L’identità in q ue uesst ione Prospettive filosofiche
TEORIA Ri vista di di fi lo loso sofia fia fond fo ndat ata a da Vitto Vittori ri o Sainati XX VI/ VI/2006 2006/ /1 (T ( Terza serie I/ I /1)
Ed izioni ETS ETS
TEORIA
Ri vi sta di di filoso filosofia fia fonda fondata ta da Vitto Vi ttorr i o Sainati Sai nati XXVI/2006/1 (Terza serie I/1)
L’identità i n q ues uest i o n e P rospe rospett t ive f ilos ilosofiche ofiche
E dizioni E TS
Indice Adriano Fabris P remessa, p. 5
Mauro Mariani Identità , essenza ed a ccidente, p. 7
Francesco Tomatis Ipseità , d iversità e dia-ferenza , p. 31
Marco Ivaldo Fichte: l’orizzonte comunitario dell’etica (le lezioni del 1812), p. 37
Antonia Pellegrino Cosa significa d ivent a re ciò che si è. F orme e a spett i del problema dell’identità in Ma rt in Heidegger, p. 55
Francesco Camera Il primat o dell’a lterità e le meta morfosi dell’identità in Emma nuel Levina s, p. 71
Leonardo Samonà Sulla logica d ell’opposizione: l’alterità tra Derrida e Levinas, p. 93
Luigi Vero Tarca Tutt o diverso da lla n egazione, p. 113
Flavia Monceri L’identità come pra tica dell’identificazione, p. 137
Giovanni Ventimiglia P roblemi di identità ma schile, p. 153
L’identità in questione
Premessa Adria no Fa bris
La questione dell’identità si è presentata negli ultimi anni, con sempre maggiore importanza, all’attenzione dell’indagine filosofica. A seguito della crisi che ha conosciuto il modello identitario, elaborato sia dalla metafisica classica che dalla dialettica idealistica e post-idealistica, si è sempre più i mposta la la nece necessi ssità tà di ri pensare nsare radicalm adicalmeente questa uesta tem tematica, ati ca, l’i denti dentità, tà, mostrando fino a che punto essa risulti, per dir così, inquietata da un’alterità che costitutivamente l’attraversa e che risulta oltremodo difficile eliminare nare. La que questi stio one non non riri veste veste però, sol solame amente, nte, un caratte caratterre astratto, astratto, ma ma riri chie chi ede anche di esser ssere aff affrontata ntata con con urg urgenza, tene tenendo ndo conto conto sop soprattutt attutto o dei dei mutame utamenti cul culturali turali e soci sociali ali che che hanno hanno car caratter atteri zzato la stor stori a re recente cente.. E cco all allora che divi divieene opportuno tem tematiz ati zzare are le categ categori e di ‘i denti dentità’ tà’ e di ‘alalter teri tà’ per pensare nsare i n mani manieera adeg adeguata la la situaz si tuazii one conte contem mporanea: anea: da una pr prospe spettiva tti va fil fi losof sofi ca, ri peto, to, e non non sem sempli cem cemente soci socio o-cultural cultur alee. Teoria. I n esso È questo uesto i l com compi to del del presente sente fascico asci collo di Te esso i l tem tema pr pre sc scelto lto è affro ffronntato, co come di co consueto, sisi a da un punto di vi vi sta storic ri co-filos -filoso fico fico che i n una chi ave pi ù prop ropria ri amente teoric ri ca. Non Non mancano dunque sondaggi che più esplicitamente si riferiscono ad autori classici e contemporanei nei del del pensie nsiero occi cci dentale dentale:: da Ari Ari stote stotelle a Cusa Cusano no,, da Fi F i chte chte a He Hei deg degger, da Levinas a Derrida. Ma, insieme, in esso vengono ospitati scritti che si confrontano in maniera originale con particolari tematiche: con la ripropo si si zi one, ad ad esempi o, de del te tema dell’i ll’i denti tà quale si rit ri trov rova nella filos filosofia di Sev Severin ri no, no nonché con le questi oni della di ffe fferen renza di gen genere e con la figu fig ura del transgender , , qu quale modello llo di un’i denti tà che oltre ltrep passa la di sti nzi one fra i se sessi . Con questo fascicolo, giunta ormai al ventiseiesimo anno di pubblicazio Teoria inaugura la sua terza serie. Motivi editoriali, volti a favorire una ne, Te maggiore diffusione della rivista, hanno consigliato di iniziare questa nuova TE ORIA 2006/1 2006/1
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Adriano Fabris
Teoria si avventura. D’ora in poi, dunque, Te si ca carat ratteriz ri zzerà per un un taglio gli o ancor pi pi ù deci samente monografic grafico o – pro prossegue guendo la trad radi zi one del “ri “riq quadro tematico”, da molti anni caratteristico di questa pubblicazione – e per un formato più invitante. Non cambierà tuttavia il suo profilo culturale, affinatosi nel corso dei venticinque anni di partecipazione al dibattito filosofico italiano. Come infatti ricordava Vittorio Sainati, nell’editoriale premesso alla Teoria si “nuova serie” della rivista, Te si co configura figura soprat rattutto “come luo luogo d’i ncontro e di confronto”, e perciò “rifiuta ogni ancoraggio a prospettive scola st sti camente prec recosti tui te o i rrigi rri gid di te, ne nell’ ll’i ntento di rec recare qualch lche contrib ri buto alla libera e feconda convergenza dialettica di molteplici esperienze di ricer Teoria conti ca”. Su questa linea Te continue nuerrà app appunto ilil suo camm cammi no: no: ape aperta ai pro prob blem lemi del pres resente, fed fedele a un un’i mpostazi one filos filosofica fica al al di là di di ogni gni sc schema i mposto.
L’identità in questione
Ide Id entità nt ità , es essenza ed a cc ccide ident nte e Mauro Mariani
I l tito titollo è ambizi bizio oso so,, ma l’arti l’artico collo si si propo propone ne se sem mpli plice cem mente di anal nalizt . Z 6 contro l’identità tra le cose dette zare gli argomenti contenuti in Me in Met per accidente e la loro essenza. L’intero capitolo è dedicato alla soluzione del problema enunciato nelle prime righe (1031a15-8): v ei\ nai1 (P) Biso Bisog gna inda ndagare se cia ciasc scun una a co cosa sa è ident dentiica al il suo suo tiv h\ n o è differente;
e si divide in due parti, seguite da una conclusione in cui si ricapitolano i risultati raggiunti (1032a4-11), le quali dimostrano, rispettivamente – la non non ide identi ntità tà tra le le co cose se che si dico dicono no per per accide accidente nte e la loro esse essenza nza (1031a19-28); – l’ide ’identi ntità tà tra le le co cose se che si dico dicono no per per sé e la loro esse essenza nza (1031a (1031a29291032a4). Anche se la seconda parte, articolata com’è in numerosi argomenti, è molto più complessa, a sollevare le maggiori perplessità è stata la prima, sia per la tesi sostenuta (non è infatti ben chiaro perché le cose che si dicono per accidente non debbano essere identiche alla loro essenza) che per la sua dimostrazione, della quale lo stesso Aristotele sembra mettere in dubbio la validità. Ed è anche per questa ragione che ho scelto di concentrare la mia attenzione sulle cose dette per accidente. 1
Definire esattamente che cosa è il tiv tiv h\ h\ n v ei\ nai (che in ogni caso tradurrò, seguendo una tradizione consolidata, con «essenza») è questione difficile e controversa, ma fortunatamente potremo limitarci a (parte di) quanto lo stesso Aristotele dice in Me in Mett. Z 4-6, e questo non solo per economia espositiva, ma anche per precise ragioni metodologiche che appariranno chiare tra breve. TE ORIA 2006/1 2006/1
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1. Che cosa significa l ogi kw`" ? Iniziamo chiedendoci che cosa dobbiamo intendere con l’espressione «ciascuna cosa» che compare in (P). La domanda è solo apparentemente futile. Infatti il termine greco che ho tradotto con «ciascuna cosa», ossia , richiama kaq∆ kaston (termine abitualmente usato da Aristo kaston e{ e{ tele per riferirsi ai particolari) e questo ha fatto credere a molti commentatori che (P) riguardi i particolari: ma si tratta di un’illazione non giustificae{ e{ ta perché kaston , a differenza di kaq∆ kaston , è usato da Aristotele per riferirsi, in maniera distributiva, ad ogni tipo di cose. D’altra parte è possibile formulare obiezioni sia contro l’ipotesi che si tratti di particolari, sia contro quella che si tratti di universali. Contro l’ipotesi che si tratti di particolari si può addurre che solo le cose la cui delucidazione è una definizione possiedono essenza (Z 4, 1030a6-7)2, mentre i particolari non sono definibili (Z 15); contro quella che si tratti di universali che l’essenza di ciascuna cosa è la sua sostanza (Z 6, 1031a17-8) e che nulla di ciò che si dice in universale è sostanza di ciò di cui si predica (Z 13). Formulare simili antinomie nell’ambito di Met . Z non è difficile (com’è stato osservato, in questo libro non si trova un’affermazione che non sia accompagnata da quella che sembra l’affermazione contraria, come se Aristotele stesse portando avanti l’esercizio aporetico di Met . B), difficile è trovare una soluzione che renda giustizia ad entrambi le parti dell’antinomia. Un buon inizio – anche se niente di più che un inizio – è l’osservazione che il libro Z della Metafisica affronta la questione della sostanza da diversi punti di vista e che le antinomie spesso nascono dalla giustapposizione di elementi appartenenti a trattazioni differenti. Nella fattispecie è abbastanza evidente che i capitoli 4-6 costituiscono una trattazione a se stante che ha per tema la sostanza intesa come essenza, ma questo non li caratterizza a sufficienza dal momento che il tema dell’essenza e quello collegato della definizione sono al centro di buona parte del libro Z. A mio avviso la particolarità di Met. Z 4-6 consiste nel fatto che questi capitoli trattano l’essenza logikw`~ (termine che per il momento non traduco). In effetti Z 4 inizia così 2
La distinzione tra delucidazione lov ( go~) e definizione (oJrismov~) non è, come potrebbe sembrare, un’inutile sottigliezza. Dato un qualunque termine dotato di significato è possibile fornire una delucidazione che spieghi di che cosa si tratta, ma solo in alcuni casi la delucidazione è una vera e propria definizione. L’intero libro Z dei Topici , An. Post . B 7-10, parte dei libri Z (in particolare Z 4 e 17) e H (in particolare H 2) della Metafisica sono dedicati a stabilire a quali condizioni una delucidazione può essere considerata una vera definizione.
Identità, essenza ed accidente
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Poiché all’inizio abbiamo distinto i diversi modi in cui definiamo la sostanza, e di questi uno sembra essere l’essenza, dobbiamo occuparcene, e in primo luogo diciamo di essa alcune cose logikw`~, che l’essenza di ciascuna cosa è ciò che viene detto per sé. (1029b1-2,13-15)
ma questo, di per sé, non comporta né esclude che l’ambito del lo gikw`~ vada oltre l’affermazione che l’essenza è costituita da determinazioni per sé. Per decidere a favore della mia ipotesi che la trattazione lo gikw`~ si estenda all’intero blocco Z 4-6 ci vogliono considerazioni più approfondite. Esaminiamo dunque, delle 12 occorrenze del termine logikw`~ nel Cor pus aristotelico, le più rilevanti ai fini di determinarne il significato nel contesto attuale. In De Gen. et Corr . A 7, 316a10-4 e in Met . Λ 1, 1069a2630 lo studio e la ricerca logikw`~ sono caratteristici dei platonici e si contrappongono ai metodi seguiti dai fisici, ossia di chi utilizza principi universali in contrapposizione a chi utilizza invece principi propri delle varie scienze. In Phys. Γ 5, 204b4 logikw`~ è contrapposto a fusikw`~: si può infatti dimostrare che non esiste un corpo infinito, o logikw`~ utilizzando la definizione «matematica» di corpo come «ciò che è delimitato da una superficie», oppure fusikw`~, utilizzando la distinzione tra corpi semplici e corpi composti e mostrando che né gli uni né gli altri possono essere infiniti. In Phys. Θ 8, 264a8 l’indagine logikw`~ è contrapposta a quella che utilizza argomentazioni appropriate alla materia trattata. In varie occorrenze negli Analitici Secondi (A 21, 82b35; A 22, 84a7 e 84b2) le argomentazioni logikw`~ sono contrapposte a quelle aj nalutikw`~. La contrapposizione riguarda le argomentazioni a sostegno della tesi che tutte le dimostrazioni scientifiche sono finite, ossia che il numero dei medi attraverso cui si prova l’appartenenza del predicato al soggetto nella conclusione è finito: le argomentazioni logikw`~ sono quelle che si basano sulla struttura di una derivazionein generale, mentre quelle aj nalutikw`~ si basano unicamente sulla struttura di una dimostrazione scientifica. In altre parole, nel primo caso il risultato cercato è ottenuto come esempio particolare di una dimostrazione più generale, nel secondo viene dimostrato direttamente utilizzando le caratteristiche peculiari che distinguono una dimostrazione scientifica da una j ~, dunque, non fa riferimento al fatto derivazione in genere. Analutikw` che nelle dimostrazioni si usano sillogismi (questo è vero delle derivazioni in genere), ma al fatto che le dimostrazioni sono analitiche nel senso che, partendo da ciò che dev’essere dimostrato, si va alla ricerca dei medi che permettono di costruire proposizioni, a loro volta scientificamente fondate, da cui può essere derivata sillogisticamente la conclusione. Tirando le som-
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me da questi brevi cenni si può dire che, tranne quando il riferimento è ai metodi dei platonici, le argomentazioni logikw`~ sono complementari rispetto a quelle proprie delle varie scienze (o metascienze, come appunto la teoria della dimostrazione), ma Aristotele non ne mette mai in dubbio la validità. Si tratta piuttosto di argomentazioni basate sopra un’analisi puramente concettuale di ciò su cui vertono le scienze stesse e che utilizzano, prevalentemente anche se non esclusivamente, l’armamentario tecnico della dialettica aristotelica (citando alla rinfusa, le caratteristiche della definizione, la distinzione tra i predicabili, la suddivisione di ciò che viene predicato nelle varie categorie, la distinzione tra i vari tipi d’identità). In questo senso si comprende anche il riferimento ai platonici: nel loro caso si tratta di argomentazioni, la cui validità è dubbia non solo perché utilizzano l’armamentario tecnico della dialettica platonica, ma soprattutto perché, lungi dall’essere complementari, pretendono di soppiantare completamente le argomentazioni basate sui principi propri delle scienze. Torniamo ora all’ipotesi che la peculiarità di Met. Z 4-6 consista nel considerare l’essenza logikw`~. In base a quanto ho appena detto questo dovrebbe più o meno significare che l’essenza viene trattata da un punto di vista puramente dialettico (quindi, d’ora in poi, adotterò come traduzione di logikw`~ «di tipo dialettico», oppure le varianti puramente linguistiche richieste dal contesto). Si tratta di un punto di una certa importanza teorica. Il rapporto tra «filosofia prima» (o «scienza dell’essere in quanto essere») e dialettica è infatti controverso: da un lato si sostiene che le argomentazioni utilizzate da Aristotele nella filosofia prima (soprattutto per quel che riguarda la ricerca dei principi nel libro Γ della Metafisica) sono quasi esclusivamente di tipo dialettico, dall’altro che la scienza dell’essere in quanto essere è, in ultima analisi, strutturata come le altre scienze e che il modello resta quello degli Analitici Secondi , dove le argomentazioni di tipo dialettico hanno un ruolo complementare. A mio avviso la seconda alternativa è quella più plausibile3, e questo modo di intendere logikw`~ è in linea con questa scelta interpretativa, dal momento che distingue anche all’interno della scienza dell’essere in quanto essere le argomentazioni di tipo dialettico da quelle proprie di questa scienza. Si tratta ora di vedere in che cosa consiste il punto di vista dialettico nella trattazione dell’essenza. Sappiamo che il tema principale di Met . Z è la sostanza come forma delle sostanze materiali, e, di conseguenza, il rap3
Ho sostenuto questa tesi in Dialettica e principi in Aristotele, in M. Barale (a cura di), Materiali per un lessico della ragione, Pisa 2002, pp. 149-204.
I denti dentità, tà, essen essenza za ed accide accidente nte
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porto tra la sostanzialità della forma e quella delle sostanze materiali. D’altra parte, poiché la sostanza è prima quanto alla conoscenza e conoscere qualcosa significa innanzitutto rispondere al domanda «che cosa è?», la questione della sostanzialità di qualcosa è strettamente connessa con quella della sua essenza e della sua definizione. Ma questo solleva immediatamente ulteriori problemi a proposito del rapporto tra essenza (e definizione) e materia, tra i quali: – in che che se sens nso o è poss possiibil bile (se è poss possiibil bile) la la defi defini nizi zio one del delle so sosta stanz nze e materiali? – è poss possiibil bile defi defini nire re lla a forma di una una so sosta stanz nza a materi teria ale se senz nza a fare riferi riferi-mento alla materia di cui quest’ultima è composta? – che rappo rapporto rto esiste siste tra la struttu struttura ra de della defi defini nizi zio one e que quella del della co cosa sa definita, in particolare com’è possibile che la definizione, essendo articolata in parti, possa esprimere l’essenza di ciò che, come la forma, è privo di parti? t . Z 4-6 sono capitoli «dialettici» proprio perché preA mio avviso Me avviso Met scindono completamente dalla natura della forma, in particolare dal suo rapporto con la materia e le sostanze materiali e quindi dalle risposte alle questioni che ho appena elencato4: di conseguenza anche l’aporia formulata all’inizio del paragrafo (le cose identiche alla loro essenza non possono essere né universali né particolari) risulta irrilevante. In altre parole il carattere assolutamente generale dell’approccio dialettico al problema comporta l’irrilevanza, o meglio l’impossibilità, di identificare ciò cui Aristotele si riferisce dicendo «ciascuna cosa» con questo o quel tipo di cose che t . Z: molto semplicemente «ciascuna cosa» è popolano l’ontologia di Me di Met proprio una cosa qualunque, e – è opportuno ribadirlo – nelle dimostrazioni di Z 6 la forma ed il suo rapporto con la materia e le sostanze materiali non giocano nessun ruolo. Stabilire poi se ad essere identici alla propria essenza sono le forme o le sostanza materiali, gli universali o i particolari, sarà compito della filosofia prima. E questo, alla luce del risultato del tutto generale di Z 6 (che perciò è detto essere «di qualche utilità in relazione alla ricerca sulla sostanza» – 1031a16-7), vorrà dire stabilire se si tratta o non si tratta di cose dette per sé. 4
Lo dimostra anche il fatto che in questi capitoli il termine «materia» non compare e, con un’unica eccezione (Z 4,1030a12, dove si parla di ei[ dh di un genere, con riferimento, dunque, non alla forma, ma alle specie dei Topici e della Categorie – ma su questo punto ritornerò più avanti), il termine ei\ do~ compare riferito unicamente alle idee platoniche.
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2. Per sé e per acci acci de dente nte t . Z 4-6 risulta ancor più I l carattere carattere non non strettam strettamente metafisi tafisico co di Me di Met evidente se si pensa che le distinzioni intorno alle quali ruotano questi capitoli, ossia quella tra «essere detto (o predicato) per sé» ed «essere detto (o predicato) per accidente» e quella tra «cose dette per sé» kaq∆auJ ta; legovmena mena) e «cose dette per accidente» kata; sum( ( bebhko;~ legovmena), hanno la loro origine nella teoria della predicazione esposta nell’Organon nell’Organon5. An. P ost. A 4 I l term termiine «per «per sé sé» » po possi ssie ede una una plura plurallità di accezi ccezioni. ni. In I n An. t . ∆ 18 troviamo due elenchi di queste accezioni, ma non è facile e in Me in Met né comprenderne il significato esatto né stabilire se i due elenchi sono del tutto congruenti. Ai nostri fini sarà comunque sufficiente estrapolare le ac Meet . Z 4-6: cezioni rilevanti per per M A se B si predica n A; ej tw` / tiv ejstin stin di A; (1) B appartiene per sé ad ad A A se B si predica di A (2) B appartiene per sé ad ad A di A e A fa parte della definizione di B , ad esempio ‘pari’6 appartiene per sé a ‘numero’ perché nella definizione di ‘pari’ compare ‘numero’ (in generale si può dire che le specie e le differenze specifiche appartengono per sé in questa seconda accezione al genere corrispondente), oppure ‘maschio’ appartiene per sé ad ‘animale’ perché, anche se ‘maschio’ non determina una specie di animale, ‘animale’ compare nella definizione di ‘maschio’; A se A è il primo recipiente di B (ad esempio la (3) B appartiene per sé ad ad A superficie è il primo recipiente di ‘bianco’ – infatti qualcosa è bianco se e solo se lo è la sua superficie); (4) una cosa è detta detta per sé se è esa esattam ttamente ciò ciò che è senza esse esserre qual qualcosa d’altr d’altro o (ad esem esempio pio ‘uomo’ è detto per sé perc perché hé og ogni uomo è tal tale senza in aggiunta essere qualcosa d’altro di cui ‘uomo’ stesso si predica) – al contrario ‘camminante’ è detto per accidente perché non solo la sua esistenza dipende sempre da quella di un soggetto che cammina, ma non possiamo parlare di un camminante senza fare riferimento a tale soggetto; (5) in un’accezion un’accezione e meno ristr ristre etta anche anche cose cose come ‘bian ‘bianchezza chezza’’ sono dette dette 5
Parlare di «teoria» al singolare è una brutale ipersemplificazione, ma qui m’interessa solo enucleare alcune linee di fondo comuni alle varie teorie della predicazione esposte o semplicemente accennate nell’Organon nell’Organon.. 6 Uso le virgolette ‘...’ per indicare che si tratta del valore semantico del termine linguistico corrispondente, non del termine linguistico stesso.
I denti dentità, tà, essen essenza za ed accide accidente nte
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per sé7, in quanto, pur non potendo esistere senza un soggetto che sia bianco, il discorso che dice che cosa sono può invece prescindere da questo questo soggett soggetto o8. La distinzione tra predicazione per sé e predicazione per accidente si basa sulle prime tre accezioni: la predicazione per accidente è definita semplicemente come una predicazione non per sé, e quindi avrà altrettante accezioni9. La distinzione tra cose dette per sé e cose dette per accidente si basa invece sulle ultime due, ma ad essere dette per accidente sono in primo luog luogo o cose come ‘uomo camminante’ o ‘uom ‘uomo bianco’, bianco’, piutt piuttosto osto che ‘camminante’. La differenza non è molta (dal momento che ‘camminante è detto per per accidente accidente proprio propri o per perché presuppo presuppone ne un sog soggetto che cammina, e ‘uomo camminante’ nante’ non fa che che rendere espli esplicito cito questo sog soggetto), ma ser serve ad evidenziare che le cose dette per accidente derivano da una predicazione per accidente nella prima accezione. Quindi una cosa detta per accidente possiede una struttura predicativa intrinseca e deriva, ontologicamente, da altre più fondamentali; al contrario una cosa detta per sé è semplice, nel senso che non è il risultato di una relazione predicativa10. Esiste quindi un’evidente asimmetria tra le cose dette per accidente e le cose dette per sé: le prime derivano dalla predicazione di un accidente, le seconde non deri deriva vano no da una predi predica cazi zio one per per sé. In I n parti partico collare iill rappo rapporto tra una cosa detta per sé e ciò che si predica per sé nella prima accezione è Posst . A 22: un rapporto di identità. Scrive infatti Aristotele in An in An.. Po Ancora se qualcosa significa la sostanza significa esattamente ( per o{ ) quel qualcosa o esattamente un quel qualcosa in relazione a ciò di cui si predica; se qualcosa non significa la sostanza, ma si dice di un altro come di un soggetto che non è esattamente quel qualcosa o esattamente un quel qualcosa, allora è un accidente, ad esempio ‘bianco’ in relazione a ‘uomo’. L’uomo non è infatti esattamente bianco né un bianco, piuttosto un animale: infatti l’uomo è esattamente un animale. Quanto appunto non significa la sostanza dev’essere predicato di qualcosa d’altro come di un soggetto e non è possibile che vi sia qualcosa di bianco che sia bianco senza essere qualcosa d’altro. (83a24-32) 7
Cfr. Me Cfr. Met t . ∆ 7, 1017a22-4: «Sono dette essere per sé le cose significate dalle varie figure di predicazione: in quanti modi sono dette, in altrettanti significano infatti l’essere». 8 Mentre dire che cos’è un bianco implica la specificazione del soggetto che è bianco possiamo dire che la bianchezza è un colore di un certo tipo senza specificare il primo recipiente della bianchezza. 9 È tuttavia probabile che «per accidente» nella seconda accezione si riduca alla prima: infatti ciò di cui un accidente si predica non rientra mai, i n senso senso stre stretto, tto, nella definizione dell’accidente stesso. 10 È necessario qualificare in questo modo la semplicità: un corpo, ad esempio, è semplice in questo senso, anche se non lo è dal punto di vista della composizione fisica.
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Il testo è difficile anche per il gergo usato, ma una cosa è chiara: in una predicazione per sé soggetto e predicato significano la stessa cosa, e quindi la predicazione è riducibile, in un certo senso, ad un’identità. Ad esempio, se l’uomo e il cane sono entrambi animali, l’uomo è identico ad un certo animale e il cane è identico ad un certo altro animale: la presenza degli indefiniti evita conseguenze paradossali (ad esempio che il cane e l’uomo sono identici essendo entrambi identici ad animale), ma, poiché ciò che differenzia un certoanimale e uncerto altro animale è lasciato indeterminato, si può parlare ugualmente di identità. Di conseguenza l’espressione «uomo animale» è tanto malformata quanto quella formata giustapponendo due espressioni numeriche che denotano lo stesso numero, ad esempio «9(7+2)». Si può dire che Met . Z 4-6 hanno a che fare pressoché esclusivamente con le nozioni e le distinzioni che ho appena esposto. In breve, il risultato di Z 4 è che le essenze nel senso primo e fondamentale del termine corrispondono alle definizioni in senso stretto e sono quindi costituite da ciò che si dice per sé, nella prima accezione, di cose dette per sé nella quarta accezione, ma non nella quinta. Z 5 affronta le difficoltà legate alle accezioni (2) e (5). Infatti cose come ‘maschio’ (o ‘camuso’ in relazione al naso) non possono essere definite se non tramite quello di cui sono dette per sé nell’accezione (2): ma questo costituisce il loro soggetto e nessuna definizione in senso stretto può fare ricorso a ciò cui il definiendumappartiene. Ma questo vale anche per le cose dette per sé nell’accezione (5), e quindi neppure loro sono definibili in senso stretto. Infine Z 6 cerca di dimostrare ciò che era stato solo enunciato nel già citato passo di An. Post . A 22, ossia che ad essere identiche alla loro essenza sono tutte e sole le cose dette per sé.
3. Identità accidentale Al centro degli argomenti di Met . Z 6 contro l’identità tra le cose dette per accidente e la loro essenza c’è l’assunzione che ‘uomo’ e ‘uomo bianco’ nel primo argomento, ‘musico’11 e ‘bianco’ nel secondo sono identici. La 11
In realtà mousikov n vuol dire «educato artisticamente», ma per brevità traduco con «musico» o «cosa musicale». Tra poche righe si vedrà che «musico» si riferisce in realtà sia all’astratto ‘musicalità’ che al paronimo derivato ‘cosa musicale’. Aristotele non fa che generalizzare i molti casi in cui nella lingua greca il neutro sostantivato denota anche l’astratto: ad esem-
Identità, essenza ed accidente
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maggioranza dei commentatori parla a questo proposito di identità accidentali kata; ( sumbebhkov v~ – per accidente)12 ed in effetti sembra esserci una corrispondenza molto precisa con l’identità accidentale come viene definita in Met . ∆ 9: Le cose si dicono identiche le une per accidente, ad esempio ‘bianco’ e ‘musico’ sono identici perché appartengono accidentalmente alla stessa cosa, e ‘uomo’ è identico a ‘musico’ perché l’uno appartiene accidentalmente all’altro, e ‘musico’ è identico a ‘uomo’ perché appartiene accidentalmente all’uomo. E quest’ultimo [ scilicet l’uomo cui appartiene accidentalmente ‘musico’, ossia ‘uomo musico’] è identico a ciascuno di quelli, e ciascuno di quelli a questo, e infatti e ‘uomo’ e ‘musico’ sono detti identici a ‘uomo musico’ e quest’ultimo a quelli. (Met . ∆ 9, 1017b27-33)
Dal confronto con Met . ∆ 6, capitolo dedicato alla nozione di «uno», risulta chiaro che A eB sono accidentalmente identici se la loro combinazione è un’unità accidentale: infatti, ad esempio, ‘musico’ e ‘bianco’ sono accidentalmente uno esattamente per la stessa ragione per cui sono accidentalmente identici, ossia perché ‘bianco’ e ‘musico’ si predicano di uno stesso soggetto, mentre ‘uomo’ è accidentalmente identico a ‘musico’ perché ‘musico’ si predica di ‘uomo’ e quindi ‘uomo musico’ è accidentalmente uno. Inoltre un’unità accidentale come ‘uomo musico’ è accidentalmente identica sia all’accidente (o meglio al paronimo derivato dall’accidente, ossia la ‘cosa musicale’) sia a ciò di cui l’accidente si predica, ossia ‘uomo’. Tutti i termini universali (e quindi anche «uomo musico») possono essere usati anche per riferirsi, in un determinato contesto, ad un particolare13. Ed in effetti quando abbiamo a che fare con le cose che sono accidentalmente uno sembrerebbe che il riferimento non possa che essere ad un particolare: Analogamente l’accidente si dice in relazione ai generi e ai nomi di un universale, che cioè ‘uomo’ è lo stesso che ‘uomo musico’: infatti [questo accade] o perché ‘musico’ appartiene a ‘uomo’ inteso come sostanza unitaria [mia/ ` ou[ sh/ ouj siva]/ , o perché si predicano entrambi di uno dei particolari, ad esempio Corisco, con la differenza che non appartengono allo stesso modo, ma certamente uno come genere nella sostanza, l’altro come stato o affezione della sostanza. ( Met . ∆ 6, 1015b28-34) pio leukov n significa sia ‘cosa bianca’ che ‘bianchezza’. Certamente mousikov n non è il termine usuale per riferirsi all’astratto ‘musicalità», ma Met . Z 6, 1031b23-32 sfrutta il doppio significato anche di questo termine. 12 Per una trattazione più approfondita dell’identità accidentale rimando al mio Numerical Identity and Accidental Predication in Aristotle, in «Topoi», 2/19 (2000), pp. 99-110, dove si trova anche una bibliografia sull’argomento. 13 Addirittura nella stessa frase. «Il cane abbaia», ad esempio, può voler dire che i cani in generale abbaiano oppure che un dato cane sta abbaiando.
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Ritengo che «‘uomo’ inteso come sostanza unitaria» significhi che il termine «uomo» funge da soggetto e si riferisce ad un singolo uomo non specificato, mentre nel secondo caso ‘uomo’ si predica di un dato uomo (specificato o specificabile): in entrambi i casi, comunque, ‘uomo bianco’ è un particolare, non un universale. Questo è confermato da un’altra osservazione di Aristotele Perciò anche tutte queste cose non si dicono in universale: non è infatti vero dire che ogni uomo e ‘musico’ sono identici: l’universale infatti appartiene per sé, gli accidenti no, ma si dicono direttamente dei particolari. (Met . ∆ 9, 1017b33-1018a2)
L’osservazione per la verità non è chiarissima. Si potrebbe obiettare che, se si dà il caso che ogni uomo sia effettivamente bianco, ‘uomo’ e ‘uomo bianco’, intesi come universali, sono accidentalmente identici; oppure che, se si dà il caso che tutti i musici siano bianchi, ‘musico’ e ‘bianco’, sempre intesi come universali, sono accidentalmente identici. Formalmente potremmo dire qualcosa del genere: L’universale A è accidentalmente identico all’universale B se e solo se ognuno degli A è accidentalmente identico ad uno dei B, o viceversa.
Questa obiezione sarebbe valida se l’universale fosse semplicemente qualcosa che «per natura si predica di più cose» (secondo la definizione di De Int . 7, 17a39-40), ma il fatto che qui gli universali sono detti appartenere per sé rimanda piuttosto ad An. Post. A 4, dove l’universale è definito come «ciò che appartiene a tutti, per sé e in quanto sé» (73b26-7). Poiché qui si parla degli universali in rapporto a ciò che cade sotto di essi, «per sé» deve essere inteso principalmente14 nella prima della accezioni che ho sommariamente esposto nel paragrafo precedente, ossia che un universale ej tw/ ` tiv ejstin di ciò di cui si preappartiene per sé perché si predica n dica. Ora, nel già citato An. Post . A 22, 83a24-35, Aristotele afferma l’identità (non accidentale) tra ciò che si predica n ej tw/ ` tiv ejstin e ciò di cui questo viene predicato, e quindi predicare un genere non equivale semplicemente a predicarlo degli individui che cadono sotto di esso. Questo è confermato daTop. Z 6, 144a28-b3, dove Aristotele osserva che il genere si predica di tutto ciò che cade sotto una differenza specifica (di quel 14
Naturalmente vi sono universali che non fanno parte della definizione, ad esempio la proprietà di avere gli angoli interni pari a due retti che si predica per sé dei triangoli. Ma per mostrare l’impossibilità che gli universali siano in generale accidentalmente identici a qualcosa detto per accidente è sufficiente limitarci a quegli universali che appartengono per sé nella prima accezione.
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genere, naturalmente), ma non della differenza stessa, mentre si predica sia della specie che degli individui che cadono sotto la specie: quindi se il genere A genere A si predica di tutto ciò che cade sotto B non è detto che si predichi anche di B e che quindi B sia identico ad un A. Al contrario ciò di cui un accidente si predica è sempre diverso dall’accidente stesso, e quindi, tanto per fare un esempio, ‘uomo’ non è mai identico ad una cosa bianca, anche se tutti gli uomini sono bianchi: dunque un accidente si predica di un universale solo derivativamente ossia perché si predica di ciò che cade sotto l’universale. Riassumendo, sia un individuo I che un universale S universale S I e di S possono esser essere e un B, se B si predica per sé di I e di S;; ma se B si predica per accidente di S di S solo gli individui che cadono sotto S sotto S possono esser essere e un B . Se dunque un universale A universale A è accidentalmente identico a B se B è un A e A è unB accidente di A un B , allora una simile identità è impossibile. Le cose accidentalmente identiche sono, secondo Aristotele, numericamente uno, ma differiscono quanto all’essere, ossia il discorso (semplice delucidazione o vera e propria definizione) che esprime che cosa sono è differente. La definizione ufficiale di «numericamente uno», d’altra parte, è «ciò i cui nomi sono molti, ma la cosa prav ( gma) è una» (T (Top A 7, 103a19-20), e non si può certo dire che sia estremamente chiara. Penso però che non ci allontaneremmo troppo dall’idea di Aristotele se, in termini moderni, dicessimo che due cose sono numericamente uno se non esiste nessun count name che le conti come due, anche se esistono diversi modi di riferirsi ad esse: nella fattispecie Socrate e ‘Socrate bianco’ sono numericamente uno perché non sono, tra l’altro, né due uomini né due cose bianche, anche se «Socrate» e «Socrate bianco» sono appellativi distinti. In Top. H 1 Aristotele afferma che quella che in seguito sarà nota come Legge di Leibniz, ossia l’indiscernibilità degli identici, vale per tutto ciò che è numeri ericam camente uno, uno, ma non non preci precisa sa se ha in mente anche anche ci ciò che è identico solo accidentalmente. Altrove però afferma esplicitamente che questi ultimi la Legge di Leibniz non vale senza restrizioni. Ad esempio: [sci lice licet del t del paronimo derivato – Non è necessario che ciò che è vero dell’accidente sc cfr. nota 11] lo sia anche del soggetto: infatti solo alle cose che sono indistinguibili quanto al alla sostanza sostanza [ossia [ossia quanto quanto all all’essere] e sono uno appart apparteng engono ono esa esattam ttamente gli stessi predicati. (E (E l. Sop Soph. 24, 179a36-9)
Aristotele si serve di ciò quando risulta utile alla soluzione di paradossi Soph. 24 o alla formulazione di particolari punti teorici: ad esempio in El. Soph. per la soluzione del paradosso dell’«uomo mascherato»; in Phys. Γ 3 per la giustificazione del fatto che un unico processo è spesso attualizzazione
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Phys. Θ 8 per la spiegadi potenze diverse, una attiva e l’altra passiva; in Phys. zione del moto rettilineo alternato. Non entrerò qui in ulteriori dettagli, perché quello che ora c’interessa è valutare se e in che misura questa restrizione della Legge di Leibniz gioca un ruolo negli argomenti di Z 6.
4. Non ide i denti ntità tà tra tra le le cose cose de dette tte pe per acci acci de dente nte e la lo loro esse essenz nza: a: pririm p mo argom rgomento Dopo questi preliminari affrontiamo finalmente la questione alla quale questo questo articol ticolo o è dedi dedicato cato.. I l prim pri mo argo argomento che Aristote ri stotelle propone propone a favore della diversità tra le cose dette per accidente e la loro essenza è il seguente: Riguardo invero alle cose dette per accidente, sembrerebbe che siano diverse, ad esempio ‘uomo bianco’ è diverso dall’essere dell’uomo bianco. Se infatti fosse identico, anche l’essere dell’uomo e quello dell’uomo bianco sarebbero identici: infatti, come dicono, ‘uomo’ e ‘uomo bianco’ sono identici, quindi lo sono anche l’essere dell’uo (Met . Z 6, 1031a19-24) mo bianco e quello dell’uomo. Met
almeno a pr pri Si tratta di una reductio (dimostrazione per assurdo) che, alm ma vi vi sta, sta, può essere schematizzata così (indicando, in generale, l’essenza X con «Ess X », ‘uomo’ con U U e U.B.)): di X con e ‘uomo bianco’ con conU.B. U =Ess (1) U =EssU U.B. =Es (2) U.B. =EssU.B. U = (3) U =U.B. (4) Ess EssU =EssU.B. Ma (4) è falsa e quindi dalla verità di (1) e (3) segue la falsità di (2). Aristotele tuttavia critica la sua stessa argomentazione subito dopo averla formulata: O piuttosto non è necessario che quanto per accidente sia identico, infatti non è in sauv tw~) che gli estremi diventano identici. ( Me Met . Z 6, 1031a24-5) maniera uniforme (wJsauv
Questa osservazione non è un modello di chiarezza. Tuttavia almeno questo è chiaro: l’uso di «estremi» rimanda ad una struttura sillogistica (gli estremi sono i termini che compaiono nella conclusione, nella fattispecie EssU e EssU.B.), ed essi diventano identici, ossia si produce la concluU e U.B. «Quanto per acsione che ne afferma l’identità, attraverso i medi U e U.B. cidente», invece, deve riferirsi o a U.B. (cfr. la riga 19) oppure a EssU.B., e
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questo dà luogo a interpretazioni differenti. Vediamole in dettaglio. U.B., Aristotele starebbe di(a) (a) Se «qua «quanto per per accide accidente nte» » si riferi ri ferisce sce a U.B., cendo che l’identità di quest’ultimo con ‘uomo’ è puramente accidentacessi ssitas tas conse conseq quenti uentiae ae)) perché le: quindi (4) non segue di necessità (ne (nece manca l’uniformità modale delle premesse (infatti (1) e (3) sono, per ipotesi d’assurdo, identità in senso proprio, mentre (2) non è che uno degli esempi aristotelici standard di identità accidentale). Se «quanto per accidente» si riferisce invece a EssU.B. ci sono due possibilità: necessi ssitas tas conseconse(b) Aristo ri stotel tele e starebbe starebbe dicen dicendo do che (4) non non è neces necessa sari ria a (nece quenti uentiss), ma è un’identità accidentale che deriva correttamente da (1)(3); necessi ssitas tas (c) Aristo ri stote telle starebbe starebbe dicen dicendo do che (4) non non segue di neces necessi sità tà (nece conseq conseque uenti ntiae ae)) perché la derivazione manca della necessaria uniformità. Vediamo ora le ragioni che possono essere addotte, in base alle diverse reductio. Se si adotinterpretazioni, per giustificare il fallimento di questa reductio. ta (a), si può supporre che la conclusione (4) non segua logicamente perché la Legge di Leibniz non vale senza restrizioni nel caso dell’identità accidentale, mentre la legge logica che cose rispettivamente identiche a cose identiche tra loro sono anch’esse identiche si ottiene mediante due applicazioni della Legge di Leibniz, di cui una riguarda un’ identità accidentale. Più precisamente da U =U .B . → ( U U = U =Ess U.B.=EssU ) =EssU → U.B.=Ess U.B.=Ess U.B.=EssU → (U.B. U.B. =Es =EssU.B. → Ess EssU =EssU.B.) e dalle assunzioni (1)-(3) segue (4); ma questa derivazione non è garantita perché la Legge di Leibniz è stata applicata all’identità accidentale U = U.B. Naturalmente questo non significa che (4) non sia in alcun modo derivabile da (1)-(3), ma solo che non lo è se la Legge di Leibniz è applicata in in questo modo. I n eff effe etti possi possia amo appli pplicarla carla in manie niera dive diversa rsa e (anche (anche dal dal punto di vista di Aristotele) logicamente corretta, salvaguardando così la correttezza della derivazione (1)-(4), come vuole l’interpretazione (b). La Legge di Leibniz, infatti, vale senza restrizione per ciò che è pienamente identico, e quindi, dal momento che (1) e (2) sono per ipotesi identità a pieno titolo, vale
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U.B. =EssU.B → (U =U.B. → U =EssU.B.) U =EssU → (U =EssU.B. → EssU =EssU .B.) da cui, tramite le assunzioni (1)-(3), segue (4), ma intesa come identità accidentale. Prendiamo infatti U.B. =EssU.B. → (U =U.B. → U =EssU.B.). Il suo significato è che, seU è accidentalmente identico a U.B., U sarà accidentalmente identico anche a EssU.B. perché la Legge di Leibniz si applica senza restrizioni a U.B. = EssU.B., che è, per ipotesi d’assurdo, un’identità in senso pieno. Tramite la Legge di Leibniz abbiamo così giustificato la regola che cose pienamente identiche rispettivamente a cose accidentalmente identiche sono anch’esse accidentalmente identiche tra loro15. Se però la derivazione di (4) è corretta, perché la reductio nel suo complesso non dovrebbe essere un argomento valido? Le risposte possibili sono due: perché Aristotele ritiene (4), intesa come identità accidentale, vera; oppure perché la ritiene falsa, ma non così evidentemente falsa da giustificare la reiezione di una delle premesse, infatti in una reductio la falsità della conclusione derivata dall’ipotesi d’assurdo deve essere «nota ed ammessa» (cfr. ad esempio An. Post . A 26, 87a9-10). In quest’ultimo caso la reductio fallirebbe per ragioni più epistemologiche che logiche. Ora, se due essenze sono accidentalmente identiche se hanno definizioni differenti, ma sono essenza di cose accidentalmente identiche tra loro, allora EssU .=EssU.B., intesa come identità accidentale, deve essere vera perché per ipotesi vale U =U .B. Ma in tal caso le premesse (1) e (2) sarebbero inutili e quindi la supposto identità tra le cose dette per accidente e la loro essenza sarebbe del tutto irrilevante. In base alla prima risposta, dunque, la reductio fallisce perché da un lato la conclusione della parte diretta è vera, dall’altro la premessa di cui si vuole dimostrare l’assurdo è irrilevante ai fini della conclusione stessa. Nel loro commento a Met . Z16 Frede e Patzig scelgono invece la seconda risposta. In realtà essi non forniscono nessuna ragione per la falsità di (4), ma si potrebbe sostenere che due essenze o sono identiche in senso pieno o non lo sono affatto, ossia che l’identità accidentale tra essenze è sempre falsa (anche se non sempre evidentementefalsa). Inoltre questa è la sola, tra le interpretazione prese finora in considerazione, a spiegare (lo 15
Si tratta di qualcosa di simile alla «regola del peiorem» che Teofrasto applicava alla sillogistica modale. 16 Cfr. M. Frede - G. Patzig, Aristoteles, Metaphysik Z, Text, Übersetzung und Kommentar , München 1988, vol. II, pp. 89-91.
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vedremo nel prossimo paragrafo) perché il secondo argomento contro l’identità tra le cose dette per accidente e la loro essenza non è un’inutile ripetizione del primo. Prendiamo ora in esame (c). Se la non uniformità della derivazione dipende dalla non uniformità modale delle premesse, (a) e (c) in pratica coincidono. Tuttavia (c) lascia spazio anche all’ipotesi che la non uniformità dipenda unicamentedal fatto che non tutti i medi sono dello stesso tipo, infatti alcuni sono per sé ed altri per accidente. Senza dubbio nella derivazione compare un’identità accidentale, ma non è questo che la rende logicamente invalida, in altre parole è la presenza di medi non omogenei che di per sé determina l’invalidità, non il fatto che in questo modo alcune identità finiscono per essere accidentali17. Il punto di forza di questa interpretazione è che non fa del secondo argomento un’inutile ripetizione del primo, mentre il suo punto debole è che non spiega perché la non omogeneità dei medi costituisce una fallacia.
5. Non identità tra le cose dette per accidente e la loro essenza: secondo argomento Aristotele enuncia brevemente un secondo argomento contro l’identità tra le cose dette per accidente e la loro essenza: Ma forse potrebbe sembrare che accada questo, che gli estremi detti per accidente diventino identici [oppure: gli estremi diventino identici per accidente]18, ad esempio l’essere del bianco e l’essere del musico: ma sembra di no. (Met . Z 6, 1031a25-28)
L’argomento è aperto ad una pluralità di interpretazioni. Innanzitutto non sappiamo con certezza se per Aristotele sia valido: senza contare le clausole dubitative con cui viene introdotto, quella finale, «ma sembra di no» dokei` ( de; ou[), può essere sia una smentita che una conferma dell’ipotesi iniziale. Infatti questa clausola può voler dire:
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Da ora in poi quando parlerò di (c) farò riferimento unicamente a questo secondo modo d’intenderla. 18 Le due traduzioni corrispondono rispettivamente all’inserimento o meno del ta; posto tra parentesi quadre in ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; ta; [ ] kata; sumbebhkov v~ (cfr. le righe 267). Entrambi i testi sono attestati nei codici, e neppure gli editori moderni sono in accordo tra loro: Ross e Jaeger inseriscono ta;, Frede-Patzig (seguito da Bostock – cfr. D. Bostock, Aristotle: Metaphysics, Books Z and H , translated with a Commentary , Oxford 1994, p. 8) no.
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– [smentita] potrebbe sembrare che la conclusione segua, ma, ad un più attento esame, risulta che invece non segue; oppure – [conferma] la conclusione segue ed è probabilmente falsa perché sembra che l’essere del bianco e l’essere del musico non siano la stessa cosa. In secondo luogo mancano molti dei passaggi attraverso cui si giunge alla conclusione. Infine nella conclusione l’essere del bianco – to; leukw/ ` ei\ nai – può significare sia l’essere della bianchezza che l’essere di una cosa bianca (cfr. Z 6,1031b22-28), esattamente come – l’abbiamo già visto – to; leukov n può significare sia una cosa bianca che la bianchezza. Lo stesso, ovviamente, per l’essere del musico. In ogni caso al centro dell’argomento c’è questa catena d’identità: (j) EssU.B. =U. B. =U.M. =EssU.M. da cui segue (jj) EssU.B. =EssU.M. Se to; leukw` ei\ nai e to; mousikw` ei\ nai significano rispettivamente l’essere di una cosa (nell’esempio un dato uomo) bianca e quello di una cosa musicale l’argomento finisce qui. Se invece significano l’essere della bianchezza e quello della musicalità, allora da (jj) bisogna derivare (jjj) EssU =Ess M (jjj) è ovviamente falso, ma il passaggio da (jj) a (jjj) non può avvenire che per cancellazione, procedura la cui invalidità è esplicitamente riconosciuta in De Int .11. Per la verità Aristotele sembra – in contraddizione appunto con De Int .11 – ammetterne la validità in Met . Z 4, 1029b 21-22, dove inferisce l’identità tra le essenze della bianchezza e della levigatezza da quella (supposta) tra le essenze di superficie bianca e di superficie levigata. Tuttavia in quest’ultimo caso la superficie è il recipiente primo del bianco (come Aristotele dice ripetutamente) e, presumibilmente, anche del liscio, per cui, se essere una superficie liscia equivale ad essere una superficie bianca, anche l’essere del bianco coincide con quello del liscio. Ora, è difficile pensare che bianchezza e musicalità abbiano lo stesso recipiente primo (per la bianchezza è infatti la superficie; per la musicalità con ogni probabilità l’anima), e Met . Z 4, 1029b 21-22 non basta perciò per imputare ad Aristotele il passaggio da (jj) a (jjj).
