capo di Stato Maggiore della difesa fino al 2001, direttore generale l’ammiraglio Lorenzo D’Onghia, amministratore delegato Antonio Bontempi, ex amministratore delegato di Alenia Marconi Systems poi Selex Sistemi Integrati. Insomma, dalla strage di Ustica in poi, il clan azzurro ha fatto furore. Si risveglia il perenne incubo Nato. Il Pentagono, in barba alle normative di salvaguardia ambientale, e grazie alla solita compiacenza dello Stato nostrano, ha ricoperto abusivamente gran parte dello Stivale; attualmente sta installando in un’area protetta a Niscemi, in Sicilia, previo disboscamento di una sughereta, il potente Muos satellitare. Un’azione illecita — vietata dalle leggi italiane — messa in atto nella provincia di Caltanissetta, nonostante il conclamato diniego dei cittadini e dell’amministrazione comunale. I cartelli, spuntati dal nulla, ora avvertono: “Warning U.S. Navy Installation” (Installazione militare della Marina statunitense). I sugheri secolari in contrada Ulmo (area naturalistica protetta sulla carta) stritolati dai bulldozer a stelle e strisce, cedono ora il passo ad una spianata di cemento, estesa per 2.059 metri quadrati, su cui sorgerà il M.U.O.S. (Mobile User Object System). Si tratta di una stazione terrestre (ne sono previste altre tre) dotata di antenne con un diametro di circa 20 metri ciascuna. Il loro scopo fondamentale è quello di ottenere il controllo totale di tutte le comunicazioni militari (navali, aeree e terrestri) nonché civili, da parte del Pentagono. Il “sistema oggetto Utente Mobile” è composto da 3 trasmettitori parabolici basculanti ad altissima frequenza e 2 antenne elicoidali UHF che sono collegate tra loro tramite un dispositivo satellitare. Inizialmente l’erezione del Muos era prevista in prossimità della base Militare USA di Sigonella, ma i potenti campi elettromagnetici, notevolmente al di sopra dei limiti di legge italiana, avrebbero interferito pesantemente su qualunque apparecchiatura elettronica, e soprattutto avrebbero facilmente detonato ordigni come bombe atomiche e convenzionali (depositate ai piedi dell’Etna), o missili a distanza di chilometri; è per questo che i militari Usa hanno preferito optare per la distruzione di una riserva naturale come la sughereta di Niscemi. All’origine, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, di origine sicula, non ha obiettato nulla:
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era impegnato con la guerra ad oltranza su vasti fronti. L’intervento delle forze armate d’oltre Atlantico non è stato sottoposto a valutazione d’impatto ambientale, ed è contro il parere comunale, oltre al fatto che calpesta la convenzione europea di Aarhus (ratificata dalla legge italiana numero 108 dell’anno 2001). Proprio dieci anni or sono decolla l’iter in base ad un accordo bilaterale tra gli Usa e l’Italia siglato dal governo Berlusconi e ratificato nel 2006 da Romano Prodi con una clausola: la Regione Sicilia doveva fornire il nulla osta. Con un decreto del 2007 la competenza per il rilascio della Valutazione di impatto ambientale è passata al Comune di Niscemi. «Il primo nulla osta è stato annullato, il secondo non è stato concesso», rivela il consigliere comunale Massimiliano Ficicchia. Sempre invisibili ed inascoltati: migliaia di cittadine e cittadini (anche dei paesi limitrofi) hanno sfilato nel cuore dell’isola chiedendo che i radar finissero altrove. Il governatore Raffaele Lombardo ha rassicurato gli animi dichiarando pubblicamente: «Se non mi fossi convinto della sicurezza del MUOS, che non è barattabile con nessuna compensazione, io non sarei qui assolutamente a parlarvi, perché non c’è né punto nascita in un ospedale, né Ponte sullo stretto che tenga, rispetto alla salute dei cittadini». Parole al vento: la Regione non si è opposta e gli Usa spianano a tutta birra. Il dispositivo di Niscemi sarà una delle quattro infrastrutture militari che assicureranno il funzionamento dell’ultima generazione della rete satellitare che collegherà tra loro i Centri di comando e controllo delle forze armate USA, i centri logistici e gli oltre 18 mila terminali militari radio esistenti, i gruppi operativi in combattimento, i missili Cruise e i velivoli senza pilota Global Hawk, buona parte dei quali destinati alla vicina base di Sigonella. Il sistema MUOS consentirà di propagare universalmente gli ordini di guerra, convenzionale e/o chimica, batteriologica e nucleare. Uno strumento di altissimo valore strategico, dunque, che si caratterizza per il suo violentissimo impatto ambientale. Sotto accusa ci sono infatti le pericolosissime onde elettromagnetiche che saranno emesse dalle tre grandi antenne circolari e dalle due torri radio del sistema satellitare che sorgerà all’interno della Riserva naturale “Sughereta di Niscemi”, Sito di Importanza Comunitaria (SIC). Un progetto dissennato fortemente osteggiato dai cittadini e dagli amministratori di tre province (Caltanissetta, Ragusa e Catania) e di decine di comuni
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del sud-est della Sicilia. I tecnici chiamati dal Comune di Niscemi ad analizzare lo studio per la valutazione d’incidenza ambientale presentata nel 2008 dalla Marina militare statunitense in vista dell’installazione del MUOS hanno evidenziato un impressionante numero di lacune ed omissioni del progetto, rilevando la scarsissima attenzione prestata dai militari statunitensi allo straordinario patrimonio ospitato in una delle più importanti riserve ecologiche siciliane. A questo megaprogetto militare il Pentagono ha destinato 43 milioni di dollari (13 per la predisposizione dell’area riservata alla stazione terrestre e 30 per gli shelter e le attrezzature tecnologiche del sistema satellitare). Il governatore Lombardo della Sicilia ha offerto contropartite e compensazioni per rendere più “digeribili” le microonde del MUOS: la possibile rimozione a medio termine delle 41 antenne già esistenti nella base dell’US Navy di Niscemi, utilizzate per le telecomunicazioni con i sottomarini nucleari. «Crediamo che sino ad oggi non sia stata data la giusta attenzione alle analogie esistenti tra il MUOS e il cosiddetto “HAARP - High Frequency Active Auroral Research Program”, il supersegreto Programma di Ricerca Attiva Aurorale con Alta Frequenza che dal 1994 l’US Air Force e la US Navy portano avanti dalla base di Gakona (Alaska), 200 chilometri a nord-est del Golfo del Principe Guglielmo», affermano i rappresentanti della campagna di protesta. In questa grande infrastruttura sono state installate centinaia di antenne che trasmettono in “banda bassa” (da 2,8 a 7 MegaHerz) e “banda alta” (da 7 fino 10 MegaHerz), cioè lo stesso range delle frequenze del MUOS. Secondo il Pentagono, lo scopo di questa installazione sarebbe quello di «studiare la ionosfera per migliorare le telecomunicazioni», ma sono numerosi gli scienziati che denunciano che con il programma HAARP gli Stati Uniti, al di fuori di ogni controllo internazionale, stanno creando nuove armi geofisiche integrali che possono influenzare gli elementi naturali con onde radio ad alta frequenza». Oltre ad interferire sulle comunicazioni radio, televisive e radar, le antenne HAARP possono influenzare i circuiti elettrodinamici delle aurore, consistenti in una corrente naturale di elettricità che varia da 100 mila ad 1 milione di megawatt. In questo modo è possibile utilizzare il vento solare per danneggiare i satelliti e le apparecchiature installate sui sistemi missilistici nemici. Secondo il fi-
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sico indipendente Corrado Penna, da anni impegnato nel denunciare il controverso fenomeno delle scie chimiche, «è forte il sospetto che il sistema di antenne del MUOS possa servire anche per fini non dichiarati di modificazione ambientale in sinergia con il sistema HAARP. La modificazione ambientale realizzata attraverso l’uso di forti campi elettromagnetici e scie chimiche è responsabile di alcuni disastri recenti. Sappiamo con certezza che queste tecnologie possono servire a causare terremoti o altri disastri naturali (siccità, uragani, inondazioni), sia indirizzando le emissioni sul nucleo della terra (influendo così sul magnetismo terrestre), sia indirizzandole sulla ionosfera». Violentano il pianeta Terra nell’indifferenza generale. Un’arma elettromagnetica a stelle e strisce - tecnologicamente obsoleta rispetto ai sistemi di dominio e morte già inventati - capace comunque di scuotere la crosta terrestre in punti vulnerabili ed alterare a piacimento il clima. «La guerra ambientale è già in atto. Il sistema per provocare terremoti e tsunami non è una novità per la ricerca militare» aveva avvertito 5 anni fa il generale Fabio Mini (Limes, novembre 2007). Infatti, la High Frequency Active Auroral Research Program è un’installazione militare in uso da tempo - munita di paravento civile – nordamericana, collocata in una base della United States Air Force. Naturalmente il segreto è ferreo sulle stragi indotte con sistemi apparentemente invisibili. L’esperimento italiano, dopo il successo ad Haiti e le performances asiatiche e mediorientali, è riuscito a meraviglia: chissà se gli yankees in divisa hanno brindato come allora. Top secret? Proviamo a sfondare il solito muro di gomma, perché altrimenti sarà la fine per il popolo italiano. Gli scettici storceranno il naso, ma l’evidenza è innegabile, ormai. Aldilà dei paraventi pseudo-scientifici, HAARP è un generatore di energia per scopi distruttivi. Il segreto è ben custodito: non lo troverete sui libri di scuola e neppure all’università (facoltà di geologia e fisica). Non è scritto in nessun testo accademico, eppure i manuali Usa di sperimentazione bellica sono espliciti da almeno tre decenni. Sanno causare terremoti da mezzo secolo e lo fanno sparando una colossale quantità di energia nella ionosfera. Il principio scientifico lo aveva intuito nel secolo scorso il genio di Nikola Tesla, ma non certo per sottomettere il genere umano. Avremmo potuto ottenere energia gratis per l’intera umanità, invece prevale l’ingordigia di pochi. Prin-
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cipalmente i militari a stelle e strisce, ma non solo, anche i russi non scherzano, sono passati dalla pura teoria alla pratica per fini di dominio globale. Regolando le possenti vibrazioni contro un bersaglio territoriale , le onde radio attraversano la crosta terrestre e causano terremoti. Energia a comando iniettata da 50 anni nelle tempeste tropicali per scatenare tsunami, alterando la pressione atmosferica. Ben tre continenti, Asia, America ed Africa ne sanno qualcosa, prima ancora che qualche commentatore da strapazzo italiota fosse nato, già sperimentavano nel Sudest asiatico. Il “gioco” è apparentemente semplice: basta spingere in alto la ionosfera ed attendere che ricada con conseguenze disastrose sulla zona che si vuole colpire. Alcuni disastri apparentemente naturali sembrano seguire e pilotare a dovere, ben precise dinamiche politiche. Ora c’è da convincere i governanti europei recalcitranti (sempre meno in realtà) a scatenare la terza guerra mondiale. Perché la prossima aggressione all’Iran, scatenerà un conflitto globale, come sanno gli analisti internazionali. Alle 4.04 del 20 maggio 2012 una fortissima scossa di terremoto ha sconvolto l’Emilia Romagna: il bilancio provvisorio è di cinque morti e almeno 50 feriti. Tre sussulti, il più forte di magnitudo 5.9. Tra le vittime operai schiacciati dal crollo di un tetto e due donne decedute per lo spavento. La scossa avvertita anche in Lombardia, Toscana, Veneto, Lombardia, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Un dettaglio significativo: la profondità registrata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia è di dieci chilometri. Singolare coincidenza: dagli Stati Uniti d’America viene corretto il grado del sisma che ha colpito questa notte l’Italia del Nord. Per gli esperti del servizio geologico degli americano, l’Usgs, si parla di magnitudo 6, e non 5.9. Per i rilevatori americani la scossa ha avuto ipocentro 5,1 chilometri di profondità, e non ai 10,1, comunicati in Italia. Incrociando i dati degli ultimi terremoti di Earthquakes e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia con quelli dell’attività HAARP a basse frequenze (onde Hertz 0-5 Hz) emerge una diretta correlazione con il sisma che ha colpito e piegato l’Emilia Romagna. Basta incrociare i grafici bellici e le registrazioni dei sismografi italiani. Dobbiamo però tenere presente che trattandosi di attività criminale coperta ai massimi livelli - e negata ostinatamente - c’è l’alta possibilità che questi diagrammi siano stati alleggeriti e non rispecchino l’esatta
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attività svolta. Si ricorda che tutti gli orari sono calcolati sul “tempo civile (UTC)”, vale a dire con uno scarto pari a circa 2 ore di differenza con l’ora italiana. Fate attenzione. Dunque: 19 Maggio 2012 ore 23:13 (UTC), Pianura Padana, Magnitudo 4.1. Si può notare come l’attività a frequenza 0-2 Hz sia piuttosto intensa. Onde così basse hanno un’alta capacità di far vibrare rocce e terreni sabbiosi ma non solo, queste vibrazioni scuotono le particelle dell’acqua portandole a un potente surriscaldamento improvviso. Dalla scossa delle 23 e 13 (UTC) è stato un susseguirsi di micro sismi uno dietro l’altro, nel lasso di tempo che va dalle 2.03am (UTC) fino al terremoto più forte delle 3.02am (UTC) di magnitudo 4.9. Durante tutto il giorno di domenica 20 maggio l’attività HAARP è stata intensa e le scosse telluriche in Pianura Padana si sono susseguite senza tregua. Da notare, in particolare, la fascia orari che va dalle 12 alle 16 (UTC). Poco dopo le 12 (UTC) si nota un picco di intensità in correlazione con 2 forti sismi (2012/05/20 13:21:06 44.882 11.383 2.4 Ml:4.1 Pianura_padana_emiliana; 2012/05/20 13:18:02 44.831 11.49 4.7 Ml:5.1 Pianura_padana_emiliana). Per poi ripetersi ai seguenti orari: 2012/05/20 17:40:17 44.95 11.25 10 Ml:3.5 Pianura_padana_lombarda 2012/05/20 17:37:14 44.88 11.38 3.2 Ml:4.5 Pianura_padana_emiliana. Una gola profonda che invoca l’anonimato, poiché teme ritorsioni vitali, spiega senza mezzi termini: “Lo ionogramma, ovvero un diagramma tempo/frequenza della riflessione ionosferica, mostra un marcato livello F con una ionizzazione di picco. Vi è anche un meno ovvio livello E. Il diagramma mostra come il segnale di sonda digitale si divide in onde riflesse ordinarie (in rosso) e straordinarie (in verde). Lo ionogramma ed il parametro FoF2 nel diagramma mostrano la più alta frequenza che è stata riflessa dalla ionosfera con incidenza verticale (onda radio perpendicolare al terreno)”. Terremoti con epicentri superficiali, come in questo caso italiano (10 chilometri di profondità come ha registrato l’INGV) e sismogrammi che evidenziano un’ unica grande oscillazione sono ritenuti dagli scienziati, senza alcun dubbio, essere terremoti artificiali generati dalla concentrazione di onde HAARP in determinati punti sensibili del globo terrestre. Rivela lo stimato generale Fabio Mini: «Non ho prove che ci sia stato un esperimento nucleare o convenzionale capace di provocare un determinato terremoto, ma sono abbastanza pessimista per non pen-
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sarlo. In 45 anni di carriera militare in giro per il mondo, ne ho viste di tutti i colori». Un geologo di chiara fama, A.V., conferma: “Generalmente i terremoti hanno epicentri molto più in profondità, nelle viscere della terra e soprattutto presentano sciami sismici, cioè a dire prima e dopo della vibrazione massima presentano oscillazione più piccole, definite di attenuazione”. Da tempo gli Usa hanno scatenato una guerra ambientale non dichiarata ufficialmente, contro l’Italia; ora l’escalation è sempre più evidente. Meno male che notoriamente la Pianura Padana è classificata zona a rischio sismico quasi nullo. Il bilancio provvisorio dell’ultimo esperimento bellico nello Stivale è agghiacciante, se gli aggettivi hanno ancora senso: 7 morti, 53 feriti e circa 6 mila sfollati. Non è tutto. Particolare non trascurabile: «Il sisma ha mietuto un’ecatombe di rondini e rondoni. Una intera generazione biologica è sparita - dichiara Piero Milanin, responsabile del centro di recupero della fauna selvatica Il Pettirosso di Modena Sono venuti giù i palazzi dei centri storici, chiese e torri, i merli dei castelli. Tutti punti privilegiati dalle rondini e dai rondoni per nidificare. Per giunta è successo in un periodo dove le uova vengono deposte o sono appena nati i piccoli. Come è accaduto alle persone, il terremoto ha sorpreso gli uccelli mentre dormivano. Sono rimasti tutti lì sotto». Anche l’economia di una regione locomotiva è in ginocchio: 5 mila posti di lavoro a rischio. I due segretari delle Camere del Lavoro di Modena e Ferrara hanno fatto i conti. Per Giuliano Guietti «nel ferrarese ci sono 700-1000 lavoratori le cui aziende questa mattina non erano in condizione di far ripartire le attività produttive». Per Donato Pivanti, invece, «3-4.000 i dipendenti del modenese. Il conto si riferisce solo alla industria, e non tiene conto di terziario e agricoltura». E poi, c’è da considerare la distruzione di numerose abitazioni ed edifici pubblici e di culto, molti dei quali autentici gioielli del patrimonio artistico italiano. A chi giova? Calma. Monti Mario - già al soldo di potentati internazionali, ha dichiarato lo Stato di emergenza ed ha lanciato un appello all’unità nazionale per essere vicini “a chi soffre”. E’ stata questa la prima reazione del Presidente del Consiglio (abusivo), alla notizia del sisma che lo ha raggiunto a Chicago, poche ore prima dell’apertura del vertice Nato. Il premier si è detto “molto preoccupato” e, anche alla luce dell’attentato di Brindisi, ha deciso di anticipare la partenza dagli Usa. Grazie, Primo Mi-
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nistro, pro tempore. In effetti noi non siamo mai stati uniti così tanto come adesso. Da notare il “a chi soffre” scritto tra virgolette. Ovviamente, la fregatura è pregressa: i danni provocati dal sisma d’ora in poi sono a carico dell’ignara popolazione. Il governo dei tecnocrati taglia le pensioni ai disabili che hanno casa e se la prende perfino con i più deboli: i vecchi, i poveracci; hanno stangato anche i ciechi, pardon non vedenti che, appunto non si accorti ancora di nulla. Non dimentichiamo che a L’Aquila la ricostruzione lampo propagandata dal piduista di Arcore (tessera 1816) in trattativa con le mafie, è inspiegabilmente al palo. Una torta di 2 miliardi di euro nel cassetto con il corollario della sorellina di Gianni Letta, già presidente della Croce Rossa abruzzese, a dettare “legge”, si fa per dire. In altri termini, al peggio non c’è mai fine, in termine di corruzione e clientelismo, neanche di fronte al dolore umano. Ma torniamo alla scienza ed ai connubi con la politica. Secondo Michael Chossudovsky, docente all’Università di Ottawa, «Il sistema H.A.A.R.P. è un potente mezzo per la modificazione delle condizioni atmosferiche e del clima». La letteratura scientifica parla chiaro: “Le antenne di H.A.A.R.P. bombardano e riscaldano la ionosfera, generando frequenze elettromagnetiche che rimbalzano sulla terra, penetrando ogni essere vivente ed ogni oggetto inorganico”. E ancora: “H.A.A.R.P. genera forti impulsi nella banda Ulf ed Elf”. Dodici anni fa, alcuni ricercatori indipendenti (tra cui Robert Fitrakis) verificarono che “le trasmissioni a 14 hertz, rilevando che quando i segnali erano emessi ad elevata potenza, la velocità del vento raggiungeva le 70 miglia orarie, spostando i fronti temporaleschi”. In particolare le frequenze H.A.A.R.P. irradiate su specifici bersagli possono causare terremoti catastrofici, esattamente come il sisma che nel dicembre 2003 uccise migliaia di persone in Iran. In una Relazione di iniziativa della Commissione per gli affari esteri, la sicurezza e la politica di difesa del Parlamento europeo il 23 settembre 1998 e contenente una proposta di risoluzione (mai effettivamente adottata dal Parlamento) viene affermato che «malgrado le convenzioni esistenti, la ricerca militare si applica attualmente alla manipolazione dell’ambiente come arma, come è il caso ad esempio del sistema HAARP». Nella medesima relazione la suddetta Commissione «reputa che il sistema HAARP sia da considerarsi, a causa del notevole impatto sull’ambiente, una questione
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mondiale ed esige che le sue conseguenze giuridiche, ecologiche ed etiche vengano analizzate da un organismo internazionale indipendente prima di ogni nuova ricerca e di qualsiasi esperimento» e «chiede al gruppo di esperti per la valutazione delle opzioni scientifiche e tecnologiche (STOA) di accettare di esaminare le prove scientifiche e tecniche fornite in base ai risultati esistenti della ricerca sull’HAARP onde valutare la natura esatta e il livello di rischio posto dall’HAARP per l’ambiente locale e globale e la salute pubblica in generale». In tale atto si «considera il sistema militare USA di manipolazione ionosferica, HAARP, con base in Alaska - che è solo una parte dello sviluppo e dell’impiego di armi elettromagnetiche ai fini della sicurezza sia interna che esterna - un esempio della più grave minaccia militare emergente per l’ambiente globale e la salute umana, dato che esso cerca di manipolare a scopi militari la sezione della biosfera altamente sensibile ed energetica, mentre tutte le sue conseguenze non sono chiare; invita inoltre la Commissione, il Consiglio e gli Stati membri ad esercitare pressioni sugli Stati Uniti, della Russia e di qualsiasi altro Stato impegnati in tali attività affinché vi pongano fine e si giunga ad una convenzione globale contro questo tipo di armi. Chiede in particolare una convenzione internazionale per una messa al bando globale di tutte le ricerche e di tutti gli sviluppi, sia militari sia civili, volti ad applicare le conoscenze del funzionamento del cervello umano nel settore chimico, elettrico delle vibrazioni sonore o altro allo sviluppo di armi che possono consentire qualsiasi manipolazione degli esseri umani, ivi compreso un divieto di qualsiasi impiego reale o possibile di tali sistemi». La guerra ambientale è attualmente intesa negli ambienti militari come «l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale, come il clima, i fenomeni metereologici, gli equilibri dell’atmosfera, della ionosfera, della magnetosfera, le piattaforme tettoniche, allo scopo di causare distruzioni fisiche, economiche e psico-sociali nei riguardi di un determinato obiettivo geofisico o una particolare popolazione». Parola del generale italiano Mini già espressa nel documento “Owning the Weather in 2025”: «La strategia della negazione e il cinismo adottati per la guerra ambientale consentono d’impiegare armi e tecnologie sofisticate o brutali senza che ciò faccia scalpore. Consentono di camuffare azioni di guerra camuffandole e perfino di distruzione di massa
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camuffandole per ricerche scientifiche». In una relazione di iniziativa adottata dalla Commissione europea per gli affari esteri, la sicurezza e la politica di difesa del Parlamento europeo il 23 settembre 1998 - contenente una proposta di risoluzione (mai effettivamente adottata dal Parlamento) - viene affermato che «malgrado le convenzioni esistenti, la ricerca militare si applica attualmente alla manipolazione dell’ambiente come arma, come è il caso ad esempio del sistema HAARP». Nella medesima relazione la suddetta Commissione «reputa che il sistema HAARP (High Frequency Active Auroral Research Project) sia da considerarsi, a causa del notevole impatto sull’ambiente, una questione mondiale ed esige che le sue conseguenze giuridiche, ecologiche ed etiche vengano analizzate da un organismo internazionale indipendente prima di ogni nuova ricerca e di qualsiasi esperimento» e «chiede al gruppo di esperti per la valutazione delle opzioni scientifiche e tecnologiche (STOA) di accettare di esaminare le prove scientifiche e tecniche fornite in base ai risultati esistenti della ricerca sull’HAARP onde valutare la natura esatta e il livello di rischio posto dall’HAARP per l’ambiente locale e globale e la salute pubblica in generale». Un consiglio di lettura: Guerra senza limiti. Il documentato libro è stato scritto da due colonnelli dell’aeronautica Cinese, Qiao Liang e Wang Xiansui. Nel testo si legge: «Utilizzando metodi che provocano terremoti e modificando le precipitazioni piovose, la temperatura e la composizione atmosferica, il livello del mare e le caratteristiche della luce solare, si danneggia l’ambiente fisico della terra o si crea un’ecologia locale alternativa. Forse, presto, un effetto El Nino creato dall’uomo diverrà una super-arma nelle mani di alcune nazioni e/o organizzazioni non-statali». I padroni Usa possiedono armi ambientali capaci di creare terremoti, tsunami, distruzione dell’equilibrio ecologico di un vasto territorio, modificazioni delle condizioni atmosferiche nubi, precipitazioni, cicloni e uragani - modificazioni delle condizioni climatiche, delle correnti oceaniche, dello strato di ozono o della ionosfera. Da anni stanno sperimentando in gran segreto nel nostro Paese, come sa chi detiene il potere nella Penisola. Secondo gli esperti “creare un sisma o uno tsunami è tecnicamente possibile. Sono cose vere, scientifiche, provate. Esistono linee di frattura e faglie as-
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sai evidenti e note sulla superficie terrestre. Ci sono mappe precise che rivelano i punti deboli e vulnerabili, sui quali è un giochino da ragazzi poter intervenire”. Ecco una dichiarazione di William Cohen, ex segretario di Stato per la Difesa USA, del 28 aprile 1997:«Others [terrorists] are engaging even in an eco-type of terrorism whereby they can alter the climate, set off earthquakes, volcanoes remotely through the use of electromagnetic waves. So there are plenty of ingenious minds out there that are at work finding ways in which they can wreak terror upon other nations.It’s real, and that’s the reason why we have to intensify our[counterterrorism] efforts. Secretary of Defense William Cohen at an April 1997 counterterrorism conference sponsored by former Senator Sam Nunn. Quoted from DoD News Briefing, Secretary of Defense William S. Cohen, Q&A at the Conference on Terrorism, Weapons of Mass Destruction, and U.S. Strategy, University of Georgia, Athens, Apr. 28, 1997». Traduzione politica: Altri terroristi sono impegnati in un tipo di azione “ecologica”, nel senso che essi possono alterare il clima, far scatenare i terremoti, le eruzioni vulcaniche, utilizzando onde elettromagnetiche. Molte menti ingegnose stanno lavorando attualmente per mettere a punto i mezzi per terrorizzare intere nazioni. Tutto questo è reale ed è per questo che abbiamo intensificato i nostri sforzi nella lotta contro i terroristi. Segretario della Difesa William Cohen, aprile 1997. Conferenza dedicata al contro-terrorismo organizzato dal senatore Sam Nunn. Dichiarazioni segnalate al Dipartimento della Difesa (DoD). Conferenza contro il terrorismo. Armi di distruzione di massa e la strategia degli Stati Uniti. Università della Georgia, Atene, 28 aprile 1997. In altri termini, si ammette: Noi sappiamo che questo è possibile perché da tantissimi anni noi (americani) abbiamo tali armi. Una simile tecnologia ha dei costi accessibili, al contrario della tecnologia nucleare. I terremoti e le eruzioni vulcaniche artificiali non sono impossibili, infatti una minima causa, ben localizzata, può generare un cataclisma. I terremoti sono legati al movimento delle placche, lungo le faglie. Esiste una tecnica che permette di agire sugli strati profondi del sottosuolo con delle onde elettromagnetiche. Un altro esempio: Indonesia, 26 dicembre 2004. Migliaia di chilometri di coste sono state spazzate via a causa di un maremoto spaventoso. Un fenomeno simile potrebbe essere di origine umana, per camuffa-
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re un test di un’arma nei fondali marini, in una regione in cui gli effetti sismici possano essere confusi con dei fenomeni naturali? Condoleeza Rice al Senato Americano il 18 gennaio 2005: «Lo tsunami è stato una meravigliosa occasione (wonderful opportunity) di mostrare il cuore del popolo americano. E io penso che gli utili sono stati molto importanti sul fronte diplomatico». Il luogo era ideale per la presenza di una fossa oceanica che protegge le coste e la base americana di Diego Garcia (si sa che più il fondo marino risale velocemente, più il tsunami è devastante) e anche l’ora giusta per far si che ben due satelliti USA passavano lì per caso, per constatare gli effetti di questa arma sismica. E’ una nuova forma di guerra discreta (silent war), dove indebolire un avversario può semplicemente consistere nel fabbricare dei “fenomeni naturali” sul suo territorio. Non escludendo di proporre, in seguito, un aiuto umanitario. La scienziata Elisabeth Rauscher, esperta in Fisica delle alte energie, avverte che si stanno artificialmente irradiando «energie spaventose all’interno di una configurazione molecolare estremamente delicata» qual è la ionosfera, una sorta di bolla di sapone che si muove a mulinello intorno alla superficie terrestre. Un foro sufficientemente grande potrebbe farla scoppiare. La dottoressa Rosalie Bertell denuncia che «gli scienziati militari statunitensi si stanno occupando dei sistemi meteorologici come potenziale arma. Le metodologie comprendono l’aumento delle tempeste e la deviazione delle correnti di vapore dell’atmosfera terrestre allo scopo di causare siccità o inondazioni mirate…». Anche il fisico Daniel Winter puntualizza che le emissioni ad alta frequenza potrebbero unirsi con le pulsazioni ad onde lunghe presenti nella griglia terrestre (la magnetosfera n.d.a.) e causare effetti non previsti e collaterali alla “danza della vita nella biosfera”. Le emissioni in Gigawatt (miliardi di W) del Centro H.A.A.R.P. incideranno un lungo taglio sulla ionosfera come un coltello a microonde. H.A.A.R.P. potrebbe far vibrare ogni corda armonica di Gaia con frequenze discordanti. Questi rumorosi impulsi scombussoleranno le linee di flusso geomagnetico, distruggendo le bio-informazioni che mettono in risonanza le corde della vita, predisponendo ogni cosa alla malattia ed alla morte. Due dei maggiori oppositori al sistema globale di distruzione di massa H.A.A.R.P., gli scienziati indipendenti Begich e Manning, autori del libro Angels don’t play this H.A.A.R.P.
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Advances in Tesla Technologies, avvertono che addizionare energia al substrato ambientale potrebbe avere effetti molto vasti, indefinibili ed incontrollabili». Già il consigliere della sicurezza nazionale del presidente Carter, Brzezinski, metteva sull’avviso che una società, dominata da un gruppo elitario e non ostacolato dalle restrizioni tradizionali dei valori liberali, non esiterebbe ad usare le tecniche più moderne per influenzare il comportamento pubblico e tenere la società sotto stretta sorveglianza e controllo. È del resto un fatto ormai assodato che la U. S. Air Force punti sui sistemi elettromagnetici (E.M.) e sulle armi vibrazionali per produrre scompiglio psicologico, distorsione percettiva o disorientamento, per annullare da una parte le capacità di combattimento del nemico e dall’altra accrescere le potenzialità paranormali di altri. Come conferma il geofisico Gordon Macdonald, bombardamenti elettronici prodotti artificialmente produrrebbero pannelli o vortici magnetici in determinate zone terrestri che potrebbero danneggiare seriamente le funzioni cerebrali d’intere popolazioni. Tra le ripercussioni fisiche ricordiamo le seguenti: dolori articolari, mal di testa, vertigini, bruciore agli occhi, nausea, affaticamento, difficoltà respiratorie, allergie, asma, disordini circolatori e cardiaci (infarti che aumentano di circa il 50 per cento), caduta della capacità reattiva, embolie polmonari e trombosi... A livello psicologico, le onde H.A.A.R.P. provocano squilibrio emozionale, irritazione, avversione alla vita, al lavoro ed alla scuola, insicurezza, ansia e depressione (specialmente tra i 40-50 anni), tendenza al suicidio (aumentata del 20 per cento negli ultimi tempi, un milione di morti all’anno specialmente tra i giovani), tossicodipendenza ed omicidi. Il sistema ha la capacità in connessione con lo Spacelab, di produrre energie elevatissime, paragonabili alla bomba atomica e può provocare distruzioni epocali e di massa in qualsiasi parte della Terra. Naturalmente il programma può modificare l’ambiente vibrazionale naturale e scatenare inondazioni, uragani e terremoti di qualsiasi entità. Eppure esso sarà “venduto e spacciato” al pubblico come un’arma di difesa, ossia lo “Scudo stellare” o addirittura di studio sull’Aurora Boreale. Il piano antimissile e di laser orbitali “Joint Vision 2020” è estremamente pericoloso: il suo fine è il dominio degli U.S.A. su tutto il mondo. Sono state osservate delle correlazioni tra l’attività sismica e la ionosfera di HAARP. I terremoti in cui la pro-
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fondità è linearmente identica nella stessa faglia, sono provocati da una proiezione lineare di frequenze indotte. Dei satelliti coordinati fra loro consentono di generare delle proiezioni, concentrate, di frequenze in punti specifici (detti Seahorse). Un diagramma mostra che i terremoti considerati artificiali si propagano linearmente alla stessa profondità. Anche le repliche sono state osservate a circa 10 chilometri di profondità. Ed è proprio il caso del sisma che ha colpito l’Italia, come ha registrato l’INGV. In sintesi, cosa fa l’H.A.A.R.P.? Ecco due rivelazioni di esperti Usa, messe a confronto. “Il progetto High-Frequency Active Auroral Research Program non è altro che un’antenna che ci consente di direzionare l’energia ad alta frequenza verso le zone più alte dell’atmosfera, così produciamo in scala ciò che fa normalmente il sole. Il compito di gestire il programma è stato affidato alla Marina e all’Aviazione militare. Inizialmente, le applicazioni comprendevano la distruzione di missili sovietici, il controllo delle comunicazioni del nemico e il loro disturbo. Nel programma, agli albori, era già inclusa la possibilità di modificare il clima, sollevando la porzione dell’alta atmosfera verso lo spazio in maniera, appunto, da deviare i missili balistici intercontinentali dell’Urss. Certo: Haarp può creare degli effetti molto simili a quelli che il sole crea durante le aurore boreali”. Per la cronaca, due indizi rilevanti, a parte la profondità del sisma a 10 chilometri, registrata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: il 20 maggio scorso è stata registrata una caduta di energia nei cieli dell’Emilia Romagna. Sono stati inoltre avvistati dei bagliori che non hanno alcun nesso naturale. La Pianura padana non è ai Poli del pianeta Terra. Oppure c’è stata sotto il naso un’inversione di cui non ci siamo accorti? A parte l’ironia: tutti geni e scienziati (improvvisati) mentre tutti gli altri, i cosiddetti visionari e complottisti devono tacere? Ma state scherzando? Qui è in gioco l’esistenza ed il futuro. Il 25 gennaio c’è stato un precedente terremoto in Emilia Romagna nonché Veneto, una sorta di prova generale che ha avuto un secondo test il 13 aprile in Sicilia. Fateci caso: in Italia cambiano i politicanti sulla scena, ma non mutano i poteri occulti. Sarà una combinazione fortuita? Davvero singolare. L’illuminato premier Monti è stato convocato dai padroni della Nato in coincidenza del sisma? O sbaglio? Per caso la terza guerra mondiale è già iniziata, a nostra insaputa? Vi bastano questi preavvi-
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si o siete totalmente lobotomizzati? La tv ed internet vi hanno dato alla testa? Un consiglio di lettura risalente al 19 marzo 1997: “Advanced Weapon Instrumentation Technologies”. Haarp: dalla simulazione alla realtà. Buon risveglio e non abusate a negare l’evidenza delle scie tumorali. Questa folle macchina di morte planetaria va fermata, questi criminali armati di tutto punto vanno arrestati definitivamente; hanno già mietuto troppe vittime. Non dimenticate: gli yankees sono in possesso di tecnologie incredibili e pur di non rinunciare al loro malsano stile di vita, sono disposti a tutto. “E dopo l’Emilia Romagna, ora toccherà sicuramente ad una regione del Sud” avverte un esperto del Consiglio nazionale delle Ricerche. Prepariamoci al peggio. Nello Stivale, mentre le antenne militari (ma non solo) si moltiplicano, i controlli scarseggiano. Lo Stato non rispetta la legge. La scienza, compulsata a dovere, non ha dubbi, nonostante la distorta vulgata generale, esiste una letteratura ponderosa. Le evidenze esistono, eccome. Addirittura nel 1978, uno studioso italiano, Franco Sarto, avvia un’indagine sul campo. E nel 1981, pubblica sulla rivista di Medicina del Lavoro una prima conclusione sui danni provocati dai radar militari. L’anno successivo, per conto dell’Istituto di Medicina del lavoro dell’Università di Padova, Sarto — coadiuvato dalle colleghe Rita Scarpinelli ed Isabella Cominato — dà alle stampe, sempre sulle pagine del Giornale Italiano di Medicina del Lavoro, lo studio Aberrazioni cromosomiche nel lavoratori dei radar. In sintesi, le conclusioni: «I lavoratori delle postazioni radar vanno incontro a numerosi rischi: radiazioni non ionizzanti, radiazioni ionizzanti per cui vengono discusse le modalità con cui esse si possono produrre. Abbiamo eseguito un check-up generale e lo studio delle aberrazioni cromosomiche sui linfociti periferici ad un gruppo di 41 radaristi, di età media 35 anni, operanti in alcune basi dell’Esercito italiano. Quest’ultimo esame è considerato il più sensibile indicatore di danno biologico indotto dalle radiazioni ionizzanti mentre non è ancora stabilito se le radiazioni non ionizzanti siano in grado di provocare aberrazioni cromosomiche. Le aberrazioni di tipo cromosomico negli esposti erano aumentate in maniera altamente significativa rispetto a quelle riscontrate in un gruppo di controllo di 26 soggetti maschi di età simile (…) Allo stato attuale delle nostre
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conoscenze sembra che il principale responsabile dell’aumento di aberrazioni cromosomiche nel gruppo dei radaristi sia la presenza di radiazioni ionizzanti anche se non è possibile escludere un sinergismo tra tutti i tipi di radiazioni elettromagnetiche presenti nell’ambiente di lavoro (…)». Il dottor Sarto ha documentato rotture dei cromosomi (anticamera del cancro) con una frequenza superiore alla norma su 41 sottufficiali preposti alla manutenzione di potenti radar contraerei Hawk nelle basi militari tra Mestre e Rovigo. 10 anni dopo, nello stesso gruppo di radaristi ci sono stati 6 morti per leucemia e mieloma. Le autorità militari hanno impedito al dottor Sarto di proseguire l’indagine scientifica: le sue ricerche hanno inequivocabilmente documentato che l’elettrosmog bellico scompagina il dna umano. Tradotto: malformazioni genetiche e tumori assicurati per sempre. A metà degli anni ’80 si scopre che nei radar Hawke, all’epoca tra i più diffusi nel sistema di difesa dei Paesi Nato, c’è qualcosa che causa tumori. Ufficialmente non si sa cosa. Ma il rischio è concreto: tanto reale che tra i sottufficiali addetti alla manutenzione dei radar del secondo gruppo artiglieria missili contraerei, con postazioni fra Mestre e Rovigo, si notano i primi morti. Su circa 150 uomini che dal 1968 all’88 si sono succeduti alla manutenzione delle apparecchiature radar, infatti, si sono verificati sei casi di leucemia, linfoma e mieloma, due di sterilità e ben 27 di anomalie cromosomiche. Almeno quattro valvole usate in questi radar rientrano fra quelle che già nel 1968 un decreto del presidente della repubblica (numero 1428) classifica a rischio per l’emissione di radiazioni, con l’obbligo di misure di radioprotezione individuale e ambientale. Gli addetti lavorano senza manuali informativi sui livelli di pericolosità di radiazioni, microonde e isotopi radioattivi. Gli addetti militari italiani non sono mai stati dotati di dosimetri per verificare la quantità di radiazioni cui sono sottoposti. Il dottor Sarto, che all’epoca era il responsabile del laboratorio di Citogenesi dell’università di Padova, dopo aver rivelato i danni biologici elevatissimi non poté completare l’indagine. «A causa del segreto militare non sono disponibili dati relativi all’ambiente di lavoro. Lo studio ha dimostrato che il gruppo esposto presentava un netto aumento della prevalenza delle aberrazioni cromosomiche
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significative per lesioni da radiazioni — dichiara Sarto —. In base a studi internazionali questi dati significano che il gruppo presentava un aumentato rischio di tumore». E le alte gerarchie della Difesa lo sapevano. «Alla fine del 1981 — rivela Sarto — venne a trovarmi un capitano medico. Gli spiegai cosa significavano quei risultati. Mi fece capire che l’alta gerarchia militare non era entusiasta delle mie ricerche e che i miei esami creavano ansietà nei tecnici». Nel 1979, in quel clima di segretezza, tre marescialli che lavoravano da dieci anni ai radar (due con anomalie cromosomiche e uno con la leucemia) fecero causa al ministero della Difesa, davanti al tribunale di Venezia. Dalle deposizioni emerse che lavoravano senza schermi protettivi e senza controlli medici preventivi. Come avviene tuttora. Ancora una volta fu imposto il segreto militare. E i tre sottufficiali persero la causa. In Germania 69 soldati addetti ai radar militari si sono ammalati di cancro. Nel 2001, il ministro della Difesa Rudolph Scharping ha ammesso: «24 militari che hanno lavorato sui radar sono morti tra il 1976 e il 1996». I risultati di uno studio presentato dalla televisione pubblica Zdf confermano: «Le patologie tumorali sono state provocate dalle onde elettromagnetiche». Secondo la ricerca dell’Università di Witten-Herdeck citata nel programma “Laenderspiegel” di Zdf, «99 soldati, tecnici e operatori radar hanno gravi problemi di salute». I 69 casi rintracciati sono solo un campione: il numero di militari esposti alle radiazioni non ionizzanti si aggira, secondo una stima per difetto, intorno alle 900 unità. L’età media dei soldati deceduti per leucemia, tumori cerebrali, cancro ai nodi linfatici, carcinomi polmonari, è di 40 anni. Già alla fine degli anni ’50 la Bundeswehr era al corrente dei rischi ma non ha mai preso alcuna misura di precauzione. Ancora negli anni ’90 i valori massimi sono stati superati nel sistema difesa Patriot. «Con sicurezza — si legge nella relazione sanitaria — si può affermare che le soglie di tolleranza massima sono state ampiamente superate. I soldati non sono stati né informati né protetti». Secondo la Zdf «l’indagine era già da due anni in possesso delle autorità militari che però l’avevano tenuta sotto chiave». Gli ex militari danneggiati hanno sporto denuncia. Il primo è l’ex sottufficiale radarista Peter Rasch, che si ammalò negli anni ’60. Rasch ha esibito in tribunale documenti inequivocabili: già nel 1958 il suo po-
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sto di lavoro era a rischio. Le autorità sanitarie, infatti, raccomandavano allo Stato maggiore di «porre protezioni di piombo intorno alle apparecchiature». Ancora nel 2000 una misurazione aveva rivelato valori 15 volte superiori ai livelli di guardia. E in Italia dove operano apparati e congegni simili, vige il silenzio assoluto. L’unico caso noto è quello di Carmine D’Ambrosio, addetto radar all’isola di Tavolara (Sardegna), ammalatosi di leucemia. In Europa si registrano attualmente valori di campo elettromagnetico da «un milione a un miliardo di volte più alti che nel 1950», documenta l’Organizzazione mondiale della sanità. «Colpisce il silenzio attorno a questo tema e la mancanza di una normativa europea ed italiana che preservi la salute dell’essere umano e protegga l’ambiente — denuncia Greenpeace — fornendo limiti di esposizione e distanze di rispetto da queste fonti di inquinamento». Ed ecco le radiazioni eterne. L’uranio sporco è fra noi. «Per molti anni è stato usato uranio impoverito su aerei ed elicotteri». L’attestazione della Federal Aviation Administration (l’ente americano per la sicurezza del volo) risale al dicembre del 1984 e raccomanda le precauzioni da seguire in caso di incidente. «A parte il Douglas DC-10 e KC-10, molti altri aerei commerciali usano uranio come contrappeso nelle superfici di controllo. Pesi dello stesso tipo sono usati sui Boeing 747, sui Lockheed L-1011, sui C-141, sui C-130 e sui modelli C-5A»: questa dichiarazione ufficiale è contenuta in una lettera che la Mc Donnell Douglas inviò a tutti gli acquirenti del DC-10 nel 1983. «Un’altra area di applicazione in aeronautica dell’uranio è come contrappeso delle pale nei rotori di elicotteri...». Ma quali? L’Agusta della Finmeccanica costruisce l’elicottero Bell 412 A, su licenza della Bell americana: le sue pale contengono 13 chili di U-238. «Diversi aeromobili commerciali, attualmente in linea di volo, contengono nella loro struttura svariate centinaia di chilogrammi di Uranio-238 noto come “Uranio impoverito”» aveva denunciato Medicina Democratica. Il movimento di lotta per la salute si era rivolto nel 2000 alla magistratura italiana, ma senza riscontro, chiedendo di verificare l’esistenza di pericoli per la salute e l’ambiente. Dalla documentazione di alcune case produttrici si evince che l’Uranio 238 è stato impiegato sui seguenti aeromobili: «BOEING 747, MC DONNELL DOUGLAS DC 10,
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LOCKHEED L1011, HERCULES C130, MC DONNELL DOUGLAS MD11». Si tratta di aerei di linea tuttora operativi e diffusi, e non si può escludere che altre società del settore aeronautico abbiano utilizzato il “metallo del disonore” nella costruzione di componenti per i loro aerei ed elicotteri civili e militari. «È dagli anni ‘60 che l’uranio viene usato per bilanciare il peso degli aerei da caccia» conferma un ingegnere aeronautico che invoca l’anonimato. Basta sfogliare i manuali di manutenzione degli aviogetti o esaminare le licenze di esportazione e le certificazioni emesse dalla statunitense NRC (Commissione Regolatrice Nucleare) per rendersi conto che l’uranio impoverito è adoperato da 35 anni negli aerei passeggeri delle compagnie di tutto il mondo. Ad eccezione della Japan Air Lines che dopo l’incidente di Nikko (il 12 agosto 1985 cadde un Boeing 747) utilizza dal ‘96 sulla propria flotta contrappesi di innocuo tungsteno. Nella brochure della STARMET (fornitrice ufficiale della BOEING) e in quella della COGEMA, risultano dettagliatamente indicati tutti gli usi commerciali (dal 1968) dell’uranio 238 e i principali clienti (a partire dalla PHILIPS). Gerald R. Mack, vice presidente della BOEING (Europa), rivela: «Parecchi fornitori di aeroplani, compreso Boeing, Lockheed e Mc Donnell Douglas, hanno usato l’uranio impoverito come contrappesi per i piani di comando del velivolo perché il materiale fornisce una quantità significativa di peso in spazi limitati. Mentre l’uranio impoverito è stato usato nei modi differenti su velivolo differente può essere trovato generalmente come componente dei complessivi dell’elevatore e del timone come la parte posteriore di grandi getti e, su alcuni modelli, come componente dell’alettone montato sull’ala completa». Il manager ammette: «Tutti i DC-10 sono stati consegnati con pesi di equilibrio di uranio impoverito in 5 posizioni: alettoni esterni, ala, “wing-mounted”, timone superiore ed elevatori esterni. Il peso totale su ciascun aeroplano era di circa 729 libbre (330,6 chilogrammi, ndr)». Attualmente il 747 contiene all’interno della sua struttura 1.500 chilogrammi di uranio impoverito. Le note di istruzione della Douglas Service, nonché i protocolli della FAA (Federal Aviation Administration), avvertivano già nel 1983-84 di «evitare di avvicinarsi agli aerei all’uranio». Le circolari avvisavano quanti dovessero entrare in contatto con l’uranio impoverito durante le indagini sugli incidenti aerei, di «non respirare ed ingoiare
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in vicinanza di aerei che hanno i contrappesi all’uranio danneggiati». «Questi — scrivono i responsabili nazionali di Medicina Democratica, Luigi Mara e Fernando d’Angelo — lentamente emettono polveri altamente tossiche e radiotossiche che possono essere inalate o ingerite, liberando direttamente nell’organismo la loro dose di radiazioni con conseguenze molto negative per la salute degli esposti». Ovvero: tecnici manutentori, vigili del fuoco, operatori sanitari, forze dell’ordine, personale ausiliario e, più in generale, passeggeri. Ossidi e diossidi di uranio nebulizzati nell’aria possono essere respirati anche a varie decine di chilometri dal luogo di emissione, a seconda delle condizioni atmosferiche. «Le strutture manutentive aeronautiche italiane non sembrano adeguatamente informate o istruite al riguardo — segnala MD — così come non risulta che i rischi derivanti da tali esposizioni a uranio impoverito e alle possibili emergenze siano stati previsti nei documenti di valutazione stabiliti dal decreto legislativo 626/94». In Italia grazie a una deroga dall’obbligo di denuncia (stabilita da un decreto ministeriale del 15/12/1970) la presenza di consistenti quantità di uranio esaurito negli aerei non è assoggettata ad alcuna comunicazione preventiva alle autorità di controllo. Le compagnie aeree, peraltro, non sono assicurate contro ipotetici rischi di intossicazione e contaminazione. Date un’occhiata alle polizze assicurative dell’ex compagnia di bandiera nazionale Alitalia Generali ed Assitalia - che escludono dalla loro copertura i «rischi di contaminazione o avvelenamento legati ad eventuali incendi delle parti in uranio dei velivoli». Per Medicina Democratica «Nonostante l’Alitalia abbia nella propria flotta svariati velivoli contenenti uranio 238, attualmente non esistono piani di evacuazione o di decontaminazione contro questo tipo di irraggiamento nucleare». Aerovie e aeroporti sono collocati in zone a ridosso di popolose città. Secondo la Nuclear Regulatory Commission «anche se non vi fossero mai incidenti, i contrappesi all’uranio 238 si consumano in misura del 5 per cento annuo a causa dell’erosione» e il pulviscolo radioattivo circola nell’aria che respiriamo. Un rapporto informativo ormai sepolto dalle scartoffie dei Vigili del Fuoco di stanza a Malpensa — dove transitano milioni di passeggeri e lavorano 15 mila dipendenti — aveva segnalato che il 14 gennaio 2000 «durante l’assistenza alle operazioni di rifornimento carburante dell’aeromobile MC-DON-
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NELL DOUGLAS DC 10 siglato F-GNEM della compagnia CUBANA-AOM volo CU 425, i contrappesi esterni delle parti mobili dei piani di coda del velivolo, costruiti in uranio 238, presentavano evidenti segni di ossidazione». Non è stato possibile effettuare le misurazioni poiché «l’idonea sonda per misurazioni alfa non è in dotazione al comando». I pompieri sono perfino sprovvisti di dosimetri elettronici ed autoprotettori. In condizioni di alte temperature (superiori ai 500 gradi centigradi) o di forti pressioni, l’uranio sporco brucia, trasformandosi in ossido di uranio che diventa pericolosissimo se inalato o ingerito. Numerose ricerche attestano che può provocare tumori, leucemie e malformazioni. Il fisico Robert L. Parker ha riferito sulla rivista NATURE (vol. 336, 22/29 dicembre 1988) che il peggior scenario ipotizzabile — già verificatosi il 4 ottobre ‘92 a Bijlmermeer (quartiere popolare di Amsterdam), e il 22 dicembre ‘99 a Stansted in Inghilterra, nda — derivante da un crash di un Boeing 747, vedrebbe 250 mila persone correre rischi di salute o di imminente avvelenamento conseguenti alla contaminazione da ossidi di Uranio». In Italia risultano scarse e frammentarie le notizie sugli incidenti e non sono mai state accertate le conseguenze epidemiologiche. Cruciali riferimenti. Il 3 marzo 1977 precipita nel cielo di Pisa un aereo militare da trasporto C-130. Perdono la vita un ufficiale e 38 allievi dell’accademia navale di Livorno, tre ufficiali e due sottufficiali dell’equipaggio. Un altro incidente di cui si ha conoscenza, che ha coinvolto personale italiano, è avvenuto a Kukes a pochi chilometri dalla frontiera del Kosovo l’11 giugno 1999. A 200 metri dal campo profughi è esploso un Hercules C-130 della Lockheed (con la targa cancellata) in missione segreta poco prima dell’invasione Nato. Quanta gente quel giorno ha respirato i fumi tossici nucleari? Perché è stato detto che «il campo veniva evacuato per allontanarsi dal teatro del conflitto» e non per il grave incidente avvenuto? Se da noi nessuno lo sapeva, in che condizioni sarannno gli aerei che contengono questi contrappesi nucleari? Sarà mai stata fatta la manutenzione? Chi ha ricevuto in Italia i documenti della Boeing e della Mc Donnell Douglas? Di chi sono le responsabilità? Cosa ha fatto l’ANPA in merito? E il RAI, il Registro Aeronautico Italiano, poteva forse non sapere? E la SEA? Gli ultimi incidenti di una certa consistenza e conseguenze sanitarie trascurate, si sono verificati più re-
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centemente a Piacenza e a Pisa con la caduta di un secondo Hercules C -130 con militari a bordo. La dispersione di uranio impoverito a seguito dei disastri aerei, noti e ignoti, non è mai stata indagata da monitoraggi epidemiologici sulla popolazione coinvolta. Accanto ai morti accertati vi sono un numero imprecisato di vittime invisibili, diluite sotto traccia e nel tempo. Un attentato alla salute planetaria. L’aggettivo però è erroneamente fuorviante: «impoverito». In inglese, «depleted», ridotto, esaurito. Ma il “Depleted Uranium” è notoriamente cancerogeno, mutageno, genotossico. È stato accertato dalla letteratura scientifica prodotta da istituti, istituzioni ed organizzazioni prestigiose: International Physicians for the Prevention of Nuclear War, International Action Center, Union of Concerned Scientists, Canadian Coalition for Nuclear Responsability, Office of Radiation, Chemical & Biological Safety (Michigan State University), Gulf War Veterans, Istituto Ramazzini. Quando la parola d’ordine è familiarizzare le giovani generazioni. Nel videogioco “Starcraft” commercializzato in Italia dalla Blizzard è possibile utilizzare l’uranio 238 per rinforzare i proiettili. Il manuale italiano a pagina 43 riporta: «Ricerca proiettili U 238; queste munizioni in uranio impoverito sono in grado di migliorare la portata di tiro dei fucili Gauss». E ancora a pagina 41: «Inalazione: un’unità nemica presa come bersaglio di questo dispositivo viene immersa in un fluido altamente energetico di particelle radioattive, in grado di infliggere notevoli quantità di danni... Il campo radioattivo provocherà seri problemi ...». In ogni settore relativo all’uranio impoverito è facile trovare dati manipolati per fare in modo che il pubblico accetti l’idea di un vasto e generalizzato riciclaggio anche in prodotti destinati al contatto con l’essere umano. Nel mondo circolano oltre 300 brevetti per prodotti dove si usa uranio sporco. Rivela il LANDAU NETWORK - CENTRO VOLTA di Como: «L’ufficio brevetti europeo ha approvato 696 progetti che prevedono l’impiego di uranio impoverito, tra questi ci sono palle da baseball e leghe per le otturazioni dentali». Ciò che non è più un segreto diventa un inquietante interrogativo. Decine di migliaia di tonnellate di questo scarto pericoloso sono state impiegate per anni nella costruzione di aerei (civili e militari), di elicotteri, di satelliti, di barche a vela, di navi, di
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yacht da competizione, di schermi per le stanze di ospedali, di trivelle petrolifere, in munizioni e mine, nell’asfalto stradale, per blindare i carri armati, nella costruzione di container, come contrappeso per le centrifughe e nei muletti per il sollevamento pesi, nelle mazze da golf, nei proiettili da caccia e negli elettrodi per la saldatura?». Gli Stati Uniti (il maggior produttore) hanno accumulato, secondo dati del Dipartimento per l’Energia (Final Plan for the Conversion of Depleted Uranium Exafluoride: Rapporto del DOE al Congresso del luglio 1999), «750 mila tonnellate di uranio impoverito». Scorie che si accrescono al ritmo di 30-40 mila tonnellate annue. Nella relazione del DOE si legge che «il contributo dell’industria, attraverso il parziale riutilizzo di questi materiali, può far diminuire in modo significativo i costi dei programmi relativi al loro stoccaggio». Stime ufficiali attestano che «la quantità stoccata di DU si aggira sui 10 milioni di tonnellate». Alcune aziende, tra cui spicca la statunitense STARMET, riciclano queste scorie già da diversi anni, rivendendole e disperdendole sul pianeta. La Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva chiesto al segretario generale — con la risoluzione 1997/36 — di preparare un dossier «sull’uso dell’uranio impoverito e di altre armi di distruzione di massa o con effetti indiscriminati, incompatibili con il diritto umanitario internazionale e con le leggi sui diritti umani». Del rapporto mancano notizie da molti anni: disperso in guerra. Anche la Commissione europea non ha mai risposto ad un europarlamentare. In un’interrogazione scritta (E – 0419/00) presentata il 7 febbraio 2000 da Erik Meijer è scritto: «Stop ai rischi connessi all’impiego di uranio impoverito nell’aviazione civile. 1. È la Commissione a conoscenza della relazione pubblicata da New Scientist del 15 gennaio 2000, che prende in esame l’incidente del Boeing 747 della Corean Airlines, avvenuto nell’Essex - Gran Bretagna - nel dicembre 1999, e da cui tra l’altro risulta che il velivolo civile trasportava nella parte posteriore 300 kg di uranio impoverito, non come carico, ma come contrappeso? 2. Sa la Commissione che l’uranio impoverito viene utilizzato su vasta scala soprattutto nei velivoli di più vecchia concezione? 3. Sa altresì la Commissione che l’uranio impoverito è un materiale che comporta gravi rischi per la sanità pubblica, come dimostrano il disastro aereo di Bijlmermeer (Amsterdam, Paesi Bassi) e ancor più la guerra del
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Golfo in Iran? 4. Può indicare la Commissione quali sono le norme a livello europeo o mondiale che disciplinano l’impiego dell’uranio impoverito nella costruzione aeronautica? 5. Può la Commissione indicare quali sono le norme che disciplinano il trattamento dell’uranio impoverito all’atto dello smantellamento dei velivoli e in caso di calamità? 6. Quali iniziative intende adottare la Commissione per porre definitivamente termine ai rischi connessi all’utilizzo dell’uranio impoverito nei velivoli?». Chi pensa che l’uranio sporco si trovi soltanto negli scenari di guerra dovrà cambiare idea. Ci conviviamo: dalle strumentazioni mediche fino ai brevetti per mazze da golf e collari per cani. Si tratta del maggiore scarto dello sfruttamento del nucleare per la produzione di energia elettrica. Si calcola che conservati nei siti di stoccaggio di tutto il mondo ne siano stati accumulati diversi milioni di tonnellate. Una cifra destinata a crescere, dato che il processo di arricchimento volto a ottenere il combustile produce un residuo di uranio impoverito sette volte superiore a quello dell’uranio arricchito ottenuto a fine ciclo. Ecco perché, assieme alla questione dei costi e della sicurezza, la gestione dei rifiuti radioattivi è uno dei nervi scoperti del partito del nucleare. Che ha tutto l’interesse a sperimentare nuove forme di “smaltimento” e a trovare impieghi alternativi, anche in campo non militare. Ma a quale costo? Secondo il professor Massimo Zucchetti, docente di Radioprotezione all’Università di Torino, «L’uranio impoverito diviene pericoloso quando viene inalato o ingerito. Viene inserito nella punta dei proiettili per l’alta capacità che possiede nel forare le corazze degli automezzi blindati. Quando il proiettile colpisce il bersaglio ed esplode, si forma una nube radioattiva che investe le persone che si trovano nel raggio d’azione di quella nube». Diverso l’ordine di rischio nel caso in cui l’uranio sporco venga utilizzato negli aerei, laddove viene applicato sulla punta delle ali e nei piani di coda con funzione di bilanciamento del velivolo durante l’atterraggio. «È evidente il rischio di inalare particelle radioattive per un lavoratore che utilizzi, ad esempio, una fresa nella parte del velivolo impregnata dall’uranio. O ancora, nel caso di disastro aereo, laddove l’incendio che si sviluppa non è solo chimico ma anche radioattivo. Nessuna autorità — prose-
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gue il professor Zucchetti — ha mai informato ufficialmente i vigili del fuoco in servizio presso gli aeroporti di questa eventualità».
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Capitolo ottavo Democrazia totalitaria In Italia i rifiuti si riciclano soltanto in politica. Attenzione: è un oggetto fragile da maneggiare con cura. Non è un soprammobile di porcellana, ma un architrave su cui si reggono la vita sociale, le relazioni tra le persone e il mondo. «Il Paese in ostaggio — commentava con acume il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, in occasione della presentazione del Rapporto Italia 2008 —. L’Italia è un Paese ormai prigioniero della propria classe politica che ha steso sulla società una rete a trame sempre più fitte impedendone ogni movimento, ogni possibilità di azione, ogni desiderio di cambiamento e di modernità, riducendo progressivamente gli spazi di democrazia e mortificando le vocazioni, i talenti, i meriti, le attese, le aspirazioni di milioni di cittadini. Siamo di fronte — concludeva — ad una classe politica che aumenta il proprio potere e la propria capacità di controllo sociale in termini inversamente proporzionali alla sua autorevolezza, credibilità e consenso». Il Belpaese è privo di una classe dirigente, non archivia il trapassato remoto ed annaspa alla deriva. Fateci caso, perfino in caso di elezioni: i cittadini sono trattati come sudditi analfabeti, a cui si chiede solo di apporre una croce su candidati imposti dal sistema di potere. C’è una simpatica congrega di non eletti calati dall’alto che aspira ad entrare nel casting di un’altra commedia all’italiana. Silenzioso colpo di Stato in atto. Dove? Banale: nella discarica d’Europa. In Italia: democrazia calpestata, futuro a rischio per la gran massa di popolazione ed un premier – già dipendente della banca speculativa Goldman Sachs e della Coca Cola – comandato a distanza dalla Commissione Trilaterale (espressione del gruppo di potere Bilderberg, nonché socio dell’Aspen Institute) senza alcuna legittimazione popolare, sfacciatamente osannato dai mass media e dai politicanti da strapazzo in circolazione televisiva. Ma diamo un’occhiata a qualche macroscopico conflitto di interessi di mister Monti che in una botta sola è diventato senatore a vita e primo ministro. Un colpo di fortuna per chi potrebbe ambire, in uno Stato di diritto, al massimo alla carica di vice-capo condomino? Un’occhiata al passato (sbianchettato) illumina lo scenario. «I Commissari Mario Monti, Erikki Liikanen, Pedro Solbes Mira, Gunther Verheugen, Antonio Vitorino e Frederik Bolkestein hanno, in passa-
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to, partecipato a riunioni del Gruppo Bilderberg e sono, pertanto, membri di fatto, dato che vengono mantenuti informati sulle sue attività. Romano Prodi, Presidente della Commissione, è stato membro del comitato direttivo di tale gruppo negli anni ‘80, epoca in cui il Presidente della BCE, Wim Duisenberg, era tesoriere. Tre Commissari sono o sono stati membri della Commissione Trilaterale: Mario Monti, Chris Patten e Pedro Solbes Mira. Può la Commissione indicare il nome dei Commissari che parteciperanno alle prossime riunioni del Gruppo Bilderberg e della Trilaterale, precisare se essi parteciperanno a nome della Commissione o a titolo apparentemente privato e se beneficeranno di indennità giornaliere o di altri rimborsi per le spese associate a tali riunioni? Può la Commissione assicurare che tali adesioni vengano menzionate nella dichiarazione di interessi finanziari di ogni Commissario?». Il 4 aprile di 9 anni fa, l’eurodeputato Patricia McKenna ha depositato questa interrogazione parlamentare in cui chiede chiarimenti in merito alle partecipazioni di Mario Monti, commissario UE alla competitività, alle conferenze del gruppo Bilderberg ed alla sua qualità di membro a tutti gli effetti della famigerata Commissione Trilaterale. In precedenza, il 4 gennaio 1999, la stessa parlamentare europea Mckenna aveva puntato l’attenzione proprio sull’attuale presidente del consiglio dei ministri. «Oggetto: Partecipazione del Commissario Mario Monti ad un appuntamento particolare. In relazione all’incontro “Bilderberg” che ha avuto luogo dal 30 maggio al 2 giugno 1996 a Toronto, al quale ha partecipato il Commissario Monti, può la Commissione far sapere: 1. Quali elementi compongono il costo totale del viaggio? Le spese sono state rimborsate a suo tempo e, in caso contrario, chi le ha sostenute? 2. Dato che di regola Bilderberg si assume le spese di un lussuoso alloggio, il Commissario dovrebbe dichiararle? 3. Il Commissario ha beneficiato dell’indennità giornaliera di missione per la durata del soggiorno? 4. Il Commissario ha preso dei giorni di congedo per questo viaggio? La Commissione ritiene che il Commissario Monti avrebbe dovuto dichiarare di essere membro del comitato direttivo “Bilderberg”? In caso contrario, per quale motivo?». L’unica risposta è stata fornita il 15 maggio 2003 da un’autorità di garanzia, evidentemente avariata. Romano Prodi in veste di Presidente della Commissione UE ha certificato che «Numerosi membri della Commissio-
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ne sono stati invitati e hanno partecipato alle riunioni del gruppo Bilderberg, alcuni durante il loro mandato alla Commissione, altri sono stati invitati e hanno partecipato prima di essere membri della Commissione e non hanno più partecipato durante il loro mandato. È necessario precisare che la qualità di membro del gruppo non è prevista dallo statuto di tale gruppo. Esiste solo la figura di “membro dello Steering Committee”. Nessun membro della Commissione è membro dello Steering Committee. Persone non appartenenti allo Steering Committee del gruppo Bilderberg possono essere invitate alle sue riunioni. La partecipazione occasionale a una riunione non giustifica una citazione sulla dichiarazione d’interessi prevista dal Codice di condotta applicabile ai Commissari. Infatti, la partecipazione occasionale a una conferenza o il fatto di ricevere informazioni sulle attività di un gruppo non implicano necessariamente l’appartenenza o la qualità di membro di un gruppo. Quanto alla partecipazione alla prossima riunione del gruppo Bilderberg, che avrà luogo dal 16 al 18 maggio 2003 a Versailles, è necessario precisare che tre Commissari hanno accettato l’invito che hanno ricevuto a causa delle funzioni che essi esercitano, anche se non partecipano a nome del Collegio. Si tratta di M. Monti, F. Bolkestein e P. Lamy. La loro trasferta si effettuerà sulla base delle norme generalmente applicabili in materia. Per quanto riguarda la Commissione Trilaterale, il suo statuto esclude la partecipazione di un membro che esercita una funzione pubblica. Nessun Commissario è quindi membro della Commissione trilaterale e nessun Commissario ha manifestato, fino ad oggi, la sua intenzione a partecipare a una delle prossime riunioni della Commissione trilaterale». Mario Monti non era nuovo alla Commissione Europea. Era già membro dell’assemblea precedente, la Commissione Santer, la quale vanta l’invidiabile primato di essere stata la prima ed unica costretta alle dimissioni in blocco. Le accuse gravi e circostanziate, come ben delineato da un rapporto della House of Commons — il Parlamento Inglese — erano di cattiva gestione, distrazione di fondi e atti di nepotismo. Sul banco degli imputati, tra l’altro, anche l’ufficio presieduto da Emma Bonino e Manuel Marín, l’ECHO, lo European Community Humanitarian Office, sotto accusa dall’Unità di Coordinamento per la Lotta Anti Frodi (UCLAF) per questioni che affondavano le radici negli anni ‘80, inerenti a una cat-
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tiva gestione dei fondi, spesi per l’assunzione di burocrati europei scelti in maniera conveniente anziché per gli aiuti umanitari. Dopo le dimissioni, e nonostante il loro spettro che aveva minato la credibilità della Commissione Europea come istituzione, Monti si riaccreditò alla corte della successiva Commissione Prodi, da perfetto burocrate UE. Mario Monti sarebbe divenuto di lì a poco non un semplice invitato alle conferenze del Gruppo Bilderberg, ma addirittura un membro del Comitato Direttivo (vedi Bilderberg Meeting Governance). Al contempo, sarebbe divenuto non un semplice membro della Commissione Trilaterale, ma una delle sue tre cariche più significative, assumendo la rappresentanza della più importante area di influenza attuale, quella dove si stanno giocando i futuri interessi della governance mondiale: l’Europa. Non è tutto: c’è anche Emma Bonino nel sistema. L’interrogazione europea di Patricia McKenna datata gennaio 1999 (E-3899/98) è inequivocabile: «Partecipazione della Commissaria Emma Bonino all’incontro “Bilderberg” 1998. In relazione all’incontro “Bilderberg” che ha avuto luogo dal 14 al 17 maggio 1998 a Turnberry, Scozia, al quale ha partecipato la Commissaria Bonino, può la Commissione far sapere: 1. Quali elementi compongono il costo totale del viaggio? Le spese sono state rimborsate a suo tempo e, in caso contrario, chi le ha sostenute? 2. Dato che di regola Bilderberg si assume le spese di un lussuoso alloggio, la Commissaria dovrebbe dichiararle? 3. La Commissaria ha beneficiato dell’indennità giornaliera di missione per la durata del soggiorno? 4. La Commissaria ha preso dei giorni di congedo per questo viaggio?». Circola un video su You Tube che rivela l’insidioso pensiero politico dell’illuminato. Dichiara Monti senza vergogna: «E qui, naturalmente io ho una distorsione riguardo all’Europa. Ed è una distorsione positiva che riguarda l’Europa. Anche l’Europa, non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi e di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini alla collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle e c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. Abbiamo bisogno delle crisi come il G 20, come gli altri consessi in-
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ternazionali, per fare passi avanti. Quando una crisi sparisce, eh (balbetta, nda) rimane un cedimento perché si sono messe in opera istituzioni, leggi, eccetera, per cui non è pienamente reversibile. Basta veder anche per quanto riguarda il comportamento dei poteri pubblici, ci sono meccanismi simili a quelli che stamattina sono stati così sapientemente spiegati. Mi dicono che sono pronti dei sistemi software che permettono … che permettono, insomma, l’uomo politico legge il suo discorso sul leggìo elettronico, viene condotto l’istant polling, le frasi successive, le pagine successive del discorso possono essere automaticamente adattate a seconda della reazione, dell’audience del consesso. Questo che cos’è? È il colmo della democrazia, cioè un referendum istantaneo, o è il colmo della leadership ma della followership? Non lo so? Ehm, la… (attimo di esitazione, nda) certamente occorrono delle autorità di enforcement rispettate, che si facciano rispettare, che siano indipendenti e che abbiano risorse e mezzi adeguati. Oggi abbiamo in Europa troppi governi che si dicono liberali e che come prima cosa hanno cercato di attenuare la portata, la capacità di azione, le risorse, l’indipendenza delle autorità che si sposano necessariamente al mercato in un’economia anche solo liberale». Gli fa eco il sodale Mario Draghi durante l’audizione al Parlamento Europeo del 16 gennaio scorso: «Se i Paesi sono disposti a cedere parte della sovranità nazionale verso un’unione fiscale, allora questo è un inizio della fiducia, e se vi è la fiducia poi gli altri passi seguiranno, da parte degli stessi paesi». Che singolare sintonia. Sono Monti Mario e mi co-manda Zio Sam? Solo in Italia — ovviamente con il beneplacito della Santa Sede — un dipendente di una banca nordamericana a delinquere (Goldman Sachs), già al soldo della Commissione Trilaterale (fondata da David Rockfeller), nonché membro dell’Aspen Institute, senza essere eletto democraticamente diventa capo del Governo. Così, dalla padella di Berlusconi siamo transitati direttamente nell’altoforno del “governo tecnico” imbottito di contraddizioni e conflitti di interessi, senza nemmeno fare una sosta nella brace sinistroide. Il professor Monti è stato commissario europeo dal 1994 al 2004, agitandosi a dovere. La commissione Santer, la prima di cui ha fatto parte, è nota ai più per essere di gran lunga la commissione più vergognosa della storia europea. Infatti fu costretta alle dimissioni anticipate onde evitare una inedita sfiducia
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da parte del Parlamento europeo, dopo una serie di scandali partiti dalla commissaria francese Cresson, la quale aveva nominato nel suo staff il suo amante Philippe Barthelot. L’affaire Cresson era solo la punta dell’iceberg e di lì a poco emerse tutto il marcio. La commissione d’inchiesta del parlamento UE concluse che «v’era una responsabilità collegiale dei commissari nei casi di frode e nepotismo». Sebbene coinvolto negli scandali come tutta la commissione Santer, Mario Monti rimase al suo posto anche nella commissione Prodi. Alla scadenza del suo secondo mandato Monti si reinventa banchiere ed entra nella squadra della piovra Goldman Sachs, la banca che ha aiutato per anni i governi greci di Simitis, Karamanlis e Papandreu a truccare i conti, nel ruolo di consulente internazionale, a scapito del popolo ellenico. Quanto è utile ogni tanto ripassare i quotidiani padronali. Così titolava Il Sole 24 ore l’8 novembre 2011, un attimo prima dell’investitura ufficiale del suo stretto dipendente, la banca che ha contribuito ad innescare la crisi: «Goldman Sachs: elezioni, lo scenario peggiore per i mercati. Governo tecnico per abbassare lo spread». Che preveggenza. Ecco cosa dichiarava il datore di lavoro Monti Mario sulla situazione politica italiana. Per Goldman Sachs le elezioni sono lo scenario peggiore, mentre sarebbe auspicabile un esecutivo di unità nazionale: «la soluzione più gradita ai mercati perché nel tempo porterebbe a un declino negli spread sul debito sovrano e a un calo del premio pagato al rischio Italia più in generale». Secondo il quotidiano di Confindustria «Nel breve termine lo spread Btp-Bund cadrebbe a 350 punti base sui titoli decennali». A proposito di bufale in doppiopetto: «L’euro fa da scudo ai conti pubblici: è grazie alla moneta unica europea se i problemi delle finanze pubbliche e l’incertezza politica in Italia non si riflettono sull’andamento dei tassi di interesse» aveva dichiarato lo stesso Monti al giornale Il Sole 24 ore, 7 anni fa (17 aprile 2005). E passiamo in rassegna un giornale che non può certo essere accusato di estremismo: a caso, Le Monde. Il celebre quotidiano francese è partito proprio dagli affiliati Mario Monti & Mario Draghi per accusare la banca d’affari statunitense di «gestire un occulto direttorio europeo capace di manovrare, in base ai propri interessi, gli uomini chiamati prima a generare e poi governare la crisi dell’euro». Secondo i colleghi d’oltralpe il novello premier italico «ha collezionato non solo l’incarico di consigliere in-
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ternazionale della Goldman Sachs, conferitogli nel 2005, ma anche le cariche, non proprio ininfluenti, di presidente della Commissione Trilaterale e di socio del Bilderberg Group». Anche negli Usa non risparmiano gli affondi. La Commissione Trilaterale viene sovente accusata di non essere non soltanto un “think tank” dedito al coordinamento delle politiche di Asia, Europa e Stati Uniti, ma un centro di potere occulto creato — argomentava il senatore repubblicano Barry Goldwater — per sviluppare «un potere economico mondiale superiore ai governi politici delle nazioni coinvolte». Ricorda Le Monde che «Ben peggiori sono però i sospetti che circondano Mario Draghi, l’attuale governatore della Bce, titolare tra il 2002 e il 2005 della carica di vice presidente della Goldman Sachs International. In quel fatale 2005 la Goldman Sachs rifila alla Grecia gli strumenti finanziari indispensabili per nascondere i debiti e metter piede nell’euro. A render possibile il raggiro targato Goldman Sachs contribuisce non poco Lucas Papadémos, il passato premier greco – sospinto dai poteri forti – membro come Mario Monti della Commissione Trilaterale». Una patria accompagnata da lui stesso sull’orlo del precipizio quando, da governatore della Banca Centrale di Atene, affida a Petros Christodoulos, un ex gestore di titoli della Goldman, lo scellerato ritocco dei conti ellenici. Tra i Goldman’s Boys nostrani c’è pure Romano Prodi. A puntare il dito sull’ex primo ministro dell’Ulivo (ex Iri, ex Nomisma, insomma ex) ci pensa nel 2007 il Daily Telegraph accusandolo di esser stato sul libro paga della Goldman una prima volta tra il 1990 e il 1993 e poi di nuovo dopo il 1997. Ma è assai interessante anche il “cursus honorum” di Massimo Tononi, il manager bocconiano nominato nel 2006 sottosegretario all’Economia del governo Prodi, dopo una fulgida carriera in Goldman Sachs. Tornato alla Goldman dopo quell’esperienza, Tononi è oggi il presidente di Borsa Italiana, la società di proprietà del London Stock Exchange che controlla Piazza Affari. «Sarebbe stato impossibile per il Gruppo Bilderberg sviluppare il proprio piano per il mondo se fosse stato soggetto alle luci dei media in questi anni» ha dichiarato David Rockfeller ex presidente della Chase Manhattan Bank. Ed è utile ricordare questa dichiarazione del fondatore della Trilaterale: «Whatever the price of the Chinese Revolution, it has obviously succeeded not only in producing more efficient and dedicated administration,
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but also in fostering high morale and community of purpose. The social experiment in China under Chairman Mao’s leadership is one of the most important and successful in human history (Qualunque sia stato il prezzo della rivoluzione cinese, si è ovviamente riusciti non solo a produrre un’amministrazione più efficiente e dedicata, ma anche a promuovere l’alto valore morale e una comunità di intenti. L’esperimento sociale in Cina sotto la guida del presidente Mao è uno dei più importanti successi nella storia umana)». Un governo tecnico oggi rappresenta il fallimento democratico italiano. Secondo un anonimo banchiere svizzero intervistato dal movimento WeAreChange il 30 maggio 2011 «è ormai palese che il Bilderberg usa le banche svizzere per attività di riciclaggio di denaro, finanziamento per rovesciare i governi, per gli assassini e per mandare in bancarotta le nazioni», espressioni riportate in un interrogazione parlamentare presentata dal senatore Elio Lannutti nel giugno di un anno fa. Il banchiere elvetico ha aperto uno squarcio sulle relazioni nascoste tra i manager di alto livello della banche svizzere e il club Bilderberg. In particolare, il potente uomo d’affari assurto a gola profonda, riferiva di essere stato coinvolto nel pagamento diretto in contanti di una persona che uccise il presidente di un paese straniero. Diversi servizi segreti provenienti dall’estero, soprattutto di lingua inglese, diedero l’ordine di finanziare azioni illegali, compresa l’uccisione di persone che non seguirono gli ordini del Bilderberg o del FMI o della Banca Mondiale, attraverso le banche svizzere. «Posso confermare quello che John Perkins ha scritto nel suo libro Confessioni di un Sicario Economico. Esiste veramente un solo Sistema e le banche svizzere hanno le mani in pasta in esso». Aveva ribadito lo stesso banchiere (informatore): «Perché il prossimo Bilderberg meeting si farà in Svizzera. Perché la situazione mondiale peggiora sempre di più. Infine perché le maggiori banche Svizzere sono coinvolte in attività non etiche. La maggior parte di queste operazioni sono al di fuori del bilancio. Non sono sottoposte a verifica e non prevedono tasse. Si parla di cifre con molti zeri. Somme enormi, si parla di triliardi, illegali, non sottoposti a controllo fiscale. Fondamentalmente si tratta di una rapina per tutti. Voglio dire le persone normali pagano le tasse e rispettano le leggi. Quello che sta accadendo qui è completamente contro i nostri valori svizzeri, come la neutralità, l’onestà e la
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buona fede. Negli incontri dove fui coinvolto, le discussioni erano completamente contro i nostri principi democratici. Vedete, la maggior parte degli amministratori delle banche svizzere non sono più locali, sono stranieri, soprattutto anglosassoni, sia americani che britannici, non rispettano la nostra neutralità, non rispettano i nostri valori, sono contro la nostra democrazia diretta, basta loro usare le nostre banche come mezzi per fini illegali. Utilizzano enormi quantità di denaro creato dal nulla e distruggono la nostra società e distruggono le persone in tutto il mondo solo per avidità. Cercano il potere e distruggono interi paesi, come Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda. Una persona come Josef Ackermann, che è un cittadino svizzero, è l’uomo di punta di una banca tedesca (Deutsche Bank) e usa il suo potere per avidità e non rispetta la gente comune. Ha un bel paio di casi legali in Germania e ora anche negli Stati Uniti. È un Bilderberg non si preoccupa della Svizzera o di qualsiasi altro paese». Alla domanda dell’intervistatore se alcune di queste persone citate parteciperanno all’imminente riunione del Bilderberg a St. Moritz il banchiere risponde di sì ed aggiunge che i partecipanti sono in una posizione di potere: «Hanno enormi quantità di denaro disponibile e lo utilizzano per distruggere interi paesi. Distruggono la nostra industria e la ricostruiscono in Cina. Dall’altra parte hanno aperto le porte a tutti i prodotti cinesi in Europa. La popolazione attiva europea guadagna sempre meno. Il vero obiettivo è quello di distruggere l’Europa». Inoltre riguardo ai mass media in Occidente che «se ne stanno più o meno completamente in silenzio per quanto riguarda il gruppo Bilderberg» il banchiere sostiene che «esiste un accordo tra loro e i proprietari dei mezzi di comunicazione. Alle riunioni vengono invitate anche alcune personalità di spicco del mondo dei media, ma viene detto loro di non riferire nulla di ciò che vedono o sentono». Infatti, giusto per fare un esempio: nel belpaese avete mai sentito nominare il signoraggio dai guru sulla scena? Solo nel Belpaese un cameriere del potere finanziario nordamericano, già membro di società massoniche occulte, viene promosso senza meriti a presidente del consiglio dei ministri, calpestando in un lampo lo Stato di diritto e demolendo senza alcuna seria reazione lo Stato sociale.È ormai chiara l’aggressione all’Italia per annullare definitivamente la residua sovranità economica: Goldman Sachs ha innescato l’ondata
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di vendite di Btp, poi seguita dagli hedge fund e dalle altre banche d’oltreoceano. E qui saltano fuori i conflitti di interesse. Mario Monti è attualmente presidente europeo della Trilateral Commission (organizzazione fondata tra l’altro da David Rockfeller ed Henry Kissinger), nonché socio del Club Bilderberg, anche se il 24 novembre 2011 ha solo annunciato di aver congelato queste cariche. Infine: il nuovo presidente del consiglio è sul libro paga, in qualità di consulente (international advisor), della banca d’affari Goldman Sachs, specializzata in speculazioni illecite d’ogni genere sul pianeta Terra; inoltre ha lavorato per la Coca Cola. L’associazione a delinquere Bilderberg usa le banche per attività di riciclaggio monetario, finanziamento per rovesciare i governi, omicidi su commissione per mandare in bancarotta le nazioni. Date un’occhiata alle interrogazioni parlamentari del senatore Elio Lannutti — numero 4/04265 e numero 4/05452 — emblematicamente senza risposta. Come mai né Berlusconi né Monti hanno risposto? Forse, nascondono qualche macroscopico conflitto di interessi? La Goldman Sachs nel remoto anno 2010 è stata incriminata dalla Securieties and Exchange Commission (Ente Usa per la vigilanza della Borsa) per frode e truffa ai danni dei propri clienti. Di chi si tratta? Solo per fare un esempio a portata di mano: sono i padroni di quelle società paravento (Petroceltic International, Northern Petroleum, eccetera) che estrarranno petrolio e gas dai nostri mari con danni ambientali incalcolabili. Grazie anche al beneplacito del governo Berlusconi e alla benevola “disattenzione” dell’ambientalista a chiacchiere, Nichi Vendola. Quando sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica ad un intero paese, vuol dire che la democrazia è morta e sepolta. Provocazione politica? A buon diritto, c’è molto di più: un Belpaese che va a rotoli, consegnato alle oligarchie finanziarie straniere, con il sistema “Giustizia”, o meglio “ingiustizia” che colpisce solo i poveracci ed i pericolosi non allineati. Solo una donna poteva osare tanto, nel silenzio assordante degli addomesticati mass media, mentre gran parte degli individui di sesso maschile (sulla mera carta d’identità), tremano solo all’idea di esprimere verbalmente un’idea non allineata alla melassa dominante. Infatti, qualche giorno fa, precisamente il 2 aprile, il giovane avvocato Paola Musu ha sporto denuncia nei confronti del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e conseguentemente del Primo Mi-
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nistro Mario Monti, ed infine dei ministri in carica compresi i docili membri del Parlamento. Il punto nodale dell’atto d’accusa riguarda la «sottrazione al Popolo italiano della sovranità in materia di politica monetaria, economica e fiscale» che si risolve in una deprivazione «della facoltà di determinare il proprio destino, il suo essere e in una compromissione della sua stessa esistenza». I reati ravvisabili nell’operato di Napolitano che la denuncia indica sono: «241 c.p Attentato contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato; 270 c.p. Associazioni sovversive; 283 c.p Attentato conto la Costituzione dello Stato; 287 c.p. Usurpazione del potere politico; 289 c.p Attentato contro gli organi costituzionali; 294 c.p. Attentato contro i diritti politici del cittadino; 304 c.p. Cospirazione politica mediante accordo; 305 c.p. Cospirazione politica mediante associazione». La denuncia è scattata a seguito delle vicende degli ultimi mesi, conseguenza della crisi economica e del diktat della Bce che hanno suggerito al Presidente della Repubblica la formazione di un nuovo governo, cosiddetto “tecnico”, a guida di Mario Monti. Un governo non legittimato dal voto popolare. Infatti si legge nell’atto della Musu: «in un chiaro ed evidente sovvertimento dell’impianto repubblicano e democratico dello Stato, in quanto la sovranità popolare ed il Parlamento ne risultano totalmente svuotati di contenuto ed il cui culmine è stata la recente destituzione di un governo, ultima espressione di una sovranità popolare di cui è rimasto solo il nome, avvenuta in modo del tutto “anomalo” e totalmente al di fuori dai principi e dalle norme previste nel nostro ordinamento, nonché in aperta violazione dell’art.94 della Costituzione, oltre che illegittimamente sostituito con un “soggetto” che rappresenta, già solo nella persona del Presidente del Consiglio, una chiara espressione della già citata oligarchia». La prima violazione, secondo l’avvocato Paola Musu, sarebbe all’articolo 1 della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». E poi: «Contenuto essenziale della sovranità di un popolo è dato dalla propria sovranità in materia di politica monetaria, economica e fiscale: è con essa, ed attraverso i suoi strumenti, che un popolo determina le sue sorti. Svuotare un popolo e la sua sovranità di quello specifico contenuto significa, e comporta, privarlo della sovranità stessa, in quanto lo si priva della
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facoltà e del potere di determinare il proprio destino ed il proprio stesso essere, compromettendone la sua stessa esistenza». La sovranità monetaria oggi non appartiene più al popolo italiano, ma effettivamente alla Banca Centrale Europea che ha dettato, negli ultimi mesi, le politiche economiche del Governo Monti. Purtroppo, la denuncia non avrà alcuna conseguenza pratica. Sei anni fa, infatti, con la legge numero 85 del 24 febbraio 2006 (“Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione”) — 40 giorni prima delle elezioni, con il Governo Berlusconi agli sgoccioli, ed un’opposizione di carta velina — il Parlamento introduce modifiche al codice penale, nella parte in cui si difende lo Stato democratico da reati che possono sovvertirlo: sin dal primo articolo ci si rende conto che i mutamenti più importanti apportati dalla normativa hanno ben poco a che vedere con i reati di opinione. Infatti vengono modificati gli articoli 241 (attentati contro l’indipendenza, l’integrità e l’unità dello Stato); 283 (attentato contro la Costituzione dello Stato); 289 (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali), ovvero le figure di attentato alle istituzioni democratiche del paese. Certo sono stati anche cambiati, e abrogati, alcuni articoli che incidono sulla libertà di espressione (vilipendio, propaganda e apologia). Tali modifiche, però, non hanno la rilevanza di quelle apportate agli articoli che concernono le figure di attentato. Prima della modifica operata dalla legge 85/2006, per integrare una delle fattispecie di attentato contro la personalità dello Stato, trattandosi di delitti posti a presidio di beni di rango particolarmente elevato (Integrità, indipendenza ed unità dello Stato; Costituzione ed organi Costituzionali), era sufficiente un qualsiasi atto intenzionalmente diretto a ledere il bene protetto, indipendentemente dalla sua idoneità a raggiungere lo scopo. Il legislatore, però, si è spinto ben oltre perché sia integrata la fattispecie, che gli atti, oltre ad essere idonei e diretti, debbano essere anche violenti. E, ad oggi, non ci pare di aver mai visto Giorgio Napolitano con un detonatore in mano, pronto a far esplodere qualche sede istituzionale. Tale ulteriore restrizione della fattispecie, non giustificata da esigenze costituzionali (l’articolo 25 della Costituzione subordina la sanzione penale ad un fatto e non ad un fatto violento), espone le istituzioni democratiche del paese ad un grave rischio, privandole, nei fatti, di qualsiasi tutela. Ci siamo: è arrivato il giorno in
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cui avremmo dovuto pentirci di una legge che, apparentemente, aveva lo scopo di favorire la libertà di offesa della Lega Nord. In sostanza: depistare, mentire ed occultare prove allo scopo di impedire alle istituzioni di svolgere i propri compiti (quand’anche ciò comporti una minaccia per la stessa sopravvivenza dello Stato democratico) non costituisce più reato ex art. 289 del codice penale. Oggi chiunque attenti agli organi costituzionali con atti diretti violenti ed idonei non rischia praticamente nulla. Ma supponiamo, per assurdo, che venisse in qualche modo dimostrata la caratterizzazione violenta in termini legislativi del presunto attentato del Presidente Napolitano contro gli organi Costituzionali: vediamo a quale sanzione dovrebbe sottostare. Oggi attentare agli organi costituzionali con atti idonei, diretti e violenti (la cui previsione di pena massima è 5 anni) viene punito meno gravemente del furto di un oggetto (la cui pena massima è 6 anni). Sempre nel 2006 con 543 voti, al quarto scrutinio, il Parlamento italiano ha eletto Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica. In quello stesso anno, a Corleone (di cui è cittadino onorario l’attuale presidente del Senato, Renato Schifani, socio negli anni ’80 della Sicula Brokers), i poliziotti della squadra mobile di Palermo arrestano il capo della cupola mafiosa, ossia la manovalanza del sistema di potere imperante, Bernardo Provenzano (73 anni), dopo una latitanza spudoratamente favorita da organi ed alte cariche dello Stato per mezzo secolo. Basta dare un’occhiata alla voce trattativa Mafia & Stato, comprese alcune stragi come Capaci e via D’Amelio, che hanno eliminato due magistrati (Falcone Borsellino) nettamente al di sopra della media nazionale nella rispettiva categoria, non succubi del potere e neppure addomesticabili come altri ripugnanti togati. Mario Monti non è stato eletto dal Popolo Italiano, eppure sta facendo a pezzi il nostro Paese, senza alcun mandato elettorale. La denuncia dell’avvocato Musu contiene anche un’accorata difesa della Costituzione Italiana e si rivolge non solo al Governo e alle Istituzioni attualmente in carica, ma a tutti coloro che, dal 1992 ad oggi, secondo l’avvocato hanno «consegnato la sovranità del popolo italiano in materia di politica monetaria, economica e fiscale (…) e, con essa, la sostanza essenziale ed intangibile della sovranità popolare, nelle mani di organismi esterni alla Repubblica (BCE, SEBC, Commissione), di struttura e composizione prettamente oli-
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garchica e privi di alcun fondamento democratico e, tanto meno, repubblicano e senza che il popolo vi abbia mai manifestato espresso e formale consenso». L’associazione Alba Mediterranea aveva depositato fin dal 21 giugno 2010 ben dieci diverse denunce contro le più alte cariche dello Stato, tra cui ben tre per alto tradimento. Ecco la loro esortazione: «DA ORA BASTA LIMITARSI A FARE CLIC COL MOUSE… BASTA DARE SEGNI DI APPREZZAMENTO… BASTA CONDIVIDERE LE CONGRATULAZIONI … DA ORA IN POI INCOMINCIATE ANCHE VOI AD ASSUMERVI LA VOSTRA PERSONALE DOSE DI RESPONSABILITÀ … NON POTETE RIMANERE IN PANTOFOLE DAVANTI AL COMPUTER MENTRE QUELLI COME NOI E LA PAOLA MUSU FANNO LA RIVOLUZIONE PER VOI». Basta dare un’occhiata ai provvedimenti legislativi varati dal 1992 in poi, ai danni del popolo italiano, per rendersene conto. Il Governo Berlusconi in prima battuta ed in seguito quello Monti non hanno risposto. Come mai? Come si legge nell’interrogazione parlamentare numero 4-04265, presentata dal senatore Elio Lannutti il 13 dicembre 2010 «il Bilderberg opera nel segreto assoluto e per 50 anni non si è saputo nemmeno che esistesse. Solo di recente ha aperto un sito realizzato in grande economia e che dice di fatto pochissimo. Non si conoscono le sue finalità, i suoi membri, curiosamente, non vantano l’appartenenza al gruppo nei curricula vitae. Quando il club si riunisce in seduta plenaria ai giornalisti non è permesso avvicinarsi; tra i promotori del gruppo Bilderberg ci sono Bernhard van Lippe-Biesterfeld, presidente del Bilderberg fino a quando nel 1976 diede le dimissioni per lo scandalo di una tangente da 1,1 milioni di dollari dalla Lockheed Corporation per la vendita di aerei caccia all’aviazione olandese; Joseph Retinger, economista polacco, il quale fu tra i fondatori e segretario generale fino al 1952 dell’United European Movement presieduto da Winston Churchill e finanziato dall’ACUE (American Committee for United Europe); (...) il gruppo ha svolto i seguenti incontri: 29-31 maggio 1954: Oosterbeek, Olanda; 18-20 marzo 1955: Barbizon, Francia; 23-25 settembre 1955: GarmischPartenkirchen, Germania dell’Ovest; 11-13 maggio 1956: Fredensborg, Danimarca; 15-17 febbraio 1957: St Simons Island, Georgia, USA; 4-6 ottobre 1957: Fiuggi, Italia; 13-15 settembre 1958: Buxton, Inghilterra; 18-20 settembre 1959: Yesilköy, Turchia; 28-29
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maggio 1960: Bürgenstock, Svizzera; 21-23 aprile 1961: St Castin, Canada; 18-20 maggio 1962: Saltsjöbaden, Svezia; 29-31 maggio 1963: Cannes, Francia; 20-22 marzo 1964: Williamsburg, Virginia, USA; 2-4 aprile 1965: Villa d’Este, Italia; 25-27 marzo 1966: Wiesbaden, Germania dell’Ovest; 31 marzo-2 aprile 1967: Cambridge, Inghilterra; 26-28 aprile 1968: Mont Tremblant, Canada; 9-11 maggio 1969: Marienlyst, Danimarca; 17-19 aprile 1970: Bad Ragaz, Svizzera: 23-25 aprile 1971: Woodstock, Vermont, USA; 21-23 aprile 1972: Knokke, Belgio; 11-13 maggio 1973: Saltsjöbaden, Svezia; 19-21 aprile 1974: Megève, Francia; 25-27 aprile 1975: Çesme, Turchia; 22-24 aprile 1977 (nel 1976 non ci fu alcuna conferenza poiché il principe Bernhard fu coinvolto nello scandalo Lockheed): Torquay, Inghilterra; 21-23 aprile 1978: Princeton, New Jersey, USA; 27-29 aprile 1979: Baden, Austria; 18-20 aprile 1980: Aachen, Germania dell’Ovest; 15-17 maggio 1981: Bürgenstock, Svizzera; 14-16 maggio 1982: Sandefjord, Norvegia; 13-15 maggio 1983: Montebello, Canada; 1113 maggio 1984: Saltsjöbaden, Svezia; 10-12 maggio 1985: Rye Brook, New York, USA; 25-27 aprile 1986: Gleneagles, Scozia; 24-26 aprile 1987: Villa d’Este, Italia; 3-5 giugno 1988: Telfs-Buchen, Austria; 12-14 maggio 1989: La Toja, Spagna; 11-13 maggio 1990: Glen Cove, New York, USA; 6-9 giugno 1991: Baden-Baden, Germania; 21-24 maggio 1992: Evian-les-Bains, Francia; 22-25 giugno 1993: Atene, Grecia; 3-5 giugno 1994: Helsinki, Finlandia; 8-11 giugno 1995: Zurigo, Svizzera; 30 maggio-1º giugno 1996: Toronto, Canada; 12-15 giugno 1997: Lake Lanier, Georgia, USA; 14-17 maggio 1998: Turnberry, Ayrshire, Scozia; 3-6 giugno 1999: Sintra, Portogallo; 1°-4 giugno 2000: Genval, Bruxelles, Belgio; 24-27 maggio 2001: Gothenburg, Svezia; 30 maggio-2 giugno 2002: Chantilly, Virginia, USA; 15-18 maggio 2003: Versailles, Parigi, Francia; 3-6 giugno 2004: Stresa, Italia; 5-8 maggio 2005: Rottach-Egern, Monaco, Germania; 8-11 giugno 2006: Ottawa, Canada; 31 maggio-3 giugno 2007: Istanbul, Turchia; 5-8 giugno 2008: Chantilly, Virginia, USA; 14-16 maggio 2009: Atene, Grecia; cui si aggiunge l’incontro avvenuto il 3-6 giugno 2010 a Sigtes in Spagna». Ma diamo un’occhiata ravvicinata agli italiani “associati”. Ecco alcuni dei partecipanti agli incontri Bilderberg degli scorsi anni: Franco Bernabè, John Elkann, Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Paolo Scaroni, Giulio Tre-
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monti, Gianni Agnelli, Umberto Agnelli, Alfredo Ambrosetti, Emma Bonino, Giampiero Cantoni, Lucio Caracciolo, Luigi G. Cavalchini, Adriana Ceretelli, Innocenzo Cipolletta, Gian C. Cittadini Cesi, Rodolfo De Benedetti, Ferruccio De Bortoli, Paolo Zannoni, Antonio Vittorino, Ignazio Visco, Walter Veltroni, Marco Tronchetti Provera, Ugo Stille, Barbara Spinelli, Domenico Siniscalco, Stefano Silvestri, Renato Ruggiero, Carlo Rossella, Virginio Rognoni, Sergio Romano, Gianni Riotta, Alessandro Profumo, Romano Prodi, Corrado Passera, Cesare Merlini, Rainer S. Masera, Claudio Martelli, Giorgio La Malfa, Francesco Giavazzi, Gabriele Galateri, Paolo Fresco, Mario Draghi, Gianni De Michelis. Il senatore Lannutti aveva posto qualche quesito imbarazzante: «se il Governo non ritenga che l’assoluta segretezza che ha sempre caratterizzato le riunioni Bilderberg non sia accettabile considerato che politici e capi di Stato dovrebbero sempre render conto di tutte le riunioni che fanno ai propri cittadini, consentendo quindi ai mass media di seguire l’evento e fare domande circa l’agenda dettagliata dell’incontro Bilderberg e delle decisioni che si prenderanno in merito ai piccoli ed ai grandi problemi che coinvolgono tutti; se non intenda, vista la partecipazione agli incontri del gruppo Bilderberg di Ministri ed esponenti dei vertici di aziende pubbliche italiane, favorire, nelle opportune sedi, la massima trasparenza delle riunioni, considerato che la riservatezza maniacale alimenta il sospetto e il mistero in democrazia è malsano; se negli incontri riservati vengano decisi anche i rapporti di affari tra i banchieri, i governatori delle banche centrali, i capitani di industria ed i vari faccendieri che possono così effettuare allegre speculazioni». Mario Monti è International Advisor di Goldman Sachs (è anche parte del consiglio d’amministrazione della Coca Cola). Goldman Sachs è una delle più grandi banche d’affari del mondo, in altri termini è un istituto bancario che, a differenza delle banche commerciali, non permette depositi ma offre servizi e specula con elevato rischio. Ha speculato abbondantemente sulla crisi dei mutui subprime (riferita dal Time) e ha speculato nel debito della Grecia, aiutando il governo ellenico a mascherare le reali condizioni del proprio debito pubblico (attesta Der Spiegel). Per la cronaca: la Goldman Sachs, nel 2010, è stata anche incriminata dalla SEC (Securities and Exchange Commission, ente statunitense per la vigilanza della borsa) per frode e
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truffa ai danni dei propri clienti. In soldoni: l’alta finanza non si accontenta più di speculare economicamente, vuole anche poter speculare politicamente, senza più bisogno di nascondersi. Il 3 giugno dell’anno scorso, dinanzi al Parlamento europeo, Daniel Estulin (autore del best seller Il club Bilderberg) è stato ancora più esplicito: «L’idea dietro ognuna di queste riunioni Bilderberg è di creare quello che loro stessi chiamano “L’aristocrazia del proposito”, sul modo migliore per gestire il pianeta tra le élite dell’Europa e del Nord America». In altre parole, «la creazione di una rete di enormi cartelli, più potente di qualsiasi nazione sulla Terra, destinata a controllare i bisogni vitali del resto dell’umanità, ovviamente dal loro punto di vista privilegiato, per il bene di noi tutti, la classe inferiore o The Great Unwashed», come loro ci definiscono. Le solite compagnie di giro: quanto è piccolo il mondo; ma al bando le dietrologie. Non ci vuole granché per smascherare l’approvazione di Beppe Grillo per il premier Monti. Il canale si chiama Aspen Institute e ci porta direttamente allo spietato gruppo di potere Bilderberg e alla Commissione Trilaterale. Tradotto: Fmi, Bce, multinazionali, eccetera. Vi ricordate la mappa del potere esibita dal comico? Domanda non concordata. Perché non vi compare nessuno della Casaleggio Associati né la società stessa che gestisce il blog del comico milionario? In particolare Enrico Sasson, già responsabile del mensile di management Harvard Business Review Italia (rivista edita da StrategiQs Edizioni, di cui è co-fondatore e amministratore delegato), Presidente di Leading Events (The Ruling Companies Association) e Presidente di Global Trends, società di studi, ricerche e comunicazione. Il giornalista Sasson, socio Casaleggio, è soprattutto già director della Camera di Commercio Usa in Italia. Al suo interno figurano personaggi che all’epoca avevano ruoli di rilievo: il vice di Microsoft Italia, Umberto Paolucci, Gian Battista Merlo, presidente e amministratore delegato Exxon Mobil Mediterranea, Gianmaria Donà dalle Rose, amministratore delegato della Twentieth century Fox home entertainment Italia, Massimiliano Magrini, country manager di Google Italia, Luciano Martucci, presidente e amministratore delegato di Ibm Italia, Gina Nieri, consigliere di amministrazione Mediaset, Maria Pierdicchi, direttore generale Standard & Poor’s, Massimo Ponzellini, presidente di Impregilo, Cristina Ravelli, count-
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ry legal director The Walt Disney co. Italia, Dario Rinero, presidente e numero uno di Coca-Cola Hbc Italia, Cesare Romiti, presidente onorario Rcs. Micromega nel 2010 segnalava che «oggi nell’American chamber of commerce in Italy troviamo altre figure di spicco come Gianluca Comin, dirigente Enel, e Giuseppe Cattaneo dell’Aspen Institute Italia, il prestigioso pensatoio, creatura di Gianni Letta, presieduto da Giulio Tremonti. E l’Aspen Institute pesa, ovunque agisca. Luogo di incontro fra intellettuali, economisti, politici, scienziati e imprese. Nell’Aspen transita l’élite italiana, che faccia riferimento al centrodestra o al centrosinistra». Nel sito dell’Aspen Institute la presentazione è di rito: «Identità. Aspen Institute Italia è un’associazione privata, indipendente, internazionale, apartitica e senza fini di lucro caratterizzata dall’approfondimento, la discussione, lo scambio di conoscenze, informazioni e valori. La comunità Aspen è composta di Soci Sostenitori, Soci Ordinari, Amici di Aspen e, dal 2001, dagli Aspen Junior Fellows. Dai loro contributi l’Istituto trae le risorse necessarie per il proprio funzionamento. Il network internazionale Aspen è composto da altri centri di attività — indipendenti ma coordinati — con sede negli Stati Uniti, in Francia, Germania, Giappone, India, Romania e Spagna. The Aspen Institute nasce negli Stati Uniti nel 1950 per iniziativa di un gruppo di intellettuali e uomini di affari americani convinti della necessità di rilanciare il dialogo, la conoscenza e i valori umanistici in una realtà geopolitica internazionale complessa e in evoluzione, appena uscita dalla devastante esperienza della Seconda Guerra Mondiale. In Italia l’Istituto inizia la propria attività nel 1984 con una forte caratterizzazione transatlantica, oggi ancora ugualmente molto presente. La missione di Aspen Institute Italia è l’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale, politica e culturale del Paese attraverso un libero confronto tra idee e provenienze diverse per identificare e promuovere valori, conoscenze e interessi comuni. L’Istituto concentra la propria attenzione verso i problemi e le sfide più attuali della politica, dell’economia, della cultura e della società, con un’attenzione particolare alla business community italiana e internazionale». Il “metodo Aspen” privilegia il confronto ed il dibattito “a porte chiuse”. Attorno al tavolo Aspen discutono leader del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale in condizioni di
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assoluta riservatezza e di libertà espressiva. The Aspen Institute, con sede oggi a Washington DC e centri d’attività ad Aspen (Colorado) e a Wye River (Maryland), nasce nel 1950 e, da allora, promuove e favorisce lo sviluppo di una leadership illuminata, formata al dialogo e in grado di affrontare le sfide della società globale. Partecipano agli incontri organizzati dall’Istituto personalità di primo piano della politica, dell’economia, della scienza e dei media nazionali e internazionali. L’intensa attività editoriale testimonia ulteriormente l’impegno per la missione di creare negli Stati Uniti e nel mondo una leadership illuminata e consapevole, formata su valori umanistici universali». Un circolo di eterodiretti: dal produttore al consumatore di bufale a pagamento, ora anche utile elettore. Casaleggio plasma gli orientamenti di Beppe Grillo il quale forgia le politiche del Movimento cinque stelle. Il video aziendale di Casaleggio “Gaia” prevede nel 2045 un mondo controllato da internet dove la politica sarà morta. All’interno di Casaleggio figurano esponenti dell’Aspen Institute, un tink tank conservatore americano che ha il chiodo fisso puntato sulla riduzione drastica della popolazione. Di che si tratta? Di un potente sodalizio di personaggi influenti: studiosi, politicanti, professionisti affermati, giornalisti; che hanno il ruolo di elaborare le nuove strategie politiche e anche le nuove ideologie come il neoconservatorismo americano, che ha fatto da guida ai 10 anni di Presidenza e governo di George W. Bush, inclusa “la guerra al terrore” e tutto ciò che comportò nella riduzione delle libertà civili dei cittadini americani ma non solo. Banale sorpresa. Nel comitato esecutivo dell’Aspen Italia, tra gli altri si annoverano Mario Monti, Giuliano Amato, Lucia Annunziata, Francesco Caltagirone, Giuseppe Cattaneo, Fedele Confalonieri, Gianni De Michelis, Umberto Eco, John Elkann, Franco Frattini, Enrico Letta, Gianni Letta, Emma Marcegaglia, Paolo Mieli, Romano Prodi, Cesare Romiti, Paolo Savona, Carlo Scognamiglio, Lucio Stanca, Giulio Tremonti, Giuliano Urbani. Per una mappa del potere sarebbe fondamentale sottolineare i collegamenti che ci sono tra questi personaggi di sgrido ed alcune società. La Aspen ha come scopo (si legge nel sito web) «l’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale, politica e culturale del Paese attraverso “il ‘metodo Aspen” che privilegia il confronto ed il dibattito “a porte chiuse”». Alcuni di quei personaggi fanno parte del Bilderberg Group,