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Alla luce di questo secondo argomento riprendiamo ora l’esame delle interpretazioni del primo. Il ragionamento che sta alla base di (a) porta a concludere che la derivazione di (jj) è logicamente scorretta esattamente per le stesse ragioni per cui lo era quella di (4): la sola differenza consiste nell’assumere tra le premesse l’identità accidentale U. B. =U.M. al posto di U =U.B. Il passaggio da (jj) a (jjj) diventa così del tutto irrilevante: infatti, anche ammettendone la validità, (jjj) non seguirebbe da (j), e quindi lareductio fallirebbe comunque. Dunque la clausola finale «ma sembra di no» dev’essere interpretata come una smentita, mentre il testo corretto può essere sia ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; kata; sumbebhkov v~ sia ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; ta; kata; sumbebhkov v~: il primo se si ritiene che la conclusione dell’argomento sia (jjj)19 e si vuole sottolineare che è attraverso un’identità accidentale che la conclusione è stata raggiunta; il secondo se si ritiene che la conclusione dell’argomento sia (jj) e si vuole sottolineare che (jj) è un’identità di essenze di cose dette per accidente. In ogni caso, in base a questa interpretazione, il secondo argomento fallisce perché, proprio come il primo, contiene un’identità accidentale: ed è difficile supporre che Aristotele si illudesse di emendare il primo argomento semplicemente sostituendo un’identità accidentale ad un’altra (ricordo ancora una volta che il passagio a (jjj) è, sotto questa interpretazione, quanto meno superfluo). Per giustificare la presenza del secondo argomento si deve dunque abbandonare (a). Prendiamo ora in considerazione (b). Se si opta per la verità di (4), il secondo argomento non è che una reduplicazione del primo, il passaggio da (jj) a (jjj) è irrilevante e la reductiofallisce esattamente per le stesse ragioni. Come ho già detto, Frede e Patzig optano invece per la falsità di (4), ma una falsità né evidente né indisputata, mentre la falsità della conclusione di una reductio deve essere «nota ed ammessa». Il passaggio da (jj) a (jjj) serve proprio per ottenere, come conclusione della parte diretta della reductio, una falsità di questo tipo. Nella loro ricostruzione, infatti, il secondo argomento è costituito da questi due quasi-sillogismi U =U.B. =EssU.B. U =U.M. =EssU.M. dai quali segue (jj), ossia 19
Il testo ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; ta; kata; sumbebhkov v~ non è in questo caso giustificato, dal momento che i termini che compaiono in (jjj) sono sì essenze di accidenti, ma non di cose dette per accidente.
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Es sU.B. =EssU.M. Da quest’ultimo segue a sua volta (jjj), ossia EssB =Ess M Ma quest’ultima identità è evidentemente falsa e costituisce perciò ragion sufficiente per la reiezione di entrambe le premesse U.B. =Es sU.B. e U.M. =Es sU.M. (a voler sottilizzare una dimostrazione per assurdo può falsificare una sola premessa, ma in questo casoU.B. =Es sU.B. eU.M. =Es sU.M. o sono entrambe vere o sono entrambe false). Nell’interpretazione di Frede e Patzig, dunque, la clausola finale «ma sembra di no» è il riconoscimento della falsità di EssB =Ess M e quindi una conferma della validità della reductio; inoltre, poiché è attraverso l’identità accidentale (jj) che otteniamo l’dentità di EssB =Ess M, il testo corretto deve essere ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; kata; sumbebhkov v~ e la traduzione «gli estremi diventino identici per accidente». La debolezza di questa interpretazione è duplice: da un lato attribuisce ad Aristotele un errore logico, il passaggio da (jj) a (jjj), che lo stesso Aristotele in altre sedi riconosce essere effettivamente una fallacia; dall’altro, come ho detto nel paragrafo precedente, Frede e Patzig non forniscono nessuna ragione per la falsità di EssU.B. =EssU.M. intesa come identità accidentale. Resta solo (c). In base a questa interpretazione il primo argomento non è valido non perché contiene un’identità accidentale, ma perché contiene termini non omogenei, ossia cose dette per sé, come ‘uomo’, e cose dette per accidente come ‘uomo bianco’: quindi il secondo argomento emenda il primo semplicemnte sostituendo ‘uomo musico’ a ‘uomo’20. In base a (c) il passaggio a (jjj) è superfluo, la clausola finale «ma sembra di no» è una conferma ed il testo corretto non può essere che ta; a{ kra giv gnesqai tauj ta; ta; kata; sumbebhkov v~. Fin qui tutto bene: purtroppo l’interpretazione (c), se non imputa ad Aristotele la fallacia della cancellazione e rende ragione della presenza del secondo argomento, non è poi in grado di giustificare la validità di quest’ultimo più di quanto lo fosse di giustificare l’invalidità del primo.
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È vero che nella ricostruzione di Frede e Patzig il termine ‘uomo’ compare, ma si tratta di un’aggiunta che non è giustificata dal testo: nella loro interpretazione, tuttavia, la questione non è rilevante, mentre diventa cruciale per (c).
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6. Una nuova proposta di soluzione Finora i risultati sono stati piuttosto magri e nessuna delle interpretazioni proposte si è mostrata realmente soddisfacente. L’unica via d’uscita sembra essere l’ipotesi che Aristotele, in fin dei conti, abbia per un momento giocato con (c), salvo rendersi immediatamente conto che l’uniformità dei medi non rendeva affatto l’argomento più cogente e perciò rinnegarlo con la clausola finale «ma sembra di no» (intesa ovviamente come una smentita). Non si può naturalmente escludere che le cose stiano proprio così; ma, se si prende ancora più sul serio il carattere dialettico dell’indagine aristotelica, si può forse trovare un’interpretazione che eviti le difficoltà delle precedenti. Vediamo come. La seconda parte di Z 6 dimostra che le cose dette per sé sono identiche alla propria essenza utilizzando le idee platoniche come paradigma e facendo vedere quali conseguenze assurde abbia separarle dalla loro essenza. Ma che valore può avere tutto ciò se Aristotele rifiuta le idee? Ora, se è vero, com’è vero, che le idee sono un paradigma delle cose dette per sé e che nei suoi argomenti Aristotele fa leva proprio su questa caratteristica (e non su altre peculiarità delle idee platoniche), possiamo supporre che Aristotele stia conducendo una dimostrazione per induzione. Si tratta di uno dei due tipi di dimostrazione utilizzati nella dialettica (l’altro è il sillogismo – cfr. Top. A 12, 105a10-2), quella in cui viene generalizzata ad un’intera classe una proprietà valida per elementi opportunamente scelti appartenenti alla classe stessa21. Non solo, ma anche la scelta delle idee rimanda alla prescrizione dialettica che i punti di partenza delle argomentazioni siano endossali (ossia «tali da sembrare veri a tutti o ai più o ai più sapienti, e tra questi o a tutti o alla maggior parte o ai più noti e reputati» – cfr. Top. A 1, 100b21-3). Ma la complessità dialettica di questa sezione è ancora maggiore. Aristotele conclude infatti con l’affermazione che l’argomento presentato è adeguato anche se non ci sono le idee, anzi, in tal caso, forse lo è di più (1031b14-5). Ciò che ha in mente Aristotele è, a mio avviso, qualcosa di questo tipo: ciò che questi argomenti hanno mostrato non è solo che le cose dette per sé sono identiche alla loro essenza, ma anche la necessità che vi sia qualcosa del genere; certamente l’hanno fatto utilizzando il paradigma delle idee, ma la loro validità non dipende dall’assumere questo paradigma, anzi, poiché l’esistenza 21
L’induzione intesa in questo senso assomiglia, molto più che all’induzione baconiana, alla regola di generalizzazione nella logica dei predicati.
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delle idee comporta difficoltà insuperabili, è meglio che il loro ruolo sia ricoperto da altro22. Si può dunque supporre che anche nella dimostrazione che le cose dette per accidente non sono identiche alla loro essenza la procedura sia in qualche misura analoga. Per sviluppare il primo argomento è infatti necessario utilizzare l’esempio di una cosa detta per sé che sia strettamente correlata con una cosa detta per accidente; d’altra parte in Z 4 Aristotele aveva contrapposto le cose dette per accidente alle cose che sono prime, e queste erano stato identificate con le specie di un genere: se, come appare del tutto ragionevole, le cose che sono prime sono dette per sé, ‘uomo’ in Z6 deve essere inteso come la specie di un genere, ed ‘uomo bianco’ come il composto accidentale di una specie e di un accidente. È facile obiettare che in Met . Z le specie di un genere non sono in realtà sostanze prime. Infatti anche chi, in disaccordo con i già citati Frede e Patzig, non ritiene che le forme siano individuali tende ad escludere che possano essere identificate con le specie delle Categorie, le quali, a loro volta, vengono di solito identificate con quei composti di forma e materia prese in universale di cui si parla in Met . Z 10, 1035b27-30 e che non sono sostanza23. E comunque, siano o non siano le specie della Cate gorie composti universali, si può affermare che ‘uomo’ è identico a qualcosa come ‘uomo bianco’ solo intendendo ‘uomo’ come un composto di questo tipo. E non importa se questa identità accidentale viene interpretata come quella di un dato uomo con un dato uomo bianco, oppure nel senso che un universale A è accidentalmente identico ad un universale B se e solo se ognuno degli A è accidentalmente identico ad uno dei B, o viceversa. Abbiamo visto infatti nel paragrafo 3 che si può parlare di identità accidentale relativamente ad un universale solo se l’universale viene inteso semplicemente come qualcosa che «per natura si predica di più 22
Una conferma di ciò si può ricavare anche dagli Analitici Secondi . Nel paragrafo 2 ho già osservato che in A 22, 83a24-32 Aristotele assume l’identità tra le cose dette per sé e la loro essenza. Subito dopo il passo citato troviamo alle righe 83a32-35 un’osservazione dal tono piuttosto sprezzante («Dunque tanti saluti alle idee: sono infatti suoni privi di senso, e, se esistono, non hanno alcuna funzione nel discorso razionale: le dimostrazioni vertono infatti su tali cose [ scilicet sulle cose che sono dette per sé di cose dette per sé ].»), nella quale Aristotele asserisce che le cose dette per sé, necessarie per la scienza, non sono le idee. Più precisamente il fatto che alcuni item di marca aristotelica siano cose per sé, identiche alla loro essenza, toglie efficacia all’argomento platonico di indispensabilità secondo cui senza le idee la scienza è impossibile. 23 «‘Uomo’ e ‘cavallo’ e cose di questo genere che si riferiscono ai particolari, ma sono universali, non sono sostanze, ma composti di questa data forma e di questa data materia prese in universale».
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cose»: ma solo un composto di forma e materia prese in universale è un universale di questo tipo. Infatti, ammesso e non concesso che la forma sia in qualche senso universale, ciò di cui si predica sarà, come argomenta convincentemente Loux24, la materia e non i composti individuali, mentre ‘uomo’, se deve essere accidentalmente identico a ‘uomo bianco’, può appartenere solo ai composti individuali. D’altra parte i composti di materia e forma non sono cose dette per sé, infatti posseggono, in un certo senso, una struttura predicativa intrinseca in quanto sono il risultato di predicare la forma della materia (senza che questo ne faccia delle cose dette per accidente, perché la forma non è comunque un accidente della materia)25. La situazione è dunque paradossale: da un lato l’identità tra ‘uomo’ e ‘uomo bianco’ richiede che ‘uomo’ sia un composto universale di forma e materia, e quindi non per sé, mentre per sviluppare l’argomentazione bisogna invece che lo sia. Tuttavia, poiché in Met . Z 4-6 la materia non viene mai menzionata, la distinzione tra le forme ed i composti di forma e materia prese in universale non può neppure essere formulata: dunque, come nelle Categorie, le specie di un genere non hanno struttura predicativa intrinseca e, nello stesso tempo, si dicono degli individui che cadono sotto di esse. Ragioniamo dunque come se ‘uomo’ fosse un universale (nel senso che per natura si predica di più cose) privo di struttura predicativa intrinseca. La prima cosa da chiedersi sarà che cosa significa per un X di questo tipo essere identico alla propria essenza. A prima vista una risposta adeguata potrebbe essere che l’essenza di X , espressa dalla sua definizione, esaurisce (per così dire) l’essere di tutto ciò che cade sotto X , ossia, in formule: (k)
∀ x (U (x )↔ EssU esaurisce l’essere di x ).
Analogamente l’ipotesi d’assurdo che U.B. e la sua essenza sono identici sarà espresso da (kk)
x )↔ EssU.B. ∀ x (U.B.(
esaurisce l’essere di x ).
A sua volta l’identità di ‘uomo’ con ‘uomo bianco’ può essere caratterizzata, per le ragioni che ho già esposto, da 24 25
Si tratta di una delle tesi principali sostenute in Primary Ousia, Ithaca (New York) 1991. Non risulta molto chiaro, dagli sparsi accenni aristotelici, l’esatto significato di questo tipo di predicazione. A questo proposito si puòconsultare J. Kung, Can Substance be Predicated of Matter , in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 60, 1978, pp. 140-59, che contiene un elenco esauriente ed una discussione dei passi rilevanti.
28 (kkk)
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x ) → ∃ y (U (y ) ∧ x =acc y ))26 ∀ x (U.B.(
oppure dalla particolarizzazione (kkk)’ ∃ x ∃ y (U.B( x ) ∧ U (y ) ∧ x =acc y ). In ogni caso, in base alla definizione di accidentalmente identico, esiste qualche x che è sia uomo che uomo bianco, e quindi, in base a (k) e (kk), sia EssU che EssU.B. esauriscono l’essenza di x : ma questo è impossibile perché EssU e EssU.B., avendo definizioni differenti, non possono esprimerecompiutamentel’essere di una stessa cosa (o, per contrapposizione, poiché esprimono compiutamente l’essere di una cosa, dovrebbero essere uguali, ma questo è falso). Un’ovvia obiezione contro questa ricostruzione è che rende valido un argomento che Aristotele ritiene invece invalido. Ma forse (k)-(kkk) è meno solido di quanto appare a prima vista. È vero infatti che nelle Categorie gli individui sono nominati tramite espressioni del tipo oJ ti; v~ a[ nqrwpo~ e questo potrebbe far pensare che essere uomo esaurisca l’essere, diciamo, di Socrate. Ma An. Post . A 22 chiarisce, come ho illustrato nel paragrafo 2, che Ess X esprime in generale l’essere di un individuo a se a =un certo X (dove l’identità non è qualificata). Alla luce di ciò (k) e (kk) dovranno essere così modificate: (k)’ (kk)’
∀ x (U (x )↔ EssU esprime in parte l’essere di x ) x )↔ EssU.B. esprime in parte l’essere di x ). ∀ x (U.B.(
Da (k)’, (kk)’ e (kkk) – o (kkk)’ – segue che sia EssU sia EssU.B. esprimono in parte l’essere di qualche x e questo non è palesemente assurdo, dal momento che, a sua volta, EssU può essere intesa come una parte di EssU.B.. Infatti x , in base alle ipotesi, è identico (senza qualificazioni) sia ad un certo uomo che ad un certo uomo bianco: il margine di indeterminatezza espresso dal primo «un certo» è maggiore di quello espresso dal secondo, ma ciò non rende le due identità incompatibili tra loro. Non sto dicendo che questa sia la posizione di Aristotele, ma solo che quanto segue da (k)’, (kk)’ e (kkk) – o (kkk)’ – non è palesemente assurdo. Il secondo argomento, interpretato in maniera analoga al primo, diventa: 26
Anche in Top. E 4 si parla dell’identità tra ‘uomo’ e ‘uomo bianco’ in un contesto dove è evidente che si tratta di universali. Più precisamente essi sono detti diversi solo perché il loro essere è diverso, e quindi ci sarà un senso in cui sono identici: ma, trattandosi di universali, tale identità non può essere data che dal fatto che tutti gli uomini bianchi sono accidentalmente identici a uomini.
Identità, essenza ed accidente
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(k)’’ ∀ x (M( x )↔ Ess M esprime in parte l’essere di x ) (kk)’’ ∀ x (B( x )↔ EssB esprime in parte l’essere di x ) (kkk)’’ ∃ x ∃ y (B( x ) ∧ M( y ) ∧ x =acc y ), da cui segue che ci sono cose la cui essenza è espressa in parte sia da EssB che da EssM. L’unica, ma fondamentale, differenza rispetto all’argomento precedente è che EssB e EssM non sono una parte dell’altra, e quindi le due identità (non qualificate) x =un certo M e x =un certo B sono incompatibili. Se EssB e Ess M sono diverse quanto alla definizione, la specificazione di M espressa da «un certo» in « x =un certo M» deve comprendere anche essere B, dal momento x è identico anche ad un certo B (analogamente se partiamo da « x =un certo B). Quindi da x =un certo M e x =un certo B dovrebbe seguire anche x =un certo BM (oppure x =un certo MB) e dovrebbe perciò esistere qualcosa come EssBM. Ma per Aristotele questo è assurdo perché vorrebbe dire che l’essere bianco specifica in qualche modo l’essere musico, o viceversa. Certo, neppure EssU.B. è un essenza nel senso più proprio, ma le ragioni sono diverse: infatti la bianchezza differenzia gli uomini, anche se non è una differenziazione adatta a distinguere una sottospecie di uomo da un’altra (in realtà simili differenziazioni semplicemente non esistono); mentre la musicalità non differenzia i bianchi, né la bianchezza i musici. Tutto ciò è una conseguenza dell’assunto aristotelico che non esistono accidenti di accidenti, assunto espresso con particolare chiarezza in Met . Γ 4, nel corso di un complesso argomento tendente a dimostrare che l’esistenza di soggetti a loro volta non predicabili è condizione necessaria della semanticità del linguaggio: Infatti un accidente non è un accidente di un altro accidente, a meno che siano entrambi accidenti di una stessa cosa. Voglio dire che il bianco è musico e quest’ultimo bianco solo perché sono entrambi accidenti di uomo. (1007b2-5)
Anche la distinzione dei vari casi di identità accidentale (cfr. la citazione da Met . ∆ 9 nel paragrafo 3) si basa sullo stesso assunto: infatti mentre ‘uomo’ è identico a ‘musico’ perché il secondo appartiene accidentalmente al primo, ‘bianco’ e ‘musico’ sono identici perché appartengono entrambi accidentalmente alla stessa cosa (e non perché uno dei due è accidente dell’altro). Se dunque propriamente parlando, non esiste un «bianco musico», tanto meno esisterà qualcosa come l’essere del bianco musico. Dunque dall’assunto che un x bianco e musico è esattamente un certo bianco e insieme un certo musico segue che EssB e Ess M sono identiche quanto alla definizione (non potendo essere, come abbiamo appena visto,
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diverse), ma questo, come osserva Aristotele, è evidentemente assurdo. L’assunto da cui siamo partiti è perciò falso, ma questo significa che le cose bianche o musicali sono diverse dalla loro essenza. Ricapitolando, questa proposta è una variante dell’interpretazione (c) perché individua la debolezza del primo argomento nella non omogeneità dei medi, ma, a differenza di (c), è in grado di spiegare in che modo la non omogeneità rende invalido il primo argomento, mentre l’omogeneità rende valido il secondo. Come ho detto all’inizio di questo paragrafo, le specie del genere (come risultano caratterizzate ad un livello d’indagine che non prende in considerazione la materia) sono utilizzate da Aristotele come paradigma delle cose dette per sé, ed i composti specie+accidente come paradigma di quelle dette per accidente; ma il teorema della rispettiva identità e non identità alle loro essenze viene esteso a tutto ciò che è strutturalmente simile rispettivamente alle specie ed ai composti specie+accidente. Soprattutto i composti di materia e forma, presi in particolare o in universale, sono esempi di cose dette per accidente in quanto dotate di struttura predicativa intrinseca (la forma predicata della materia): se, come è probabile, le specie delle Categorie coincidono con i composti di materia e forma prese in universale, ciò che fungeva da paradigma delle cose dette per sé finisce per rivelarsi non detto per sé. Questo situazione paradossale, cui ho già fatto cenno, si inquadra bene nella strategia argomentativa della Metafisica, ed in particolare del Libro Z: cambiando il livello dell’indagine le stesse cose possono assumere funzioni differenti, per cui ciò che a livello puramente «logico» è per sé, al livello di un indagine di carattere più specificamente ontologico può risultare non per sé, senza contraddizione se con apparente.
Abstract In Met. Z 6 Aristotle argues, inter alia , that things which are spoken of coincidentally are different from what being is for them. Unfortunately the arguments which are aimed at supporting this claim are less than compelling, and Aristotle himself seems to cast serious doubt on their validity. The main purpose of this paper is to stress the dialectical features of Met. Z 4-6 in order to display the logical structure of the abovementioned arguments and to put forward a new interpretation that vindicates what is, on my mind, Aristotle’s claim, i.e. that his first argument is actually untenable, while his second looks sound.
L’identità in questione
Ipseità, diversità e dia-ferenza Fra ncesco Toma tis
È solo a partire dall’identità che è possibile stabilire alterità e ogni differenza possibile? Oppure l’alterità è ciò che costituisce l’identità, al punto tale che senza differenziazione non possa sussistere identità? O identità e alterità sono termini relativi che solo all’interno di un ambito complessivo di differenze possono assumere i loro ruoli e la loro fisionomia? Nell’approfondire le idee assai comuni e genericamente utilizzate nella tradizione linguistica e di pensiero occidentale di identità, alterità e differenze, è possibile compiere un cammino volto a comprenderle nel loro significato essenziale, nascosto, esoterico, anche se proprio sempre a tale cultura, indicato dai termini: ipseità, diversità e dia-ferenza. Il termine identità deriva dal latino idem, indicante un’identità autoreferenziale, espressa dall’uguaglianza di sé con sé. Vi è invece un altro termine sempre latino, ipse, che indica un’identità scissa, differenziata, costituente se stessa attraverso un movimento anziché la staticità identitaria e sostantivale di idem. Dalla identità o ‘medesimezza’, misurabile una volta per tutte in termini di uguaglianza, si distingue dunque la ipseità o ‘stessità’, assieme una e molteplicemente in divenire, singolare e almeno potenzialmente onnicorrelativa. Riprendendo gli importanti percorsi etimologici di Emile Benveniste nel suo Le vocabulaire des institutions indo-européennes (1969) è osservabile come ipse indichi semplicemente il sé, la ‘stessità’ (stesso deriva infatti da istum ipsum: questo stesso, istesso) o meglio ‘sestessità’ dell’‘egli stesso’, in persona, cioè l’ipseità, in quanto originato dalla particella originaria * poti- indoeuropea (in latino - pet-, pot - o pt-), presente in termini apparentemente eterogenei quali in latino hospes, l’ospite, o addirittura hostis, il nemico, oppure anche nel greco despótes, il signore, colui che è padrone, e significativamente nel verbo latino possum: posso-sono, sono capace. TEORIA 2006/1
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L’ipseità costituente la personalità per un verso è quindi tale in quanto padrona di se stessa: despótes e kyriós è colui che esercita la propria potenza e signorilità innanzitutto su se stesso, prima che sugli altri, e su altri solo in quanto padrone di se stesso, capace di sé; infatti la signorilità non sta nell’esercizio della forza, ma nel suo contenimento, nella potenzialità di tale forza, nella capacità, nell’appropriazione personale, nella pura possibilità, non costretta a im-possibilizzarsi come se necessitata a farsi inghiottire dal processo ontologico, fagocitare dalla dialetticità storica. Ma per altro verso l’ipseità sta anche nel dis-porre questa signorilità, nel contenere nella propria ipseistica identità (o meglio ipseità) spazio per l’altro, lo spazio della diversità: non solo quello dell’ospite (hospes), ma anche del nemico (hostis): certamente avversario, tuttavia nel senso che si possa istituire con lui un antagonismo solo in quanto gli vengano preventivamente riconosciuti uguali diritti. Alla radice della stessa idea occidentale di identità, intrisa profondamente della sua essenza ipseistica, sta quindi un’apertura al diverso, al nemico addirittura. Da questo punto di vista non è così scandaloso l’appello di Gesù Cristo ad amare i nemici: «agapâte toùs echthroùs hymôn», «diligite inimicos vestros» (Mt 5, 44; Lc 6, 27). Anche il verbo latino possum, derivante da potis sum, indica la sostanzialità dell’ipseità, perché a differenza del verbo essere, che rischia nel coniugare soggetto e predicato un’identificazione e matematica equivalenza fra i due, possum è al tempo stesso una costituzione di relazione fra soggetto e predicato implicante una relazione fra diversità. Se noi convertiamo il primo principio della dottrina della scienza fichteana (secondo la sua prima esposizione: J ohann Gottlieb Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre als Handschrift für seine Zuhörer , 1794-1795): l’io pone l’io, io =io, attraverso il possum, nel senso che l’io può-è se stesso, ecco che nell’affermare la sua ipseità la soggettività apre in sé uno spazio a un’alterità assoluta, a quella ad esempio del nemico abitante la propria stessa ipseità. Se propriamente l’identità non può essere pensata in termini tautologici ma solo attraverso il movimento, l’apertura della ipseità, apertura e movimento propri anche alla in-transitività del verbo possum, conseguentemente anche l’alterità potrà essere pensata in modo diverso, non in termini contrappositivi rispetto all’identità. Seguendo esemplificativamente i tre principi della dottrina della scienza del 1794/95, il principio dell’alterità non consiste esclusivamente nel fatto che l’io ponga il non-io, e cioè che sia sempre l’io a stabilire quale sia l’alterità rispetto a sé, e quindi che l’io resti comunque centro di un cerchio in suo potere a raggio infinito, che in-
Ipseità, diversità e dia-ferenza
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cluda tutto solamente in quanto lo derivi da se stesso. Approfondendo l’ipseità propria, essenziale all’identità, il principio dell’alterità può essere pensato, anziché come alterità rispetto a un ego sempre medesimo a se stesso in ogni propria proiezione rappresentativa di realtà, invece come diversità, come molteplicità di diversi attraverso i quali vedere lo stesso uno, l’‘egli stesso’. Fu Platone nel Sophistés (370-353 a.C. circa) a introdurre l’idea di diversità, di diverso (héteron) per spiegare il divenire, la molteplicità degli enti sensibili: è proprio attraverso l’idea di diverso che possiamo quindi concepire la pluralità, la molteplicità. Ma allora le differenze saranno tali solamente in quanto si concepisca l’etimo pensante e originante di differenza come dia-ferenza, quel dia-fero che è un portare, un partorire, un far fruttificare attraverso le differenze una particolare identità. Percorso il passato trascendentale che per noi è la lingua nelle sue basi etimologiche, occorre approfondire le tappe di tale cammino in una elevazione ad un orizzonte più filosofico, nella presenzialità che ne ascolti avanti a sé l’eco della voce, assimilandone incessantemente l’origine lontana, proiettandosi in una visione aperta all’imprevedibilità futura. Analizzando l’esistenza nella sua singolarità si può essere innanzitutto tentati dall’identificarla attraverso la sua inizialità, la sua assoluta libertà. È il punto da cui partì Thomas Hobbes stesso nel Leviathan (1651), affermando che il diritto naturale è essenzialmente la libertà soggettiva dell’individuo, quindi l’autoespansività. Certamente è questa una caratteristica dell’esistenza, che potrebbe far pensare all’identità nel senso più comune fra quelli già indicati, quello che comporti una concezione della realtà umana come pluralità di identità soggettivisticamente contrapponentisi, in maniera anche prepotente e violenta. Eppure l’esistenza non si limita a ciò, né tale caratteristica è sufficiente a definirla: non occorre la sua inizialità solamente. L’esistenza è sì una libertà iniziale, che può arbitrariamente andare in una direzione o in un’altra nell’espandere se stessa, ma lo è solo in quanto al tempo stesso sia anche una scelta, cioè proprio in quanto essendo finita, ex-sistente, saltante fuori da non si sa cosa, ma comunque trovantesi come gettata in una realtà delimitata, debba muoversi e scegliere e decidersi rispetto ad una situazione data, imposta o donatale. L’esistenza è inizialità solo in quanto al tempo stesso è anche scelta. L’esistenza si trova a dover esercitare la propria libertà assoluta solamente in quanto sia posta in un contesto che essa sceglie — ma quasi obbligatoriamente, anche se liberamente, poiché può solo essere uno scegliersi, uno scegliere se stessa, diventando ciò che essa è: quell’esistenza. L’esistenza
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è libertà iniziale solo in quanto sia anche scelta di qualcosa che la precede, scelta di sé come precedente se stessa, in quanto originata forse da altro. L’esistenza è preceduta da qualcosa rispetto al quale essa, soltanto essa, può essere inizialità, libertà. Ma allora l’essere preceduta comporta che la sua inizialità, la sua libertà, sia una scelta, cioè una libertà esercitata rispetto ad alcunché di presupposto. E poiché tale presupposto non è qualcosa di noto all’esistenza in quanto tale, anzi altamente ignoto e misterioso, ecco che l’esperienza di libertà propria all’esistenza (costituita dalla polarità inscindibile e inidentificabile di inizio-scelta) è propriamente un’esperienza di trascendenza: di autotrascendenza che l’esistenza umana costitutivamente è. Approfondendo l’identità attraverso il suo particolare senso ipseistico, l’esistenza in quanto tale può essere concepita come apertura alla trascendenza nella sua stessa finitezza. Che cosa significa questa autotrascendenza? Significa apertura all’alterità dell’altro, o più specificamente alla diversità delle molteplici esistenze. Ma non nel senso che attraverso la comprensione delle altre identità io possa fondare, concepire la mia identità, l’esperienza di autotrascendenza che l’esistenza umana in quanto tale è. L’autotrascendenza non ci dice né che le altre ipseità possano essere spiegate esclusivamente partendo dalla mia, né che un’altra particolare ipseità possa spiegare, giustificare, fondare la mia ipseità. Non è attraverso un processo sostitutivo che è possibile comprendere l’ipseità. Ciò mostra allora bene come le tante ipseità possano sì tentare di comprendere se stesse attraverso il dialogare con altre ipseità, ma secondo un dialogare possibile non perché svolto attraverso una giustapposizione di ipseità, che comporterebbe necessariamente un «bellum omnium contra omnes» (guerra di tutti contro tutti) o al massimo un patto di non belligeranza decretabile attraverso leggi più o meno naturali, bensì perché capace di un’apertura alla trascendenza che trascenda tutte le ipseità: che le trascenda tutte complessivamente e le trascenda singolarmente prese, in quanto esse autocomprendendosi si comprendano come autotrascendenza costitutivamente. Qui si apre allora una prospettiva nella quale è forse possibile comprendere quanto, attraverso le molte differenze, sia possibile trovare un’armonia fra di esse, ma solamente allorquando ogni differenza sia appunto approfondita in quel senso specifico della propria esistenzialità che la mostra come autotrascendenza. Un simile percorso è stato indicato ad esempio da Nicolò Cusano, per gli aspetti teologici e politico-religiosi, ma anche filosofici del tema, nel suo dialogo De pace fidei , scritto nel 1453 sull’onda impressionante della
Ipseità, diversità e dia-ferenza
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presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, ma soprattutto nei suoi principi primi filosofico-teologici nel dialogo della maturità Directio speculantis seu de non aliud (1462). In questi dialoghi Nicolò Cusano approfondisce il tema platonico della diversità proprio nel mostrare come la comprensione dell’alterità, a partire da una ipseità, sia possibile solamente nel pensare ad una non-alterità come loro comune presupposto intrascendibile, trascendente e immanente assieme. L’ipseità più profonda di ogni singolarità è comprensibile solo nell’aprirsi alla trascendenza che è il non-altro, il quale presuppone appunto se stesso e gli altri, in quanto non altro che non-altro. Ma se la non-alterità è la dia-ferenza che costituisce la nostra stessa ipseità, allora alla nostra ipseità è fondamentale la comprensione dell’alterità intesa come diversità, perché solo a partire dalle esperienze di alterità, di incontro con le diversità sarà anche possibile comprendere in maniera più penetrante come all’ipseità e alla diversità sia presupposta una trascendenza, quella trascendenza stessa ancora ulteriore e onniavvolgente e imprepensabile che non è altro che la non-alterità. Nei tre principi toccati nel cammino di approfondimento dell’ipseità propria al pensiero occidentale è possibile coglierne allora la portante radice quasi immemorabile, grazie alla quale si potranno affrontare le questioni impervie, elevate, abissali, che stanno di fronte a chi abbia a cuore la possibilità im-possibile di porre in armonica relazione le tante differenze del creato. Abstract This paper aims to understand the original meen of the terms “ipseity”, “diversity” and “/dia-ferenza/”, by studing the occidental i deas of “identity” and “otherness”. I dentity comes from latin /idem/ that meens an autoreferencial i dentity, expressed by the equality of oneself with himself. The latin /ipse/, on the other hand, meens a divided identity, a differentiated one, which build itself by a mouvement and a relationship with an other one. I n the ipseity we can so understand the /dia-ferenza/ which caracterizes every different reali ty, the non-otherness which is capable of every relation.
L’identità in questione
Fichte: l’orizzonte comunitario dell’etica (le lezioni del 1812) 1
Ma rco Ivaldo
1. Lungi dall’essere un idealismo monologico confinante con l’«egoismo», come per altro le è stato rimproverato2, la filosofia di Fichte comprende l’intersoggettivo come condizione trascendentale dell’autocoscienza e propone un’etica della comunicazione e della cooperazione. Nel Diritto naturale del 1796-1797 viene intrapresa per la prima volta una deduzione della presenza dell’altro come principio ideale-reale che invita l’autocoscienza a sorgere a se stessa. Nel Sistema di etica del 1798 la comunità – intesa come il trovarsi originario dell’io in un mondo comune, ovvero come l’essere essenzialmente ‘l’un-con-l’altro’ dell’io – si impone come momento fondante della prospettiva etica. Al § 18 di quest’opera leggiamo che il corpo, l’intelligenza e l’alterità, riconosciuta in un nesso di appello e libera risposta, sono altrettante condizioni a priori materiali attraverso le quali l’io riflettente per un verso comprende se stesso in rapporto alla tendenza morale che lo costituisce in modo essenziale e per l’altro verso porta a realizzazione (o meglio: deve [Soll] con libertà portare a realizzazione) questa tendenza stessa in tutte le sue implicazioni. D’altro lato (§ 19) la comunità completa degli esseri razionali, chiamata anche «comunità dei santi» (GA I 5, p. 230), offre la rappresentazione della ragione in se stessa, alla quale ogni persona ha parte. Su questi temi la ricerca su Fichte si è in questi ultimi anni spesso e fecondamente soffermata3. In questo mio 1
Questo scritto appartiene a un programma di ricerca sostenuto dalla Alexander von Humboldt-Stiftung (Bonn), che ringrazio. 2 Hanno parlato di «egoismo» per caratterizzare il principio della dottrina della scienza ad esempio Baggesen, Reinhold, Weißhuhn, J acobi. Cfr. su questo Reinhard Lauth, Das Fehlver ständnis der Wissenschaftslehre als subjektiver Spinozismus, in Id., Vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, Ars Una, München 1994, p. 40 ss. 3 Su questo tema la letteratura secondaria è oggi molto amplia. Mi limito perciò a TEORIA 2006/1
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contributo vorrei invece mettere a fuoco il rilievo specifico che il tema della comunità ha nell’etica che Fichte elabora nella fase finale del suo cammino di uomo e di filosofo, cioè durante gli anni di insegnamento presso l’università di Berlino, allorché egli sviluppa la sua dottrina della scienza come la teoria delle condizioni per una comprensione della apparizione dell’assoluto in grado di giustificare se stessa. In particolare mi concentrerò sulle lezioni di dottrina morale (etica, Sittenlehre) tenute da Fichte dal 12 giugno al 13 agosto del 18124. È noto che dopo la seria malattia attraversata negli anni 1808-1809 il Filosofo aveva iniziato nell’autunno del 1809 – già prima dell’apertura ufficiale dell’Università – i propri corsi accademici. Dopo la fase di Jena, e gli intermezzi di Erlangen e di Königsberg, Fichte riprende perciò l’inserichiamare il noto saggio di Reinhard Lauth che ha esercitato un grande influsso nel sollecitare l’attenzione degli studi fichtiani sul tema interpersonale: Le problème de l’interpersonnali té chez Fichte, «Archives de Philosophie», 35 (1962), pp. 325-334 (ora in: Reinhard Lauth, Transzendentale Entwicklungsli nien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski , Meiner, Hamburg 1989, pp. 180-195). Ricordo inoltre solo alcuni volumi, omettendo i saggi pubblicati in riviste o i saggi in volumi: Hans Ulrich Kopp, Vernünftige Interpersonalität als Erscheinung des Absoluten, Diss. München 1972; Charles K. Hunter, Der Interpersonalitätsbeweis in Fichtes früher angewandter praktischer Philosophie, A. Hain, Meisenheim am Glan 1973; Eberhard Heller, Die Theorie der Interpersonalität im Spätwerk J. G. Fichtes, dargestellt in den «Tatsachen des Bewußtseins» von 1810/11. EinekritischeAnalyse, Diss. München 1974; Hansjürgen Verweyen, Recht und Sittlichkeit in J. G. Fichtes Gesellschaftslehre, Alber, München 1975; Alexis Philonenko, La liberté humaine dans la philosophie de Fichte, II ed. aumentata Vrin, Paris 1980; Aldo Masullo, Fichte. L’intersoggettività e l’ori ginari o, Guida, Napoli 1986; Edith Düsing, Intersubjektivität und Selbstbewußtsein. Behavioristische, phänomenologische und idealistische Begründungstheorien bei Mead, Schütz, Fichte und Hegel, Jürgen Dinter, Köln 1986; Manuel Gonzáles Riobó, Fichte, filó sofo de la intersubjetividad , Barcelona 1988; Robert R. Williams, Recognition. Fichte and Hegel on the Other , Albany 1992; Ives Radrizzani, Vers la fondation de l’intersubjectivité chez Fichte. Des Principes à la Nova methodo, Vrin, Paris 1993. 4 Su queste lezioni cfr. Hans Freyer, Das Material der Pfli cht. Eine Studie über Fichtes spätere Sittenlehre, «Kantstudien», 25 (1920), pp. 113-155; Günter Zöller, Einheit und Differenz von Fichtes Theorie des Willens, «Philosophisches Jahrbuch», 106 (1999), pp. 430-440; Carla DePascale, Le lezioni di etica del 1812: appunti di lettura, in Id., Vivere in società. Agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini e associati, Milano 2001, pp. 61-74; Marco Ivaldo, Ethik der I nkarnation in J.G. Fichtes Vorlesungen über die Sittenlehre 1812, in Marszalka R.-Nowak Juchacz E. (cur.), Rozum Jest Wolny, Wolnos´c´-Rozumna, Wydawnictwo IFiS PAN, Warszawa 2002, pp. 101-116; Jacinto Rivera de Rosales, Das Absolute und die Sittenlehre 1812. Sein und Freiheit , «Fichte-Studien», 23 (2003), pp. 39-56; Giovanni Cogliandro, La dottrina morale superiore di J.G. Fichte. L’Etica 1812 e le ultime esposizioni della dottrina della scienza, Guerini e associati, Milano 2005; Marco Ivaldo, «Das Wort wird Fleisch». Sittliche Inkarnation in Fichtes später Sittenlehre, in G. Von Manz - G. Zöller (cur.), Fichtes praktische Philosophie. Eine systematische Einführung , Olms, Hildesheim 2006, pp. 175-198; Marco Ivaldo, Sittlicher «Begriff» als wirklichkeitsbildendes Prinzip in der späten Sittenlehre, relazione tenuta al Fichte-Kongress, München 2003 (in corso di pubblicazione).
Fichte: l’orizzonte comunitario dell’etica (le lezioni del 1812)
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gnamento universitario e lo fa, ancora una volta, articolando la propria proposta scientifica e formativa secondo un piano organico, come si può cogliere dai manoscritti e dai materiali pervenuti e in corso di edizione. Esso prevedeva tre momenti principali: l’introduzione alla dottrina della scienza, l’esposizione della dottrina della scienza in se stessa, lo svolgimento delle teorie particolari. Il momento introduttivo abbracciava l’avviamento alla filosofia trascendentale e la trattazione del compito dell’uomo di cultura. Tuttavia all’esposizione della dottrina della scienza in senso stretto Fichte faceva precedere anche una descrizione del sapere filosofico dal profilo fattuale-fenomenologico (i cosiddetti «fatti della coscienza») e – nel 1812 – una «logica trascendentale», dove il sapere filosofico viene distinto dalla logica formale e dal sapere empirico. Il centro delle lezioni era costituito dalla dottrina della scienza, che Fichte illustrò cinque volte, una ogni anno (le ultime due esposizioni sono però incomplete). Ogni esposizione aveva lo scopo di tematizzare il sapere a partire dal punto di unità della apparizione dell’assoluto secondo livelli di comprensione via via diversi. Fichte costruisce ogni volta da un nuovo punto di vista l’intera veduta. Il piano di insegnamento prevedeva infine lo sviluppo delle teorie particolari, che per Fichte sono – come è noto – la teoria della natura, del diritto, della morale, della religione. Di fatto Fichte ha esposto però in quegli anni soltanto la dottrina del diritto (Rechtslehre) e quella della morale (Sittenlehre), entrambe nel 1812. 2. Tra la Dottrina della scienza 1812 – che è l’ultima esposizione di cui Fichte ha potuto offrire uno svolgimento completo – e l’Etica dello stesso anno si coglie un produttivo legame. Nella prima Fichte intende muovere dalla intellezione della legge suprema dell’apparizione per passare alla comprensione delle leggi subordinate dell’apparizione stessa nella loro unità vivente. Come ha osservato Reinhard Lauth, con la Dottrina della scienza 1812 «lo ‘sguardo’ determinato supremo, quello del volere morale, diventa il centro delle deduzioni successive»5. Alla conclusione delle lezioni questa connessione con l’etica viene esplicitata con la massima chiarezza: «Chi ha conosciuto la dottrina della scienza ha conosciuto tutte le condizioni della volontà, e non gli manca più precisamente che la volontà stessa», vale a dire la libera e indeducibile autodeterminazione pratica, 5
Cfr. Reinhard Lauth, Il sistema di Fichte nelle sue tarde lezioni berli nesi , introduzione a J. G. Fichte, Dottri na della scienza. Esposizione del 1811, cur. Gaetano Rametta, Guerini e associati, Milano 1999, p. 41.
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che – secondo la tipica convinzione trascendentale – non può venire sostituita da nessuna deduzione filosofica. In questo senso la dottrina della scienza è soltanto – ed esattamente – «cammino verso la moralità», «arte chiara del divenire morale» (GA II 13, p. 178). L’Etica 1812 a sua volta parte dal «fatto della dottrina morale» (da quello che può venire legittimamente compreso come il fatto stesso della ragione nella versione che Fichte intende dare di esso), ovvero che «il concetto sia fondamento del mondo con la assoluta coscienza di esserlo», e sviluppa da qui le articolazioni portanti di quella che designerei come un’etica della incarnazione. L’espressione giovannea «la parola si è fatta carne» (Gv 1, 14) – non a caso menzionata da Fichte nel suo corso di lezioni (Cfr. GA II 13, p. 333) – manifesta perciò a mio giudizio il motivo portante di questa prospettiva etica, che Georg Gurwitsch nel suo grande libro del 19246 – comprendendo il termine fichtiano «concetto», in sé non troppo felice, come l’«idea etica»7 – caratterizzava come etica «concreta» e «materiale». Fichte stesso conferma questa caratterizzazione antiformalistica della sua etica allorché, prendendo le distanze da Kant, sostiene che non è sufficiente intendere il «concetto» come un imperativo categorico, ma è necessario «procurare un contenuto a [questo] vuoto concetto» (GA II 13, p. 324; cfr. anche pp. 308 e 328). Se l’etica attua questa concrezione rinviando ciascuno alla propria consapevolezza morale (Fichte rivendica perciò una competenza etica originaria dell’uomo), la dottrina della scienza, cioè la filosofia come compenetrazione dell’intero dei principi – che Fichte designa in questo contesto anche come: «superiore dottrina di Dio» (höheliegende Gotteslehre) – realizza per parte sua questo riempimento contenutistico del «concetto» in quanto lo comprende come «immagine di Dio». Da qui si percepisce da un nuovo profilo il nesso strutturale che deve esistere fra la dottrina della scienza e l’etica. È vero che quest’ultima poggia su un «punto di riflessione» autonomo, quello del fatto della ragione pratica, e da questo inizia; ma una filosofia che giunga «fino in fondo» deve comprendere anche questo fatto geneticamente (cosa che Kant ha omesso di effettuare). Ciò è esattamente il compito della dottrina della scienza, della scienza globale del sapere, la quale (platonicamente, verrebbe da dire) spiega il «concetto», da cui l’etica parte, come copia, «figura di un superiore essere» (Abbild eines höheren Seyns). L’idea etica è in 6
Georg Gurwitsch, Fichtes System der konkreten Ethik , Mohr (Paul Siebeck) Tübingen 1924; riproduzione: Olms, Hildesheim-Zürich-NewYork 1984. 7 Cfr. Gurwitsch, op. cit., p. 203 ss.