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della Commissione Trilaterale e il Consiglio per le Relazioni Estere. Per quale ragione una società che ha al suo interno membri del genere che si vedono “a porte chiuse” non è stata inserita nella mappa del grillo parlante? Dalle mie parti, in lingua dialettale si dice: “Sput’ c’adduin’” (sputa che indovini). Dal comico ligure è stata nascosta volutamente una parte dell’organigramma di potere? Singolare coincidenza: proprio quella collegabile alla Casaleggio e quindi a Grillo. Per la cronaca: sulla rivista Aspenia (edita dall’Aspen Institute Italia e sfacciatamente favorevole al nucleare civile e militare) scrive il generale Carlo Jean, già protagonista in negativo sotto il governo Berlusconi del tentativo di realizzare, nel novembre 2003, in Lucania un deposito illegale di scorie atomiche, in seguito arrestato dalla mobilitazione popolare. Un’altra singolare coincidenza: Marta Dassù, già direttore generale per le attività internazionali di Aspen Italia è stata recentemente nominata sottosegretario al ministero degli Affari Esteri (governo Monti). Allora, da chi è influenzato la star Beppe? Serenetta Monti, grillina romana della prima ora dice che «Beppe prende ordini» da Gianroberto Casaleggio. Beppe Grillo stesso, nella prefazione di Web ergo sum, racconta: «Lo incontrai per la prima volta a Livorno, una sera di aprile del 2004. Venne in camerino e cominciò a parlarmi di rete. Di come potesse cambiare il mondo. Pensai che fosse un genio del male o una sorta di San Francesco. Ebbi un attimo di esitazione. Casaleggio ne approfittò. Mi parlò allora di Calimero, il pulcino nero, Gurdjieff». Il guru del guru fa il suo esordio nell’Olivetti di Roberto Colaninno, poi transita in Webegg, un’azienda allora controllata da Telecom. Casaleggio appunto è il manager che ha persuaso Grillo dell’utilità della rete. La società che presiede, la Casaleggio associati (fondata nel 2004 a Milano), ha l’obiettivo dichiarato di «sviluppare in Italia la cultura della Rete». Ha creato e gestisce, tra le altre cose, non solo il blog del comico genovese ma anche la distribuzione di tutti i suoi gadget (video, libri…). Casaleggio non ha traghettato su internet solo Grillo: nel gennaio 2006 il manager convinse anche Antonio Di Pietro ad aprire un suo blog. Per comprendere la strategia di Casaleggio basta leggere la dichiarazione rilasciata al Corsera il 25 maggio 2011: «La Rete condizionerà il potere e cambierà le forme di rappresentanza democratica. Passando dalla delega alla partecipazione diretta. Gli Usa sono da-
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vanti anni luce e noi siamo il fanalino di coda». In soldoni: la democrazia diretta che dalle antiche arene in pietra si sposta nell’arena della Rete e si fa democrazia digitale, per dirla come la annuncia lui: «La Rete che spossessa i governi della rappresentanza e i media della gestione dell’informazione», mettendo «in crisi il sistema della delega democratica», quella che passa attraverso il Parlamento. Ora Grillo spieghi la faccenda ai suoi fans. Grillini non fate i grullini. All’ombra, tutto torna. Non ho alcuna simpatia per Berlusconi Silvio, ma come si fa ad approvare Monti Mario, al servizio del sistema di potere imperante? Recita un vecchio adagio pugliese: “Dall’ e dall’ e ci tiech’ pur’ u’ metall’ ”. Tradotto: a furia di ripetere a mò di litania tutto ed il contrario di tutto, anche le cose più assurde, qualcuno finisce per crederci. Rammentate la polemica circa alcune dichiarazioni di Beppe Grillo sul governo Monti. Il comico genovese, ad un certo punto, non ha perso tempo e attraverso il suo blog ha lanciato strali striduli: «Certi giornalisti leggono il blog per affermare l’esatto contrario di quello che scrivo. È il loro mestiere. Io ho detto in un incontro pubblico, in una libreria, che «Monti è una brava persona», una frase che è stata trasformata in un appoggio incondizionato al Governo (alla Bersani style per intenderci). Ho detto che Monti deve fare tre cose: cambiare la legge elettorale, risolvere i conflitti di interesse e bloccare l’aumento del debito. E anche che deve dare ascolto ai movimenti. Lo farà? Ne dubito, ma se lo facesse non potrei criticarlo per questo. Ho anche detto che chiunque può fare meglio del precedente governo. Oggi voglio fare il portavoce di me stesso e inviare un messaggio ad alcuni giornalisti: «Andate a fanculo». Per favore, non travisatelo. Ps: Non ho rilasciato alcuna intervista al settimanale Oggi». Ci vuole una faccia di bronzo, meglio, di tolla. Eppure il newsmagazine RCS numero 51 pubblicato il 21 dicembre 2011 riporta testualmente 4 pagine di un’intervista a Grillo. L’audio è sul sito web della rivista. Il “servizio” è intitolato «Io vi dico: Monti non è male». Tra l’altro a pagina 38 il giornalista intervistatore (Roberto Alessi) pone la seguente domanda: «Abbiamo un governo tecnico. Sarebbe stato meglio andare alle elezioni?». Risponde Grillo: «Io credo che ora questo Paese abbia bisogno di persone credibili, come lo è Monti, per traghettare questo paese alle elezioni del 2013, cambiando la legge elettorale, il conflitto di interessi e bloccare il debito. Non ha ini-
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ziato male, io non mi permetto di dare un giudizio negativo su di lui…». Insomma: Beppe Grillo appoggia il governo Monti, con parole inequivocabili. Ho chiesto un chiarimento personale al predicatore web, ma non risponde. Il guru ligure si iscrive così, di fatto, come ultima ruota del carro, alla maggioranza politica di governo. Al fianco dello “Psiconano”, del “Pidimenoelle”, e di tutti i partiti unti e defunti. E vi si iscrive non nel momento dell’euforia postberlusconiana, del voto di fiducia di mister Di Pietro, dell’apertura di Nichi Vendola. No, vi si iscrive nel momento del massimo disincanto popolare, quando la manovra lacrime e sangue del governo eterodiretto dallo “Zio Sam” colpisce le pensioni da fame, aumenta la benzina, bastona la prima casa, colpisce i diritti di chi lavora, annienta la speranza dei giovani e di chi ha perso il lavoro. Uno si chiede: ma Grillo ci è, oppure ci fa? A quanto pare, per Grillo, vale la prima e la seconda ipotesi che ho pronunciato. È il suo mestiere di comico-affarista: in effetti la battuta sul Monti nemico del conflitto di interessi dopo che ha assegnato a Banca Intesa tutte le leve dell’economia, sbaraglia, quanto a comicità, ogni possibile concorrenza di Crozza. A conti fatti, chi è Grillo? Un ricco borghese, che non può comprendere cosa significa la manovra Monti per la “povera gente”: persone in carne e ossa che non raggiungono la fine del mese. Lavorare più anni per prendere una misera pensione, aggiungere al mutuo la tassa sulla prima casa (la fregatura è nell’acronimo Imu), sommare un insostenibile prezzo del carburante ad una nuova addizionale Irpef, riguarda milioni di lavoratori (compresi cassintegrati e disoccupati, immolati oggi come ieri sull’altare del capitalismo e della sua crisi). Ma non riguarda il ricchissimo, in denaro sonante s’intende, Beppe Grillo, né il suo business aziendale, né la sua concezione del Belpaese. A lui interessa che Monti vada avanti con la macelleria antipopolare sino al 2013, quando il Movimento 5 Stelle avrà pronte le proprie liste. Naturalmente di “Opposizione” tra virgolette. Ma “opposizione” a chi? Ai partiti, risponde sicuro il grillo straziante. Ma i partiti non sostengono forse il governo Monti, al pari di Beppe Grillo? «Monti è una persona credibile» afferma Grillo. Ha ragione. È infinitamente più credibile Monti per banchieri e industriali, di quanto lo sia Grillo per lavoratori, inoccupati e pensionati. Senza distinzioni tra realtà e palcoscenico, tanto per alimentare il caos. Qualche brindisi di troppo
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ha dato alla testa? La parabola comica è in vertiginosa picchiata. In campagna elettorale, a Palermo, Beppe Grillo elogia la mafia come un ministro Lunardi qualsiasi. Eppure, anche lui, alla stregua di Giulio Andreotti prescritto per associazione mafiosa, ce l’ha eccome una scatola nera. Certo, di altra natura etipologia. Per sostenere il candidato sindaco Riccardo Nuti, infatti, l’ex ragioniere ligure, condannato con sentenza passato in giudicato per un duplice omicidio, sbotta: «La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la propria vittima». Parole che hanno scatenato una polemica proprio tra i familiari delle vittime e di tutti quelli che da sempre si battono contro le mafie istituzionali e non. «Grillo parla come un mafioso senza essere nemmeno originale. Gli stessi argomenti prima di lui li hanno già utilizzati Vito Ciancimino e Tano Badalamenti. E come l’ultimo dei mafiosi non ha nemmeno il coraggio di confrontarsi pubblicamente sulle sue patetiche provocazioni» afferma Claudio Fava, figlio del mitico Beppe Fava, il giornalista assassinato da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984. «Grillo parla come un mafioso. Affermando che lo Stato è peggio di Cosa nostra, Grillo non solo si pone sullo stesso livello culturale che porta a legittimare la “mafia buona” in opposizione alle “istituzioni cattive”, ma soprattutto offende la memoria di tutti quei servitori dello Stato che sono morti per sconfiggere Cosa nostra» ha replicato Massimiliano Lombardo del Pd. «Grillo — ha aggiunto l’esponente politico — dovrebbe leggere un pò di storia e informarsi meglio, magari ripassando la grande lezione di Pio La Torre. La mafia non solo strozza le proprie vittime con il pizzo, ma è un cancro dell’economia che sottrae risorse all’imprenditoria sana, uccidendola. Un conto è criticare la politica, un altro è delegittimare lo Stato e tutti quegli uomini delle istituzioni che rappresentano il più alto baluardo contro la mafia». Anche Angela Ogliastro, sorella di Serafino Ogliastro, un ex poliziotto ucciso dalla cosca di Brancaccio nel ‘91 con il metodo della “lupara bianca’’, non si è trattenuta e ha così dichiarato: «Le parole di Beppe Grillo, che ieri a Palermo ha detto che la mafia non strangola i suoi clienti limitandosi a prendere il pizzo, sono un’offesa nei confronti di tutti i familiari delle vittime di Cosa Nostra e un insulto al lavoro svolto in questi anni dai magistrati e dalle forze dell’ordine». «Io e i miei geni-
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tori — spiega la sorella dell’ex poliziotto — non abbiamo nemmeno il corpo di Serafino da potere piangere. Come si permette Grillo a fare l’elogio della mafia in una città che gronda sangue di vittime innocenti?». Del delitto Ogliastro si è autoaccusato il pentito Salvatore Grigoli: nel processo che riguarda decine di omicidi di mafia la famiglia Ogliastro è stata l’unica a costituirsi parte civile. «Grillo dice che la mafia non ha mai strangolato i suoi clienti limitandosi a prendere il pizzo? Forse dimentica che ha anche ucciso le persone che il pizzo non hanno voluto pagarlo». Pina Maisano, vedova di Libero Grassi, l’imprenditore assassinato da Cosa Nostra per essersi ribellato al racket delle estorsioni, è sconcertata quando apprende delle dichiarazioni pronunciate dal comico genovese. «Per fortuna non avevo ancora letto i giornali, altrimenti mi sarei sentita male», ha riferito all’ANSA aggiungendo di «condividere pienamente il coro di proteste che si è levato dai familiari di vittime della mafia». «Inizialmente — spiega — provavo una certa simpatia per Grillo. Adesso mi sembra solo un populista che cerca di cavalcare l’avversione della gente verso i partiti». Pina Maisano, che è stata anche parlamentare dei Verdi ed ha condotto numerose battaglie civili, contesta anche l’antipolitica di Grillo: «La politica è la cura della Polis, la difesa dell’interesse dei cittadini. Insomma è qualcosa di nobile. Se la mafia uccide le persone, la corruzione e la cattiva politica uccidono il Paese. Io personalmente non ho ricette, ma quello di Grillo mi sembra davvero un modo di fare politica pressappochista e superficiale». Qualcuno usa l’ironia: «Don Beppe, Vossia ha ragione. La mafia è solo un’invenzione dei giornalisti. Non esiste. È lo Stato il vero assassino». Così la coordinatrice nazionale dei club di Grande Sud, Costanza Castello. «Mi perdoni una vastasata, però. Ma Libero Grassi — aggiunge l’esponente del movimento arancione —, Raffaele Granata, Rocco Gatto, Fortunato Furore, Antonio Longo, Giuseppe Falanga, Raffaele Pastore, Antonino Buscemi, Salvatore Bennici, Giorgio Villan, Nicola Ciuffreda, Francesco Pepi, Luigi Staiano, Antonino Vicari, Luigi Gravina, Rocco Gatto e tanti altri non furono ammazzati dallo Stato ma da amici degli amici perché non pagavano il pizzo. Vossia deve stare accorto — prosegue — non è che dicendo quelle cose che ha detto ieri, poi, qualche cane di mannara se ne esce con: ‘Grillo viene a Palermo per uccidere di nuovo chi è stato vittima della mafia’, op-
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pure ‘Grillo è un killer di memorie’. Uomo avvisato, mezzo salvato, don Beppe». Beppe Grillo torna ad attaccare i partiti, ma non dice nulla di nuovo, perchè già nel luglio del 1981 Enrico Berlinguer, nella famosa intervista concessa ad Eugenio Scalfari, aveva sentenziato la loro fine. Che c’azzecca? Siamo in guerra: è il titolo del testo pubblicizzato nella predetta intervista al settimanale OGGI, a firma anche di Gianroberto Casaleggio (già webmaster del Tonino nazionale). Comunque, c’è un altro testo che mi ha colpito: Gaia Terra. 21 testimonianze d’autore. Nel blog di Sonia Toni (prima moglie di Grillo) è reclamizzato il sinistro buonismo, politicamente corretto: «In questo libro, introdotto da Gianluca Ferrara, la giornalista Sonia Toni ha raccolto le testimonianze di personaggi della cultura, dello spettacolo e della politica (Beppe Grillo, Don Luigi Ciotti, Marco Columbro, Luciano Ligabue, Antonio di Pietro, Dario Fo, eccetera) uniti da un obiettivo comune che è quello della salvaguardia dell’ambiente e del bene comune. Un libro indispensabile nel suo genere, che rappresenta un punto di riferimento per chi crede che uno stile di vita sostenibile sia l’unico possibile se si ha cuore la nostra salute e quella del pianeta che ci ospita. “Un libro che raccoglie testimonianze di grande prestigio, un bellissimo libro” da Striscia la Notizia». Che strano: Di Pietro arruolato tra gli ecologisti. Vi racconto in breve un aneddoto. Correva l’anno 2009, precisamente il 12 dicembre, a Palermo: un’occasione pubblica per ricordare Paolo Borsellino. Salvatore, il fratello del magistrato assassinato dallo Stato italiano (con la complicità di Cosa nostra) mi chiese di fare un intervento assolutamente non programmato. Parlai a braccio per un pò ad una vasta platea in piedi. Accanto a me sedevano, tra l’altro, Di Pietro, De Magistris, Sonia Alfano, Beppe Lumia ed altri politicanti della prima ed ultima ora. In quell’occasione raccontai dell’inchiesta in corso sulle “navi dei veleni”: sulla strage silenziosa in atto nei mari italiani che colpisce direttamente la nostra esistenza. Qualche magistrato prese appunti, nulla più. Tutti questi personaggi in cerca di prebende facili e poltrone a buon mercato sostengono di avere a cuore le sorti dell’Italia, ma nessuno di loro a tutt’oggi ha mosso un dito, almeno per sfiorare il fenomeno. Anzi, proprio il parlamentare De Magistris in sede europea ha votato a favore del nucleare. Miss Alfano, invece, va a braccetto con Forza Nuova. Alfano e De Magistris sono stati pu-
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pilli di Beppe Grillo o no? Non sono Grillo e Di Pietro in carne e ossa, ad aver sponsorizzato e sostenuto la loro campagna elettorale? Di Pietro prima di aprir bocca dovrebbe quantomeno restituire il miliardario rimborso elettorale, apprendere la sintassi italiana e dare un taglio netto con le giravolte. Di certo per tanti sinceri grillini e dipietrini che avevano creduto ai loro Guru si preparano giorni amari. E siamo solo all’inizio. Buona fortuna. Posto fisso vicino a mammà? Macché. Una ricerca della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro certifica che i giovani italiani sono bamboccioni per necessità. Ben l’88 per cento, infatti, non pone alcun limite geografico alla ricerca del lavoro. Benone: vediamo che cosa fanno i figli di papà e mammà dei governanti. La primogenita della Fornero ha ben due lavori, uno dei quali nell’ateneo dei protettivi genitori. Il figlio del ministro Cancellieri (tal Peluso) a 42 anni, dopo essere stato super-manager di Unicredit, è diventato d.g. di FonSai. E il pargoletto del premier si diletta di certo e, grazie alla posizione privilegiata del paparino, passa da una mega-banca all’altra. Familismo amorale? Banfield c’entra. Insomma, il maggiordomo dell’Alta finanza e i ministri predicano bene e razzolano male. Il nostro attuale Primo Ministro — imposto dal sistema di potere dominante ma non eletto dal Popolo Italiano, e quindi privo di legittimità — che, dall’alto del suo “conquistato” budget mensile che ammonta a più di 40 mila euro, chiosa in una nota trasmissione televisiva (Mediaset) che «per i giovani il posto fisso è una noia e che è molto bello e stimolante cambiare lavoro». Ma da quale pulpito. Il professor Monti, alla luce delle sue dichiarazioni, si presenta come l’individuo più annoiato del mondo, dal momento che nel corso della sua vita ha sempre “sofferto” della condanna di un posto fisso e non contento di ciò, ha “condannato” a questa sorte anche membri della sua famiglia. Risulta, infatti, che il figlio del Premier non è alla eccitante ricerca di un posto di lavoro per sbarcare il lunario ma, al contrario, risulta piacevolmente impegnato ed annoiato a saltare da una poltrona ad un’altra fin dalla tenera età di 25 anni dopo laurea conseguita, ovviamente alla Bocconi: tutt’altro che uno sfigato. Le poltrone occupate dal rampollo Monti sono di tutto rilievo; sul noto sito Linkedin fino a qualche mese addietro si poteva leggere il curriculum e gli attuali impegni lavorativi di Giovanni Monti, di anni 39 figlio
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di Mario Monti. Oggi questa informazione risulta improvvisamente cancellata. Comunque, per tranquillizzare chi non ha avuto la fortuna di leggerlo, si rileva che il dottore Monti figlio non occupa posti in catena di montaggio o come commesso, impiegato di banca o contabile, ma si annoia da presidente o vicepresidente in multinazionali italiane ed estere del calibro, solo per citarne un paio, di Citigroup o di Morgan Stanley. A ben vedere il “ragazzo annoiato” risulta imparentato anche con diverse investment banks e i suoi rapporti d’affari sono intrecciati nell’alta finanza internazionale come, per il resto, tradizione di famiglia (al soldo dei potentati Usa). Ma sembra che la noia in certi ambienti sia una malattia contagiosa che colpisce prevalentemente la categoria dei politicanti con o senza incarichi di governo. Solo per restare nell’ambito del Governo Monti un’altra annoiata illustre è la dottoressa Silvia Deaglio, ricercatrice in genetica medica e professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino, dove insegna anche il padre Mario Deaglio, già direttore de Il Sole 24 Ore, marito e collega della professorona Elsa Fornero (quella che vuole licenziare anche gli statali), docente dello stesso ateneo: insomma un altro caso di “annoiamento” acuto. Ma, si sa, le disgrazie non vengono mai da sole, e così la dottoressa Deaglio è anche casualmente diventata responsabile di una unità di ricerca internazionale — sarebbe interessante vedere con quali risultati — assegnatale dalla HuGeF, fondazione che ha come scopo “la ricerca di eccellenza e la formazione avanzata nel campo della genetica, genomica e proteomica umana”. Per la cronaca e per chi vuol sapere, la HuGeF è un’istituzione creata e finanziata dal Politecnico di Torino, dall’Università di Torino e dalla Compagnia di San Paolo, ente del quale la Fornero è stata vicepresidente dal 2008 al 2010 e per conto della quale è stata designata alla vicepresidenza della Banca Intesa, carica lasciata solo dopo aver ricevuto la nomina ministeriale. Va da sé che la Fornero ed il marito insegnano alla Facoltà di Economia dell’Università di Torino. Viene spontaneo rivolgersi a queste famiglie di geni, evidentemente annoiati, per dire loro che «in tutta sincerità, sono contento per questi ragazzi e per i giovani appartenenti alle vostre famiglie, ma queste realtà abusive non fanno testo nello scenario della disoccupazione selvaggia che affligge il nostro Paese, anzi lo offendono, mortificando i giovani che sono culturalmente
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uguali e preparati come i vostri figli, che non possono annoiarsi perché non hanno una appartenenza illustre e sono troppo impegnati a “sopravvivere” e cercare un posto di lavoro qualunque. Parliamo degli stessi giovani che, grazie a questa politica, sono costretti a vivere in un Belpaese dove si riscontra uno dei tassi di disoccupazione giovanile più elevato di Europa. Tuttavia vorrei aggiungere che la filosofia d’accatto del professor Monti potrebbe andare ancora bene in una realtà sociale e lavorativa dove ci si licenzia per un posto migliore, o dove la meritocrazia esiste e fa la differenza e dove risulta normale, dunque, passare da un lavoro ad un altro costruendo ed arricchendo il proprio curriculum. Cari super tecnici, Primo Ministro Monti, vi dico che questo accade solo nel mondo dorato della vostra casta e che nella vita reale, quella che voi dimostrate di non comprendere, le cose funzionano in modo molto diverso. Nella vita normale tutti i disoccupati giovanili, che sono moltissimi, sarebbero felici di annoiarsi così come si “annoiano” i vostri figli. Comunque più si scende, o si sale, nella graduatoria dei figli illustri annoiati, più si scopre che i quozienti intellettivi appaiono direttamente proporzionali alla carriera politico-economica dei padri o delle madri, o alla storia delle famiglie di appartenenza. Mal si comprende come mai non si riesca a trovare un/una figlio/figlia di ministro, Deputato, Onorevole o appartenente alla casta che sia disoccupato o operaio alla Fiat in catena di montaggio o precario o a fare la fila in qualche Ufficio per l’Occupazione per un sussidio. Ma in fondo che male c’è a volere pensare al bene dei figli o a quello personale: basta una telefonata, portare un cognome illustre, perché tutte le porte si aprano magicamente e le cose accadano così, da sole, all’insaputa degli stessi interessati: ci si ritrova ad avere una cattedra Universitaria o una presidenza di una banca, così senza averlo chiesto e senza saperne nulla, ci si ritrova dentro una bella casa vicino al Colosseo a Roma e ci si chiede “ma come mai?”. Ci si accorge che qualcuno ha pagato le nostre vacanze e si pensa di avere vinto una lotteria, sempre senza saperne nulla. E cosa dire del Ministro Cancellieri, detta “lady di ferro”, che minaccia di applicare misure repressive ai movimenti che protestano cercando anche di delegittimarli sul piano della credibilità, affermando che gli stessi sono infiltrati dal potere mafioso? E così quotidianamente assistiamo al teatrino della politica sempre più di-
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stante dalla gente comune (maggioranza silenziosa): le dichiarazioni e le tasse di Monti, le sparate di Martone, le lacrime della Fornero in diretta televisiva, forse versate perché commossa dal colpo di fortuna giunto inaspettato, dal momento che mai nella sua vita avrebbe osato pensare di diventare Ministro così senza saperlo e senza averlo chiesto; e assistiamo con rassegnazione alle numerose apparizioni da divo televisivo del Premier che, “annoiatissimo”, dall’alto dei suoi innumerevoli posti fissi, e afflitto dalla pesantezza dei suoi innominabili guadagni, tartassa il popolo ridotto alla disperazione e assolve miracolosamente, anzi premia, le padrone banche, le compagnie televisive, le assicurazioni ed il sistema dell’alta finanza internazionale di cui fa parte attiva. Dulcis in fundo: la censura totale. La libertà di pensiero non è gradita a chi detiene il potere per conto terzi. Ora tocca al web italiota: la democrazia va annichilita per sempre, tanto la popolazione italiana non reagirà mai, avranno pensato i soliti boiardi di Stato. Al totalitarismo soft del terzo millennio imposto da un potere straniero in salsetta tricolore non basta controllare le leve dell’economia, le forze armate, la stragrande maggioranza degli organi di informazione o ricattare i morenti partiti. Adesso che iniziano a manifestarsi i veri effetti delle manovre governative, ovvero fallimenti di massa e suicidi a catena, spunta fuori la proposta ministeriale di Paola Severino: una regolamentazione per i diari liberi che navigano su internet. Niente di nuovo: ci aveva già provato il piduista di Arcore, con tessera 1816 rilasciata dalla loggia P 2 di Eugenio Cefis (il mandante degli omicidi Mattei, De Mauro e Pasolini). Lo ha annunciato proprio il ministro della Giustizia, non eletta democraticamente, ma imposta con un golpe presidenziale — in barba alla Costituzione repubblicana e alla sovranità popolare — intervenendo al Festival del giornalismo di Perugia, evento già sponsorizzato dall’Enel con tanto di propaganda nuclearista. Nessun giornalista di fama ha reagito: l’atonia intellettuale è più che completa. «Il cittadino ha il diritto di interloquire con un altro cittadino — ha detto il guardasigilli abusivo — ma lo deve fare seguendo le regole: credo che questo sia un dovere di tutti, anche di chi scrive su un blog. Il fatto di scrivere su un blog — ha aggiunto — non ti autorizza a scrivere qualunque cosa, soprattutto se stai trattando di diritti di altri. Ricordiamoci che i diritti di ciascuno
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di noi sono limitati dai diritti degli altri, io non posso intaccare il diritto di un’altra persona solo perché sono lasciato libero di esprimermi». Sui blog, in particolare, Severino ha sottolineato come «il problema non è vederli con sfavore ma reprimere gli abusi che vengono fatti, anche se su internet è più difficile. Non c’è un preconcetto — ha ribadito — ma questo mondo va regolamentato altrimenti si finisce nell’arbitrio». L’autentico problema italiano, almeno per il ministro, è quello di reprimere i cosiddetti e presunti abusi. «Il giornale — ha detto la Severino — ha una sua consistenza cartacea. Il giornalista è individuabile e l’editore anche ed è dunque possibile intervenire. Il blog ha invece una diffusione assolutamente non controllata e non controllabile. È in grado di provocare dei danni estremamente più diffusi. Ecco perché bisogna vederne anche la parte oscura. È un fenomeno certamente positivo per certi aspetti ma nel quale si possono annidare anche cose negative (può essere un punto criminogeno). Questo mondo va regolamentato e pur nella spontaneità che ne rappresenta la caratteristica non può trasformarsi in arbitrio. Mi devo sentire libero di scrivere e i blog hanno questa grandissima capacità di diffondere il pensiero in tempo reale, un grandissimo pregio che riconosco. Ma questo non deve far trasformare la libertà in arbitrio. Questa è una regola che tutti dovrebbero seguire». Del resto «è molto difficile configurare un obbligo di rettifica per i blog». Secondo l’avvocato Severino «è nelle fasi interlocutorie delle indagini che più di frequente avviene la comunicazione e la diffusione della notizia». La selezione spetta quindi, secondo il ministro, al pubblico ministero o al giudice, a seconda dei momenti. «L’idea di base è lasciare al magistrato il compito di escludere le notizie che non sono rilevanti e attengono esclusivamente alla sfera personale delle persone interessate dal provvedimento, anche in quelle fasi nelle quali il provvedimento stesso viene consegnato alle parti» ha spiegato. In pratica quella cui sta pensando il ministro è una regolamentazione imperniata su tre cardini. Primo fra tutti la libertà della magistratura di secretare informazioni che metterebbero in crisi le indagini e allo stesso momento «salvaguardare la sfera personale». Perché, sostiene il ministro non è utile, neppure ai giudici, che si divulghino elementi non riconducibili alle indagini. I tre punti sono: «il dirittodovere del giornalista di informare su fatti che hanno una rilevanza
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sociale, quello del magistrato di portare avanti le proprie indagini con una tutela della riservatezza indispensabile in alcune fasi e infine il diritto del cittadino, anche sotto indagine, di vedere pubblicate notizie che attengano all’inchiesta ma non esclusivamente alla sua vita privata e anche di non vedere sui mezzi d’informazione contenuti di intercettazioni non rilevanti per il procedimento». Insomma, in questa ottica, dopo la sentenza decalogo della Cassazione, saranno i magistrati a stabilire come e cosa scrivere o raccontare. «I blog possono fare più danni dei giornali», ha detto Severino, accennando a una regolamentazione in sede di Unione europea per evitare che i provider si possano trasferire in Paesi dove le maglie della legge sono più larghe. «Il cittadino ha il diritto di interloquire con un altro. Ma deve seguire le regole», ha concluso la Severino. Sarebbe invece opportuno introdurre nel codice penale un nuovo reato: ossia l’ostacolo alla libera informazione. Una norma positiva per rafforzare la difesa di un diritto sancito dalla Costituzione e dalla carta fondamentali dei diritti europei. Scusi ministro. Ma lei sa che i diari pubblici sulla Rete sono fondamentali per la circolazione delle notizie, del pensiero e della cultura? Non c’è bisogno di leggi restrittive perché le norme attuali già sono sufficienti contro la diffamazione e la circolazione di notizie false. I blog sono un esempio di libertà, un fenomeno culturale e informativo da coltivare e sostenere, non certo da controllare o imbavagliare. I blogger sono una risorsa, i problemi dell’informazione sono ben altri. Sereni e sorridenti e spensierati. Ridere senza pensare: è l’imperativo categorico. Ci vogliono come tifosi lobotomizzati, mentre ingiustizia, corruzione e mafie statali imperversano. Al popolo italiano vengono tenute nascoste verità inconfessabili, ad esempio la presenza sul suolo nazionale di centinaia di ordigni atomici targati USA, in violazione del “Trattato internazionale di non proliferazione nucleare” (TNP). Per la cronaca: in Parlamento giace dal 4 ottobre 2010 una scottante interrogazione parlamentare (numero 4-08890) indirizzata da ben sei deputati radicali (prima firmataria Elisabetta Zamparutti) al presidente del consiglio, ed inoltre, ai ministri di interno, ambiente e sviluppo economico. Nonostante ben 11 solleciti, l’ultimo il 15 febbraio scorso, sia il governo Berlusconi sia quello Monti non
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hanno trovato ancora il tempo di fornire una benché minima risposta. Eppure il tema, di rovente attualità, tocca la sicurezza dello Stato nonché la mafia. Di che si tratta? Semplice: il parziale smantellamento della centrale nucleare di Caorso, affidato dalla Sogin, cioè dallo Stato italiano, alla società Eco Ge di Genova che, secondo alcuni rapporti della Direzione Investigativa Antimafia, è organica alla ‘ndrangheta. La ditta risulta amministrata da Ines Capuana, moglie di Gino Mamone (recentemente condannato dal Tribunale di Genova a tre anni di reclusione). Al popolo italiano vengono tenute nascoste da più di mezzo secolo questioni essenziali. Per dirla con il grande presidente Sandro Pertini: «Libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile». A quando la concretezza di una nuova resistenza che salvaguardi le libertà e i diritti fondamentali? L’Italia, come abbastanza noto, è al 75° posto della classifica mondiale della libertà d’informazione. Vogliono farci retrocedere all’ultimo gradino planetario con tanto di decreto governativo? Il peggio, forse deve ancora arrivare: il Parlamento è stato già platealmente esautorato da ogni facoltà. Ci vogliono sudditi, non cittadini e così tentano di privarci anche della libertà d’opinione. Il Pentagono - a cui fa comodo questa ignoranza diffusa in materia, un pò come alla chiesa cattolica nel Medioevo - ha affidato ad un pool di 11 generali ed ammiragli in pensione, un rapporto con la conclusione che “il riscaldamento globale della Terra costituisce una sfida per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Nel marzo 2007 l’U.S. Army War College aveva tenuto un seminario di due giorni presso l’Istituto Triangle per gli studi sulla sicurezza dal titolo “Implicazioni del cambiamento climatico per la sicurezza nazionale”. Nel rapporto si rileva tra l’altro, che l’oro blu sarà un problema cruciale, perché circa la metà dell’acqua potabile consumata quotidianamente dal 40 per cento della popolazione mondiale è ricavata dallo scioglimento estivo dei ghiacciai di montagna, che si stanno rapidamente esaurendo. Inoltre, il riscaldamento globale potrebbe destabilizzare gli Stati africani e asiatici più vulnerabili, innescando un’emigrazione di massa verso i paesi più ricchi “e può agire da minaccioso fattore di aggravamento dell’instabilità di alcune regioni più instabili del mondo”. Uno scenario predisposto dal ministero britannico della Difesa e pubblicato dal Guardian, indica in 90 pagine, un rapporto che, oltre alla citata scesa competitiva
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della Cina e dell’India e ai mutamenti climatici e ambientali, prevede per il 2037: «Microchip impiantati direttamente nel cervello renderanno possibili a Stati, terroristi e gruppi criminali di avere informazioni in tempo reale e di muovere attacchi eludendo i controlli. Sul terreno sociale la distanza sempre tra i pochi super ricchi e il resto della popolazione, destinata a diventare sempre più povera e a vivere in periferie urbane sempre più disperate, porterà la classe media che ha accesso alla conoscenza e alla tecnologia a lottare per affermare i propri interessi e a combattere le diseguaglianze». Il dottor John Dylan Haynes del Max Planck Institute, sostiene che “è possibile entrare nel cervello di una persona e anticiparne le mosse”. Non a caso, da un lustro sta compiendo esperimenti in proposito (Le Monde del 7 maggio 2007). Il profitto della Corporation si è trasformato in un enorme potere economico, strutturalmente oligarchico ed in contrasto con il principio di legittimità che almeno formalmente regge le società occidentali, quello della sovranità popolare. La libertà di informazione è vitale per la democrazia rappresentativa. Se le guerre imperiali, pur a bassa intensità, la mettono in discussione, il termine consenso assume un significato diverso da quello abituale: sul piano internazionale è determinato dalla forza dell’impero, sul piano interno dalla sua reticenza. Il nodo cruciale è il rapporto tra democrazia rappresentativa e potere militare (crescente) che si reggono su principi diversi: su libertà e controllo pubblico la prima; su disciplina e gerarchia il secondo. Il vittorioso generale Eisenhower, presidente uscente dopo 8 anni, lasciava la carica mettendo in guardia il popolo nord-americano dal “potere militare industriale”, che avrebbe potuto insidiare la democrazia, in seguito effettivamente incrinata. E’ in questa situazione che si collocano i rapporti tra potere politico e potere militare, tra governo visibile e governo invisibile. Le democrazie occidentali attualmente corrono il rischio di uno svuotamento che possa comportare un mantenimento solo apparente di forme democratiche. La libertà non è una conquista data per sempre: si assottiglia per tutti e infine svanisce, se non viene difesa. Vi basta la possibilità di consumare merci per sopravvivere felici e contenti? Singolari coincidenze? Solo in Italia la realtà supera la fantascienza. Dopo l’attentato di Brindisi ed il terremoto stragistico in Emilia Romagna è imminente la guerra all’Iran? Cos’altro ci vuole a persuade-
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re i recalcitranti? Diamo un’occhiata all’ultima trovata. «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni»: è il titolo della recente legge dello Stato italiano, numero 56, promulgata l’11 maggio 2012 e passata inosservata alla gran massa dell’opinione pubblica. Strano. In calce reca la firma del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del Primo Ministro non eletto dal popolo tricolore. Il proponente è proprio il maggiordomo dell’alta finanza speculativa a cui mancavano i super poteri. Il Premier abusivo recentemente volato in Usa a prendere nuovi ordini - precisamente il 9 marzo scorso aveva indicato tale auto-attribuzione (mediante il Decreto-legge 21) giustificata dalla «straordinaria necessità ed urgenza». Il Parlamento ha approvato all’unanimità: infatti al Senato i contrari risultano zero, mentre i favorevoli 246 (20 gli astenuti). Alla Camera, infine, hanno votato a favore ben 401 deputati (42 contrari e 2 astenuti). Quali saranno i criteri d’esercizio di tali poteri speciali? L’esercizio del golden share è lo specchietto per le allodole. C’è ben altro: l’arbitrarietà del concetto di minaccia effettiva. Ovvero di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. Chi attenta all’Italia? E’ un pretesto per restringere ulteriormente la sbandierata libertà (di impresa) in democrazia? Come mai neanche un’apertura di tg (locale) per questa clamorosa notizia? Strano che nessun impiegato della comunicazione in servizio permanente effettivo (la ditta Travaglio & Santoro) abbia detto alcunché. E Grillo, pardon Casaleggio, tace inspiegabilmente? Come mai nell’occasione Vendola non ha pontificato, visto che mette il becco su tutto, peggio del prezzemolo avariato? Latita perfino Saviano (neanche uno sfondo su Repubblica). E Fabio Fazio che balbettava dinanzi a Ligabue che aveva accennato alla scie chimiche? Che peccato: un’occasione bruciata per dirne quattro allo Zio Sam. Caos programmato dall’Intelligence Usa alle porte. Una domanda spontanea. A parte il Memorandum bellico stipulato fra Italia ed Israele (siglato da Berlusconi), perché le forze militari del Belpaese si sono esercitate recentemente nel deserto del Negev? E’ davvero singolare che il Regolamento dell’Unione europea (264) concerne «misure restrittive nei confronti di determinate persone, entità e organismi
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in considerazione della situazione in Iran» (Gazzetta Ufficiale, serie speciale Unione Europea, numero 41 del 24 maggio 2012). Forse andrebbe letto alla luce del Trattato di Lisbona e del Trattato sull’Ue, che assoggettano il Vecchio Continente in termini militati alla Nato? Così sia: Guerra infinita. Amen. Barack Obama in persona il 16 marzo scorso ha siglato un ordine esecutivo che potrebbe conferirgli il potere di istituire la legge marziale negli Stati Uniti d’America in tempo di pace. L’atto - denominato “Preparazione Nazionale Risorse per la Difesa” - è visibile sul sito ufficiale della Casa Bianca. Dopo la firma dell’HR 347 ( “Trespass bill”) e l’ancora più terrificante National Defense Authorization Act (legge di autorizzazione sulla Difesa Nazionale), che permette al presidente di detenere e torturare cittadini americani senza un giusto processo. Insomma, giochi da Premio Nobel. E’ solo una questione di tempo prima che un grande “attacco terroristico” - orchestrato come al solito dall’Intelligence - venga messo in atto in una nazione occidentale. E quando avverrà, ci sarà una forte scossa in tutto il mondo, anzi un panico di massa globale. Verrebbe introdotta una legge marziale economica. Posta in essere come misura temporanea, ma una volta realizzata rimarrà al suo posto. I diritti civili verranno sospesi e, particolarmente in America, la sicurezza Interna, già intollerabilmente intrusiva, raggiungerà un’onnipresenza orwelliana. Ci sarà bisogno di un solo evento al momento opportuno che venga sospinto dai media mainstream e si scatenerà l’inferno. Attenzione. Gli ordini esecutivi presidenziali sono già stati approvati, i campi di detenzione dei Fusion Center e quelli della FEMA sono già operativi e 20 mila soldati sono stati addestrati per intervenire brutalmente, in caso di collasso economico e rivolte popolari. In parole banali: la legge marziale è un sistema di governo che si ha quando i militari prendono il controllo della situazione. Occhio al fronte interno. «È chiaro che c’è stato un movimento continuo nella direzione dei preparativi per la legge marziale, una tendenza che è stata tanto continua, quanto inattesa» (Peter Dale Scott, “La guerra, la legge marziale e la crisi economica” in, Global Research, 23 febbraio 2011). «Non è più solo per le guerre in Afghanistan e in Iraq. Il Dipartimento della Sicurezza Nazionale è interessato ad un impianto di telecamere che possono sbirciare su quasi quattro chilometri quadrati di territorio americano (costituzional-
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mente protetto) per lunghi, lunghi periodi di tempo. La Sicurezza Nazionale non ha un particolare sistema in mente. Proprio ora, esso sta solo sollecitando la risposta dell’industria ad una formale richiesta per questo “Sistema di Sorveglianza su Vasta Area”. Ma è l’ultima indicazione di come la potente tecnologia di sorveglianza militare, sviluppata per trovare gli insorti stranieri e terroristi, stia migrando sul fronte nazionale» (Spencer Ackerman, “La Sicurezza nazionale vuole spiare su 4 Km quadrati simultaneamente” in Wired, 23 gennaio 2012). «C’è un vero e proprio, pericoloso scollamento tra gli apparati di politica estera di Washington e la maggior parte del popolo americano nel suo complesso. Penso che abbiate visto la prova di questo il 15 febbraio (2003), quando ci sono state manifestazioni di pace in oltre 300 città americane. E penso che ci sia una differenza reale tra quella che io chiamo l’oligarchia americana, che ora praticamente controlla non solo la Casa Bianca ma anche il Congresso, e la Corte Suprema e la democrazia americana» (Lewis Lapham, “L’Attacco di Lewis Lapham attack alla plutocrazia americana” Allan Gregg, 20 gennaio 2011, trasmissione originale: marzo 2003). «Quanto in basso dobbiamo affondare, Sig. Obama? Ha ritratto se stesso come un uomo d’onore e un difensore del costituzionalismo, ma ha aperto le porte alla regola dell’illegalità e dell’autoritarismo» (Philip Giraldi, “La creazione dei terroristi americani”, in The Council For The National Interest, 19 gennaio 2012). «Un perimetro della Sicurezza Nazionale del Nord America va ben al di là del tenere al sicuro la gente da eventuali minacce percepite. È un mezzo per difendere il commercio, le risorse, come pure gli interessi corporativi ed è un pretesto per il controllo del continente» (Dana Gabriel, “Il pretesto per un perimetro della Sicurezza Nazionale del Nord America” in Be Your Own Leader, 11 dicembre 2011). «Tutto il potere e la politica dell’uomo non possono mantenere un sistema molto a lungo dopo che la sua verità ha cessato di essere riconosciuta o un’istituzione molto a lungo dopo che ha cessato di contribuire al servizio pubblico. È altrettanto vano, come aspettarsi di preservare un albero, le cui radici sono state tagliate. Esso può presentarsi come verde e fiorente come prima per un breve periodo, ma la sua condanna è segnata, il suo principio di vita è perduto e la morte è già al suo interno» (Anna Letitia Barbauld, Selected Poetry & Prose, p. 275-276). Im-
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maginate che cosa farà lo Stato occidentale in uniforme ai manifestanti ed alla popolazione quando sarà dichiarata la legge marziale. Le aree di guerra mediorientale sembreranno abbastanza tranquille in confronto alle zone di guerra in occidente. Le normative dello stato di polizia - dopo gli attacchi dell’11 settembre - hanno contribuito al processo di costruzione dello stato gendarme e all’istituzione di un sistema universale di schiavitù globale. Sotto questo nuovo sistema internazionale ci sarà un’élite criminale in cima, una classe manageriale nel mezzo, e i consumatori senz’anima nella parte inferiore. Secondo lo storico Webster Tarpley, il conduttore radiofonico Alex Jones, ed altri, grandi comparti della classe media e del sottoproletariato saranno sterminati. Il lavoro sporco è stato affidato alla Sicurezza Nazionale. E’ stata istituita come una macchina extragiudiziale per uccidere e spiare. Ma le sue operazioni, sotto copertura antidemocratiche ed eugeniste, sono state nascoste dietro narrazioni false come la guerra al terrore e falsi obiettivi come la sicurezza interna. La portata tirannica della Sicurezza nazionale si è già estesa al Canada. Dana Gabriel ha evidenziato il consolidamento sul potere politico e sulle risorse naturali dei plutocrati in Nord America l’11 dicembre 2011, in un articolo intitolato, “Il pretesto per un perimetro della Sicurezza Nazionale del Nord America” : «Il 7 dicembre, il presidente Barack Obama e il primo ministro Stephen Harper hanno annunciato Sicurezza perimetrale al di là delle frontiere e piano d’azione per la competitività economica. Il nuovo accordo si concentra sulle minacce alla sicurezza, la facilitazione degli scambi, la crescita economica e l’occupazione, il rafforzamento della legge sull’integrazione transfrontaliera, nonché il miglioramento delle infrastrutture e della sicurezza informatica. Mentre l’accordo sul perimetro viene fatto passare come vitale per la sicurezza e la prosperità di canadesi e americani, c’è il piccolo dubbio che significherà un buon compromesso tra la sovranità e la sicurezza. Qualsiasi accordo che dà al Dipartimento della Sicurezza Nazionale più informazioni personali pone un grave rischio per il diritto alla privacy. Man mano che entrambi i paesi vanno avanti, la sicurezza perimetrale sarà ulteriormente definita e dominata dagli interessi americani. Questo potrebbe costringere il Canada a rispettare eventuali nuove misure di sicurezza statunitensi, indipendentemente dai pericoli che possono co-
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stituire per le libertà civili. Un perimetro della Sicurezza Nazionale del Nord America va ben al di là del tenere al sicuro la gente da eventuali minacce percepite. È un mezzo per difendere il commercio, le risorse, come pure gli interessi corporativi ed è un pretesto per il controllo del continente. In uno stato di legge marziale, dissidenti, blogger, giornalisti che si basano sui fatti, gli attivisti anti-guerra, i possessori di armi, gli attivisti di Occupy Wall Street e gli attivisti del Tea Party saranno tutti ritenuti “terroristi domestici” e portati in prigioni segrete da pedine che hanno subìto il lavaggio del cervello dello stato corporativo globale». Tom Burghardt ha scritto l’11 ottobre 2008, nel suo articolo, “Militarizzare la Patria, in risposta alla crisi politica ed economica” : «Lo spionaggio indiscriminato sugli attivisti da parte dell’ormai defunta Counter intelligence Field Activity (CIFA) del Pentagono, come pure le rivelazioni secondo cui le agenzie dello stato di polizia nel Maryland spiavano abitualmente gli organizzatori contro la guerra, condividevano queste informazioni con la National Security Agency e li classificavano come “terroristi” nei database gestiti dal governo, sono visti come mezzi esemplari per “mantenere la gentaglia in riga”- e sotto silenzio, se necessario». Una segnalazione altamente inquietante di Christopher Ketchum nel maggio giugno 2008 pubblicata di Radar Magazine, sottolineava come «il nucleo principale del database top secret legato alla pianificazione dell’eventualità di Continuità del Governo, include i dissidenti e attivisti di varie fasce, politici e manifestanti contro le tasse, avvocati e professori, editori e giornalisti, possessori di armi, clandestini, cittadini stranieri e molte altre innocue persone comuni». Il giornalista investigativo Tim Shorrock ha detto - dopo averlo appreso da una gola profonda e verificato - che quel nucleo principale è un «sistema di dati per un’emergenza di sicurezza interna’ progettato per essere utilizzato dai militari in caso di una catastrofe nazionale, una sospensione della costituzione o l’imposizione della legge marziale. ... Il suo nome deriva dal fatto che essa contiene ‘copie del ‘nucleo principale’’ o l’estratto di ciascun elemento delle informazioni di intelligence americana prodotte dall’FBI e da altre agenzie della comunità di intelligence degli Stati Uniti». Il Nord America viene già trattato dalle élite e dalle autorità di governo come un teatro di guerra. Sono state disseminate le trappole per topi: il recinto della schiavitù è stato progettato fino all’ultimo dettaglio.
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Ultima notizia utile. Rockfeller-Rothschild: matrimonio d’interesse. Fusioni finanziarie a spese del pianeta Terra e dei suoi esseri viventi. Da loro dipende il destino dell’Europa dormiente. Rothschild e Rockfeller insieme: due delle maggiori dinastie finanziarie del globo terrestre si alleano per rafforzare i loro imperi, acquistando asset da banche o da altri ipotetici venditori sotto pressione. La partnership strategica siglata, cementa l’amicizia fra il nobile inglese 76enne Lord Jacob Rothschild e il 96enne David Rockfeller, nipote di John D. Rockfeller. Con l’alleanza transatlantica i due patriarchi puntano a capitalizzare sui nomi importanti delle loro famiglie acquistando asset manager o i loro portafogli, grazie anche alle i loro contatti che gli assicurano un posto a sedere in ogni tavolo di trattative. L’accordo prevede che Rit Capital Partners, presieduta da Lord Rothschild, rilevi il 37% di Rockefeller Financial Service. «Ci conosciamo da molto tempo. Non avevamo una presenza negli Usa e questa» intesa «unisce due formidabili nomi della finanza» afferma Lord Rothschild, sottolineando che l’obiettivo della partnership è capitalizzare sulle attuali condizioni di mercato dove le banche stanno vendendo asset no-core per rafforzare il capitale. «In un momento in cui le grandi banche sono destabilizzate, ci sono anche delle occasioni. Possiamo acquistare una società di asset manager o farne crescere una. Rockfeller ha già 34 miliardi di dollari di asset sotto la propria amministrazione» spiega Lord Rothschild. «Con Lord Rothschild ci conosciamo da 50 anni. La connessione fra le nostre famiglie è forte e sono contento di poter dare il benvenuto a Jacob e Rit come azionisti e partner - afferma Rockfeller - nello sviluppo delle nostra attività». Il Club Bilderberg di questi due potentati, di cui il Primo Ministro pro tempore, Monti Mario già dipendente insieme ad altri politicanti italioti come Prodi Romano, ha sul groppone l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Date un’occhiata alle carte del processo alle Brigate Rosse. Da chi pensate fossero manipolati i terroristi d’accatto italioti? Come è noto lo statista italiano intendeva dare stabilità al suo Paese attraverso la piena occupazione, la pace industriale e politica Il compromesso storico con Enrico Berlinguer), facendo in modo che la destabilizzazione del Medio Oriente fosse più difficile da ottenere. Moro, inoltre, si opponeva alle politiche di riduzione della popolazione pianificate dal Club Bilderberg di Rockfeller.
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Capitolo nono Guerra ambientale Senza tregua. Strane scie popolano i nostri cieli con un’intensità sempre maggiore. Restano sospese per ore, si allargano e spesso riflettono colori insoliti. Il mantello chimico (“chemtrails”) aumenta e s’infittisce sempre più sconvolgendo la meteorologia naturale. Se non si vogliono indossare maschere antigas, ormai, per una boccata d’aria pura invece di salire in montagna occorre scendere in cantina. Barbe finte e disinformatori di professione rigorosamente anonimi al soldo di noti potentati minimizzano sul web con espressioni standard del tipo “innocue velature”, mentre gli esseri umani respirano metalli pesanti in caduta libera dal cielo e si ammalano. Va in onda un giorno sì e l’altro pure, la congiura del silenzio sui canali incardinati sul pensiero unico. Chi dissente è un visionario. Dispaccio d’ordinanza: non disturbare i sacerdoti stellati. Zitti, buoni e non fiatate, altrimenti si passano i guai. Il tema è un tabù per i mass media italioti e la miriade di pennivendoli al guinzaglio dei potenti di turno. Al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Difesa, al Ministro dei Trasporti, al Ministro dell’Ambiente, al Ministro del Lavoro, al Ministro della Salute. Iniziano tutte così le interrogazioni parlamentari depositate dal 2002 ad oggi, per chiedere al Governo italiano (Prodi, Berlusconi, Monti) se sa qualcosa di anomale formazioni nuvolose, rilasciate quotidianamente da aerei militari sui cieli dell’Italia. Ben 16 atti firmati da decine di deputati e senatori, ma nessuna esauriente risposta; non solo in Italia, ci sono anche quelle degli onorevoli tedeschi e olandesi indirizzate al Parlamento Europeo. Innumerevoli siti internet raccolgono le inquietudini documentate di tante persone, troppe per far finta di niente: da chi dimora in montagna a chi vive sul livello del mare. Tanti col naso all’insù a rimasticare un’unica domanda. Perché le scie degli aerei un tempo svanivano con il vento, mentre adesso persistono per ore? Le ipotesi alimentano una nutrita letteratura: infatti passano dal verosimile al bizzarro, ma tutte sostengono, sulle basi di prove oculari (filmate e fotografate), che «le scie chimiche nebulizzate dagli aerei siano un espediente bellico per il rilascio programmato di sostanze destinate all’ambiente oppure direttamente al genere umano: molecole per influenzare la piovosità o modificare il clima». Negli interventi parla-
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mentari i firmatari bipartisan sospettano di ricerche militari per confondere i radar e manipolare le mappe metereologiche. In una rara risposta del ministro della difesa Ignazio La Russa, datata 2008, si legge che «dall’esame delle letteratura scientifica internazionale non è possibile confermare l’esistenza delle cosiddette scie chimiche» e si aggiunge che «l’Aeronautica militare non ha in dotazione aeromobili adibiti allo spargimento di sostanze chimiche». Il Ministero della Guerra, insomma, fa spallucce, premettendo che «l’argomento non investe profili di esclusiva competenza della Difesa» e che, per quanto ne sa, «il fenomeno delle scie si riferisce alla condensazione di vapore acqueo che normalmente viene rilasciato dai motori a combustione interna». Per la soluzione che metta fine al mistero delle scie, quindi, sarebbe necessario autorizzare approfonditi campionamenti in alta quota, affidati ad organismi scientifici super partes. Il Governo tricolore si deciderà a commissionarli? Ecco la sfida dei cittadini: dateci le prove che non esistono. Gran parte dei siti internet specializzati nell’incandescente materia non hanno dubbi: «Le scie che noi segnaliamo come anomale non seguono le leggi della fisica che determinano la formazione e l’eventuale esistenza delle normali scie di condensazione degli aerei. Inizialmente avevamo pensato che fossero dovute all’aumento del traffico aereo civile che cresce del 5 per cento ogni anno, ma poi l’Ente nazionale aviazione civile (Enac) ha smentito che il fenomeno fosse a loro imputabile. Effettivamente tali scie sono visibili anche in spazi aerei non adibiti a traffico civile. Inoltre, mentre le scie di condensazione sono corte e si dissolvono velocemente, le scie da noi segnalate sono sia corte che lunghe, a volte si espandono a volte no, possono essere segmentate. Le risposte più plausibili ci appaiono quelle relative al tentativo di controllare il clima con l’applicazione della geo-ingegneria. Esistono brevetti e documenti ufficiali dove viene menzionata l’irrorazione aerea di specifiche sostanze chimiche come mezzo di modificazione climatica; esiste un sistema di antenne chiamato Haarp, il quale ha ufficialmente lo scopo di studiare la ionosfera ma che è considerato un’arma militare sia dal Parlamento europeo che da quello russo; esistono brevetti in grado di correlare Haarp con lo spargimento di sostanze chimiche in atmosfera. I tentativi di controllare il clima sono iniziati negli anni ’40: oggi esiste la tecnologia per farlo; esisto-
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no progetti militari e di geo-ingegneria che descrivono nel dettaglio sostanze chimiche e quantità da irrorare in atmosfera per influenzare il clima». Dopo Haarp c’è Amisr. Attenzione, non è un amico arabo della macchina da guerra Usa, bensì la sua evoluzione tecnica con tutte le disastrose ripercussioni, ignote a gran parte della popolazione mondiale e a quella italiana in particolare (dura di comprendonio dopo decenni di lavaggio televisivo del cervello). L’Advanced Radar Modular Scatter Incoherent è uno sviluppo impiegato nel programma scientifico mondiale, o meglio bellico, di controllo dell’atmosfera per “possedere il tempo”. Il classico effetto paravento. Davanti a questo acronimo c’è un sistema radar ufficialmente creato per studiare gli strati alti dell’atmosfera e quindi la ionosfera. Dietro, c’è la possibilità di realizzare la guerra ambientale. Le sue funzioni possono essere correlate ai brevetti di Bernard Eastlund, come nel caso di H.A.A.R.P.. In altri termini, A.M.IS.R. consta di apparati modulari per implementare le operazioni gestite con H.A.A.R.P. Ecco cosa recita la brochure divulgativa: “L’Advanced Radar Modular Scatter Incoherent (A.M.I.S.R.) impiega apparati modulari allo stato solido e tecnologie che produrranno misure dell’alta atmosfera e della ionosfera con versatilità e potenza senza precedenti. A.M.I.S.R. è stato già installato al Poker Gamma Research Flat (PFRR), Chatanika, Alaska (65 ° N, 147 ° W) per studiare le aurore boreali”. Secondo il fisico di chiara fama Fran De Aquino «Un riscaldatore ionosferico invia onde ad alta frequenza e alta intensità contro la ionosfera. La parte più bassa di questa, la cosiddetta regione D della ionosfera, è ricca di elettroni, la cui temperatura viene aumentata dalle suddette radiazioni elettromagnetiche. Queste radiazioni ad alta frequenza (dell’ordine dei Mega Hertz, ovvero che vibrano un milione di volte al secondo) vengono inviate contro la ionosfera con una intensità che non è costante, ma varia ciclicamente. La frequenza di questa variazione di intensità è relativamente bassa ovvero intorno ai 2,5 Hertz (cicli al secondo). Ciò vuol dire che ogni due secondi tali onde aumentano e diminuiscono di intensità per 5 volte di seguito, mentre la vibrazione di tale segnale elettromagnetico è circa mille volte maggiore. Questo sistema fa sì che l’aumento di temperatura degli elettroni (e quindi dell’intera zona della regione D su cui vengono inviate le onde dal sistema HAARP) sia intermittente. Questo provoca
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una modulazione della conduttività (grandezza fisica che misura la facilità con cui passa la corrente) ed quindi si ottiene una corrente (circolante nella ionosfera stessa) che varia alla stessa frequenza di modulazione (circa 2,5 Hertz), e che a tale bassa frequenza emette a sua volta radiazioni. In tal modo è possibile generare onde elettromagnetiche a bassissima frequenza, che altrimenti sarebbe difficilissimo generare, perché la bassissima frequenza corrisponde ad una grandissima lunghezza d’onda, che richiederebbe antenne altrettanto lunghe (svariati chilometri)». Il professor Fran de Aquino - che è riuscito a realizzare la quantizzazione della gravità e dello spaziotempo - ricorda in un suo studio su tale soggetto la vasta bibliografia di lavori che mostrano tale comportamento. «La produzione delle onde a bassissima frequenza (ELF ) interagendo con gli ioni presenti nelle fasce di Van Hallen, possono, a causa dell’interazione fra campo elettrico e campo gravitazionale scoperta dal professor Fran De Aquino, portare ad una riduzione della gravità sopra una certa area della terra. Tale diminuzione di gravità porta ad una diminuzione della pressione della colonna d’aria posta sopra tale area della superficie terrestre generando un effetto che può portare ad un sollevamento della terra. Per comprendere questa situazione con un’analogia, potete posizionate sulla vostra mano la punta di una siringa senza ago e tirate lo stantuffo: a causa della diminuita pressione sopra la mano vedrete la pelle sollevarsi». Secondo i calcoli del professor De Aquino «un riscaldatore ionosferico può causare persino un terremoto del nono grado della scala Richter». Due consigli di lettura: The Gravitational Spacecraft; e poi, High-power ELF radiation generated by modulated HF heating of the ionosphere can cause Earthquakes, Cyclones and localized heating. Piedi a terra: scendiamo in Italia. A meno di un clamoroso abbaglio, ecco la testimonianza diretta di un pilota civile. Tom Bosco ha assistito al fenomeno per la prima volta nel 1999: «Ho visto due aerei bianchi senza insegne volare paralleli a non più di 4 mila metri di altitudine rilasciando una scia densa, che non si dissipava e attraversava il cielo da orizzonte a orizzonte; queste scie inoltre si formavano in corrispondenza della fusoliera o dei bordi di uscita delle ali, quindi ben lontani dai motori. A cosa siamo di fronte? Sono giunto alla conclusione che si tratti di dispersione di aerosol in atmosfera, in
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particolare metalli pesanti, i cui scopi non sono chiariti dalle autorità. Ma c’è anche lo scienziato negazionista. A ritenere infondata l’ipotesi dell’esistenza di scie chimiche per il controllo del clima è il professor Franco Prodi, fisico delle nubi, docente di fisica dell’atmosfera e direttore dell’Isac (Cnr). «Quello che abbiamo davanti agli occhi va sotto il nome di “contrail”, cioè scie aeree di condensazione del trasporto civile. Queste nubi cirriformi di tipo particolare possono senz’altro avere qualche effetto sul bilancio di radiazioni elettromagnetiche e ci sono effetti inquinanti che possono rimanere in stratosfera. Non mi consta che esistano esperimenti militari con dispersione di aerosol. Se ci fossero sono certo che noi l’avremmo comunque saputo». Il generale Fabio Mini, un esperto militare di chiara fama e indiscussa professionalità tecnica taglia corto e conferma in un’intervista: «La guerra ambientale, in qualunque forma, è proibita dalle leggi internazionali. Le Nazioni Unite fin dal 1977 hanno approvato la convenzione contro le modificazioni ambientali che rende ingiustificabile qualsiasi guerra proprio per i suoi effetti sull’ambiente. Ma come succede a molte convenzioni, quella del 1977 è stata ignorata ed ha anzi accelerato la ricerca e l’applicazione della guerra ambientale facendola passare alla clandestinità. La guerra ambientale è oggi definita come “l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale (come il clima, i fenomeni metereologici, gli equilibri dell’atmosfera, della ionosfera, della magnetosfera, le piattaforme tettoniche, eccetera) allo scopo di causare distruzioni fisiche, economiche e psico-sociali nei riguardi di un determinato obiettivo geofisico o una particolare popolazione”. E così, ad esempio, si modificano le condizioni meteo locali per consentire i bombardamenti aerei. Non è un caso che uno dei più moderni programmi di ricerca militare di questi ultimi tempi si chiami proprio “OWNING THE WEATHER IN 2025”, data entro la quale si ritiene di riuscire a possedere il tempo meteorologico, e quindi il clima, aumentando le proprie capacità di intervento militare e annullando le limitazioni imposte dalla natura. La strategia della negazione e il cinismo adottati per la guerra ambientale consentono d’impiegare armi e tecnologie sofisticate o brutali senza che ciò faccia scalpore. Consentono di camuffare azioni di guerra e perfino di distruzione di massa spacciandole per ricerche scientifiche. Il sistema per provocare terremoti e tsuna-
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mi non è una novità per la ricerca militare». Oltretutto, nella puntata di “Tg2 Dossier storie” di sabato 14 giugno 2008 è stato dedicato uno spazio alla guerra ambientale. Nel servizio “Le armi ‘ambientali’ del terzo millennio: dalle trombe d’aria agli interventi sullo strato dell’ozono” ancora una volta il generale Fabio Mini aveva parlato di bombardamento delle fasce di Van Allen con onde elettromagnetiche, di tsunami e di cambiamenti climatici determinati da armi. In altri termini, il Governo Usa gestisce e programma i fenomeni atmosferici, avendo la presunzione di potersi sostituire in tutto e per tutto alla Grande Madre. Nel 1999 l’Air Force ha lanciato un programma di sperimentazione dal titolo “Il clima come forza moltiplicatrice: possedere il clima entro il 2025”, il quale propone nuove risorse e nuove tecnologie aventi lo scopo di assicurare agli Stati Uniti d’America, appunto, il controllo del clima; vale a dire del Pianeta. Non sono mancate azioni di facciata. Il Parlamento Europeo (con Atto Deliberativo A – 40005/99) del 14 gennaio 1999 si è espresso contro la sperimentazioni HAARP (High Frequency Active Auroral Research Program). Nel 2002 l’Italia ha firmato un accordo bilaterale con gli Usa sulla ricerca climatica: il capo dei ricercatori italiani è nientedimeno che il professor Franco Prodi. Successivamente, nel 2003, l’allora Ministro della Difesa Antonio Martino ha autorizzato l’aviazione Usa a sorvolare gli spazi aerei italiani per questo genere di attività. Sempre nello stesso anno, esattamente il 6 marzo, l’Aeronautica Militare ha stipulato un Protocollo di intesa con la società Tecnagro per stimolare a dovere le nubi. Il Ministro della Difesa (in carica fino a metà novembre 2011) Ignazio La Russa interpellato a dovere ha preferito tacere. A conti fatti, illuminante no? Conflitti bellici camuffati da ricerche scientifiche, col paravento di accordi internazionali ignoti alla società civile. Si distrugge la natura per annientare il nemico e controllare le risorse strategiche, annichilendo gli esseri viventi. In altri termini: avidità senza fine, ma guai a ribellarsi contro questo genere di sperimentazioni su milioni di cavie, ignare, inermi o indifferenti. È in atto da tempo un programma militare clandestino (decollato inizialmente negli USA e nell’ex URSS , ma poi massicciamente esteso ai Paesi satelliti) a livello planetario di manipolazione, che non ha solo finalità climatiche, bensì il controllo della crescita demografica. Perché negare ostinatamente l’evidenza? Cosa c’è die-
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tro? Due anni fa: una cittadina ha scritto al Presidente della Repubblica. Ecco la risposta fornita da un addetto del Segretariato Generale del Quirinale: «Gentile Signora, mi riferisco alla Sua lettera del 31 marzo 2010 fatta pervenire al Capo dello Stato. Nel merito di quanto prospettato, pur comprendendo le motivazioni ed il coinvolgimento morale ed emotivo che hanno originato la Sua istanza, devo mio malgrado informarLa che risulta impossibile intervenire su materie regolate da specifiche disposizioni di legge, la cui applicazione spetta ai competenti Ministeri e su cui la Presidenza della Repubblica non può in alcun modo intervenire. Premesso quanto sopra, la informo che la Sua istanza è stata nuovamente portata all’attenzione del competente Ministero della Difesa, per un sollecito esaustivo diretto riscontro». Risposte a tutt’oggi? Pari a zero assoluto. Il Comitato nazionale “No scie chimiche” ha ottenuto una mezza ammissione. Il Generale Luca Goretti in persona ha scritto su carta intesta del gabinetto ministeriale: «si ritiene verosimile affermare che gli episodi descritti non sono attribuibili a velivoli dell’Amministrazione della Difesa». E allora a chi? Qual è la posta in gioco? Perché non si misura il livello di bario e di alluminio presente nelle acque piovane su tutto il territorio nazionale, promuovendo verifiche dopo le piogge provocate dalle operazioni militari? Perché non si misura il tasso di inquinamento dell’aria correlato ad alcuni metalli? Perché non si determina il rischio ambientale che le operazioni militari segrete hanno avuto dal 2003 a tutt’oggi sulla salute della popolazione italiana? La risposta ai quesiti è disarmante: in materia incombe un segreto di Stato ed uno strettamente militare. Date una lettura alla Gazzetta ufficiale del 16 aprile 2008. Sorpresa: «Criteri per l’individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti, delle attività, delle cose e dei luoghi suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato» recita il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, firmato dal progressista Romano Prodi. E ancora: «Visto il regio decreto 11 luglio 1941, n. 1161 recante: Norme relative al segreto militare e successive modificazioni; vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 30 luglio 1985 (il defunto latitante Bottino Craxi, ndr); visto il parere n. 4247/2007 reso dal Consiglio di Stato (…); acquisito il parere favorevole del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, reso in data 24 gennaio 2008». Il punto
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1 allegato specifica: «La tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari ed ambientali», ma in evidente violazione della Convenzione europea di Aarhus (25 giugno 1998), ratificata dalla Legge 108 dell’anno 2001, che sancisce la conoscenza nonché la partecipazione attiva di ogni cittadino a decisioni e questioni che interessano la sfera ambientale ed esclude categoricamente qualsivoglia segreto. Il piduista Silvio Berlusconi (tessera numero 1816), per non essere da meno, ha sfornato il Decreto 22 luglio 2011, denominato “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate”. Ovviamente in base al “Trattato del Nord Atlantico” ratificato con legge 1 agosto 1949, numero 465, all’“Accordo tra gli Stati membri per la tutela della sicurezza delle informazioni” approvato dalla Nato il 21 giugno 1996, ed inoltre al DPCM 11 aprile 2003 (“Norme di sicurezza per la tutela delle informazioni UE classificate”). Eccetera, eccetera, eccetera. Insomma, Stato e Governo dello Stivale risultano fuorilegge. Scie chimiche sull’Italia da cartolina? Le massime Autorità nazionali mentono spudoratamente, ma sono state smascherate a più riprese. In Italia si inizia a parlare di scie chimiche nel 1999. La loro presenza nei nostri cieli si è manifestata in maniera particolarmente intensa nel 2003, anno in cui si sono registrate una strana siccità e un’estate torrida. Verso la fine del 2006 e i primi sei mesi del 2007 c’è stata una massiccia irrorazione. Il 22 gennaio 2007 da tutta Italia sono pervenute segnalazioni di un abnorme numero di scie chimiche, visibili anche in spazi aerei dove di solito non passano aerei di alcun tipo. Sono stati fotografati e filmati autentici reticolati di scie chimiche e si sono contati un numero incredibile di aerei: 5-6 al minuto. Difficilmente un tale via vai può essere riconducibile al normale traffico aereo civile. Una situazione simile si è verificata il 7 e l’8 maggio 2007, giorni in cui si è assistito a livello internazionale ad una massiccia irrorazione. Sono pervenute segnalazioni da tutto il centronord d’Italia, da molti altri stati europei, dal Canada e dagli Stati Uniti. Quesiti e denunce non hanno avuto alcun esito serio. Allora diamo i numeri della Politica nostrana. Soltanto 14 atti parlamentari nelle ultime tre legislature, sovente senza risposta, sul tema dei veleni disseminati quotidianamente nel cielo dello Stivale, isole compre-
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se. La prima interrogazione (a risposta scritta 4-05922) è stata presentata dal deputato Italo Sandi, mercoledì 2 aprile 2003 nella seduta n.291. Dopo 9 anni il governo italiano non ha fornito ancora una risposta. «Al Ministro della salute. - Per sapere - premesso che: sono pervenute numerose segnalazioni da parte di singoli cittadini, associazioni specializzate e organi di stampa circa il fatto che nel nostro spazio aereo operano velivoli che rilasciano scie persistenti di natura sconosciuta, cosiddette chemtrails, cui segue un cambiamento nelle condizioni del cielo, con la formazione di nuvole, generalmente di tipo a strato; le poche spiegazioni ufficiali, non sempre convincenti, spiegano il fenomeno come risultato dello scarico di carburante da parte delle aviocisterne KC-135 e KC-10, che le chemtrails sono semplici pesticidi oppure le normali scie di condensazione; parte della opinione pubblica si chiede invece se le scie chimiche siano collegate con alcune malattie e in particolare con l’elevata incidenza dei tumori come nel caso della vallata Feltrina che ha il maggior numero dei malati di tumore (34,5 per cento mortalità maschile e 23,3 per cento femminile) in tutta Italia; se il ministro abbia mai preso in considerazione simili fenomeni; se ritenga opportuno avviare un monitoraggio sulle cause dell’anomalo livello dei tumori nel Feltrino; se ritenga inoltre opportuno fornire spiegazioni sulle conseguenze che le scie chimiche rilasciate dagli aerei possano avere, nonché chiarire se vi è stato un aumento del traffico aereo che sorvola la regione del Veneto in particolare sulla Val Belluna; infine se sia a conoscenza che siano stati mai effettuati esperimenti per variazioni microclimatiche con sostanze chimiche». In seguito (27 ottobre 2003) è stato il turno, ma senza esito, dell’onorevole Piero Ruzzante che ha interrogato 4 ministri: «Al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro della salute, al Ministro della difesa. - Per sapere - premesso che: sono rilevabili a quote diverse nel nostro spazio aereo scie persistenti di natura non determinata, denominate dagli organi di stampa e da associazioni specializzate con il termine di chemtrails; sulla base di osservazioni dirette riportate anche dagli organi di stampa l’evoluzione di tali scie determinerebbe anche cambiamenti nelle condizioni del cielo con la formazione di strati nuvolosi o di piccoli nembi; non appare univocamente definita la natura e l’origine di tali scie dove comunque sono
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rivelabili tracce di silicio e metalli di altra natura con la possibilità di produrre effetti sui sistemi di comunicazione e controllo a fini militari e di difesa; secondo ricerche condotte da vari soggetti privati non sono da escludere pericoli per l’ambiente e conseguenze sulla stessa salute delle persone (…) se il fenomeno sia oggetto di rilevazione o di studio, per la parte di competenza di ciascun dicastero direttamente o attraverso ricerche affidate a soggetti specializzati; se siano già in possesso dei dicasteri interessati, ciascuno per la parte di competenza, dati o ipotesi che possono in qualche modo far luce sul fenomeno; se in particolare il Ministro della difesa sia in possesso di elementi raccolti direttamente o indirettamente sul fenomeno sopra descritto». Il 3 febbraio 2005 il deputato Severino Galante ha guadagnato una replica evasiva, di circostanza. L’interrogazione a risposta scritta 4-12711 attesta che «da almeno 5 anni lo spazio aereo italiano è solcato da aviogetti militari che rilasciano scie chimiche molto diverse dalle normali scie di condensazione liberate dagli aerei civili. Queste, infatti, permangono a lungo in atmosfera e, anziché disperdersi, tendono ad allargarsi in una massa gelatinosa, tanto da trasformare ampie sezioni di cielo limpido in un uniforme ammasso nuvoloso e stratiforme di colore lattiginoso; tali scie vengono rilasciate, in genere, da 2 o più aviogetti che seguono rotte non consuete a basse quote e che, incrociandosi, formano figure geometriche, in genere delle ics, dei triangoli o vere e proprie griglie; sono inoltre pervenute numerose segnalazioni da parte di singoli cittadini i quali, avendo fatto ingrandimenti dei filmati e delle foto scattate, affermano che gli aerei in questione sarebbero privi di contrassegni e che le scie verrebbero emesse da uno o due erogatori posti, di volta in volta, in punti diversi del velivolo; la stessa Associazione piloti civili ha notato il fenomeno delle scie anomale e chiesto informazioni in merito; sembrerebbe che le scie contengano anche cristalli di bario e forse di alluminio; se tali fenomeni siano stati presi in considerazione dal Governo; se gli aviogetti siano di nazionalità italiana o straniera; se sia accertato quali elementi chimici contengano realmente tali scie, e se siano dannose per la salute». Il 14 giugno di sette anni fa, il ministro della Difesa, Antonio Martino (aspirante piduista), ha insabbiato l’evidenza: «In via preliminare si precisa che, secondo le indagini svolte, i velivoli dell’Aeronautica militare non sono coinvolti nella generazio-
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ne o emissione di scie differenti da quelle normalmente dovute alla condensazione del vapore acqueo. In particolare, il fenomeno delle scie si riferisce alla condensazione di vapore acqueo che normalmente viene rilasciato dai motori a combustione interna. Ciò si manifesta generalmente a basse temperature e a quote normalmente superiori ai ventimila piedi. Il combustibile usato dai velivoli militari è analogo a quello usato dai vettori civili e l’impatto ambientale, in relazione alla concentrazione di idrocarburi, è risultato molto minore di quello normalmente rilevabile nelle comuni aree urbane. Per quanto concerne la permanenza delle citate scie, si precisa che a temperature appena superiori allo zero il vapore acqueo contenuto nell’atmosfera, all’impatto con una superficie quale ad esempio la fusoliera di un aereo, può congelarsi all’istante per effetto dell’improvvisa variazione di pressione e dare, quindi, quell’impressione gelatinosa alla quale si fa riferimento nell’atto in esame. Inoltre, in assenza di vento, la permanenza delle scie così prodotte può protrarsi anche per diverse ore. In tal caso, l’incrocio delle rotte di più velivoli che, in contemporanea o successivamente, vengono ad intersecarsi, possono dare origine a figure geometriche. Inoltre i velivoli in dotazione alla Pattuglia acrobatica nazionale (Frecce Tricolori), durante le manifestazioni aeree, producono «fumi» (e non scie), derivanti da prodotti a norma CEE, non tossici e che non arrecano alcun danno alla salute pubblica. In ultimo, non è emerso alcun elemento relativamente alla presenza di velivoli in volo senza contrassegni di nazionalità». Verde per caso? Neanche gli ambientalisti al timone di comando, riscontri alla mano, hanno brillato per trasparenza, coerenza ed acume politico. In effetti, nel 2006, il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio risponde all’interrogazione di Gianni Nieddu (n. 4-00053) rispolverando argomentazioni esilaranti: «Dall’esame della letteratura scientifica internazionale e del contenuto dei siti web specialistici non è possibile confermare l’esistenza delle scie chimiche. I siti specialistici degli osservatori delle scie chimiche, in particolare, risultano carenti dal punto di vista scientifico. Si possono, tuttavia, fare le seguenti considerazioni. L’interpretazione più plausibile del fenomeno è che i presunti episodi di scie chimiche siano in realtà comuni scie di condensazione che sono durate più a lungo ed hanno assunto forma peculiare per effetto delle condizioni meteorologiche. Non si
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può escludere che, assieme alle condizioni meteorologiche, anche il combustibile ed il tipo di motore degli aerei possano concorrere a produrre scie di condensazione dall’aspetto peculiare. Solo ulteriori e complessi studi, che coinvolgano gli operatori del trasporto aereo civile e militare e gli enti preposti al loro controllo, potrebbero eventualmente dare una risposta definitiva. Va in ogni caso sottolineato che non sussiste alcun elemento per ipotizzare una qualsiasi specificità dei fenomeni di scia per i cieli della Sardegna». Dunque, conflitti non convenzionali. Lo studio Air Force 2025 è uno studio commissionato dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare USA nel 1996 sugli scenari futuri di guerra che prevede, tra l’altro, il controllo del tempo atmosferico come elemento strategico. Nel 2001 il governo nord-americano parla di “chemtrails” in un documento ufficiale. Viene presentata una proposta di legge (HR 2779) per chiedere il bando delle armi nello spazio, firmata dal democratico Dennis J. Kucinich, e sottoposta all’esame di tre commissioni (scientifica, esercito, relazioni internazionali) della House of the Representatives degli USA. In questo testo istituzionale appare il termine chemtrails. Esse vengono definite come una tipologia di arma e vengono menzionate nella sezione “armi esotiche” insieme ad altri voci quali: «armi al plasma, elettromagnetiche, soniche, ultrasoniche, psicotroniche, sistemi ULF (Ultra Low Frequency) ad alta quota, sistemi di armi laser, armi biologiche e ambientali». Lo Space Preservation Act 2001 non viene approvato. L’anno successivo viene approvato lo Space Preservaction Act 2002: il capitolo riguardante le “armi speciali”, e quindi la voce sulle chemtrails, scompare. La guerra del terzo millennio è intesa come «l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale allo scopo di causare distruzioni fisiche economiche e psico-sociali nei riguardi di un determinato obiettivo geofisico o una particolare popolazione». Il 5 giugno (atto numero 20084/00280), il deputato Sandro Brandolini ha interpellato il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, il Ministro della difesa: in tutta Italia, nella Regione Emilia Romagna ed in particolare nel territorio delle province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, da alcuni anni e in modo sempre più intenso vengono rilevate scie chimiche (chemtrails), rilasciate da
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aerei militari non meglio identificati; diversamente dagli aerei civili, i quali su rotte predeterminate rilasciano scie di condensazione, le scie chimiche riscontrate sono di natura gelatinosa e vengono nebulizzate da aerei che volano a bassa quota e sono irrorate nell’aria attraverso sistemi di distribuzione ben visibili con normali cannocchiali; non possono essere normali scie di condensazione in quanto nella maggior parte dei casi rilevati non sono presenti le condizioni per la formazione di scie di condensa, le quali sono dalla NASA così definite: 71 per cento di umidità, temperatura di -40° C e dunque una quota di volo non inferiore agli 8.000 metri alle latitudini italiane; da denunce di cittadini, alcune dirette anche alle autorità giudiziarie, emerge che da tali scie chimiche derivino conseguenze pericolose sulla salute dei cittadini; il CNR nel 2005 e ricercatori indipendenti hanno rilevato, nelle analisi effettuate su campioni di pioggia coincidenti con il rilascio delle scie chimiche e su piante bagnate da questa pioggia, una concentrazione al di sopra della norma di sostanze chimiche come quarzo, ossido di titanio, alluminio, sali di bario, sicuramente pericolose per la salute e, secondo alcune fonti, anche cancerogene alle numerose interrogazioni parlamentari presentate, anche di recente, ai dicasteri competenti, non sono mai arrivate risposte chiare, convincenti ed esaustive e tale silenzio ha rafforzato il convincimento che si tratti di fenomeni da tenere nascosti perché pericolosi; i numerosi esposti presentati alle Procure della Repubblica da diversi cittadini singoli, o associati, supportati da una documentazione imponente sul tema, sono stati, ad oggi a quanto risulta all’interrogante completamente ignorati -: se il fenomeno sia oggetto di rilevazione o di studio, per la parte di competenza di ciascun dicastero, direttamente o attraverso ricerche affidate a soggetti specializzati; se siano in possesso dei dicasteri interessati, ciascuno per la propria parte di competenza, dati o ipotesi che possono in qualche modo far luce sul fenomeno; se il Ministro della difesa sia in possesso di elementi raccolti direttamente o indirettamente sul fenomeno sopra descritto ed in particolare: a) congrue informazioni riguardo alle sostanze chimiche che vengono irrorate nell’aria e al loro grado di inquinamento e pericolosità per la salute pubblica; b) quali circostanze e significato abbiano i voli aerei che rilasciano queste scie chimiche e per quali ragioni vengano eseguiti con tali caratteristiche di rotta (al
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di fuori delle rotte ordinarie) e di quota; c) chi autorizzi e con quali obiettivi la manipolazione climatica attualmente in atto attraverso le operazioni di aerosol clandestine, visto che leggi internazionali vietano tali interventi sui fenomeni meteorologici e climatici». Quattro mesi più tardi (5 settembre 2008) si è fatto vivo il Sottosegretario di Stato per l’Ambiente, Roberto Menia, fornendo la solita risposta standard, già abusata in altre occasioni: «Va in ogni caso sottolineato che non sussiste alcun elemento per ipotizzare una qualsiasi specificità dei fenomeni di scia per i cieli dell’Emilia Romagna». Sbarchiamo nell’ex California d’Europa, governata (a far data 2005) dal sedicente ecologista Nichi Vendola. Alla bisogna gli aeroporti militari utilizzati sono Amendola (Foggia), Gioia del Colle (Bari) e Grottaglie (Taranto). Un esempio a portata visiva. Venerdì 30 marzo 2012: su Brindisi aerosolterapia militare in gran quantità. Due settimane prima era toccato alla città di Bari subirne le conseguenze. Le sostanze tossiche adoperate per le operazioni militari di aerosol sono composte da metalli, polimeri, silicati, virus e batteri. L’alluminio, come noto, è una sostanza neurotossica che danneggia sia il sistema nervoso centrale che i processi omeostatici cellulari (l’alluminio è un fattore determinante nell’Alzheimer). La letteratura scientifica parla chiaro: l’intossicazione da metalli produce un abbassamento delle difese immunitarie: l’alluminio uccide la flora batterica dei terreni; le piogge prodotte dalle scie chimiche modificano i valori di acidità dei suoli. Per tagliare una buona volta la testa al toro, occorre mappare con precisione la qualità attuale dei terreni; misurare il livello di bario e di alluminio nelle acque piovane su tutto il territorio nazionale promuovendo verifiche dopo le piogge provocate dalle operazioni militari; misurare il tasso d’inquinamento dell’aria specificamente in relazione alle miscele utilizzate nelle operazioni di aerosol; determinare il rischio ambientale e per la salute della popolazione dei territori soggetti a operazioni di scie chimiche permanenti; chiarire in chiave epidemiologica l’influenza che le operazioni delle scie chimiche hanno avuto sulla salute degli italiani; stimare la correlazione dell’aumento di determinate patologie in rapporto alle sostanze utilizzate nelle scie chimiche. I dati ministeriali di sanità pubblica recitano senza equivoci che in Italia ogni anno, a causa dell’inquinamento, muoiono 35 mila perso-
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ne e mezzo milione approdano in ospedale. I tumori infantili sono aumentati dell’1,2 per cento negli ultimi dieci anni, con picchi del 10 per cento. La mancanza di rispetto per la sacralità della vita ha sfondato livelli criminali, ed è resa possibile dall’impenetrabile coltre di segretezza e connivenza istituzionale che copre le attività belliche. L’uomo è l’unico vivente che in modo regolare orienta la propria aggressività non solo nei confronti di specie diverse, ma anche all’interno della specie cui appartiene. Secondo il padre della pediatria italiana Alberto Burgio, «Se la natura perde la salute, la perde anche l’uomo. Gli agenti tossici determinano nei bambini effetti a livello immunitario, endocrinologico, genetico e a livello degli organi». Risultato: allergie e malattie autoimmunitarie sono in aumento, così come l’autismo. Soltanto nella provincia di Venezia ci sono quasi 5 mila bimbi afflitti da dislessia. Dati medici segnalano che il 30 per cento dei bambini italiani ha difficoltà di apprendimento. Infine, anzi, prima di tutto: va abrogato il segreto militare e di Stato. Il livello di una civiltà si misura dal grado di attenzione per i più piccoli. Non dimentichiamolo, mai. Come si fa a scegliere di non respirare? Un bimbo su sei nei Paesi industrializzati ha qualche disturbo dello sviluppo neurologico, come problemi di apprendimento, deficit sensoriali, ritardi nello sviluppo, paralisi cerebrale e autismo. «Epidemia silenziosa»: è la definizione del professor Philippe Grandjean (insegna all’Istituto di salute pubblica dell’università di Odense in Danimarca e lavora a ricerche presso il Dipartimento di salute ambientale alla Harvard school of public health di Boston negli Usa), autore insieme al professor P.J. Larrigan (docente al Mount Sinai school of medicine di New York) di uno studio pubblicato dalla rivista medica The Lancet. Questo fenomeno è dovuto in buona parte all’esposizione massiccia dei bambini ad agenti chimici tossici; esposizione che può avvenire attraverso l’inquinamento ambientale, l’alimentazione e a volte anche attraverso alcuni farmaci. «Si tratta di un’autentica emergenza» spiega Grandjean. «Una commissione di esperti del National Research Council americano ha stabilito che il 3 per cento dei disturbi dello sviluppo sono il diretto risultato dell’esposizione a certe sostanze, mentre un altro 25 per cento deriva dall’interazione tra fattori ambientali e suscettibilità genetica individuale; ma poiché questi dati sono basati su scarse informazioni sulla neuro-tossicità
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di tante sostanze chimiche, è assai probabile che siano sottostimati». Gli agenti tossici presi in considerazione nello studio vanno dal piombo ai sali di mercurio, dall’arsenico ai Pcb, dai solventi ai pesticidi e altre sostanze sulle quali si stanno ancora conducendo studi o di cui non sono noti gli effetti. I bambini sono immersi attualmente in un bagno chimico fin da prima della loro nascita, già durante la vita intrauterina. Su oltre 100 mila sostanze chimiche in circolazione, soltanto di una decina sono noti gli effetti sugli esseri umani. «I danni neuro-comportamentali provocati dagli agenti chimici sono in teoria prevenibili — argomenta Larrigan — ma perché questo avvenga, occorre conoscere molto bene ciò che si utilizza e si diffonde nell’ambiente e oggi queste conoscenze non ci sono o non sono sufficienti». In Italia i dati diffusi dagli enti istituzionali non sono rassicuranti. Secondo l’Agenzia nazionale di protezione ambientale (Apat) dal 1990 al 2007 le emissioni totali di gas serra espresse in anidride carbonica sono aumentate del 12,6 per cento. Un rapporto del Programma ambientale dell’Onu ha scoperto una crescita allarmante di zone morte negli oceani a causa dell’elevatissimo tasso di inquinamento. È ancora uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità, commissionato dall’Apat, ad affermare che ogni anno in Italia muoiono circa 9 mila persone a causa dell’inquinamento atmosferico. Sono stati invece i ricercatori dell’università di Udine e dell’ospedale Burlo Garofalo di Trieste ad aver messo in guardia sull’altissima incidenza di mortalità da inquinamento in Europa, che coinvolgerebbe 100 mila tra bambini e ragazzi da 0 a 19 anni. Cosa fare? «Il problema è che la maggior parte degli inquinanti non può essere controllata semplicemente da un genitore volenteroso o informato — afferma Grandjean — poiché sono diffusi nell’ambiente dalle industrie, attraverso la contaminazione chimica che arriva anche ai cibi. È assolutamente necessaria la costituzione di agenzie di controllo che diano regole per contenere le emissioni dannose per lo sviluppo cerebrale. Si deve cominciare subito tenendo sotto controllo le sostanze chimiche di cui ci è già nota la tossicità; poi occorre studiare e testare quelle di cui ancora sappiamo poco nell’intento di un generale contenimento». Roberto Bertollini, direttore salute e ambiente dell’Oms Europa, è categorico: «Le constatazioni cui giungono Grandjean e Larrigan arrivano da un’accurata lettura dei dati
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scientifici che mostrano attraverso casi reali la neurotossicità delle sostanze chimiche. Su 202 sostanze prese in esame, solo quattro o cinque sono ben conosciute; non sappiamo quante delle altre sostanze immesse quotidianamente nell’ambiente abbiano effetti neurotossici sui bambini e, se il rischio è stato intuito, non se ne conosce l’entità né la soglia massima di tossicità al di sopra della quale si manifestano gli effetti negativi. Esistono fenomeni preoccupanti — conclude Bertollini — come la tendenza all’aumento di alcuni tumori infantili e di patologie neurologiche come ad esempio l’autismo». Cosa accade alla Terra? Terremoti a ripetizione in Sudamerica ed Asia. Catastrofi naturali o eventi artificiali? Nulla è più come sembra. Non lasciamoci ingannare dalle apparenze. Chi scombussola la crosta terrestre e con quali finalità? Il dominio geopolitico di una sola super potenza è fuori luogo? Anche l’Italia, a causa della strategica posizione nel Mediterraneo è usata a piacimento. Il Belpaese trema il 20 maggio 2012. Ma cosa sta accadendo all’ex Giardino d’Europa? Cosa stanno testando sulla nostra pelle i militari Usa col beneplacito delle autorità tricolore? C’è un nesso con le sperimentazioni della Nato in questa nazione? Nel report stilato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia si legge: «L’attività sismica degli ultimi tre mesi si è concentrata maggiormente a nordest della zona colpita dal terremoto di oggi (13 aprile 2012, ndr), più in prossimità dell’isola di Ustica. La distribuzione del numero di terremoti nel tempo mostra due picchi di attività, intorno al 27 febbraio e quello odierno». Il sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia segnala una seconda scossa localizzata in mare alle 8,44 di stamane (inserire data?) facente seguito a quella delle 8,21. L’intensità di questo secondo evento sismico, come riporta lo stesso sito nel suo breve comunicato, è stata rilevata «in 2.4 gradi Richter 10 km di profondità al largo della costa palermitana». A fine febbraio, a livello ufficiale, era in atto l’esercitazione militare Proud Manta 12. Così hanno tremato Palermo e Trapani (magnitudo 4.3), mentre alle 22 e 13 minuti una scossa di magnitudo 3.3 è stata avvertita in Toscana (epicentro a 16 chilometri NW da Pistoia: 44.08 N; 10.88 E), segnala il Centre Sismologique Euro-Méditerranéen. A mezzanotte e 22 minuti del 14 aprile, ha tremato Ascoli Piceno (magnitudo 2.1). Non è tutto. Come registra l’INGV, negli ultimi 30 giorni (ma non solo) tremori e scuo-
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timenti tellurici hanno interessato gran parte dello Stivale. Particolarmente colpite le seguenti aree: Tirreno, Medio Adriatico e Ionio. Singolare coincidenza: si tratta di zone marittime (aree di nota pericolosità sismica) dove sono in corso da mesi — a grandi profondità subacquee — manovre militari segrete della Nato, comunque a conoscenza del Governo italiano, e particolarmente del ministero della Difesa. Perché gli USA “stimolano” le faglie sismiche della Penisola, mari territoriali inclusi? Un dettaglio non trascurabile: gli “Alleati” Usa custodiscono illegalmente centinaia di ordigni nucleari da nord (Aviano, Ghedi, Vicenza, Livorno) a sud dell’Italia, Sicilia compresa. Soltanto a Sigonella, per fare un documentato esempio, decine di bombe e mine atomiche sono depositate ai piedi del vulcano Etna, mentre nella stazione aeronavale di Augusta stazionano sommergibili a propulsione ed armamento nucleare dell’U.S. Navy. Inoltre una dozzina di porti italiani delle principali città costiere attraccano unità nucleari, ma non sono noti o non esistono, oppure risultano obsoleti — in violazione delle normative nazionali ed internazionali in materia — i piani di sicurezza per la popolazione civile. All’attuale presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, Monti Mario, si chiede se sia mai tollerabile tale grave situazione di manifesta violazione del “Trattato internazionale di non proliferazione nucleare”. Ai parlamentari della cosiddetta opposizione si domanda di battere un colpo, se ancora esistono e contano qualcosa. Le attività pre-belliche dell’Alleanza Atlantica nel Mediterraneo, perfino nelle acque territoriali (all’interno delle 12 miglia dalla costa), mettono a rischio la vita di milioni di italiane ed italiani. Si attende una catastrofe per recuperare la sovranità nazionale e garantire immediatamente totale sicurezza per la popolazione? A quanto pare, anzi, senza ombra di dubbio, alcuni sommergibili a propulsione ed armamento nucleare USA giocano alla guerra a ridosso delle faglie sismiche attive del Basso Tirreno, proprio dove sorgono numerosi vulcani sottomarini (vedi il Marsili). E poi attraccano nei porti civili italiani, dove non esistono piani di sicurezza noti alla collettività come stabiliscono le normative di sicurezza in vigore. Al Presidente del Consiglio pro tempore, Monti Mario, ed all’attuale Ministro della Difesa Di Paola Giampaolo (che pure ha frequentato l’Accademia Navale), si chiede di smentire prove alla mano queste “attività clandestine” dell’alleato, pardon, padrone
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nordamericano. Si obietterà: bella scoperta, il Paese delle meraviglie è tutto un tremolio. Già, se si vanno a sfruculiare le faglie sensibili non si acuisce il fenomeno? Il giornale inglese The Guardian (edizione del 9 febbraio 2012), avverte: «Pochi comprendono appieno che la geo-ingegneria è principalmente una scienza militare e non ha nulla a che fare con il raffreddamento del pianeta o il ridurre il CO2 . Anche se sembra ancora fantascienza, il meteo è stato trasformato in un’arma. Almeno quattro paesi (Stati Uniti, Russia, Cina e Israele) possiedono la tecnologia e l’organizzazione di modificare periodicamente eventi atmosferici e geologici per varie operazioni militari e black-operation, e sono legati ad obiettivi secondari, tra cui quello demografico, energetico e la gestione delle risorse agricole. In effetti, la guerra ora include la capacità tecnologica di indurre, migliorare o indirizzare gli eventi ciclonici, terremoti, inondazioni... l’uso di aerosol polimerizzati ed agenti virali e particelle radioattive trasportate attraverso sistemi meteorologici globali». Avvertimenti piombati nel vuoto? Ce ne sono a iosa. In tempi non troppo sospetti (anno 1966) Gordon MacDonald, in qualità di direttore associato dell’Istituto di Geofisica e Fisica Planetaria della University of California di Los Angeles, aveva scritto un libro intitolato Unless Peace Comes (A meno che non venga la pace). Di particolare interesse è il capitolo “Come distruggere l’ambiente”. Il professor Gordon ha descritto, tra le altre cose, «Lo scioglimento o la destabilizzazione delle calotte polari, le tecniche di impoverimento dell’ozono, l’ingegnerizzazione di sismi, il controllo delle onde oceaniche e la manipolazione delle onde cerebrali usando i campi energetici del pianeta». MacDonald è stato membro dell’Organo di Consulenza Presidenziale Usa ed in seguito componente del consiglio per il controllo tecnologico a scopo di propositi militari. Il suo più profondo commento rilasciato come geofisico è stato «Le chiavi per una guerra geofisica è l’identificazione d’instabilità ambientali alla quale in aggiunta di un piccolo aumento d’energia potrebbe autorizzare vastissimi accumuli d’energia». Per dirla con Bertolt Brecht (Vita di Galileo): «Col tempo potrete scoprire tutto quello che c’è da scoprire, eppure il progresso sarà solo un allontanamento dall’umanità». Allora, più scorie per tutti, neonati compresi, altro che fantascienza. Al bando le leggende metropolitane, le paranoie subliminali ed il catastrofismo a buon mercato.