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definitiva immagine, espressione di Dio. Certamente questo esser-immagine dell’idea etica non va inteso in senso statico, ma essenzialmente dinamico, o meglio «pratico», cosa che – sostiene Fichte – Platone non avrebbe chiaramente afferrato nella sua teoria delle idee, teoria cui però compete in ogni caso il grande merito di aver confutato ante litteram l’oggettivismo dei «moderni filosofi della natura» (GA II 13, p. 334; cfr. anche p. 338)8. Il «concetto» è immagine nella forma di una «immagine anticipante» (Vor-Bild ; cfr. GA II 13, pp. 316-317) di ciò che deve essere, ovvero – volendo scegliere una delle molteplici formulazioni con cui Fichte tenta di caratterizzarne l’essenza – il «concetto» si esprime «come assolutamente creativo per l’oggettività, [come] fondante il nuovo, ciò che mai prima era esistito» (GA II 13, p. 334). In questo senso il «concetto» è la ragione pratica stessa, e l’esser-fondamento del mondo – che è proprio del «concetto» – esprime la natura della ragione pratica (Cfr. GA II 13, pp. 310, 313, 333-334). Nella sua etica Fichte riceve la teoria delle idee di Platone alla luce della ragione pratica di Kant, ma allo stesso tempo amplia, senza cancellarlo, l’orizzonte kantiano grazie a un impulso platonico, che egli valorizza in opposizione ai «filosofi della natura» (tra i quali comprendeva certamente Schelling, e forse anche Schleiermacher). 3. Come emerge il tema comunitario nelle lezioni di etica? Sono opportuni alcuni chiarimenti. Come si è detto, l’etica muove dal «fatto della dottrina morale»: che il concetto sia fondamento (Grund : ratio e causa) del mondo, cioè di una propria manifestazione ‘oggettiva’ (di un mondo inter8
Su Fichte e Platone cfr.: Paul Wolfgang Junker, Der Begriff der Liebe bei Plato, Eckhart, Fichte und in der Philosophie des Ungegebenen, I. D. Greifswald 1922; Max Wundt, Fichte als Platoniker , in Id., Fichte-Forschungen, Stuttgart 1929, pp. 343-368 (nuova ed. Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1976); Tom Rockmore, Le concept fichtéen de la science et la tradition platonicienne, «Le Savoir Philosophique (Ann. Fac. Lettres Sc. Hum. Nice, Nr. 32)», Nice 1977, pp. 31-40; Jean-Louis Vieillard-Baron, Platon et l’idéalisme allemand (1770-1830) , Paris 1979; Wolfgang Janke, Wiederholung der Dialektik. Die Übersetzung platonischer Dialektik in Fichtes Wissenschaftslehre, «Diskussionsbeiträge des Fachbereichs 2, Philosophie, Theologie der Gesamthochschule Wuppertal, Nr. 1», Wuppertal 1979; Id., Vom Bilde des Absoluten. Grundzü ge der Phänomenologie Fichtes, de Gruyter, Berlin-New York 1993; Karen Gloy, Einheit und Mannigfaltigkeit. Eine Strukturanalyse des «und»: systematische Untersuchung zum Einheitsund Mannigfaltigkeitsbegriff bei Platon, Fichte und Hegel sowie in der Moderne, Berlin-New York 1981; Barbara Zehnpfennig, Reflexion und Metareflexion bei Platon und Fichte. Ein Strukturvergleich des Platonischen «Charmides» und Fichtes «Bestimmung des Menschen», Symposion 82, Freiburg i. Br.-München 1987; Monika Budde-Burmann, Das lebensorientierende Eine bei Plato und Fichte. Zum Verhältnis von Platons «Parmenides» zu Fichtes «Wissenschaftslehre (1804-II)», «Prima philosophia», 4 (1991), pp. 11-31.
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personale, come vedremo). Orbene, in una serie di svolgimenti non sempre facili da seguire Fichte precisa anzitutto che, in questo senso, «l’unica cosa che propriamente esiste è il concetto: un essere puramente spirituale» (GA II 13, p. 329) e che oltre a questo vero e reale essere spirituale non esiste un altro essere (dobbiamo intendere: non esiste per l’etica, dato che per la scienza del sapere questo essere del concetto è a sua volta copia [Abbild ] dell’uno-essere vivo). Un «vero mondo oggettivo» esiste perciò soltanto attraverso «la vita del concetto», cioè mediante la prassi dell’io che vuole il dovere (cfr. GA II 13, p. 331). Il «mondo oggettivo» è perciò espressione dell’essere spirituale (non viceversa!) attraverso l’opera dell’io morale, che è tale perché è vita, esistenza che vuole (incondizionatamente ed energicamente) l’idea morale9. Qui Fichte introduce un chiarimento determinante sulla teoria della libertà. La libertà morale non è la libertà di scelta tra diversi motivi (ad esempio fra un impulso interessato e un impulso disinteressato, come il Filosofo puntualizza con un evidente accenno alla teoria di Reinhold10). La libertà morale è la facoltà di volere o di non volere il «concetto»; la sua essenza risiede nel suo poter-volere o poter-non volere autodeterminarsi in rapporto all’idea etica. In questo senso occorre ammettere una preliminare «indifferenza» dell’io, che non è una indifferenza rispetto ai motivi (già criticata da Leibniz), ma è la libertà radicale in cui l’io si trova rispetto all’idea etica, la quale domanda di essere incondizionatamente – ma non meccanicisticamente – voluta. L’io è libero di fronte a una richiesta assoluta, e la sua posizione fondamentale non si determina nella scelta tra natura e libertà, ma si gioca interamente nel rapporto fra la volontà e il dovere, fra la libertà e l’appello dell’idea (o del valore) morale che si manifesta come Sollen (GA II 13, p. 322 ss.)11. Va precisato infatti che il «concetto» irrompe nella coscienza come un Devi (Soll), e quest’ultimo – osserva Fichte, anticipando, si potrebbe osservare, la riflessione di uno Scheler12 – è precisamente l’idea etica «in una immagine e rappresentante» (GA II 13, p. 328): il Devi esprime il «concetto» nella suacapacità motivante per la volontà, è l’idea come ideale (cfr. GA II 13, p. 335). 9
Sulla struttura della volontà morale in Fichte cfr. le riflessioni di Reinhard Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, cur. M. Ivaldo, Trauben, Torino 2004. 10 Cfr. Carl Leonhard Reinhold, Briefe über die Kantische Philosophie, Bd. 2, Georg Joachim Göschen, Leipzig 1792, in particolare la lettera sesta e settima. 11 Cfr. su ciò le considerazioni di Emilio Brito, J. G. Fichte et la transformation du christianisme, Leuven University Press, Leuven 2004, p. 357 ss. 12 Cfr. Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neue Versuche der Grundlegung einer ethischen Personalismus (I parte: 1913, II parte: 1916), Francke, Bern und München 1966. Ad es.: «Ogni dovere è fondato in un valore» (p. 193).
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Sulla base di questa visione ciò che finora si è chiamata dottrina morale (Sittenlehre) – leggiamo – si trasforma in una «dottrina dell’essere» (Seyn slehre). Questa conclusione, prima facie sorprendente, viene spiegata così: in virtù di queste premesse la dottrina morale si trasforma nella «dottrina dell’essere vero, della realtà vera e propria» (GA II 13, p. 331), cioè – come ormai sappiamo – nella teoria dell’ «essere puramente spirituale», il «concetto». Nell’etica l’«essere» è il «concetto», e viceversa (non così nella scienza del sapere, per cui il «concetto» è a sua volta immagine dell’uno-essere). Dal concetto=essere deve venire dedotto tutto il restante della manifestazione, anche il «mondo oggettivo». Orbene, significa questo che una dottrina morale «in senso proprio» (GA II 13, p. 332) – chiarirò più avanti questa espressione – non avrebbe più senso e che essa si risolverebbe semplicemente nella dottrina dell’essere spirituale? Formulato con una terminologia moderna: la teoria dell’agire morale si risolverebbe interamente nella teoria del valore morale? Fichte non vuole affermare ciò. Anzitutto chiarisce che la differenza fra la dottrina morale e la dottrina dell’essere spirituale risiede nella diversa posizione che in esse ha la libertà. La dottrina morale «presuppone» la libertà in quanto quella «possibilità dell’essere e anche del non essere» di cui ho sopra parlato (=la libertà radicale), la vede come una realtà vera e immediatamente conosciuta, e la conduce sotto la legge morale. La dottrina dell’essere spirituale invece «deduce» la libertà come una « forma della manifestazione», la pone cioè non immediatamente nell’essere, ma nella «visibilità dell’essere» come il membro sintetico del rapporto fra l’esprimersi della vita in una immagine e la vita stessa del «concetto»; con altre parole: la libertà è il medio vivente fra la vita nell’immagine e la vita secondo l’idea, fra apparizione e realtà. Si capisce allora che la dottrina morale risiede «non nel punto di vista della verità, ma in quello della manifestazione» (GA II 13, p. 332; cfr. anche pp. 336 e 338) e che essa ha il compito di risolvere la manifestazione nella verità. Sotto questo profilo epistemologico è legittimo conservare il termine dottrina morale e attribuirgli un significato specifico. La dottrina morale in senso proprio è il «sistema della manifestazione». Il suo presupposto è la libertà radicale, l’«indifferenza in relazione al volere», e ciò include l’ammissione di un io «prima della sua determinazione da parte del concetto», cioè di un io autonomo e «indifferente» (=libero) rispetto alla determinazione categorica stessa dell’idea etica. La determinazione etica appella, non necèssita, anche se appella in modo incondizionato. Segue da ciò che nell’idea etica in sè non esiste nessuna indifferenza. L’«indifferenza» – con-
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tro la filosofia dell’identità come indifferenza di Schelling13 – non può venire posta nella verità, ma deve venire esattamente pensata come una condizione (trascendentale) dell’io necessaria per concepire il fenomeno morale, e appartiene perciò (soltanto) alla sfera della visibilità dell’essere. In definitiva: la dottrina morale in senso proprio pensa l’esistenza dell’io (libero) in rapporto al valore morale. Essa è allora qualcosa di diverso dalla teoria del valore, che comunque necessariamente suppone e che svolge da un altro punto di vista. Ha a che fare con l’esistenza, o verrebbe da dire: con la praxis. Orbene, possiamo considerare – spiega Fichte – questo rapporto dell’io con la moralità da due profili: dell’«essere» e del «divenire». Il primo profilo pone in essere una «teoria della manifestazione dell’io» (Erscheinungslehre des Ich). Questa è la vera e propria etica, che è allora la comprensione dell’«io vero» come manifestazione/esistenza dell’idea etica, ovvero è la fenomenologia dell’incarnarsi del «concetto» (si rammenti il tema giovanneo). Il secondo profilo produce una «dottrina pratica e pragmatica dell’arte della moralità» (Kunstlehre der Sittlichkeit , GA II 13, p. 336), che a sua volta si articola in una «ascetica», ovvero nell’arte di rafforzare e consolidare la volontà morale, e in una «pedagogia», ovvero nell’arte riflessa di educare il genere umano alla moralità. 4. È necessario però ulteriormente distinguere fra manifestazione (Er scheinung ) e parvenza (Schein). Qui Fichte tematizza la scissione fondamentale fra moralità e immoralità, l’alternativa etica essenziale. Nella sfera della manifestazione il principio è l’io come immagine dell’idea che deve avere vita e forza, esistenza ed energia. Orbene, se questa manifestazione viene compresa nel suo rapporto alla verità che risiede a suo fondamento, si realizza la vera e propria «dottrina della manifestazione» (Erscheinungslehre); se questo rapporto è misconosciuto, e «la manifestazione è presa per la cosa stessa» (GA II 13, p. 338), allora abbiamo una «dottrina della parvenza» (ScheinLehre), e nei suoi giudizi nascono «parvenza, errore e illusione». Manifestazione e parvenza: per intendere questa scissione dobbiamo ancora una volta riferirci alla dottrina della verità, o dell’essere, di cui prima si è detto14. Questa afferma che il «concetto» è il principio vivente, e 13
Per questa posizione su Schelling mi riferisco a Reinhard Lauth e alla sua lettura di Schelling ora raccolta nel volume: Schelling vor der Wissenschaftslehre, Christian Jerrentrup, München 2004. 14 È interessante notare che Fichte in queste lezioni di etica riprende la distinzione di dottrina della verità, della manifestazione e della parvenza già avanzata nella Dottrina della scienza 1804-II (cfr. GA II 8, p. 2 ss.).
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che la manifestazione effettuale deve essere perfettamente corrispondente alla manifestazione che è possibile a partire dal «concetto» stesso. Per parte sua l’io individuale è – per usare le parole di Fichte – «una certa regola limitativa per l’apparire del concetto assoluto» (GA II 13, p. 338), ossia è una forma determinata di manifestarsi dell’idea etica. Se in questa limitazione, cioè nell’io, la realtà appare uguale alla possibilità che il «concetto» ha di manifestarsi; in altri termini: se l’esistenza dell’io è la vita stessa dell’idea etica senza cesura e mutamento, allora l’io individuale è un io morale. Fin qui la teoria della verità. Al livello della teoria della manifestazione questo significa: l’io morale è precisamente colui che è l’immagine vera e fedele della vita del «concetto», e ciò in modo tale che la sua vita in realtà non è sua, ma è la vita dell’idea etica che lo possiede e lo plasma, sicché si deve dire che il «concetto soltanto in lui è visibile», e che se venisse richiesto che cosa in definitiva sia il «concetto» che non vediamo, bisognerebbe rispondere all’io morale: «guardati (siehe dich)»! Diversamente accade al livello della «parvenza»: qui l’io non è «vita del concetto», ma è soltanto – come Fichte si esprime – «immagine della sua immagine, del concetto puramente ideale e formale» (GA II 13, p. 339). Questo (anch’esso non semplice) pensiero fichtiano potrebbe essere formulato – anche fondandosi sulla distinzione fra «immediatezza» e «mediatezza» che viene avanzata in questo contesto (GA II 13, p. 340) – così: – l’io morale è immagine immediata del «concetto», la vitalità e la capacità motivante dell’idea morale sono la sua stessa vita, egli non ha più una volontà e una vita «proprie», ma la sua volontà e la sua vita si sono risolte nell’essere «visibilità del concetto»; – l’io immorale ha invece un rapporto con il «concetto» soltanto mediato e astratto; egli non è radicalmente aperto alla irruzione del «concetto» nella sua reale forza motivante e imperativa, e ciò a causa di una «forza di resistenza» che lo spinge ad autonomizzarsi, mentre al contrario ogni «vano orgoglio» dovrebbe venire bandito. Non che il «concetto» non esista nella manifestazione dell’immoralità, cioè nella «parvenza». L’io immorale ha sempre un rapporto con l’idea etica, solo che questo rapporto – si è detto – è un falso rapporto: la parvenza, l’immoralità non è l’apparizione della vita del «concetto» nella sua forza genuina, ma è «il cadavere della sua morte, del suo spirare (Erstorbenheit ) in una qualche forma: benché questa morte e questo spirare tuttavia vivano» (GA II 13, p. 341). L’immoralità è in definitiva falsificazione del bene per amore di se stessi.
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5. Possiamo adesso – omettendo alcuni passaggi intermedi – venire al tema della comunità. Una tesi fondamentale di queste lezioni, si è visto, è che l’io deve avere una causalità (una libertà) indipendente dal suo essere-morale. Senza questo presupposto non è concepibile la moralità, che è tale nella concomitante possibilità del suo contrario (se no, avremmo solo meccanismo e ripetitività). Ora, donde emerge una simile causalità nel sistema della manifestazione? A questa domanda Fichte risponde rinviando all’«empiria», che egli caratterizza come la sfera «al di là della coscienza morale» (GA II 13, p. 352). In maniera più specifica spiega che l’empiria è la rappresentazione della capacità formativa (Bildlichkeit ) – o della forma visualizzante (Sehform) – in un oggetto in generale da parte di un soggetto in generale. Il dominio empirico è in altri termini capacità formativa oggettivata, cosa che implica l’agire immaginante e formante di un soggetto. Questo «soggetto» però – precisa il Filosofo – è in realtà «una somma di soggetti, di io, una comunità di io» (GA II 13, p. 353). Fichte vuol dire che perché possa divenire concepibile qualcosa come l’empiria è necessario porre una comunità di individui. Nella sua materialità l’empiria emerge come autoattuazione di una forma visualizzante strutturata in maniera intersoggettiva. D’altro lato è soltanto attraverso questa costitutiva mediazione intersoggettiva che la capacità visualizzante e formante stessa, chiamata il «metaempirico», passa da formale a materiale, si determina cioè secondo contenuti che sono rilevanti per la vita dell’individuo. Da questo profilo ogni individuo si presenta con un duplice significato. In parte egli è «puramente empirico», ovvero è «espressione del vedere empirico», e perciò è «prodotto naturale» e «cosa della natura», retto dall’impulso naturale di autoconservazione (Cfr. GA II 13, p. 355; cfr. anche pp. 353-354). In questa sfera ogni individuo è assolutamente eguale (fattualmente eguale) a ogni altro individuo: l’individuo ‘naturale’ non ha ancora un «carattere individuale». In parte l’individuo è invece «qualcosa in sé, membro della comunità», «espressione del fattore reale della manifestazione»; come tale esso è impulso (puro) e, ove sia possibile, è agire in vista di un ordinamento (morale) che non è dato in una legge della natura, né da questa è richiesto, ma risiede nel suo «essere autonomo» ed è da questo postulato. Orbene, soltanto in quanto si manifesta nella propria appartenza alla comunità degli io e mediante essa – attraverso una pratica interattiva –, l’individuo acquisisce il carattere individuale, il quale «è necessariamente un carattere spirituale» (GA II 13, p. 356). Il principium individuationis deve darsi perciò sul piano spirituale, non naturale (sul pia-
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no naturale abbiamo uniformità fra gli individui), e l’individuazione – cioè la realizzazione della individualità che devo diventare – è il risultato di una interazione interpersonale15. L’identità che io sono (meglio: che devo e posso essere, essendo l’identità l’esito mai chiuso di una corrispondenza a una domanda, espressa in un compito pratico) è un processo formativo che necessariamente rinvia a una interazione comunicativa con una pluralità di persone. Non c’è io senza altri. «Qualcosa in sé [l’individuo] lo è soltanto come parte di una totalità, e nell’ordinamento di una totalità; solo la totalità infatti è in sé» (GA II 13, p. 357), laddove deve venire chiarito che «totalità» (Ganzes) qui equivale a «comunità di individui», o anche: «degli spiriti», che il vincolo che la rende tale è un rapporto che è mediato dalla libertà, che proprio per questa ragione la comunità è un «in sé». Il processo di costruzione dell’identità personale è perciò il seguente: dall’essere naturale, determinato dall’impulso autoconservativo, all’essere spirituale, all’essere cioè un «io in sé», attraverso la mediazione della comunità. Soltanto sollevandosi a questo livello l’individuo riceve un carattere individuale che lo diversifica dalla uniformità e della ripetitibilità generica dell’impulso autoconservativo. Ora – per tornare al punto da cui siamo partiti: donde l’originaria «indifferenza» dell’io? –, è proprio a seguito della acquisizione di questo carattere individuale che l’individuo può esistere come un «principio autonomo nel mondo oggettivo indipendente dalla legge morale e antecedente al destarsi di essa» (GA II 13, p. 356), può cioè trovarsi come libero in rapporto al «concetto». Per parte sua la manifestazione del concetto del dovere – rispetto al quale la libertà è chiamata a decidere di sé – trova proprio nel carattere individuale, e nel contenuto materiale di capacità e qualità personali che gli sono proprie, una «materia» alla quale si unisce e dalla quale «trae il suo proprio contenuto», cioè una specificazione qualitativa, e ulteriormente determina il carattere stesso. La concrezione del dovere riguarda l’io che io sono e interpella me (da ciò la prescrizione: «presta attenzione a te stesso», Attentire auf dich, GA II 13, p. 365). L’universalità del concetto del dovere si particolarizza attraverso la mediazione del carattere individuale, e questa mediazione richiede a sua volta la mediazione della comunità degli individui come totalità vivente di legami spirituali. Il processo di costruzione della identità personale – che non può 15
Ha richiamato l’attenzione sulla differenza nella concezione del carattere individuale che si può rilevare fra le precendenti elaborazioni di Fichte e queste lezioni di etica Carla de Pascale, Le lezioni di etica del 1812. Appunti di lettura, op. cit., p. 71.
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accadere al di fuori dell’orizzonte di una comunità – deve essere in definitiva inteso come la premessa e allo stesso tempo il medio per l’assunzione e l’esercizio di una responsabilità morale personale. 6. Questa comprensione della comunità – sostiene Fichte – offre la possibilità di penetrare nel «contenuto» del «concetto» considerato nella sua «pura forma», dato che il «contenuto qualitativo» del «concetto» stesso può essere rinvenuto soltanto nella «coscienza immediata» (cfr. GA II 13, p. 358). Ciò può venire spiegato così: a) cogliamo l’ideale qualitativo universale che viene postulato dall’idea etica soltanto se proiettiamo l’idea stessa sull’orizzonte della comunità; b) possiamo invece percepire come, in quali forme ed esigenze specifiche, questo ideale parla a noi, solo facendo attenzione a noi stessi, prestando ascolto alla voce della coscienza morale ed esercitando il giudizio; c) perciò il riempimento contenutistico del «concetto» avviene nella sua universalità grazie alla mediazione della comunità, e nella sua particolarità in virtù, come già abbiamo visto, della consapevolezza morale personale. La determinazione contenutistica del «concetto» grazie all’idea della comunità viene svolta in tre passaggi fondamentali: I) ciò che è «autonomo» nella manifestazione è la manifestazione stessa come essa è «in sé», in quanto immagine di Dio; la manifestazione è ciò solo «nella sua unità come comunità degli individui»; con altre parole: l’«in sé» della manifestazione è il suo essere-immagine (abbiamo qui una significativa unità di autonomia e eteronomia, di ‘in sé’ e ‘per altro’), e questo «in sé» è l’unità della comunità degli io; II) un tale «essere» della comunità si presenta come un «compito», «appare nella forma di un principio assoluto [pratico]»; l’ideale etico è in definitiva un compito, e questo non è in senso proprio un compito dell’individuo, ma dell’intera comunità: è la produzione di un certo ordine (morale) del mondo, che è sempre sulla via di farsi; III) un tale compito, pur essendo compito per la totalità, non si esprime però in una coscienza totale (Gesamtbewußtsein), ché una tale coscienza totale non esiste, ma nella coscienza individuale, e vi si esprime precisamente come compito in vista della totalità (GA II 13, pp. 358359; cfr. anche p. 364 ss.). Si comprende perciò meglio il punto enucleato in precedenza, che la coscienza del dovere si particolarizza attraverso la mediazione del carattere individuale: ognuno riceve la proposta del compito morale, che è necessariamente un compito che riguarda tutti , in maniera individualizzata, cioè come un compito che
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interpella proprio lui e che egli deve percepire facendo attenzione a se stesso nella propria coscienza morale ed esercitando il giudizio16. 7. Si è detto: il compito è in vista della totalità come comunità degli individui, precisamente della sua unità come unità morale. Ora, di questa finalizzazione comunitaria del compito morale si possono enucleare diverse, anche se certamente non antitetiche, declinazioni, che esprimono modalità differenti di interazione fra gli individui in vista della unità della comunità. Una prima declinazione è la comunicazione in vista dell’eguaglianza. L’unità della comunità deve venire intesa come l’unità che risulta dalla comunicazione, dalla messa-in-comune delle rispettive conoscenze e capacità da parte degli individui. Ogni individuo non deve ritenere ciò che egli ha acquisito in conoscenza, capacità pratica e abilità come un possesso esclusivo e definitivo, ma deve per un verso sempre incrementarlo, per l’altro verso e insieme deve parteciparlo agli altri. In questo senso occorre superare ogni carattere puramente individuale – precisamente «ogni misura limitata di intelligenza e abilità» (GA II 13, p. 357; cfr. pp. 357-358) –, bisogna comunicare agli altri questa misura propria, così che da questo dare e ricevere risulti in tutti «un solo carattere: il più alto sviluppo spirituale possibile nel tempo». Si capisce che ciò che è destinato a questa comunicazione universale deve essere ciò che in ogni qualità particolare «è veramente spirituale e perciò universalmente valido», mentre ciò che è solo individuale, e «perciò sensibile», deve essere mantenuto da ognuno per sé. Gli individui comunicano realmente in ciò che è spirituale e universalmente valido. Lo scopo di questa comunicazione è di pervenire a quella che potrebbe dirsi una ‘seconda eguaglianza’, che non sia più l’uniformità ripetitiva dell’impulso naturale, ma sia questa volta «opera della libertà» e perciò muova «da ogni punto individuale», cioè dalla differenza. Una seconda declinazione si collega alla formulazione di quello che Fichte chiama il criterio «qualitativamente formale» della volontà morale17, ovvero che questa «vuole [nella] eterna unità [del concetto assoluto] la moralità di tutti» (GA II 13, p. 363). La volontà morale vuole che ogni vita 16
Ha di recente sottolineato la costruttiva mediazione che Fichte realizza fra universalità e particolarità in ambito etico Günter Zöller, Konkrete Ethik. Universalität und Partikularität in Fichtes System der Sittenlehre, in K. Engelhard-D. H. Heidemann (cur.), Ethikbegründungen zwi schen Universalismus und Partikularismus, de Gruyter, Berlin-New York 2005, pp. 203-229. 17 Fichte enuncia anche un criterio «puramente formale»: «la volontà morale vuole eternamente il concetto eterno, cioè puramente formale, fatta astrazione da tutte le configurazioni che esso ricevenel tempo» (GA II 13, p. 363).
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all’interno della manifestazione – la quale come abbiamo visto ha una struttura intersoggettiva – divenga «vita del concetto», sia compenetrata e plasmata dall’idea etica. Tuttavia, come deve essere perseguita la moralità di tutti? Fichte avanza qui un’importante distinzione. L’uomo può agire – spiega – privo di ogni moralità per la sola spinta della natura spirituale in lui. Il criterio formale della sua volontà è in questo caso che egli vuole perché vuole, assolutamente e semplicemente, ha cioé una volontà assoluta che ha come scopo la realizzazione di un certo stato del genere umano. Con questa caratterizzazione il Filosofo ha in vista quelli che chiama gli «eroi della storia» (GA II 13, p. 360): essi sono pieni di «entusiamo» (Be geisterung ), sono anche «benefattori dell’umanità», ma lo sono come «ciechi strumenti di un qualche singolo concetto». Evoca espressamente il profeta Muhammad, «entusiasta (enthusiast ) per il concetto dell’unità di Dio, pieno di odio amaro verso il politeismo», ma si riferisce implicitamente anche ai giacobini e a Robespierre, e si può cogliere nelle righe pure un accenno tacito a Napoleone, che il 24 giugno 1812 aveva iniziato la campagna di Russia (la lezione in cui vengono pronunciate queste osservazioni è del successivo 30 luglio)18. Caratteristica di questi «entusiasti» è di voler costringere «con il fuoco e la spada» gli uomini al riconoscimento di una religione, oppure a essere liberi, o felici, nella maniera voluta da loro stessi. Con un chiaro riferimento a Paolo (1 Cor 13, 2) Fichte stigmatizza però questa posizione spirituale così: «Possono fare miracoli, o trasportare le montagne, ma loro non giova a nulla, dato che non hanno l’amore» (GA II 13, p. 360). A differenza che in questo eroismo ‘amorale’ degli «entusiasti» – dove l’agente è strumento inconsapevole di visioni unilaterali e parziali, che vengono da lui non riconosciute come tali e impropriamente assolutizzate –, nella moralità l’idea etica penetra invece nella coscienza e come tale viene riconosciuta. La volontà morale vuole allora l’intera legge del dovere, e non suoi frammenti assolutizzati, ed è aperta a riconoscere la forma del dovere in ogni figura in cui si manifesti. Mentre «l’entusiasta» vuole, come cieco strumento della propria ‘ideologia’, costringere gli altri alla moralità – e in tal senso egli fraintende e falsifica il senso del criterio prima esposto per cui la volontà morale vuole la moralità di tutti –, l’uomo morale vuole invece l’idea etica con piena consapevolezza e nella sua 18
Seguo in questo il suggerimento dei curatori della Edizione completa, cfr. GA II 13, p. 360 nota 42.
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completezza: ciò significa – per quanto riguarda lo scopo della moralità di tutti – che egli percepisce il dovere come «edificazione di tutti nella prospettiva di una sola comunità morale» (GA II 13, p. 363)19, e in questo consiste precisamente l’amore, di cui dirò fra breve. Ancora e insieme: mentre l’«entusiasta» vuole il proprio scopo – cioè un certo stato della società umana – con ogni mezzo, e così non onora affatto la libertà umana, anzi gli rimane nascosta la destinazione stessa del genere umano alla libertà, l’uomo morale vuole quello scopo soltanto per il medio della moralità di tutti, cosa che richiede che essi comprendano e vogliano lo scopo stesso, cioè implica la loro libertà. In altri termini: l’uomo morale vede il genere umano soltanto come «essente originariamente e per sua essenza libero» (GA II 13, p. 362): la moralità in tutti e in ognuno è per lui sempre e soltanto evento della libertà. 8. Assieme al «disinteresse», alla «veracità e apertura», alla «semplicità», l’«amore» viene riconosciuto da Fichte come carattere essenziale della «disposizione interiore» dell’uomo morale, «interna manifestazione del [suo] animo» (GA II 13, p. 369; cfr. p. 369 ss.). Sappiamo dalla dottrina interpersonale di Fichte del periodo jenese che l’altro è colui che appella l’autocoscienza a pervenire a se stessa. Abbiamo poi visto nella trattazione che precede che l’altro deve venire inteso come il partner irrinunciabile di una interazione comunicativa finalizzata a costruire l’unità della comunità etica. Nella concezione dell’amore che Fichte enuclea in queste lezioni l’altro si presenta tuttavia anche in un’ulteriore e innovativa figura. Egli è colui che l’io morale deve (soll) volere come tale, deve volere cioè la sua esistenza come un essere libero. Volere che un altro – questo altro – esista come un essere libero e in un nesso morale con me, significa amare l’altro, questo altro. Precisiamo anzitutto il carattere fondamentale dell’amore etico. Con un significativo chiarimento riguardo alla concezione della volontà Fichte osserva che «si ama ciò in rapporto al quale e in vista del quale si vuole tut19
L’interazione nella comunità etica deve avvenire attraverso l’azione, che vale come esempio per il «concepire» dell’altro, e la parola. Questa «interazione attraverso concetti» richiede un «principio comune». Sono auspicabili perciò «alcuni concetti fondamentali morali» su cui si realizzi il consenso della comunità etica universale. Ora, l’accordo sulla intellezione morale si chiama «simbolo», e la comunità di coloro che riconoscono il simbolo è la «chiesa». Qui è il punto di partenza della dottrina della chiesa nelle lezioni del 1812, alla quale Fichte dedica la «appendice» (GA II 13, pp. 380-392), e che meriterebbe una trattazione specifica, che qui devo omettere. Cfr. sul tema: Emilio Brito, J. G. Fichte et la transformation du christianisme, cit., pp. 369-377; Giovanni Cogliandro, La dottrina morale superiore di J. G. Fichte, cit., pp. 294-310.
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to ciò che si vuole, l’oggetto fondamentale stabile e permanente della nostra volontà» (GA II 13, p. 373). L’amato è ciò (è colui) che si vuole fino in fondo, che impegna per intero la volontà. Nel secondo dei Discorsi alla na zione tedesca avevamo d’altra parte letto: «L’uomo può volere solo ciò che ama; il suo amore è l’unico e in pari tempo infallibile impulso del suo volere» (SW VII, p. 283)20. Orbene, per l’io immorale ciò che è amato è il proprio io (l’amour propre di Rousseau!), per l’io morale è invece l’intera umanità, e in particolare coloro con i quali entra in rapporto, per i quali ha agito e che abbraccia nei suoi progetti, ovvero: l’io morale ama il suo «prossimo», volendo designare l’oggetto del suo amore – dice Fichte – «con una assai adeguata espressione biblica» (cfr. Lv 19, 18; Mt 22, 39). Questa è la prospettiva esatta, dato che egli vuole la moralità e, mediante questa, la «vita beata» (Seeligkeit ) – non soltanto la «felicità» (Glückseligkeit ), come aveva detto Kant nella Metafisica dei costumi (AA VI, p. 393 ss.) – di tutti. Alla enucleazione del tratto fondamentale dell’amore etico segue una sua sintetica fenomenologia. Anzitutto colui che ama non si separa dagli altri, ma resta in rapporto e in interazione con loro per quanto glielo consente il compito morale. Chi volesse occuparsi soltanto di se stesso, della propria ‘moralità’, e mantenersi così puro e immacolato, si opporrebbe alla disposizione morale. Un simile uomo concepisce infatti la moralità soltanto come «un non-fare il male puramente esteriore e negativo», una «giustizia e illibatezza esteriore borghese (bürgerlich)», ma sarebbe l’errore più grave – Fichte usa qui il termine «fariseismo» – lo scambiare questa moralità esteriore e negativa per la «moralità vera», che consiste invece nel vivere e nell’agire positivamente e che ha di mira la formazione morale degli altri. Chi ama il proprio dovere – potremmo dire in termini kantiani: chi fa del dovere un impulso e non una regola esteriore – ama ipso facto la comunità con gli uomini a cui quel dovere stesso lo rinvia. La sua inclinazione lo sollecita all’intima comprensione con i suoi simili, ed egli si mantiene sempre aperto a intrecciare nuovi legami. L’etica dell’amore è perciò non soltanto un’etica dell’interazione, ma è un’etica della creazione di nuove relazioni umane che incarnino l’idea etica. Inoltre l’uomo morale comprende nel suo amore l’umanità intera, considerandola come «strumento della moralità». Occorre però intendere bene questo esser-strumento, che sembra prima facie opporsi all’idea kantiana 20
Cfr. tr. it. Discorsi alla nazione tedesca, a cura di G. Rametta, Laterza, Bari 2003, p. 23.
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della persona come «fine in sé». Sappiamo che l’io individuale deve porsi al servizio dell’incarnarsi dell’idea etica, deve divenire «vita del concetto», e precisamente in questo consiste, volendo dire la cosa in termini kantiani, la sua «dignità». D’altra parte l’esser-strumento non può essere separato dal fatto che ogni individuo è al servizio dell’idea etica come un essere libero. Perciò il genere umano viene amato sì come strumento della moralità, ma in quanto questo amore si fonda e si riferisce alla «base morale [che è] nell’uomo e [allo] sviluppo della stessa» (GA II 13, p. 375). Ogni membro dell’umanità viene perciò amato dall’io morale nel suo esser-capace di moralità, in virtù della sua inalienabile e intangibile personalità morale. Ne segue che l’uomo morale ama senza eccezione chiunque «abbia volto umano» ed è pieno di fiducia e di speranza in ogni uomo, sapendo che finché ogni individuo vive è perché l’idea etica – o Dio stesso – vuole offrirgli l’occasione di diventare migliore. Non che questo atteggiamento lo porti a essere cedevole di fronte al male: l’uomo morale non ama, né tollera, né giustifica affatto il male, ma ama piuttosto la «persona vera e perdurante» di ognuno, il suo «nocciolo morale», che vuole liberare da ogni rivestimento occultante e portare in piena luce. Sa però che questa liberazione non può avvenire con la costrizione e l’inganno – si rammenti la precedente critica dell’eroismo e dell’entusiasmo amorali – ma con la conoscenza e attraverso l’amore del meglio. In definitiva l’uomo morale vuole gli uomini liberi, non schiavi della paura o dell’errore. Ancora: compiutezza e indigenza caratterizzano l’uomo morale. Questi è compiuto e autonomo per quanto riguarda la sua volontà di fare ciò che è giusto, ma «è indigente in senso esterno e dipendente dall’intero genere umano» (GA II 13, p. 375). Ciò di cui egli ha propriamente bisogno – osserva Fichte – è la cultura morale dell’intero genere umano. Si potrebbe dire: l’uomo morale è sì autonomo nella sua volontà morale, che non può venire prodotta in lui da nessun fattore esterno a lui stesso, ma non è autosufficiente nella sua esistenza di fatto, nella quale egli si presenta bisognoso della integrazione morale che nasce dalla moralità di tutti. L’interpersonalità etica è perciò non solo un dovere, ma anche un bisogno dell’individuo. Infine, se l’uomo morale abbraccia nel suo amore l’umanità come strumento della moralità, egli per primo si pone nella condizione dello strumento, sicché è pronto e interessato a mettersi al servizio degli altri in modo effettivo e concreto, a partire dalla cura del loro benessere fisico, dell’ordine sociale che li abbraccia, della rettitudine della loro costituzio-
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ne, della loro libertà, poiché egli è consapevole di come e quanto le condizioni fattuali, materiali, ambientali e giuridiche possano favorire (o impedire) agli uomini di sollevarsi «a ciò che è spirituale e più alto». Questo amore etico creativo è designato conclusivamente da Fichte come il «sigillo della nostra moralità» (GA II 13, p. 376), cioè come il suo compimento e insieme come il suo segno di riconoscimento. La concezione dell’amore etico consente probabilmente più di altri aspetti di percepire e di apprezzare il cammino che Fichte ha compiuto dal suo primo Sistema di etica del 1798 nella determinazione dell’atteggiamento morale fondamentale dell’uomo.
Abstract In his Ethics of the year 1812 Fichte developes a theory of morality as incarnation of moral values and ethical ideas in a context of communication. The moral idea is “image of God”. I ndividual identity can be formed only through the interactive process. No I without the Other. Moral community is the manifestation of the Absolute.The creative love is seen as the “signet of morality”: this is probably the greatest difference from the Ethics of the year 1798.
L’identità in questione
Cosa significa diventare ciò che si è Forme e a spetti del problema dell’identità in Martin Heidegger Antonia Pellegrino
1. I dentità euniversale Nonostante l’indubbia familiarità del giovane Heidegger con le tematiche logiche, il problema dell’identità non gli si presenta a partire da questo ambito. È vero che in seguito il principio di identità come legge formale fondamentale del pensiero diventerà uno degli obiettivi tipici della decostruzione heideggeriana, ma questo avviene in un contesto in cui la logica rappresenta l’oggettivazione di una determinata posizione metafisica, cioè di una specifica (anche se non arbitraria) interpretazione dell’essere dell’ente. L’identità che inizialmente gli risulta problematica, come emerge dai primi corsi friburghesi, immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, è l’identità stessa del pensiero occidentale, vale a dire l’identità della filosofia in quanto pensiero dell’Occidente. Sia pure sforzandosi di cercarne la radice ultima e di modificarne anche terminologicamente l’impostazione, Heidegger in realtà riprende un problema che già era motivo di inquietudine per gli intellettuali della generazione precedente: la crisi dell’identità culturale del mondo moderno occidentale. Il relativismo, che appariva come il risultato ultimo dell’affinamento della coscienza storica del secolo precedente e del dibattito sullo statuto epistemologico delle scienze dello spirito1, sembrava quasi inevitabilmente condurre alla perdita 1
Cfr. E. Troeltsch, Moderne Geschichtsphilosophie, in «Theologische Rundschau», 6, 1903, tr. it. La moderna fi losofi a della storia, in E. Troeltsch, Etica, religione, filosofia della storia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli 1974, p. 340: «Se poi si chiede di altri mezzi di fondazione dei valori, non si ottiene altro che un’alzata di spalle. In un discorso in occasione del suo settantesimo compleanno Dilthey come contributo della grande scienza storica, a partire da Grimm, Böchk e Ranke, ha indicato l’“anarchia dei valori”. Questo è il sentimento latente che domina la nostra epoca». TEORIA 2006/1
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di fisionomia unitaria di quella cultura da cui pure era scaturito. Il pari valore attribuibile alle diverse visioni del mondo si traduceva nella difficoltà di legittimare i contenuti interni di ciascuna di esse. Anche l’interesse verso la molteplicità delle culture e delle loro realizzazioni correva il rischio di assumere le forme di una ricerca comparativa puramente esteriore, esteticamente compiaciuta di se stessa. Da questa diagnosi sull’epoca contemporanea erano scaturiti diversi tentativi di ripensare la possibilità di una dimensione ideale, che allo stesso tempo si sottraesse alla contingenza storica e, rispetto alle molteplici realizzazioni dell’umanità nel corso del tempo, indicasse i criteri di rilevanza per organizzarle e giudicarle. In questo senso si era mossa ad esempio la filosofia dei valori, ma anche la teologia liberale protestante. Heidegger ne è ben consapevole, nel momento in cui ripetutamente individua come una delle principali caratteristiche della sua epoca l’inclinazione alla metafisica (Zug zur Metaphysik )2. Il primo conflitto mondiale aveva portato all’estremo il senso della crisi dell’Occidente, particolarmente in Germania, che esce dalla guerra non solo militarmente sconfitta e umiliata nelle sue ambizioni di potenza ma anche stravolta nelle istituzioni politiche. Alcuni giovani intellettuali, e tra questi sicuramente Heidegger e Jaspers, avvertono l’inutilità di insistere sull’impostazione del problema e sulle soluzioni prospettate negli anni precedenti. La filosofia, minacciata nella sua identità dal relativismo, non ritrova se stessa nella dimensione dell’ideale sottratto al tempo, ed è indifferente che questo ideale venga interpretato in termini di dover-essere (di valore) o come oggetto specifico della logica trascendentale elaborata dalla fenomenologia husserliana. Il relativismo si fonda sul riconoscimento della molteplicità, della differenza, dell’individualità specifica, della temporalità. Non ha senso contrapporgli ancora, ammantata solo esteriormente di nuove forme, un’universalità già contestata. Il problema che si pone è come evitare però che tale riconoscimento si rovesci nel suo contrario, ovvero nell’indifferenza verso i contenuti del molteplice, nel considerarli equivalenti in 2
Questo avviene in molti corsi universitari, sia precedenti che successivi a Essere e tempo; la diagnosi sull’epoca contemporanea viene da Heidegger infatti continuamente ripresa ed approfondita, nella piena consapevolezza della difficoltà di fornire soluzioni credibili che riuscissero ad andare oltre la mera enunciazione programmatica. Da questo punto di vista, anche l’analitica esistenziale di Essere e tempo si rivela una risposta insufficiente. Cfr. come esempio almeno Phänomenologie des religiösen Lebens (1920/21), GA 60, a cura di M. J ung, T. Regehly, C. Strube, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, pp. 19-30, tr. it. a cura di G. Gurisatti, Fenomenolo gia della vita religiosa, Adelpi, Milano 2003, pp. 52-64; Der deutsche I dealismus (Fichte, Schelli ng, Hegel) und die philosophische Problemlage der Gegenwart (1929), GA 28, a cura di C. Strube, Klostermann, Frankfurt a. M. 1997, pp. 9-21.
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senso deteriore, parimenti incapaci di esibire, oltre al dato di fatto della propria realtà oggettiva, il fondamento e il senso della propria specificità: C’è in genere un solo fatto, se ci sono solo fatti? In quel caso non c’è in assoluto nessun fatto; non c’è nemmeno niente perché, con la supremazia della sfera dei fatti, non c’è nemmeno un “c’è”. C’è il “c’è”?3.
Evitare l’esito prospettato poc’anzi è il compito autentico della filosofia, il cui statuto non è comparabile a quello delle scienze positive: essa è il pensiero stesso dell’Occidente, che dopo aver scoperto la temporalità ci si deve confrontare fino in fondo. La scoperta del carattere temporale dell’esistenza non deve privare la filosofia del proprio centro, della propria fisionomia unitaria, annullando così di fatto anche se medesima. E il compito della filosofia è tanto più urgente quanto sempre maggiore sembra l’affermazione del relativismo e la connessa diagnosi di definitivo tramonto dell’Occidente e della sua cultura: Su chi ha visto queste connessioni [le connessioni storiche], anche se dalla più grande distanza e in maniera rozza, fa presa lo scetticismo storicistico che, colpendosi continuamente in faccia, parla in maniera non storica, decisamente obsoleta, semplicemente comica. Questa comica della storia universale, che si manifesta nel libro “europeo” dal titolo I l “tramonto” dell’Occidente, si trasforma però subito in farsa quando le persone piene di boria spirituale giocano con essa, e interi movimenti giovanili ci si ammalano. Ma forse questa estrema contaminazione con un tale veleno è necessaria affinché noi o stirpi future possiamo di nuovo prestare ascolto a ciò che ci concerne nel profondo4.
Rispetto a Dilthey e alla discussione sulle scienze dello spirito a lui contemporanea, Spengler non aveva, secondo Heidegger, alcuna connotazione originale: la sua interpretazione in termini biologici del corso della storia, al cui interno le diverse culture erano considerate organismi, poteva essere assimilata a un residuo della filosofia della storia positivista; la sua morfologia non comportava innovazioni rispetto all’impostazione comparativista e tipologica. Ma Spengler segnalava, in tutta la sua gravità, l’incompletezza delle discussioni sulle scienze dello spirito, era un segno dei tempi, il “sintomo” di un problema rimasto aperto5. 3
Cfr. M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie (1919), GA 56/57, a cura di B. Heimbüchel, Klostermann, Frankfurt a. M. 1987, p. 62, tr. it. a cura di G. Auletta, Per la determinazione della fi losofia, Guida, Napoli 1993, p. 68. 4 Cfr. M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie (1919/20), GA 58, a cura di H.H. Gander, Klostermann, Frankfurt a. M. 1992, p. 49. 5 Su Spengler cfr. anche M. Heidegger, Phänomenologische I nterpretationen zu Aristoteles.
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Heidegger, nei suoi primi corsi all’università di Friburgo, sostiene la necessità di mettere radicalmente in discussione le principali coppie di opposti della tradizione filosofica: ideale/reale, essere/divenire, sistema/ storia. Se la filosofia vuole ritrovare un proprio ambito e un proprio senso, deve diventare scienza della vita, scienza pre-teoretica della vita (vor-theoretische Urwissenschaft ) oppure scienza originaria della vita (Ursprungswis senschaft ), senza ricercare più il suo oggetto specifico in una ipotetica dimensione ideale rispetto alla quale tutte le manifestazioni temporali sarebbero contingenti e che rimarrebbe unica depositaria della loro eventuale rilevanza. La vita è tale solo in quanto si esplica in tendenze molteplici, ognuna delle quali con una propria motivazione, anch’essa rintracciabile solo nella vita stessa. La motivazione non è una causa razionale nel senso della leibniziana ragion d’essere, ma il modo in cui un determinato contenuto ha origine dalla vita. Dalla vita si genera tutta la molteplicità dei significati nelle loro interconnessioni e la vita è questa molteplicità. Ma cosa deve intendersi con vita? Non un assoluto che si sostituisca ai precedenti conservandone la funzione. Nemmeno vita come concetto biologico, come totalità degli organismi viventi. Vita è chiaramente quella dell’essere umano che vive in una rete di significati, ed è capace di replicarne in sé la genesi: L’esperienza vissuta non mi sta davanti come una cosa che io addito, come un oggetto, ma io stesso me ne approprio ed essa è l’evento che, secondo la sua essenza, si fa appropriare6.
Dal punto di vista della motivazione vitale non esiste l’equivalenza o l’indifferenza dei diversi significati: l’esperienza vissuta non si pone il problema del criterio di rilevanza, lo ha già in sé, nella familiarità con una determinata sfera di significati, che la riguardano, la coinvolgono, la costituiscono, e nell’estraneità rispetto ad altri. Cercare un criterio diverso dalla motivazione vitale non è plausibile: Questi caratteri dell’espressivo “esser familiare” con me stesso, essere accessibile a me stesso, indicano allo stesso tempo, in tutta la pienezza della ritmica del loro contenuto, i motivi, insiti nella vita stessa – anche se di solito non emergenti distintamente –, per cui ogni comprensione dei riferimenti vitali della vita si deve lasciar descriEinführung in die phänomenologi sche Forschung , GA 61, a cura di W. Bröcker e K. Bröcker-
Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a. M. 1984, 19942 (edizione riveduta), p. 183, tr. it. a cura di M. de Carolis, I nterpretazioni fenomenologiche di Aristotele. I ntroduzione alla ricerca fenomenolo gi ca, Guida, Napoli 1990, p. 106: Spengler è il segno della situazione di povertà del presente. 6 GA 56/57 (= Zur Bestimmung der Philosophie), cit., p. 75, tr. it. cit., pp. 81-82.
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vere a partire dalla vita stessa e dalla sua pienezza, dalla sua storia. La storia, non come critica delle fonti, storiografia, raccolta di materiale, negozio di antichità, o come realtà empirica dominabile attraverso un’elaborazione concettuale di tipo individualizzante e non altrimenti, bensì come vita che vive con se stessa, come familiarià della vita con se stessa in tutti i suoi riferimenti, fornisce le esperienze-guida7.
Qui l’autentica rilevanza della storia: in essa sono depositati i significati costitutivi dell’esistenza concreta, dei quali i singoli possono ripercorrere la genesi, comprendendone così anche le oggettivazioni che non sono stati essi a produrre e che hanno ricevuto come tramandate: Qui va indicato come si possa assumere che io abbia un ambito materiale da cui attingere una tale ricchezza di fenomeni. Questo è un problema serio. L’autentico strumento di comprensione della vita è la storia, non come scienza dello spirito o collezione di curiosità, ma come vita vissuta, come essa è e come essa si rapporta a sé nella vita vivente8.
Ciascun essere umano non rigenera necessariamente tutti i significati in cui si trova collocato. I significati, che hanno origine nelle motivazioni della vita, trovano una loro stabilizzazione nell’assetto della realtà circostante, nel contesto in cui ciascuno vive ed è inserito, nella rete di rapporti che lega gli individui fra di loro, nelle categorie concettuali, ma anche emotive, con cui ciascuno si rapporta a se stesso: Umwelt , Mitwelt , Selb stwelt sono le categorie costitutive della vita. Il mondo del sé (Selbstwelt ) ne rappresenta il centro unificante, in quanto luogo in cui la vita può ripetere la genesi dei propri significati, in cui ciò che si è oggettivato può nuovamente essere ricondotto alla propria origine perdendo la connotazione statica di dato di fatto. Ma come è stato possibile che dall’intrinseca temporalità della vita si generasse un pensiero che proprio questo carattere tende a disconoscere? Heidegger individua la radice dell’incomprensione della temporalità nel progressivo assolutizzarsi di una delle tendenze della vita, ovvero la comprensione teoretica. Tale modalità espressiva rispondeva all’esigenza di definizione e controllo dell’ente, e non era né l’unica possibile né la principale. La sua assolutizzazione, tuttavia, non è casuale, ma ha a sua volta una specifica motivazione vitale, la tendenza deiettiva della vita, ovvero la 7
GA 58 (=Grundprobleme der Phämomenologie), pp. 159-160. L’accenno a una concettualizzazione di tipo individualizzante è una critica alla filosofia dei valori di Rickert, che distingueva tra una concettualizzazione generalizzante propria delle scienze naturali e una concettualizzazione individualizzante specifica delle scienze storiche, incentrate non sulla ricerca di ciò che è comune ma sul coglimento della peculiarità individuale dei singoli fenomeni storici. 8 Ivi, p. 256.
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tendenza allo smarrimento, a interpretarsi a partire da ciò che è già stato oggettivato e appare come possesso stabile e sicuro. Alla tendenza deiettiva della vita, tuttavia, si affianca anche quella, di segno opposto, alla comprensione di sé, alla ricerca in sé della genesi della molteplicità dei significati; ed è a partire da essa che può essere messo in discussione il primato del teoretico, in quanto modalità di comprensione costitutivamente inappropriata a cogliere il carattere dinamico e temporale della vita.
2. Perdere se stessi o diventare ciò che si è: analitica esistenziale Gradualmente, la tematica della vita e della filosofia come scienza della vita scompare dagli scritti di Heidegger. Si tratta di uno spostamento di accenti che inizia già nel 1922: mentre il corso del semestre invernale 1921/22, I nterpretazioni fenomenologiche di Aristotele, è ancora incentrato sulla ricerca sistematica delle categorie e delle tendenze della vita, già nel 1922 le cosiddette “seconde interpretazioni fenomenologiche di Aristotele”, il Natorpbericht , testimoniano di uno spostamento terminologico e concettuale: innanzi tutto, dalla vita come origine si passa alla domanda sull’essere della vita9; in secondo luogo, sempre più esplicitamente, il centro della riflessione filosofica viene individuato nell’esistenza umana (il Dasein)10. Il termine “vita”, presumibilmente, conservava ancora delle ambiguità che ora vengono eliminate. Innanzi tutto, una inevitabile assonanza con l’ambito della biologia e della fisiologia. In secondo luogo, una mancanza di radicalità teorica, in quanto concetto che conservava ancora un evidente residuo di quella universalità e generalità che era oggetto di contestazione. Se da un lato i corsi friburgesi fino al 1922, ponendo l’accento sull’esperienza vissuta e la sua connotazione di familiarità, così co9
Phänomenologische I nterpretationen zu Aristoteles (1922), a cura di H.-U. Lessing, in
«Dilthey-J ahrbuch», 6, 1989, pp. 235-274, p. 245, tr. it. a cura di V. Vitiello e G. Cammarota, I nterpretazioni fenomenologiche di Aristotele, in «Filosofia e teologia», 3, 1990, pp. 496-532, p. 505 (traduzione modificata): «L’essere della vita, accessibile nell’effettività stessa, è tale da divenire visibile e raggiungibile solo attraverso il contromovimento che si oppone alla tendenza deiettiva della cura. Questo contromovimento, che è proprio dell’inquietudine del vivere che non smarrisce se stesso, è il modo in cui l’essere autentico della vita, colto nella sua temporalità, si sviluppa temporalizzandosi. Si designi questo essere autentico, di per sé accessibile nella vita effettiva, col termine esistenza». 10 Ivi, p. 238, tr. it. cit., pp. 498-499: «L’esserci effettivo [ faktisches Dasein] è ciò che è, sempre e solo in quanto esserci determinato, e non un esserci in generale di una qualche umanità universale per la quale bisogna preoccuparsi unicamente di compiti immaginari. La critica della storia è sempre solo critica del presente».
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me sul mondo del sé (Selbstwelt ) quale cardine della vita, lasciavano intendere che con il termine vita si dovesse intendere l’esistenza, Heidegger temeva evidentemente che questo potesse far assimilare il suo progetto all’individualismo e al relativismo che cercava di combattere. Il concetto di essere gli fornisce la soluzione a questa difficoltà11. La domanda sull’identità della filosofia si trasforma quindi nella domanda sull’identità dell’ente che, solo fra tutti, ha la possibilità di porre la domanda sull’essere proprio (ovvero sull’essere della vita come vita propria) e sull’essere di ciò che è difforme da sé. La filosofia diventa analitica esistenziale e ontologia. La crisi dell’epoca contemporanea è generata quindi da due ordini di fattori. In primo luogo, il graduale e inarrestabile emergere delle caratteristiche più proprie dell’esistenza, e soprattutto della sua ineliminabile temporalità. Trova così compimento un processo iniziato con il Cristianesimo, ma, anche al di là di esso, riportabile a uno dei caratteri fondamentali della vita, cioè la tendenza a comprendere se stessa, a ritrovarsi infine al di là dello smarrimento in occupazioni e compiti molteplici aventi come proprio centro l’ente difforme da sé. Allo stesso tempo, tuttavia, la mancanza di un’elaborazione concettuale adeguata a tenere il passo con le nuove prospettive apertesi alla comprensione dell’esistenza. Si tratta di una mancanza non dovuta a motivi casuali: il pensiero occidentale, sin dalle sue origini greche, si è rivolto principalmente all’ente intramondano, con il fine di definirlo (di fissarne l’identità) e in questo modo progressivamente di controllarlo. Da questo squilibrio tra il venire in luce di nuovi problemi e l’impossibilità di inquadrarli tramite la concettualità in uso sorgono tutte le aporie del pensiero contemporaneo. Via d’uscita è pensare fino in fondo la differenza fra ente e esistenza (Dasein), ovvero riconoscere il carattere peculiare dell’unico ente in grado di porre la domanda sull’essere. E la caratteristica essenziale del Dasein è il non essere determinabile in quanto qualcosa, il suo continuo divenire se stesso nella propria esistenza temporale: L’Esserci non è una semplice presenza che, in più, possiede il requisito di potere qualcosa, ma, al contrario, è prima di tutto un esser-possibile […]. La possibilità come esistenziale non significa un poter-essere indeterminato del genere della “libertà di indifferenza” (libertas indifferentiae). L’Esserci, in quanto emotivamente situato nel 11
Questa oscillazione è evidente soprattutto nei corsi sulla fenomenologia della vita religiosa, GA 60, pp. 9-18 e pp. 116-125, tr. it. cit, pp. 41-51 e pp. 158-167; si veda anche GA 58, pp. 61-62, sul Cristianesimo come primo emergere della tematica della vita e della Selbstwelt , e sull’ellenizzazione del Cristianesimo come momento a partire da cui categorie adatte solo all’interpretazione teoretica dell’essere dell’ente vennero utilizzate per la vita e il mondo del sé.
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suo essere stesso, è già sempre insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel poter essere-che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune; rinuncia incessantemente a possibilità del suo essere, riesce a coglierne talune oppure fallisce. Ciò significa che l’Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo12.
Divenire se stesso, divenire ciò che già si è, non vuol dire assoluta libertà di scegliere e di determinarsi. Essa, al contrario, equivarrebbe alla posizione di un osservatore oggettivo di fronte a possibilità tra di loro equivalenti. Pensare come possibile una tale libertà assoluta significa, ancora una volta, trasferire al Dasein le categorie interpretative adeguate all’ente intramondano: l’esistenza continuerebbe a essere una forma trascendentale rispetto alla quale le determinazioni singole sarebbero contingenti, le scelte equivalenti tra di loro. Si ritornerebbe ai problemi connessi con il relativismo. Comprendere la concretezza dell’esistenza significa invece prendere atto, senza voler eliminare questo aspetto, del suo muoversi sempre in un ambito di possibilità già date, sulle quali essa non ha potere, che essa non sceglie, e che non può scegliere di cambiare. Da tali possibilità ciascuna esistenza concreta è resa quella che è. Nella maggior parte dei casi, l’esistenza si muove inconsapevolmente all’interno delle proprie possibilità, non riflette né sul loro carattere né sulla loro provenienza, le assume semplicemente come un dato di fatto, per occuparsi d’altro. Ma l’esistenza ha sempre in sé la possibilità di ripercorrerne genesi e motivazione, assumendole consapevolmente, e giungendo alla comprensione di sé, che è cosa completamente diversa dall’autocoscienza: La decisione, in cui l’Esserci ritorna su se stesso, apre le singole possibilità effettive di un esistere autentico a partire dall’eredità che essa, in quanto gettata, assume. Il ritorno deciso all’esser-gettato porta con sé un tramandamento di possibilità ricevute, benché non necessariamente in quanto ricevute […]. Soltanto l’anticipazione della morte elimina ogni possibilità casuale e “provvisoria”. Solo l’essere libero per la morte offre recisamente all’Esserci il proprio fine e installa l’esistenza nella sua finitudine. La finitudine, una volta afferrata, sottrae l’esistenza alla molteplicità caotica delle possibilità che si offrono immediatamente (i comodi, le frivolezze e le superficialità) e porta l’Esserci in cospetto della nudità del suo destino. Con questo termine designamo lo storicizzarsi originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica, storicizzarsi in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta13. 12 Cfr. Sein und Zeit (1927), tr. it. 19762, p. 183. 13 Cfr. Essere e tempo, cit., p. 460.
a cura di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano
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La dimensione vera dell’esistenza non è quella solipsistica, bensì la comunità, il popolo, come unità organica di possibilità storiche sviluppate e tramandate. Da questa prospettiva, l’equivalenza delle diverse opzioni culturali non è che un falso problema generato da una concettualità non adeguata all’ambito che vuole comprendere. Ciascuna esistenza non sarebbe tale, ma solo una vuota determinazione formale, senza un legame privilegiato con determinate possibilità. La sua essenza è aver da essere, ma all’interno della propria finitezza. In Essere e tempo, Heidegger non affronta mai esplicitamente il problema costituito dalla gettatezza delle possibilità storiche, e dalla loro eventuale legittimazione; esse vengono considerate a partire dalla prospettiva del Dasein, che, nell’esistenza autentica, può comprenderle e appropriarsene (ripeterle, generarle nuovamente in sé), così come, nell’esistenza inautentica, può muoversi in esse inconsapevolmente: Certamente solo fin che l’Esserci è [ist ], cioè fin che è la possibilità ontica della comprensione dell’essere, “c’è” [gibt es] essere. Se l’Esserci non esiste, allora non “è” né l’indipendenza né l’“in sé”. Allora queste espressioni non sono né comprensibili né incomprensibili; e l’ente intramondano non è né scopribile né tale da poter esser-nascosto. Allora non si può dire né che l’ente ci sia né che non ci sia. È invece ora, ossia fin che c’è la comprensione dell’essere e quindi la comprensione della semplice-presenza, che si può dire che l’ente vi sarà anche allora14.
Negli anni successivi, questa impostazione verrà completamente rovesciata.
3. I dentità assoluta: antropologia Un cambiamento tutt’altro che di poco conto nella riflessione heideggeriana comincia a verificarsi già poco dopo Essere e tempo. Negli anni precedenti, come si è visto, le aporie del pensiero e della coscienza contemporanee erano state ricondotte all’indebita assolutizzazione di una possibilità della vita (o dell’esistenza) fra le altre, ovvero la comprensione teoretica. L’esistenza stessa, nella sua dimensione temporale, era stata interpretata con categorie del tutto inadatte, perché finalizzate non solo alla com14
Ivi, p. 262; cfr. anche ivi, pp. 281-282: «“C’è” [ gibt es] essere, non ente, soltanto in quanto la verità è [ist ]. Ed essa è soltanto in quanto e fin tanto che l’Esserci è. Essere e verità “sono” cooriginari. Che cosa significhi l’affermazione che l’essere “è”, posto che l’essere debba esser distinto da ogni ente, può essere discusso concretamente solo se sono stati chiariti il senso dell’essere e la portata della comprensione dell’essere in generale».
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prensione dell’ente ma a un determinato tipo di comprensione dell’ente. La vita, o il Dasein, proprio per i loro caratteri costitutivi, mostravano la tendenza a interpretarsi a partire dall’ente, e da questo erano nate le scienze positive che avevano l’esistenza umana quale loro oggetto, l’antropologia e la psicologia innanzi tutto. La visione antropologica e psicologica dell’uomo, in questo contesto, è vista come conseguenza di una determinata strutturazione del pensiero15; l’elaborazione delle categorie della vita prima, l’analitica esistenziale poi, avrebbero dovuto soppiantarla. Dopo Essere e tempo, con sempre maggiore decisione l’antropologia si trasforma nel carattere fondamentale del pensiero moderno, e ovviamente nella causa delle sue aporie. Uno degli esempi più chiari a riguardo è il corso del semestre estivo 1929 sull’idealismo tedesco: È risultato questo: tale tendenza fondamentale [all’antropologia] non ha come suo scopo semplicemente quello di suscitare un apprezzamento particolare verso tutto ciò che è umano; essa invece pretende anche di decidere cosa in generale debbano significare realtà, essere e verità. Con questo si è detto anche che essa vuole decidere al suo interno anche la questione fondamentale della metafisica. Tutto ciò avviene certamente in maniera indeterminata e a tastoni, e tuttavia è ben chiara la direzione di questa tendenza e di questa rivendicazione. Sì, la seconda tendenza fondamentale [dell’epoca contemporanea] – quella alla metafisica – oggi in linea generale si mostra prevalentemente all’interno della tendenza all’antropologia. Per questo non è stata casuale la nostra scelta di prenderla in considerazione per prima16.
Per questa sua pretesa, forse non completamente consapevole ma non per questo meno efficace, di decidere, a partire dall’uomo, della realtà, dell’essere e della verità, la tendenza all’antropologia dell’epoca contemporanea è radicalmente diversa da qualsiasi umanesimo o neoumanesimo: non si tratta della rivendicazione di una dignità specifica e peculiare dell’uomo, ma della riconduzione all’uomo di tutto ciò che è. L’uomo diventa identità assoluta, pieno possesso di sé, e vede il diverso come una propria oggettivazione, che si presenta nella forma di un’esteriorità destinata ad essere cancellata dall’autocoscienza: Si tratta di un evento fondamentale di fronte al quale misure del genere risultano inappropriate, di fronte al quale falliscono e non possono che fallire tutti i programmi 15
Per questa prima interpretazione, precedente a Essere e tempo, cfr. Prolegomena zur Ge schichte des Zeitbegri ffs (1925), GA 20, a cura di P. Jaeger, Klostermann, Frankfurt a. M. 1979, 19882 (edizione riveduta), 19943 (edizione riveduta), tr. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla stori a del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, pp. 143-164. 16 Cfr. M. Heidegger, GA 28 (=Der deutsche Idealismus), p. 21.
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neoumanistici, che siano desunti dall’antichità o da qualsivoglia altra parte, perché la nostra storia non ha ancora mai sperimentato nulla del genere17.
Eppure, nonostante l’assolutizzazione dell’uomo rispetto all’essere, nell’epoca contemporanea la domanda su cosa l’uomo sia continua a risuonare senza trovare una risposta adeguata18. Questo perché l’uomo comprende se stesso come un ente, e solo a questo patto può assolutizzare se stesso, perché il pensiero rivolto all’ente è il pensiero che determina qualcosa in quanto qualcosa, secondo un’essenza definita e in ogni momento verificabile. Alla domanda sull’uomo si cercano risposte tramite la psicologia, senza poter celare il sospetto che essa manchi completamente il bersaglio: Dato che la spiegazione psicologica deve diventare l’alfa e l’omega, anche ogni risposta alla domanda sull’essenza dell’uomo viene a sua volta di nuovo spiegata psicologicamente. La si considera come nata da determinate attitudini spirituali e da istinti inconsci. E con questo la si è già privata di ogni forza19.
Come si è arrivati a questo cambiamento di prospettiva nella riflessione heideggeriana? Perché l’analitica esistenziale non rappresenta più una risposta sufficiente alla domanda su che cosa sia l’uomo, o almeno non in grado di opporsi efficacemente al predominio dell’antropologia? La comprensione di sé dell’analitica esistenziale veniva inevitabilmente a trovarsi di fronte alla gettatezza delle possibilità del Dasein. L’impossibilità per l’esistenza di trarre da sé le proprie possibilità doveva tradursi nella consapevolezza della propria costitutiva temporalità e quindi anche del proprio limite. Ma si dà un altro possibile esito: la capacità di riappropriarsi delle proprie possibilità, di ripercorrerne in sé la genesi, può essere confusa con la capacità di autolegittimarsi, di trarre da sé le possibilità nelle quali si è gettati. È questa la tentazione dell’identità assoluta con sé, del pieno possesso, del pieno controllo, della piena trasparenza: il progetto perseguito dall’idealismo tedesco. Questo progetto è antropologia. L’assolutizzazione del teoretico appare da questo punto di vista in una luce diversa: non si tratta della tendenza a interpretrarsi a partire da categorie adeguate solo all’ente, ma di un progetto di controllo sull’essere stesso, che viene considerato, esclusivamente, essere dell’ente e null’altro che essere dell’ente, determinabile dal pensiero. 17 18
Ivi, p. 18. Ivi, pp. 16-17: «E tuttavia, nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Per nessun’altra epoca l’uomo è stato così problematico come lo è per la nostra». 19 Ivi, p. 17.
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4. Differenza assoluta: nuovo inizio del pensiero? In due saggi del 1957, raccolti nel volumetto I dentità e differenza, Heidegger procede alla decostruzione del principio di identità, interpretato ormai come cardine del pensiero metafisico e onto-teo-logico dell’Occidente. Egli ripercorre la genesi del principio d’identità nella sua forma moderna e contemporanea rintracciandone le origini nel pensiero greco, e questo con un duplice scopo; da un lato, esplicitare attraverso quale processo e quali motivazioni (vitali) esso abbia assunto la sua configurazione più nota; dall’altro, mostrare che la formulazione originaria di tale principio è tutt’altro che assimilabile alla sua forma ultima. Anzi, nella formulazione originaria era presente qualcosa che il pensiero successivo ha gradualmente dimenticato, e che potrebbe rappresentare l’ambito di un nuovo inizio del pensiero. Il pensiero del nuovo inizio, infatti, sarà il totalmente altro dal primo, ma dovrà rivolgersi a ciò che nell’origine era già, sebbene posto poi a margine dalla nascente metafisica: Il principio di identità asserisce qualcosa circa l’identità? No, per lo meno non immediatamente. Piuttosto il principio presuppone già che cosa voglia dire identità e di che cosa essa faccia parte. Come conseguire informazioni su questa presupposizione? Ce le fornisce il principio di identità stesso se ascoltiamo con cura la sua nota fondamentale, se lo seguiamo col pensiero anziché limitarci a ridire senza pensare la formula “A è A”. In realtà la formula va letta così: A è A. Che cosa cogliamo ascoltando? In questo “è” il principio dice il modo in cui l’ente è, ossia: esso stesso con se stesso lo stesso. Il principio d’identità parla dell’essere dell’ente. Come legge del pensiero il principio vale solo in quanto è una legge dell’essere, una legge che dice: ad ogni ente appartiene in quanto tale l’identità, l’unità con se stesso. Ciò che il principio di identità, colto a partire dalla sua nota fondamentale, asserisce, è esattamente ciò che l’intero pensiero europeo-occidentale pensa, e cioè che l’unità dell’identità costituisce un tratto fondamentale nell’essere dell’ente20.
Il principio di identità pensa l’essere dell’ente, o meglio, pensa l’essere unicamente come essere dell’ente: La metafisica pensa l’ente in quanto tale, ossia in generale. La metafisica pensa l’ente in quanto tale, ossia nella sua totalità. La metafisica pensa l’essere dell’ente tanto nell’unità di ciò che è più generale, ossia di ciò che è ovunque equi-valente [Gleich-Gültigen], unità che è ricerca del fondo [ergründende Einheit ], quanto nell’unità della totalità, ossia di ciò che sta al di sopra di tutto, unità che è fondazione 20
Cfr. M. Heidegger, Der Satz der I dentität , in I dentität und Di fferenz , Neske, Pfullingen 1957, pp. 16-17, tr. it. I l pri ncipio di identità, in I dentità e differenza, a cura di U.M. Ugazio, in «aut aut», 187-188, gennaio aprile 1982, pp. 5-6. Traduzione modificata.
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giustificante [begründende Einheit ]. Così l’essere dell’ente sin dall’inizio è pensato come fondamento che fonda21.
La metafisica, in quanto pensiero dell’essere dell’ente, lo considera nei suoi tratti comuni, in tutte le caratteristiche formali che consentono di definirlo, di comprenderlo e di gestirlo come tale nell’ambito della prassi. Questo fornisce all’ente il suo fondamento formale, la definizione di ciò che esso è. E considera l’ente nella sua totalità, che a sua volta dà a ciascun ente la fondazione ontologica, in quanto totalità strutturata mai identificabile con la mera somma dei singoli enti. L’identità è la connotazione fondamentale dell’essere dell’ente. La parola-chiave in questo passo è il termine gleich-gültig , in cui si condensa il carattere del principio d’identità e allo stesso tempo la sua problematizzazione. Heidegger vi fa giocare due significati opposti, quello di “ugualmente valido”, ovvero di valido per tutto l’ente, e quello, del resto più comune dal punto di vista linguistico, di “equivalente”, ossia di “indifferente”. Si riaffaccia ancora, tutt’altro che risolto, anzi, nella prospettiva heideggeriana, aggravato dagli eventi intercorsi, il problema emerso già negli anni ’20, ovvero la straniante vicinanza fra ciò che è universalmente valido e ciò che non ha più valore in quanto indifferente, fra ricerca del fondamento assoluto e relativismo. Ma all’origine del pensiero occidentale Parmenide pensa l’identità in termini diversi dalla metafisica: «Lo stesso è infatti percepire (pensare) e altrettanto anche essere». Qui cose differenti, pensare ed essere, sono pensate come lo stesso. Che cosa vuol dire questo? Qualcosa di completamente diverso rispetto a quella che noi conosciamo come dottrina della metafisica, che cioè l’identità appartenga all’essere. Parmenide dice: l’essere rientra in un’identità22.
L’identità in senso originario non è una connotazione dell’essere dell’ente, per quanto l’interpretazione metafisica non sia né casuale né arbitraria, bensì una possibilità che si è assolutizzata nascondendo le altre, e ha prevalso perché l’esistenza in primo luogo è rivolta fuori di sé, presso l’ente. L’identità in senso originario non è la connotazione statica di qualcosa in quanto qualcosa: è prima, infatti, della possibilità stessa di determinare qualcosa in quanto qualcosa. L’identità in senso originario è l’appartenersi e l’appropriarsi reciproco di essere e pensiero, l’apertura di determinate 21
Cfr. M. Heidegger, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik , in I dentität und Differenz , cit., p. 55., tr. it. La costituzione onto-teo-logica della metafisica, in I dentità e differen za, cit., p. 27. Traduzione modificata. 22 Der Satz der I dentität , cit., p. 18, tr. it. cit., p. 6. Traduzione modificata.
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possibilità storiche, che proprio da questo evento originario provengono: La differenza di ente ed essere è l’ambito all’interno del quale la metafisica, il pensiero occidentale nella totalità della sua essenza, può essere ciò che è. Il passo indietro s’incammina quindi verso l’essenza della metafisica partendo dalla metafisica. […] Il passo indietro dalla metafisica all’essenza della metafisica è, visto a partire dal presente e assunto a partire dalla visione che di tale presente abbiamo, il passo dalla tecnologia e dalla descrizione e interpretazione tecnologiche dell’epoca attuale all’essenza della tecnica moderna, essenza che rimane ancora da pensare23.
Riportare la metafisica alla sua origine dimenticata è l’unico modo per comprenderla veramente come destino storico cui il pensiero non poteva sottrarsi e allo stesso tempo per decostruirla, metterla in discussione, minarne efficacemente le pretese di assolutezza e di autolegittimazione. Solo in questo modo potrebbe cominciare a vacillare la visione dell’ente come oggettività da controllare, calcolare e modificare a proprio vantaggio consolidatasi a partire dalla nascita della scienza moderna e culminata nel dominio della tecnica nell’età contemporanea: Nessuno può sapere se, quando, dove e come questo passo del pensiero si dispiegherà in un cammino vero e proprio (utilizzato nello Ereignis), in un passaggio, in un cantiere dove si costruisca il cammino. Potrebbe accadere che il dominio della metafisica piuttosto si consolidi, si consolidi nella forma della tecnica moderna e dei suoi imprevedibili, forsennati sviluppi. Potrebbe anche accadere che tutto ciò che si trova sul cammino del passo indietro venga soltanto asservito alla metafisica non ancora estinta e rielaborato come risultato di un pensiero rappresentativo24.
L’identità in senso originario ha dunque la caratteristica del poter-essere, non della determinazione esclusiva: è la scaturigine delle possibilità storiche di essere e pensiero, le quali, dal punto di vista dell’uomo (o del Dasein) sono possibilità gettate, che ci costituiscono senza che noi stessi ne possiamo disporre. La metafisica stessa è una possibilità gettata, e appropriarsene è per Heidegger ancora l’unico modo di procedere poi alla sua limitazione. Ma l’appropriazione non implica di per sé la nascita del nuovo pensiero, anch’esso possibilità gettata, che l’uomo non può prendersi da sé. Ma l’identità in senso originario ha anche la caratteristica dell’esseregià: il nuovo inizio del pensiero non sarà il totalmente altro dal primo, ma porterà in luce possibilità che nel primo inizio già erano: se l’origine rima23
Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik , cit., pp. 47-48, tr. it. cit., pp. 22-23.
Traduzione modificata. 24 Ivi, p. 71, tr. it. cit., p. 36. Traduzione modificata.
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ne sempre futuro, il futuro è sempre nell’origine, come lo stesso Heidegger afferma anche sulla scorta dell’inno I l Reno di Hölderlin: «…Poiché / come cominciasti, /così rimarrai»25. L’identità in senso originario viene dunque ad assumere proprio le stesse caratteristiche fondamentali che l’analitica esistenziale attribuiva al Dasein. Ma allora, non siamo nuovamente di fronte, perfino nell’esito ultimo del pensiero heideggeriano, a un’ulteriore, estrema antropologizzazione dell’essere, o dell’origine del pensiero? L’essenza dinamica dell’identità, come Heidegger sottolinea ripetutamente – lo si è visto poco sopra ad esempio nel corso universitario del semestre estivo del 1929 su L’idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel) e l’attuale problematica filo sofica –, ha iniziato ad emergere proprio con l’idealismo tedesco, ma solo
per essere immediatamente assorbita nell’identità assoluta del fondamento metafisico. L’idea di un nuovo inizio del pensiero che ritorni all’origine rivolgendosi a possibilità rimaste inespresse (impensate) o portate a esiti ormai esauriti (la metafisica) si sottrae probabilmente all’accusa di fantasticare di possibilità arbitrarie delle quali in realtà non si saprebbe nulla, ma non a quella di voler considerare ancora una volta l’intera storia del pensiero come già data, sebbene in una datità che eternamente sfugge agli uomini e che non è in loro potere determinare. La stessa idea dell’agire come portare a compimento ciò che è, ovvero l’essere, espressa nella Lettera sull’Umanismo26, che dovrebbe portare l’esistenza umana alla piena consapevolezza del carattere gettato delle possibilità in cui vive, all’impossibilità di una loro autolegittimazione e alla consapevolezza del limite, è pericolosamente vicina a scivolare nel compiacimento estetico rispetto alla situazione spirituale del presente, e all’abbandono dell’essere che ne è uno dei tratti costitutivi. Allora le diverse possibilità concrete aperte all’uomo, che egli può scegliere o rifiutare nella sua esistenza effettiva, diventano ancora una volta equivalenti, indifferenti, e probabilmente anche di questa condizione emotiva vive e si alimenta l’essenza della tecnica.
25
Cfr. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del li nguaggio, in I n cammino verso il lin guaggio, tr. it. a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 88. 26 Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 267.
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Abstract This article analyses Heidegger’s approaches to the problem of identity from the early university lecturers of the Twenties until Identity and difference , 1957. First of all, he was faced with the crisis of identity of Western thought arising from historicism and relativism: his solution was the rejection of timeless universali ty in favour of li fe and its categories. Gradually, this evolved in a reflection on the identity of the human exi stence in its difference from every fixed essence. I n a third form, taking place after Being and Time , identity, now seen as absolute, becomes the main character of metaphysics, originated from an anthropological dri ft of the thought. I n Identity and difference H. distin guishes between a metaphysical and an initial meaning of identity: nevertheless he ascribes to the initial i dentity the same characters previously attributed to the exi stence: is that still anthropology, and still metaphysics?
L’identità in questione
Il prima to dell’a lterità e le metamorfosi dell’identità in Emmanuel Levinas Fra ncesco Ca mera
La riflessione sulla coppia concettuale «alterità/identità» ha attraversato, con inevitabili trasformazioni, l’intera storia della metafisica occidentale. Già in Platone la nozione filosofica di alterità viene scoperta in rapporto con la categoria di identità e giustificata nel contesto della teoria dei «generi sommi» dell’essere esposta nel Sofista1. Qui il dialogare platonico ha di mira la confutazione dell’ontologia eleatica, attraverso un sottile ragionamento che arriva ad introdurre l’«essere altro» inteso come to thateron, come diversità e differenza in senso relativo e non assoluto. Nella cornice della nuova concezione dinamica dell’essere, che funge da concetto basilare, l’alterità non esclude l’identità, ma può convivere accanto ad essa in un rapporto di distinzione reciproca. Nel Medioevo il diverso (aliquid ) viene posto accanto all’unum nel contesto della dottrina dei trascendentali, come specificazione del concetto ontologico di ente. Anche nella ripresa moderna ad opera di Hegel l’alterità viene ripensata all’interno della più generale nozione metafisica di essere. Nella cornice della dialettica l’essere qualitativamente determinato (il qualcosa) si trova sempre in relazione con l’altro da sé e proprio il suo «non essere l’altro» lo costituisce in quanto tale nella sua identità, particolarità e limitatezza2. 1
Plato, Soph., 254b-259d, spec. 254e, dove viene introdotta la coppia concettuale «identico» (to tauton) e «diverso» (to thateron). Per un approfondimento rimandiamo alla voce Ander sheit/Anderssein dell’Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, vol. 1, Schwabe, Basel 1971, coll. 297-300. Si veda anche il documentato studio di W. Beierwalters, Identità e differenza, trad. it. di S. Saini, Vita e Pensiero, Milano 1988. 2 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di F. Nicolin e O. Pöggeler, Meiner, Hamburg 1975, p. 112 [Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, Laterza, Bari 1971, vol. 1, p. 98], dove si afferma che l’«essere altrimenti» (Anderssein) è ciò che determina la qualità, ma si sostiene anche che «l’essere della qualità come tale, di fronte a questo riferimento ad altro, è l’essere a sé», ovvero l’identità ( An- sich-sein). TEORIA 2006/1
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Come si può constatare da questi brevi accenni, sia per Platone sia per Hegel la riflessione sull’alterità si accompagna a quella sull’identità, tanto che i due concetti sembrano essere strettamente correlati. Questa impostazione costituisce lo sfondo delle principali opere filosofiche di Levinas, l’autore che più di altri nella seconda metà del Novecento ha posto al centro delle sue riflessioni il problema dell’alterità nella molteplicità semantica delle sue possibili manifestazioni3. Già ad una prima lettura nelle sue opere principali assistiamo ad una profonda critica dell’impostazione tradizionale, che arriva a porre l’alterità sganciata dall’essere e indipendente dall’identità. L’alterità non è più pensata come «essere altro» (Anderssein), come categoria ontologica neutra, ma viene descritta concretamente a partire dallo scenario umano: a partire dall’epifania del visage d’autrui , che si manifesta «per sé» con autonomi semantemi e contenuti etici senza il bisogno di ulteriori argomentazioni o giustificazioni. Inoltre, ad una lettura più approfondita, nelle opere filosofiche levinassiane è presente anche il tentativo di approfondire e ridisegnare la nozione di identità; essa può assumere un significato non esclusivamente negativo se viene sganciata dall’essere e subisce una profonda torsione che la capovolge in alterità. Il contributo di Levinas quindi non è limitato ad una strenua difesa del primato dell’alterità al di fuori da ogni rapporto con l’identico, ma – in una forma paradossale e provocatoria – coinvolge anche la nozione di identità lungo un percorso che non esita a mettere in discussione l’impostazione ontologica del pensiero tradizionale nel suo complesso e non si limita affatto a fissare entrambi i termini in significati univoci tra loro contrapposti.
1. Lo scenario dell’alterità e dell’identità La tesi principale dell’originale proposta filosofica di Levinas si può riassumere nel primato dell’etica, nel tentativo di proporre un’autonoma trattazione dell’obbligazione morale che non ha bisogno di venire giustificata da alcuna argomentazione ontologica. Come egli afferma esplicita3
Per una definizione concettuale della nozione di alterità rimandiamo allo studio sistematico J. de Finance, A tu per tu con l’altro. Saggio sull’alterità, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004. Per una visione d’insieme dei differenti approcci a questo tema nella storia della filosofia occidentale è utile la ricostruzione di G. Cicchese, I percorsi dell’altro. Antropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999. Per le discussioni nel contesto del dibattito contemporaneo si veda P.A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano 2004.
Il primato dell’alterità e le metamorfosi dell’identità
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mente, «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima»4, una tesi che non intende ordinare gerarchicamente le diverse discipline in un sistema, ma intende sostenere che soltanto dalla prospettiva morale può acquistare senso e valore lo svolgimento del discorso filosofico e l’intero rapporto con la realtà5. A questa tesi Levinas perviene attraverso un’attenta descrizione fenomenologica della relazione intersoggettiva, che intende ridefinire i rapporti di ciascun uomo con gli altri (col prossimo) in termini esclusivamente etici . Lo «scenario», in cui viene rintracciata la manifestazione originaria dell’alterità e in cui viene condotto un radicale ripensamento dell’identità, è dunque costituito dalla trama concreta delle relazioni umane, dall’ambito della «socialità». In questo contesto identità è innanzitutto ciò che ostacola la socialità ed ha quindi un significato prevalentemente negativo: è per lo più sinonimo di autonoma posizione dell’io, che attraverso la propria (auto)identificazione assume un ruolo egemone, esclusivo e separato nei confronti di ogni diversità. L’alterità invece è manifestata immediatamente dall’altro uomo e trova un rimando verticale all’infinito verso l’alterità assoluta, verso la trascendenza del totalmente Altro, nella cui «traccia» si trova collocato l’umano. Si tratta di un’impostazione che si segnala per la sua originalità, ma anche per un’inevitabile paradossalità dovuta al fatto che all’interno della relazione tra l’io e l’altro i due termini chiave – alterità e identità – sono considerati da un lato radicalmente separati e contrapposti, dall’altro sono mantenuti in una relazione feconda, che però rimane sempre sproporzionata e asimmetrica. Questa paradossalità si registra già nei primi saggi in cui viene descritta la relazione intersoggettiva a partire dall’incontro col visage d’autrui . Levinas insiste sul fatto che la relazione con l’altro uomo non può mai essere ridotta ad un rapporto di tipo intellettualistico secondo lo schema 4
E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’exteri orité, Nijhoff, La Haye 1961, p. 281 [Totalità e Infinito. Saggio sull’esteri ori tà, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 313]. Si veda anche il saggio programmatico «L’Éthique comme philosophie première», in AA.VV., Justification de l’éthique, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1982, pp. 41-51. Nelle analisi che seguono abbiamo spesso fatto riferimento all’ampia monografia di G. Ferretti, La filo sofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996; inoltre abbiamo tenuto presente anche il lavoro di G. Bailhache, Le sujet chez Emmanuel Levinas. Fragili té et subjectivité, Puf, Paris 1994. 5 Come si afferma in E. Levinas, La pensée juive au jourd’hui (1961), in Id., Difficile liberté. Essais sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 19833, p. 209 [Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, trad. it. di S. Facioni, J aca Book, Milano 2004, p. 199]: «il senso del reale si comprende in funzione dell’etica».
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gnoseologico basato sulla distinzione tra soggetto e oggetto. Altri (Autre) è innanzitutto l’interlocutore al quale rivolgo un saluto senza conoscerlo, col quale socializzo in una banale conversazione; ma soprattutto è visage che «significa altrimenti» rispetto alle astratte concettualizzazioni perché istituisce «una relazione che non è un potere»6. La relazione intersoggettiva viene descritta a partire dal «faccia a faccia» in cui lo sguardo intenziona il volto; quest’ultimo però, proprio perché è manifestazione di alterità, è anche «un modo irriducibile secondo il quale l’essere può presentarsi nella sua identità»7. Il manifestarsi del visage diventa quindi il luogo privilegiato in cui alterità e identità si incrociano e si ordinano in un rapporto che sembra assumere la figura di un chiasmo. In questi primi abbozzi l’alterità d’altri non si contrappone tout-court all’identità. Levinas parla anzi di un’identità personale e positiva del volto, che nell’incontro si impone come alterità irriducibile e che mette a tacere le pretese egoistiche ed egemoniche dell’io. I caratteri di questa identità originaria coincidono con i tratti propri del volto: esteriorità, indipendenza, autosignificanza e soprattutto inviolabilità. Infatti, il volto oppone una resistenza assoluta al possesso e alla sua forma estrema di negazione rappresentata dalla tentazione dell’omicidio. Scrive Levinas: Il volto è inviolabile; gli occhi assolutamente senza protezione, la parte più nuda del corpo umano, offrono tuttavia una resistenza assoluta al possesso, resistenza assoluta in cui si inscrive la tentazione dell’omicidio: tentazione di una negazione assoluta. L’altro è il solo essere che si può essere tentati di uccidere. La tentazione dell’omicidio e l’impossibilità dell’omicidio costituiscono la visione stessa del volto. Vedere un volto è già intendere «Tu non ucciderai»8.
Il comandamento che vieta l’omicidio e la violenza «si inscrive sul volto e costituisce la sua alterità (alterité)»9. Nella relazione l’io viene trasporta6
E. Levinas, L’ontologie est-elle fondamentale? (1951), in Id., Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 13-24; la citazione è a p. 24 [ Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, trad. it. di E. Baccarini, J aca Book, Milano 1998, pp. 29-40; la citazioneè ap. 40]. 7 E. Levinas, Éthique et esprit (1952), in Id., Difficile liberté, cit., pp. 15-24; la citazione è a p. 22 [trad. it. cit., pp. 17-25; la citazione è p. 23]: «Il volto non è l’insieme di naso, fronte, occhi, ecc., è tutto questo, ovviamente, ma assume il senso di volto attraverso la dimensione nuova che inaugura nella percezione di un essere. Attraverso il volto l’essere non è solo catturato nella sua forma e offerto alla mano: è aperto, si installa in profondità e, in tale apertura, si presenta in qualche modo in persona. Il volto è una modalità irriducibile in cui l’essere può presentarsi nella sua identità (identité). Le cose non si presentano mai in persona e, in fin dei conti, non hanno identità». 8 Ibidem. 9 E. Levinas, Le moi et la totalité (1954), in Id., Entre nous, cit., pp. 25-52; la citazione è a p. 48 [trad. it. cit., p. 64].
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to verso un «inoltrepassabile infinito in cui si avventura e naufraga l’intenzione omicida»10. Attraverso queste descrizioni fenomenologiche Levinas va alla ricerca di una relazione tra volti che impedisca ogni forma di assimilazione dell’esteriorità e di annullamento dell’alterità. Nell’incontro l’altro uomo si presenta come interlocutore che mi guarda e mi parla comunicando un insegnamento, un imperativo o un comando eteronomo. D’altro canto l’io viene descritto come interiorità centrata su se stessa, che non si preoccupa di porsi in rapporto con l’esteriorità. Anche questo io ha una sua «identità», che però è di segno opposto a quella di altri e che lo costituisce essenzialmente come «medesimo» (Même)11. Se si pensa l’io avulso dalla trama della relazione con altri, al di fuori del rapporto con l’esteriorità e con la socialità, esso è caratterizzato da una forma di identità negativa (o «cattiva identità»), intesa come «medesimezza», «ipseità», interiorità, autocoscienza. Tutti questi termini stanno ad indicare la chiusura nei confronti dell’esterno, l’esclusivo riferimento a sé, che identifica l’io come totalità autosufficiente e proprio per questo colpevole o usurpatrice. Infatti, «la coscienza del mio io non mi rivela alcun diritto. […] Essere per sé è già sapere la mia colpa commessa verso l’altro»12. All’interno della relazione intersoggettiva l’io può invece acquistare una sua specifica singolarità, che però è una conseguenza dell’appello che il vi sage d’autrui gli rivolge, obbligandolo a rispondere. L’uomo, infatti, può diventare una singolarità irriducibile ed inalienabile – un individuum – solo quando risponde all’appello dell’altro13. In questo caso la singolarità si distingue dall’identità negativa, ma non ha nulla in comune con l’identità dell’altro uomo. Altri, infatti, appartiene ad un genere diverso: non è una «riedizione dell’io» e nella sua qualità di altro si situa in una dimensione di superiorità o di altezza che comunica un insegnamento dotato di autorevolezza. L’identità del volto, il suo essere autonomo, si intreccia profondamente con la sua alterità. Quest’ultima non ha affatto bisogno dell’io, mentre la singolarità responsabile sembra essere il risultato del rapporto con altri e 10 11 12
Ivi, p. 24 [trad. it. cit., p. 25]. E. Levinas, Le moi et la totalité, cit., p. 26 [trad. it. cit., p. 38]. E. Levinas, Une religion d’adultes (1957), in Id., Difficile liberté, cit., pp. 25-41; la citazione è a p. 33 [trad. it. cit., pp. 27-41; la citazione è a p. 34]. 13 E. Levinas, Le moi et la totalité, cit., p. 38 [trad. it. cit., p. 54]: «L’uomo è una singolarità. Singolarità differente da quella degli individui che si sussumono sotto un concetto […]. L’io è ineffabile perché parlante per eccellenza; perché risponde, responsabile». Viene qui introdotta la fondamentale determinazione etica della responsabilità.
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viene a dipendere dalla sua irruzione. Per questa ragione Levinas può affermare che nella ricerca dell’identità autentica «l’altro non pesa mai sul medesimo» e che solo la presenza del volto può essere detta in senso positivo e primario «identica». «Il volto è l’identità stessa di un essere. Egli vi si manifesta a partire da se stesso, senza concetto […]. La presenza sensibile, qui, si desensibilizza, per lasciare apparire direttamente colui che si riferisce unicamente a sé, l’identico [l’identique]»14. Da queste parole emerge chiaramente come il visage d’autrui , che si manifesta autonomamente «a partire da se stesso», sia per Levinas il luogo epifanico che attesta il primato indiscutibile dell’alterità e in cui diventa possibile conferire un significato positivo all’identico, ripensando entrambi i termini al di fuori di un orizzonte sostanzialistico o ontologico. Come si può notare, in questo ripensamento è avvenuto un capovolgimento dell’impostazione tradizionale; l’alterità non è più «esser altro» e la vera identità non ha origine nell’io (nell’interiorità del soggetto alla prima persona singolare), ma nel volto d’altri. Alla descrizione fenomenologica la relazione intersoggettiva si presenta quindi come uno scenario in cui ciascun io si trova esposto ad un interlocutore altro che, manifestando se stesso come alterità, mette radicalmente in discussione l’identità egoistica. In questo confronto l’io – il moi haïssaible con la sua «cattiva identità» – viene chiamato a subire una profonda trasformazione in senso etico. Lo scenario della relazione intersoggettiva permette quindi a Levinas di introdurre il primato dell’alterità sull’identità, ma al tempo stesso di ripensare anche la pluralità significante di entrambi i termini e i loro possibili intrecci.
2. L’anello di Gige e la «cattiva identità» Il tentativo di pensare «altrimenti» la relazione al di fuori delle categorie ontologiche costituisce il tema principale di Totalité et Infini . In quest’opera viene criticata in forma sistematica la concezione del «soggettoio» (del «medesimo» o dello «stesso», che tende a permanere chiuso nel suo essere identico) e viene rivendicato il primato dell’altro uomo portatore di alterità. Nel contesto del libro – e dei saggi coevi che ne riassumono i contenuti principali15 – il pensiero levinassiano sembra per lo più preoc14 15
Ivi, p. 46 [trad. it. cit., p. 62]. E. Levinas, La philosophie et l’idée de l’Infini (1957), in Id., En découvrant l’exi stence avec Husserl et Heidegger , Vrin, Paris 19823, pp. 165-178 [ Scoprire l’esistenza con Husserl e Hei-
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cupato di giustificare con analisi più approfondite la critica alla concezione tradizionale di identità, al fine di sostenere il primato dell’alterità. Memore della critica di Rosenzweig alla categoria metafisica di «totalità»16, la discussione del primato del «soggetto-io» viene condotta da Levinas con la consapevolezza che nella comprensione dell’umano la filosofia occidentale ha privilegiato la strada della riduzione dell’altro al medesimo. L’io è stato definito per lo più come «identificazione del diverso», come «se stesso» dotato di libertà assoluta. «Così il pensiero occidentale è apparso molto spesso escludere il trascendente, inglobare qualsiasi Altro (Autre) nello Stesso (Même) e proclamare il diritto di primogenitura filosofica dell’autonomia»17. A questa concezione dell’io – in cui rientra sia l’anima che dialoga con se stessa (il paradigma classico) sia l’«io penso» (il soggettivismo moderno) – non sono estranei un certo narcisismo e una forma di violenza. Ogni conoscere è infatti un «riconoscere», in quanto ogni insegnamento introdotto nell’anima si trova già in essa; al tempo stesso ogni forma di rispecchiamento è un atto di appropriazione e di assimilazione, che annulla le differenze. «L’identificazione dell’io, la meravigliosa autarchia dell’io, è il naturale crogiolo di questa trasmutazione dell’Altro nello Stesso»18, che dissolve ogni alterità. Di conseguenza, Levinas arriva ad affermare che «la filosofia occidentale coincide con quel disvelamento dell’Altro in cui l’Altro, in quanto si manifesta come essere, perde la propria alterità. Sin dalla sua infanzia la filosofia è affetta da un orrore verso l’Altro, da un’inguaribile allergia»19. Di fronte a questo esito del pensiero occidentale, Levinas cerca una via che rompa la supremazia del medesimo, che superi la «cattiva identità» e arrivi ad anteporre l’altro al medesimo. Questa ricerca avviene valorizzando alcuni momenti della storia della filosofia in cui l’alterità (o la trascendenza) è stata pensata «al di là» o al di sopra dell’essere e della coscienza. degger , trad. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, pp. 189-204]; Transcendance et Hauteur (1962), in Id., Liberté et commandement , a cura di P. Hayat, Fata Morgana, Montpellier 1994, pp. 49-100; La trace de l’autre (1963), in Id., En découvrant l’exi stence avec Husserl et Heidegger , cit., pp. 187-202 [trad. it. cit., pp. 215-233]. 16 E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. XVI [trad. it. cit., p. 26]: «L’opposizione all’idea di totalità ci ha colpito nello Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig, troppo spesso presente in questo libro per poter essere citato». Si veda F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Casale Monf. 1985, in particolare l’introduzione programmatica «Sulla possibilità di conoscere il Tutto», pp. 3-23. 17 E. Levinas, La philosophie et l’idée de l’Infini , cit., p. 166 [trad. it. cit., p. 191]. 18 Ivi, p. 167 [trad. it. cit., p. 192]. 19 E. Levinas, La trace de l’autre, cit., p. 188 [trad. it. cit., p. 216].