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Perché non rendere visibile l’invisibile? L’accusa gratuita di complottismo non è altro che il modo concreto per il discorso dell’ordine totalitario di travestire, escludere, eludere o negare quei contenuti che rischierebbero di mettere in pericolo la sua legittimità, le sue certezze, il suo potere assoluto. In Italia — ridotta ad una portaerei dei nordamericani — i veleni intrisi nell’aria hanno contaminato acqua, cibo, terra e mare. Il pericolo incombe nei gesti più semplici e vitali: respirare, bere, nutrirsi. Finale di partita o dipartita finale in attesa della terza guerra mondiale? Ora tocca all’Iran e alla Siria.
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Capitolo decimo Euro crac È prossima la fine dell’euro? L’Italia potrebbe presto rispolverare la lira? Non è un’ipotesi fantascientifica o catastrofista. A certificare l’elevato rischio, nero su bianco, è un rapporto di una delle più importanti banche italiane, consegnato il 4 gennaio 2012 alla Consob. L’analisi spinosa emerge da un documento ufficiale: il prospetto informativo che ha fissato il prezzo dell’aumento di capitale a 7,5 miliardi. «Le preoccupazioni relative all’aggravarsi della situazione del debito sovrano dei paesi dell’area euro potrebbero portare alla reintroduzione, in uno o più paesi, di valute nazionali o, in circostanze particolarmente gravi, all’abbandono dell’euro» si legge nel report. Inoltre, da pagina 66 in poi: «L’uscita o il rischio di uscita dall’euro da parte di uno o più paesi dell’area euro e/o l’abbandono dell’euro quale moneta, potrebbero avere effetti negativi rilevanti sia sui rapporti contrattuali in essere, sia sull’adempimento delle obbligazioni da parte del Gruppo UniCredit e/o dei clienti del Gruppo UniCredit, con conseguenti effetti negativi rilevanti sull’attività e sui risultati operativi e sulla situazione economica, patrimoniale e/o finanziaria del Gruppo UniCredit». È la prima volta che un atto ufficiale di una potente banca italiana parla di una tale ipotesi decidendo di mettere in guardia i risparmiatori anche da una possibile dissoluzione della moneta unica. UniCredit poi lo fa proprio nel momento in cui ha chiesto denaro ai propri azionisti. L’Istituto bancario vale oggi la metà di quanto capitalizzava a fine ottobre 2011. Il valore della banca si aggira attualmente attorno a 8,6 miliardi. I tempi in cui l’UniCredit in Borsa quotava circa 100 miliardi (primavera 2007) sembrano appartenere ad un’epoca remota. Un segno dei tempi che mutano. Nell’era della Guerra Fredda si sarebbe citato come evento “High Risk”, un eventuale missile atomico contro la sede della Banca, mentre d’ora in poi si citerà regolarmente l’eventuale deflagrazione dell’Euro. Del resto questi prospetti sono regolati da precise normative: risulta dunque molto più difficile e pericoloso dissimulare certi rischi che non possono più essere ignorati. Questo prospetto non ha lo scopo di rendere note le previsioni del Gruppo rispetto ai mercati, bensì di avvertire l’investitore degli eventuali rischi dell’investimento. E per l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale
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(FMI), Raghuram Rajan, intervenuto sulla Cnbc, «l’area euro potrebbe non sopravvivere alla crisi così come è, ovvero come un blocco». La menzogna è l’assoluta protagonista del discorso contemporaneo. Infatti. «Monti: l’euro protegge l’Italia dai tassi. L’euro fa da scudo ai conti pubblici, è grazie alla moneta unica europea se i problemi delle finanze pubbliche e l’incertezza politica in Italia non si riflettono sull’andamento dei tassi d’interesse» aveva dichiarato 7 anni fa l’attuale Primo Ministro (Il Sole 24 ore, 17 aprile 2005). A conti fatti da quando il cameriere di Goldman Sachs è Premier, senza essere stato eletto dal popolo sovrano, «il debito pubblico è aumentato di ben 59 miliardi di euro» certifica la Ragioneria dello Stato. Anche la disoccupazione non fa sconti: «Oltre un milione di posti lavoro in meno tra i giovani» attesta l’Istat. Il primo gennaio 2002 in Italia fu introdotto fisicamente l’Euro (a livello interbancario aveva già iniziato ad essere usato dal 1999, solamente come moneta scritturale). La nuova valuta ci fu imposta - senza una consultazione popolare, a differenza di altri Paesi europei - dall’allora Governo Prodi, con il plauso di quasi tutta l’opposizione, “come la panacea di tutti i mali cronici della nostra nazione”. I bassi tassi d’interesse, la riduzione dell’inflazione, la stabilità dei cambi, la forza economica dei Paesi aderenti all’unione monetaria, l’eliminazione dei costi sulle transazioni valutarie dei Paesi Ue, avrebbero dato sicuramente slancio all’economia e all’occupazione del nostro Bel Paese. Per quello storico evento venne fatta anche pagare una tassa agli italiani: appunto la “tassa sull’euro”, che non venne poi mai restituita del tutto, nonostante le promesse dei politicanti di allora, ben presenti tuttora. Dopo due lustri l’Italia ha risolto, se non tutti, almeno una parte dei suoi problemi economici, finanziari e sociali? L ’esito è stato senz’altro negativo. In particolare: il costo reale della vita, ad oggi — nell’arco di 10 anni — è aumentato in media dell’85 per cento, in alcuni settori anche del 100 per cento, nonostante le inattendibili, inaffidabili e poco trasparenti rilevazioni dell’Istat che ci raccontavano il buon andamento dell’economia, almeno fino a quando, nel 2008, anche l’Ente pubblico ha dovuto ammettere che effettivamente «il caro vita ha avuto incrementi maggiori di quelli pubblicati». Lo Stato e le principali amministrazioni pubbliche subito dopo l’introduzione dell’euro hanno aumentato le tariffe postali, quelle dei pubblici servizi, dei trasporti, hanno per-
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messo l’incremento delle bollette energetiche e non hanno attuato nessun tipo di controllo sui prezzi. Ciò ha naturalmente legittimato anche le altre categorie private ad attuare le identiche manovre speculative. Le Banche Centrali delle singole nazioni europee, prima del “Trattato di Maastricht”, avevano un’indipendenza dal potere politico variabile tra il 40 e il 65 per cento; attualmente, dopo l’introduzione dell’Euro, l’indipendenza si aggira intorno al 95 per cento. Dunque, mentre nessuna influenza può giungere dal potere politico alla Bce, dai vertici monetari giungono invece ai nostri governanti continue indicazioni, parametri cui attenersi, rigidi vincoli che coinvolgono l’intera vita e l’economia delle nazioni. Inoltre, l’articolo 4 del Trattato non menziona la Bce tra le Istituzioni della Comunità (Parlamento Europeo, Consiglio, Corte di Giustizia, Corte dei Conti e Commissione); alla Bce però il Trattato conferisce personalità giuridica e lo Statuto ne riconosce la più ampia capacità di agire all’interno di ciascuno degli Stati membri. Sotto il profilo giuridicoformale, la Bce non è dunque un’Istituzione Comunitaria, ed i singoli Paesi aderenti all’Unione Monetaria non possono interferire in alcun modo con la sua politica economica; essa può quindi fissare a suo arbitrio il livello del tasso ufficiale di sconto, la quantità di denaro da immettere sul mercato, decidere la disponibilità ed il costo del finanziamento del sistema bancario e qualsiasi altra azione di sua competenza, in modo indipendente (articolo 7 del Protocollo Sebc: “Indipendenza”). Oltretutto, le riunioni del Consiglio Direttivo della Bce sono assolutamente segrete. Infine, i dirigenti della Bce godono di una sostanziale immunità: non sono infatti previste, all’interno della Bce, sanzioni per comportamenti impropri degli stessi dirigenti (articolo 12 del Protocollo: “Responsabilità degli organi decisionali”). Senza esagerazioni, il “Trattato di Maastricht” ha fatto di loro dei membri intoccabili di una Società privata, autonoma e segreta, che condiziona Stati e Popoli. I singoli Stati dell’Unione Monetaria hanno perso la sovranità monetaria e legislativa in campo monetario. Numerose Banche Centrali sono di proprietà delle stesse Banche “controllate”. L’esempio eclatante è offerto dalla Banca d’Italia, il cui pacchetto azionario è posseduto per oltre il 90 per cento da Banche private (Intesa-San Paolo e Unicredit-Capitalia possiedono oltre il 40 per cento delle azioni di Banca d’Italia). A questo punto, ogni cit-
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tadino, sano di mente voterebbe per l’uscita dell’Italia dall’Euro, ma purtroppo nel Belpaese sono dichiarati anticostituzionali i referendum che hanno come oggetto materia fiscale e finanziaria. Non dimentichiamo che la classe politica, sia per ignoranza in materia, sia perché è controllata dal potere finanziario (che sponsorizza le loro campagne elettorali ed altro), è alquanto restia prendere iniziative su queste tematiche. Prima i Trattati di Velsen e di Lisbona — ignoti ai più, ma firmati e ratificati in sordina da tutti i governi e dalla maggioranza silente di europarlamentari e di onorevoli italiani — che hanno annichilito la Costituzione Repubblicana ed Antifascista. Ora siamo alla soluzione finale: il “Fiscal Compact”, legge comunitaria ed italiana. Questa la “democrazia” dei tempi correnti: 25 Stati su 27 hanno approvato, senza neanche uno straccio di consultazione con i propri cittadini. Le pagine del “Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”, meglio noto come “Fiscal Compact”, firmato il 31 gennaio 2012 dai capi di Stato e di Governo della zona Euro sono undici. Entrerà in vigore il 1° Gennaio del 2013 se nei prossimi 11 mesi non sgorgherà dal basso una rivolta in piena regola. Ecco cosa succederà. Traduzione alla lettera. Uno Stato che dà ai propri cittadini e alle proprie aziende più denaro di quanto gliene tolga in tasse, cioè che spenda a deficit di bilancio, sarà illegale e anti costituzionale. Dovrà come minimo fare il pareggio di bilancio (cioè darci 100 e toglierci subito dopo 100), ma meglio ancora se farà il surplus di bilancio (ci darà 100 e ci toglierà 200, ma anche più a piacimento), ossia dovrà impoverirci, scientificamente. Questa regola dovrà essere inserita nella Costituzioni degli Stati firmatari, o in leggi egualmente vincolanti (Fiscal Compact nel titolo III articolo 3/1 a) - 3/2). Se uno Stato non iscrive nella Costituzione o in leggi egualmente vincolanti l’obbligo di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, verrà giudicato dalla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti. (Fiscal Compact, premessa a pagina 2). Uno Stato che volesse ignorare questo scempio verrà messo sotto accusa automaticamente e dovrà correggersi presentando un piano dettagliato di correzioni, che sono le famigerate austerità. Le correzioni saranno dettate dalla Commis-
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sione Europea di tecnocrati non eletti — che, come doviziosamente dimostrato, rispondono alle lobby finanziarie di Bruxelles — (Fiscal Compact nel titolo III articolo 3/1 e) - 3/2). Se lo Stato sotto accusa si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, la Commissione Europea lo denuncerà agli altri Stati, che lo denunceranno alla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti. Se questa Corte condannerà lo Stato recalcitrante, e se quest’ultimo comunque si rifiuterà di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, la Corte potrà condannare lo Stato disubbidiente a una multa che per l’Italia sarebbe di 2 miliardi di Euro (Fiscal Compact nel titolo III articolo 5/1 a) – articolo 8/1 – 8/2). Il potere di denunciare alla Corte Europea di Giustizia uno Stato che si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, e quindi di sottoporlo al processo ulteriore della Corte per le punizioni monetarie finali, è riservato anche a un solo singolo Stato della zona Euro, e anche se la Commissione Europea non ha dato alcun parere negativo conto lo Stato sotto accusa (Fiscal Compact nel titolo III articolo 8/1 – 8/2). Il risultato della condanna da parte della Corte Europea di Giustizia di uno Stato che si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, non sarà solo una pesantissima multa di miliardi di Euro, ma si traduce anche in una “costrizione” assoluta per questo Stato di correggere il bilancio verso il pareggio o il surplus (Fiscal Compact, in premessa a pagina 3). Quando scatta la procedura di denuncia di uno Stato che si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, gli altri Stati della zona Euro si prendono l’impegno di sostenere quella denuncia. Potranno rifiutarsi solo se troveranno un sostegno da parte di una maggioranza qualificata dei medesimi Stati. Vale a dire: per contrastare l’azione punitiva e arbitraria anche di un solo Stato, tutti gli altri dovranno trovare una maggioranza (Fiscal Compact nel titolo III, articolo 7). Dalla firma del Fiscal Compact in poi, uno Stato della zona Euro dovrà chiedere approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio Europeo prima di emettere i propri titoli di Stato. Anche qui la funzione primaria di autonomia di
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spesa dello Stato sovrano è cancellata (Fiscal Compact nel titolo III, articolo 6). All’unico organo europeo legittimamente eletto dai cittadini, cioè il Parlamento Europeo, è riservato questo: il suo presidente “potrebbe” essere invitato ad ascoltare le decisioni dei tecnocrati della Commissione e del Consiglio. Basta. Ai parlamenti nazionali e al Parlamento Europeo è concesso di formare una conferenza di rappresentanti che potranno “discutere” le decisioni prese dai tecnocrati (Fiscal Compact nel titolo V, articolo 12/5 – articolo 13). Il Fiscal Compact richiede a tutti gli Stati della zona Euro di promettere sostegno e fedeltà alla Moneta Euro e all’unione economica, al fine di promuovere “crescita, impiego e competitività” (Fiscal Compact nel titolo I articolo 1/1). Se uno Stato dovesse aver bisogno di sostegno finanziario europeo attraverso un salvataggio da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, non avrà un singolo Euro se prima non avrà firmato il Fiscal Compact e non lo avrà obbedito in toto (Fiscal Compact, in premessa a pagina 4). Infine, il Fiscal Compact impone il rispetto a tutti gli Stati firmatari dell’Europact. Adottato dai capi di governo dell’Eurozona il 24 marzo 2011, stabilisce che la competitività sia giudicata solo in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività; che gli stipendi pubblici debbano essere tenuti sotto controllo per non danneggiare la competitività; che la sostenibilità del debito nazionale sia giudicata a seconda della presunta generosità di spesa nella Sanità, Stato Sociale, e ammortizzatori sociali; che le pensioni e gli esborsi sociali devono essere riformati “allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita” (Fiscal Compact nella premessa a pagina 4). Conseguenze finali. L’Italia perde tutta la sua sovranità di spesa per i cittadini (welfare State) e la sua sovranità di spesa per le aziende (a favore di modernizzazione, infrastrutture, acquisti diretti, sgravi eccetera.). Il Fiscal Compact impone per legge sovranazionale l’impoverimento sistematico e automatico da parte dello Stato dell’Italia produttiva e delle nostre famiglie. In tal modo lo Stato perde totalmente la sua funzione democratica primaria. Il parlamento italiano non conta più nulla in questo, è di fatto esautorato. Siamo alla mercé delle punizioni inflitte da tecnocrati non eletti da noi, e del giudizio devastante della Germania che, com’è noto ed ampiamente provato, lavora da
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40 anni per distruggere le economie dell’Europa del sud, dell’Italia in particolare. Saremo costretti ad austerità continue imposte dalla Commissione Europea che nessun italiano elegge. Questo significa povertà imposta su altra povertà, e solo per gli interessi di Berlino e di pochi speculatori internazionali. L’Italia non ha solo rinunciato alla propria sovranità monetaria e finanziaria nel contesto di questa Europa, ma ha anche rinunciato alla propria autonomia giurisdizionale visto che una recente sentenza della corte dell’Aia ha di fatto annullato una sentenza della corte di Cassazione italiana che riteneva i tedeschi responsabili per la strage di Sant’Anna, in cui la Wehrmacht assassinò numerosi civili italiani nel 1944, condannando lo stato tedesco al risarcimento danni. Non siamo più nemmeno sovrani di giudicare i crimini commessi sul nostro suolo. E non abbiamo più nemmeno un’autonomia politico elettorale visto che per la designazione del nostro premier contano di più i pareri “illuminati” della Merkel e di Sarkozy piuttosto che il responso delle urne, vale a dire la legittimazione del popolo italiano. Si è avverato il vecchio sogno di Hitler con altri mezzi, la Germania domina l’Europa non più con le armi ma col potere finanziario. E sempre più si avvera il disegno degli Illuminati di un mondo amorfo privo di nazioni in cui le decisioni sono prese non dai popoli ma da una minoranza di managers e finanzieri che non ha nemmeno la legittimazione di un voto popolare, ma solo la sponsorizzazione del capitale. La redistribuzione di ricchezza è un’altra menzogna. Quello che conta è la produzione di ricchezza; poterla produrre con uno Stato sovrano a moneta sovrana. La nostra è un’epoca in cui il sistema di potere dominante, grazie anche alla nostra indifferenza, ha reso plausibile l’inimmaginabile. Affari a gonfie vele e puzzo di mafie dai colletti inamidati. Il Parlamento della casta neanche sfiora questo gioco di potere, pur di mantenere i privilegi. Ecco cosa accade quando il gioco d’azzardo è legalizzato dallo Stato ai concessionari. Avanti con la lista dei grandi evasori: la società Atlantis dell’onorevole Amedeo Laboccetta (An, poi Pdl) deve all’Erario ben 31,5 miliardi. Seguono: Cogetech (9,4 miliardi di euro), Snai (8,1 miliardi di euro), Lottomatica (7,7 miliardi di euro), Cirsa (7 miliardi di euro), Hbg (7 miliardi di euro), Codere (6,8 miliardi di euro), Sisal (4,5 miliardi di euro), Gmatica (3,1
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miliardi di euro) e Gamenet (2,9 miliardi di euro). A distanza di 6 anni le sanzioni non sono state ancora pagate, mentre lo Stato, o meglio, il governo Monti, si accinge a fare il maxi sconto, nonostante un processo in corso. Il totale fa quasi 100 miliardi di euro, considerando che le cifre sono arrotondate per difetto e vanno calcolati gli interessi di mora e le sanzioni sul mancato prelevamento del Preu, il prelievo che i Monopoli dovevano esigere su ogni giocata delle slot machine. E senza tenere conto delle sanzioni che erano state richieste nei confronti dei vertici dell’amministrazione dei Monopoli e che potrebbero essere confermate. Cifre a nove zeri, basti pensare che al direttore Giorgio Tino è stato contestato un danno per 1,2 miliardi di euro. Dulcis in fundo: le sale Bingo gestite da compagni del Pd. Vero Bersani? Chissà se Prodi, Visco e compagnia bella rammentano il clamoroso inghippo e la relazione della Commissione Grandi. Tutte le slot machine esistenti sul territorio nazionale avrebbero dovuto essere collegate in via telematica alla Sogei, mentre secondo un’inchiesta fatta dalla Guardia di Finanza si era accertato che le società concessionarie erano state inadempienti e un gran numero delle apparecchiature non erano collegate. Solo nel caso di impossibilità a collegarsi era prevista una tassa forfettaria, ma sembra che tale eccezione sia diventata quasi una regola e per arginare tale comportamento fu stabilita una multa di 50 euro per ogni ora di mancato collegamento. I Monopoli di Stato (struttura preposta al controllo), che avrebbero dovuto incassare la multa, non hanno mai applicato le sanzioni. Una serie di inchieste giudiziarie ha accertato che alcune delle società concessionarie sono riconducibili alla criminalità organizzata. Da tempestive azioni di recupero e da una corretta gestione di tali concessioni potrebbero emergere risorse per affrontare le numerose questioni economico-sociali che riguardano il futuro del Paese e le attuali condizioni di vita dei giovani, dei lavoratori e dei pensionati. Purtroppo il governo non ritiene di promuovere tempestivi chiarimenti né concretizza quali azioni di recupero mettere in atto per recuperare le somme evase. Numerose interrogazioni parlamentari non hanno ricevuto risposta da ben tre governi: Prodi, Berlusconi & Monti. A conti fatti: 98 miliardi di euro sono tre volte le riserve auree del nostro Paese, proprio quelle che il Presidente del Consiglio voleva vendere per ridurre il debito pubblico. Se si facesse pagare
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questa evasione con tanto di interessi e adeguate multe si arriverebbe ad avere una cifra di almeno 150 miliardi di euro, che sono decisamente molto di più di tutte le riserve auree del paese, e con questa cifra si potrebbe ridurre decisamente il debito pubblico italiano che è il più alto d’Europa, o ridurre la pressione fiscale che strozza il paese e il progresso economico. Invece no: si massacrano di nuove tasse i lavoratori, strozzando i disoccupati. Non si può chiedere ai cittadini di pagare le tasse e, allo stesso tempo, non dare risposte su 98 miliardi di euro di evasione fiscale. In una nuova interrogazione a risposta scritta (4-06477), depositata il 21 dicembre 2011, il senatore Elio Lannutti chiede al Governo di “recuperare le somme evase”, pari a “98 miliardi di euro, che potrebbero pagare gli interessi sul debito pubblico per un anno intero”. Nell’atto parlamentare che riprende la vicenda delle penali slot, Lannutti domanda al Governo «quali azioni intenda intraprendere per recuperare le somme evase considerato che non si può chiedere ai cittadini di pagare le tasse e, allo stesso tempo, non pretendere il pagamento dei 98 miliardi di euro comminati per evasione fiscale», sottolineando che «ci sono 98miliardi di euro che lo Stato potrebbe riscuotere, e che basterebbero a pagare gli interessi sul debito pubblico nazionale per un anno intero, ma a cui non sembra per nulla interessato, mentre vara una manovra lacrime e sangue per i contribuenti, la quale decurta le pensioni e prolunga l’età pensionabile e mentre le accise sulla benzina aumentano e fare un pieno diventa un salasso». Il senatore Lannutti chiede inoltre al Governo Monti «se non ritenga che alle società concessionarie che hanno recato un ingente danno erariale non dovrebbe essere preclusa l’adesione a condoni per evitare il pagamento della somma in questione e, di conseguenza, quali iniziative intenda adottare» e «se, oltre ad un auspicato aumento dei controlli, non intenda inasprire e rendere effettive le sanzioni per punire tutti i fenomeni di gioco abusivo e clandestino, al fine di limitare al massimo l’evasione nei confronti dell’erario e l’intensificarsi di fenomeni criminali connessi al gioco d’azzardo e da questo indotti». Lannutti sollecita un intervento «nelle opportune sedi al fine di individuare strumenti legislativi che consentano di controllare con precisione la diffusione sul territorio dello Stato degli apparecchi per il gioco lecito». Nella sua interrogazione, il senatore ricorda che «le dieci concessionarie che gestiscono
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le slot machine devono allo Stato 98 miliardi di euro. È il maggio del 2007 quando anche il Gruppo Antifrodi tecnologiche della Guardia di finanza, al termine di una lunga inchiesta ed in parallelo ad una intensa indagine parlamentare, comunica i risultati alla Corte dei conti. E sono dati sconcertanti. Le dieci maggiori società concessionarie che gestiscono le slot machine avrebbero contratto un debito col Fisco per gli anni 2004-2007 pari a circa 100 miliardi di euro. La truffa erariale più grande che la storia della Repubblica ricordi. Nel dicembre 2008, il procuratore della Corte dei conti Marco Smiroldo porta sul banco degli imputati le dieci potentissime concessionarie delle slot machine in Italia, con una richiesta di danno all’erario di 98 miliardi di monopoli di Stato. Nell’inchiesta si menzionano interrogativi su specifici comportamenti, tenuti dai Monopoli in particolari occasioni che riguardano sia la fase di avvio delle reti telematiche e, in particolare, l’esito positivo dei collaudi allora condotti, subito dopo smentiti dall’esperienza applicativa, sia l’accelerato rilascio di nulla-osta di distribuzione per apparecchi nell’imminenza dell’entrata in vigore di una disciplina più stringente, sia infine l’omessa applicazione di sanzioni previste dalla legge e l’invenzione di regimi fiscali forfettari. Secondo quanto dichiarato al Secolo XIX (31 maggio 2007) da un membro della Commissione che ha condotto l’inchiesta «i Monopoli hanno autorizzato persino macchinette apparentemente innocue, giochi di puro intrattenimento, senza scoprire che premendo un pulsante si trasformavano in slot-machine. L’applicazione di forfait ha permesso il dilagare di anomalie, perché la ‘cifra fissa’ è assai più bassa di quella che potrebbe essere rilevata dalle macchine. Così in moltissimi casi sono state dichiarate avarie, guasti, difficoltà di collegamento dei modem solo per poter pagare di meno, con una perdita secca per lo Stato di miliardi di euro». I Monopoli, in sostanza, avrebbero permesso e facilitato la dilagante evasione delle società concessionarie, rinunciando a qualunque forma di sanzione che avrebbe dovuto essere attuata. Oltre ai vertici dei Monopoli, gravi accuse di corruzione sono state rivolte dalla Commissione a singoli funzionari che, attraverso “anomale procedure” e “retrodatazione delle autorizzazioni”, avrebbero permesso ad almeno 28 aziende (alcune delle quali oggetto di indagini da parte della magistratura per presunti reati di corruzione nei confronti di diri-
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genti dei Monopoli) di eludere le disposizioni introdotte successivamente dalla legge. Inoltre, «a quanto risulta all’interrogante, pesanti responsabilità, se non addirittura connivenze, sembrano ricadere anche sull’Agenzia dei Monopoli». Tangenti e slot machine (Il Corriere della Sera, 26 giugno 2006): «Dopo due anni di indagini partite da un giro di usura nel Potentino, il pm Henry John Woodcock arriva a scoprire un filone che porta a una serie di illeciti nella gestione delle licenze per i videogiochi in Basilicata e ai nullaosta per i videogiochi dei casinò di Campione d’Italia. In pratica il pm ricostruisce un sistema tangentizio per ottenere i nullaosta dai Monopoli di Stato per l’introduzione di macchinette poi taroccate per guadagnare di più… Gli indagati sono 24. Al vertice del giro di tangenti e macchinette taroccate il pm colloca il principe Vittorio Emanuele. Sarebbe lui l’uomo dalle conoscenze giuste, che utilizzando i suoi legami «istituzionali e massonici» poneva le basi per accordi corruttivi. Nel giro ci sarebbero pure il sindaco di Campione d’Italia, Roberto Salmoiraghi, il portavoce di Fini, Salvatore Sottile. Nell’inchiesta finisce anche il principe Emanuele Filiberto… le accuse… Sesso e corruzione… Per Vittorio Emanuele di Savoia l’accusa è di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, falso e sfruttamento della prostituzione. Salvatore Sottile è sotto inchiesta per concussione sessuale nella vicenda che coinvolge la Gregoraci. Emanuele Filiberto è accusato di pirateria informatica e frode. Roberto Salmoiraghi avrebbe fornito, insieme con altri, «pacchetti completi» per il Casinò, comprensivi di prostitute dell’Est». Slot, colpo di spugna sui novanta miliardi di euro (Il Secolo XIX del 14 maggio 2008): “SILENZIO generale. L’accordo è stato siglato, ma nessuno se n’è accorto. I Monopoli e le società concessionarie delle slot machine hanno firmato la nuova convenzione. Il punto chiave? Non è prevista alcuna penale in caso di tardato pagamento del Preu (Prelievo Erariale Unico), la tassa del 12 per cento sulle cifre incassate. In parole povere: se le società non pagheranno per tempo l’imposta prevista per ogni giocata... non succederà niente. È stata di fatto abolita la sanzione che aveva portato la Corte dei Conti a chiedere alle società concessionarie (ma anche ad alcuni funzionari dei Monopoli, tra cui il numero uno, Giorgio Tino) il pagamento di oltre 90 miliardi di euro di cui ha parlato il Secolo XIX in una lunga inchiesta. Per il futuro non sarà pre-
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vista alcuna sanzione, quindi. Proprio quello che desideravano le concessionarie. Ma questo, forse, è il meno. La nuova convenzione potrebbe privare lo Stato degli oltre novanta miliardi di euro richiesti dalla Corte dei Conti. Una fonte del Secolo XIX lo aveva previsto chiaramente: «Se fosse abolita la sanzione per il futuro, probabilmente anche le somme richieste per il passato sarebbero cancellate o almeno rimodulate». Annota l’agenzia di stampa Jamma: «Sono dieci le società convenzionate con l’Amministrazione dei Monopoli di Stato per la conduzione in rete delle newslot. Dieci sono quindi i contratti di convenzione tra queste imprese e l’ente di regolamentazione italiano per il gioco firmati a seguito della revisione delle concessioni disposta già nel luglio scorso e che prevede per l’applicazione delle penali per eventuali disservizi principi di ragionevolezza e proporzionalità». Il nuovo testo della convenzione è il risultato dell’intesa raggiunta tra Aams e i Concessionari ed è il frutto di un confronto tra le parti. Un accordo importante per il mondo del gioco, ma anche per le casse dei contribuenti. Eppure nessuno, o quasi, ne ha saputo nulla. Le modifiche introdotte riguardano in particolare la circostanza che le penali debbano essere applicate secondo i richiamati principi di ragionevolezza e proporzionalità. Che debbano essere “commisurate” al danno effettivamente arrecato all’Erario. Come? Prevedendo una graduazione delle penali stesse in caso di inadempimento del Concessionario agli obblighi relativi alla conduzione della rete. Ma non basta: con l’atto aggiuntivo della nuova convenzione è stata eliminata l’applicazione della penale nell’ipotesi di ritardato pagamento del Preu, la tassa. Un particolare questo sicuramente gradito alle società che solo un anno fa si erano viste recapitare provvedimenti sanzionatori per diversi milioni di euro annullati nelle settimane scorse dai giudici del Tribunale Amministrativo del Lazio. Con la nuova convenzione le somme che potrebbero essere invece richieste alle concessionarie sono vicine allo zero. Adesso, visto che gli stessi Monopoli hanno rinegoziato le penali, le nuove convenzioni potrebbero spalancare le porte a un clamoroso colpo di spugna. Del resto l’ipotesi era emersa chiaramente quando molti protagonisti dello scandalo slot-machine erano sfilati davanti alle commissioni parlamentari. Maggioranza (allora centrosinistra) e opposizione (centrodestra) avevano sostenuto le ragioni delle concessionarie. L’ex vice-
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ministro dell’Economia, Vincenzo Visco, si era rifiutato di fornire una qualsivoglia spiegazione dell’accaduto ai cronisti del Secolo XIX: «Con voi non parlo perché non mi siete simpatici», aveva liquidato la questione. «Non ci sarà alcun condono», aveva promesso Romano Prodi. Dopo pochi mesi, ecco le audizioni in Parlamento. E la sensazione, chiara, che la storia dei 98 miliardi “dimenticati” dai Monopoli non appassionasse granché nessuno. Del resto, come dimostra chiaramente l’elezione di Amedeo Laboccetta, le società concessionarie hanno molti amici nella palude politica. In entrambi gli schieramenti. Ma qualcuno ha anche messo nero su bianco l’intenzione di “perdonare” le concessionarie. Chi? Angelo Piazza e Giovanni Crema, due deputati della Rosa nel pugno, prima della discussione in commissione, avevano inserito questa frase: «Appare necessario adottare iniziative legislative volte a rivedere, anche retroattivamente, le condizioni convenzionali e il termine del 31 ottobre 2004». Cosa vuol dire? Che la convenzione, quella che prevedeva pesanti sanzioni, andava rivista anche per il passato. E che la data ultima sulla quale doveva essere operativo tutto il sistema telematico di controllo delle slot poteva essere spostata in avanti. Effetto finale? La sparizione dei 98 miliardi di euro. La crisi incombe e si sente. Lo vediamo dal numero sempre più crescente di persone intorno ai cassonetti della spazzatura in cerca di rifiuti ancora “commestibili”. Non si tratta solo di immigrati. E che dire degli anziani a Roma dinanzi ai supermercati che mendicano cibo? Al contempo cresce la febbre del gioco d’azzardo alimentata dai governi d’ogni sfumatura. L’avete notato? Due esercizi restano affollati: i negozi delle ricariche telefoniche e le ricevitorie. Nel primo la responsabilità è soltanto nostra. Non sappiamo rinunciare al superfluo. Diversa è la responsabilità a caccia della “fortuna” facile. Lo Stato, che dovrebbe proteggere da questa debolezza rovinosa i suoi cittadini, ne promuove e incrementa la dipendenza. Addirittura inventa nuovi “giochi”, li reclamizza, promette vincite facili. Rammenta Bersani le sue normative ministeriali? E il giocatore accanito si strozza per star dietro ai suoi numeri, si indebita sempre più, ma non smette. Padri e madri con le tasche vuote e le mani piene di illusioni. Perché chi governa consente questa felpata violenza? Ovvio: ci guadagna. Altrimenti come si mantiene a sbafo la casta? L’usura già a livelli mondiali nel Belpaese fiorisce
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e si alimenta anche di questa fragilità. Si pensa alle Forze armate e sbucano le spese folli. L’Italia già in guerra dalla metà degli anni ’90 per smembrare e distruggere la Jugoslavia (grazie anche a Prodi, D’Alema & Berlusconi) — calpestando la Costituzione — ai giorni nostri vanta più militari (178.600) di Germania, Inghilterra e Spagna. Abbiamo già pagato 13 miliardi di euro per gli Eurofighter ed il premier antidemocratico Monti Mario conta di spenderne altri 9 per sommergibili e navi sottraendoli al popolo italiano già stremato e in preda ai suicidi. Il decreto Legge numero 59 (Disposizioni urgenti per il riordino della protezione civile), contiene una sterminata serie di capitoli di spesa del Ministero bellico. Ecco i conti bucati della nostra Difesa, mentre la popolazione sborsa sempre più tasse senza ribellarsi. Caccia- F-35: l’Italia ha in piedi una commessa da 15 miliardi di euro per l’acquisto dalla Lockheed Martin (Usa) di 135 aerei dal costo unitario di 124 milioni di euro (salvo ulteriori lievitazioni). Eurofighter: l’ultima tranche del programma costerà ai contribuenti (fessi) del Belpaese altri 5 miliardi di euro, dopo i 13 già sborsati. Aerei senza pilota (Uav): il governo abusivo Monti intende acquistarne otto dal costo complessivo (per ora) di 1,3 miliardi di euro. Elicotteri: lo Stato tricolore ha appena comprato 116 (+1 in opzione) nuovi velivoli NH 90 per la modica cifra di 3,2 miliardi di euro. Navi da guerra: l’Italia ha acquistato 10 fregate “Fremm” per una spesa di 5 miliardi di euro. Sommergibili: l’Italia ha comprato altri 2 sottomarini da guerra per 1 miliardo di euro. Sistemi digitali per l’Esercito: il progetto “Forza Nec” serve a dotare le unità di terra e da sbarco di un sofisticato sistema tecnologico per ammazzare facilmente il nemico. Solo la progettazione in atto ci è già costata 650 milioni di euro. La stima di spesa complessiva si aggira per il momento sui 12 miliardi di euro. L’anno prossimo saranno acquistati dal ministero della Difesa ben 249 blindati “Freccia” per una spesa di 1,6 miliardi di euro. Nel 2015, due fregate antiaeree “Orizzonte” per altri 1,4 miliardi di euro. Mentre nel 2012 termineremo di pagare la portaerei “Cavour” e quattro sommergibili U-212 saldando i restanti 3,2 miliardi. Attualmente sul bilancio dello Stato riformulato dai servitori della banca speculativa Goldman Sachs, ovviamente sotto la supervisione del Club Bilderberg e della Trilaterale, gravano ben 71 programmi di cosiddetto ammodernamento
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e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa di guerra fino al 2026, salvo aumenti ed imprevisti. Domande in libera uscita al premier pro tempore in scadenza. Professor Monti, sono tutte acquisizioni necessarie e indispensabili? E in rapporto a quale modello di difesa e su quale visione del ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale? Per caso, ancora e sempre offensivo? E l’anomalia del personale? Manteniamo a sbafo tante stellette, decisamente troppe: 511 tra generali e ammiragli (69 sono i generali di corpo d’armata: ovvero più del doppio dei corpi d’armata attualmente operativi. Ce ne sono 50 tra Esercito, Aeronautica e Marina, 10 nell’Arma dei Carabinieri e 9 nella Guardia di Finanza), 2.600 colonnelli e 23 mila ufficiali. Addirittura due terzi del bilancio Difesa sono assorbiti per mantenere tali addetti. Anche l’ex capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, generale Vincenzo Camporini, ha confessato il rischio concreto che «l’Esercito si trasformi in uno stipendificio». I sottufficiali ammontano a 71.837: di cui 55.974 marescialli e 15.858 sergenti. In sostanza: un numero spropositato rispetto ai comandanti. La truppa volontari conta 83.421 unità, in servizio permanente 48.173 e 35.248 in ferma prefissata. Ne risulta un organico con un’età anagrafica molto avanzata. Attualmente le missioni all’estero impegnano 7.435 unità. In totale le spese per il personale si assestano sulla cifra di 9,4 miliardi di euro. Secondo i dati SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute), «l’Italia è la decima potenza militare al mondo». Spendiamo addirittura più d’Israele con cui facciamo affari in materia (grazie ad un memorandum di stampo berlusconiano in parte segreto): la nazione più bellicosa del Pianeta Terra. Conti in tasca. La casta passa lo scettro alla cricca massonica ma non rinuncia ai privilegi. Dopo il referendum del 1993 che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, il sistema di potere ha mutato solo il nome in rimborso elettorale. In soldoni pubblici — ha calcolato la Corte dei Conti — a fronte di 579 milioni di euro certificati per le spese elettorali tra il ’94 e il 2008, i partiti hanno incassato 2,25 miliardi di euro, sottratti alle tasche dei lavoratori. Ergo: 1,67 miliardi in più. Altro sperpero di denaro pubblico deriva dalla macchina parlamentare. Nell’anno 2001 la camera dei deputati costava 750 milioni di euro; oggi ha superato il miliardo. Un’impennata mostruosa anche al Senato: un decennio fa costava alla collettività 350 milioni di euro,
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adesso ha toccato 574 milioni di euro. Il Quirinale, poi, ha aumentato a dismisura le spese, ma senza controllo. Tanto paghiamo noi. Vero Presidente Napolitano? Non è tutto: ben 186 tra deputati e senatori sommano lo stipendio di parlamentare ai guadagni di un’altra attività professionale. Giusto per fare un esempio a casaccio: l’ex compagno Vendola (l’auto candidato premier) incassa ogni mese uno stipendio da fame di appena 19 mila euro netti, mentre la Puglia vanta una cifra spaventosa di cassintegrati e disoccupati. Monti di pietà. A ben vedere, la manovra Finanziaria non tocca, anzi neanche sfiora i ricchi, i furbi, le banche, le caste, gli evasori totali e nemmeno parziali. Allora, a che serve? Al fine di raccattare una ventina di miliardi per questa mossa del sistema di potere (un golpe in piena regola) non occorrono professoroni, dottorini e gente con la puzza sotto il naso, basta compiere alcune azioni di rottura con l’andazzo tricolore. Dunque, i soldi per sanare i conti pubblici dissanguati dalla casta di politicanti italioti e dai boiardi di Stato almeno dagli anni ‘60 ai giorni nostri, si possono incassare in breve tempo: Imu sugli esercizi commerciali del Vaticano in primis, e, tutte le altre chiese a seguire: recupero stimato ufficialmente: 2 miliardi di euro. Abolizione integrale delle Province: 12 miliardi di euro. Auto blu: taglio di 650 mila veicoli e relative scorte: 120 miliardi di euro. Frequenze televisive: pagamento diritti allo Stato: 10 miliardi di euro. Tassazione dei capitali italiani in Svizzera (150 miliardi di euro): recupero di almeno 4 miliardi di euro. Annullamento acquisto inutile del Cacciabombardiere Jsf: 13 miliardi di euro. Totale: 161 miliardi di euro. Altro che tagliare le pensioni dei poveracci. Toc toc: pronto mafie. Le stime ufficiali parlano chiaro da tempo: le organizzazioni criminali propriamente dette (cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, batterie foggiane, basilischi, eccetera) sommano il 20 per cento del prodotto interno lordo. Le sfide che si pongono davanti all’Italia non sono poche, né banali. Le difficoltà risultano moltiplicate, poi, dalla zavorra delle cattive usanze che il Paese si porta dietro, quali l’evasione fiscale. Secondo rilevazioni della Corte dei Conti, il nostro Paese è il secondo nella graduatoria internazionale per ammontare di gettito sottratto al Fisco. L’allarme arriva in un’occasione ufficiale: è Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, a certificare durante un’audizione in
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commissione finanze al Senato che l’evasione fiscale in Italia è al 18 per cento del Pil, un dato che pone il nostro Paese al secondo posto della graduatoria internazionale dell’evasione, alle spalle della sola Grecia. Particolarmente indigesta (o forse troppo facile da evadere) è risultata l’imposta sul valore aggiunto, la famigerata Iva. In base ai calcoli della Corte dei Conti, il tasso di evasione dell’Iva arriva al 36 per cento. L’Iva italiana, inoltre, secondo Giampaolino raccoglie meno fondi di quanto faccia lo stesso tipo d’imposta in ambito medio europeo perché il «rendimento dell’imposta italiana risulta intaccato dal livello e dall’estensione delle basi imponibili diverse da quella ordinaria, oltreché dai regimi speciali e di esenzione». In base ai numeri, già oggi il Fisco si impossessa di quasi il 43 per cento del reddito degli italiani in regola con i versamenti e tale quota, nei prossimi anni, potrebbe salire ulteriormente (fino al 44,8 per cento nel 2013 e ancora oltre successivamente) per effetto del taglio delle agevolazioni fiscali previsto dalla manovra di agosto e sulla scorta degli aumenti delle imposte locali che regioni e comuni saranno quasi obbligati ad adottare. Ecco perché non si fa una vera lotta alle mafie: sono organiche anche non riconosciute ufficialmente a livello istituzionale. L’economia, si fa per dire, andrebbe a rotoli. C’era una volta “destra, sinistra e centro”: Giorgio Gaber aveva colto nel segno tanto tempo fa. Prendiamo l’alta velocità. Il meccanismo truffaldino ideato e messo in pratica dai governi di centro sinistra e centro destra, nessuno escluso, è semplice. Il Tav è infatti un modello che si impone di trasversalismo affaristico a scatola chiusa, un’evoluzione, molto sofisticata, di tangentopoli. La figura del generalcontractor ideata nel 1991 dall’ex diccì Paolo Cirino Pomicino (ministro e membro della Commissione parlamentare antimafia) ha reso ogni cantiere un grandioso banchetto a cui partecipano le grandi imprese tricolore, le banche, le regioni, i comuni, i partiti e, ovviamente, le organizzazioni criminali propriamente dette. Un debito pari a 90 miliardi di euro: il costo dei profitti delle imprese trasformati in debito pubblico. Legge obiettivo: è stata promulgata dal governo Berlusconi (numero 443 del 27 dicembre 2001) insieme alla delibera di attuazione del Cipe datata 2002, con la quale si definisce l’elenco delle opere strategiche, vengono introdotti un modello finanziario e contrattuale garantiti dal general contractor e dal project
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financing. Il contraente generale è un “concessionario con la esclusione della gestione dell’opera”, ossia costruisce ma poi non gestisce. Tradotto in parole povere: è deresponsabilizzato rispetto alla qualità e alla durata dei lavori, inoltre può agire in regime privatistico, affidando a chi vuole i lavori, senza gara pubblica, e qualsiasi cosa faccia non sarà mai accusato di corruzione: essendo un privato potrà far passare eventuali tangenti per provvigioni. Il tutto in barba alle normative europee sulla trasparenza degli appalti pubblici. I finanziamenti invece arrivano dal project financing, prestiti raccolti nel mercato finanziario privato. Ma qui si nasconde il trucco: i prestiti sono totalmente garantiti dal pubblico attraverso Infrastrutture Spa, società di capitale pubblico, ma di diritto privato, e, dal 2007, dalla Cassa depositi e prestiti. E il conto? I grandi profitti delle solite imprese private li paghiamo sempre noi, sotto forma di un indebitamento pubblico che ha superato i 90 miliardi di euro, e per questo 13 miliardi in contante (l’1 per cento del prodotto interno lordo) sono stati trasferiti alla fine del 2006 per pagare parte degli interessi in conto capitale e per parte degli investimenti effettuati dal tesoro per Tav Spa. Ma il salasso degli ignari contribuenti non si è arrestato qui. Infatti, con la Finanziaria del 2007 altri 3.300 milioni sono stati prelevati per l’Alta velocità fino al 2009. E così via fino ai giorni nostri ed oltre. Che qualcosa non filasse per il verso legale nei cantieri Tav aveva iniziato a segnalarlo Ferdinando Imposimato, ex magistrato che nel 1996 aveva presentato una relazione sui cantieri della Tav nella tratta Roma-Napoli, basata su indagini di polizia, in cui denunciava la partecipazione di imprese direttamente collegate alla mafia. Attraverso la scelta delle società concessionarie, che avviene per trattativa privata, comincia il balletto degli appalti e subappalti, per cui alla fine le ditte che eseguono i lavori ricevono il 10 per cento della cifra destinata all’Alta velocità, il restante 90 per cento va alle organizzazioni criminali (associazioni dello Stato italiano ma non riconosciute ufficialmente) e alla endemica corruzione politica. Il dettaglio spiega perché l’Italia è al primo posto in Europa per morti nei cantieri, proprio a causa delle condizioni di lavoro da terzo mondo. Era di Pagliarelle, in provincia di Crotone, il giovane di appena 23 anni morto il 31 gennaio 2000 nella tratta Bologna-Firenze progettata da Pietro Lunardi (il ministro che aveva legittimato ufficialmente la convivenza