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Questi passaggi, che aprono un varco oltre l’ontologia dal suo interno, vengono individuati nella definizione platonica del Bene come epekeina tes ousias, nella concezione aristotelica dell’intelletto agente, nella teoria dell’uno plotiniano come epekeina nou ed infine nell’«idea dell’Infinito in noi» teorizzata da Cartesio. Questo sfondo filosofico si intreccia con l’esperienza dell’esodo propria del popolo ebraico. A questo proposito Levinas contrappone esplicitamente all’avventura di «Ulisse che desidera soltanto di tornare a casa sua» la storia di Abramo che lascia per sempre la propria patria per incamminarsi verso una terra che non arriverà a conoscere20. Come per il popolo ebraico l’uscita dall’Egitto è avvenuta ad opera dell’intervento esterno e decisivo di Jhwh, così nel caso della relazione intersoggettiva la rottura dell’identità del medesimo viene provocata dall’incontro col visage d’autrui . Il volto d’altri è espressione di una esteriorità radicale, di una differenza assoluta rispetto all’io ripiegato su di sé che non può essere contenuta da nessuna tematizzazione concettuale e non può essere preda di alcuna appropriazione. Questa ricerca viene esposta in modo organico in Totalité et Infini , seguendo la via indicata dai due termini che compaiono nel titolo e che alludono rispettivamente all’identità e all’alterità. Il termine «totalità» rimanda alla tendenza del pensiero occidentale che racchiuderebbe l’umano nella sintesi totalizzante (e totalitaria) della conoscenza; il termine «infinito» rimanda invece a ciò che opera la rottura della totalità, all’appello che proviene dall’esterno, dal volto dell’altro uomo incontrato nella relazione intersoggettiva. Muovendosi tra questi due poli, Levinas opera una critica radicale della nozione di identità egoistica, che costituisce la premessa della nuova concezione della soggettività etica, capace di accogliere l’alterità21. Nella «Sezione prima» del libro la relazione intersoggettiva viene analizzata nella sua struttura generale a partire dagli elementi che la compongono. Essa si presenta come una relazione tra il medesimo e l’altro, in cui si fronteggiano interiorità ed esteriorità, identità e alterità, senza alcuna 20
E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. XV [trad. it. cit., p. 25]. Si veda anche Id., La philo sophie et l’idée de l’Infini , cit., p. 191 [trad. it. cit., p. 219]: «al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza». 21 E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. XIV [trad. it. cit., p. 24], dove si afferma esplicitamente che il libro «si presenta come una difesa della soggettività, ma non la coglie a livello della sua portata puramente egoistica […], ma come fondata nell’idea di infinito. Esso procederà distinguendo tra l’idea di totalità e l’idea di infinito e affermando il primato filosofico dell’idea di infinito. Racconterà come l’infinito si produce nella relazione del Medesimo con l’Altro».
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possibilità di mediazione o di sintesi. All’inizio l’alterità viene presentata con la metafora utopica dell’«altrove»22; essa non è rappresentabile o anticipabile da alcun concetto universale già disponibile; proprio per questo viene posta come assolutamente trascendente e chiamata «alterità metafisica». Questa locuzione vuole indicare l’esteriorità dell’altro uomo, che si trova separato rispetto all’io e nel suo significato principale designa «proprio il contenuto dell’Altro»23. Fin dall’inizio Levinas premette che questa alterità originaria non è il semplice rovescio dell’identità, ma è qualitativamente eterogenea e anteriore rispetto ad ogni identificazione. Invece «essere io», essere soggetto alla prima persona, «consiste nell’identificarsi, nel trovare la propria identità in tutto quello che gli succede», significa «avere l’identità come contenuto»24, al di là di ogni individuazione. Anche quando l’io si separa da se stesso provando una certa estraneità, anche quando si scopre altro o non si riconosce, queste esperienze non hanno nulla a che vedere con l’alterità originaria. Infatti, l’io permane identico a se stesso anche nelle sue molteplici «alterazioni»: «l’io (je), come altro, non è un Altro (Autre)»25. Tuttavia, l’identificazione dell’io e il suo porsi come medesimo non segue il principio di identità, non è il risultato di un’operazione logica puramente formale che corrisponderebbe ad una vuota tautologia (nel senso di A =A). Si tratta invece di un complesso processo di interazione, attraverso il quale l’io trova nel mondo un luogo in cui soggiornare come a casa propria, completamente separato da altri. La «cattiva identità» si costituisce quindi attraverso un processo di separazione e di appropriazione. L’io, chiuso nel suo «psichismo», non ha alcun rapporto di partecipazione con l’esterno e con l’estraneo; è «ipseità» che si crede assolutamente indipendente e autosufficiente, che non ha bisogno di alcun riconoscimento da 22 23
Ivi, p. 3 [trad. it. cit., p. 31]. Ivi, p. 9 [trad. it. cit., p. 37]. Occorre osservare che il termine Autre viene precisato nel senso dell’altro uomo, del prossimo che si incontra nella relazione, dal termine Autrui . È questo il senso dell’affermazione «L’assolutamente Altro è Altri» (ivi, p. 9 [trad. it. cit., p. 37]); « L’Altro in quanto altro è Altri » (ivi, p. 42 s. [trad. it. cit., p. 69]). Autrui quindi non è «altri» in senso numerico, ma in senso qualitativo. 24 Ivi, p. 6 [trad. it. cit., p. 34]. 25 Ivi, p. 7 [trad. it. cit., p. 35]. Questa impostazione levinassiana è stata criticata da P. Ricoeur, Sé come un altro, trad. it. di D. J annotta, J aca Book, Milano 1993, pp. 451 ss. Per un approfondimento del confronto tra i due pensatori rimandiamo a quanto scrive G. Ferretti, Il Bene al-di-là dell’essere. Temi e problemi levinassiani , ESI, Napoli 2003, pp. 265-290. Anche B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, a cura di G. Baptist, Vivarium, Napoli 2002, vede nell’impostazione levinassiana una problematica contrapposizione tra identità e alterità, che renderebbe difficile parlare di relazione tra l’io e l’altro.
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parte di altri e che cerca la verità nel segreto della sua anima. Si tratta di una posizione che rievoca il mito di Gige, «il mito dell’io e dell’interiorità che esistono non riconosciuti» 26. Nella «Sezione seconda» dell’opera Levinas si sofferma a descrivere alcuni eventi che contribuiscono alla costituzione dell’identità del medesimo. Essa si produce come un’attività psichica basata sul «godimento» che basta a se stesso senza alcun rinvio ad altro da sé, in un orizzonte senza volti. «Nel godimento io sono assolutamente per me, egoista senza riferirmi ad altri – sono solo senza solitudine, innocentemente egoista e solo […] assolutamente sordo nei confronti di altri»27. Nella felicità del godimento l’io è separato da tutto, è assolutizzato nel finito, senza alcun riferimento all’infinito. Questo processo di identificazione si rafforza mediante il raccoglimento dell’io in una dimora o in una casa propria. Quest’ultima è la condizione dell’interiorità in cui si attua concretamente la separazione dal mondo pubblico e sociale. Nell’intimità della casa l’io, attraverso il lavoro, prende possesso delle cose e ne dispone esclusivamente per i suoi bisogni. L’appropriazione rimanda al luogo privato in cui avviene; è l’abitazione quindi a rendere possibile il lavoro e la proprietà e a fondare la dimensione «economica». Per questo Levinas può affermare che «l’esistenza economica […] dimora nel Medesimo» e «riduce al Medesimo ciò che, in un primo momento, si offre come altro»28. Anche in questa dimensione ritorna il riferimento al mito di Gige per sottolineare la separazione quale tratto distintivo della «cattiva identità»: «Gige è proprio la condizione dell’uomo, la possibilità dell’ingiustizia e dell’egoismo radicale, la possibilità di accettare le regole del gioco, ma di barare»29.
3. L’alterità come principio e il riscatto dell’identico In Totalitè et Infini la rottura della «cattiva identità» e la manifestazione dell’alterità originaria (l’«alterità metafisica») non avviene con un passaggio graduale a partire dalla «dimensione economica». Può accadere soltanto attraverso un evento che proviene dall’esterno: ad opera dell’incontro col visage d’autrui . L’alterità, il contenuto di Altri (Autrui ), si pre26
E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. 32 [trad. it. cit., p. 59]: «Il mito di Gige è appunto il mito dell’Io e dell’interiorità che esistono non riconosciuti». 27 Ivi, p. 107 [trad. it. cit., p. 135]. 28 Ivi, p. 150 [trad. it. cit., p. 180]. 29 Ivi, p. 148 [trad. it. cit., p. 176].
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senta concretamente come visage, producendo una situazione in cui l’io si trova di fronte a ciò che è estraneo senza poterlo inglobare all’interno del proprio orizzonte. Si tratta di una situazione che può essere descritta filosoficamente sfruttando uno dei pochi varchi che la tradizione metafisica ha inconsapevolmente aperto: la concezione cartesiana dell’idea dell’infinito. Infatti, essa «designa una relazione con un essere che mantiene la sua esteriorità totale rispetto a chi lo pensa»30. Il pensiero dell’infinito non può affatto contenere l’infinito stesso; l’idea indica la relazione, ma l’ideatum rimane esteriore, rimane al di là, altro e trascendente rispetto all’idea. Attraverso questo riferimento «Infinito» diventa un termine chiave, che permette di articolare la riflessione sull’alterità accentuando la sua autonoma configurazione rispetto ad ogni posizione di identità. Tuttavia occorre rilevare che Levinas preferisce parlare di «separazione» e non di «opposizione» puramente antitetica tra il Medesimo e l’Altro, tra identità e alterità. Tra i due termini prevale una profonda asimmetria, che però non esclude la possibilità di una forma di rapporto. In ogni caso è opportuno sottolineare che il superamento di questa situazione di separazione, che produce l’estroflessione dell’io, non avviene dall’interno. Infatti, la conversione dell’anima all’esteriorità o all’assolutamente altro o all’Infinito non è deducibile dall’identità stessa di questa anima, poiché non è proporzionata a quest’anima. L’idea dell’Infinito non parte dunque da me, né da un bisogno dell’Io che misuri esattamente i suoi vuoti 31.
L’altro – colui che è «per sé» (kath’auto), che è «separato» nel senso positivo di esteriore o trascendente – non viene cercato per soddisfare un «bisogno» proprio dell’io e quindi per consolidare la sua «cattiva identità». Mentre il bisogno «parte dal soggetto» e tende a colmare un suo vuoto, l’altro è il desiderabile che accende un «desiderio infinito» destinato a rimanere inappagato32. Questo «desiderio infinito» si concretizza nel visa30
Ivi, p. 20 s. [trad. it. cit., p. 48]. Si veda anche ivi, pp. 18 ss.; 168 ss.; 268 ss. [trad. it. cit., pp. 46 ss.; 199 ss.; 300 ss.]. Per i testi cartesiani cfr. R. Descartes, Méditation métaphysiques, in Oeuvres, a cura di Ch. Adame P. Tannery, Cerf, Paris 1904 ss., t. IX, pp. 27-42 [ Meditazioni metafisiche, trad. it. di A. Tilgher, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1992, vol. 2, pp. 43 ss.]. Per un approfondimento del tema dell’infinito in riferimento alla tradizione filosofica cui Levinas stesso si richiama rimandiamo al saggio di S. Moses, L’idea di infinito in noi , in «Aut Aut», 1988, n. 228, pp. 43-61. 31 E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. 33 [trad. it. cit., p. 60]. 32 Ibidem, in cui viene introdotta la distinzione tra «desiderio» e «bisogno»: «Il Desiderio è un’aspirazioneanimatadal desiderabile; nasce apartire dal suo ‘oggetto’, è rivelazione. Invece il bisogno è un vuoto dell’Anima, parte dal soggetto».
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ge. Il suo apparire non viene inglobato in un orizzonte che delimiterebbe il terreno comune del rapporto intersoggettivo; la sua irruzione supera l’idea dell’altro in me ed istituisce una forma di relazione in cui i termini non producono alcuna sintesi ma si assolvono dalla relazione stessa senza negarla. Questa particolare relazione è essenzialmente linguistica e ha una valenza etica. La manifestazione del volto è «discorso» che si esprime nella forma di un appello rivolto all’io, «si produce concretamente come la messa in questione del Medesimo da parte dell’Altro, cioè come etica»33. Rispetto al processo di identificazione precedentemente descritto nei saggi degli anni Cinquanta, assistiamo qui ad un «rovesciamento fondamentale»34 dell’«ipseità» che mantiene l’altro nella sua eterogeneità e che all’egoismo sostituisce la giustizia. Questo termine precisa ora in senso etico l’azione dell’alterità originaria, che trasforma la «cattiva identità» in «accoglienza d’Altri» e in «responsabilità per Altri». Levinas sottolinea a più riprese che questo riscatto non è la conseguenza di una libera scelta dell’io. Piuttosto nel «faccia a faccia», quando «Altri (Autre) si presenta come l’Altro (Autrui )», la libertà dell’io è messa radicalmente in discussione e giudicata ingiusta. La trasformazione dell’io è invece opera di un «risveglio» per iniziativa gratuita di altri, che corrisponde al vero e proprio inizio della coscienza morale. Nella relazione asimmetrica «l’Altro si impone […] come ciò che è più originario di tutto quanto accade in me. L’Altro, la cui presenza eccezionale si inscrive nella impossibilità etica di ucciderlo […], mi indica la fine dei poteri»35. In questo modo scardina la roccaforte dell’identità egoistica e confuta il suo primato. Prendendo congedo da una consolidata «tradizione filosofica che cercava in sé il fondamento di sé, al di fuori delle opinioni eteronome», Levinas arriva ad affermare che l’identità «non è l’ultimo senso del sapere, ma il rimettersi in questione, il ritorno verso ciò che è prima di sé, alla presenza dell’Altro»36. Una presenza che non può essere conosciuta oggettivamente e che sfugge ad ogni forma di sapere, pur rimanendo origine incondizionata del senso e criterio di giudizio di qualsiasi significazione. Infatti «Altri è principio»37. 33
Ivi, p. 13 [trad. it. cit., p. 41]: «Questa messa in questione della mia spontaneità da parte della presenza d’Altri ( Autrui ) si chiama etica». Occorre tenere presente che per Levinas l’etica precede l’ontologia ed ogni approccio teoretico. 34 Ivi, p. 34 [trad. it. cit., p. 61]. Levinas parla di una «inversion foncière», che mette in discussione i concetti classici di sostanza e di identità propri della tradizione ontologica. 35 Ivi, p. 59 [trad. it. cit., p. 86]. 36 Ivi, p. 60 [trad. it. cit., p. 87]. 37 Ivi, p. 65 [trad. it. cit., p. 91].
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La ricerca di un varco al di là del dominio totalizzante e totalitario del medesimo ha come esito finale l’instaurazione del primato dell’alterità sull’identità e il riconoscimento della sua natura indimostrabile e indeducibile secondo le modalità dell’argomentare apofantico. L’alterità si impone al di fuori di ogni concetto e ragionamento analogico come un principio «anarchico», che riscatta la «cattiva identità» dell’egoismo.
4. Il contenuto etico dell’alterità: la responsabilità Vediamo ora di approfondire brevemente come avviene il superamento della «cattiva identità» e si impone l’alterità come principio. Il suo primato accade come effetto di un giudizio cui viene sottoposto il medesimo ad opera di altri, che lo mette in discussione e mostra infondata la sua assolutezza. La manifestazione del volto d’altri – nella sua nudità, miseria e povertà – è una «accusa» che contesta il potere egemonico dell’io e la sua tentazione di affermare se stesso. Tuttavia questo giudizio non è soltanto inquisitorio, ma è anche liberante: rende possibile all’io di acquistare una nuova forma di identità di segno positivo. Infatti, se dopo questo verdetto l’io non è più «per sé», questo non significa che esso si trovi nella relazione rinunciando alla sua singolarità. Come osserva Levinas, «solo andando incontro ad altri sono presente a me stesso, […] sono ricondotto alla mia realtà ultima»38. Esiste quindi una «realtà ultima» dell’io che si produce come responsabilità ogniqualvolta avviene il rovesciamento dell’io egoistico in ospitalità e donazione. Questa tesi viene approfondita in modo incisivo nella «Sezione terza» di Totalité et I nfini , in cui Levinas ribadisce che solo l’epifania del volto d’altri trasforma la singolarità separata in intersoggettività o in «soggettività sociale». Mettendo l’accento su questa «conversione», Levinas mostra come la responsabilità sia ora il tratto caratteristico della nuova individualità, che esce da sé e si approssima ad altri. L’esaltazione della singolarità nel giudizio si produce […] nella responsabilità infinita della volontà suscitata dal giudizio. Il giudizio è diretto su di me nella misura in cui mi ingiunge di rispondere. […] L’ingiunzione esalta la singolarità. […] La possibilità di un punto nell’universo in cui si produce un simile eccesso della responsabilità, definisce, forse, in fin dei conti, l’Io39. 38 39
Ivi, p. 153 [trad. it. cit., p. 182]. Ivi, p. 222 [trad. it. cit., p. 250].
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Come si può constatare, l’individuazione dell’io viene caratterizzata in termini etici proprio attraverso la nozione di responsabilità, che diventa il vero e proprio principio di identificazione. Tuttavia, all’origine di questa nuova forma di identità positiva vi è sempre l’alterità come principio: vi è il volto dell’altro uomo che esige una risposta e crea la singolarità responsabile. È interessante osservare come già qui per indicare la destituzione dei tratti egoistici dell’io Levinas introduca l’immagine azzardata dello «svuotamento»: l’io risulta tanto più confermato nella sua singolarità e identità quanto più si svuota di sé o si allontana dal suo centro40. Accanto alla responsabilità, un altro elemento viene a definire ora la nuova concezione dell’identità resa possibile a partire dall’alterità: l’elezione. Infatti, in quanto chiamato a giudizio, l’io è scelto personalmente nella sua individualità e insostituibilità; questo vuol dire che «essere io» è un privilegio o un’elezione. […]. L’invito alla responsabilità infinita conferma la soggettività nella sua posizione apologetica. […] Dire «io» – affermare la singolarità irriducibile in cui viene proseguita l’apologia – significa possedere un posto privilegiato rispetto alle responsabilità nelle quali nessuno mi può sostituire e dalle quali nessuno mi può liberare. Non potersi sottrarre – ecco l’Io41.
Da queste affermazioni emerge come il non potersi sottrarre all’irruzione dell’alterità sia per Levinas segno di investitura personale, espresso dal termine «elezione». Concretamente il processo di identificazione va di pari passo con l’ascolto delle istanze della moralità, con l’esecuzione del servizio verso il povero, lo straniero, la vedova e l’orfano. «Essere io», infatti, «significa appunto essere capaci di vedere l’offesa dell’offeso o il volto»42. Non si tratta quindi di un’identità compresa e definita nel concetto, ma di un insieme di azioni, di una prassi orientata verso il bene «al di là» dell’essere. L’identità viene suscitata, risvegliata, costituita nel «faccia a faccia» della relazione con il volto dell’altro uomo e questo atto di nascita corrisponde all’identificazione del soggetto morale, che viene a dipendere totalmente dalla manifestazione dell’alterità come principio. 40
Ivi, p. 222 [trad. it. cit., p. 250]: «L’io […] si conferma nella sua singolarità svuotandosi di questa gravitazione, che continua a svuotarsi e che si conferma, appunto, in quanto incessante sforzo di svuotarsi». Si tratta di un aspetto che sarà ripreso in Autrement qu’être e poi ripensato attraverso il termine religioso di «kenosi»: cfr. E. Levinas, Judaisme et kénose (1985), in Id., A l’heure des nations. Lectures et discours talmudiques, Éditions de Minuit, Paris 1988, pp. 133151 [Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici , trad. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 131-149]. 41 E. Levinas, Totalité et Infini , cit., p. 223 [trad. it. cit., p. 251]. 42 Ivi, p. 224 s. [trad. it. cit., p. 252].
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5. L’inversione dell’identità e il paradosso della sostituzione Questa tesi, che ripensa la correlazione di alterità e identità stabilendo un odine gerarchico tra i due termini, viene ulteriormente approfondita in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence43. Anche qui l’argomento principale del libro è costituito da una descrizione dell’incontro col volto dell’altro uomo da parte dell’io, che in questo evento si trova deportato «al di là» della sua essenza egoistica. Tuttavia, per descrivere la relazione, ora Levinas non prende le mosse dall’esteriorità del volto, ma si concentra sul «sé» che si costituisce in rapporto ad altri. Con questa nuova impostazione la «cattiva identità» si trasforma in «dis-inter-esse», ovvero in una responsabilità che si dilata all’infinito e che si trasforma in sostituzione44. Prima di soffermarci su questa ulteriore configurazione dell’identità, occorre ricordare che anche in questo libro Levinas prende le mosse da una serrata critica alla concezione della «coscienza di sé» che, nelle sue molteplici fasi temporali, si perde, si ritrova o si possiede nella sua unità coincidendo sempre con se stessa. A questa concezione viene contrapposta una visione della soggettività che non riceve la propria identità da se stessa, arrivando a sostenere che in primo luogo l’io non è centro autocosciente di attività ma esposizione ad altri e quindi passività. Questo significa che il soggetto non può porsi al nominativo, ma si dà originariamente all’accusativo; la condizione di passività, infatti, non permette di parlare di «io» ma di «sé»45. L’io risulta caratterizzato da «una passività più passiva di ogni passività», in cui «il per-l’altro […] si astiene dal per-sé […] malgrado sé»46. Ora, è proprio questa paradossale condizione di «essere per l’altro malgrado sé» che mette in luce l’intreccio di alterità-identità e che mostra come il tentativo di ripensare «altrimenti» l’identico lo mantenga in costante tensione con l’altro da sé. 43
E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974 [ Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, J aca Book, Milano 1983]. 44 Nella «Nota preliminare», che apre il libro, Levinas parla a questo proposito di «identità divisa». Egli scrive infatti: «Riconoscere nella soggettività un’eccezione che scompagina la congiunzione dell’essenza […]; vedere nella sostanzialità del soggetto, nel duro nocciolo dell’“unico” in me, nella mia identità divisa, la sostituzione ad altri; pensare questa abnegazione, prima di volerla, come un’esposizione senza ringraziamento, al trauma della trascendenza […], ecco le proposizioni di questo libro che nomina l’al di là dell’essenza» (ivi, p. X [trad. it. cit., p. 2]). 45 Ivi, p. 14 [trad. it. cit., p. 16]. Levinas si richiama in questo contesto alla concezione della «sensibilità» come facoltà ricettiva, ma le attribuisce un ruolo diverso da quello assegnatole dalle tradizionali teorie della conoscenza. 46 Ivi, p. 64 s. [trad. it. cit., p. 64 s.].
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Per sottolineare l’irriducibilità di altri alla coscienza di sé, Levinas presenta la prossimità con i tratti inquietanti dell’«ossessione» e della «persecuzione». Altri è una presenza che sconvolge l’identità dell’io, che «attraversa la coscienza contro-corrente, inscrivendosi in essa come estranea: come squilibrio, come delirio»47. Emerge qui un tratto nuovo della riflessione levinassiana: l’altro non è più esteriorità radicale, ma si inserisce nel medesimo per interrompere il suo primato dall’interno; di conseguenza alterità e identità non si trovano separate o contrapposte, ma si intersecano e si intrecciano formando un nodo sempre più complesso. Queste pagine si interrogano a lungo sulla «condizione soggettiva», sul senso di quell’«identità che si chiama Me (Moi ) o Io (Je)»48; la sua vera origine viene trovata «prima» o «fuori» della coscienza, ma viene descritta come un «in sé» in esilio effetto di una espulsione. L’identico, «il nodo dell’ipseità», non deve essere più pensato come centrato su di sé: deve essere sciolto dal nominativo ed inteso sempre all’accusativo. L’io è costituito antecedentemente da una «identità già compiuta» di cui non dispone, che ritorna (o «ricorre») alle spalle di ogni suo atto e che è quindi «altra». «Il se stesso non è nato di sua propria iniziativa», come vorrebbero le filosofie idealiste; piuttosto: Il se stesso si ipostatizza altrimenti: esso si annoda indissolubilmente in una responsabilità per gli altri […]. Nell’esposizione alle ferite e agli oltraggi, nel sentire della responsabilità, il se stesso è provocato come insostituibile, come votato senza dimissioni possibili agli altri49.
Levinas chiama l’assunzione di questa responsabilità «la gestazione dell’altro nel medesimo (l’autre dans le même)»50, lasciando intendere che la sua riflessione non intende dipanare l’intreccio di alterità e identità, ma mira a mantenerlo in tutta la sua tensione. Il «sé» all’accusativo, convocato a rispondere, non è affatto una coscienza altruista, ma un’«ipostasi» pre-logica e pre-sintetica: una «identità ingiustificabile in se stessa», una «identità precedente il ‘per sé’»51. Qui la nozione tradizionale di identità risulta decostruita e rovesciata: essa è ora «disuguaglianza a sé», perdita 47 48 49 50 51
Ivi, p. 128 [trad. it. cit., p. 126]. Ivi, p. 130 [trad. it. cit., p. 128]. Ivi, p. 134 [trad. it. cit., p. 132]. Ivi, p. 141 [trad. it. cit., p. 139]. Ivi, p. 135 [trad. it. cit., p. 133]. E ancora: «il se stesso è una torsione irriducibile al battito della coscienza di sé, del rilassamento e del ritrovamento del Medesimo», è una «identità singolare» che si attua «nella permanenza della perdita di sé» (ivi, p. 136 [trad. it. cit., p. 134]).
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di sé, «esilio in sé». Di conseguenza l’io, costantemente esposto all’iniziativa di altri, non riposa mai in pace con se stesso ma è inquietudine fino all’esplosione, allo svuotamento e all’espropriazione di sé. Questa radicale «alterazione» dell’identico trova il suo apice nelle pagine di Autrement qu’être in cui si parla della sostituzione ad altri , con la quale l’io subisce proprio una sorta di «espulsione di sé fuori di sé» nella forma di un’esagerazione iperbolica52. Ora il subire a causa di altri definisce quella particolare figura della singolarità eticamente responsabile in cui «un’identità s’individua come unica»53. Il vero «sé» è prima (ed è quindi più originario) della coincidenza con se stesso; infatti, nell’esposizione totale, «io sono ‘in sé’ attraverso gli altri»54. Anche in questo caso l’identificazione proviene da altri, ma si tratta di una identità per sostitu zione che si costituisce «a causa di un’alterità in me»55. Levinas può quindi affermare che attraverso la sostituzione «l’identità s’inverte»56, nel senso che il «sé» si assolve da se stesso, si pone «alla rovescia» e si può cogliere «diseguale nella sua identità»57. Nella sostituzione ad altri il «sé» viene spinto in un «non luogo» al di là della sua essenza, «al di qua della sua identità nell’Altro»58. L’identità del «sé» è data dalla sua unicità irriducibile, dalla sua insostituibilità: «Io sono uno e insostituibile – uno in quanto insostituibile nella responsabilità»59. Infatti, la responsabilità che incombe su di me come singolo è solo mia, non è uguale a quella di nessun altro e quindi non è generalizzabile o trasferibile ad altri. In essa il «sé» è unico: «È nella passività dell’ossessione […] che un’identità si individua come unica […] nell’impossibilità di sottrarsi senza carenza alla convocazione per l’altro»60. Il paradosso di questa forma di identità consiste proprio nel fatto 52 53 54 55
Si tratta del paragrafo 4 del capitolo IV: ivi, pp. 144-151 [trad. it. cit., pp. 142-149]. Ivi, p. 142 [trad. it. cit., p. 140]. Ivi, p. 143 [trad. it. cit., p. 141]. Ivi, p. 146 [trad. it. cit., p. 143]. Il corsivo è nostro. Questo tema troverà la sua prosecuzione nelle analisi sul «risveglio» e sulla «vigilanza» dell’io in E. Levinas, De Dieu qui vient a l’idée, Vrin, Paris 1982, pp. 39 ss.; 186 ss. [Di Dio che viene all’idea, trad. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, pp. 46 ss.; 241 s.]. 56 Autrement qu’être, cit., p. 146 [trad. it. cit., p. 143]. 57 Ivi, p. 147 [trad. it. cit., p. 144]. 58 Ivi, p. 148 [trad. it. cit., p. 145]. 59 Ivi, p. 131 [trad. it. cit., p. 129]. 60 Ivi, p. 142 [trad. it. cit., p. 139 s.]. Si veda anche ivi, p. 133, nota 9 [trad. it. cit., p. 131 s.]: «La singolarità del soggetto non è l’unicità dell’apax . […] Essa è nell’unicità del convocato […], è una convocazione a rispondere senza indietreggiare, che convoca il sé come sé». Il tema dell’unicità del soggetto, già accennato in Totalité et Infini , era già stato anticipato a p. 73 [trad.
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che essa è impossibilità di sottrarsi (passività) e donazione gratuita (attività). L’io realizza se stesso solo quando si trova nel vicolo cieco di una responsabilità illimitata che lo obbliga a sostituirsi ad altri. Come si può intuire, la nozione di «sostituzione» è ottenuta attraverso l’esasperazione, l’eccesso o la dilatazione della responsabilità individuale e mantiene quindi un significato etico. In questa situazione «la parola io significa eccomi , rispondente di tutto e di tutti»61. Con questo termine – anch’esso all’accusativo – Levinas intende indicare l’abnegazione di sé che lo impegna concretamente prima ancora di aver udito o compreso il comandamento62. L’esasperazione della responsabilità comporta quindi una profonda «identificazione» dell’io per sostituzione come conseguenza immediata della posizione di totale «soggezione» nei confronti di altri. Ora «questa responsabilità per il prossimo, questa sostituzione di ostaggio, è la soggettività e l’unicità del soggetto»63. Come si può constatare, la nozione di identità viene sottoposta ad una torsione paradossale, che intende deliberatamente stravolgerne il tradizionale significato logico e ontologico, al fine di metterne in luce il senso etico. È a questo punto che Levinas afferma: «qui bisogna parlare di espiazione come di ciò che unisce identità e alterità»64. Egli ritiene, infatti, che solo se la responsabilità si accresce fino all’espiazione delle colpe di altri l’io egoistico non riprende il sopravvento e non ritorna la «cattiva identità». Nell’espiazione, in quanto atto gratuito che precede qualsiasi iniziativa della volontà, l’io può essere se stesso senza affermare se stesso. Infatti, l’atto di donazione gratuita è una «individuazione» o una «sovradeterminazione dell’Io», in cui «si disfa il mio essere mio e non di un altro», ma al tempo it. cit., p. 72]: «Unicità significa qui impossibilità di sottrarsi e di farsi sostituire, unicità nella quale si annoda la ricorrenza stessa dell’io. Unicità non assunta, non sus-sunta, traumatica: elezione nella persecuzione». Questo tema ritorna nel saggio De l’unicité (1986), in Id., Entre nous, cit., pp. 209-217 [trad. it. cit., pp. 223-231]. 61 E. Levinas, Autrement qu’être, cit., p. 145 [trad. it. cit., p. 143]; cfr. anche pp. 180 s. e 185 s. [trad. it. cit., pp. 178 e 182 s.]. Nel tema dell’«eccomi» traspare un esplicito riferimento al linguaggio religioso: alla teofania di Es 3,6 ealla missione profetica di Is 6,8. 62 Quanto il tema dell’esecuzione del comandamento che precede ogni comprensione sia collegato allo sfondo religioso ebraico emerge con chiarezza dalla lettura talmudica intitolata La tentation de la tentation, in Id., Quatre lectures talmudiques, Éditions de Minuit, Paris 1968, pp. 67109 [Quattro letture talmudiche, trad. it. di A. Moscato, il melangolo, Genova, 1982, pp. 67-97]. 63 Ivi, p. 158 [trad. it. cit., p. 155]. 64 Ivi, p. 151 [trad. it. cit., p. 148]. Levinas sottolinea che l’espiazione non èun atto volontario: «L’io non è un ente ‘capace’ di espiare per altri: l’io è questa espiazione originale – involontaria – poiché anteriore all’iniziativa della volontà (anteriore all’origine), come se l’unità e l’unicità dell’io fossero già la presa su di sé della gravità dell’altro» (ibidem).
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stesso «è con questa sostituzione che io sono non ‘un altro’ ma io. […]. L’ipseità è di conseguenza un privilegio o una elezione ingiustificabile che mi elegge io (moi ) e non l’Io. Io unico ed eletto. Elezione per soggezione»65. È evidente che questa identità per sostituzione disegna una nuova configurazione della singolarità che ricorre ad una terminologia proveniente dalla tradizione religiosa ebraica. L’io identifica se stesso «a causa di altri» quando nella donazione si trova ad essere insostituibile, a prendere sulle proprie spalle il peso dell’intero universo. Egli non è «per sé», ma «per tutti»66. Attraverso la sostituzione, l’identità dell’unico assume ora un’ampiezza universale e cosmica; essa si trova sottoposta ad un compito in cui identità e alterità si intrecciano senza confondersi, in un «intrigo» etico che si profila come testimonianza profetica e messianica67.
6. L’insolubile intreccio di alterità e identità Come ha giustamente sottolineato Ricoeur, «tutta la filosofia di Levinas riposa sull’iniziativa dell’altro nella relazione intersoggettiva»68, sul primato dell’alterità sull’identità. L’alterità si presenta come un principio assoluto, il cui contenuto non è definibile dalla semplice negazione dell’identico. E tuttavia sarebbe riduttivo limitare il contributo della riflessione levinassiana ad una mera contrapposizione (o «separazione») tra la bontà dell’altro e l’egemonia egoistica del medesimo. Come abbiamo tentato di mostrare, si tratta infatti di una riflessione niente affatto scontata, che nel tentativo di ripensare l’alterità al di fuori delle categorie ontologiche o soggettivistiche non può evitare di «dire altrimenti» anche l’identità. Ne scaturisce una visione originale in cui tra i due termini (e tra le rispettive 65
Ivi, p. 163 [trad. it. cit., p. 160]. È interessante notare come l’identità per sostituzione permetta ora di usare il termine «ipseità» in senso positivo. 66 Ivi, p. 147 [trad. it. cit., p. 145]: «Il sé è sub-jectum: è sotto il peso dell’universo – responsabile di tutto. L’unità dell’universo non è ciò che il mio sguardo abbraccia nella sua unità dell’appercezione, ma ciò che da tutte le parti mi incombe, mi riguarda nei due sensi del termine: mi accusa ed è affar mio». 67 A questo proposito rimandiamo ai numerosi riferimenti presenti in E. Levinas, Autrement qu’être, cit., pp. 174-207 [trad. it. cit., pp. 172-203], e alle riflessioni sviluppate nelle letture talmudiche dedicate al tema del messianismo: Textes messianiques (1960/61), in Id., Difficile liberté, cit., pp. 83-129 [Il messianismo, trad. it. di F. Camera, Morcelliana, Brescia 2002]. Per un approfondimento ci sia concesso di rinviare al nostro precedente saggio Responsabilità etica e testimonianza messianica in E mmanuel Levinas, in D. Venturelli (a cura di), Religioni, etica mondiale, destinazione dell’uomo, il melangolo, Genova 2002, pp. 197-232. 68 P. Ricoeur, op. cit., p. 284.
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costellazioni terminologiche: esteriorità/identità, eccentricità/medesimezza, socialità/egoismo) rimane un rapporto ineludibile, che però è di tipo asimmetrico. Alterità e identità si richiamano costantemente, ma rimangono sempre distinte e soprattutto non si risolvono mai in una unità superiore in grado di operare una mediazione69. Il tratto caratteristico dell’impostazione levinassiana rimane comunque la subordinazione dell’identità all’alterità, una tesi che non trova una giustificazione mediante argomentazioni razionali o discorsive, ma che si impone a motivo del suo contenuto etico. Nell’orizzonte dell’etica (e non dell’ontologia) diventa quindi possibile mantenere il nesso tra i due termini, ma al tempo stesso si apre la strada ad una possibile dissoluzione dell’identità individuale nell’alterità. Questo esito paradossale, presente nella tesi dell’identificazione della singolarità per sostituzione o per espiazione, sembra abbandonare definitivamente il terreno dell’argomentazione filosofica. In questo contesto, per difendere l’alterità come principio, Levinas si richiama sempre più esplicitamente alla tradizione religiosa del profetismo biblico, delineando l’identità dell’unico con i tratti del «servo sofferente»70. Di fronte a queste esasperazioni paradossali, ci sembra invece che il merito principale della riflessione levinassiana sia stato proprio quello di aver insistito sull’intreccio (sull’incrocio o intrigue) inevitabile di alterità e identità. Infatti, descrivendo dall’interno la relazione antropologica o sociale, sarebbe piuttosto problematico considerare l’estraneità o l’alterità separata dall’identità. Ci sembra quindi che l’importanza della riflessione levinassiana vada cercata non tanto nel tentativo di stabilire ordini gerarchici tra i due termini o nell’operare il capovolgimento dell’identità in sostituzione, quanto nello sforzo di pensare «l’alterità in me», mantenendo la tensione nell’orizzonte precario dell’etica. Si tratta di uno sforzo appassionato, «al di là» del concetto e ai limiti del linguaggio, che già una autorevole vox hebraica aveva evocato nei versi che cantano l’esperienza della lontananza: «Ich bin du, wenn ich ich bin»71. 69
Mentre nella tradizione ontologica l’alterità e l’identità trovano la loro mediazione all’interno del più generale concetto di essere, Levinas rifiuta nettamente questa soluzione. Una via, che accetta la sfida della posizione levinassiana ma che tenta di pensare l’originaria unità tra i due termini nella libertà, è stata tratteggiata da C. Ciancio, Riconoscimento dell’altro e alterità della li bertà, in «Giornale di Metafisica», n.s., XXVII (2005), pp. 45-62. 70 A questo proposito rimandiamo ai numerosi riferimenti al tema del sacrificio e della sostituzione vicaria presenti in E. Levinas, Autrement qu’être, cit., pp. 148 s.; 180; 185 s.; 190 s. [trad. it. cit., pp. 145; 178; 182 s.; 187 s.]. Si tratta di elementi che confermano lo sfondo religioso o «pre-filosofico», in cui si colloca l’intera meditazione levinassiana sull’alterità. 71 P. Celan, «Lob der Ferne», in Id., Gesammelte Werke, a cura di B. Allemann e S. Rei-
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Abstract The intention of this paper is to examine the relationship between identity and otherness in philosophical work of Emmanuel Levinas. I n this work we find the ethical su premacy of otherness, which is separated from beeing and from identity. But identity doesn’t disappear, undergoes a deep ethical change through the paradoxical theses of substitution and expiation
chert, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 19922, vol. I, p. 33 [Poesie, trad. it. a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 51]. Il verso «Io sono tu, quando io sono io» è posto da Levinas in esergo al capitolo IV di Autrement qu’être, cit., p. 125 [trad. it. cit., p. 123].
L’identità in questione
Sulla logica dell’opposizione: l’a lterità tra Derrida e L evina s L eonardo Samonà
Il compito più urgente della filosofia non sembra più riassumibile nella formula: «pensare l’uno», quanto piuttosto in quella opposta: «pensare l’altro». Un tale rivolgimento di senso nei confronti di un’antica e autorevole tradizione scaturisce dalla denuncia di un gesto negativo, di esclusione, nascosto nella posizione di un principio stabile e immutabile del pensiero. L’istituzione metafisica dell’identico, sottoposta a questo spostamento dell’interrogazione filosofica, lascia trasparire sullo sfondo una violenta opera di riduzione della diversità, e insieme il moto ad essa contrario di un’inesauribile resistenza dell’alterità, che assegna un profilo antinomico alla questione del fondamento. Tuttavia non sarebbe difficile sostenere che una tale mossa critica non fa che rinnovare con una diversa tonalità un’antica battaglia sull’essere, annunciata già da Platone con quella svolta verso il non-essere che, come egli avverte, potrebbe apparire persino nella forma ostile di un «parricidio» di Parmenide. Già secondo un decisivo argomento di quest’antica disputa, un pensiero che si richiude nell’unità dell’essere occulta una mossa dialettica di negazione attraverso cui si costituisce nell’identità, e assume in realtà, sia pure in forma di una fuga dall’apparenza e dall’inganno, un riferimento alla diversità. La filosofia sembra aver ben presto assunto un atteggiamento critico nei confronti di simili salti troppo facili e rassicuranti nel possesso della verità. L’identità si deve cercare piuttosto attraverso la via lunga dell’inclusione della diversità, nella differenza e anzi come differenza, e in base a ciò perfino come un che di altro dalla physis, da quest’ultima implicato come proprio necessario riferimento: insomma, come un principio meta-fisico. In che consiste allora il gesto più radicale che un pensiero dell’alterità, come quello di Derrida e Levinas, pretende di compiere? Quella che semTEORIA 2006/1
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brerebbe lasciarsi misurare appena come ripetizione del percorso attraverso il quale si è costituita l’identità metafisica acquista invece una forza critica rilevante se si guarda, più che alla mera contrapposizione di identità e alterità, al rovesciamento di senso conferito al loro intreccio da un pensiero che tiene bensì dietro al percorso metafisico di «riflessione» dell’essere, ma ne rimette poi radicalmente in questione l’orientamento autoreferenziale alla luce di un appello irriducibile di «Altri», capace di stabilire l’«etica come filosofia prima». I passi che portano a un tale primato delineano, nella «ripetizione» della tradizione metafisica, un profondo rivolgimento e una parabola aporetica alla fine dirompente nei confronti del pensiero dell’identico. La scansione di questa parabola si può indicare grossomodo così: a) una reinterpretazione dell’identità che la delinea nella forma mediata di una strategia di governo della diversità; b) il conseguente rinvio dell’identità alla dimensione autoreferenziale del Sé, del soggetto, della coscienza; c) la descrizione dell’ordine della soggettività attraverso la logica violenta del predominio; d) la strutturale, irriducibile socialità evocata dal predominio del Sé in base al suo antinomico accoglimento dell’opposizione; e) la conseguente, finale riconfigurazione del Sé e dell’identità a partire da altro e da «Altri». Possiamo seguire una tale parabola, che conduce a un contrasto irriducibile dentro l’identità metafisica, attraverso quell’altra parabola, che invece ha trasformato in modo crescente la controversia tra Derrida e Levinas in un profondo sodalizio, sotto la spinta di una sollecitudine sempre più concorde per le ragioni dell’Altro con le quali si misura l’organizzazione logica e concettuale del pensiero.
1. La parabola aporetica dell’identità metafisica È proprio il senso da dare al legame tra identico e diverso il punto di divaricazione da un cammino metafisico che ha nominato sin dalle origini la differenza solo per raccogliere con decisione il pensiero nello slancio verso l’identico («lo stesso è pensare ed essere»). A partire da questo modello, anche se nella forma esplicita di una retractatio dello Stesso e dell’Uno, la dimensione più essenziale dell’identità ha conquistato ben presto la sua posizione «saldissima» con una mossa dialettica, che si avvantaggia proprio della critica al carattere esclusivo e difettivo dell’«uno» pensato contro i molti. Il nome per una tale unità dialettica è divenuto, già nel Sofista platonico, l’intreccio (symploké) dei «generi sommi» nell’essere, dopo che essi sono stati necessariamente distinti dall’essere stesso, il qua-
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le è anche uno tra i diversi. L’essere si mantiene sempre lo stesso attraverso i distinti; in un certo senso esso differisce da sé, perché va pensato come il legame – il logos – che tiene assieme i differenti e dunque va afferrato essenzialmente in questa sua differenza. Con una tale «ritrattazione» il non essere entra certamente nel territorio dell’«ente che è sempre», ma solo in quanto «diverso», cioè in un modo che mantiene la funzione della differenza all’interno dell’unità intelligibile dell’essere, ed esclude invece come frutto di una dialettica immatura e indegna di un filosofo quei discorsi che pretendano di lasciare aperta la contraddizione, presumendo di portare nel pensiero il «contrario» dell’essere1. Il carattere «metafisico» dell’unità sembra convalidato con forza proprio dall’accortezza critica con cui si lasciano entrare molteplicità, diversità, differenza, dentro l’essere senza disintegrarlo, ma al contrario in modo tale da rinsaldarne l’unità totalizzante e riflessa in sé. Una tale strategia di pensiero sembra trovare la sua formalizzazione nella demarcazione aristotelica tra la contraddizione e le altre forme di opposizione2. In ogni altra opposizione si dà sempre un termine comune che regola la distanza degli opposti entro un orizzonte unitario, non solo nel caso dei «relativi», ma anche nel caso dei «contrari» (in cui è identico il genere) e della «privazione» (in cui è identico il sostrato). La differenza è concepibile solo all’interno di questo orizzonte unitario. «Differenti» sono le cose che hanno qualcosa di identico, per cui si possono abbracciare insieme nel logos. È lo spazio della contrarietà a costituire l’ambito concettualmente abbracciabile, mentre la contraddizione viene posta come un errore logico, un effetto di superficie del discorso. L’errore, del resto, poggia suo malgrado su una profonda connessione unitaria dell’essere, sempre capace di «spiegare» la contraddizione, cioè di riportarla al suo contrario. Rispetto a quest’ultima anche la semplice diversità o alterità, quale distinzione che eccede l’unità del genere o del sostrato (e che va distinta dalla differenza vera e propria), finisce per essere assimilata alle forme di opposizione, perché riposa comunque su una comunanza dell’essere, ossia perché si predica solo di ciò che è, o ancora perché è riferita all’uno per contrarietà. Il diverso è pensabile solo all’interno di una continuità dell’essere, di una sua «natura» unitaria. Una diversità resistente all’unità è ristretta alla fine nella contra-di zione; e viene confutata come un’opposizione falsa, perché meramente discorsiva, nel senso che rende «vuoto» il logos e ne lascia emergere per 1 2
Cfr. Platone, Sophista, 258 e e251c. Cfr. Aristotele, Metaphysica I, 3 e 4.
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contrasto la significatività, il legame originario con un’unità trans-generica (detta poi «analogica») dell’essere. Quest’unità non entra nel discorso nella forma di semplice predicato (categoria), ma in un certo senso «per differenza», come un fondamento dal quale «dipendono»3 i diversi generi dell’essere e vengono «subito»4 pensati gli enti nella loro diversità. L’unità riferisce ogni predicato alla sostanza, creando una gerarchia di significati e una totalità esente da ogni ulteriore opposizione; ma non solo: essa permette il «governo» della diversità nella forma di un’istanza a questa sovraordinata, e converge in tal modo in Dio, principio unificante nella forma dell’atto e del pensiero («pensiero di pensiero») e, in questa forma, attuazione suprema dello stesso ordine. L’intreccio di identità e alterità si sviluppa così in quella direzione che Heidegger ha chiamato «costituzione onto-teo-logica della metafisica». La posizione fondamentale dell’identità riflessiva, tale in quanto riconduce a sé molteplicità e contrarietà, non solo permette di distinguere il modo d’essere (l’intelletto) divino, ma conferisce un ruolo ontologico progressivamente sempre più deciso al Sé, cioè all’anima, all’intelletto, poi al soggetto come coscienza e come persona. Quale modo d’essere radicalmente connesso con il diverso («l’anima è in certo modo tutte le cose»5), il soggetto si presenta come l’esser-altro che si attua nel ritorno e nel raggiungimento di sé. La soggettività viene così a identificarsi, in un cammino che corrisponde allo sviluppo del pensiero moderno, con il soggetto umano o persona. La persona assume un carattere nuovo e irripetibile dell’esser soggetto, nel senso che abbandona progressivamente la posizione unilaterale di sostrato originario di ogni predicazione, per configurarsi sempre più nettamente nell’intero della sua dimensione relazionale. Con questo mutamento di senso lo stesso concetto di soggettività viene a distinguersi sempre più nettamente dal tratto immediato e irriflesso del principio sostanziale e dal concetto stesso di «cosa (res)», determinando l’io in modo unico e irripetibile rispetto al mero carattere di ente. Con questa trasformazione il pensiero moderno delimita anche lo spazio per la critica novecentesca del soggetto cartesiano. L’unità moderna del soggetto si trova infatti già a dover governare un modo d’essere intimamente aperto non solo all’insieme degli enti ma anche all’alter-ego, all’altra coscienza, e all’«assolutamente altro». 3 4 5
Cfr. Met Γ , 2, 1003 b 18. Cfr. Met Γ , 2, 1004 a 5. Cfr. De Anima, Γ , 8, 431 b 21.