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tra Stato & Mafia), 60 chilometri in tunnel sotto l’Appennino, in un contesto geologico delicatissimo, ormai stravolto; non hanno gallerie parallele di soccorso e in caso di incidente o attentato diventerebbero una trappola per topi. I costi sono lievitati dai 13,76 milioni di euro al chilometro previsti nel 1991 ai 73,66 del 2006. Da allora, le condizioni nei cantieri non sono mutate. La torta all’epoca era di 10 mila miliardi di lire e andava spartita per sei decimi ai partiti ed il resto alle organizzazioni criminali. Le indagini dello Sco (Polizia di Stato) individuarono tra le ditte che l’Iri aveva fatto entrare nel consorzio Iricav 1, la Icla, impresa (proprietà di Cirino Pomicino) che evidenziava strane connessioni con esponenti del crimine legalizzato. Nel 2007 il ministro Padoa Schioppa ha sancito la collaborazione tra la Cassa depositi e prestiti con un Fondo infrastrutture formato da nove banche e fondazioni come Intesa-San Paolo, Unicredito, Fondazione Montepaschi, Fondazione Cariplo, Lehman Brothers e Goldman Sachs (già dipendente Mario Monti). «Nel 2002 il governo Berlusconi ha modificato la definizione del contratto di concessione sulla base del quale si basano le operazioni di project-financing, affermando la possibilità di affidare in concessione la realizzazione di lavori pubblici con una gestione per la durata affidata senza alcun limite per quanto riguarda il prezzo che il committente può garantire al privato concessionario — spiega l’ingegner Ivan Cicconi, già della Nuova Quasco che si occupa di qualità degli appalti e sostenibilità ambientale —. Mentre la legge Merloni dal 1994 stabiliva che l’amministrazione pubblica poteva dare a integrazione dei ricavi che il privato ottiene attraverso la gestione un massimo del 50 per cento, dal 2002 questo limite è stato eliminato, di fatto garantendo alla fine il 100 per cento dell’investimento. Ciò significa che l’amministrazione pubblica si assume in toto i costi dell’opera che verranno scaricati nei bilanci futuri dei committenti pubblici». Infrastrutture Spa è stata cancellata e riassorbita da Cassa e depositi e prestiti. «È grazie a quella società inventata dall’allora ministro Lunardi — rivela l’ingegner Cicconi — che l’Unione europea ha aperto una procedura di infrazione per le operazioni finanziarie in contrasto con le direttive europee sugli appalti pubblici e ha imposto di rimettere tutti i debiti, mutui e titoli dal 1994 al 2005, nei conti pubblici». Così Trenitalia, Tav Spa, Rsi Spa sull’orlo del fallimento qualche anno fa, sono state
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liberate dai debiti contratti, che sono stati assorbiti da Cassa depositi e prestiti e dunque sono rientrati nella contabilità pubblica. La collettività deve pagare la restituzione del debito e degli interessi. Il paradosso è che così sgravate, queste società hanno attivato operazioni dello stesso tipo. Dove? In Val di Susa. Disastri ambientali: preordinati, annunciati e realizzati con la connivenza dello Stato italiano e dei vari governi. Il professor Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al politecnico di Milano, non ha alcun dubbio: «È una follia insensata, che fa inorridire per i costi: le linee ferroviarie che ci sono attualmente sono in grado di portare tre volte quel che ci passa adesso, ma non c’è domanda e per far quadrare i conti con l’alta velocità ci vogliono grandi flussi, che non ci saranno mai. In Italia poi si è scelto di far viaggiare anche le merci sull’alta velocità; ma le merci in ferrovia non hanno mica fretta. Il più grande sistema ferroviario merci del mondo, quello degli Usa — chiosa l’esperto — viaggia a 30 chilometri all’ora, ed ha un enorme successo economico. Da questa spesa non rientra un euro: sono tutti soldi a sbafo. Per tappare il buco dell’alta velocità hanno dovuto versargli 13 miliardi di euro in contanti. La Comunità europea ha sentenziato che i debiti di Infrastrutture Spa sono debito pubblico». Nel Mugello si sono seccate o depauperate ben 73 sorgenti; colpiti e affondati siti di interesse naturalistico europeo, come la millenaria Badia benedettina di Moscheta, dove l’acqua risale dalle gallerie alle vecchie sorgenti. Ai danni evidenti della Tav si aggiunge lo sfracello dell’Addendum, una serie di interventi per “mitigare” gli impatti idrogeologici indotti dai lavori di scavo. 53 milioni di euro per il Mugello finanziati con il solito sistema: dallo Stato per 27, 5 milioni di euro e da Tav per 245, 5 milioni di euro. Allora perché perseverare nell’errore? Per colossali interessi costituiti. La Comunità europea rende difficilissimo distribuire quattrini alle imprese, se non con questi meccanismi perversi, concretizzati dall’onorata società mafiosa che domina il Belpaese. «Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel Paese e le cui dimensioni, presumibilmente, sono di gran lunga superiori a quelle che vengono spesso faticosamente alla luce» ha rivelato il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La
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corruzione è dunque ancora «dilagante», dice la Corte, e per il Presidente Giampaolino è «una sconfitta non avere fatto una efficace riforma della pubblica amministrazione» ma avere operato sempre «chirurgicamente», insistendo sull’aspetto penale. Contro la corruzione, invece, «bisognerebbe fare quello che è stato fatto per la mafia, costruire un movimento di lotta», rileva il presidente. Fiumi di denaro, dunque, se ne vanno ogni anno, da una parte con la corruzione, il cui peso è di circa 60 miliardi di euro l’anno, dall’altra con l’evasione che vale 100-120 miliardi di euro. Per la sola Iva si calcola un’evasione al 36 per cento. «La lotta all’evasione è sacrosanta — ha detto ancora il presidente — ma altrettanto sacrosanta è la lotta allo sperpero di denaro pubblico». La Commissione europea ha infatti stimato che la corruzione costa all’economia dell’Unione 120 miliardi di euro l’anno, ovvero l’1 per cento del Pil della Ue e poco meno del bilancio annuale dell’Unione europea. La Corte dei Conti ricorda comunque che «il nostro Paese nella classifica degli Stati percepiti più corrotti nel mondo stilata da Transparency International per il 2011 assume il non commendevole posto di 69 su 182 paesi presi in esame e nella Ue è posizionata avanti alla Grecia, Romania e Bulgaria». Per la magistratura contabile, «quella contro la corruzione, latamente intesa, rappresenta davvero un’ impari battaglia: basti pensare che a fronte del costo plurimiliardario del fenomeno come stimato dagli organismi sopra citati, la Corte dei Conti nel 2011 è riuscita a infliggere condanne in primo grado per soli 75,25 milioni di euro, mentre in sede d’appello sono state definitivamente confermate condanne per l’importo di 15,05 milioni di euro (danno patrimoniale pari a 13.189.771,21 + 1.862.032,37 euro per danno all’immagine) relative a giudizi trattati negli anni precedenti». Anche incarichi e consulenze illegittime, fuori dalle regole, onerose, ed elargite a piacimento anche quando all’interno ci sono le professionalità giuste, restano una spina nel fianco della pubblica amministrazione. Nonostante le sentenze e le leggi, ci sono ancora «casi macroscopici», avverte la Corte, in cui si perseguono «obiettivi personalistici cui è estraneo l’interesse pubblico». L’ex giudice Gherardo Colombo non ha dubbi e taglia corto: «Mani pulite ha perso, la corruzione continua». Numeri poco noti: tanto pagano i fessi che piegano la schiena in silenzio. La somma dei soldi erogati dallo Stato, ovvero sborsati dai
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cittadini, alle formazioni politiche dal 1994 ad oggi ammonta a 2 miliardi e 300 milioni di euro. Il tutto in barba ai 31 milioni di italiani che nel 1993 hanno votato SI al referendum promosso dai Radicali per abolire il finanziamento dei partiti. In queste cifre si nasconde il “bottino” della partitocrazia: sono 1.700 milioni di euro, ovvero la differenza tra i 2,3 miliardi di euro già incassati e i 580 milioni di euro di spese elettorali documentate. Dopo il finanziamento è saltato fuori il rimborso per fregare italiane ed italiani che lavorano. I partiti devono restituire il malloppo maltolto. La politica è una missione al servizio della collettività. Allora, vuoi fare il politicante a Roma? Accontentati di un migliaio di euro al mese, altrimenti a casa. Niente di nuovo: lo ha già dettato la Costituzione. Lo stipendio equo per senatori e deputati italiani è 1.138 euro netti al mese. Lo hanno stabilito i costituenti con la legge 9 agosto 1948, numero 1102: «Determinazione dell’indennità spettante ai membri del Parlamento». Le firme sono tutte di uomini d’altri tempi e tempra. La prima è quella di Luigi Einaudi, la seconda è quella di Alcide De Gasperi, la terza è quella di Ezio Vanoni, ministro del Bilancio e delle Finanze, e la quarta quella di Giuseppe Pella, ministro del Tesoro. Timbro posto dal guardasigilli Giuseppe Grassi. «Ai membri del Parlamento è corrisposta una indennità mensile di lire 65 mila». Una somma che con l’inflazione e la rivalutazione monetaria in 64 anni equivale attualmente a 2.204.800 lire, pari appunto a 1.138 euro. Netti. Ai parlamentari era concesso «un rimborso spese per i giorni delle sedute parlamentari alle quali essi partecipano. La misura di tale diaria sarà stabilita dagli uffici di presidenza delle rispettive Camere, tenendo conto della residenza o meno nella capitale di ciascun membro del Parlamento». A differenza di oggi dunque si rimborsavano le spese di alloggio a Roma per fare i parlamentari solo per i giorni in cui c’erano sedute e solo ai parlamentari che effettivamente erano presenti. Era vietato il cumulo della indennità parlamentare con gettoni di presenza o qualsiasi tipo di incarico conferito dallo Stato o da un ente pubblico. Quella legge è stata abrogata dalla successiva legge 31 ottobre 1965, numero 1261 (trattamento economico dei parlamentari) che ha aperto una gran confusione sullo status degli onorevoli, affidando i loro stipendi agli interna corporis (con un tetto massimo non quantificato, ma legato allo stipendio di un presidente di sezione
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della Corte di Cassazione). Oltre l’ angusto orizzonte corrente. Ma quanto costa la vita? Ecco il mercato umano. Nel vecchio continente occorrono circa 3 anni per una donazione legale e molti pazienti muoiono prima di ottenerla. Risultato? Il traffico di organi umani va a gonfie vele. Un rene viene pagato 3 mila euro all’offerente e rivenduto a circa 200 mila dollari. I donatori vengono reclutati a pagamento in alcuni nazioni dell’Est Europa dove i redditi sono striminziti e il costo della vita gioca al ribasso. Una Commissione del Consiglio d’Europa ha denunciato a Strasburgo un traffico di reni umani da diversi Paesi dell’Est europeo. «Dalle nostre indagini in Moldavia - scrive la relatrice Ruth Gaby Vermot-Mangold - i donatori tutti giovani, vengono portati in Turchia, dove si effettuano le analisi di compatibilità, dopo le quali si fissa in cliniche private il trapianto. I riceventi sono israeliani, russi e cittadini dei Paesi arabi ma si sospetta che vi siano anche tedeschi e austriaci». Al mercato degli organi umani, un corpo integro vale attualmente 45 milioni di dollari. Per i trapianti e anche per l’utilizzo di cellule, tessuti e proteine per l’industria medica il nostro corpo è una miniera. In teoria, perché le norme internazionali sono restrittive e l’effettiva capacità di estrarre parti e sostanze riutilizzabili resta per ora limitata. Una volta nell’occhio del ciclone figuravano India e Brasile, ma oggi il commercio clandestino di organi umani è sempre più vicino all’universo occidentale. Dislivelli? «Nel mondo le ineguaglianze aumentano - attesta l’Organizzazione mondiale della sanità - Il pericolo del calo della vita media riguarda il 50 per cento degli europei. In Russia la vita media è scesa a 65,4 anni, mentre nell’Africa subsahariana, benché fosse già bassa, è calata ulteriormente negli ultimi 10 anni». Analoghe disparità sono presenti anche nel ricco occidente: a Glasgow, fra un distretto e l’altro, la differenza della speranza di vita è di 10 anni. E «a Torino - documenta uno studio universitario dell’ateneo cittadino - si è arrivati a un livello simile». Se uno dei tre esseri umani economicamente più ricchi del mondo morisse in un incidente (in tre superano il pil dei 48 Paesi poveri censiti dall’Onu) la sua quotazione sarebbe stratosferica. Irrisoria è per i non abbienti. Così dice il codice civile: la vita vale per ciò che si guadagna. In teoria la vita umana non ha prezzo. In realtà c’è un cartellino indicativo che tende al ribasso per le classi sociali agli ultimi
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gradini. Lo straniero vale la metà. In Turchia, ad esempio, un italiano morto per colpa può essere liquidato meno che in Italia. E anche gli stranieri dei Paesi in via di sviluppo che periscono nel nostro Paese vengono contrattati al minimo, dato che si tiene conto della loro provenienza da zone povere. Inoltre, molte assicurazioni invocano il principio di reciprocità: se la vittima è di un Paese arretrato che non riconosce il danno a valori europei, bisogna comportarsi allo stesso modo. Di fatto: la vita di uno straniero in Italia vale la metà di quella di un italiano. Nella realtà, a parte Europa, Giappone e Usa, ci sono ben poche possibilità che la vita venga risarcita. E quando avviene, si tratta di pochi spiccioli. Contano più di tutto e tutti, le merci. Se si prova a ordinare uno stereo, un computer, una moto a un rivenditore di Caracas, Città del Messico, Nuova Delhi o Nairobi, si può constatare che il bene di consumo costa anche più che in Europa (parecchi stipendi locali). La vita umana invece, o non ha prezzo (perché non viene risarcita) o può valere nei risarcimenti meno di un telefonino. I risarcimenti per la perdita della vita umana, infatti, sono inferiori al costo di molti beni di lusso. Per legge, la vita ha un valore biologico, morale e patrimoniale. Paragonandola alle merci che viaggiano per la Terra, protette da leggi internazionali, ci si chiede: vale più un telefonino o la vita di un bambino ammalato di malaria in Zambia? Un fuoristrada nuovo o un italiano che viene investito da un pirata della strada? La vita non ha prezzo, è un bene supremo, ma per le assicurazioni, le multinazionali farmaceutiche, i giudici chiamati a valutare i danni di un incidente colposo sul lavoro, la vita deve avere un prezzo. Quale? Abbiamo provato a scoprirlo, partendo da un’evidente anomalia: il costo di una moto, una macchina fotografica o un orologio di marca è abbastanza stabile fra le varie aree del globo terrestre. Il prezzo della vita umana no: si va infatti da qualche spicciolo a milioni di euro. Fino agli anni ’90 il danno di una persona anziana che moriva in Italia per colpa di un automobilista, poteva essere liquidato dalle assicurazioni con cifre inferiori al costo di un auto di segmento medio-alto. Oggi, va un po’ meglio, ma la valutazione è comunque più bassa di quella di una Ferrari di tre anni (vale meno di 90 mila euro). Se un auto del genere va a fuoco, il risarcimento per il proprietario sarà più alto di quello dovuto ai familiari di un anziano che muore in un incidente stradale. E anche di un figlio minore vitti-
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ma di uno scontro in motorino. Se si finisce all’altro mondo per colpa di qualcuno, sono tre i criteri adottati per il risarcimento: danno biologico (il diritto alla salute viene leso totalmente), danno morale da lutto (un’ingiustizia anche ai parenti), danno patrimoniale (la persona deceduta non darà più il suo apporto economico alla famiglia che ha quindi diritto a un risarcimento). Un capo famiglia vale in teoria circa 500 mila euro. Stabilendo invece una media fra le sentenze, la fine della vita di un italiano per responsabilità altrui costa oggi 250 mila euro, se si dimostra l’effettiva responsabilità. Facile a dirsi, se la vittima è stata investita; più difficile nel caso di una collisione fra due macchine, ancora più difficile nel caso di morti da parto o per soccorsi ospedalieri errati. Quasi impossibile per le malattie gravi, provocate da lavorazioni sospette o pericolose sul posto di lavoro. Ostruzionismo. La persona muore e, solitamente, nei casi meno dimostrabili, l’assicurazione sposa la tesi della non responsabilità o del concorso di colpa e si va a un processo che può durare a lungo. E’ difficile che i familiari ottengano un risarcimento completo se non si affidano a studi legali specializzati. C’è sempre un margine di discrezionalità sul valore della vittima. In pratica parte una trattativa commerciale fra avvocati, supportata dai periti di parte. Il valore finale della vittima può variare fino al 20 per cento. Quando però si tratta di riconoscere il danno da perdita della vita in se stesso, si va oltre i danni patrimoniali, non esistono più criteri oggettivi. Alcuni tribunali non lo riconoscono affatto, altri lo valutano 200 mila euro; altri ancora solo 2-3 mila euro. Si considera spesso il danno biologico, il cui risarcimento è trasmissibile agli eredi. Ma «per produrre effetti economici», secondo la Cassazione, «è necessario un periodo di sofferenza e di cure prima della morte della vittima», che il magistrato può quantificare proprio come per l’invalidità temporanea, con vari punteggi. Se però l’agonia dura poco, molti tribunali non tengono conto della perdita della vita. Paradossalmente, la morte non è considerata un danno biologico. Oltre il limite della morte, secondo l’orientamento della Cassazione, non si paga più in denaro perché interviene la punizione penale. Secondo i giudici favorevoli a riconoscere il danno biologico anche per agonie brevi, la perdita della vita è da considerare un danno al 100 per 100 alla salute, la cui integrità viene garantita dalla Costituzione. Inoltre si ritiene in giurisprudenza che il danno
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inizia nel momento dell’azione colposa. Quindi, anche se la vittima resta in vita poco tempo, avrebbe comunque diritto al risarcimento, da pagare agli eredi. Se si riconoscesse il danno biologico “per morte causata” si dovrebbe anche riconoscere un prezzo per la vita in quanto tale, indipendentemente dalla professione o dal ruolo sociale della vittima. Qui si arriva al terzo aspetto del risarcimento: il danno patrimoniale, che varia enormemente secondo i Paesi. E c’è pure una macroscopica eccezione. Per i profughi non si pagano i danni. Nelle guerre è difficile che venga rimborsata la vita dei civili. Malnutrizione ed epidemie, anche mortali, hanno superato negli ultimi confitti bellici guerre i danni causati direttamente dalle armi.
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Capitolo undicesimo Razzismo extra «Fare ponti e viaggiare leggeri» ripeteva Alex Langer, prima di staccare la spina e andarsene per sempre. Cosa spinge un individuo ad avventurarsi in luoghi sconosciuti, ad affrontare zone della Terra inesplorate? Qual è la molla che fa scattare il desiderio di lasciare tutto quanto di sicuro è intorno a noi per vivere un’esperienza ai limiti del possibile, per inseguire un sogno ritenuto irrealizzabile? Un gruppo di scienziati israeliani ha approfondito l’argomento. Hanno così scoperto che in alcuni individui è presente una mutazione nel Dna che li predispone all’esplorazione e l’hanno battezzata “fattore Ulisse”. Ecco spiegato scientificamente perché ci sono esseri umani sedentari e altri invece votati all’avventura. Ma il viaggio non è solo esplorazione geografica, non è spostarsi fisicamente da un luogo all’altro: è anche e soprattutto un percorso interiore, una scoperta continua di se stessi a contatto con la Grande Madre. Eterni migranti? Gli esseri umani camminano da sempre. Per migliaia di chilometri, solcando mari e monti a costo della vita. Si muovono nel tempo e nello spazio, in fuga o in avanscoperta, per allontanarsi o avvicinarsi, per conoscere o per dimenticare. Il movimento, il ricordo, la nostalgia, la ricerca e il desiderio di nuovi orizzonti, il mutamento e l’avventura fanno parte dell’esperienza umana. Le immagini delle donne africane che affrontano il pericolo di interminabili cammini in teatri di guerra, per portare l’acqua alla propria famiglia, raccontano che cosa significa essere una popolazione in movimento. Quel passo delle donne nelle terre senza apparente futuro ha solcato il Mediterraneo, fino a raggiungere le nostre sponde. L’emigrazione perenne del Sud: è il presente ancorato al passato. Se è vero che i confini sono fatti da coloro che li attraversano, quella dei popoli in cammino è una storia di coraggio prometeico, di continua trasgressione, di limiti superati ogni volta. I popoli si sono spostati sempre per migliorare le proprie condizioni. Pensiamo agli esodi dei popoli nordeuropei migliaia di anni avanti Cristo: dal Mediterraneo sudorientale verso l’Europa, un’onda di avanzamento inarrestabile che, popolando nuovi territori, contribuì alla graduale diffusione delle pratiche agricole. I Greci giunsero sulle sponde dell’odierna Italia (che gli ebrei chiamavano “Italya”, ovvero “isola delle meraviglie”) e i Celti fino all’Irlanda e
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perfino alla Groenlandia. Perché noi umani siamo nati per migrare. Siamo fatti per spostarci e superare barriere, geografiche e linguistiche. Creati per assorbire culture. Impedire questo destino genetico vuol dire privare il genere umano della sua libertà. La migrazione è una predestinazione, una compiutezza genetica dell’umanità. La guerra al diverso declina un’altra forma di dominio, certo più subdolo. Accogliamo gli stranieri trattandoli come extra-terrestri, peggio come schiavi. Non a caso li definiamo “extra-comunitari”, alla stregua di alieni. Il seme dell’intolleranza ha messo radici nel Belpaese. Il primo rifiuto che rompe ogni vincolo di solidarietà è verso l’altro. «Il nome di mio padre, Giuseppe Di Vittorio, è intimamente legato alla storia dei lavoratori delle campagne pugliesi. Un secolo fa, in provincia di Foggia, nel Tavoliere, a Cerignola, i lavoratori dei campi vivevano in condizioni terribili. Miseria, analfabetismo, fatica. Ma soprattutto, una assoluta assenza di diritti» racconta Baldina, figlia del mitico Peppino. «Un’assenza così totale da farci dire che quegli uomini, quelle donne, quei bambini che partivano all’alba da quei paesi per andare sui campi non erano persone libere. Ciò che fece mio padre, allora, fu innanzitutto questo: far capire ai suoi compagni, ai braccianti e alle loro famiglie, che la prima cosa cui ha diritto chi lavora è la dignità: la dignità che non può mai essere negata a un essere umano, a un lavoratore, a un cittadino». Baldina non ha dubbi: «Apprendere che a cinquant’anni dalla scomparsa di mio padre, proprio nelle campagne pugliesi, si sono ricreate condizioni disumane di lavoro e di vita che mettono in questione la dignità e la libertà dei nuovi braccianti, è stato per me motivo di profondo dolore. E il fatto che questi braccianti siano in maggioranza lavoratori stranieri è un’aggravante che rende ancora più netto, per noi italiani, il dovere di reagire a una situazione insopportabile. Di reagire, naturalmente, coinvolgendo nella lotta noi tutti e i nostri nuovi vicini di casa». Chissà cosa avrebbe pensato Di Vittorio dei tempi correnti che corrono a perdifiato verso l’autodistruzione. La terra che viene divorata, la violenza dell’uomo sulla natura e sui suoi simili. Sicuramente Peppino avrebbe osato, perché la forza di un’idea libera può cambiare il mondo. Tempi correnti: vip su piazza a spararle grosse per l’audience. «I Rom sono una bomba a tempo. Va disinnescata». Chi l’ha det-
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to? Banale: Beppe Grillo, frase pescata — nel noto blog — nell’articolo I confini sconsacrati. Correva l’anno 2007. Scusate, l’avevo persa questa perla oscurantista. Il post campeggia tutt’ora nella vetrina luccicante del novello politicante, gestita dagli associati in marketing Casaleggio. Certe parole che toccano la patria, si trasformano in armi. Secondo Gad Lerner «Grillo è capace di prendere applausi solleticando i pregiudizi della gente». Dunque, il razzismo. Il Grillo non si premura di distinguere tra criminalità romena, che non proviene dai rom, e rom rumeni, che sono arrivati in Italia perché nel loro paese sono vittime di ogni sorta di ingiustizie e privati dei più elementari diritti civili. Il guru omette di rammentare che sono proprio le politiche espulsive, praticate dall’Italia verso la Romania, attraverso i famigerati centri di permanenza temporanea, che hanno fatto lievitare la criminalità rumena, sottraendo all’esecuzione della pena in carcere centinaia di rumeni che avevano commesso reati e che fino al dicembre del 2006 sono stati espulsi verso il loro paese, piuttosto di scontare in Italia il loro debito con la giustizia. Tra questi romeni appartenenti ad organizzazioni criminali non c’erano rom. I rom rumeni sono vittime e non compartecipi di quel clima diffuso di illegalità che conviene tanto ai nuovi partner commerciali europei della Romania. Ancora una volta i rom definiti un pericolo per la convivenza e la sicurezza degli Italiani. Il discorso vale per i rom rumeni, che sono cittadini comunitari, ma nella sua logica sottesa costituisce il pretesto per un ennesimo attacco agli altri rom, che non sono cittadini comunitari, e a tutti gli immigrati, dopo le campagne estive contro i lavavetri ed i venditori ambulanti. Si dimentica, ancora una volta, che nella Costituzione italiana la responsabilità penale è individuale e che il contrasto della criminalità su base etnica riproduce solo pregiudizi che non giovano né alle indagini né alla punizione dei veri (e non dei presunti) colpevoli. Grillo non menziona gli imprenditori italiani che in Romania fanno accordi con le mafie e speculano sul lavoro schiavistico di uomini e donne pagati con una elemosina; nessuna riflessione sul fatto che la popolazione rumena sta risentendo della liberalizzazione selvaggia, conseguenza di un ingresso accelerato in Europa imposto dalle ragioni del mercato globale. Nessun pensiero per le donne e le bambine rumene vendute sui marciapiedi agli italiani benpensanti, così attenti alla loro famiglia, alla loro sicu-
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rezza e alle loro case. Il populismo di Grillo, che si scaglia contro certi stranieri, costituisce una vera e propria bomba ad orologeria per la già martoriata democrazia italiana. Perché farsi abbindolare dalle battute ciniche e invece non trovare il senso dello stare assieme attorno ad un progetto politico di trasformazione della società e di difesa dei soggetti più deboli? La presenza dei Rom in Italia serve ancora una volta a distogliere l’attenzione dai veri problemi che affliggono il popolo italiano: la insicurezza nel lavoro, la insicurezza nell’abitazione, la insicurezza nella fruizione del diritto alla salute e ad un ambiente sano. Le facili ricette di Grillo, che si rivolgono contro gli ultimi arrivati solo in nome della sicurezza dei cittadini, favoriscono il perpetuarsi di quei rapporti di forza e di quello stato violento con i deboli e sempre flessibile con i poteri forti, che reprime il vero dissenso sociale, massacra l’ambiente ed annienta il welfare. Non basta prendersela con i singoli rappresentanti di un sistema di potere che si rinnova continuamente, sempre sulla pelle delle fasce più deboli della popolazione. Controfigura del potere? Il personaggio è così, un comico abituato a recitare a copione su di un palco, come quando nei suoi spettacoli ultramilionari Antonio Ricci scriveva per lui, e la folla, quella stessa imbonita ogni sera da “Striscia la notizia”, dalle sue veline e dalla sua satira al servizio del potente di turno, applaudiva beata, convinta di avere trovato uno che irrideva e combatteva il potere. Il nodo cruciale investe il modello manipolatorio che Grillo rappresenta, il significato del consenso che raccoglie, i “valori” che veicola, il modo con cui si inserisce la crisi della politica e dei soggetti organizzati. Grillo a conti fatti è un fenomeno del berlusconismo decadente, intriso della stessa mentalità demagogica e populista. Un giullare che dalla grande ribalta mediatica degli spettacoli commerciali si è riciclato nel tentativo di dare una sponda e uno sfogo agli istinti bassi, volgari e viscerali di uno Stivale a questo già ampiamente abituato. Il razzismo e l’omofobia che traspaiono sono la prova che la sua crociata contro il “Sistema” è una variante del sistema stesso, un diversivo assolutamente compatibile con la sua essenza. Non è un caso che la sua stella sia esplosa in concomitanza con la fase del Basso Impero: perché il comico genovese è la controfigura di Berlusconi e Bossi, di quel contro-potere che si presenta come eversivo e per questo “popolare”, in sintonia con i desideri pro-
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fondi. Grillo è il guru che parla direttamente al popolo, scavalca le gerarchie, le burocrazie di partito, vive con fastidio il rapporto con la politica e con la stessa democrazia. E, quel che è peggio, non contrappone alle storture della politica e alle malattie della democrazia la cura della partecipazione, del protagonismo del popolo e, al suo interno, di quei soggetti sociali che subiscono il Basso Impero. Al contrario, chiede al popolo di seguirlo, di identificarsi in lui e attraverso il suo corpo e la sua voce di sfogare la propria frustrazione. Un “vaffanculo” salverà il mondo. È così riemerso il populismo. È tornato a galla uno dei caratteri latenti del nostro Paese, quello che ha reso possibile il fascismo e il sostegno ventennale ad esso, le varie “maggioranze silenziose” e i fenomeni mafiosi e criminosi in vastissimi settori del Paese e delle sue più elevate istituzioni, compresi i governi d’ogni colorazione. Sia chiaro, una volta per tutte: il numero dei rom rumeni arrivato in Italia non è tanto più elevato del numero dei nomadi arrivati in altri paesi europei. Nei campi rom italiani, anche in questi giorni, piuttosto che interventi di integrazione e di avvio al lavoro e alla scuola, per i quali si tagliano i fondi, si assiste a continue incursioni della polizia e dei carabinieri, sollecitate anche da qualche sindaco sceriffo, all’insegna del motto “tolleranza zero”, per rassicurare i cittadini preoccupati, per rendere concreta la minaccia di una deportazione al di fuori dei quartieri urbani. Ad esempio: ad Orta Nova, in Puglia, c’è un consigliere comunale del Partito della Libertà (un carrozzone in avanzata decomposizione), tale Gerardo Tarantino, che ha alimentato una caccia all’extracomunitario. Un bel giorno questo medico del Pdl ha tappezzato di manifesti di tenore razzistico il borgo agricolo che annovera 18 mila anime, senza contare i migranti massacrati di fatica nelle campagne ad 1 euro e 50 centesimi l’ora, privi di qualsiasi tutela. Nel testo della locandina, firmata da questo medico di pronto soccorso, è scritto: «Il sindaco di Orta Nova e la giunta di centro sinistra stanno lavorando alla costruzione dell’albergo diffuso per immigrati senza riflettere sui problemi già esistenti causati dall’insediamento di un campo nomadi abusivo. Non si preoccupano della salute pubblica e dell’edilizia popolare per gli ortesi, che è ferma per l’incapacità di Vendola, né tutelano la sicurezza di cittadini e dei proprietari terrieri di Orta Nova. Noi diciamo NO all’insicurezza. CHIEDIAMO LO SGOMBERO DEL CAMPO
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ABUSIVO SITO IN CONTRADA LA PALATA». Paure pubbliche e private si convertono in pulsioni intolleranti ed autoritarie. «Giacché l’uomo moderno — come annotava Freud nel 1929 (Il disagio della civiltà) — ha rinunziato alla possibilità d’essere felice in cambio di un po’ di sicurezza». Non latitano le buone notizie. Il Consiglio di stato ha decretato la fine dell’“emergenza nomadi”, che ha esposto le comunità Rom a gravi violazioni dei diritti umani da quando è stata introdotta qualche anno fa. «Porre fine all’“emergenza nomadi” è un passo nella giusta direzione, questa era illegittima e non sarebbe dovuta mai essere stata dichiarata», ha affermato Nicola Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty International. «Il governo italiano ha ora la responsabilità di fornire rimedi effettivi a tutte le famiglie Rom che hanno subito sgomberi forzati e altre gravi violazioni dei diritti umani durante “l’emergenza nomadi”», puntualizza Amnesty. Nel maggio 2008, il governo italiano dichiarò uno stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nelle regioni di Lombardia, Campania e Lazio. Questo per affrontare, presumibilmente, «una situazione di grave allarme sociale, con possibili ripercussioni per la popolazione locale in termini di ordine pubblico e sicurezza». L’emergenza è stata successivamente estesa alle regioni di Piemonte e Veneto. Sulla base dell’“emergenza nomadi”, ai prefetti dei capoluoghi delle regioni interessate è stato conferito il potere di agire in deroga alla legislazione che protegge i diritti umani, e gli sgomberi forzati delle comunità rom sono stati molto frequenti ed eseguiti con sempre maggiore impunità. «L’emergenza nomadi ha esposto migliaia di Rom a violazioni dei diritti umani e ha aggravato la discriminazione nei loro confronti», — ha concluso Duckworth — «Il nuovo governo italiano deve porre fine a politiche e pratiche discriminatorie che colpiscono persone rom da anni. Questa di sicuro non è la fine della storia, ma può essere un nuovo inizio». Chi ricorda che il Presidente della Repubblica di Francia, tale Sarkozy, aveva decretato ufficialmente guerra agli zingari: Rom, Gitani, Manouche. Parola d’ordine: caccia alla “gens du voyage”. L’attrice e regista Fanny Ardant era sdegnata: «I Rom hanno unito l’Europa prima ancora della politica, è dal medioevo che attraversano paesi e fanno circolare idee, non possiamo dimenticarlo». Nel Belpaese quanto a ferocia
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istituzionale e personale non siamo da meno: l’intolleranza non ha limiti al pari della repressione del “diverso”. «Noi siamo una nazione e non vogliamo uno Stato. Noi vogliamo vivere da europei, come gli altri e con gli altri; cittadini a prescindere dalla nazionalità, dalla religione che si professa, dalla lingua che si parla — spiega Emil Scuka, presidente dell’International Romani Union (Unione Internazionale Rom) —. Rivendichiamo una cittadinanza europea per noi, gente discriminata e spesso perseguitata, marginalizzata». È il caso dei circa 150 mila Rom che sopravvivono ai margini delle principali città italiane. Fantasmi in carne e ossa con passaporti della Jugoslavia, uno Stato che non esiste più. Tagliati fuori dalla possibilità di ottenere abitazioni civili. La loro lingua, il romanès, non è riconosciuta e tutelata in Italia. I cosiddetti zingari, che parlano solo quell’idioma, non hanno diritto a traduttori nei tribunali e negli uffici pubblici. La denuncia è del Cerd (Committee on the elimination of racial discrimination), la Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, organismo dell’Onu con sede a Ginevra. Oggetto di numerosi episodi di intolleranza razziale documentati dall’Ercc, il centro europeo per i diritti dei Rom: un’organizzazione internazionale con sede a Budapest che compie monitoraggi sul rispetto dei diritti umani nei confronti dei Rom in Europa e organizza assistenza legale nei casi documentati di violazione dei diritti umani. Sotto accusa non sono solo le condizioni di estremo degrado, ma l’esistenza stessa dei campi nomadi, considerati “strumenti di segregazione fisica” anche da Amnesty International e causa dell’isolamento economico, politico e culturale dei Rom. L’Ercc segnala «il ripetersi di episodi di intolleranza razziale, talvolta non riconosciuti come tali dalle autorità e quindi perseguiti». Molte sono le segnalazioni di assalti armati e violenti raid in diverse città del Belpaese in campi nomadi e presso abitazioni di Rom per i quali non c’era il ragionevole sospetto di attività criminali. Quella degli sgomberi dei campi nomadi è una prassi ormai classica. Ordinario razzismo, esclusioni, brutalità, abusi, pestaggi e minacce da parte dei tutori dell’ordine o di comuni cittadini. «Quello che manca è la volontà politica di affrontare le questioni — sostiene Massimo Converso dell’Opera nomadi —. Per cui si va avanti per inerzia sostenendo che il problema non esiste». Invece sono migliaia le donne e gli uomini Rom (compresi i bambini) che
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abitano nei “campi sosta”, senza tutele minime, spesso senza acqua e corrente elettrica, in mezzo a cumuli di immondizie e fango, veicolo di malattie ed epidemie pericolose, con un’alimentazione ai limiti della sussistenza, e senza alcuna possibilità di rivendicare una vita dignitosa. Secondo l’Ercc, poi, «non esiste quasi nessuna differenza tra chi vive in un campo abusivo (sono circa il 40 per cento dei campi italiani) o autorizzato, perché nemmeno in quest’ultimo caso aumentano le possibilità di ottenere un permesso di soggiorno o di residenza, oppure di trovare un lavoro che consenta di mandare i figli a scuola». Nel capitolo intitolato “Violenza e cattiva condotta da parte della polizia”, i rapporti dell’Ercc, dopo aver puntualizzato che «la violenza da parte della polizia in Italia è diretta anche contro i non Rom e si basa su un autoritarismo dei pubblici poteri che è tradizionale nella società italiana e solo lentamente modificato dal regime democratico», sostengono che nel caso dei Rom «l’atteggiamento autoritario è seriamente aggravato da motivazioni razziste. La polizia usa le offese verbali, la tortura, le armi da fuoco che, anche quando non si arriva a sparare, vengono spesso utilizzate per minacciare o intimidire le persone». Gli archivi di Amnesty International trasudano di testimonianze e prove: la questione tortura è reale e in costante aumento. Pregiudizi e sospetti infondati minacciano quotidianamente i Rom, anche anziani e bambini inermi, terrorizzati da mitra e pistole puntate alle loro tempie nel corso delle perquisizioni nei campi. I raid delle forze dell’ordine avvengono di solito all’alba: carabinieri o poliziotti entrano nel campo armati come se entrassero in guerra e procedono tugurio per tugurio, minacciando le persone inermi, spesso con le percosse, o distruggendo quanto trovano nelle baracche o roulottes, per poi andarsene senza esibire alcuna motivazione o autorizzazione della magistratura alle loro azioni. Capita anche che rubino, ricattino o estorcano, senza ovviamente che le vittime siano in grado di ribellarsi. I rapporti dell’Ercc illustrano anche casi di «perquisizioni corporee nei confronti di donne arrestate, compiute anche da uomini in divisa e accompagnate spesso da maltrattamenti e molestie sessuali». Sarebbero i primi a sentire il cuore ed i proclami abusati, ma in realtà, la società occidentale poco si cura della salute psicologica dei bambini, dimenticando che dalla loro educazione dipende la qualità
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del futuro. Non dimentichiamo l’infanzia negata. Invisibili agli occhi dei benpensanti. «In Italia sono 32.000 i minori che vivono al di fuori della famiglia, vittime di incuria, abbandono, maltrattamenti e violenze. Di questi oltre 15.000 sono affidati a strutture di accoglienza. L’incidenza media è di circa 1 minore affidato ogni mille. Nell’80 per cento dei casi l’affidamento è disposto dal Tribunale dei Minori. I minori stranieri rappresentano il 14 per cento del totale di quelli affidati alle strutture di accoglienza». Sono i dati denunciati dalla Fondazione “L’Albero della Vita Onlus”. Le statistiche istituzionali (rapporti: Caritas, Ministero Interno, Istat) fotografano una realtà agghiacciante. Nel Belpaese almeno 2 milioni di bimbi sopravvivono in stato di povertà, 500 mila costretti a lavorare, 50 mila obbligati a mendicare proprio dove il cibo si spreca. E tanti minori, stranieri e non, svaniscono ogni anno nel nulla. «In Italia spariscono mediamente ogni anno 1.800 minori, d’età compresa fra i 6 e i 14 anni»: rivelano le cifre ufficiali. Non si ritrovano più e si ignora la loro fine. Gli inquirenti ipotizzano la riduzione in schiavitù e la tratta degli organi umani. Diamo sempre i numeri: «è in esponenziale diffusione il mercato della pedo-pornografia online e arriverebbero a 1 milione i bambini e le bambine testimoni di abusi e maltrattamenti ai danni soprattutto di fratelli e madri». Sono alcuni dei dati che emergono dal rapporto “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia” realizzato da “Save the Children”. I bambini, in relazione alle altre fasce d’età (giovani e anziani), presentano l’incidenza più alta di povertà, pari al 17 per cento della popolazione infantile. Sul totale dei minori poveri 2 terzi vive nel Sud Italia dove è povero un bambino su 3, con la Sicilia a detenere il triste primato (il 41 per cento di bambini poveri). E dire che nello Stivale si sprecano annualmente tonnellate di cibo, per un valore di 4 miliardi di euro: metà di quanto destiniamo agli aiuti internazionali. L’accattonaggio ha investito l’Europa e registra ora un notevole incremento nella Penisola. Il fenomeno coinvolge quasi sempre bambini “stranieri” appartenenti per la maggior parte alle comunità di nomadi Rom di origine slava. Seguono in misura minore, ma in forte crescita, quelli giunti da Romania, Marocco, Albania, Paesi dell’ex Urss. A differenza dei bambini Rom, per i quali questo sistema è parte integrante della propria cultura e metodo per contribuire al sostentamento della famiglia, i minori
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provenienti dall’Europa dell’Est sono pedine in mano alle organizzazioni criminali. L’impiego redditizio dei bambini in attività di accattonaggio rappresenta un forte incentivo per la tratta dei minori, che è la peggior forma di riduzione in schiavitù. Secondo il VI Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, «i percorsi della tratta, sono principalmente due: quello gestito dalla malavita ucraina, le cui vittime, passando per il confine con la Slovenia, arrivano da Ucraina, Russia, Moldavia, Bulgaria e Paesi Baltici; quello gestito dalla mafia albanese, le cui vittime partono dall’Albania e dai Paesi dell’Est per approdare nei porti di Bari e Brindisi». In Italia sono almeno 50 mila i bambini fra i 2 e i 12 anni costretti a mendicare. Solo nel Lazio, sono più di 8 mila i bambini che chiedono l’elemosina per strada e che riescono a raccogliere, in una grande città, fino a 100 euro al giorno. L’alta percentuale (circa il 63 per cento) di segnalazioni di sfruttamento di bimbi in attività di accattonaggio segnalate al numero verde dell’Osservatorio sul lavoro minorile ha evidenziato l’esigenza di interventi specifici da parte degli enti territoriali. L’azione si è concretizzata nella creazione di una rete attraverso cui 116 comuni italiani si sono impegnati a controllare che nel proprio territorio non si verifichino casi di sfruttamento dei minori e a rimuoverne le cause. Il maggior numero di segnalazioni all’Osservatorio giunge da Napoli, Roma e Torino, tre centri che hanno promosso interventi localizzati. Dalle indagini svolte dall’Osservatorio è emerso che lo sfruttamento dei piccoli mendicanti si manifesta in maniera più consistente a Napoli, dove negli ultimi due decenni, a causa dei conflitti che hanno devastato i Balcani, è divenuta allarmante la presenza di bambini romeni provenienti dalla Romania orientale, dalla Moldavia e soprattutto dalla città di Calarasi, situata al confine con la Bulgaria. Il comune di Roma ha istituito nel 2003, in collaborazione con il tribunale e la procura dei minori e con le forze dell’ordine, un Centro per il contrasto alla mendicità infantile. I bambini trovati a mendicare per le strade vengono accompagnati al centro e, subito dopo il riconoscimento, il personale sanitario ne controlla lo stato di salute. Verificata la possibilità di un suo rientro in famiglia, il bambino torna con i genitori; altrimenti viene assegnato a una struttura di accoglienza e il suo caso viene segnalato all’Autorità giudiziaria minorile. Ma una civiltà democratica non si misura