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2. Le aporie del soggetto e il pensiero dell’alterità La destituzione novecentesca, di origine nietzscheana, del soggetto cartesiano si trova così sotto il peso dell’esito più maturo raggiunto dall’identità «riflessiva» della metafisica, e tenta di riguadagnarlo come una risorsa riconducendone la genesi alla «volontà di verità», cioè al tratto «vitale» dell’identità quale relazione a sé. Riportata all’autoposizione dell’io, la verità inconcussa di una tale identità quale principio (arché, letteralmente «ciò che comanda») frana: essa non appare altro che rimozione della diversità, dell’interminabile varietà della vita, del divenire e del tempo; nient’altro insomma che impulso vitale ad autoconservarsi e a rimediare al disordine della vita stessa, fino a tradursi in rifiuto della vita, non riconosciuto però come tale, ma al contrario mascherato quale eterna anteriorità di un ente separato, meta-fisico nel quale si raccoglie in unità perfetta tutto l’essere. In questo rifiuto agisce però a sua volta l’essenza vitale nella forma di «volontà di potenza»: è essa che alla fine di un lunghissimo percorso ha reso «favola» il presunto «mondo vero» dell’essere immobile ed eterno. Ma si esce davvero in questo modo dal cerchio dell’identico, che riprende in un’estrema affinità il dissidio tra vita e coscienza? O invece, mentre travolge nel suo incessante dinamismo generativo ogni identità fissa e determinata, la vita, nietzscheanamente intesa, ripropone in forma di «eterno ritorno» il predominio soggettivistico dell’eguale? L’eterno ritmo vitale è bensì l’«altro» che emerge in contrasto con la «presenza» intesa come il tempo nel quale si costituisce la coscienza; e tuttavia la forma del contrasto restituisce la varietà e il mutamento al loro saldo sostegno, alla costanza del divenire che li riprende nell’incessante ripetizione dell’eguale. La vita strappa così alla coscienza il modello della relazione a sé solo per riproporlo in termini di un predominio dell’identico perfino più saldo, portando a compimento la metafisica proprio attraverso l’avvento finale della volontà di potenza, nella quale diviene finalmente esemplare la logica del dominio che da sempre governa l’autoaffermazione dell’identità soggettiva. Se l’opposizione di una soggettività vitale al soggetto metafisico ribadisce e anzi consolida il primato dell’identico, si apre nel circolo di quest’antitesi la possibilità di un percorso che riesamini le risorse fondative della diversità non al di sopra o a fondamento del movimento di ritorno a sé della coscienza, ma all’interno di essa e della sua «vitale» conservazione di sé. Un pensiero attento alle aporie dentro le quali restano avvolti sia il primato violento dell’identico, sia una critica meramente eversiva
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dell’identità riflessiva della metafisica, deve accettare i paradossi della ripetizione dei fondamenti logico-ontologici attraverso i quali si è imposta l’identità metafisica; deve insomma far risuonare in modo nuovo la tradizione prima ancora di denunciarne gli errori di fondo. Il tema derridiano della differenza e quello levinassiano dell’alterità maturano sullo sfondo di un tale intenso rapporto con la tradizione filosofica, nella quale intendono mettere allo scoperto la resistenza inesauribile e perciò dirompente di differenza e alterità, capace di sradicare dalle sue pretese fondative il legame tradizionalmente indissolubile di essere e identico. Il terreno consapevolmente scelto per la disputa è però proprio lo spazio metafisico della riflessione, attraverso la quale l’uno è sdoppiato e ricostituito come totalità, ovvero ancora è pensato nella posizione di fondamento e di soggetto, come lo «Stesso» distinto dall’identità immota e indifferenziata. Si potrebbe dire che il diverso effetto generato dalla resistenza all’unificazione nelle due forme di opposizione – uno-molti e identico-diverso – definisce in certo modo legame e distinzione tra differenza e alterità, e tra Derrida e Levinas. Nel primo caso la differenza rovescia la direzione univoca del logos, del legame, verso l’unità, pensando quest’ultima, attraverso il linguaggio, nella luce della contaminazione, che attesta aporeticamente la resistenza irriducibile dell’opposizione alle pretese gerarchiche dell’uno. Nel secondo caso l’accento sull’alterità sottolinea la separa zione di «Altri», facendone il principio della comunicazione che rompe la tendenza neutralizzante dell’identico, in un riferimento anche positivo, subito rivendicato, alla tradizione del Sé. La salvaguardia dell’opposizione si accompagna però a prima vista alla ripresa di tratti in certo modo opposti della tradizione metafisica. Per Levinas occorre infatti riguadagnare la trascendenza metafisica verso l’altro, cioè verso l’origine, il principio, il mistero che sta oltre quanto ci è familiare e consueto, e che dunque suscita la nostra inquietudine e le nostre domande su tutto ciò che ci circonda e ci fa sentire a casa nostra – suscita insomma un inestinguibile «desiderio metafisico» che contrasta la reductio ad unum. Per Derrida si tratta invece di mantenersi in una paradossale continuità con la mediazione metafisica degli opposti, e anzi ripercorrere la connessione strutturale cercata dalla metafisica tra il dentro e il fuori, l’uno e i molti, l’identico e il diverso, contro la separazione immediata e assoluta di due mondi. La ripetizione decostruttiva della metafisica è però sempre più esplicitamente guidata dal riferimento levinassiano all’alterità. Sin dall’inizio la critica di Derrida a Levinas si è anzi svolta come un tentativo di radicaliz-
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zare ulteriormente l’irriducibilità levinassiana dell’altro. L’interesse di Derrida per Levinas nasce dall’attenzione al significato più profondo dell’interrogazione filosofica, che da sempre ha il carattere di un’«evasione» fuori dal cerchio rassicurante dei dati, dei fatti, dell’oggettività, dell’essente nella sua totalità, verso un’altra origine o un’origine altra, attraverso la quale soltanto è possibile d’altra parte giustificare la stessa domanda filosofica, e con essa la «libertà d’interrogazione»6. Un’interrogazione filosofica radicale ha preteso da sempre di portare nel discorso ciò che lo mette in questione, lo revoca in dubbio, gli si oppone. E si è articolata dunque in un doppio gesto: liberare l’opposizione di contro al discorso compiuto e immetterla, allo stesso tempo, nel discorso. Ma così entra alla fine in gioco, nello spazio dell’interrogazione, il senso dell’opposizione, cioè la «negoziazione» del suo rapporto con lo Stesso, della sua dipendenza da esso. La decostruzione è il lavoro filosofico che libera l’opposizione dalla regola gerarchica che la costringe, proprio «negoziando» con questa regola, ossia facendo i conti con l’implicazione reciproca degli opposti, con una certa inevitabile «contaminazione» dell’Altro con lo Stesso. L’alterità levinassiana sviluppa tutta la sua forza dirompente solo se la si immette di nuovo nell’interrogazione greca, cui egli si oppone nel tentativo di eccedere la chiusura metafisica nell’identico. Ma questo significa necessariamente far cadere la pretesa levinassiana di ricondurre l’opposizione alla «separazione»: a causa del rigido mantenimento dell’antitesi dentro/fuori, alto/basso, la separazione rischia infatti di lasciare in ombra e anzi di assumere acriticamente a fondamento proprio quel principio gerarchico che ha reso possibile fin dagli esordi della filosofia occidentale l’assoggettamento dell’alterità all’identico.
3. I dentità, alterità, violenza in Derrida La salvaguardia dell’alterità implica una salvaguardia dell’opposizione. È questo uno degli aspetti più significativi della «logica» filosofica di Der6
J. Derrida, Vi olence et métaphysique. Essai sur la pensée de E.L. (VM), in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, p. 119 (tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 100). Per una presentazione complessiva del confronto tra Derrida e Levinas si veda S. Petrosino, L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza. Derrida lettore di Levinas, prefazione a J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, tr. it. a cura di S. Petrosino, J aca Book, Milano 1998, pp. 9-51. Mi permetto di rinviare anche a L. Samonà, Diferencia y alteridad. Después del estructuralismo: Derrida y Levinas, Akal, Madrid 2005.
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rida. Si potrebbe dire che si tratta di una certa ripresa della distinzione aristotelica tra diversità e differenza, che tuttavia (con una decisa lettura di Hegel quale compimento della filosofia occidentale nel suo insieme) considera l’ordine metafisico del discorso sin dagli inizi guidato da una strategia tesa a unificare tutto lo spazio dell’alterità entro l’orizzonte egemonico dell’identico, e dunque risale verso diversità e alterità ripartendo dal governo metafisico dell’opposizione. L’identità metafisica non è mai senza opposizione: essa ha infatti il carattere di un ritorno a sé mediante l’altro. L’identità metafisica è perciò piuttosto per Derrida il conferimento di un senso unico all’opposizione attraverso un gesto violento di esclusione, che assoggetta la diversità entro una forma di opposizione già regolata dal predominio del suo opposto, mentre estromette l’opposizione a questo predominio. Non si tratta però di rovesciare questa logica. Si tratta piuttosto di coglierla come la smentita di un’«altra» logica, cioè come un «doppio legame» che accoglie e insieme respinge l’opposizione. Il «doppio legame» è la logica della decostruzione, che sdoppia la necessità logica, trasformandola in un’obbligazione senza costrizione, in un legame etico con l’alterità. Ma questo percorso argomentativo implica il passo più difficile: l’ammissione di una violenza necessaria nel darsi insieme dello Stesso e dell’Altro. Ossia l’ammissione di una violenza non imputabile per un verso soltanto alla rottura di un’unità originaria, che si presume invece immune dalla violenza, ma per altro verso nemmeno soltanto a una prevaricazione di quest’unità sull’altro. La violenza va invece già imputata a ciò che si colloca prima di queste relazioni negative, cioè alla stessa indifferente coesistenza dello Stesso e dell’Altro, nella loro separatezza. Una tale coesistenza è violentemente estranea alla diversità, è già decisa nel rifiuto di questa; è lo stesso insorgere della violenza, che a questo livello Derrida chiama «pre-etica»7, perché si colloca prima della relazione ad altro e definisce proprio l’indifferenza di questo esser «prima». Nella coesistenza «originaria» è già deciso il destino dell’uno rispetto all’altro. La violenza è insita nell’indifferenza di ognuno dei due termini rispetto alla sussistenza dell’altro, nella «dissimmetria» tra i due termini generata dall’indifferenza. Ma poiché in quest’ultima ognuno dei due è l’altro dell’altro, la dissimmetria produce una «strana simmetria», nella quale Derrida circoscrive la violenza «pre-etica», conferendole la figura paradossale di un diallele: la violenza è originariamente la cancellazione dell’opposizione, la cancellazione violenta della violenza stessa. 7
VM 188 (162).
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Recuperata questa forma aporetica dell’originario, Derrida vi scorge ora il lavoro dell’opposizione irriducibile. Se infatti la dissimmetria implica necessariamente la relazione all’altro, essa rimanda ad altro in un duplice senso, cioè anche prima di «tener conto» di esso. Ed ecco allora affiorare una direzione non prevista di senso, o se vogliamo una contaminazione ori ginaria del senso. La violenza che possiamo dire «trascendentale» non può essere infatti mai soltanto abolizione dell’opposto, perché proprio questo concetto implica la resistenza di una relazione e di una differenza «impure», che eccedono l’unità e il posto subordinato in essa assegnato all’altro. La violenza ha bisogno sempre del suo opposto: essa è già sempre contaminata con la non-violenza. Rispetto a questa tesi la ricerca di una nonviolenza pura o di un’alterità pura non soltanto è sviante, ma cerca la nonviolenza in uno spazio in cui questa è già perduta. La disputa tra «purezza» («santità») e «contaminazione» dell’alterità diviene la posta in gioco per la salvaguardia effettiva dell’alterità. Derrida adopera la concettualità greca per costringere all’aporia l’idea levinassiana di alterità «pura», che rischia a suo giudizio di inficiare un pensiero radicale dell’opposizione. Ma l’alternativa comporta l’ammissione di una certa violenza «minore», e con essa, dunque, di un’ineludibilità della violenza. Come «origine del senso e del discorso nel regno della finitezza»8 la violenza è da un lato inevitabile. Il pensiero dell’Altro si può attuare solo nella forma di un’economia della violenza, mantenendo una qualche identità degli opposti nella loro simmetrica spinta al predominio. In questo modo la custodia dell’opposizione è la liberazione della diversità dall’ordine gerarchico con il suo carico di oppressione: nella simmetria c’è l’ammissione dell’altro nell’ordine dell’identico e la possibilità di discriminare tra la violenza «etica», che tiene conto dell’altro in modo solo negativo, riducendolo e assoggettandolo, e la non-violenza altrettanto «etica», che tiene conto dell’altro riconoscendolo in quanto altro, cioè contaminando l’assoggettamento dell’altro con il moto contrario che ad esso fa resistenza. Una parziale accettazione della logica «greca» del discorso filosofico è l’unica via per rovesciarne efficacemente le pretese gerarchiche, che si sono mantenute intatte nel loro principio fino alla conciliazione hegeliana degli opposti. La contaminazione investe come un «cattivo infinito» la stessa conciliazione, e in tal modo colpisce il vero nucleo essenziale dell’identità metafisica, ovvero la distinzione gerarchica e il predominio dell’identico sull’alterità. A questo punto diviene però decisivo tracciare la 8
VM 189 (163).
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sottilissima differenza rispetto a un gesto analogo già sin da Platone presente nella filosofia greca. «Accogliendo l’alterità in generale nel cuore del logos, il pensiero greco si è protetto per sempre contro ogni convocazione assolutamente sorprendente»9: sembra che Derrida intenda con quest’osservazione invitare i filosofi che insistono su differenza e alterità a «ridiventare classici»10. In realtà però egli mira a «ritrovare altri motivi di divorzio tra la parola e il pensiero», sollecitando il terreno ineludibilmente greco del discorso con l’irruzione del «tutt’altro» di cui da sempre sono intessuti il senso e la parola. Il «divorzio» tra parola e pensiero, l’eccedenza della parola, come scrittura, sul pensiero, sono innestati nel rapporto aporetico del discorso filosofico con la disseminazione del senso. È proprio la capacità filosofica di proteggersi dall’altro, accogliendolo all’interno della potenza di appropriazione dell’identico, ad attestare la doppiezza del vincolo tra unità e molteplicità. In effetti la violenza metafisica, consistente nella riduzione dell’altro all’uno, nasce secondo Derrida con la sua «seconda parola», cioè con la rinuncia di Platone, nel Sofista, all’opposizione assoluta – che sarebbe la violenza assoluta, cioè la pretesa di cancellare la relazione. La violenza metafisica è dunque già un gesto di riduzione della violenza. Ma proprio a partire da questa osservazione è possibile mostrare che la reductio ad unum metafisica non può evitare l’intreccio con il movimento ad essa contrario di decostruzione del totalitarismo del logos. Il logos metafisico ospita al suo interno l’opposizione, con tutto il potere, che questa detiene, di modificare strutturalmente il senso dell’unità. La decostruzione può così risvegliare la metafisica alla sua origine, e cioè alla sua finitezza e al suo altro, e può portare alla luce in essa l’inevitabile contaminazione dei diversi, il «doppio legame» tra loro. Ma una tale «economia» della violenza si estende necessariamente anche alle pretese di un pensiero puro della differenza pura, con la sua impropria inscrizione nell’ordine filosofico dell’annuncio messianico della fine della guerra. Quando Levinas distingue l’altro in quanto altro dall’altro relativizzato e assoggettato all’identico, egli tenta secondo Derrida di sbilanciare a sua volta l’opposizione, nella quale domina l’appropriazione, in obbligazione irreversibile dell’identico verso l’altro. Ma in questo rovesciamento egli cerca di pensare dall’interno del logos il puramente «esterno», e dunque di anticipare impropriamente il regno messianico nell’escato-logia: la non-violenza, la non-negatività si presentano ingannevolmente 9 10
VM 227 (197). VM 224 (194).
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come il «vero» infinito rispetto al quale la totalità, come un «cattivo» infinito, è ancora il mero negativo, e pertanto appunto l’altro in quanto ristretto nella sua difettività. In questo rovesciamento c’è di nuovo il principio del dominio: la non-violenza pura rimette in gioco la violenza pura. Questo problema coinvolge innanzitutto l’assolutamente altro, il concetto di infinito o di Dio chiamato in causa da Levinas. L’opposizione all’appropriazione resiste per il filosofo di Kaunas nel volto d’Altri, ossia nel «fenomeno della non-fenomenicità», che è quella modificazione della coscienza intenzionale in cui l’altro si manifesta come altro dalla sua manifestazione. Ma il salto affrettato verso l’aldilà del volto perde la connessione fenomenica che il volto d’Altri di per sé reclama. Così, il «faccia a faccia» non è più originariamente «il fronteggiarsi di due uomini eguali ed eretti»11, perché alle sue spalle c’è «il faccia a faccia dell’uomo con la nuca spezzata e con gli occhi levati in alto, verso Dio». Il faccia a faccia, così concepito, «non esclude l’inferiorità», e perciò rilancia l’obiezione feuerbachiana secondo cui «l’uomo è un Dio venuto troppo presto», e Dio è ap pena ciò che sta più in alto della sua umiltà. La protezione dell’altro dall’oppressione dell’identico diviene una simmetrica oppressione se non si punta a decostruire il principio stesso del dominio, cercando nel logos «greco» dell’identità un altro intreccio (un «tutt’altro testo») e nella simmetria la rottura dell’ordine gerarchico cui mira il logos. A questo punto occorre accettare la sfida di domande atee che inscrivono Dio nella storia12, s’interrogano se Dio, il nome pieno della presenza piena, non sia «un’effetto di traccia», e dunque fanno spazio nel discorso a quell’«altra symploké»13 per la quale «il volto non è né la faccia di Dio né la figura dell’uomo: ne è la somiglianza»14, che bisogna pensare «prima o senza il soccorso dello stesso». E occorre perfino ammettere la simmetria con l’operazione metafisica che accoglie duplicità e differenza dentro la purezza e l’unicità del senso filosofico. Occorre insomma ammettere, in una certa simmetria con Hegel, una struttura «quasi» apriori, che lega gli opposti senza tuttavia chiedere soccorso alla riunificazione hegeliana in un’identità «più alta», riferita solo in modo ostile alla resistenza dell’alterità nella posizione «più bassa», cioè all’emergere della somiglianza con quest’ultima. Il «quasi apriori» della somiglianza, che 11 12 13
VM 158 (136). VM 170 ((146). J. Derrida, En ce moment même dans cet ouvrage me voici (1980) (EMM), ora in J. Derrida, Psyché, Galilée, Paris 1987, pp. 167-8. 14 VM 161 (138).
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nell’«apriori» dialettico del ritorno a sé dell’identico introduce l’«apriori» antitetico della distanza intoglibile, è per Derrida la différance (con la a), il legame estremo che tiene conto della dissimmetria opposta, della violenza opposta, cioè della resistenza alla violenza, della non-violenza, che è violenza dell’altro e non dello stesso. «L’alterità dell’altro inscrive nel rapporto ciò che non può essere in nessun caso «posto». L’inscrizione, allora...non è una semplice posizione»15: la différance fa spazio nella sua scrittura a quel resto che resiste alla violenza e la riduce entro un «tutt’altro» legame. La riduzione della violenza è un’«economia» di essa sia nel senso che la rende «minore» inscrivendovi la relazione che essa mira a cancellare, sia nel senso che la ammette come necessaria, la include nella forma originariamente contaminata («originariamente non-originaria») della resistenza alla violenza; la riconosce insomma come violenza dell’altro, che riduce la riduzione all’identico, e dunque mantiene la contesa dell’identico e dell’altro senza cedere a un’unificazione segnata dal predominio di uno dei due opposti. Questo è lo spazio aporetico attraverso il quale quella che possiamo chiamare la sollecitudine per l’altro, ossia un orientamento etico-politico verso la riduzione della costrizione, si fa strada in Derrida come «filosofia prima». Una formula che in questo caso va assunta in un senso ambiguo, perché l’inaggirabilità del riferimento all’altro s’impone nel medesimo tempo come cura per l’altro e come diffidenza nei confronti di ogni forma di conciliazione con l’altro, di fronte alla quale viene mantenuta viva l’opposizione. Da una tale conflittuale preoccupazione è guidata però non solo la critica alla «conciliazione» hegeliana, ma anche – con una disputa che però questa volta verte sulla medesima sollecitudine per l’altro – la critica al concetto levinassiano di separazione: nella misura in cui si costruisce attraverso una rottura e una riduzione della relazione, la separazione spinge infatti il pensiero in direzione contraria a quella del rispetto dell’altro, da cui parte, ossia in direzione di un totalmente esteriore, asimmetrico e indifferente alla relazione. È il trionfo della violenza pura, sia pure nel nome di una salvaguardia dell’Altro dalla violenza dello Stesso. Se, di contro, anche la separazione dell’Altro viene inscritta nella relazione, quest’ultima si mostra a sua volta inevitabilmente connessa con l’esteriorità irriducibile, per cui attesta nel modo più coerente il riferimento all’alterità. Il rovesciamento della separazione in un legame estremo mira a raggiungere 15
J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972, p. 132 (tr. it. a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1975, p. 127).
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con una strategia indiretta e paradossale proprio lo stesso obiettivo levinassiano, che rischia altrimenti di tramutarsi, contro ogni sua intenzione, in una reintroduzione delle pretese gerarchiche dell’uno. La decostruzione della separazione custodisce insomma in modo più adeguato la separazione. Proprio quest’ultimo passo traccia nel suo disegno fondamentale il cammino di approssimazione di Derrida a Levinas; e conferisce alla decostruzione il suo tratto più essenziale di operazione che non si limita a rovesciare, ma alla fine riprende in altro modo lo stesso discorso decostruito.
4. Alterità e separazione in Levinas È interessante però notare che la risposta di Levinas a queste obiezioni appare guidata in ultima istanza dalla stessa diffidenza nei confronti di un pensiero della conciliazione. E la separazione è per lui il vero segno del limite di un governo metafisico dell’opposizione, l’articolazione stessa dello scambio comunicativo che definisce i concetti di identità e alterità. Solo l’esteriorità e la divisione, l’eterogeneità degli esseri e la secondarietà di ogni totalizzazione, garantiscono l’accoglimento nel pensiero dell’originarietà dell’altro. Il passaggio necessario diventa qui la rottura del fondamento sostanziale e soggettivo della relazione, che richiude il «per sé» nel suo moto esclusivamente autoreferenziale: «l’un-per-l’altro non è, nella sua decisiva sospensione del per sé, il per-l’altro della mia responsabilità per altri?»16 Levinas mette subito al centro del suo percorso argomentativo l’identità del Sé. Proprio l’autoriferimento, l’unità nella figura dell’autocoscienza, il naturale egoismo dell’io, liberano un riferimento positivo e «pre-originario» all’alterità nel cuore dell’identità: solo il Sé è in quanto altro. «L’esteriorità sociale è originaria»17. Per essa non valgono le «categorie di unità e molteplicità che sono valide per le cose» – ossia per quell’unificazione che è di uno «spirito solo», quale suo mondo o insieme dei rimandi. Nel caso dell’esteriorità sociale ciò che lega non è mai senza opposizione, perché senza quest’ultima la natura «riflessiva» del Sé perde il suo senso; e l’esteriorità mostra il suo carattere originario persino rispetto all’univocità della relazione ad altro. 16
E. Levinas, Noms propres, Fata Morgana, Montpellier 1976, tr. it. a cura di F. P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984 (NP), p. 72. 17 E. Levinas, De l’exi stence à l’exi stant , Vrin, Paris 1947, tr. it. a cura di P.A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986 (EE), p. 87.
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L’alterità implica dunque un’identità radicalizzata nel modo d’essere del Sé: è l’alterità dell’altro uomo o di Dio nella sua intimità con il Sé. Solo sulla base di questa svolta epocale nella comprensione dell’identità si può cogliere il debito del pensiero dell’uno nei confronti dell’esteriorità. Qui si radica il legame per certi versi sorprendente di Levinas con la tradizione moderna dell’Io, e il suo particolare «umanesimo dell’altro uomo». Nell’Io Levinas non cerca il principio universale o la condizione trascendentale, ma il singolo, la persona, nella cui costitutiva apertura si presenta una molteplicità di Sé non più riunificabili in un universale, non raccoglibili in un logos inteso come piena comunicazione, in certo modo dunque ineffabili, e per questo «al di là dell’essere». Nella persona, l’eterogeneità, l’esteriorità è in qualche modo presupposto del divenire sé da parte del soggetto: la riduzione della differenza deve cedere il posto alla conservazione di essa e dunque al riconoscimento di sé come un altro. In questo riconoscimento c’è un’accoglienza a partire dalla quale si struttura il Sé: c’è un precedente, un passato dell’unità, che sospende la chiusura dell’io in un’identità perfetta. La sospensione del Sé, in base alla diacronia che ne mostra il carattere secondario di ritorno, e ne rende dunque impossibile il raccogliersi in una presenza piena, non può essere pensata secondo Levinas alla luce di un «surplus» di unità ancora sopravvivente oltre il Sé, perché dietro quest’ultima ritorna ostinatamente proprio la pretesa di interiorizzare pienamente la relazione. Il senso della relazione va cercato invece proprio nella stessa alterità del Sé, in quello che in esso Levinas indica come il «meglio della prossimità»18, cioè la decisione «preoriginaria» per il bene, l’estroversione che precede l’indifferente spinta all’appropriazione. Questo è il senso dell’«etica prima dell’essere», dell’appello che proviene da Altri e obbliga originariamente ad altri. Ebbene, Derrida rischia secondo Levinas di ricadere dal lato di un’interpretazione universalizzante della relazione, lasciando che l’indifferenza copra il «più» nel meno, cioè il «meglio» dell’alterità. La sua decostruzione, che non a caso parte dall’accettazione di una «violenza trascendentale», fa ricorso a una struttura nella quale sopravvive l’idea di un fondamento unitario e impersonale dell’essere. Il pensiero della différance torna così a far leva sulla neutralizzazione metafisica dell’alterità perché, a dispetto del suo potenziale critico nei confronti della presenza, cede all’orizzonte della simultaneità e del possesso pieno, di cui ripropone un’estrema metamorfosi. Nel mostrare l’«impossibile pie18
NP 73.
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nezza della presenza», il movimento del differire continua infatti a muoversi nel «cerchio dell’essere e del nulla», conservando il modello di un’identità perfetta sia pure nella figura negativa della disfatta della felicità sperata, nel simulacro della defezione della presenza; e così semplicemente trasfigura l’atteggiamento metafisico in un’interminabile critica decostruttiva: una perseveranza nella tradizione ontologica attraverso «il gusto dell’infelicità», perché sotto l’unico segno persistente di una «violenza trascendentale». In generale, il concetto di differenza offre «un estremo rifugio alla presenza»19, fino a quando non viene rinviato all’alterità che eccede il differire e lo riformula come «non-indifferenza» ad altri. Solo se integrata con questo riferimento, la différance può certamente ritornare preziosa per definire il senso di una relazione che nasce dalla rottura della relazione. Ripensato alla luce della «non-indifferenza», l’approccio decostruttivo di Derrida al governo non-contraddittorio dell’opposizione offre a Levinas un appoggio per non schierare il proprio discorso né nell’orizzonte del principio di non-contraddizione né tra gli eversori a cuor leggero di un tale principio e, con esso, dell’unità, dell’unico, del singolo; e per fare entrare nel discorso, ripensato come il terreno del dire e del contra-dire, l’interlocutore con la sua prossimità che non è mai presenza. La prossimità intende valere per un verso come una precisa antitesi rispetto alla contaminazione; ma per altro verso mette in gioco anch’essa una relazione che è insieme rottura della relazione. Proprio la critica più rilevante di Derrida, quella che libera il tempo dalla subordinazione alla presenza, suggerisce la possibilità di una relazione non più regolata da qualcosa di comune, bensì orientata dalla diacronia irriducibile dell’altro: la non-in-differenza si può considerare senz’altro, in questo senso, ancora una differenza, ma non più misurata in maniera ultimativa dall’identico, così da essere relegata nel territorio puramente nominale della contraddizione. La liberazione dell’interlocuzione dal concetto formale di contraddizione trasforma anche la controversia con Derrida: si perderebbe la distanza del detto dal dire, la non-simultaneità che impedisce la contraddizione, se in una posizione come quella di Derrida ci si limitasse a cogliere il riferimento negativo (e già esposto all’argomento antiscettico) al «fallimento della presenza»; ci si farebbe ancora catturare, insieme al proprio interlocutore, in un presunto luogo della lingua, la quale, «interamente a disposizione di colui che parla, simula la sincronia stessa», e ripropone perciò la «presenza per eccel19
NP 70.
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lenza» di un sistema o struttura che possiede pienamente ciò che invece fa difetto a ogni simultaneità empirica. Invece, proprio sulla base del lavoro decostruttivo di Derrida, anche se in parte in opposizione a lui, si può rinviare dal detto al dire, e cioè all’interlocutore, all’altro uomo; e si può andare incontro nell’interlocuzione a un essere che è presente alla sua manifestazione, ma in una relazione mai risolvibile nell’enunciato o nel detto. Attraverso l’interlocuzione la critica al primato dell’identità si estende al «paragone degli incomparabili», che continua a sedurre Derrida in direzione di una «necessità di sapere» e di una mediazione neutrale del concetto, nelle quali è già tacitata la primitiva struttura d’invocazione del discorso, e cioè il suo avere senso solo a partire dall’appello «preoriginario» di Altri. Al contrario, solo la separatezza fino all’ateismo è per Levinas la dimensione nella quale diviene possibile il legame non totalizzante, la dipendenza «senza simili», senza comparazioni e riaffermazioni dell’identico, ossia proprio quel legame che egli chiama «religione»: è questo infatti il nome della relazione che non costringe, della prossimità reale, della «fraternità», che sovrabbonda in seno all’assoluta unicità nella separazione. Anche la creaturalità, difesa fino in fondo come condizione in certo modo ultima, non intende definire un’estrema, insormontabile gerarchia se non addirittura una schiavitù, quanto piuttosto determinare nel modo più radicale la condizione di finitezza come una dimensione nella quale l’autosufficienza rimanda alla passività, l’iniziativa al dono, la libertà alla responsabilità. Il recupero dell’esteriorità come fondamento e senso di un’interiorità responsiva e responsabile non può del resto avere soltanto il tratto negativo dell’insistente rinvenimento di aporie in ogni figura dell’identità, sicché l’accesso all’Altro ne risulti sempre richiesto e insieme sbarrato, ma sfrutta anche le risorse relazionali nascoste nell’identità «riflessa». Il modo d’essere del Sé (quello che anche Ricoeur ha chiamato identità-ipse e contrapposto all’identità che esclude la diversità, o identità-idem) suggerisce un’apertura e un’accoglienza irriducibili della coscienza, un suo esser-altro al di là del senso attivo della capacità d’interiorizzazione. Le risorse comunicative dell’io sono affidate da Levinas addirittura a ridefinizioni «passive» del soggetto quale «ostaggio» o «sostituto» dell’Altro. L’identità-ipse deve accogliere, per costituirsi, un aspetto diacronico della relazione, mai riappropriabile nell’identità stessa e anzi addirittura nemmeno nella relazione a due che fa rivivere l’identico nella reciprocità di Io e Tu. La distanza incolmabile nella relazione di interlocuzione fa sì che, mentre l’accesso diretto all’Altro è impossibile, un accesso «indiretto» non solo è possibile, ma è la stessa attuazione del Sé. Qui la separazione è irrinuncia-
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bile: la resistenza dell’opposizione all’inclusione nell’identità è dovuta proprio all’impossibilità di riunificare l’alterità dell’altro e l’altro nell’identico; di pensare in una cornice di comparabilità l’altro dell’altro; di ridurre in qualche modo l’unicità di Altri. Levinas recupera perciò il richiamo di Derrida all’altro dell’altro, che sembrava un passaggio inesorabile verso la contaminazione, riconfigurandolo in modo decisivo attraverso l’idea di giustizia, intesa come una più radicale scomposizione, attraverso il «terzo» che «turba» l’«esteriorità a due», della «mia relazione con l’unico e l’incomparabile», ancora in certo modo attratta nell’identità della coscienza. La giustizia non ristabilisce nel posto più alto l’equiparazione, ma radica definitivamente nell’incomparabilità e nell’irriducibile singolarità l’equilibrio possibile della relazione. Il terzo che essa introduce non è il termine medio, ma anzi è sempre l’unico «in eccesso» rispetto alla relazione.
5. La difesa comune dell’opposizione Lo strettissimo terreno di scontro tra Levinas e Derrida, come mostra anche l’ulteriore sviluppo della discussione tra i due pensatori, è proprio il senso del «legame etico», inteso quale «logica» dell’alterità. Il rifiuto della contaminazione («un Dio non contaminato dall’essere») che apre come una dichiarazione programmatica Autrement qu’être di Levinas, torna ad essere discusso, nel saggio derridiano En ce moment même, come un atteggiamento che tiene in sospeso la scrittura levinassiana, poiché la porta a lottare contro una contaminazione necessaria in ogni ripresa di ciò che è altro dal detto, fuori dalla sua sincronizzazione. La contaminazione è la parola-chiave, su cui si deve prendere posizione, perché si dà apriori, prima del contatto, «nella semplice necessità di annodare insieme delle interruzioni come tali»20. Ma nel dire «altrimenti» di Autrement qu’être viene ora seguito lo spostamento significativo del concetto di relazione: attraverso l’«interruzione» del rapporto di appropriazione, nella quale l’opposizione dello Stesso e dell’Altro viene superata e assoggettata all’identità riflessiva, si fa strada il legame etico di un «rapporto d’interruzione»; l’opposizione perde il carattere di contrarietà (governata per sua natura dal predominio apriori dello Stesso) e acquista quello di «somiglianza»; quest’ultima non è il semplice sigillo impresso in una diversa materia, né il rimando gerarchico della copia al modello, ma la contaminazione di eterogenei, la 20
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presenza dell’Altro nello Stesso: è la rottura nella relazione, l’impossibilità pura della somiglianza stessa, la persistenza stessa di un’attuazione pu dell’opposizione. È questo il legame che non costringe, il legame con l’impresentabile, il dono (nel «presente»), cioè la presentazione dell’impresentabi tabille (e in questo questo se senso nso effe ffettiva ttivam mente la «rel «religione»). ne»). I l lavoro voro del della concontaminazione consiste ora in un’incessante reinscrizione del «resto», dell’altro dell’altro, che ogni ammissione univoca dell’alterità in prima istanza vuole escludere; e a una tale ammissione oppone invece un’apertura incondizionata all’alterità, sia «disseminando» il senso religioso del dono con un’analogia tra tutti i nomi propri, che orientano il discorso verso il non accomunabile; sia combinando l’alterità assoluta con la differenza sessuale, con il nome di uomo o di donna, che fanno da ostacolo a una separazione «pura». La contaminazione acquista in Derrida sempre più i tratti di un ripensam sa mento del dell’ide ’identi ntità tà com come apo apori ria a. I denti dentità tà e alteri terità tà conve convergo rgono no nel nella reresistenza dell’aporia, nell’impossibile pensiero della disgiunzione, cioè di una particolarissima connessione o struttura che nasce dalla presenza «doppi «doppia a» del dell’altro ’altro nel nel dono dono.. Il I l doppi doppio o legame che l’oppo ’opposizi sizio one fa traspa trasparire dietro il pensiero della disgiunzione deve essere «semplicemente possibile», cioè necessariamente inattuato, aporetico rispetto all’alterità. Alla «negoziazione» tra lo stesso e l’altro Derrida affida la possibilità estrema di un passo, di un passaggio dentro l’aporia, e la possibilità di esercizio della filosofia di fronte al pensiero, insieme inaccessibile e inaggirabile, dell’alterità. I l punto punto ferm fermo o, non non deco decostrui struito to né né de deco costrui struibi bille, del del co confronto nfronto tra i due pensatori rimane fino all’ultimo l’opposizione: essa è chiamata a misurare i rischi ora dell’assolutamente Altro levinassiano, ora della neutralità della differenza derridiana. La polemica stessa tra i due pensatori è attratta irresistibilmente nel circolo che Derrida aveva descritto come la «strana simmetria» nella quale solo la riduzione della violenza può stabilire la pace. I n questo questo modo arri rriva a un un punto punto criti critico co l’ap l’apo oria ria tra sa salvag vaguardi uardia a de dell’al ’altro dall’oppressione dello stesso, e contenimento di quella violenza trascendentale che in questa stessa salvaguardia è fatalmente in azione. Alla luce di una tale aporia la cura levinassiana dell’altro implica necessariamente il confronto derridiano con la contaminazione nella forma della violenza. I n Derr Derriida la cura del dell’im ’impossi possibi bille fa em emergere rgere fina fi nallmente il riferi ri ferim mento non decostruibile delle decostruzioni. L’impossibile è l’altro, accolto senza più risorse critiche di fronte alla contaminazione ultima tra perdono e giustizia, tra conciliazione e violenza; e la contaminazione si appoggia a sua
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volta saldissimamente a un’ostilità insuperabile verso il risvolto vittimario che si crede di ravvisare nella sua figura estrema proprio là dove la filosofia ha voluto la conciliazione. Qui si tocca il limite pregiudiziale della decostruzione: la cura del diverso (la sollecitudine per la vittima, per usare un’espressione di René Girard) trascina in un’ostilità irremovibile verso una conciliazione che stia più in alto dell’opposizione, e dunque in assoluto verso la conciliazione. La cura per l’alterità riduce la violenza in una dimensione residuale ma non più decostruibile, a partire dalla quale è possibile finalmente esibire la verità dell’Altro, e con mossa antiscettica barricarla contro ogni possibile obiezione: un uso estremo della confutazione, questo, che Derrida accetta senz’appello come violenza minore. Anche per Levinas l’opposizione irriducibile è quella tra l’indifferenza e il «meglio» costituito dalla non-in-differenza. La filosofia deve prendere misura da questa opposizione, che definisce anche i limiti della socialità e persino i limiti che l’asimmetria detta all’accoglienza dell’altro. L’accoglienza sembra significare anche qui accettazione della violenza legata inesorabilmente alla giustizia. La diffidenza per la contaminazione nasce anch’essa dalla difesa del tratto irriducibile nell’opposizione. Anche in questo caso, nella difesa dell’altro viene identificato il limite della possibilità per il pensiero di svincolare l’accoglienza dalla violenza. Approdiamo in tal modo all’esito aporetico dell’apertura del pensiero all’alterità, nella forma rigorosa che Levinas e Derrida hanno sviluppato, portando l’interro sogg gge etti va dell’identico a partigazione filosofica al cuore della formazione so re dall’opposizione. Ci rimane così in consegna un lavoro d’interrogazione sull’intreccio tra violenza e accoglienza: un lavoro che dovrebbe forse sfidare con una lettura conciliativa (ma è materia per un altro testo) il contrasto nel quale si ritrovano catturati i due pensatori all’interno della comune battaglia contro quella che giudicano come la tendenza filosofica ad opprimere la resistenza della diversità. Ab Abstra racct Derri da go got near neare er and neare arer to the thoug thought ht of of other otherness ness by by deco deconstr nstructi ucting ng the metaphysi taphysical cal supr supremacy of of i denti dentity, ty, using usi ng a new new logi c: the log i c of of the doub doublle bi nd to oppositi si tio on which which is i s accep accepted ted whe when n it’s i t’s subj subjected cted by by the the supre supremacy of the ide identi ntity ty,, but which hi ch is i s re refused fused whe when n it’ i t’ss op opposed sed to this thi s supr supremacy. By consi conside derri ng this thi s op oppositi si tio on in in i ts ir i rreduci duci bi li ty De Derri da ac acce cep pted ted the attenti attentio on for the other ther typi typi cal of of Le Levinas’ vinas’ phil hi lososo ph phy; but, i n thi s way, the thought of otherne rness comes to be linke linked wi th vi olen lence.
L’identità in questione
Tutto diverso da lla nega zione Luigi Vero Tarca
Tratterò il tema identità/alterità a partire dalla nozione di differenza, in particolare in relazione alla distinzione, che ritengo fondamentale, tra la differenza e la negazione, o, per essere più preciso, alla distinzione tra la differenza e la differenza negativa. A tal fine prenderò lo spunto da un articolo1 nel quale qualche tempo fa Emanuele Severino ha preso in esame un mio libro2 muovendo al suo contenuto alcuni rilievi critici. Le osservazioni che lì mi vengono fatte sono di vario genere, ma la «riserva centrale» (p. 9)3 che egli avanza nei confronti della mia posizione è che la nozione chiave sulla quale essa si fonda, cioè quella di differenza intesa come un’entità diversa dalla negazione, «non assume alcun senso» (ibidem); anche se lo stesso Severino ammette poi la possibilità che «una più attenta ricerca» (ibidem) possa invece giungere a una conclusione diversa. Cercherò dunque di rispondere a questa osservazione di Severino esplicitando la mia posizione per quanto riguarda la distinzione tra la differenza e la differenza negativa; tale chiarimento dovrebbe consentire poi di fornire una risposta generale alle altre critiche di Severino, anche se questa seconda parte del discorso verrà qui solo accennata, in quanto un suo svolgimento completo richiederebbe uno sviluppo troppo ampio. Potrei incominciare dicendo che sono io che vorrei chiedere a Severino e a molti altri filosofi qual è esattamente il senso che loro danno ai termini ‘differenza’ e ‘negazione’, e alla distinzione tra le due nozioni; perché ho la 1
E. Severino, Verità, negazione, differenza, «Teoria», XXII/2002/2 (Nuova serie XII/1), pp. 3-15. 2 L. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001. 3 Salvo diversa indicazione, in tutto il presente saggio i numeri di pagina si riferiscono all’articolo di Severino sopra citato. TEORIA 2006/1
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netta impressione che quasi sempre tali parole vengano assunte in maniera ovvia e scontata, come se fosse del tutto chiaro e pacifico che cosa esse significhino. L’intento del mio lavoro filosofico è in gran parte proprio quello di contribuire a chiarire queste due nozioni (differenza e negazione), la loro reciproca relazione e quindi anche la differenza tra di esse. Per essere più esplicito ed entrare subito nel cuore della questione, direi che mi pare che nel discorso filosofico (come del resto anche in quello ordinario) valga generalmente un tacito presupposto, precisamente l’assunzione che non vi sia differenza che non sia una forma di negazione, e che quindi ogni differenza sia una negazione, quanto meno nel senso che la differenza equivale comunque alla negazione della identità dei differenti. Ritengo che questa identificazione della differenza con la negazione dell’identità, conferendo un privilegio aprioristico alla negazione, ostacoli una soluzione soddisfacente dei problemi filosofici, la risposta ai quali esige che si pensi una nozione di differenza distinta da ogni forma di negazione (compresa la negazione dell’identità), quella che appunto per ciò io chiamo pura differenza. Ancora a livello di battuta preliminare potrei aggiungere che forse uno dei motivi per i quali Severino dice di non trovare nei miei scritti il significato o, se vogliamo, la definizione della pura differenza consiste nel fatto che anch’egli – come del resto, per quanto mi è dato di vedere, quasi tutti coloro che ascoltano i miei discorsi – si attende di trovare una definizione del termine, o una determinazione del suo significato, di tipo negativo, tale cioè che l’affermazione di una proposizione implichi automaticamente la negazione di almeno un’altra proposizione (per esempio, e in particolare, la negazione della sua negazione); è naturale allora che ciò che egli trova in un discorso come il mio, il quale ha invece cura di distinguere chiaramente l’affermazione di una proposizione (p) dalla negazione di qualsiasi proposizione (compresa la negazione della negazione di p), sia essenzialmente diverso da ciò che egli si aspetta, e appaia quindi insoddisfacente o addirittura privo di senso dal suo punto di vista. Insomma, credo di poter dire che la comprensione della mia proposta filosofica richiede una rotazione dello sguardo, cioè l’apertura di un modo nuovo e poco usuale di vedere la realtà; così che se le mie parole vengono assunte all’interno della vigente interpretazione ‘negativa’ od ‘oppositiva’, esse finiscono per avere un significato contraddittorio o per apparire prive di significato. A questo proposito è significativo l’incipit (p. 3) del discorso di Severino («Tra le critiche più interessanti ed originali rivolte al mio discorso filosofico [...]»); perché se il mio discorso viene inteso come una critica nei confronti
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del discorso di Severino, e se, naturalmente, il termine ‘critica’ possiede una carica negativa (come accade se, per esempio, implica proposizioni negative del tipo ‘La posizione di Severino non è vera’, oppure ‘...non è adeguata’, e simili), allora effettivamente il mio discorso si espone fatalmente a delle obiezioni radicali4. Sempre in relazione a queste note preliminari (e tuttavia importanti) vorrei rilevare che anche a Severino – come del resto praticamente a tutti coloro che si riferiscono alla mia filosofia – risulta difficilissimo formulare la mia posizione in maniera effettivamente conforme all’intenzione che guida i miei scritti; perché quasi sempre essa viene automaticamente tradotta e formulata mediante espressioni negative, cioè mediante proposizioni nelle quali qualcosa viene in qualche modo negato. Per esempio, nell’articolo in questione si dice, a proposito della mia posizione: Essa non sostiene dunque che la differenza «non è» negazione (altrimenti la differenza sarebbe negazione della negazione, e quindi sarebbe contraddizione), ma sostiene che la differenza differisce dalla negazione. E, analogamente, non sostiene che l’amore non è odio (altrimenti l’amore sarebbe negazione dell’odio, e dunque contraddizione), bensì che l’amore, semplicemente, differisce dall’odio. E la verità non è negazione dell’errore, ma, semplicemente, differisce dall’errore [p. 7; i corsivi sono miei].
Proprio nel momento in cui presta la massima attenzione per cercare di restare fedele al senso del mio discorso (e infatti ha cura di distinguere la mia posizione da quella che, affermando per esempio che ‘la differenza non è negazione’, nega l’esser negazione da parte della differenza), questa formulazione ripropone poi, nel presentarlo, formule di tipo negativo («non sostiene»; «non è negazione»)5. In questo modo – ecco una prima osservazione – la mia posizione viene automaticamente presentata come quella che si contrappone alla posizione affermante che la verità è negazione dell’errore e quindi come quella che in qualche senso nega la verità di questa proposizione (‘La verità è negazione dell’errore’). L’osservazione, 4
Tengo a precisare che, anche se a me pare che siano assenti, in quel mio libro, espressioni che abbiano una forma esplicitamente negativa, del tipo ‘Questa proposizione di Severino non è vera’ e simili, probabilmente Severino ha qualche ragione nel ritenere che almeno alcuni passi di quel libro suonino come una critica (negativa) nei confronti della sua posizione; sicché, nella misura in cui così è, nella misura cioè in cui il mio testo suona come una negazione del suo pensiero e della sua verità, allora sono io il primo a riconoscere che è opportuna una riformulazione del mio discorso capace di conferirgli un aspetto differente da quello che lo fa consistere in una posizione critico-negativa. 5 Cfr. anche: «[...] se la «liberazione» dalla contraddizione non può essere negazione della contraddizione» (p. 7, corsivo mio).