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dal rispetto che nutre per l’infanzia? Il liberismo che avvelena l’Unione Europea ha imposto un abbattimento delle frontiere che va solo a vantaggio delle mafie, degli speculatori di ogni risma e dei grandi gruppi economici. Mentre i muri di Schengen continuano ad uccidere i migranti. Il Mediterraneo è una tomba a mare aperto per migliaia di persone in fuga dalle rapine neocoloniali e dalla fame. Adriatico, Jonio e Tirreno sono la più grande fossa comune d’Europa. Non passa giorno che il mare non restituisca corpi senza identità. È trascorso solo qualche anno, ma sul più grande naufragio nel Mediterraneo in tempo di pace non si è ancora dissolto il mistero. Coinvolta la Iohan, uno sconquassato cargo con bandiera onduregna, di proprietà dell’armatore greco Zervodakis Fepticos; il comandante era il sedicente libanese Youssef El Allah e l’equipaggio è composto da greci, pakistani, libanesi e siriani. Il 25 dicembre 1996, la Iohan ha un appuntamento nel canale di Sicilia con la Friendship, una nave libanese che stiva 600 migranti imbarcati in un porto turco e ad Alessandria d’Egitto. Gli accordi prevedono il trasferimento del carico dei dannati sulla nave onduregna e poi, quando questa si sarà avvicinata all’Italia, un secondo trasbordo su imbarcazioni maltesi che porteranno i malcapitati sulle coste calabresi o siciliane. Nonostante la loro precarietà, le barche che devono affrontare l’ultimo tratto della traversata vengono caricate a dismisura. Durante le manovre la Iohan urta uno dei natanti che s’inabissa col suo carico umano. La strage resta quasi ignota, eppure è costata la vita ad almeno 289 persone di nazionalità cingalese, pakistana e indiana. A livello ufficiale, non si sa ancora nulla sulle circostanze e le responsabilità della sciagura. Non è stato neppure accertato se la tragedia è avvenuta in acque internazionali, italiane o maltesi. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria si è dichiarata incompetente, quella di Siracusa, che ha raccolto le testimonianze dei sopravvissuti, ha aperto un’inchiesta, ma i magistrati maltesi sostengono che spetta a loro far giustizia. La Iohan, dopo la strage di Natale, continua a far viaggi verso l’Italia stracarica di “carne umana”. Diventa sempre più malconcia e, nel febbraio del 1997, quando arriva nelle acque ioniche della Calabria con un altro gruppo di disperati (curdi, pakistani e tamil), imbarca acqua e rischia di affondare a un miglio dalla terraferma. I passeggeri vengono sbarcati
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con gommoni e barchette. Il comandante e l’equipaggio abbandonano la nave dopo aver cancellato il nome dalla fiancata e distrutto la documentazione di bordo. In primavera il comandante Youssef El Allah ritorna in Calabria con un’altra nave negriera e scende a terra mescolato ai fuggiaschi asiatici. È fermato, poi liberato, nuovamente arrestato e definitivamente rimesso in libertà. Il naufragio di Natale non è mai esistito per i media e per le Autorità italiane. La senatrice Tana De Zulueta a suo tempo ha interrogato il ministro degli esteri. La risposta del sottosegretario Patrizia Toia giunge dopo 9 mesi, il 30 settembre 1997. Due pagine e mezzo in cui la vicenda viene maldestramente ricostruita. È inutile cercare qualcosa sopra l’acqua: le vittime si trovano sotto, chiuse nelle celle frigorifere del peschereccio maltese colato a picco in pochi minuti dopo l’urto con la Iohan, 30 miglia a nord-est di Malta e 40 a sud di Capo Passero. Nella tardiva risposta della Farnesina non si fa alcun cenno alla possibilità di recuperare i corpi dei ragazzi, chiesta più volte dai loro parenti. Per quale ragione non è stato ancora possibile tentare di ripescare il relitto e le salme? «Perché — aveva rivelato l’allora sostituto procuratore di Reggio, Stefano Billet — occorrerebbe un’apposita richiesta del ministero di Grazia e Giustizia. Ma la richiesta non può essere inoltrata perché dalle informazioni a nostra disposizione non è certo che il fatto sia avvenuto in acque territoriali italiane». A novembre del 2011 l’acqua del “Mare Nostrum” ha annientato il respiro dei migranti in fuga dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni. La cronaca minore racconta l’ultimo affondamento: si ribalta un barcone al largo della Puglia (in località Santa Sabina nel territorio di Carovigno) ed un numero imprecisato di esseri umani annega, stritolato dal gelo. I dati ufficiali rivelano che oltre duemila persone sono state inghiottite dal Mar Mediterraneo a seguito di incidenti. Tanti, pochi? Grecia, Turchia e Albania, grazie al beneplacito Usa e dell’Europa, sono in conflitto su tutto tranne che sul traffico di merce umana. Le organizzazioni criminali di questi Paesi gestiscono la rete delle carrette della morte che trasportano in Italia, via mare, migliaia di clandestini dell’India, del Pakistan, del Bangladesh, dell’Afghanistan, dell’Iraq e di etnie perseguitate come quelle dei curdi e dei tamil. La centrale di smistamento è ad Istanbul con diramazione periferica a Valona. I punti di raccolta degli immigrati provenienti dall’Oceano Indiano
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sono nel Punjab (a Lahore) e nell’Azerbaijan. La mafia russa incassa da ognuno di loro 7-8 mila dollari per scaraventarli sulle rive del Mar Nero e farli entrare in Turchia. I negrieri turchi e greci si fanno pagare altri 5-6 mila dollari per abbandonarli davanti alle coste pugliesi e calabresi. La nazione del vessillo tricolore ha contribuito al genocidio foraggiando le prigioni libiche. Utili ragguagli potrebbero essere richiesti a Berlusconi, Frattini, Maroni e La Russa. Gheddafi non potrà spifferare nulla perché, come noto, l’hanno scannato prima, senza un regolare processo. E poi, in Italia, volutamente, la memoria politica ha le gambe corte. Il 10 novembre 1938 entrò in vigore il “Manifesto della Razza”, che segnò l’inizio della persecuzione per i 47 mila ebrei italiani dell’epoca. La legge fu firmata da Vittorio Emanuele II. Nel 1997, al Tg 2 della Rai, l’erede Vittorio Emanuele aveva detto: «Io per quelle leggi non devo chiedere scusa. E poi non erano così terribili». L’11 novembre 2002 l’onorevole Parlamento, in barba alla Costituzione Repubblicana e al sangue di chi si è battuto contro la barbarie nazifascista, ha spalancato le frontiere ai famigerati Savoia, come se nulla fosse accaduto. Il peggio in conclusione. Mentre aumenta a dismisura il consumo ed abuso di psicofarmaci cos’altro ha escogitato il Governo Monti per riportare al Medioevo la nostra vita terrena? Sicuramente non avranno dormito la notte i sacerdoti illuminati delle nuove regole. Al via il testo per la riapertura dei “manicomi”: il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) diventa Trattamento sanitario necessario per malattia mentale (Tsn): ha la durata di 15 giorni (non più gli 8 del Tso) e può essere prolungato con proposta motivata del responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Infatti, sarà presto istituito «il trattamento necessario extra-ospedaliero prolungato, senza consenso del paziente, finalizzato alla cura di pazienti che necessitano di trattamenti sanitari per tempi protratti in strutture diverse da quelle previste per i pazienti che versano in fase di acuzie, nonché ad avviare gli stessi pazienti a un percorso terapeutico-riabilitativo di tipo prolungato. Il trattamento necessario extra-ospedaliero prolungato ha la durata di sei mesi e può essere interrotto o prolungato» ma non «protratto continuativamente oltre i dodici mesi». E ancora: nei casi in cui «la convivenza con la persona affetta da disturbi menta-
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li comporta rischi per l’incolumità fisica della persona stessa o dei suoi familiari, il dipartimento di salute mentale, in collaborazione con i servizi sociali del comune, trova una soluzione residenziale idonea nell’ambito degli alloggi di edilizia residenziale pubblica». Lo psichiatra Salvatore Lupo di Psichiatria Democratica non si trattiene:«34 anni dopo la legge 180 si viene ancora ricoverati in ospedale psichiatrico e nelle strutture pubbliche e private si fanno tuttora gli elettroshock» In Italia, infatti, l’elettroshock non è proibito da alcuna legge. Per il Consiglio Superiore di Sanità possono essere sottoposti a terapia elettro-convulsivante, ossia a scariche nel cervello di corrente elettrica alternata fra 100 e 130 volt «pazienti affetti da episodio repressivo e rallentamento psicomotorio (classificazione ICD 10), quando non possono attuarsi terapie farmacologiche, ovvero nei casi di vera ed accertata farmaco-resistenza e nei casi nei quali è controindicato l’uso di psicofarmaci, nei casi documentati di precedenti e gravi effetti collaterali imputabili agli antidepressivi, in pazienti affetti da forme maniacali resistenti alla terapia farmacologia o effetti da sindrome maligna da neurolettici nei casi di catatonia maligna». Quanto a garanzie il testo specifica: «Nei casi in cui il paziente, in ragione della sua malattia, non sia in grado di esprimere liberamente il proprio assenso, il trattamento può essere praticato con il consenso del tutore legale e tramite la procedura del Tso». Al riguardo la letteratura scientifica parla chiaro: l’elettroshock provoca amnesia, deficit cognitivo, lesioni cerebrali, ipertensione cronica, emorragia endocranica, infarto miocardico, distacco retinico, malattie degenerative dell’apparato osteo articolare, stati confusionali. Perché si alimenta la Tec? Semplice: è altamente lucrativa e non sporca le mani dell’industria sanitaria. Eppure è in vigore una circolare del ministero della Sanità che recita: «L’elettroshock si può fare in un unico caso — peraltro rarissimo — di depressione resistente a tutti i farmaci». Insomma, di follia si muore nel Belpaese: dal suicidio cruento, all’annientamento invisibile a base di psicofarmaci. Quando ti dimettono da un reparto psichiatrico restano in corpo i gonfiori diffusi, la mente intorpidita dai sedativi, le paure in camice bianco. Sono i segni visibili di un passaggio infernale della modernità: il trattamento sanitario obbligatorio. È una pratica che isola, punisce, a volte uccide. Garanzie giuridiche a difesa dei comuni mortali? Pra-
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ticamente formali. Parliamo di una diffusa “modalità terapeutica” adottata dai medici con la tacita o superficiale connivenza di sindaci armati di ordinanze prestampate, sovente tollerata (o ignorata) dalla magistratura. Accade sempre più spesso. Sarà un caso? Già, ma chi se n’è accorto? In Italia i funzionari della norma propongono e convalidano accertamenti anche sui minori non benestanti. I dati ufficiali del ministero della Sanità parlano chiaro: «Le caratteristiche sociodemografiche prevalgono sui motivi predisponenti e individuano i Tso nella popolazione». Sono le classi sociali prive o con scarsi conti in banca a farne le spese. I Tso si subiscono. Per effettuare un trattamento sanitario obbligatorio necessita la proposta motivata di un dottore. Il sanitario con l’intervento coatto non incorre nel reato di violenza privata e sequestro di persona. Ma dov’è l’urgenza psichiatrica quando il Tso si materializza in accordo con le famiglie? «Un grave disturbo dell’ideazione o delle percezioni che s’accompagnano ad immotivato rifiuto del trattamento» sono sufficienti. È quanto recita la legge. Il medico non ha l’obbligo di formulare una chiara diagnosi. Basta la «presenza di un quadro sindromico: agitazione psicomotoria, stato delirante, stato confusionale». Un Tso dura in media 7 giorni, ma potrebbe prolungarsi oltre. Il ricovero «deve avvenire nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, ubicati negli ospedali generali dotati di un numero di posti letto non superiori a 15». I “malati di mente” vengono segregati in reparti psichiatrici angusti dove non possono comunicare con i familiari; sovente finiscono legati ai letti. Il Tso è una via senza ritorno. In caso d’errore diagnostico, la normativa prevede la possibilità di conferma o di rifiuto della proposta sanitaria da parte di un secondo medico in veste di pubblico ufficiale. Non capita quasi mai. Dal momento dell’ospedalizzazione si avvisa l’ufficiale di Stato Civile. Segue, entro 48 ore, un’ordinanza del sindaco che assume carattere di tutela; poi un provvedimento di convalida del giudice tutelare. Allo scadere della settimana solo se il paziente viene dimesso mantiene i suoi diritti e non rischia di essere posto in regime di amministrazione controllata. Che dire sui mattatoi di Stato? Dentro vi sono segregati un migliaio di “matti” che non hanno mai avuto un processo. Vi sono rinchiuse perfino persone che non hanno commesso reati. È una barbarie unica in Europa, frutto di riforme mancate, disinteresse e abbandono. Questi essere umani
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non contano niente. Gli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia sono attualmente: Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Napoli, Aversa, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere (femminile). “Opg” nei documenti istituzionali: sigla che ha sostituito la definizione di manicomio criminale. Restano sul piano formale le norme con cui nel 1903 un Regio Decreto istituì queste prigioni in cui devono soggiornare i “folli” che avevano commesso reati. E sono ancora in vigore norme del codice Rocco del 1930, nonostante il recente interessamento del senatore Marino. Quanto basta per offrire all’Italia il primato d’unico paese d’Europa con strutture del genere, condannate dall’Onu e dalla Commissione europea per i diritti dell’uomo.
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Capitolo dodicesimo Giornalisti a perdere Poco dopo le stragi di Ustica e a seguire di Bologna, Graziella De Palo ed Italo Toni spariscono a Beirut il 2 settembre 1980, mentre indagano su un traffico di armi. Scomparsi senza lasciare tracce, insomma volatilizzati e in preda all’oblio. I loro nomi non compaiono neppure nelle numerose statistiche dedicate agli operatori dell’informazione e della stampa caduti in ogni parte del mondo. Erano approdati nella terra dei cedri il 23 agosto. All’ambasciata italiana avevano detto che intendevano visitare i campi palestinesi. Il portavoce dell’Olp, Mahmoud Labadi, ricorda infatti di aver avuto un colloquio con loro e di averli indirizzati al “Fronte democratico per la liberazione della Palestina” di Nayef Hawatmeh. Un rappresentante di questo gruppo conferma che la visita ai campi era stata organizzata per il 2 settembre. I due italiani, però, non si erano presentati all’appuntamento. Sulla vicenda pesa più di un macigno, un segreto di Stato italiano: imposto dal premier Bettino Craxi in veste di presidente del Consiglio dei ministri. I due free lance, liberi e indipendenti, non sono mai stati ritrovati. Graziella era nata a Roma il 17 giugno 1956; Italo a Sassoferrato (Ancona) nel 1930. Una fitta nebbia istituzionale copre ancora i documenti occultati dallo Stato, la cui proroga è scaduta il 31 dicembre 2010, termine entro il quale avrebbe dovuto essere svelata la vera natura e le condizioni del Lodo Moro. Le carte che attestano i rapporti tra l’allora Servizio segreto militare italiano (Sismi) e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) non sono consultabili. Il tono della lettera che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha inviato nell’ottobre 2009 al Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir), sul punto è ambiguo. Il 12 ottobre 2009, il premier, Silvio Berlusconi, scriveva all’allora presidente del Copasir, Francesco Rutelli: «Gentile presidente, rispondo alla sua lettera concernente la proroga fino al 31 dicembre 2010 del Segreto di Stato, di cui è stata data comunicazione al Copasir nelle forme di rito, ai sensi dell’articolo 39 della legge 124 del 2007, sui rapporti in Libano tra il Sismi e l’Olp, in occasione della scomparsa dei giornalisti Toni e De Palo. A tale riguardo, desidero preliminarmente ricordare che si è ritenuta necessaria la proroga del Segreto per la protezione degli stessi interes-
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si che furono a suo tempo motivo dell’opposizione e della conferma del Segreto al Tribunale di Roma, da parte dell’allora presidente del Consiglio (Bettino Craxi, nda). Pur tenuto conto del tempo trascorso e dei mutamenti intervenuti nel contesto internazionale, infatti, il disvelamento di delicati rapporti intrattenuti all’epoca dal Sismi, potrebbe tutt’ora provocare ripercussioni nell’area Mediorientale, comunque ancora connotata da elementi di forte criticità, con possibili ricadute sulla sicurezza del nostro Paese. Desidero al contempo darle assicurazione che già in occasione della proroga sono state attentamente prese in considerazione le aspirazioni dei famigliari dei giornalisti De Palo e Toni a conoscere ogni eventuale informazione che possa riguardare la scomparsa dei loro congiunti. Si è infatti deciso di non utilizzare tutto il periodo di proroga previsto dalla legge che avrebbe consentito di prolungare il Segreto — che si ripete, attiene ai rapporti Sismi/Olp — fino al 2014 (venne opposto nel 1984 dal colonnello Giovannone e poi confermato, nda), ma di fissare il nuovo termine del vincolo al 31 dicembre 2010. In parallelo, proprio per corrispondere alle aspirazioni dei familiari dei giornalisti, nello stesso giorno in cui è stata disposta la proroga, lo scorso 22 settembre, sono state date apposite indicazioni all’Aise (i servizi segreti, nda), tramite il direttore generale dei DIS (Dipartimento informazioni per la Sicurezza, il cui direttore è Giovanni De Gennaro, nda) affinché fosse compiuta un’attenta rivisitazione del carteggio. La documentazione di interesse verrà infatti attentamente selezionata in modo da isolare in modo puntuale e quindi circoscrivere al minimo indispensabile gli atti che ancora appaiono meritevoli della massima protezione, in relazione al richiamato interesse alla sicurezza e ai corrispondenti fattori di rischio nello scenario libanese, tenuto conto anche della presenza in quel Paese di un contingente militare italiano. In questo modo verrà verificata per ogni specifica informazione che dovesse riguardare la scomparsa di Italo Toni e Graziella De Palo, l’eventuale attinenza all’oggetto del Segreto e conseguentemente, in linea con quanto auspicato dal Comitato, si potrà prendere in considerazione la possibilità di liberare dal vincolo, anche prima del termine del 31 dicembre 2010, tutta la documentazione non strettamente pertinente agli interessi protetti. Nel quadro della consueta collaborazione istituzionale, il Copasir verrà tempestiva-
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mente informato degli esiti dell’attività di rivisitazione del carteggio. Alla scadenza della proroga, infine, verrà compiuta una rivalutazione complessiva dell’attualità del Segreto alla luce degli eventuali fattori di rischio per l’Italia che ancora dovessero essere presenti nell’area Mediorientale, tenendo a tal fine nella dovuta considerazione anche il parere dei ministri interessati». Tutt’altro tono aveva la lettera che il 19 gennaio 1983 il presidente della Repubblica Sandro Pertini, inviò al presidente libanese Amin Gemajel: «I latori della presente sono i giornalisti Ettore Tito, Giorgio Ricordì e Marcello D’Angelo, nonché la signora Renata De Palo ed il figlio di questa, Giancarlo De Palo. I De Palo sono i familiari della giornalista Maria Grazia, scomparsa in Libano insieme al giornalista Italo Toni nel settembre del 1980. I tre giornalisti vengono in Libano per incontrare le Autorità di questo Paese nella speranza di avere qualche elemento utile per poter far luce sulla vicenda. La prego di ricevere questa delegazione e di favorirla in tutti gli incontri con le Autorità di Governo, in particolare con i funzionari di polizia che a suo tempo si interessarono del caso». Nessuno ha ripreso in mano né riesaminato le carte di un caso che i dirigenti delle istituzioni hanno congelato in un limbo imperscrutabile. Ai parenti più stretti dei due giornalisti è stata consentita solo la lettura di 1.240 scarni documenti, di cui però è vietata la divulgazione. Altri, quelli significativi, restano celati dal segreto permanente, un muro che sarebbe dovuto crollare il 31 dicembre 2010. «Dalle carte — spiega Giancarlo De Palo, fratello di Graziella — dovrebbe riemergere la verità sul caso Toni-De Palo e sul Lodo Moro, un patto noto a tutti ma mai certificato da alcun documento. Il sospetto è che quelle carte possano svelarlo e metterlo nero su bianco, facendo diventare verità storica una vicenda su cui per anni sono state fatte solo ipotesi. Nonostante questo — conclude De Palo — nessun giornale né alcun cronista sembra interessarsi seriamente alla vicenda». Il calendario si è inceppato al 2 settembre 1980 per i familiari dei due giornalisti, dimenticati anche dalla categoria di appartenenza (che poco o nulla ha fatto per accendere una luce d’attenzione) e, di conseguenza, ignoti a gran parte dell’opinione pubblica. Italo Toni e Graziella De Palo erano giunti in Libano, senza alcuna copertura
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editoriale ed economica, per indagare con lo spirito puro dei segugi di razza (ormai in via di estinzione) sui traffici di armi organizzati dai boiardi attanagliati al timone dello Stato tricolore. Il 27 maggio 1981 vengono resi noti (dopo il sequestro giudiziario a Castiglion Fibocchi disposto dalla Procura della Repubblica di Milano) gli elenchi degli affiliati alla loggia massonica deviata P 2. Così emerge che buona parte delle autorità che si sono torbidamente “occupate” del caso figurano nella lista di Licio Gelli. Tra essi il segretario generale del ministero degli Esteri e membro di diritto del Cesis, Francesco Malfatti, il direttore del Sismi Giuseppe Santovito, il capo del gabinetto di Forlani, Semprini, il segretario dell’onorevole Mazzola, Massimiliano Cencelli, compreso il colonnello Cornacchia. Il capo del governo, Berlusconi Silvio (tessera P 2 numero 1816), pur sollecitato alla stregua dei precedenti colleghi di poltrona, non rimuove il segreto di Stato, rimodulato maldestramente dalla legge 124 del 2007, che ancora comprende il segreto politico, o meglio fonde e confonde il segreto politico-militare. Aldo Toni (fratello di Italo) e Alvaro Rossi (cugino) non hanno più dubbi: «Loro conoscono la verità in ogni minimo dettaglio, ne siamo certi, altrimenti non ci opporrebbero, come fanno dal 1984, il segreto di Stato». Ci addentriamo in un intrigo internazionale in cui primeggiano il ministero degli Esteri, i nostri servizi segreti (allora Sismi, in particolare il colonnello Giovannone e il generale Santovito), l’Olp (organizzazione per la liberazione della Palestina). È un mistero non risolto in cui si intrecciano depistaggi e manomissioni della verità, oltre a menzogne infinite di marcata impronta istituzionale. L’obiettivo ufficiale del viaggio di questi due cronisti investigativi — accreditati da una lettera di presentazione di Nemmer Hammad (capo della delegazione italiana dell’Olp) — è un réportage sui campi palestinesi in Siria e Libano, particolarmente critica oggi, drammatica come a quel tempo. Nel 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi ufficializza il segreto di Stato sui rapporti tra la nostra repubblica e l’Olp. A fronte del lavoro di un magistrato, il pubblico ministero Giancarlo Armati della Procura della Repubblica di Roma, che indagò puntando il dito verso la direzione oggi ritenuta più corretta (i movimenti palestinesi), ci fu invece un altro pezzo di Stato che giocò contro. Ne fece parte il giudice istruttore Renato Squillante che, malgrado prove e palesi depistaggi, arrivò a
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sentenza di proscioglimento per George Habbash, il referente dei gruppi più radicali dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. E ne fecero parte ufficiali dei servizi segreti asserviti alla loggia massonica P2, come il generale Giuseppe Santovito. O il suo sottoposto, il colonnello Stefano Giovannone. Che scamparono alle imputazioni per le menzogne propinate ai giudici solo perché, provvidenziale, morte li colse. Appare illuminante la richiesta di rinvio a giudizio (4 febbraio 1985), inoltrata dal pubblico ministero Armati al giudice istruttore, nel procedimento numero 9195/84A: «Il P.M. Letti gli atti; RILEVA La estensione in ogni direzione e con ogni possibile strumento investigativo e la analiticità dell’istruttoria, sinora compiuta avrebbero certamente consentito di fare piena luce sulla complessa vicenda della scomparsa all’estero dei giornalisti Toni Italo e De Palo Graziella, se resistenze ed ostacoli di diversa natura non avessero reso estremamente arduo l’accertamento della verità, impedendo ancora oggi di chiarire alcuni profili oscuri della vicenda (…) l’accertamento delle responsabilità ha altresì incontrato un ulteriore più complesso limite — solo in parte superato — nel coinvolgimento nella vicenda in esame di esponenti del SISMI, il cui ruolo, proprio nel periodo della scomparsa dei due giornalisti, presenta aspetti oscuri certamente estranei ai suoi fini istituzionali (…) dalla nota in data 15.11.1983 inviata dall’Ambasciatore Stefano D’Andrea al Direttore generale presso il Ministero degli Esteri Sergio Berlinguer ( vol. II, foglio 418) risulta che Faruk Abillamah, all’epoca capo della Suretè Nationale in Libano, in un colloquio riservato e confidenziale avuto con lo stesso D’Andrea a Parigi, ha affermato che i due erano stati uccisi dal gruppo di Habbash, “subito o quasi” (…) proprio del Giovannone si avvaleva il Santovito per introdurre Michele Pazienza nei centri decisionali del mondo arabo. Lo stesso Giovannone, peraltro, ha ammesso l’esistenza di un rapporto privilegiato con l’OLP, fondato su una sorta di “patto di non belligeranza” terroristica palestinese in territorio italiano e di aiuto palestinese per le forniture petrolifere, in cambio dell’appoggio del nostro Paese alle aspirazioni dell’OLP al suo riconoscimento in campo internazionale (…) chiede che il Sig. Giudice Istruttore in Sede, dichiarata chiusa l’istruzione formale, ordini il rinvio a giudizio, dinanzi alla Corte d’assise di Roma, competente per materia e territorio, di: 1)
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JORGE Habbash (…) per avere, in concorso con altre persone non identificate, cagionato la morte di Toni Italo e De Palo Graziella; in Beirut il 2 settembre 1980 o in epoca immediatamente successiva. 2) GIOVANNONE Stefano e BALESTRA Damiano, per rispondere dei reati ad essi rispettivamente ascritti, modificata l’imputazione di favoreggiamento personale come sopra precisato; dichiari non doversi procedere contro Santovito Giuseppe in ordine ai reati a lui ascritti, perché estinti per morte del reo; disponga la separazione dal presente procedimento di copia degli atti relativi alla “vicenda Ciolini”. A parziale modifica delle requisitorie in data 4.2.1985, chiede che la S.V. dichiari di non doversi procedere contro Giovannone Stefano in ordine ai reati a lui ascritti perché estinti per morte del reo; conferma per il resto le requisitorie in data 4.2.1985». Si arresta la magistratura competente, nonostante l’ottimo lavoro svolto dal giudice Armati. Secondo il giudice istruttore Renato Squillante (noto alle recenti cronache giudiziarie) non è possibile emettere un mandato di cattura internazionale contro George Habbash per insufficienza di indizi. Infatti, il Giudice istruttore Squillante il 25 febbraio 1986 risolve l’impiccio con l’ordinanza sentenza di proscioglimento: «DICHIARA Non doversi procedere nei confronti di Stefano GIOVANNONE perché estinti per morte del reo; nei confronti dello stesso SANTOVITO perché non punibile per intervenuta ritrattazione; nei confronti di George HABBASH in ordine ai delitti di sequestro di persona ed omicidio a lui attribuiti come in rubrica – capi D), E) – per insufficienza di prove». Nella storia dei due “desaparecidos” italiani si allungano sinistre, alcune delle maggiori inchieste della storia repubblicana: l’immancabile traffico di armi, la P2, la strage di Bologna, il terrorismo internazionale; infine la scomparsa delle carte compromettenti che custodiva il generale Dalla Chiesa. Furono proprio le triangolazioni impunite di armi fabbricate in Italia che spinsero Graziella ed Italo a partire per il Libano, imboccando la via per Damasco, in veste di ospiti dell’Olp. Graziella nella primavera del 1980 aveva scritto numerosi articoli sul traffico clandestino di armamenti, mentre Toni sembrava più interessato al passaggio degli alti gradi delle forze armate dal libro paga dello Stato a quello delle industrie belliche. Infatti, aveva chiesto delucidazioni a Falco Accame che ora confer-
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ma in pieno quella curiosità. Il Libano è in quel periodo un crocevia fondamentale: la guerra Iran-Iraq è alle porte (23 settembre). Il 7 giugno 1980 Paese Sera pubblica l’ultimo articolo di Graziella. Il titolo è: Elicotteri per l’Iran, un giallo. Dopo il veto Usa e le sanzioni applicate dalla CEE che ne sarà — si chiede Graziella — degli armamenti commissionati alle aziende italiane da Teheran? Una commessa, soltanto degli elicotteri, di circa 120 miliardi. Scorriamo più attentamente i punti salienti della vicenda. Il 22 agosto 1980 i due giornalisti partono per Damasco sotto la protezione palestinese. Poi attraversano clandestinamente il confine con il Libano e prendono alloggio all’hotel Triumph nel settore ovest di Beirut. Il due settembre si recano all’ambasciata italiana e al primo consigliere Tonini dicono: «Domani abbiamo appuntamento con gli uomini del fronte democratico; se fra tre giorni non torniamo veniteci a cercare». Da quel momento svaniscono per sempre. Il 17 ottobre 1980 l’ambasciatore D’Andrea, con telegramma 521 classificato “Urgentissimo - Riservato” comunica alla Farnesina: «Gli specialisti libanesi seguono una traccia precisa: rapimento da parte di Fatah su richiesta siriana». A Roma, invece, stranamente prende corpo l’ipotesi del rapimento da parte dei cristiani-maroniti. A comunicarlo alla famiglia è lo stesso presidente del consiglio di allora, Arnaldo Forlani, alla presenza del generale Santovito: «Signora — dice alla mamma di Graziella — sua figlia è viva, prigioniera dei falangisti (…) blandendo e minacciando riusciremo a farcela ridare». Nel 1986 il fratello del generale Dalla Chiesa, Romeo, afferma che tra le carte del generale che non si trovano più c’era anche qualcosa che riguardava i due giornalisti De Palo e Toni. Alla lettera di spiegazioni di mamma De Palo, risponde scusandosi per aver riaperto la piaga e concludendo: «preferisco tornare al mio silenzio». Chi era Italo Toni? Sicuramente un giornalista di razza indirizzato alle radici umane dei fatti. Nato a Sassoferrato in provincia di Ancona, muove i primi passi professionali nel 1960 occupandosi prevalentemente di temi politici e sociali. Italo racconta ciò che vede o sperimenta direttamente sul campo con generosa umanità. Oggi avrebbe 82 primavere al suono dell’amata musica jazz. Nel 1978 pubblica Quale movimento, un libro-inchiesta sul mito di Che Guevara, insieme a Graziella De Palo. È la sua compagna di lavoro e di vita. All’anagrafe il suo nome era Maria Grazia
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De Palo. Ma tutti la chiamavano Graziella. A 24 anni si era già lanciata in prima linea: da giornalista raccontava traffici d’armi e trame politiche che avvelenavano l’Italia sana e il Medio Oriente. Di lei, però, a tutt’oggi non sono rimasti che i suoi scritti. Memorabile il pezzo di un’inchiesta pubblicata da Paese Sera il 21 marzo 1980, intitolata False vendite, spie, società fantasma: così diamo armi, che svela la rete sotterranea delle esportazioni clandestine italiane: «La prassi delle armi “deviate” rispetto alla destinazione originaria non è nuova. È successo in Mauritania, nell’Iran di Pahlevi, in Rhodesia e, soprattutto, in Sudafrica. La stessa Oto-Melara, insieme alla Breda Meccanica, è protagonista di una storia del tutto simile alla prima. Stavolta il paese “proibito” verso il quale sono dirette armi italiane è il Sudafrica. I cannoni, formalmente acquistati dal governo di Tel Aviv, sono montati su sei motovedette lanciamissili israeliane della classe “Reshef” e poi spedite lungo la rotta del Capo (e non è un mistero per nessuno il rapporto privilegiato tra Israele e il paese dell’apartheid)”. Questo accordo truffa risale al 1974». Il 28 aprile 2010, il ministro per i rapporti con il parlamento, Elio Vito, in risposta all’interrogazione (numero 4-1014) dei senatori Poretti e Perduca, afferma: «… il DIS rende noto che per quanto di competenza del comparto informativo, l’AISI ha comunicato che, agli atti dell’Agenzia, nulla risulta in ordine allo specifico quesito riguardante il cosiddetto “Lodo Moro”. L’AISE, a sua volta, ha rappresentato che i rapporti intercorsi tra il SISMI, i suoi dipendenti e le organizzazioni palestinesi è materia coperta dal segreto di Stato, opposto dal colonnello Giovannone nel 1984, e confermato dal Presidente del Consiglio pro tempore on. Craxi. Sull’attualità di tale vincolo, peraltro, si è pronunciato l’attuale Presidente del Consiglio de ministri, on. Berlusconi, prorogandone la durata fino al 31 dicembre 2010, sulla base di quanto disposto a suo tempo, motivo dell’opposizione e della conferma in sede giudiziale». Precedentemente (il 25 gennaio 2006) il senatore Luigi Malabarba aveva interrogato il presidente del Consiglio Prodi, senza ottenere risposta: «… sulla vicenda sono state presentate presso i due rami del parlamento numerose interrogazioni parlamentari, tra cui le seguen-
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ti: 5-02007 del 24.3.81, 4-13727 del 1°.4.82, 4-08423 del 19.5.81, 4-01865 del 5.7.88, 4-13098 del 3.3.82, 4-01638 del 19.5.88, inoltre sono state svolte indagini giudiziarie; sulla vicenda è calata una fitta cortina di silenzio anche per l’opposizione del segreto di Stato ai magistrati inquirenti da parte dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi. In particolare tale segreto fu opposto il 28 marzo 1985, con il rifiuto di consegnare alla magistratura alcuni documenti dei servizi. Nel giugno 1985 il magistrato chiese all’on. Craxi di rivedere la decisione, ricordando che in base alla legge 801/77 in nessun caso potevano essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale. Nella vicenda, infatti, erano coinvolti operatori armati che operavano all’estero al di fuori delle forze armate che fanno capo al Presidente della repubblica; la vicenda ha visto il coinvolgimento di personaggi iscritti alla Loggia P2, come il segretario del Ministero degli affari esteri Malfatti di Montetretto e il capo del Sismi generale Santovito e ha visto, inoltre, la partecipazione del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, già capo del servizio di sicurezza a Beirut dal 1972 al 1981. Il colonnello Giovannone fu arrestato una prima volta il 19 giugno 1984 con l’accusa di aver segnalato all’OLP e all’FPLP l’arrivo dei suddetti giornalisti a Beirut, fu successivamente scarcerato e poi nuovamente arrestato per favoreggiamento il 6 febbraio 1985 dal magistrato Mastelloni nel quadro di un’indagine sul traffico di armi tra l’OLP e le BR; a questa inchiesta del magistrato Mastelloni, e a quella che si riferiva alla caduta dell’aereo Argo 16, l’aereo di Gladio, venne opposto il segreto di Stato. L’aereo di Gladio era stato, tra l’altro, l’aereo che aveva fatto rientrare clandestinamente in Libia i terroristi arrestati a Fiumicino nel tentativo di un attentato antisraeliano, aereo che cadde in circostanze mai chiarite a Mestre durante il decollo; si chiede di conoscere, visto che ormai le operazioni clandestine di Gladio in Italia sono note dal 1990 e anche le operazioni di Gladio all’estero sono note almeno dal 1997, e inoltre anche le inchieste sulla Loggia P2 sono concluse e che quindi le principali motivazioni per l’opposizione del segreto di Stato sulle vicende citate sono cadute, perché non venga tolto il segreto di Stato (tra l’altro a distanza di un quarto di secolo) su vicende per le quali i cittadini hanno il diritto di conoscere la verità». Poco altro, ma non la macchina fotografica, fu restituito alla fami-
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glia della giornalista Graziella de Palo, dopo la scomparsa all’uscita dell’hotel Triumph di Beirut. E quelle scarpe — che mai comprò né indossò, comparse solo a scopo depistante per dimostrare falsamente il passaggio della ragazza nell’area falangista della città — sono anche il simbolo di uno Stato che fece di tutto per impedire l’accertamento della verità sulla loro sorte e il recupero dei loro corpi. La memoria dei loro cari ha accolto il sorriso di Graziella ed Italo, in una fotografia che li ritrae poco tempo prima dell’ultimo viaggio fatale. Per onorarli le famiglie hanno continuato a battersi in questi trentuno anni, affinché segreto di Stato, tuttora valido, e labilità della memoria non avessero la meglio su una vicenda tutt’altro che chiusa. Ha lottato suo fratello, Giancarlo De Palo, che, inorridito dal silenzio sulla sorte di sua sorella, si mise alle costole di Giovannone diventando l’ombra di una barba finta e raccogliendo gli elementi necessari per far partire l’inchiesta di Armati. E combattono ancora oggi anche l’altro fratello e la madre. Come non si è arreso al tormento dell’oblio il fratello Aldo e il cugino di Italo, Alvaro Rossi, che ha allestito un sito internet. Mentre il piduista Berlusconi non ha rimosso il segreto di Stato, Monti, addirittura, non è pervenuto. Di Graziella ed Italo rimane il ricordo di due giornalisti determinati a praticare il loro mestiere senza compromessi e senza vendersi l’anima. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: un altro delitto di Stato italiano. Il movente? Il traffico istituzionalizzato dallo Stato tricolore di scorie ed armi. «Somalia: uccisi due giornalisti italiani a Mogadiscio - Mogadiscio 20 marzo. La giornalista del Tg 3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite. Lo ha reso noto Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni». Il caso Alpi-Hrovatin si apre con queste scarne righe, ancora frammentarie, battute alle 14,43 del 20 marzo 1994 dall’Ansa, agenzia giornalistica italiana. Ansa, Roma, 20 marzo, ore 17,51: «E’ stata una vera e propria esecuzione. Hanno sparato per uccidere». Lo afferma il generale Carmine Fiore, comandante del contingente italiano in Somalia, raggiunto telefonicamente dall’Ansa. Il 23 marzo ’94 il sostituto procuratore della Repubblica di Trieste, Filippo Gullotta, dispone l’autopsia per Hrovatin. Il referto
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stabilisce che Miran è stato ucciso da un solo colpo d’arma da fuoco del calibro di poco superiore ai 5 millimetri, sparatogli alla tempia destra, che ha attraversato il capo è si è conficcato alla base del cranio. Il 4 maggio 1996 su disposizione del pm Giuseppe Pititto (secondo titolare dell’inchiesta) viene riesumata la salma di Ilaria ed effettuata la prima autopsia. La seconda perizia disposta da Pititto (medico-legale e chimico-balistica) viene consegnata il 31 gennaio 1998 dopo l’arresto di Hashi Omar Assan. In tale documento si afferma che il colpo mortale è stato sparato a distanza ravvicinata e che l’aggressore, in piedi sulla strada, sparò aprendo la portiera posteriore sinistra o dal finestrino. Il 20 luglio 1999 si conclude il processo con l’assoluzione del giovane somalo. Il 24 novembre 2000 si conclude il processo di appello contro Hashi Omar Assan, colpevole di omicidio premeditato. Pena: l’ergastolo. Il 10 ottobre 2001 la Corte di Cassazione annulla parzialmente la sentenza della Corte d’Appello. Il processo in Corte d’Appello -dopo la sentenza della Cassazione- si chiude il 26 giugno 2002 con una sentenza di condanna a 26 anni di carcere ad Hashi Omar Assan (un classico capro espiatorio). Le motivazioni vengono depositate il 22 luglio 2002. Il 18 marzo 2006 ‘Il Manifesto’ pubblica la mia inchiesta – che Il Corriere della Sera aveva rifiutato con un pretesto di mettere in pagina - ‘Il secondo omicidio di Ilaria targato Taormina’. Ignoti, alla ricerca di prove scottanti, il giorno seguente devastano la mia abitazione a Roma, dopo le minacce dell’avvocato Carlo Taormina. Traffico di armi e rifiuti pericolosi dal belpaese al terzo mondo africano. Biglietto di sola andata senza giustizia. Ecco il movente che ha subito depistaggi di carattere istituzionale, a partire dalle menzogne di Taormina, sparate in qualità di presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta (23 febbraio 2006): «Nessuno scoop messo a tacere con la morte. I cittadini devono sapere fin da ora che mai nessuno ha inteso uccidere i due giornalisti, vittime di una manica di banditi senza che i banditi sapessero di chi si trattasse e agendo unicamente in un contesto di ritorsione criminale. La gente, inoltre deve sapere che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non erano depositari di alcun segreto nelle materie che un giornalismo d’accatto per dodici anni ha invece tentato di propinare. E’ falso che i due giornalisti fossero a conoscenza
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di cose inenarrabili nei campi della cooperazione, del traffico d’armi, del trasporto di rifiuti. I due giornalisti nulla mai hanno saputo e in Somalia, dove si recarono per seguire la partenza del contingente italiano, passarono invece una settimana di vacanze conclusasi tragicamente senza ragioni che non fossero quelle di un atto delinquenziale comune». Spregevole premeditazione. Suggerita da chi? Nel 2005 ho avuto modo di intervistare l’ex Onorevole di Forza Italia, a più riprese nel suo studio romano di via Cesi, nei pressi del palazzaccio della Cassazione. All’estero è conservata, in mani sicure, la registrazione di queste sue dichiarazioni preconfezionate con largo anticipo: «Ilaria e Miran erano andati a passare una vacanza in Somalia… uccisi nel corso di una rapina da fondamentalisti islamici…» riferì nel corso dell’intervista concordata. L’ex Sottosegretario del governo Berlusconi non aveva dubbi: «La dinamica si basa sull’analisi balistica dell’auto. Abbiamo fatto una perizia al balipedio della polizia di stato e quindi abbiamo potuto ricostruire al millimetro ogni cosa. Nessun colpo alla nuca, a contatto. Nessuna esecuzione» disse testualmente. In realtà, Ilaria e Miran, vennero assassinati poiché in procinto di rivelare, al Tg 3 (diretta senza filtri in edizione nazionale), il coinvolgimento dello Stato italiano nel traffico illecito di scorie e di armi. E’ un grave reato penale anticipare di oltre un anno - la Relazione della Commissione sarebbe stata chiusa e votata solo il 23 febbraio 2006 - dichiarazioni depistanti senza attendere l’esito finale dei lavori di indagine parlamentare. In parole povere: un depistaggio istituzionale. La relazione finale della Commissione bicamerale d’inchiesta presieduta Taormina - approvata soltanto dalla maggioranza - nel 2006 recita: «Il contributo determinante e risolutivo alla ricostruzione della dinamica dell’agguato è stato fornito, dopo la perizia medico-balistica del prof. Pascali, dalla perizia eseguita dalla Polizia Scientifica sull’autovettura su cui viaggiavano i due giornalisti, rintracciata e acquisita dalla Commissione». Non vi è alcuna prova scientifica che l’auto oggetto d’esame sia la stessa sulla quale sono stati ammazzati i due giornalisti. Fondati dubbi motivati dal magistrato Franco Ionta, titolare di un’inchiesta stralcio - ancora contro ignoti - sul duplice omicidio, che afferma di aver subito uno sgambetto poco onorevole da Taormina. «Se è innegabile che la suddetta Commissione parlamentare ha il potere di compiere atti di indagine,
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la decisione della stessa assunta di procedere autonomamente ad accertamenti sul veicolo, con esclusione della possibilità di analogo intervento dell’autorità giudiziaria, provoca un pregiudizio alla Procura perché le impedisce di esercitare le funzioni che le attribuisce la Costituzione; che difatti risulta precluso il proseguimento delle indagini che la ricorrente ha tuttora in corso, essendole in particolare, inibito di raccogliere tutti gli elementi necessari ai fini delle proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale, con palese violazione del principio dell’obbligatorietà dalla stessa sancito dall’articolo 112 della Costituzione, oltre che di quelli di indipendenza ed autonomia della magistratura». La Procura della Repubblica di Roma, inoltre, «è stata privata della possibilità di sottoporre a sequestro l’autovettura su cui viaggiavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, nonché di effettuare rilevamenti ed accertamenti sul veicolo stesso ai fini dell’esatta ricostruzione della dinamica dei fatti, attività queste tutte essenziali nell’ambito del procedimento penale in oggetto e la cui mancata effettuazione ha determinato una vera e propria paralisi del medesimo». Con l’ordinanza numero 73 depositata il 24 febbraio 2006 in cancelleria, scritta dal giudice Alfonso Quaranta, la Corte Costituzionale ha dichiarato «ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione proposto, ai sensi dell’articolo 37 della legge 11 marzo 1953, nei confronti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, presentato dalla Procura di Roma». A volte per finire fuori strada, basta un veicolo taroccato al punto giusto, da chi se ne intende. Il pool del pm Franco Ionta aveva fatto ricorso alla Consulta nell’ottobre 2005, dopo aver appreso dell’arrivo in Italia della Toyota. I magistrati avevano chiesto a Taormina di «svolgere congiuntamente le analisi dell’automobile». L’avvocato aveva rifiutato ogni collaborazione sostenendo che «gli accertamenti, irripetibili, riguardano anche le carenze istituzionali, comprese quelle attribuibili ai molteplici passaggi giudiziari che hanno interessato la vicenda». La Consulta ha poi riconosciuto la legittimità della Procura a poter effettuare esami balistici e tecnici sull’auto per l’espletamento delle indagini di propria competenza. Quanto alle nebulose modalità di rinvenimento del veicolo, l’avvocato Taormina a pagina 12 della sua Relazione (conclusioni finali) rivela che «Il rinvenimento della Toyota, effettuato al termine di una