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che a prima vista può sembrare un eccesso di pignoleria, è invece decisiva; perché la mia posizione, in quanto è quella che definisce la verità come differente rispetto a ogni contenuto negativo (cioè determinato mediante una negazione), se viene letta negativamente (ovvero in maniera tale che ogni differenza viene tradotta con una negazione) finisce per presentare la verità come negazione di ogni contenuto negativo e quindi anche di ogni negazione; ma in tal modo la mia stessa posizione viene a costituirsi – oltre che come negazione delle proposizioni negative altrui (quali ‘L’essere non è il non essere’, ‘L’essere non diviene’, ‘La verità non è l’errore’, e simili) – pure come negazione di se medesima (in quanto è anch’essa una negazione). È doveroso precisare, da parte mia, che in questa ‘traduzione in negativo’ della mia posizione Severino si trova in buona compagnia, e direi anzi ottima, se si considera che tra tutti coloro ai quali è capitato, traducendo in negativo quello di cui il mio discorso intende parlare, di ‘rovesciarne’ il senso autentico (cioè quasi tutti e quasi sempre) devo includere anche il sottoscritto, dal momento che mi è capitato di trovare nei miei scritti, soprattutto in quelli meno recenti, alcune formulazioni negative che, anche se spesso ‘giustificate’, oltre che da un inveterato automatismo, dalla necessità di essere sintetico e di evitare perifrasi troppo complicate, finiscono però per rendere problematico il mio discorso o addirittura per conferirgli un aspetto contraddittorio6. *** Veniamo dunque al punto. Incomincio con il precisare quello che intendo per differenza negativa. Chiamo ‘differenza negativa’ la differenza che istituisce una bipolarità (o dualità) dicotomica tale che ciascuno dei due poli esclude almeno un tratto dell’altro, precisamente quel tratto che definisce il secondo polo come differente dal primo. La differenza negativa istituisce dunque un’opposizione (contrapposizione) tra i differenti, che per questo vengono chiamati opposti 7. 6
Mi ricordo che durante la correzione delle bozze di Differenza e negazione ho passato un numero considerevole di ore a ‘emendare’ le pagine da (quasi) tutti i passi nei quali la mia posizione veniva espressa mediante formule negative, e tuttavia è possibile che alcune di queste siano rimaste. Inoltre si pone qui un problema delicatissimo, quello cioè di distinguere questo modo di trattare le negazione da ogni eliminazione della negazione che ne presupponga la negazione, giacché questo risulterebbe immediatamente contraddittorio. 7 Gli opposti (o ‘negativi’) sono l’uno la contro-parte dell’altro. Vi è per esempio differenza negativa tra pari e dispari, se si intende che il fatto che un numero sia pari esclude che esso sia
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La differenza negativa si presenta così come un aspetto della differenza, la quale viene qui definita in generale come ciò che istituisce le determina zioni 8. Queste, infatti, sono tali proprio in quanto vengono determinate (de finite) mediante la proprietà che le distingue dalle altre determinazioni9. La negazione è invece ciò che rende le determinazioni reciprocamente escludentisi (almeno per un tratto), e quindi contrastanti. La differenza negativa è così quel tipo di differenza che, nell’istituire le determinazioni, le rende incompatibili, ovvero reciprocamente escludenti10. Le determinazioanche dispari (e viceversa). Lo stesso vale per la differenza tra maschio e femmina (un individuo maschio non può essere femmina, e viceversa), tra bene e male, tra freddo e caldo, tra vero e falso; ma anche tra freddo e non freddo, tra vero e non vero, ecc. In generale si istituisce una differenza negativa tutte le volte che la differenza implica che vi sia almeno un elemento dell’un termine, precisamente quello che lo definisce differenziandolo dall’altro, che viene negato rispetto a quest’ultimo. Per esempio la differenza negativa tra il pari e il dispari consiste nel fatto che il numero pari possiede un tratto (la divisibilità senza resto per due) che invece viene escluso rispetto al numero dispari. La differenza negativa tra il caldo e il non caldo (il contraddittorio del caldo) è il fatto che il non caldo (poniamo per esempio il verde) manca di almeno una proprietà che rende caldo il caldo (poniamo: la capacità di alzare la temperatura di un altro corpo con il quale entri in contatto); e così via. Come si vede, tale definizione include tanto quelli che tradizionalmente vengono chiamati i contrari (bene/male) quanto quelli che vengono chiamati i contraddittori (bene/non bene). 8 Per esempio la relazione di vicinanza istituisce la differenza tra i vicini. Se si volesse dire che i vicini, per essere differenti, devono essere non identici, si può osservare che in tal modo viene attribuito, ai differenti, un carattere negativo che è aggiuntivo rispetto a quello della differenza, e di questa aggiunta bisogna allora rendere ragione. Ovvero si può osservare che l’implicazione necessaria tra la differenza e la negazione presuppone una particolare concezione di differenza, quella appunto che la identifica con la negazione dell’identità dei differenti. Qui, invece, si definisce la differenza tra la differenza (ciò che istituisce le determinazioni) e la differenza negativa (ciò per cui le determinazioni risultano reciprocamente escludentisi); nel seguito immediato del discorso si mostrerà come l’assunzione della equivalenza delle due figure (differenza e differenza negativa), ovvero l’identificazione della differenza con la negazione dell’identità, conduca a conclusioni contraddittorie. 9 In quanto istituisce le determinazioni, la differenza ne costituisce l’elemento definitorio e quindi essenziale. Di conseguenza, la differenza negativa costituisce un tratto essenziale dei due poli opposti che mediante essa vengono istituiti. 10 Si faccia attenzione a quanto segue. O si dice che i termini ‘differenza’ e ‘negazione’ sono assolutamente sinonimi, ma allora anche la semplice differenza (per esempio) tra l’Essere e l’ente, o tra il bianco e la neve, viene ad essere una reciproca negazione dei due differenti, con conseguente estensione universale della contraddizione (giacché la semplice attribuzione dell’essere all’ente equivale alla congiunzione di due elementi incompatibili); oppure si riconosce che i due termini hanno significati diversi, ma allora è chi afferma che vi è un nesso necessario tra la differenza e la negazione (come è costretto a fare chi afferma che ogni differenza è una negazione) che ha l’onere di dimostrare la necessità di questo nesso. Ora, a me pare che ogni dimostrazione siffatta presupponga il nesso necessario tra differenza e negazione. Ciò vale anche per la ‘tradizionale’ fondazione elenctica dell’opposizione. Questa, infatti, ‘dimostra’ che, se vi fosse una determinazione differente da quella negativa, essa sarebbe non negativa, e costituirebbe con
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ni che vengono istituite mediante una differenza negativa si chiamano naturalmente determinazioni negative. In quanto si escludono reciprocamente per almeno un tratto, entrambi i poli opposti si differenziano da (qualcosa di) ciò che contribuisce a renderli differenti. In particolare essi si differenziano sia dall’insieme che li costituisce sia dalla differenza che li rende opposti alla loro contro-parte. Il loro insieme, infatti, è un tutto costituito, oltre che dei due poli, anche degli elementi che ciascuno di essi esclude rispetto all’altro. La differenza, invece, si configura come un momento del differente, precisamente quel suo aspetto per il quale esso si differenzia oppositivamente dal polo opposto. In tal modo l’insieme si costituisce come una entità ulteriore (terza) rispetto ai due poli (in quanto) contrapposti; e lo stesso vale, sia pure in modo diverso, per la differenza. Infatti il primo, per così dire, incrementa la determinazione negativa all’esterno; la seconda la incrementa all’interno. Questo vuol dire che sia l’insieme dei due poli sia le loro differenze interne sono determinati mediante qualcosa (una differenza) che è (anche) altro rispetto a ciò che determina ciascuna delle due determinazioni negative. Ora, ogni espressione di carattere negativo (‘A non è B’, ‘A non corre’, ecc.) esprime ed indica (testimonia) una differenza negativa e istituisce quindi delle determinazioni negative. La negazione dell’identità di due differenti, che costituisce essa stessa una differenza negativa, è la base comune di qualsiasi differenza negativa. Si osservi che, se si fa coincidere la differenza con la negazione dell’identità, allora ogni differenza viene automaticamente ad essere negativa. Tutto questo ha delle conseguenze. Se si assume che non vi sia altra differenza oltre quella negativa, e quindi che ogni differenza sia negativa (e conseguentemente che non vi sia al-
tra determinazione oltre quella negativa, e quindi che ogni determinazione sia negativa), allora tutte le fi gure (le determinazioni) che definiscono (determinano) la totalità, cioè che abbiano come loro tratto essenziale la forma della totalità, vengono ad essere contraddittorie. Pertanto, nella misura in cui le figure filosofiche eminenti hanno essenzialmente a che fare con la ciò stesso una individuazione proprio di ciò a cui vorrebbe sfuggire. Ma questo tipo di ‘confutazione’ presuppone appunto quella equivalenza tra differenza e negazione che si tratta invece di giustificare. E se persino la confutazione elenctica (di tipo negativo) fallisce nella giustificazione di quella proposizione, ci si deve chiedere quale altro tipo di giustificazione filosofica si potrebbe proporre a suo sostegno. Ma per una trattazione meno sintetica di questo punto devo rimandare agli altri miei scritti indicati nella nota 27.
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determinazione della totalità, tutte le figure filosofiche vengono ad essere contraddittorie. Quindi il discorso filosofico coerente (e compiuto) , in quanto è distinto da quello incoerente o contraddittorio (e incompiuto), è distinto dal discorso che istituisce differenze negative; in quanto tale esso presuppone una nozione di differenza diversa da quella negativa. Illustrerò ora questa circostanza in relazione ad alcuni esempi emblematici.
Primo caso: il Tutto Chiamo ‘Tutto’ la realtà in quanto essa comprende (è costituita di) ogni e qualsiasi entità (determinazione). Il Tutto è l’insieme di ogni realtà: ogni tratto della realtà costituisce il Tutto e gli appartiene. Se il Tutto viene determinato mediante una differenza negativa (cosa obbligatoria, se non vi è altra differenza oltre quella negativa e quindi ogni differenza è negativa), allora esso si costituisce come una determinazione negativa, e quindi come polo di una dualità dicotomica il quale esclude almeno quel tratto che invece compete (appartiene) alla sua contro-parte in quanto la definisce. Il Tutto si differenzia dalle parti che lo compongono (lo costituiscono). Esso si determina differenziandosi dalle sue parti: bisogna distinguere il Tutto della realtà dalla casa e dalla pianta, che pure lo costituiscono. Se tale differenza è negativa allora il Tutto manca di almeno un tratto che invece le parti posseggono (si badi che, nell’ottica negativa, «mancare di» equivale a «non possedere»). Se ogni differenza è negativa, allora la parte, in quanto differisce dal Tutto, non è il Tutto; e per converso il Tutto, in quanto differisce dalla parte, non è la parte. Ma allora il Tutto manca almeno di quel tratto che fa essere parte la parte11. In quanto il Tutto, nel suo determinarsi negativamente, resta definito come mancante di almeno un tratto, esso viene ad essere differente da ciò che resta definito come comprensivo di ogni e qualsiasi tratto, ma questo è appunto il Tutto. In tal modo ciò che viene determinato come Tutto (il Tutto-determinato) viene ad essere diverso dal Tutto. Ma poiché anche questa 11
Anche se si dice che è solo la parte che manca di alcuni tratti, ma non il Tutto, e che la differenza tra i due è data proprio dal fatto che la parte manca di qualche tratto mentre il Tutto non manca di alcun tratto; ebbene, anche in questo caso resterebbe fermo che il Tutto mancherebbe almeno del tratto di mancare di qualche tratto. Il Tutto mancherebbe almeno del tratto di non essere il Tutto (di non essere identico al Tutto), tratto che invece la parte possiede.
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differenza è ex hypothesi negativa (questo, infatti, è il postulato originario), il Tutto resta determinato come non Tutto (appunto perché viene definito come non includente almeno un tratto della realtà). Insomma, la differenza che determina il Tutto come diverso dalle parti che lo compongono lo determina pure come diverso dal Tutto, cioè da se stesso. La definizione del Tutto lo determina come differente dal Tutto, quindi come non Tutto, e perciò come figura contraddittoria12.
Secondo caso: il negativo Chiamo ‘negativo’ la realtà in quanto essa viene istituita (determinata) mediante una differenza negativa. Ogni determinazione negativa appartiene dunque al negativo, partecipa di esso: è negativo. Anche il negativo, dunque, nella misura in cui è determinato (definito), viene a differire da ciò che è altro da esso13. Ora, se non vi è altra differenza oltre quella negativa e se quindi ogni differenza (determinazione) è negativa, allora anche la differenza che determina il negativo (che lo istituisce come determinazione) è negativa, e di conseguenza anche il negativo è una determinazione negativa14. 12
Naturalmente si può tentare di evitare tale contraddizione sopprimendo la figura del Tutto. Questa, del resto, è la strada imboccata da gran parte del pensiero contemporaneo, soprattutto a seguito dell’antinomia di Russell e degli studi di Gödel e Tarski. Essendo però qui il mio interlocutore principale Severino, posso dare per scontato che tale figura sia filosoficamente essenziale. Chi invece richiedesse una ‘giustificazione’ di tale assunzione, può fare riferimento, oltre che agli scritti di Severino, ancheal mio libro sopra citato. In questa sede mi limiterò dunque a una battuta di ispirazione wittgensteiniana. A chi dice che il Tutto non può esistere si deve chiedere: ‘Che cosa è, esattamente, che non esiste?’. Se egli replica che con ciò si intende solo dire che la parola ‘Tutto’ non ha significato, gli si può chiedere giustificazione di tale affermazione. Se poi come giustificazione viene addotta la circostanza che appunto essa comporta contraddizione, allora gli si deve chiedere ragione della inviolabilità del principio di non contraddizione; a questo punto proprio il tentativo di fondare rigorosamente tale principio pone il problema della giustificazione elenctica e, attraverso questa, conduce alla contraddizione che caratterizza la figura del negativo di cui qui di seguito si dice. Per l’approfondimento di questi aspetti mi permetto di rimandare ai miei scritti citati nella nota n. 27. 13 La realtà in quanto è negativo differisce dalla realtà in quanto è tavolo, sedia ecc. Dunque il negativo differisce da tutto ciò che è altro da esso; il negativo resta appunto determinato mediante tale differenza essenziale. 14 Questo – si badi – vale sia se si intende (‘estensionalmente’, potremmo dire, ma con tutte le cautele del caso, considerati i ‘presupposti’ della logica formale) il negativo come l’insieme di tutto ciò che possiede il tratto del negativo, sia se lo si intende (‘intensionalmente’) come ciò che è tale da rendere negativa qualsiasi cosa lo possegga.
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Ma (sempre se ogni differenza-determinazione è negativa) la determinazione del negativo dà luogo a una contraddizione. Perché ciò che è differente dal negativo (e questo ci deve essere, dato che il negativo si determina per differenza rispetto al suo altro) viene ad essere (per definizione, stante che la differenza è negazione della proprietà che definisce la contro-parte) non negativo; ma allora, proprio in quanto non negativo (negativo rispetto al negativo), viene ad essere negativo. La determinazione della realtà che la definisce come altra rispetto al negativo viene ad essere contraddittoria. In tal modo, contraddittoria viene ad essere pure la determinazione del negativo, dal momento che questo: da un lato deve escludere il tratto che definisce il suo opposto (il non negativo), e cioè deve escludere da sé la proprietà di non essere negativo, ma dall’altro lato, in quanto è negativo almeno nei confronti di quel negativo che è il non negativo, viene a sua volta ad essere negativo nei confronti del negativo (quanto meno nei confronti di una parte del negativo). Vale la pena di evidenziare – sia pure solo di passaggio – la rilevanza che questa circostanza ha dal punto di vista etico. Perché nella misura in cui si attribuisce una valenza etica alla distinzione negativo/positivo, tale cioè che il primo corrisponda in qualche modo al male e il secondo al bene, ecco che (sempre assumendo che ogni differenza sia negativa) il bene, inteso come non male, viene ad essere a sua volta una forma del male. In tal modo ogni tentativo di realizzare il bene inteso come non male (la pace come non guerra, ecc.) si determina automaticamente come l’opposto di ciò che intende essere, cioè (anche) come male. Questo tema – che per altro va trattato con estrema cautela – ricorre spesso nei miei scritti; perché secondo me esso contribuisce a rendere ragione di molte tragedie che affliggono l’umanità, specialmente in merito alla circostanza che quasi sempre i grandi progetti emancipativi rispetto al male hanno effetti opposti a quelli desiderati. Si badi che l’equivalenza tra positivo/negativo da una parte e bene/male dall’altra – equivalenza che per altro, giova ribadire, solleva una serie di questioni filosofiche di estrema complessità e delicatezza – è tutt’altro che peregrina. Tale equivalenza, infatti, è motivata in particolare dalla circostanza che il negativo viene inteso come un male in quanto è espressione del rifiuto di almeno qualche aspetto della realtà (e il rifiuto è esperienza di dolore, quindi male); pertanto la distinzione del bene dal male richiede la determinazione di ciò che differisce da ogni forma di male e quindi di rifiuto. Solo che se il bene resta definito negativamente allora esso viene a sua volta ad assumere il volto di un negativo, cioè di un rifiuto e quindi di un male. È significativo, da questo punto di vista, che alla base delle prin-
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cipali forme sapienziali dell’umanità vi sia proprio una figura equiparabile a quello che ho chiamato il Tutto, inteso appunto come ciò che includendo tutto differisce da ogni negativo.
Terzo caso: la determinatezza Nella misura, poi, in cui la determinazione in quanto tale è in qualche modo completa, e in questo senso conclusiva (appunto perché essa, determinando la realtà, la chiude e quindi in qualche senso la con-clude15), ecco che tale nozione (determinazione) viene ad essere contraddittoria (sempre se non vi è altra differenza oltre quella negativa e se quindi ogni differenza/determinazione è negativa). Perché la determinazione è completa in quanto è tale che tutti i differenti aspetti che la costituiscono sono definiti (determinati); ma d’altro canto, in quanto è negativa, essa viene a costituirsi come un processo che si sviluppa senza fine (regressus in indefinitum). Perché, qualunque sia la determinazione che viene definita, se questa è negativa allora essa – in base a quanto abbiamo visto sopra – implica (almeno) un ulteriore elemento, diverso da essa e terzo rispetto ai due poli contrapposti, quindi determinato mediante qualcosa di diverso dalle differenze che determinano entrambi i poli (in quanto) negativi16. *** Se, assumendo che non vi sia altra differenza oltre quella negativa e che quindi ogni differenza sia negativa, ci si viene a trovare nella situazione per cui tutte le ‘posizioni’ filosofiche risultano essere contraddittorie, allora la posizione filosofica coerente – come tale differente da quelle contraddittorie – comporta un altro tipo di differenza, oltre quella negativa, un tipo di differenza definito appunto da questa sua alterità rispetto alla differenza negativa. 15
Che una determinazione è completa e conclusiva significa qui semplicemente che essa è determinata in tutti i suoi aspetti. Si badi però che anche la determinazione più vaga, sfuggente e confusa risulta comunque completamente (conclusivamente, perfettamente) determinata (appunto come vaga, sfuggente e confusa). 16 Si tratta in particolare, come si ricorderà, da un lato dell’insieme che è costituito dei due poli opposti, e dall’altro lato della differenza che oppone ciascuno di essi all’altro. Questo punto può essere chiarito mediante la seguente semplice considerazione. Si consideri la differenza tra x e y . Se tale differenza è negativa, allora vi è anche una nuova entità ( z ) differente da entrambi. Ma se tutte le differenze sono negative, allora anche la differenza tra x e z determina una nuova entità (z1), come pure la differenza tra y e z (z2); e così via all’infinito.
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Chiamo ‘differenza positiva’ quella differenza che istituisce due determinazioni definite dal fatto di essere totalmente costitutive l’una dell’altra (co-istitutive), e quindi totalmente compatibili l’una con l’altra (onnicompatibili). Questo vuol dire che le determinazioni positive sono caratterizzate dal fatto che ciascuno dei loro tratti è costitutivo di ogni tratto dell’altra. Si badi che dire ‘x è costitutivo di y ’ è diverso da dire ‘x è identico a y ’17. Ora, è evidente che la differenza positiva differisce da quella negativa; ed è altrettanto evidente che essa è definita proprio dalla relazione di differenza rispetto alla differenza negativa. Le determinazioni istituite per mezzo di tale differenza sono le determinazioni positive. L’introduzione di questa differenza positiva è sufficiente a risolvere i nostri problemi filosofici? Vediamo. Se noi interpretiamo questa differenza, in quanto essa è differente da quella negativa, come una differenza non negativa, accade che, quando abbiamo a che fare con il Tutto, si riproduce una situazione aporetica simile a quelle che sopra abbiamo incontrato. Perché, come la differenza negativa istituisce una determinazione negativa, così la differenza non negativa istituisce una determinazione non negativa. Ma la determinazione non negativa è, proprio in quanto non negativa, il polo di una dicotomia che esclude il carattere opposto, cioè quello della determinazione negativa; per questo motivo il Tutto, in quanto è costituito di ogni e qualsiasi momento della realtà, viene ad essere diverso (dal momento che – come abbiamo visto – è diverso da tutto ciò che possa essere determinato negativamente) pure da tutto ciò che è determinato negativamente rispetto al negativo, quindi pure dal non negativo. In tal modo il Tutto viene ad essere diverso tanto da ogni determinazione negativa quanto da ogni determina zione non negativa; o, forse meglio: il Tutto, in quanto diverso da ogni de-
terminazione negativa, è diverso pure da ogni determinazione non negativa. In quanto differente da ogni determinazione negativa (quindi anche da quelle non negative), il Tutto viene ad essere una determinazione che chiamo puramente18 positiva. La differenza che costituisce tale pura determina zione viene chiamata pura differenza. In altri termini, dunque, mentre la 17
Per esempio, in una scacchiera, una casella bianca è costitutiva (co-istitutiva) della vicina casella nera, perché contribuisce a costituire quella (a costituirla come casella nera della scacchiera); questo però è molto diverso dal dire che la casella bianca è identica a quella nera, e ancor più diverso dal negare che l’una differisca dall’altra. 18 ‘Puro’, infatti, significa qui ‘distinto da tutto ciò che è negativo’, essendo il negativo – lo ricordiamo – tutto ciò che è definito-determinato negativamente, ovvero mediante differenza negativa.
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differenza positiva è quella che è definita (in generale) dal fatto di istituire determinazioni reciprocamente costituentisi, la pura differenza è
quell’aspetto della differenza positiva che distingue (in generale) la determinazione (in quanto) positiva dalla determinazione (in quanto) negativa (e quindi anche dalla determinazione in quanto non negativa, cioè negativa nei confronti delle determinazioni/differenze negative). La pura differenza è dunque quella che istituisce positivamente la determinazione positiva definendola positivamente rispetto alla determinazione negativa in generale, e quindi anche rispetto a quella particolare forma di determinazione negativa che è la determinazione non negativa19. I l compimento coerente del discorso filosofico esige dunque la definizione positiva della determinazione positiva e della differenza positiva; richiede
cioè che si definisca la realtà mediante una differenza puramente positiva, ossia mediante la pura differenza. ***
Le nozioni ‘pura determinazione’ e ‘pura differenza’ consentono di parlare in maniera coerente di ciò di cui invece all’interno di una prospettiva negativa (quella per la quale non vi è altro tipo di differenza/determinazione che quella negativa, e quindi ogni differenza/determinazione è negativa) si parla in maniera contraddittoria.
All’interno dell’ottica che possiamo chiamare puramente positiva, risulta infatti possibile determinare (e quindi pensare) in maniera coerente il Tutto. Perché la pura differenza, consentendo di pensare la differenza come qualcosa di diverso dalla negazione dell’identità, consente di affermare che la determinazione del Tutto (intesa sia come determinazione di tutto sia come determinazione-Tutto, cioè come Tutto-determinato) è diversa dal Tutto e pur tuttavia coincide con esso. La pura differenza, insomma, consente di pensare la parte come diversa dal Tutto eppure (e pure) come nello stesso tempo coincidente con esso; ed è appunto questo ciò che consen19
La pura determinazione istituisce (persino) la determinazione negativa come pura determinazione. Anch’essa, infatti, in quanto è istituita mediante la pura differenza, è distinta da qualsiasi determinazione negativa. La determinazione negativa (in quanto pienamente, compiutamente determinata) è costituita dunque di due aspetti: quello per il quale essa è negativaescludente nei confronti del suo opposto, e quello per il quale essa stessa è pienamente compatibile (com-ponibile) tanto con il suo opposto quanto con il suo stesso essere negativa nei suoi confronti. Questo secondo aspetto richiede, per essere determinato coerentemente, una differenza puramente positiva, perché fin tanto che esso viene determinato mediante una differenza negativa si ripropone il problema di un aspetto che invece sfugge alla determinazione in questione.
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te di fermare il regresso senza fine; perché la differenza che istituisce la parte è, in ogni suo tratto, la stessa che costituisce il Tutto. In un’ottica negativa (per la quale ogni differenza coincide almeno con la negazione dell’identità, e per converso ogni identità coincide con la negazione della differenza) assumere la differenza di due entità equivale a escluderne l’identità. In quest’ottica, dunque, la differenza che istituisce-definisce la parte non è la stessa che istituisce-definisce il Tutto (è un’altra, e così esse sono due); nell’ottica puramente positiva, invece, la parte è sempre pensata come coincidente con la-parte-del-Tutto, di quel Tutto che a sua volta coincide con il-Tutto-che-è-costituito-della-parte20. Per questo, dato che il termine ‘identico’ viene quasi sempre automaticamente usato come sinonimo di ‘non differente’, potrebbe essere utile, parlando del rapporto tra la parte e il Tutto, dire che quella, pur essendo differente dal Tutto, fa tutt’uno con questo. Tale espressione (fare tutt’uno) ha tra l’altro il pregio di evocare immediatamente quel senso originario dell’esperienza filosofica per il quale la realtà viene considerata come hen kai pan, come uno e tutto. La cosa decisiva, qui, è comprendere che se l’esser uno della realtà viene pensato come incompatibile con il suo essere le infinite, molteplici determinazioni che la compongono (comprese – sia detto di passaggio, ma l’osservazione è fondamentale – le determinazioni che si contraddicono reciprocamente e quindi persino quelle che in qualche senso contraddicono il Tutto, cioè tutte le determinazioni negative), allora il Tutto così determinato viene, da capo, ad essere una figura contraddittoria, che in quanto tale allude al (vero) Tutto come a qualcosa di diverso da ciò che in tal modo viene determinato. È chiaro che, come prima si è parlato di differenza positiva e di pura differenza, si può ora parlare di identità positiva (quella che è costituita dell’insieme di differenti determinazioni) e di pura identità (quella che consiste nell’identità positiva che raccoglie insieme le determinazioni positive e quelle negative. 20
Il Tutto potrebbe essere definito come la realtà in quanto completa (compiuta, perfetta); perché, qualunque aggiunta di parti si realizzi, il Tutto resta identico. Per esempio, se all’Europa (intesa come il tutto che comprende l’Italia) aggiungo l’Italia, il risultato è ancora lo stesso del punto di partenza(l’Europa). Infatti l’Europa è identica all’Europa-comprendente-l’Italia, e l’Italia a sua volta è identica all’Italia-appartenente-all’Europa. Se si intende invece che il darsi dell’Italia costituisce l’aggiuntadi qualcosa che non è già dato con il darsi dell’Europa, è perché si sottintende un ulteriore punto di vista, per il quale l’Europa non è veramente il Tutto. Se noi ora pensiamo al Tutto che è davvero il Tutto, ecco che qualsiasi ‘aggiunta’ ad esso lascia immutato il ‘totale’.
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Risulta dunque possibile parlare in maniera coerente del Tutto come di ciò che è costituito di ogni e qualsiasi aspetto della realtà. Determinandolo in questo modo lo si differenzia certo da ogni altro aspetto della realtà (che indicheremo con A), e d’altro canto ciascuno di questi aspetti è il Tutto: fa tutt’uno con il Tutto, coincide con esso, e quindi anche è puramente identico ad esso. Ma la congiunzione di queste proposizioni (‘A si differenzia dal Tutto’ da una parte e ‘A fa tutt’uno con il Tutto’ ovvero ‘A è il Tutto’ dall’altra parte) è ora diversa da una contraddizione, appunto perché affermare che A è diverso dal Tutto è cosa diversa dal negare che A sia il Tutto (cioè dall’affermare ‘A non è il Tutto’). A me pare che una formulazione di tipo puramente positivo riesca a esprimere bene, cioè in maniera coerente, la relazione tra la parte (A) e il Tutto (T). Per formulazione puramente positiva intendo quella che, distinguendosi da qualsiasi negazione, esprime la compatibilità e la com-posizione, nel Tutto, di ogni determinazione con tutte le altre. Così noi possiamo distinguere l’affermazione positiva (p) ‘Il Tutto è la realtà in quanto essa è costituita di (include) ogni e qualsiasi tratto’ dalla corrispondente negativa (n) ‘Il Tutto è la realtà in quanto essa non manca di (non esclude) alcun tratto’. Se per definire il Tutto noi usiamo n, accade che, affermando ‘Il Tutto non esclude alcunché’, sembra (dal momento che la parola ‘non’ indica normalmente una esclusione) che stiamo affermando che il Tutto esclude tutte le esclusioni; e questa formulazione appare immediatamente contraddittoria. Se invece allo stesso fine noi usiamo p, allora l’affermazione che T include A suona diversa da una contraddizione anche se si tiene fermo che A si differenzia da T21. Ed è possibile affermare questo carattere di T an21
Possiamo ben dire che T differisce da A perché la parte (A) è definita in maniera diversa da T, precisamente perché A è la realtà in quanto la si considera determinata solo mediante alcuni tratti differenziali; per esempio: ‘La neve (A) è la realtà in quanto bianca e fredda’. I n questo senso possiamo dire coerentemente che A è determinata parzialmente, mentre T è determinato totalmente. Ma, come abbiamo visto, in un’ottica positiva una determinazione è co-istituita da tutti i tratti che definiscono le determinazioni da essa differenti, pur restando distinta da quelle. Nel nostro caso, dunque, T (in quanto è a sua volta una determinazione) differisce da A, pur essendo co-istituito (determinato) mediante tutti i tratti di A, come peraltro A è co-istituita (determinata) mediante tutti i tratti di T. Questo significa che A viene determinata mediante il Tutto; e il Tutto viene determinato mediante A. Si può insomma dire che, se per un verso A è una parte di T, per un altro verso è T che è un momento di A, precisamente quel momento grazie al quale A è co-istituita da tutte le altre determinazioni della realtà. Essi, dunque, sono reciprocamente co-istitutivi; e tuttavia restano distinti; perché è in-quanto-A che T resta determinato mediante A; ed è in-quanto-T che A resta determinato mediante T. (Si noti – di passaggio – che T è distinto da T-in-quanto-T; in altri termini: T è distinto da T-determinato; ovvero da T-differente-da-A).
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che in relazione a ogni determinazione negativa ed escludente (che per questo indicheremo con N); perché T include integralmente pure N con tutti i suoi caratteri negativi ed escludenti22. Io ho l’impressione che questo modo di considerare il problema dovrebbe essere compatibile con il discorso di Severino; anzi, a me pare che esso sia strettamente imparentato proprio con alcuni aspetti centrali del suo insegnamento; ma questo, naturalmente, tocca a lui valutarlo. Il punto è che, se noi definiamo il Tutto mediante formulazioni negative, rischiamo di creare equivoci e complicazioni. Mediante la coappartenenza di identità e differenza, coappartenenza resa possibile dalla pura differenza/determinazione, come è possibile parlare coerentemente del Tutto, così risulta possibile parlare coerentemente anche del negativo (di cui abbiamo visto sopra la definizione). Perché ora è possibile definire-delimitare-determinare il negativo (sia esso inteso come totalità del negativo o come ciò per cui qualcosa è un negativo) distinguendolo da ciò che da esso si differenzia, dal momento che questo altro rispetto al negativo è ora qualcosa di diverso dal non negativo. Così, l’affermazione ‘Esiste un x tale che questo x è diverso dal negativo’ viene ora ad essere diversa da una contraddizione; cosa che accade, invece, quando si dice ‘Esiste un x tale che questo x non è negativo’ (perché in quanto non negativo tale x è negativo nei confronti del negativo). Mediante la pura differenza (e la pura determinazione) è poi possibile parlare coerentemente pure della determinazione in generale, evitando quel regressus in indefinitum che ne caratterizza invece la definizione all’interno di un’ottica negativa. Perché ora è possibile affermare la differenza tra x e y e nello stesso tempo affermare che tutti i momenti di x sono T, in quanto include ogni tratto, include pure A e, con essa, tanto il suo (di A) essere determinata parzialmente (cioè il suo differire da T) quanto il suo (di A) essere (in-quanto-T) determinata totalmente. Insomma T, in quanto è costituito di ogni entità, è costituito pure della parzialità, e in questo senso si può dunque dire che pure T è parziale. In tal modo T ed A restano distinti, ma perché A consiste di una parte del Tutto, mentre T consiste di tutto (compreso A e il suo consistere di una parte di T). Insomma, è la formulazione puramente positiva del Tutto quella che distingue la presente formulazione del rapporto parte/Tutto da quella aporetica presentata sopra, nella nota n. 11. 22 Se si obietta che in tal modo anche T viene a possedere i caratteri negativi ed escludenti che caratterizzano N, si deve rispondere che ciò in un certo senso è vero (T, infatti, in quanto è costituito di ogni tratto, è costituito pure dei tratti negativi ed escludenti di N); ma ciò è diverso da una contraddizione; perché è in-quanto-N che T è negativo ed escludente, mentre invece inquanto-T esso è includente anche N e tutti i suoi tratti, compresi quelli negativi. È appunto la pura differenza tra l’inclusione totale (T) e l’esclusione (N) ciò che consente di pensare insieme N e T, e di pensare N come (co-istitutivo di) T.
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costitutivi (co-istitutivi) di y (e viceversa); sicché la differenza tra x e y coincide ora con il darsi di x e y (fa tutt’uno con esso). Vale qui (in relazione al tutto costituito di x e y ) quello stesso che abbiamo visto valere a proposito del Tutto e delle sue determinazioni: la differenza tra x e y è totalmente compresa nell’insieme di x e y . Ora questo può essere detto in maniera coerente, perché risulta possibile affermare coerentemente che quella parte di x che è la sua differenza rispetto a y fa tutt’uno con x . A questo punto, potremmo sintetizzare il tragitto percorso nel modo seguente. La differenza negativa, in quanto è espressione di una logica dicotomica, ‘spezza’ la realtà in due ambiti reciprocamente escludentisi. Proprio per questo tale logica rende contraddittori: (a) il discorso che intende definire l’insieme di ogni realtà (il Tutto); (b) il discorso che intende distinguere il positivo dal negativo; e infine (c) il discorso che intende determinare conclusivamente la realtà. In generale possiamo dunque dire (ricordando che ‘intero’ ha a che fare con ‘integro’) che la logica dicotomica rende contraddittorio il discorso che testimonia quell’aspetto della realtà che possiamo chiamare la sua dimensione “interale”. Tali discorsi possono
essere resi coerenti mediante l’introduzione della pura differenza e quindi della pura determinazione23. ***
Chiarito dunque – per quanto era qui possibile fare – il senso della differenza diversa da quella negativa, il discorso potrebbe ritenersi concluso. Tuttavia può risultare opportuno, a completamento di quanto detto, indicare in che modo la prospettiva qui illustrata potrebbe essere utilmente messa in relazione con alcuni importanti punti della filosofia di Severino. Il senso di questa mia proposta è distinto sia da qualsiasi negazione della verità delle proposizioni di Severino, sia anche dalla semplice sottolineatura della differenza, fosse anche ‘positiva’, tra le nostre due filosofie. Certo, è evidente che da un certo punto di vista si tratta di discorsi diversi (l’insie23
Se, a questo proposito, ci si chiede perché ci si debba liberare dalla contraddizione (cfr. Severino, pp. 7, 8 e 12), in questa sede basti rispondere che la libertà nei confronti della contraddizione è la stessa libertà che sussiste nei confronti del negativo; e tale libertà è semplicemente la differenza nei confronti del negativo, la quale è implicita nella stessa determinazione del negativo, ovvero nella stessa differenza tra il Tutto e il negativo. Così, la ‘libertà’ rispetto alla contraddizione è già implicita nella contraddizione stessa. Che una realtà sia determinata contraddittoriamente significa che la sua determinazione compiuta sta al di là di (è diversa da) ciò che viene determinato contraddittoriamente. Nel caso del Tutto, dunque, la contraddittorietà della sua determinazione sta a significare che il Tutto è diverso da ciò che resta determinato contraddittoriamente come Tutto.
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me e l’ordine delle parole della lingua italiana che compongono questo mio scritto sono diversi, che io sappia, da quelli che compongono qualsiasi scritto di Severino). Anche il loro ‘significato’, dunque, sarà, almeno in qualche senso, diverso. Quello che qui però mi interessa è, piuttosto che insistere sulla differenza tra le nostre scritture filosofiche, chiedermi che cosa possa succedere accostandole. In particolare ci si può chiedere se per caso la prospettiva qui sintetizzata sia in grado di gettare qualche luce su alcuni punti rilevanti della stessa filosofia severiniana (alla quale – sia detto qui per inciso, ma credo che chi ha letto quanto precede se ne sia già accorto – la mia stessa prospettiva è in gran parte debitrice). Innanzi tutto, e a mo’ di premessa, dovrebbe ora essere possibile precisare meglio il senso dell’affermazione, criticata da Severino nel suo intervento (pp. 6 ss.), ‘Ogni negazione è una contraddizione’. Con questa affermazione intendo dire che ogni formulazione che identifica il Tutto con una determinazione negativa (lo determina cioè mediante una differenza negativa) risulta contraddittoria; perché da un lato essa pone il Tutto (proprio in quanto esso è tale) come completo di ogni tratto (come totalmente compiuto, perfetto), ma dall’altro lato (in quanto lo istituisce come una determinazione negativa) lo pone come mancante di qualcosa (non completo). Se ciò che si sta determinando è il Tutto, allora contraddittoria è qualsiasi negazione, nella misura in cui questa implica l’esclusione, rispetto a ciò di cui si sta parlando, di un qualche tratto della realtà24. Dunque quell’affermazione (‘Ogni negazione è una contraddizione’) vale sostanzialmente in riferimento alla definizione del Tutto. Con l’aggiunta, però, che, nella misura in cui ogni entità è il Tutto, essa vale per la definizione di qualsiasi realtà. Si potrebbe dire, un po’ scherzosamente: quella affermazione vale solo per il Tutto; con il sottintenso, però, che quindi vale per tutto (sia pure in quanto visto come Tutto). Credo che questo punto abbia qualcosa a che fare con il fondamentale tema severiniano della contraddizione originaria, cioè la contraddizione – vale la pena qui di ricordare brevemente – consistente nel fatto che qual24
Così, per esempio, un’espressione come ‘x non è y ’, anche intesa come semplice negazione della identità dei due differenti x e y , implica in qualche modo che x resti definito come qualcosa che manca del tratto che compete a y (e lo stesso vale per y ). Questo, si badi, accade anche se si intende y come ciò che manca di qualcosa ed x come ciò che non manca di nulla. Anche in questo caso, infatti, x viene a mancare, di contro a y , del fatto di mancare di qualcosa. Anche in questo caso, dunque, il Tutto inteso come ciò che è completo di tutto va distinto da ciò che non manca di nulla. Anche in questo caso, insomma, la determinazione del Tutto si distingue dalla determinazione negativa che resta testimoniata dalla proposizione negativa.
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siasi determinazione, in quanto appare solo parzialmente, cioè come mancante di alcune relazioni che la costituiscono, appare diversa da come essa è. Questa contraddizione ha una natura peculiare. Mentre le contraddizioni ‘normali’ affermano e negano lo stesso del medesimo (per esempio la contraddizione nichilista nega l’essere di un essente, cioè di qualcosa di cui peraltro viene affermato l’essere), la contraddizione originaria, per Severino, è contraddizione non perché affermi e neghi contemporaneamente qualcosa, ma solo perché non afferma concretamente il Tutto: è contraddizione non per ciò che dice, ma per ciò che non dice. La peculiare difficoltà insita in questa singolare figura è legata al fatto che l’affermazione che una determinazione (A) appare diversa da come è sembra implicare l’affermazione (contraddittoria) che quella cosa è diversa da se stessa. Infatti – restando all’interno di una logica oppositiva – o la determinazione concreta (cioè ricca di tutte le sue proprietà e relazioni) non differisce dalla determinazione astratta (quindi il concreto è identico all’astratto), ma allora abbiamo una contraddizione; oppure le due non sono identiche, ma allora vi è almeno un tratto di A-in-quanto-astratta che non compete ad A-in-quanto-concreta (e da capo questa è una contraddizione, dato che A è definita come concreta proprio per il fatto di possedere tutte le relazioni che competono ad A, dunque anche tutte quelle che le competono in quanto astratta). A me pare che se pensiamo la relazione tra il concreto e l’astratto in maniera simile a quella in cui sopra ho definito il rapporto tra il Tutto e la determinazione negativa (cioè mediante la pura differenza) possiamo dire in maniera coerente che il concreto differisce dall’astratto (che è un suo momento); perché possiamo tenere fermo tanto il differire del concreto dall’astratto quanto il fatto che il primo include il secondo (con tutti i suoi tratti) come suo momento, dato che adesso il differire dell’uno dall’altro è diverso da quel differire che implica la negazione dell’identità dei differenti, cioè l’esclusione reciproca di almeno uno dei tratti che costituiscono la contro-parte. Dato che sopra abbiamo detto che ogni determinazione (A) co-istituisce il Tutto (T) pur differenziandosene, adesso possiamo dire che questo vale anche per quella specifica determinazione che è l’astratto. Io credo che un contributo alla chiarificazione della distinzione tra l’astratto e il concreto possa venire proprio dall’interpretazione che considera l’astratto come la determinazione in quanto negativa (cioè come N), e il concreto come il Tutto. Perché allora si ripropone la situazione per cui il concreto, in quanto include tutti i tratti della determinazione, ne include pure i tratti negativi. Ed è allora proprio la pura differenza che può esprimere il rapporto tra
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i tratti negativi (astratti) della determinazione A e l’insieme totale (concreto) dei suoi tratti. Ché, fin tanto che tale relazione resta negativa, accade che il concreto resta privato dei tratti dell’astratto, cioè resta astratto almeno rispetto all’astratto. Consideriamo ora la questione da un punto di vista leggermente diverso. Sto cercando di attirare l’attenzione sul fatto che il negativo (e anche il contraddittorio) è un determinato aspetto della realtà, come i gatti e le rose (cfr. Severino, p. 8). E allora, come il discorso che definisce rose e gatti è diverso da quello che definisce il Tutto, altrettanto lo è il discorso che definisce il negativo. Per questo sto cercando di far notare la differenza tra il discorso in quanto esso determina il Tutto e il discorso in quanto istituisce delle determinazioni negative; quindi anche tra il discorso in quanto determina il Tutto e il discorso in quanto è contraddittorio. Quanto qui affermato è diverso dall’affermare che il discorso di Severino, in quanto usa formule negative, non è una testimonianza del Tutto. Se, infatti, parlando di una determinazione negativa non fosse possibile testimoniare il Tutto, perché questo dovrebbe essere possibile parlando di rose e di gatti? Ma, appunto, come quando, se si parla di rose e di gatti, ci si chiede, in quanto filosofi, in che misura questo discorso testimoni coerentemente il Tutto, allo stesso modo ci si deve chiedere in che misura, parlando di quel particolare aspetto del Tutto che è il negativo, si stia rendendo testimonianza del Tutto. Si è invece spesso indotti a credere che quando si parla di certe forme del negativo (particolarmente quando si parla di quella singolare forma di negativo che è l’in-negabile, in quanto appunto esso è non negativo) si sia per ciò stesso esonerati dal porsi tale domanda. Questa proposta di lettura di un tema come quello della contraddizione originaria, ripeto, è qualcosa di molto diverso da qualsiasi ‘confutazione’ del discorso di Severino. In un certo senso sto solo ponendo una questione di formule linguistiche. In effetti, potrei rispondere a Severino, quando egli mi dice che «de verbis non est disputandum» (p. 11), che è proprio de verbis che si sta ‘disputando’; fermo restando che, dal mio punto di vista, più che di disputare, si tratta di scambiarsi amichevoli consigli volti a far sì che ciascuno riesca a testimoniare quanto più chiaramente possibile e nella maniera più propria la verità. Voglio aggiungere che quanto ho detto è diverso anche dal sostenere che le mie formule filosofiche siano migliori di quello di Severino; sto solo suggerendo di provare a considerare la cosa da questo punto di vista, che per me in molte occasioni si è rivelato illuminante. Ho infatti l’impressione che un linguaggio che tratta le negazioni in maniera da rendere palese la pura differenza tra il Tutto e qualsiasi deter-
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minazione negativa sia particolarmente adatto a testimoniare il Tutto come ciò che si distingue da qualsiasi determinazione (ma – attenzione – se ne distingue proprio perché è ciò che fa tutt’uno con ciascuna di esse; ed è quindi ciò per cui ognuna fa tutt’uno con tutte le altre dalle quali pure si differenzia). Questo, tra l’altro, mi pare che contribuisca a fare chiarezza su quella singolare esperienza per la quale il Tutto viene visto, piuttosto che come ciò che si coglie attraverso continue, infinite aggiunte di determinazioni parziali, come ciò che è in ogni determinazione; o, forse meglio, ciò che è come ogni determinazione25. Ho insomma l’impressione che proprio un linguaggio del tipo di quello qui proposto sia particolarmente adatto a testimoniare quella dimensione che, collocandosi al di là di ogni contraddizione, sta al di là anche della contraddizione originaria. A volte ho l’impressione che la proposta teoricolinguistica che sto elaborando potrebbe consentire di affrontare con qualche vantaggio la questione di un linguaggio idoneo a testimoniare al meglio la dimensione del Tutto e della sua Gioia. Per dare forma linguistica alla pura differenza, distinguendola sia dalla differenza che è negazione dell’identità sia però anche dalla differenza che non è negazione dell’identità, potremmo usare un’espressione di questo tipo: la differenza è anchediversa dalla non identità. Questa ‘conversione’ linguistico-stilistica può a mio avviso risultare utile in relazione ad altre decisive situazioni teoriche. Penso per esempio al tema della fondazione elenctica (innegabile) della verità filosofica. In questa circostanza può essere utile distinguere l’affermazione ‘La negazione della verità è autonegazione’ dall’affermazione ‘La verità è negazione di ciò che è autonegazione’. Naturalmente anche questa seconda proposizione è vera; ma essa evidenzia l’aspetto negativo della verità, e allora resta il 25
Espressioni come ‘x non è y ’ (anche intesa come mera negazione dell’identità di x e y ) testimoniano la differenza/determinazione negativa. In quanto tali esse portano l’attenzione sull’aspetto negativo della realtà, che è un particolare aspetto di questa. Anche quando parlano del Tutto, evocano sempre quel suo particolare aspetto che è il negativo. Per parlare propriamente e direttamente del Tutto occorre dunque un linguaggio diverso da quello negativo. Attenzione, però. Dire che il discorso negativo testimonia un particolare aspetto della realtà (quello negativo), è cosa diversa dal dire che allora esso non testimonia il Tutto (anche il negativo, infatti, è un momento del Tutto; sicché, se è possibile testimoniare il Tutto parlando di rose e di gatti, allora è possibile fare ciò anche parlando del negativo). Resta tuttavia fermo che la testimonianza diretta e autentica del Tutto, come è diversa da quella che parla semplicemente delle rosse e dei gatti, così è diversa pure da quella che parla del negativo. Caratteristica propria del linguaggio che testimonia propriamente il Tutto è il fatto di testimoniare differenze positive, e quindi anche puramente positive.