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estenuante nonché difficilissima ricerca per il suo trasferimento in Italia ed il sequestro immediatamente disposto, hanno consentito di accertare la dinamica dei fatti senza nessuna possibilità di dubbio o perplessità». A smentirlo è il vice questore Alfredo Luzi che nel suo Rapporto preliminare del 4 ottobre 2005, abbozza soltanto «ipotetiche dinamiche». La consulenza tecnica congetturata su «tesi probabilistiche» dal direttore della sezione balistica della P.S. (10 novembre 2005), evoca molteplici dubbi sulla genuinità del ritrovamento automobilistico basato sulla scarna comparazione video-fotografica: a partire dalla mancata rilevazione del numero di telaio e dell’anno di fabbricazione del veicolo, dell’identità reale del proprietario e dei mancati rilievi tecnici in Somalia. Dottor Luzi, lei ha recuperato l’automobile Toyota sulla quale sono stati assassinati Ilaria e Miran? Si è recato in Somalia? «Siamo andati negli Emirati Arabi. E quanto tempo fa non mi ricordo la data» risponde il l’alto funzionario di polizia. Quindi la Polizia di Stato e i servizi di Intelligence italiani non si sono mai recati in Somalia per trovare l’autovettura. «E’ pericoloso: non si poteva andare in Somalia» ha confermato a denti stretti la giornalista Serena Purarelli, assistente e consulente del presidente Taormina. «E’ stato il sostituto commissario Antonio Di Marco a tenere i contatti con Giancarlo Marocchino» confida Claudia Passa, l’altra consulente di Taormina, in anticamera sei anni fa al Giornale della famiglia Berlusconi. Un’altra dom,anda al dirigente di P.S. Dottor Luzi potrebbe indicarmi con certezza assoluta la prova scientifica che l’auto esaminata sia la medesima sulla quale sono stati assassinati i due giornalisti? Risposta: silenzio assordante. Inspiegabilmente, non è stata fatta neppure un’analisi comparativa fra il profilo DNA delle tracce ematiche rilevate all’interno dell’auto e i familiari dei giornalisti uccisi. Dottor Luzi il suo incarico risale al 17 settembre 2005? «Io sono andato, mi pare, ai primi di settembre. Sulle date non…». In realtà il consulente tecnico a pagina 3 del rapporto annota: «In data 10 settembre 2005, la S.V. (Taormina, nda) inviava lo scrivente presso l’hangar 10 dell’aeroporto civile di Dubai (Emirati Arabi) all’interno del quale era custodita una autovettura marca Toyota mod. Hilux simile al tipo di auto sulla quale viaggiavano la Alpi e Hrovatin». Quali difficoltà ha incontrato per scovare l’auto e condurla in Italia? «Per riconoscerla bisognava individuare
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le caratteristiche balistiche che avrebbero dettato la possibilità o meno del veicolo. Non avevamo nessun elemento: abbiamo tutto dovuto riproporre a livello sperimentale» puntualizza il funzionario di PS che vanta esperienze professionali nordamericane. Questa macchina era stata abbandonata o era in un deposito? Come l’avete rintracciata a migliaia di chilometri di distanza se nessuno dei poliziotti italiani ha messo piede nel Corno d’Africa? Com’è finita a Dubai visto che Mogadiscio è ancora un inferno di guerra? Risposta del super poliziotto: imbarazzante pausa di riflessione. Comunque a pagina 37 della sua relazione si legge: «La vettura in sequestro marca Toyota mod. HiLux targata Somalia 61208, corrisponde alla medesima vettura sulla quale, il 20 marzo 1994, sono stati uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin». Le perplessità si moltiplicano vertiginosamente, anche perché il fuoristrada su cui viaggiavano Ilaria e Miran sparì dalla circolazione e finì in un garage di proprietà di un ex ministro di Siad Barre. Tra l’altro, il collega dell’Ansa Remigio Benni, nell’audizione del 19 maggio 2004 aveva dichiarato: «il pick up, la vettura con la quale Ilaria era arrivata all’hotel Hamana era dello stesso tipo e degli stessi colori della macchina di Cervone. Non so se fosse proprio la stessa, ma era molto simile». Un’altra testimonianza oculare (audizione del 18 marzo 2004), quella dell’operatore della televisione svizzera Francesco Chiesa, specifica che «La macchina si presentava con il parabrezza rotto e piena di sangue. La macchina era veramente vetusta. Era una vecchia pick up». Eppure l’auto esaminata in Italia sembra spuntata da un set cinematografico. Chi ha effettivamente recuperato il veicolo costato all’ignaro contribuente italiano ben 18.200 euro? -intascati da Ahmed Duale, deputato del fantasmagorico parlamento somalo. Il fuoristrada noleggiato dai giornalisti assassinati è una prova fondamentale su cui poggia la dinamica dell’omicidio plurimo: «due colpi letali alla testa di AK 47 kalashnikov, calibro 7,62x39mm» asserisce Luzi. Tesi probabilistica non suffragata interamente dalla perizia (depositata il 20 luglio 2004) del professor Vincenzo L. Pascali (direttore dell’Istituto di medicina legale e delle assicurazioni dell’Università cattolica del S. Cuore) che a pagina 69 ammette: «Delle numerose ipotesi in ordine alla rispettiva posizione aggressore-vittima,
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nessuna può essere inoppugnabilmente provata con elementi di fatto. Della scena del crimine si conosce solo la posizione assunta dalle vittime nell’autovettura (Ilaria Alpi sedeva sul lato destro del sedile posteriore; Miran Hrovatin occupava il sedile anteriore destro). Le approssimative notizie sulla posizione degli aggressori e le invitabili impressioni con cui la posizione dei fori di proiettili nell’autovettura è stata ricostruita in base a materiale iconografico (e non a indagine di sopralluogo) impediscono invece di trarre rilievi affidabili». Il consulente medico legale della famiglia Alpi, Costantino Cialella, nell’esame testimoniale del 21 settembre 2004 ha ribadito invece che «Ilaria Alpi nella mia ricostruzione è stata attinta da un colpo d’arma da fuoco al capo con le mani poste a protezione dell’ovoide». Allora, dove è stato ritrovato il fuoristrada e in quali condizioni? E sulla base di quali riscontri scientifici incontrovertibili? Il pick up l’ha scovato l’allora vice questore aggiunto Luzi o qualche confidente particolare? Ebbene, il consulente segreto di Taormina è Giancarlo Marocchino, che il casellario giudiziale italiano indica fin dal 1982 in qualità di “pregiudicato”. “Sconcertante”, commenta Rosy Bindi “che il principale sospettato diventi il teste chiave della nuova ricostruzione”. In una memoria difensiva consegnata al pm Franco Ionta, l’avvocato Domenico D’Amati, legale dei coniugi Alpi, accusa con documentazione probante il noto collega: «Taormina ha improvvisamente sposato, senza riserve, in ripetute dichiarazioni pubbliche, la tesi sostenuta dall’imprenditore Giancarlo Marocchino, secondo cui l’omicidio sarebbe stato commesso casualmente nel corso di un tentativo di sequestro. Tesi questa», rileva l’avvocato D’Amati «disattesa dalla Corte d’Assise di Roma per la sua manifesta illogicità e contraddetta anche dai risultati dell’ultima perizia balistica, secondo cui contro i due giornalisti furono esplosi dieci colpi di kalashnikov da una persona distante cinque metri». E ancora, si legge nella memoria messa a disposizione della magistratura: «il presidente Taormina si è avvalso largamente, nelle indagini, della collaborazione dello stesso Marocchino, utilizzando, tra l’altro, informatori da lui indicati». Quanto alle singolari garanzie, a pagina 54, nota 117 del capitolo “Responsabili ed eventuali mandanti” è scritto che proprio Ahmed Duale «E’ la persona che si è adoperata per il recupero della macchina a bordo della quale viaggiavano i giornalisti, in quanto tuttora socio
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in affari con Marocchino e grazie a questo contattato da Di Marco (il sostituto commissario, nda)». La Relazione di Taormina (parte I, sezione I, capitolo 5, pagine 17-18 ) rivela inoltre che «E’ stato proposto a Giancarlo Marocchino – tramite un consulente ufficiale di p.g. (il sostituto commissario Antonio Di Marco) – di cooperare con la Commissione, anche al fine di consentire alla Commissione stessa di entrare in possesso delle due autovetture coinvolte nel delitto, quella a bordo della quale viaggiavano i giornalisti e quella degli assalitori». Insomma, chi ha fornito materialmente l’auto? Un uomo al di sopra di ogni sospetto: il cittadino somalo Yusuf Cariiri, che un’informativa del Sisde Roma 1, indica per Sheikh Abdi Yusuf, detto “Iriri”, già segnalato il 16 settembre 1997 – nota N. 97 RM1. 3960/34570/180 (2ˆ) – perché «implicato in truffe finanziarie». E la Land Rover azzurra degli assalitori che fine ha fatto? Taormina non lo rivela. Non è tutto. A pagina 23 del resoconto parlamentare di Taormina si legge: «la dinamica dei fatti rappresentata dalla Polizia Scientifica è risultato perfettamente compatibile con quella descritta dal cittadino somalo individuato dalla Commissione come testimone». Il “signor B.”, l’asso nella manica utilizzato da Taormina, è nientemeno che una guardia del corpo di Giancarlo Marocchino. Singolare coincidenza: l’onorevole Taormina ha sigillato gli atti significativi per 20 anni col segreto di Stato ed in particolare gli esami testimoniali (13 settembre 2005) di Gianni De Michelis, Giampaolo Pillitteri, Francesco Forte e Fabio Fabbri. «Il procedimento giudiziario per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ha registrato con la deposizione del direttore del Sisde elementi nuovi, che potrebbero risultare determinanti ai fini dell’accertamento della verità, consistenti nel fatto che “fonti” ritenute attendibili dal servizio di sicurezza sono a conoscenza dell’identità dei mandanti del duplice assassinio; nella stessa deposizione ci si è avvalsi della facoltà di non rivelare l’identità della fonte per motivi di sicurezza; è venuta così a determinarsi una situazione per cui lo Stato attraverso il potere esecutivo conosce i presumibili assassini, ma rinuncia a perseguirli attraverso il potere giudiziario sottraendogliene la possibilità; siamo di fronte ad una lesione grave di diritti fondamentali rappresentati in primo
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luogo dalla necessità di rendere giustizia a chi ha perso la vita per garantire il diritto dei cittadini ad essere informati e realizzare così concretamente il diritto alla libertà d’informazione». Così l’interrogazione parlamentare a risposta orale numero 3-01046, presentata il 10 giugno 2002 da Piero Ruzzante e Giuseppe Giulietti (seduta 155), indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi Silvio, sollecitata il 19 marzo 2003, e a tutt’oggi che non ha ancora ottenuto una risposta governativa. Il generale Mario Mori a cui si fa riferimento - direttore del Sisde dall’ottobre 2001 al dicembre 2006 - già sotto processo per la trattativa Stato & mafia non vuota il sacco. Mario Mori è una vecchia conoscenza attualmente sotto processo penale per la trattativa intercorsa fra Stato e Cosa Nostra, che ha portato all’eliminazione dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono transitate due legislature, ma la farsa di regime continua, pur di occultare il lucroso commercio in salsa tricolore, in cui banchetta l’immarcescibile gruppo di comando. Nel giugno del 1992, poco prima di essere disintegrato da un ordigno con la sua scorta di Polizia, il pentito Leonardo Messina - come ha confermato l’ex procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna - rivelò al giudice Borsellino che nella miniera di Pasquasia in Sicilia erano state occultate dallo Stato - con la complicità remunerata di Cosa Nostra - micidiali scorie radioattive. Niente di nuovo, prima petrolio, poi armi e rifiuti scottanti: il sistema di potere operante in Italia, grazie alla complicità dello Stato e dei vari governi tricolore, ha eliminato prima Enrico Mattei, poi Mauro De Mauro ed infine Pier Paolo Pasolini. «Lo stesso omicidio, avvenuto il 20 marzo 1994, di Ilaria Alpi, inviata nel paese somalo per conto della RAI all’epoca dell’operazione Restor Hope, per gli elementi acquisiti in Commissione, appare ricollegabile ai dati venuti in possesso della giornalista con riferimento al traffico di armi e rifiuti» attesta la Relazione stilata otto anni fa (trasmessa il 28 luglio 2004 alla Presidenza delle Camere (XIV legislatura, doc. XXIII, n. 9), dalla Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti, presieduta da Paolo Russo. Inoltre si legge: «… Sottoposte ad intercettazione le utenze di Scaglione (Ezio, nda), gli inquirenti ricostruirono la rete che il medesimo aveva instaurato. In particolare, vennero in rilievo i numerosi contatti con Marocchino, i quali dopo poco tempo di ascolto… si concretizzarono in telefonate estremamente esplicite
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in cui quest’ultimo invitava Scaglione a spedire in tutta fretta, nelle more di operazioni più consistenti, due o tremila fusti da sistemare in qualche sito, contemporaneamente confortandolo sul fatto che erano in fase di avanzata autorizzazione le concessioni che il capo clan, egemone sulla zona, Ali Mahdi, stava accordando proprio per una discarica di tipo C per i materiali più pericolosi, in un’area che poi venne individuata nella zona di El Bahraf. Nelle conversazioni successive Marocchino e Scaglione concordavano sul fatto che la realizzazione della discarica dovesse essere giustificata con il paravento della costruzione di un inceneritore per rifiuti urbani; entrambi concordavano sulla necessità di ottenere, con sollecitudine, consistenti arrivi di rifiuti e sul fatto che una parte degli introiti doveva andare ad Ali Mahdi, che doveva rifarsi delle rilevanti spese sostenute nella guerra civile. Ulteriori elementi pervenuti all’attenzione della Commissione, in particolare dall’ing.Vittorio Brofferio, impegnato alla fine degli anni ’80 in Somalia nella realizzazione per conto della LOFEMON (Lodigiani-Federici-Montedil) della strada di collegamento fra Garoe e Bosaso, nel nord del paese africano, testimoniano l’interesse, di gruppi locali e soggetti stranieri, a sfruttare tali lavori per interrare containers». Infine: «I dati provenienti da organizzazioni anche non governative presenti sul territorio somalo, relativi, poi, ad un sensibile aumento di patologie verosimilmente connesse alla presenza di materiali tossici, inducono la Commissione a proseguire nell’esame delle vicende di tale paese africano, e di ogni altro paese in qualche modo versante in condizioni analoghe, attraverso l’acquisizione di utili elemento conoscitivi».
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Capitolo tredicesimo Su la testa Perché negare l’evidenza? Scie chimiche ed Haarp sono argomenti tabù. Anche se migliaia di persone ogni giorno nel Belpaese vedono con i propri occhi veleni in cielo e sperimentano in terra, sulla propria pelle malattie tumorali e malformazioni nei bambini. Nonostante una montagna di prove scientifiche, c’è ancora chi si ostina a rifiutare la realtà. Incredibile. Allora, è proprio vero. Nella storia la verità ha sempre avuto tre fasi, la prima e quella di essere derisa e non creduta possibile, la seconda fase è quella della tentata demolizione delle sue basi, o più semplicemente cercar di renderla inoffensiva, ed ostacolarla con qualunque mezzo a disposizione, la terza ed ultima fase è quella di essere accettata univocamente perché reale e partecipe dell’umanità. Se te ne occupi vieni istantaneamente accusato di essere nella migliore delle ipotesi un complottista, anche se per un quarto di secolo hai fatto il giornalista investigativo (freelance) libero e indipendente in prima linea, ed hai accumulato un cursus honorum internazionale. Chi detta quotidianamente i temi nell’agenda informativa globale? Sotto le sedicenti notizie? Niente, se non impiegati mediatici al servizio del potere. Avete mai sentito nominare in Italia dai giornalisti “famosi” i legami fra mafie e le autorità Usa? Oppure, avete mai sentito citare dagli stessi manager della comunicazione, la corruzione della banca centrale europea? Non dico il signoraggio o il controllo assoluto della Banca d’Italia da banche private? Figuriamoci se qualche vip ha mai blaterato di sovranità perduta. Non si argomenta in maniera dialettica, ma si offende chi argomenta - prove alla mano - una tesi che si discosta dalla vulgata generale. Già, ma chi imbocca (imbecca) l’opinione pubblica? Caos ad arte. Prendiamo nuovamente lo Stivale. E’ fin troppo evidente: siamo nuovamente alla strategia della tensione. Ancora titubanti: chiedete alla Nato e agli apparati di Intelligence dello Stato italiano, quando realizzeranno la prossima strage in Europa, ma particolarmente in Italia. Torno sull’argomento. Ecco allora a voi la figura del “gatekeeper” che tradurrei in “falso dissidente”, oppure in disinformatore o mistificatore della realtà, che può anche essere definito un “hoaxer” quando opera sul web. Questi soggetti non parlano mai in modo limpido ed esauriente di alcuni fatti importanti, ad
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esempio: multinazionali dell’alimentazione colte in flagranza di reati ambientali e sanitari (vedi amianto alla Barilla o latte in polvere avariato della Nestlè); esistenza di un gruppo di potere che cerca di nascondersi per non essere spodestato; sistemi dittatoriali creati e controllati dalle autorità locali; verità sullo Stato o su quel ministro; verità sulle scelte della politica locale; verità sui legami fra mafia e autorità politiche; tecniche di controllo mentale per evitare che il sistema possa essere minacciato anche dall’interno; uso criminale degli strumenti di potere. E non toccano mai la Nato o gli Usa. Ci sarà un motivo? Se i soggetti in questione non trattano in modo chiaro argomenti e soggetti “scomodi” è perché altrimenti perderebbero quei privilegi mediatici che i veri dissidenti non hanno, proprio perché trattano anche questi argomenti senza riguardi per i padroni del vapore. Dunque, quando non viene detta tutta la verità su una questione scottante o della finta opposizione politica al “governante” di turno, allora sapete con certezza che si tratta di individui assoldati per ispirare fiducia, ma interessate soltanto al proprio tornaconto, non certo ad abbattere il sistema o a difendere i vostri diritti. Questi soggetti, spesso anonimi o con nomi verosimili, comunque di fantasia, vogliono far credere di essere dalla nostra parte, ma occorre non credere alle loro parole se non sono accompagnate dai fatti. Essi tendono ad alimentare il sistema anche attraverso le beghe su questioni superficiali o comunque non fondamentali, come ad esempio: “meglio un inceneritore che una discarica”. In altre parole, non fuoriescono dalla propaganda, anche se, usando gli stessi argomenti usati da autori indipendenti (disinformazione, ingiustizie), vorrebbero far credere di esserne estranei. Possono usare frasi fatte, etichette o il gesto provocatorio, per distogliere l’attenzione dai problemi. Creare beghe su contenuti di poco conto, evocare la frase detta dal tal dei tali, o parlare dei comportamenti privati di alcuni politicanti, distrae l’attenzione da quei contenuti pericolosi per il sistema, inducendo a rimanere agli aspetti superficiali degli eventi. E’ troppo comodo, ora che grazie al web e a diversi studiosi onesti sappiamo come stanno veramente molte cose, creare una sorta di scontro fra (falsi) e presunti “complottisti” per far credere che si tratti di un gruppo “ragionevole” contro un gruppo di “paranoici”. Forse nemmeno Orwell avrebbe saputo fare di meglio. Il termine appropriato potrebbe esse-
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re ‘hoaxers’. Questo vocabolo significa in inglese “truffatori, imbroglioni, falsari, burloni”. Infatti, chi si intrufola nelle discussioni sul web per creare confusione, per distogliere l’attenzione dagli argomenti trattati, o per gettare discredito su chi scrive, può essere considerato a tutti gli effetti un “hoaxers”. Il meccanismo più usato in questi casi è quello di accusare gli altri di ciò che sono loro stessi, in perfetta armonia con la realtà orwelliana (la pace è guerra, la guerra è pace, i dissidenti sono terroristi, mentre i corrotti diventano dissidenti, i corrotti sono onesti, gli onesti sono corrotti) in cui siamo costretti a vivere attualmente. In altre parole, vogliono creare confusione e seminare divisioni e diffidenze, per minimizzare quanto possibile gli effetti del discutere di argomenti spinosi, come ad esempio la strage in Emilia Romagna, causata dall’alleato-padrone Usa. Dunque, questi personaggi hanno il compito di riportare le discussioni alle mistificazioni volute dal sistema di potere imperante, oppure di screditare chi fa ricerche su argomenti “pericolosi” o di creare un clima non costruttivo (accuse, insulti, polemiche sterili, puntare l’attenzione su aspetti insignificanti). Per riconoscerli basta porsi alcune domande: “Questa persona sta discutendo i contenuti o sta usando metodi emotivi?”, “Sta sollevando accuse infondate?”, “Accusa gli altri di ciò che lui sta facendo?”, “Oppure difende ad oltranza ciò che rispecchia la propaganda di regime?”, “Cerca di colpire l’autore con argomenti emotivi?”. E’ chiaro che, se anche non siamo d’accordo con ciò che viene detto o scritto, possiamo essere capaci di ribattere in modo civile, piuttosto che usare frasi che non argomentano nulla, passando addirittura agli insulti e alle minacce. Purtroppo non sempre questo è ovvio, dato che viviamo in una realtà in cui lo scontro, la bega o l’insulto vengono presentati come “normali”. La situazione è anche il prodotto di questa Tv (e degli altri media) rissosa dove prevale la contrapposizione sterile. Per il sistema attuale è più utile lo scontro e la tifoseria ideologica o politica piuttosto che una società fatta di persone tolleranti e capaci di usare di più e meglio la testa. Alcuni credono che non ci siano affatto “hoaxers”, e che si tratti sempre di persone “normali” che magari usano modi di fare alquanto discutibili. Alcuni addirittura pensano che parlare di persone assoldate dal sistema per produrre caos o limitare le risorse positive del web, sia da “fissati”, o che comunque non sia opportuno toccare que-
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sti temi perché si rischia di essere considerati paranoici. Ma in realtà esistono realmente personaggi pagati per difendere a tutti i costi il politico, il comico o il pensatore che va di moda. In fondo, cosa ci sarebbe di nuovo o di strano? Fior di politici, giornalisti e intellettuali sono remunerati per sostenere il sistema o per denigrare chi, invece, è onesto e indipendente. Questo meccanismo imperversa anche su Internet, anche se la Rete non è del tutto controllabile. Ovviamente, non sempre si tratta di “disinformazione pilotata” o di volontario intervento distruttivo, a volte si può trattare di individui che cercano sfogo alle frustrazioni inondando il web di idiozie. Oppure di persone che non sanno uscire dalla propaganda e credono che sia opportuno criticare aspramente chi se ne allontana, percependo tale realtà come “pericolosa”. Di solito i commenti di personaggi in malafede si riconoscono perché puntano a destabilizzare con mezzi emotivi, senza porre una seria critica. Gli “hoaxers” sono molto attivi quando sui blog vengono trattati argomenti fuori moda come la devastazione ambientale o la guerra nel Darfur (magari senza sapere se si tratta di un dentifricio o di una regione africana), la questione meridionale, oppure quando si accarezzano gli cosiddetti intoccabili. Quando vengono sfiorati questi tasti arrivano commenti da persone che contengono paragoni improponibili, insulti, frasi insensate o addirittura minacce o tentativi di intimidazione con la chiara intenzione di cercare di destabilizzare emotivamente chi osa scrivere cose non gradite a chi detiene il potere. Gli “hoaxers” non usano alcuna argomentazione razionale, e tanto meno si rivolgono ai fatti. La loro maggiore arma è la situazione di irrazionalità in cui il sistema attuale ci comprime, rendendoci “normali” anche discussioni fondate sul nulla. Il loro atteggiamento più comune è quello della persona di “buon senso” un pò come personaggi tuttologi che si arrogano il compito di ricondurre gli altri alla “ragionevolezza” (presunta). Sono convinti che la “scienza” sia tutta nelle loro mani, e chi non abbraccia il loro punto di vista sia uno sprovveduto, ingenuo, credulone oppure un ignorante o un paranoico con manie di persecuzione. Come se un mondo in cui la maggior parte delle persone vive in miseria o muore di fame o in cui produrre sempre più energia anche a costo di estirpare piantagioni e/o demolire siti archeologici o in cui esistono cementifici ad ogni angolo di strada fosse un mondo “ragionevole” o
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accettabile. E chi lo rifiuta è matto. La presunta razionalità di questi personaggi nasconde l’indifferenza verso la sofferenza del prossimo. C’è molto cinismo nel portare il discorso su dettagli insignificanti, anche quando si sta parlando di attentati alla salute, al patrimonio artistico o di altri gravissimi crimini. Altri metodi si basano sulle critiche manipolative, ovvero atte a minare l’autostima del vero dissidente o del blogger indipendente. Ad esempio: sputare “critiche” che vogliono creare senso di incompetenza, insicurezza, ansia, oppure inefficacia. Ad esempio, frasi che non si riferiscono per nulla agli argomenti trattati, come: “questo è un complottista”, oppure, “questo è folle”; oppure “ma dove vivi?”. Le loro critiche spesso non hanno alcuna attinenza ai contenuti dell’argomento criticato. Ad esempio, se si parla di energie rinnovabili, essi non toccheranno per davvero questo argomento ma cercheranno un pretesto per sostenere che la persona in questione è “matta”, “fissata”, tratta cose risapute, oppure non ha citato il tal articolo. In sintesi, le accuse più frequenti rivolte agli autori indipendenti sono: egocentrismo; invidia verso i personaggi avallati dal regime; disinformazione (come se i media ufficiali informassero); arroganza; di essere irrazionali (come se un sistema basato sul crimine e sulla truffa fosse razionale); voglia di mettersi in mostra (come se non fosse più facile emergere dicendo bugie piuttosto che la verità); non essere competenti (come se i personaggi di regime fossero tutti cervelloni con una cultura da Nobel); essere faziosi o schierati (come se quelli assoldati dal sistema fossero “indipendenti”); non aver citato la tal fonte o il tal personaggio; essere banali (come se gli altri media fossero sempre di grande originalità o come se per denunciare un crimine uno dovesse essere creativo o intrattenere in modo originale); avere manie di persecuzione (come se i crimini denunciati fossero infondati). Si tratta di tentare di creare un clima emotivamente carico, per cercare di escludere una vera discussione sul vero argomento, che non riguarda certo i difetti possibili dell’autore. Si tendono ad utilizzare le stesse categorie della propaganda per definire un “dissidente”. Il dissenso o la protesta civile esistono quando non c’è una vera libertà; quando il sistema politico non tutela gli interessi di tutti, ma soltanto di alcuni, e quando si vuole imporre al popolo un dominio senza scrupoli. La solita oligarchia che dice di difendere i diritti umani e professa in maniera pro-
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pagandistica di voler costruire una “civiltà superiore”, negando in tal modo la natura criminogena del sistema. Questa propaganda non ammette l’esistenza di dissidenti. Ma il dissenso esiste e le autorità (con i suoi assoldati) si prodigano a minimizzarlo a negarlo o a criminalizzarlo, etichettandolo negativamente ( “fanatico”, “terrorista”, “talebano”, “estremista”, “fondamentalista”, anarchico). In realtà il dissidente è semplicemente colui che non abbraccia il sistema vigente nel suo paese, e si sente in diritto/dovere di denunciarne alcune caratteristiche negative. Non c’è nulla di arrogante o di egocentrico in questo, dato che si preferirebbe non essere dissidenti e vivere in un mondo in cui i diritti umani fossero rispettati e in cui tutti potessero vivere dignitosamente e in pace. Per destabilizzare i dissidenti si utilizzano le critiche manipolative. Hanno lo scopo di manipolare o destabilizzare gli altri colpendoli emotivamente, in modo tale da difendere interessi ed esercitare un controllo sul loro comportamento. Lo scopo fondamentale è quello di creare imbarazzo, senso di incompetenza, di ignoranza, di colpa per manipolare gli altri in modo da soddisfare i propri interessi, come il potere, il controllo, l’attribuzione ad altre persone delle proprie responsabilità. Un modo più sottile e più pericoloso di usare queste critiche è di essere abilmente vaghi, in modo tale che le ambiguità delle critiche rivolte ad una persona vengano interpretate nel modo peggiore possibile (ad esempio “questo è pazzo”, oppure “non ha capito niente”). Nelle critiche manipolative vengono spesso utilizzati avverbi e frasi in modo fuorviante: ad esempio, “questo tizio non ne azzecca mai una”, oppure “sei un complottista”, “ti sbagli sempre”, “mi hai fatto applaudire…”, “non è vero che ho oscurato un giornale”. Un altro scopo degli “hoaxers” è quello di far pensare ai lettori dell’articolo/post in questione che molte persone che lo hanno letto non hanno apprezzato, oppure di far credere, anche quando questo è palesemente falso, che l’autore ha scritto cose infondate o dovute a caratteristiche emotive come l’invidia, la vanagloria o, addirittura, lo squilibrio emotivo. Utili riferimenti: per l’amianto alla Barilla ci sono le balle di tal Luigi Boschi che imperversano sul web. Per Vendola (collusione con don Verzè) sono scesi in campo - al grido “Pugliamo l’Italia” - svendolini alla mazzetta e videtta. In realtà i post inviati sono scritti da una percentuale minima di persone e, dunque, anche se fossero tutti negativi, e non lo sono,
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non potrebbero dare alcuna notizia circa il fatto che l’articolo/post sia stato apprezzato oppure no. Le persone che cercano un mondo migliore sono quelle “vere”, e sono ovviamente in quantità ben maggiore rispetto ai pochi burattini assoldati, in libera uscita o desiderosi di mettersi in mostra anche se nessuno li ha interpellati. Come ha scritto l’anno corso Antonella Randazzo in un mirabile approfondimento: «I falsi dissidenti agiscono come fossero nell’arena e dovessero provocare una catarsi della rabbia dei cittadini, e si scagliano contro chi sanno che suscita rabbia e frustrazione, guadagnando le ovazioni e gli applausi scroscianti della folla. L’attuale sistema ha disperatamente bisogno di personaggi che godano della fiducia dei cittadini. Non soltanto di quelli che si informano alla Tv, ma anche di quelli assai più smaliziati che amano anche leggere l’informazione su Internet. Occorre dunque che vengano creati personaggi che appaiano dalla parte dei cittadini, ma siano a servizio del sistema. Queste persone saranno contrapposte ad altre, per avere uno scenario variegato, che nasconda il consistente controllo mediatico». Quali sono i nomi che vanno per la maggiore? Attenzione alle barbe finte. Cosa c’è meglio di un classico? I TRE GIORNI DEL CONDOR (regia di Sidney Pollack). Questo film del 1975 mostra la realtà, nuda e cruda. Buona visione. «Nelle democrazie compiute, la stampa è il cane da guardia del funzionamento istituzionale. A tutti i livelli. Nella nostra democrazia, quella italiana, se abbaia è una seccatura e basta. Meglio il chiacchiericcio della notizia. Meglio il commento. Il commento divide, ma non fa male. La notizia sì. Figuriamoci un approfondimento. Figuriamoci se un giornalista comincia a scavare, indagare, porre quesiti, pretendere risposte. Nella nostra democrazia, i cassetti sono pieni di misteri, di scandali, di verità negate. La trasparenza non è la regola, è un’opzione. Spetta appunto alla stampa dare notizie. Anche se fanno male». E’ l’opinione di Marco Paolini (attore) e di Andrea Purgatori (giornalista e sceneggiatore). Allora, bentornati in Italia, culla del diritto e tomba della giustizia. La meglio gioventù? Sfruttata, derisa, oppressa, ignorata, insultata, frustrata, vilipesa, umiliata, offesa, denigrata, raccomandata all’inferno sola andata. In altre parole congelata, poi marginalizzata, infine espatriata. Ma ora nuovamente morta
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ammazzata, come negli anni Settanta. Giovani usati come manodopera schiava. Parcheggiati in studi legali o tecnici che succhiano il sangue e rimborsano due centesimi. Tenuti alla larga da qualsiasi luogo di responsabilità. Derisi se non finiscono di studiare in tempo. Umiliati se costretti a vivere ancora coi genitori. Tartassati se non possono permettersi specializzazioni all’estero (mica sono tutti figli di padre Monti o madre Fornero). Presi in giro con promesse di lavoro inesistenti. Spremuti da giornali famosi. Frustrati ogni giorno nel loro desiderio di autonomia. Insultati se provano a cambiare le cose. Minacciati se osano ribellarsi. Picchiati se manifestano pacificamente per le vie. Sottomessi a cinici e perversi matusalemme che continuano a comandare in tutti i settori, anche a 80 anni suonati. Costretti all’emigrazione come i bisnonni. Mantenuti ai margini di qualsiasi processo decisionale. Ed ora, appena affacciati alla vita, brutalmente assassinati da chi, stufo di mettere bombe in stazioni, treni e piazze, ha ben individuato le nuove vittime sacrificali. Alle donne va anche peggio. Le “pari opportunità” vegetano nel libro dei sogni. Sempre e solo maschi. Mai all’altezza, privi sensibilità, di anima; figuriamoci di cuore e intelligenza. Prevalgono i peggiori, ovviamente raccomandati, e lo Stivale sprofonda non solo di vergogna. Vite precarie: niente passato, niente presente, niente di niente. Un Paese che non valorizza i giovani, uno per uno, non ha futuro. In una terra che seguita a produrre emigranti la gioventù sopravvive consumando nel vuoto i giorni e l’intelligenza. Così, sebbene sia assente nel Belpaese la pena di morte, vige legale e inesorabile la morte per pena, lenta e apparentemente inarrestabile. È normale che prevalgano l’apatia e l’indifferenza. Parole, parole, parole e numeri sempre secondi, mai primi, soprattutto nel Mezzogiorno. Nel natìo Sud, in dieci anni ben 700 mila giovani laureati sono stati costretti a recidere le radici. Nel 2011 i giovani occupati, tra i 15 e i 34 anni, sono diminuiti di oltre un milione di unità rispetto al 2008, passando da 7,1 milioni a 6 milioni e 56 mila nel 2011. È quanto emerge dalle statistiche dell’Istat. Le cifre ufficiali per una volta non mentono: da quando Monti è al Governo il debito pubblico è aumentato di 59 miliardi di euro, toccando quota 2 mila miliardi. E il miracolo annunciato dai mercati? Macché? «Il professor Monti? È stato il mio principale collaboratore fra il 1989 e il 1992, quando ero ministro del Bilancio del
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governo di Giulio Andreotti». Parola dell’ex diccì, Paolo Cirino Pomicino. A quel tempo il sedicente risanatore di conti contribuì a moltiplicare il debito pubblico italiano. Infatti, con lui per tre anni sottosegretario al Bilancio, il disavanzo passò da 553 a 779 miliardi di euro e le spese lievitarono di oltre il 45 per cento. Basta leggere con un pò d’attenzione due documenti, uno studio della Banca d’Italia ed una relazione della Ragioneria Generale dello Stato, per appurare questa scomoda verità, opportunamente sbianchettata dal curriculum vitae del rettore bocconiano, dotato di buen retiro in Svizzera. Un record da prima Repubblica: una crescita del debito pubblico pari al 44,43 per cento, sotto i saggi consigli dell’esperto Monti. Anche la spesa pubblica in quel periodo schizzò da 254 a 371 miliardi. Nella lettera inviata alle autorità italiane lo scorso agosto, l’allora presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, ed il successore designato Mario Draghi (entrambi come Monti membri del club d’affari Bilderberg) chiedevano di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». Insomma, il lavoro deve essere privato di qualsiasi tutela: assunzioni e licenziamenti facili, senza più alcun controllo. C’è di più: ridurre l’essere umano a mero fattore disumanizzato, al pari delle materie prime, dei semilavorati. Un mondo all’incontrario dove il superfluo costa meno del necessario. Aumentano le diseguaglianze e dilaga la corruzione. Predomina un’Europa dove conta soltanto il denaro delle banche. Ridurre al minimo il contante disponibile costituisce il massimo del controllo e dunque del dispotismo. Dov’è l’Italia della cultura, della musica, del cinema, del teatro, del giornalismo, se predominano le regole del Pil? C’è un grande riflusso: «È che siamo sempre più di legno, di paglia» come scriveva Thoreau. Ossia: che troppi cittadini in Italia hanno perso la capacità di indignarsi in modo costruttivo, vivendo nel torpore, deambulando come anestetizzati. In un mugugno collettivo, facendo il funerale alla grandezza di essere cittadini e non audience di spettatori che possono fare il tifo da una parte, o dall’altra, ma solo spettatori restano. «Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai dei malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accor-
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gono e stanno lì a guardare. La coscienza è al di sopra dell’autorità, della legge, dello Stato» ammoniva Albert Einstein. La libertà non si esaurisce nella garanzia formale di un diritto, ma piuttosto nella capacità d’accedervi in concreto. La formazione dell’uomo totalitario anticipa e precede l’assestamento di un regime totalitario e ci rimanda all’antico conflitto tra diritto e legge. Il primo deve prevalere sulla seconda. Ogni individuo alla presenza di valori non disponibili ad alcuna maggioranza, deve seguire i dettami della propria coscienza. La disobbedienza civile è un’assunzione aperta di responsabilità individuale nel violare una legge iniqua, insieme con la dichiarata disponibilità a subire in prima persona le pene da questa previste, purché venga riconosciuto un problema, e si trovi una soluzione normativa altra, diversa, migliore. Tutte le strade, anche le più buie, hanno un sole che accompagna il cammino e un vento di pacifici colori che danza annunciando la primavera. Non c’è davvero più tempo da perdere: sta ad ognuno di noi opporsi a questo sistema distruttivo di sfruttamento. Per farlo è necessaria una consapevolezza che parte dalla conoscenza. «Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo — parole di Giuseppe Fava che non si dimenticano —. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, e le violenze che non è stato mai capace di combattere». Il sistema di potere teme il risveglio delle coscienze, la consapevolezza critica, ed ha una sola risposta: la repressione violenta. Ma in questo non c’è onore. L’attuale Governo è illegittimo: non è la rappresentazione del volere del popolo che controllano così disperatamente, e se protesta lo fanno tacere brutalmente. Che fare? Semplice: uno sciopero generale ad oltranza che paralizzi pacificamente il Belpaese, fino a quando la sovranità torni effettivamente al popolo. Piantiamo subito quel seme buono a far germogliare di nuovo la sapienza delle madri, il coraggio dei padri, l’abnegazione dei nonni, di quelli che hanno fatto grande l’Italia, prima che l’egoismo e il criminale calcolo del privato profitto riducesse lo Stivale in polvere. Rompiamo ora i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà. Insieme possiamo piantare un seme
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importante. Insieme possiamo mutare le cose. Insieme possiamo disintegrare la rassegnazione. Le nostre straordinarie risorse sono storia, natura ed intelligenza creativa. L’unico modo di combattere la paura di tanti è costruire speranze per tanti. Il vento muta le cose, fa sorprese, regala luce e dona cieli migliori, fa sperare e incute paura come la vita. Certe azioni non si compiono per coraggio, si fanno per potersi svegliare la mattina e guardare serenamente negli occhi i propri figli senza dover abbassare lo sguardo per la vergogna. Siamo in missione per conto della storia: non lasceremo questa tremenda eredità alle future generazioni. Gandhi con la nonviolenza ha ottenuto l’indipendenza per l’India dalla tirannia britannica. Se non ora, quando? È giunto il momento di liberarci dalle catene. Un’esplosione sociale è più temibile di una deflagrazione nucleare.
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ATMAN
Associazione per lo studio del Raja Yoga e dell’esoterismo
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La scuola è presente a Torino, Milano, Bergamo, Padova, Modena, Firenze, Roma, Lecce
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IL DISCEPOLO un porto sicuro per tutti coloro che cercano la via, la verità e la vita La prima rivista esoterica on-line: www.ildiscepolo.it
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LE COLLANE DELLA DRACO EDIZIONI
I libri rossi - Divulgazione esoterica - La sfiga non esiste - Corso pratico di meditazione - Volume I - Corso pratico di meditazione - Volume II
(prossima uscita)
- Corso pratico di meditazione - Volume III (prossima uscita) I libri azzurri - Scienza esoterica - Sul Sentiero degli Angeli (prossima uscita) I libri bianchi - Storia esoterica I libri fuori collana - Scie chimiche: la verità nascosta. Le prove - Il seme magico - Fiaba - I 7 colori del cielo - Exalux erbe di luce (prossima uscita) Le fiabe della Manu - Fiabe esoteriche
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LA DRACO EDIZIONI PRESENTA:
Nel 2012 il mondo finirà? Immani catastrofi spazzeranno via l’umanità dalla faccia della Terra? Oppure finirà soltanto il Grande Fratello e alla televisione inizieranno a trasmettere solo cose intelligenti? Agli autori di questo libro non importano particolarmente gli aspetti catastrofici delle profezie sul 2012, e l’universo continuerebbe tranquillo nei suoi moti perfetti anche senza il genere umano. Il problema è che la catastrofe siamo noi, quest’umanità ormai alla deriva senza un’apparente direzione da seguire. Come facciamo ad uscire dallo sfacelo che stiamo provocando? Come facciamo a salvare questo bellissimo pianeta che stiamo distruggendo con la nostra ignoranza e con la nostra avidità? In tutto ciò qual è il monito del 2012? Quali sono gli insegnamenti nascosti nei cicli cosmici? Quali erano i segreti delle antiche civiltà che avevano predetto gli avvenimenti del 2012? E soprattutto, il 2012 ci aiuterà ad imparare ad amarci, a rispettarci e a rispettare la vita in tutte le sue forme?
La Draco Edizioni, l’associazione Atman e la scuola Energheia sostengono l’opera di queste associazioni di solidarietà.
HEWO Attiva in Etiopia ed Eritrea www.hewo-modena.it
e OMEO BON BON Attiva in Madagascar www.omeobonbon.it
Finito di stampare nel mese di giugno 2012 da Nuovagrafica s.c. di Carpi (MO)
La fantascienza ha intuito che l’essenza dei totalitarismi è il controllo tecnologico delle informazioni personali. La realtà si è spinta oltre. Viviamo in un’epoca in cui all’eccesso di “informazione” corrisponde un difetto di sapere: sovente l’extra occulta. Ma basta scalfire le apparenze per comprendere la realtà. E’ il lavoro di ricerca sul campo che un giornalista freelance, di chiara fama, come Gianni Lannes ha condotto in prima linea. Il testo spazia, prove alla mano, dall’attività di spionaggio Echelon sulla popolazione italiana e occidentale, alla democrazia totalitaria che ormai imperversa nel Belpaese, solcando in mare le bombe amare e la terapia bellica che oscura i cieli. Il futuro sembra militare, mentre la democrazia si restringe sempre più. Ci sarà un’altra guerra mondiale? Consumatori sempre più imbalsamati, telespettatori lobotomizzati e utenti imbambolati, avanti, fate il nostro gioco. Trivellano il cuore della Terra, oscurano il Sole, mentre la Luna l’hanno già bombardata. E noi? Gianni Lannes dal 1987 svolge all’estero e in Italia il mestiere di giornalista e fotografo libero e indipendente. Specializzato nel traffico di esseri umani, armi e rifiuti pericolosi. Ha lavorato per Rai e La7, ed inoltre nei settimanali L’Espresso, Panorama, Famiglia Cristiana, Io Donna, D La Repubblica delle Donne, Il Venerdi di Repubblica, Avvenimenti, Diario. Ha scritto inoltre, per i mensili Airone, La Nuova Ecologia, Medicina Democratica, Il Gargano Nuovo. Ha collaborato ai quotidiani Il Manifesto, Liberazione, La Repubblica, L’Indipendente, La Stampa, Il Corriere della Sera, L’Unità. Nel 2009 ha pubblicato per la casa editrice La Meridiana, il libro NATO: COLPITO E AFFONDATO, un saggio sulla base del quale la magistratura ha riaperto un caso di strage archiviato nel 1997. Nel corso di questi ultimi due anni a causa della sua inchiesta sulle cosiddette “navi dei veleni” ha subito alcuni attentati e minacce di morte. Dal 22 dicembre 2009 al 22 agosto 2011 ha vissuto sotto scorta della Polizia di Stato. Il 19 luglio 2011, senza alcuna motivazione, ma con una semplice telefonata il ministero dell’Interno gli ha revocato la protezione dello Stato italiano.
“Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci.” (Mahatma Gandhi)
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