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problema di quell’aspetto della verità che è la testimonianza del Tutto definito come la realtà in quanto essa è ben altro rispetto a tutto ciò che resti definito come polo negativo rispetto a qualcosa. In quest’ottica, insomma, il Tutto si distingue pure dal Tutto-innegabile26. A questo punto dovrebbe risultare più chiaro anche il modo in cui propongo di considerare il problema della logica della non contraddizione. Il pensiero della pura differenza dà vita a una filosofia che, pur distinguendosi dal discorso governato da quello che è normalmente chiamato il principio di non contraddizione, tuttavia piuttosto che un rifiuto o un rinnegamento di tale principio ne costituisce un pieno compimento. Perché, all’interno di quella prospettiva per la quale – nel senso precisato – ogni negazione è una contraddizione, è evidente che la soluzione generale del problema della contraddizione deve essere individuata in qualcosa di diverso (di anche-diverso) dalla negazione della contraddizione (cioè, appunto, dalla non contraddizione). Precisamente perché questa, proprio in quanto è negazione (sia pure della contraddizione), è per ciò stesso destinata a riprodurre almeno quella contraddizione che è implicita in quella negazione in cui essa consiste. Alla luce di tutto questo dovrebbero assumere un anche-diverso significato pure tutte le altre questioni filosofiche; come dovrebbero apparire sotto anche-diversa luce pure le critiche formulate da Severino nel saggio sopra citato, benché una risposta analitica a queste debba essere rimandata ad altra occasione27. Quanto qui detto dovrebbe poi consentire di riprende26
A questo giro di problemi allude la proposizione, criticata da Severino (p. 13) che la verità è la negazione della negazione in generale. Ricordo, brevemente, che l’in-negabile, inteso (alla lettera) come negazione di ogni negativo, è appunto il negativo; precisamente perché persino la sua negazione (il non negativo) è negativo (e quindi lo riafferma). Ma proprio attraverso questa estrema contraddizione per la quale il negativo, essendo l’innegabile, viene ad essere il negativo del negativo (cioè di se stesso), si manifesta la verità intesa come pura differenza/determinazione. Da questo punto di vista, dunque, ha pienamente ragione Severino a ricordare che la verità è distinta dalla negazione di ogni negazione; ma questo, a mio avviso, va appunto inteso nel senso che essa va distinta da ogni negazione, quindi anche dalla negazione della sua negazione. 27 Qui mi limito ad osservare che, per quanto riguarda la libertà (cfr. p. 10), essa va letta semplicemente come pura differenza rispetto al negativo. Quanto al termine «antinichilismo» (pp. 3 ss.), con esso intendevo semplicemente riferirmi alla circostanza che la verità viene definita da Severino come negazione (sia pure non ontologica) del nichilismo. In relazione poi all’impressione idealistica del mio discorso (cfr. p. 3), direi che da un lato Severino coglie nel segno (e quindi accoglierei i suoi suggerimenti), ma che da un altro lato la questione deve essere ripensata alla luce del rapporto puramente positivo tra il Tutto e la dimensione storica. Per esempio la verità puramente positiva va pensata come altro da un semplice «lasciarsi alle spalle» (p. 8) quella di Severino. Nel frattempo, per un approfondimento di questi temi mi permetto
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re con maggiore chiarezza pure il colloquio avviato con altri pensatori che si sono seriamente interessati alla prospettiva filosofica da me suggerita28. *** Io credo che una rilettura dei temi severiniani svolta a partire dalle considerazioni qui proposte potrebbe favorire lo sviluppo di una reciproca comprensione e valorizzazione tra il discorso di Severino da una parte e le più significative istanze del pensiero contemporaneo dall’altra. Mi riferisco, in particolare, proprio al tema cruciale della relazione tra identità e differenza; e penso per esempio ad autori come Heidegger, Wittgenstein, Deleuze, Derrida, che peraltro qui devo limitarmi semplicemente a nominare. Ma poi, nell’epoca della globalizzazione, ritengo che sarebbe utile pensare a una possibile ‘mutua fecondazione’ (espressione che prendo in prestito da Raimon Panikkar) tra il pensiero di Severino e alcuni momenti alti della sapienza orientale. Penso innanzi tutto alla prospettiva advaita, la quale a mio avviso può assumere una valenza filosofica particolarmente significativa quando venga letta alla luce della verità severiniana pensata sulla base delle proposte teoriche qui avanzate: la realtà, in quanto distinta da ogni scissione dicotomica (cioè in quanto diversa sia dal due sia dall’uno), può essere pensata coerentemente, all’interno della relazione della pura identità/differenza, come ‘tempiterna inter-in-dipendenza’ di ogni entità (anche qui il riferimento è al pensiero di Raimon Panikkar29). Ma un discorso analogo vale poi anche per quanto riguarda una possibile interpretazione del vuoto buddhista (Ênyat Ç) che lo reinterpreti all interdi rimandare, chi fosse interessato, oltre al già citato Differenza e negazione, ai seguenti miei scritti: il saggio Filosofia ed esistenza oggi. La pratica filosofica tra epistéme e sophía, in R. Màdera - L.V. Tarca, La fi losofia come stile di vita. I ntroduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 111-220; il volume Dare ragioni. Un’introduzione logico-filosofica al problema della razionalità, Cafoscarina, Venezia 2004; il saggio Parmenide (Frammento 2, verso 3) , in A. Petterlini - G. Brianese - G. Goggi, Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 581-631; e infine il volume Quattro variazioni sul tema ne gativo/positivo. Saggio di composizione filosofica, Ensemble ’900, Treviso 2006, scritti nei quali è possibile trovare pure altre indicazioni bibliografiche. 28 Penso in particolare agli interventi di Enrica Lisciani Petrini, Adriano Fabris, Francesco Berto, Vincenzo Vitiello, Massimo Adinolfi e Massimo Donà, ai quali pure devo dare appuntamento a una prossima occasione, giacché l’introduzione di contesti teorici e di universi di discorso così diversi tra di loro risulterebbe qui, per limiti di spazio, sostanzialmente liquidatoria nei confronti di questi autori. 29 Mi riferisco in particolare a R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-uomo-mondo (a cura di Milena Carrara Pavan), J aca Book, Milano 2004; per esempio alle pp. 15, 81, 107, 111, 112, 139.
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no di una prospettiva che legga l’impermanenza, anziché come una forma radicale di negativismo, come l assoluto inter-essere (per dirla con Thich Nhat Hanh30) di ciascuna entità rispetto a ogni altra. All’interno di tale quadro interpretativo mi pare – per concludere – che i chiarimenti proposti circa la differenza tra la differenza e la negazione possano fornire un contributo anche alla chiarificazione delle problematiche connesse a classiche nozioni filosofiche quali sono appunto l’identità e l’alterità.
Abstract By answering to a Severino’s cri tic who objects him that there is no ki nd of difference which is not a form of negation, Tarca, in this paper, aims to show the distinction between difference and negative difference.
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Mi riferisco a Thich Nhat Hanh, Essere pace (trad. it. Giampaolo Fiorentini), Ubaldini, Roma 1989; in particolare alle pp. 14-15 [Being Peace, Parallax Press, Berkeley 1987].
L’identità in questione
L’identità come pra tica dell’identificazione Flavia Monceri
1. I ntroduzione In questo lavoro considero alcuni aspetti problematici del concetto di «identità» a partire dal presupposto che tale concetto sia viziato da un equivoco di fondo derivante da una sovrapposizione fra i concetti di «identità» e di «identificazione». Tale sovrapposizione dovrebbe essere esplicitamente tematizzata, soprattutto tenuto conto che l’identità ha una funzione socialedi notevole importanza: quella di far sì che i singoli individui si percepiscano come esseri dotati di caratteristiche chiaramente individuabili che li definiscono così e non altrimenti sia al livello dell’immagine di sé, sia al livello dell’immagine proiettata verso l’esterno e percepita da «altri». La tesi che intendo sostenere è che al livello individuale il riferimento all’identità non sia necessario, perché la selezione e la rielaborazione delle caratteristiche che trasformano un individuo generico in questo individuo attribuendogli una particolare identità s’impone soltanto nel momento in cui egli entra in interazione con quello o quegli individui. Infatti, è soltanto nel momento dell’incontro con l’altro che diviene inevitabile una (auto)identificazione che si sostanzia in una selezione fra gl’infiniti caratteri del sé in grado di fornire una sua «presentazione» adeguata alla concreta situazione in cui avviene l’interazione. Stando così le cose, ritengo che da un punto di vista teorico sarebbe più corretto usare il solo termine «identificazione» sia perché il relativo concetto è più originario di quello di identità, sia e soprattutto per gli errori cui può indurre sul piano della prassi concreta la concezione secondo cui l’identità dell’individuo sarebbe qualcosa di oggettivamente dato, sufficiente a descriverne l’«essenza». In particolare, benché sia inevitabile ricorrere all’identità per la sua utilità in quanto criterio orientativo per «caTEORIA 2006/1
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tegorizzare» o altrimenti «stereotipizzare» ogni singolo individuo ai fini delle interazioni concrete, la rimozione della consapevolezza che essa deriva da una preliminare operazione di identificazione di caratteristiche arbitrariamente selezionate fra le infinite possibili che concorrono a configurare questo individuo così e non altrimenti ha l’effetto collaterale di negare in misura variabile il ruolo costitutivo anche delle caratteristiche espunte o altrimenti eliminate nel corso di quella operazione. Ciò coincide, peraltro, con il negare in varia misura la diversità di questo individuo rispetto a qualsiasi altro. D’altro lato, tuttavia, per ogni singolo individuo avere un’identità che gli permetta di «identificarsi», ovvero di «declinare le proprie generalità» a richiesta, diviene la condizione obbligata per far parte di un qualsiasi «gruppo», e in particolare per essere legittimato a chiedere di essere «riconosciuto» dal gruppo dominante, vale a dire dal gruppo dei «normali» – di coloro che si riconoscono nell’insieme di caratteristiche mediamente selezionate, diffuse e condivise quali elementi costitutivi delle identità «accettabili». Questo risvolto immediatamente politico del rapporto che lega identità e identificazione appare evidente soprattutto nell’atteggiamento dei «normali» nei confronti dei «diversi» – comunque la normalità e la diversità vengano declinate – ed è a fondamento tanto delle pratiche discriminatorie quanto di quelle volte all’inclusione della diversità, visto che il presupposto imprescindibile consiste in entrambi i casi nell’individuazione delle «identità» da rifiutare ed emarginare, ovvero accettare e includere. L’oggetto di questo lavoro può essere allora più specificamente circoscritto all’analisi dell’identità individuale nei suoi rapporti con una identità «sociale» intesa come pratica dell’identificazione. L’identità sociale di ciascun individuo, infatti, emerge dalla richiesta di autoposizionarsi in modo statico e chiaramente individuabile a partire dall’accettazione di una configurazione del sé aderente agli elementi/attributi riconosciuti «tipici» o «normali» per una determinata identità (e che sono tali anche nel caso delle identità «anormali» o «devianti»). Tuttavia, anche in questo caso si può affermare che l’identità non esiste come tale, e che al suo posto esistono soltanto infiniti processi di identificazione che scaturiscono dalla necessità per ogni singolo individuo di entrare in interazione con altri che lo «interrogano» sulle sue generalità al fine di poterlo «decifrare» ovvero «leggere» in modo tendenzialmente univoco. Piuttosto, al livello individuale la cosiddetta identità si configura come un processo dinamico, continuo e infinito di costruzione di un sé che certo tiene conto anche delle pratiche di identificazione attualizzate al livello interindividuale, ma che
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non può essere a esse ridotto perché tiene conto anche di tutte le differenze che concorrono a configurare in ogni momento dato questo individuo così e non altrimenti. Naturalmente non è possibile affrontare questa complessa problematica in modo sufficientemente adeguato nello spazio qui a disposizione, che intendo usare semplicemente per introdurre alcuni suoi nodi concettuali articolando la mia argomentazione in due sezioni. Nella prima, considero il problema del rapporto fra identità e identificazione sulla scorta del fondamentale e ancora estremamente attuale concetto di «stigma» ampiamente analizzato più di quarant’anni fa in ambito sociologico da Erving Goffman1, cui affianco un richiamo al paradigma del «sé dialogico» di recente elaborato in ambito psicologico2, che si colloca fra quelli più ricchi di spunti di riflessione anche per una radicale riconsiderazione del concetto di identità individuale in ambito filosofico. Nella seconda presento un caso concreto, quello dell’identità sessuale/di genere, in particolare delle «persone transgender». In questo particolare caso, l’ambiguità del concetto di identità si presenta con tutta evidenza nel suo essere un risultato di pratiche di identificazione attualizzate nelle interazioni entro un contesto dato, che danno luogo a connesse pratiche di discriminazione allo scopo di tenere sotto controllo il potenziale eversivo della diversità «esibita» da coloro che rifiutano di fornire a richiesta una definizione statica della propria «identità».
2. Stigma, identità e identificazione In uno dei suoi più celebri lavori, Erving Goffman indaga il concetto di «stigma», un termine usato già dai Greci «per indicare quei segni fisici che vengono associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione mo1 2
Cfr. E. Goffman, Stigma. L’identità negata, ombre corte, Verona 2003. Cfr. H.J.M. Hermans, H.J.G. Kempen e R.J.P. Van Loon, The Dialogical self: Beyond individualism and rationalism, in «American Psychologist», 47 (1992), pp. 23-33; H.J.M. Hermans e H.J.G. Kempen, The Dialogical Self: Meaning as movement , Academic Press, San Diego, CA 1993; H.J .M. Hermans, The Dialogical Self: Toward a Theory of Personal and Cultural Positioning, in «Culture & Psychology», 7/3 (2001), pp. 243-281. Per una introduzione al dibattito sul concetto di «dialogical self» cfr. i contributi raccolti in «Culture & Psychology», vol. 7/3 (2001); cfr. inoltre M.W. Katzko, Unity Versus Multipli city: A Conceptual Analysis of the Term “Self” and Its Use in Personality Theories, in «Journal of Personality», 71/1 (2003), pp. 83-114; M.B. Tappan, Domination, Subordination and the Dialogical Self: I dentity Development and the Politics of ‘I deological Becoming’, in «Culture & Psychology», 11/1 (2005), pp. 47-75.
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rale di chi li ha»3, e che può riguardare tre ambiti diversi: quello delle «deformazioni fisiche», quello degli «aspetti criticabili del carattere» e quello degli «stigmi tribali della razza, della nazione, della religione»4. Al di là della specifica ricostruzione goffmaniana delle forme in cui lo stigma si presenta e delle pratiche specifiche cui dà luogo – pur ricca di numerosi spunti di riflessione –, sono almeno due gli aspetti generali che risultano di notevole interesse per l’analisi del rapporto fra identità e identificazione: l’aspetto dell’«accertamento» cognitivo dell’identità e quello del rapporto fra stigma e normalità. Goffman mette in chiaro fin dalle prime pagine del lavoro che «è la società a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l’appartenenza a una di quelle categorie»5. In altri termini, la società ha fra i suoi compiti quello di fornire i criteri orientativi per collocare univocamente gli «altri» individui con i quali «questo» individuo entra in interazione in un determinato contesto – e viceversa – in modo che ciascuno di essi possa elaborare una fondata aspettativa sull’esito delle concrete interazioni nelle quali si trova coinvolto. Da tale processo scaturisce anche il concetto di «identità sociale»: «Quando ci troviamo davanti un estraneo, è probabile che il suo aspetto immediato ci consenta di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi, qual è, in altri termini la sua “identità sociale”»6. In questo contesto, lo stigma gioca un ruolo fondamentale proprio ai fini del «riconoscimento» o «accertamento cognitivo» dell’identità delle persone con le quali si entra in interazione e che consiste nell’«atto percettivo di “situare” una persona sia in una particolare identità sociale che in una specifica identità personale»7. Infatti, l’individuazione degli attributi «non ordinari e non naturali» che trasformano una particolare identità in una «identità stigmatizzata» è di estrema rilevanza per fornire criteri orientativi ai «normali» sui comportamenti da tenere e sui giudizi di valore da emettere nei confronti degli 3
E. Goffman, Stigma, cit., p. 11. Fra i lavori più noti e importanti di questo autore si vedano almeno E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969; I l rituale dell’interazione, il Mulino, Bologna 1988; Espressione e identità. Gioco, ruoli , teatrali tà, il Mulino, Bologna 2003. 4 Ivi, pp. 14-15. 5 Ivi, p. 12. 6 I bidem. 7 Ivi, p. 86.
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«stigmatizzati» a vario titolo. Si può infatti concordare con Goffman sul fatto che «quando persone “normali” vengono a trovarsi in presenza fisica di uno stigmatizzato, specialmente quando si cerca di intavolare una conversazione, viene a crearsi una delle situazioni problematiche fondamentali della sociologia» soprattutto perché accade spesso che «in tali momenti tutti e due gli interlocutori si trovino costretti ad affrontare apertamente le cause e gli effetti dello stigma»8. Dunque, quel che accade nella concreta situazione dell’incontro fra il normale e lo stigmatizzato è, da un punto di vista strettamente cognitivo, che viene messo in discussione il complesso di attributi che definiscono una «identità normale». Detto diversamente, diviene evidente il carattere stereotipico e socialmente costruito della normalità, una situazione agli effetti destabilizzanti della quale la costruzione sociale dello stigma cerca di porre rimedio con l’individuare un complesso di attributi che possano essere legittimamente rifiutati, combattuti, «accettati con riserva», trascurati o altrimenti rimossi come «anormali». È a questo punto che la tematica del rapporto fra normalità e stigma incontra quella del rapporto fra identità e identificazione. L’identità del normale è una identità socialmente costruita al pari di quella dello stigmatizzato. Ma come si giunge a tale identità? Attraverso un processo di identificazione degli attributi che devono entrare a far parte del complesso che definisce quella particolare identità, un complesso che ogni singolo individuo deve possedere per poter essere riconosciuto come portatore di una identità normale. In altri termini, allora, l’identità normale, al pari di quella stigmatizzata, scaturisce da un duplice processo di identificazione. Da un lato, infatti, si ha l’identificazione a livello intersoggettivo di questo individuo da parte di altri sulla scorta della sua aderenza o meno all’insieme di attributi che definiscono il modello di identità al quale viene ricondotto. Dall’altro, invece, si ha il processo attraverso il quale questo individuo si identifica con uno dei modelli disponibili sulla base degli attributi già individuati creandosi una identità sociale più o meno chiaramente riconoscibile e accertabile. Stando così le cose, si può affermare che l’identificazione precede la costruzione dell’identità, e anzi ne costituisce il presupposto. Di più, si può affermare che l’identità dipende dall’identificazione prima di tutto nel senso che il singolo individuo deve essere a conoscenza dei criteri di identificazione che circolano a livello sociale e che concorrono a costruire i diversi tipi di identità «normali» e «stigmatizzate» perché questa conoscenza è per lui di fondamentale importanza per aderire all’una o 8
Ivi, p. 23.
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all’altra, ovvero – nel caso non sia possibile una scelta per il tipo di stigma che si è costretti a portare – per elaborare strategie di sopravvivenza entro un contesto ostile nel quale egli è comunque obbligato all’interazione con «altri». Infatti, come ricorda anche Goffman, il presupposto da cui muove ogni individuo è che «egli abbia la stessa identità sociale degli altri»9 almeno finché tale presupposto non si scontri con una diversità che si fa evidente nella concreta situazione interattiva. In quest’ultimo caso, si può affermare che «le informazioni generalmente note riguardo a se stesso costituiscono la base da cui l’individuo deve muovere quando deve decidere l’atteggiamento da prendere rispetto al suo stigma» e ciò comporta che «qualsiasi modifica nel modo in cui l’individuo deve sempre e comunque presentarsi sarà, proprio per queste ragioni, fatale»10. Lo stretto rapporto fra identità e identificazione diviene ancora più evidente nel caso della cosiddetta identità personale che Goffman definisce come «i segni positivi o piastrine di riconoscimento e la combinazione unica degli elementi della sua vita che viene ad essere attribuita all’individuo con l’aiuto di questi segni della sua identità». Tale identità viene costruita con l’ausilio di un «processo di identificazione personale» che ha lo scopo di rendere «unico» l’individuo, nonostante ne risulti piuttosto, e paradossalmente, «un ruolo strutturato, abitudinario, standardizzato, nell’organizzazione sociale, proprio a causa di questa sua unicità»11. Goffman lascia qui da parte un terzo possibile carattere distintivo dell’identità personale, quello che ha a che fare con «il fulcro del suo essere, un aspetto generale e insieme centrale di lui, che lo rende diverso completamente, e non soltanto dal punto di vista dell’identificazione, da quelli che sono in gran parte come lui»12. Questa scelta sembra essere piuttosto indicativa. Infatti, a mio avviso Goffman tralascia questo aspetto sia perché intende occuparsi dell’identità personale rilevante per la società e non del residuo irriducibile e incomunicabile proprio dell’individuo in quanto singolo, sia perché il tentativo di analizzare questo aspetto non rientra fra i compiti della sociologia, ma semmai in quelli della psicologia e della filosofia. Comunque stiano le cose, il punto decisivo è che anche Goffman sembra ritenere che l’identità personale rilevante a livello sociale coincida con un processo di identificazione il cui risultato non è la «scoperta» del vero sé 9 10 11 12
Ivi, p. 64 Ivi, p. 65. Ivi, p. 74. I bidem.
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dell’individuo, quanto piuttosto la costruzione di un sé adeguato alle richieste di «normalizzazione» da parte del gruppo di appartenenza attraverso uno schema di identificazione standardizzato (che include attributi biologici, l’aspetto fisico, il nome ecc.) e la conseguente creazione di una «biografia» che permetta di seguire il posizionamento del relativo individuo nel corso del tempo. D’altra parte, tuttavia, ciò che resta almeno in parte escluso dall’analisi di Goffman è il rapporto fra l’identità che l’individuo esibisce su richiesta – vale a dire la sua autoidentificazione – e quella, ammesso che esista, che egli ritiene di avere al di là di tale richiesta. Infatti, per quanto sia molto difficile distinguere l’aspetto propriamente personale da quello sociale dell’identità, non sembra tuttavia sufficiente ridurre l’identità individuale a quella sociale proprio perché, come scrive anche Goffman, «è chiaro che l’individuo costruisce l’immagine di se stesso con i materiali da cui altri hanno costruito un’identificazione sociale e personale di lui, ma egli si prende importanti libertà per ciò che riguarda il modo di modellare tale materiale»13. Ciò coincide con l’affermare che l’individuo – qualsiasi individuo, anche quello «normale», benché la cosa accada più frequentemente nel caso dello «stigmatizzato» – ha sempre la possibilità di reinterpretare gli schemi di identificazione ricevuti (i modelli di identità) modificandoli per adeguarli alla sua diversità, vale a dire per far sì che vi trovino collocazione anche i suoi attributi differenti da quelli ritenuti «normali e naturali»14. Proprio queste ultime affermazioni dimostrano che quel terzo carattere distintivo ha una notevole rilevanza per l’indagine del processo che conduce all’emergere di una identità individuale anche in connessione con le pratiche di identificazione continuamente in atto a livello intersoggettivo, e che perciò la filosofia dovrebbe dedicarsi alla sua analisi in modo approfondito, riconsiderando soprattutto alcuni concetti «tradizionali» come «individuo», «soggetto» e «sé». Naturalmente, il rapporto fra la dimensione sociale dell’identità – che ha sempre a che fare con pratiche di identificazione – e quella propriamente individuale chiama in causa anche una rinnovata riflessione sul sé dal punto di vista psicologico, per stabilire come si configuri l’identità personale al microlivello individuale. Il paradigma del sé dialogico che ho menzionato in precedenza cerca appunto, come scrive 13 14
Ivi, pp. 133-134. Su questa tematica, cui non può essere qui dedicato uno spazio adeguato, si vedano almeno le affermazioni di Goffman sul rapporto fra normalità, stigma e devianza (ivi, pp. 157-172) e sul concetto di devianza in generale (ivi, pp. 173-181).
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Hubert Hermans, di «presentare uno schema teorico per la reciproca inclusione del sé e della cultura»15, coniugando le posizioni di WilliamJames e di Michail Bakhtin relative alla dinamica comunicativa che s’instaura all’interno dell’individuo (ma in continua interdipendenza con il mondo esterno), e che potrebbe essere definita come un «dialogo» fra I o e Me. Per il paradigma del sé dialogico, allora, il sé può essere concepito «nei termini di una molteplicità dinamica di posizioni dell’I o relativamente autonome», visto che l’I o «ha la possibilità di muoversi da una posizione spaziale all’altra in accordo con i mutamenti nella situazione e nel tempo»; esso «fluttua fra differenti e persino opposte posizioni, e ha la capacità di dotare tramite l’immaginazione ogni posizione di una voce, tanto che possono instaurarsi relazioni dialogiche fra le posizioni»16. A loro volta, tali voci «funzionano come i personaggi che interagiscono in una storia, coinvolti in un processo di domanda e risposta, accordo e disaccordo», perché ciascuno di loro ha una storia da raccontare su se stesso: «In quanto voci differenti, questi personaggi scambiano informazioni sui loro rispettivi Me, e ne risulta un sé complesso, strutturato narrativamente»17. La concezione del sé come dialogico – nonostante le obiezioni che possono essergli mosse18 – si dimostra utile anche per la tematica qui in discussione perlomeno perché pone l’accento sulla impossibilità di definire una volta per tutte in modo statico e univoco il sé, e da qui l’individuo e la sua «identità». Infatti esso conduce a ritenere che tale identità debba essere concepita come un insieme di posizioni simultaneamente date «che possono essere occupate dalla stessa persona», mentre «l’Io in una posizione, inoltre, può essere d’accordo e in disaccordo, comprendere e fraintendere, opporsi, contraddire, interrogare, sfidare e persino ridicolizzare l’Io in un’altra posizione»19. Il sé dialogico ha per di più una dimensione immediatamente «sociale», non nel senso che l’individuo inteso come entità in sé conchiusa «entra nelle interazioni sociali con altre persone esterne, ma nel senso che altre persone occupano posizioni in un sé che ha molte voci», perché «io sono in grado di costruire un’altra persona o essere come una posizione che posso occupare e come una posizione che crea una prospettiva alternativa sul 15 16
H.J.M. Hermans, The Dialogical Self , cit., p. 243. Ivi, p. 248. Cfr. anche H.J.M. Hermans, H.J.G. Kempen e R.J.P. Van Loon, The Di alogical self , cit. 17 I bidem. 18 Cfr., per fare un solo esempio, G. Adams e H.R. Markus, Culture as Patterns: An Alternative Approach to the Problemof R eifi cation, in «Culture & Psychology», 7/3 (2001), pp. 283-296. 19 H.J.M. Hermans, The Dialogical Self , cit., p. 249.
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mondo e su me stesso», mentre a sua volta tale prospettiva può essere anche del tutto immaginaria e non corrispondere affatto alla prospettiva dell’altro «effettivo», come ha potuto ritenere per esempio George H. Mead20. Ciò che rende il modello del sé dialogico interessante dal punto di vista di altre scienze sociali (in particolare della filosofia e della sociologia) sembra essere per l’appunto il suo tentativo di considerare l’individuo in relazione con il proprio contesto senza sacrificare la sua unicità, e tuttavia intendendo tale unicità anche come il risultato di continue interazioni, vale a dire scambi comunicativi, che avvengono tanto con l’interno quanto con l’esterno.
3. L’identificazione obbligata: identità sessuale/di genere e transgenderismo L’identità sessuale/di genere rappresenta certamente uno dei casi in cui si fa più evidente il fatto che la costruzione dell’identità individuale corrisponde in realtà a una cristallizzazione di pratiche di identificazione condotte sulla scorta del complesso di attributi ritenuto normale e naturale in un contesto spaziotemporale dato. Questo caso è particolarmente interessante perché il complesso di attributi sembra essere incontrovertibilmente dato per natura, in particolare dall’anatomia dei corpi umani intesi come «oggetti» del mondo fisico. Tuttavia, come cercherò di mostrare attraverso la discussione di posizioni espresse (pur con una infinita varietà di sfumature) in ambito «transgender»21, anche questa identità, lungi dall’essere qualcosa di oggettivamente dato, è invece il risultato di una continua richiesta di identificazione mossa all’individuo che vale indistintamente per l’identità sessuale e per quella di genere, nonostante tutti i tentativi di distinguere fra le due espressioni22. Anzi, la caratteristica peculiare di questo 20
Ivi, p. 250. Sulla posizione di G.H. Mead cfr. Mind, self, and society , University of Chicago Press, Chicago, IL 1934; e J. Martin, Perspectival Selves in Interaction with Others: Re-reading G.H. Mead’s Social Psychology , in «Journal for the Theory of Social Behaviour», 35/3 (2005), pp. 231-253. 21 Per una introduzione al concetto e alle forme e modalità del transgenderismo cfr. almeno R. Ekins e D. King (a cura di), Blending Genders. Social Aspects of Cross-dressing and Sex-chan gi ng, Routledge, London and New York 1996; B. Bullough, V.L. Bullough e J. Elias (a cura di), Gender Blending, Prometheus Books, Amherst, NewYork 1997; S. Whittle, The Transgender Debate. The Crisis Sourrounding Gender I dentities, South Street Press, Reading 2000; P. Califia, Sex Changes. Transgender Politics, II edn., Cleis Press, San Francisco, CA 2003 22 Sul concetto di identità di genere cfr. E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci, Roma 2003.
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tipo di identità è che la richiesta di identificazione si traduce in pratiche unilateralmente messe in atto da «altri» fin dal momento della nascita di ciascun individuo – e persino da prima – per «adeguarlo» ai modelli socialmente accettati, che in questo caso sono soltanto due. Infatti, nell’ambito sessuale/di genere o si è «maschi» o si è «femmine»: tertium non datur . Un primo esempio di questo tipo è costituito dalle pratiche di mutilazione – che tali restano al di là di qualsiasi giustificazione «razionalmente argomentabile» – messe in atto sul corpo dei neonati che presentano caratteristiche tali da costituire per l’appunto quel non meglio specificato «terzo» che non può darsi nel caso dell’identità sessuale/di genere. Si tratta degli individui solitamente indicati dai termini «intersessuale» o «ermafrodito», che rappresentano peraltro una delle categorie di anormali il cui stigma, per riprendere termini goffmaniani, consiste in una «deformazione fisica», e che dunque possono essere «a buon diritto» (dal punto di vista dei «normali») inseriti nella categoria dei «mostri umani», per dirla con Michel Foucault. Infatti, secondo Foucault il mostro umano è colui che «combina l’impossibile e il proibito» – ciò che non può essere «reale» con ciò che non può essere «morale» –, mentre quel che lo rende un mostro «non è soltanto la sua eccezionalità relativa alla forma della specie; è il disturbo che introduce nelle regolarità giuridiche»23. E ciò anche quando l’eccezionalità sembra non essere propriamente tale, se è vero che, come ricorda Cheryl Chase, «circa un neonato su cento esibisce una qualche anomalia nella differenziazione sessuale, e circa uno su duemila è abbastanza differente da rendere problematica la domanda “È un bambino o una bambina?”»24. 23
M. Foucault, The Abnormals, in Ethics Subjectivity and Truth. Essential Works of F oucault 1954-1984, vol. I, a cura di P. Rabinow, The New Press, New York 1997, pp. 51-59, qui p. 51. Sul concetto di «normalità» in ambito sessuale/di genere si veda anche M. Warner, The Trouble with Normal. Sex, Politics, and the Ethics of Queer Life, Harvard University Press, Cambridge, MA 2000. 24 C. Chase, Hermaphrodites with Attitude: Mapping the Emergenceof I ntersex Poli tical Activism, in R.J . Corber e S. Valocchi (a cura di), Queer Studies. An I nterdiscipli nary Reader , Blackwell, Malden, MA e Oxford 2003, pp. 31-46. Dopo aver subito personalmente una serie di interventi chirurgici intesi a conferirle una «chiara» identità sessuale/di genere, Chase ha fondato nel 1993 la ISNA- Intersex Society of North America. Di particolare interesse, soprattutto per quanti, pur dichiarandosi sostenitori dei diritti umani, tendono a coglierne la violazione soltanto nelle «culture altre» e non anche «qui da noi», la sua posizione sulla questione della clitoridectomia in Africa, le cui «rappresentazioni manifestano tutte una profonda trasformazione in altro della clitoridectomia africana che contribuisce al silenzio che circonda pratiche mediche simili nell’occidente industrializzato. Il “loro” taglio dei genitali è un rituale barbarico; il “nostro” è scientifico. Il loro sfigura, il nostro normalizza il deviante» (ivi, p. 41). Più in generale,
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Perché è questa la prima domanda alla quale ciascun individuo – ciascuno di noi – è chiamato a rispondere fin dalla nascita allo scopo di identificarsi, o meglio in questo caso di essere identificato, per acquisire una identità sociale riconoscibile, accertabile e accettabile che lo accompagnerà per il resto della vita e che fin da subito, prima ancora che l’individuo coinvolto se ne renda conto, viene confermata da numerosi «simboli visibili» a carattere più o meno invasivo. All’accertamento dei caratteri anatomici, e alla loro «correzione» nel caso di eventuali «errori», segue l’attribuzione di un nome adeguato che stabilisca una volta per sempre che quell’individuo è un M (maschio) o un F (femmina), un nome che viene «certificato» nell’atto di nascita e che seguirà (o perseguiterà, a seconda delle circostanze) quell’individuo tanto nella formazione dell’identità personale, quanto nell’esibizione e rappresentazione della sua identità sociale. In molte lingue umane, questa attribuzione è continuamente riaffermata dalla loro struttura, visto che pronomi, forme verbali, sostantivi, aggettivi e quant’altro contribuiscono a rendere immediatamente percepibile anche quale sia la «categoria» sessuale/di genere cui appartiene il parlante. Inoltre, solo per fare qualche altro esempio, ancora prima della nascita la futura mamma e il gruppo dei familiari si danno da fare per preparare un corredino intonato al sesso/genere del nascituro, con una prevalenza di rosa per F e di celeste per M, mentre il fiocco appeso alla porta di casa o in altro luogo per «partecipare» la nascita a livello sociale è ancora una volta rosa o celeste. E finché certi caratteri non diverranno abbastanza evidenti, nel modo di vestire, di muoversi, di parlare in accordo all’identità assegnata, insomma finché non sarà possibile chiedere direttamente al nuovo nato di identificarsi, i genitori o chi per loro si sentiranno continuamente rivolgere la domanda: «Che bel bambino… È un maschio una femmina?». Ma cosa accade se non è possibile rispondere a quella domanda neppure con il passare del tempo, ossia se il bambino ormai cresciuto ma la cui identificazione come M o F non è abbastanza immediata si sente continuamente rivolgere quella domanda in una nuova forma: «Sei un maschio o una femmina?». Questa domanda perseguita tutti coloro che a vario titolo si riconoscono in una delle infinite identità transgender , vale a dire quelle identità che si discostano in maniera più o meno marcata, ma chiaramente percepita (almeno al livello individuale), dai due modelli socialmente accettati. sugli «intersessuali» si veda almeno S.J. Kessler, Lessons from the Intersexed , Rutgers University Press, NewBrunswick, NJ and London 2002.
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Il dramma di questa identificazione obbligata è chiaramente presentato da Leslie Feinberg: «Sono una persona che sperimenta una difficoltà quasi insormontabile quando si richiede di riempire la casella “F” o “M” sui documenti di identificazione. Non sono in disaccordo con l’essere nato con un corpo femminile. Né mi identifico come un sesso intermedio. Semplicemente non rientro nei concetti prevalenti in occidente su come una donna o un uomo “dovrebbero” apparire. E questa realtà ha drammaticamente indirizzato il corso della mia vita»25. Una persona come Feinberg, che non esibisce un’identità sociale chiaramente accertabile e riconoscibile è destinata a «innervosire» molte altre persone: «Quando mi guardano, vedono un caleidoscopio di caratteristiche che associano sia ai maschi che alle femmine […] Così mi pongono febbrilmente la domanda: donna o uomo? Sono quelle le uniche due parole che la maggior parte delle persone ha a disposizione per formulare la propria domanda»26. Tuttavia, il vero problema è che in questo modo «essi stanno cercando di comprendere la mia espressione di genere tramite la determinazione del mio sesso – e qui sta il nocciolo! Proprio come la maggior parte di noi è cresciuta avendo a disposizione soltanto i concetti di donna e uomo, i termini femminile e ma schile sono gli unici due strumenti che la maggior parte della gente ha a disposizione per parlare delle complessità dell’espressione di genere»27. In generale, uno dei problemi che si trovano ad affrontare le persone transgender è quello di costruirsi una identità sociale alternativa che a sua volta scaturisce anch’essa da pratiche di identificazione che accomunano un particolare gruppo di «devianti» o di «non normali», un’identità palesemente contrapposta o altrimenti distinta da quella della «maggioranza dei normali». Ancora una volta, questo processo di spostamento e di riformulazione dell’identità sociale dello stigmatizzato viene ben ricostruito da Goffman, a partire dal presupposto che «l’individuo stigmatizzato tende ad avere le stesse credenze, riguardo all’identità, che abbiamo noi», mentre «le sue più profonde convinzioni riguardo a ciò che egli è possono costituire il suo senso di essere una “persona normale”, un essere umano come chiunque altro, una persona dunque che merita opportunità e riconoscimenti»28. 25
L. Feinberg, TransLiberation. Beyond Pink or Blue, Beacon Press, Boston 1998, p. 1. Nel riportare le affermazioni di Feinberg impiego la forma italiana “maschile”, che va intesa come “neutra”, nel tentativo di rispettare la preferenza di Feinberg per forme grammaticali «neutrali rispetto al genere» – che peraltro personalmente condivido. 26 Ivi, p. 6. 27 Ivi, p. 8. 28 E. Goffman, Stigma, cit., p. 17.
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Con ciò è data anche la possibilità di costruire identità «minoritarie» che tuttavia possono aspirare al riconoscimento e all’accettazione soltanto se il loro stigma comune è abbastanza diffuso e condiviso da trasformarsi in un criterio univoco di identificazione. L’individuo che accetta una tale identità «basa le sue richieste non su ciò che ritiene sia dovuto a tutti, ma solo a coloro che fanno parte di una categoria sociale di cui egli è membro, per esempio tutti quelli della sua età, sesso, professione e così via»29. In effetti, la costituzione di identità alternative, basate su pratiche alternative di identificazione, è all’origine anche della possibilità di ottenere un riconoscimento sociale di gruppo (come nel caso di una «maggioranza» che riconosca una «minoranza» stigmatizzata), e dunque di usufruire di un trattamento meno discriminatorio garantito, per esempio, da politiche e da provvedimenti a carattere giuridico cosiddetti di «tutela delle minoranze». E tuttavia, il presupposto per ottenere tale riconoscimento è la rinuncia nei confronti della propria diversità in quanto individuo, in quanto sé continuamente coinvolto nel processo di costruzione di una identità a carattere fluido, e mai definitivamente in grado di sedimentarsi, come dimostra il paradigma del sé dialogico, o come potrebbe anche dedursi da una definizione del sé come «sé transculturante»30. In cambio di questa rinuncia a esibire le proprie diversità e a chiederne il riconoscimento e l’accettazione in quanto tali – cioè nei termini di differenze che hanno diritto all’esistenza in quanto costitutive dell’individuo che le esibisce –, e in cambio dell’accettazione di una serie di pratiche attraverso le quali egli si identifica a beneficio di altri, l’individuo conquista una identità stabile e riconoscibile che lo mette al sicuro dalle conseguenze indesiderate che potrebbero risultare dall’esibizione dello stigma da cui è «segnato», e che condivide con altri da cui può fondatamente aspettarsi di ricevere supporto. Ciò nonostante, il caso delle persone transgender mette in discussione proprio la stessa possibilità dell’identificazione31, perché tali persone tendono a mostrare una variabilità nei caratteri che li differenziano dai nor29 30
I bidem.
Su questa nozione, sulla quale sto lavorando da qualche tempo tanto in ambito intraculturale, quanto in ambito interculturale cfr. F. Monceri, The Transculturing Self: A Philosophical Approach, in «LAIC-Language and Intercultural Communication», 3/2 (2003), pp. 108-114. 31 Si vedano almeno K. Bornstein, Gender Outlaw: On Men, Women and the Rest of Us, Routledge, NewYork and London 1994; L. Feinberg, TransLiberation, cit.; J. Nestle, C. Howell e R. Wilchins, Genderqueer. Voices from beyond the sexual binary . Alyson Books, Los Angeles/New York 2002; P. Califia, Sex Changes, cit.; R. Wilchins, Queer Theory, Gender Theory . An I nstant Primer , Alyson books, Los Angeles 2004.
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mali, e anche fra di loro, alla quale non intendono rinunciare, e che anzi in molti casi risulta nel tentativo di sovvertire la pratica dell’identità in generale attraverso la creazione ed esibizione di identità/identificazioni fluide, mutevoli e ibride. Esse possono anche mostrarsi tramite modificazioni «anormali» del corpo fisico (come nel caso dei «transessuali» che si sottopongono solo parzialmente al trattamento chirurgico32), o tramite l’appropriazione di un ruolo sociale non adeguato alla conformazione visibile di quello stesso corpo (come nel caso dei «cross-dressers»), o tramite l’attualizzazione di pratiche sessuali «perverse» o «aberranti» che «giocano» con il genere e con tutti gli atteggiamenti o ruoli ad esso assegnati anche in termini di rapporti di potere (come nel caso del sadomasochismo33). Questo «superamento dell’identità» sul piano concreto ha peraltro un risvolto in ambito teorico nella Queer Theory – sulla quale non è possibile qui soffermarsi – che tuttavia non è ancora riuscita a influenzare il pensiero scientifico-sociale più generale anche per il suo carattere frammentario, che rifiuta di confluire in unico paradigma proprio per difendere la varietà inesauribile dei «fenomeni identitari» di cui si occupa34.
4. Conclusioni In questo lavoro ho cercato di sollevare il problema del rapporto che lega il concetto di identità a quello di identificazione, in particolare tentando di mostrare che l’identità è il risultato delle infinite pratiche di identifica32
Cfr. fra gli altri S. Whittle, Gender Fucking or Fucking Gender? Current Cultural Contri butions to Theories of Gender Blending, in R. Ekins e D. King (a cura di), op. cit., pp. 196-215; W.O. Bockting, Transgender Coming Out: I mpli cations for the Cli nical Management of Gender Dysphoria, in B. Bullough, V.L. Bullough e J. Elias, op. cit., pp. 48-53. 33 Sui risvolti del sadomasochismo in termini di rovesciamento dell’identità sessuale/di genere e dei rapporti di potere che essa presuppone si vedano, fra gli altri, P. Califia, Public Sex. The Culture of Radical Sex . II edn. Cleis Press, San Francisco, CA 2000; M. Foucault, Sex, Power, and the Poli tics of I dentity , in Ethics Subjectivity and Truth, cit., pp. 163-175. 34 Sul rapporto fra teorie queer e teorie di genere cfr. il recente R. Wilchins, Queer Theory , cit. Per una introduzione alle teorie queer cfr. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of I dentity , Routledge, New York 1990; J . Butler, Bodies that Matter. On the Discursive limits of “Sex”, Routledge, New York/ London 1993; A. Jagose, Queer Theory. An I ntroduction, New York University Press, NewYork 1996; W.B. Turner, A Genealogy of Queer Theory , Temple University Press, Philadelphia 2000; R.J. Corber e S. Valocchi (a cura di), Queer Studies. An Interdisciplinary Reader , Blackwell, Malden, MA and Oxford 2003; D.E. Hall, Queer Theories, Palgrave Macmillan, Houndsmill, Basingstoke, Hampshire/ New York 2003; N. Sullivan, A Critical introduction to Queer Theory , Edinburgh University Press, Edinburgh 2003.
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zione messe in atto da ciascun individuo nell’ambito delle situazioni interattive concrete. Benché la tematica sia complessa e certamente non esaurita dall’argomentazione fin qui condotta, mi sembra possibile presentare almeno alcune considerazioni conclusive da intendersi anche nel senso di suggerimenti per l’ulteriore riflessione. Il primo punto da sottolineare è l’inevitabilità del ricorso a pratiche di identificazione, per il semplice motivo che a esse ci obbliga la nostra struttura cognitiva di esseri umani. Detto altrimenti, non credo sia possibile evitare il ricorso all’identificazione di se stessi e di altri, e la conseguente creazione di modelli di identità, perché questa operazione coincide con la modalità fondamentale dell’attività conoscitiva umana, la quale consiste nel ridurre l’ignoto al noto tramite una selezione di caratteri in seguito rielaborati nella forma di modelli mentali stereotipici. Quel che invece è possibile fare è acquisire e mantenere la consapevolezza dell’arbitrarietà di tale operazione di riduzione, e della conseguente arbitrarietà dei modelli identitari proposti a livello sociale. Per il singolo individuo l’identità è un concetto non necessario perché la sua configurazione così e non altrimenti non è un prodotto, ma un processo infinito di trasformazione del sé che non ha bisogno di un’unica definizione. Tuttavia, poiché tale processo non avviene nel vuoto, per così dire, ma nel contesto di interazioni concrete, nelle quali viene richiesto a ogni individuo di negoziare e rinegoziare continuamente la propria diversità per corrispondere alle richieste di identificazione mossegli da altri, è inevitabile che una qualche identità si sedimenti in ogni momento dato come risultato di pratiche simultanee di identificazione e di autoidentificazione. Tale identità, tuttavia, non esaurisce l’individualità, e semplicemente si configura in modo tale da rintracciare un punto di equilibrio fra la diversità del sé e la richiesta di normalizzazione da parte del contesto. L’identità individuale, in definitiva, si configura come quell’insieme di caratteri che ciascuno di noi sperimenta essere la più adeguata per identificarsi in ogni situazione data ai fini dell’interazione comunicativa. Essa non risulta problematica finché la diversità esibita non sia tanto divergente rispetto ai modelli dominanti da revocare in dubbio la loro «naturalità e normalità», vale a dire finché si può perlomeno presumere che l’identità personale di un individuo sia sufficientemente aderente alla sua identità sociale. Tuttavia, si tratta di un equilibrio sempre fragile, soprattutto per la tendenza a ritenere che una volta costruita l’identità possa essere data per scontata senza più ricordare che la sua origine va rintracciata nell’identificazione. È per questo motivo che un caso come quello delle persone transgender ha una notevole rilevanza anche per la riflessione teo-
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rica: perché revoca in dubbio l’equivalenza fra identità ed «essenza» dell’individuo, sottolineando piuttosto che tale equivalenza finisce per sacrificare per l’appunto l’identità individuale, dell’individuo con tutte le sue differenze.
Abstract I n this article the author maintains that the notion of i dentity originates at the inter subjective level from identification and self-identification practices, whose actualization is needed in order for individuals to interact with each other. Therefore, the very term identity should be considered as misleading in that it always entails a reference to (social) identification. I n the first section, the relationship between identity and identification is considered in the li ght of E rving Goffman’s notion of «stigma». I n the second section, the case of the sexual/gender identity of «transgendered persons» is briefly discussed in order to show in what sense the overlapping between identity and identification is closely related to the social control of individual diversity.
L’identità in questione
Problemi di identità maschile Giovanni Ventimiglia
1. I ntroduzione 1.1. Movimenti maschili Si moltiplicano da qualche tempo anche in Italia i movimenti e le iniziative di gruppi di uomini a difesa dei diritti degli uomini e, in generale, della cultura maschile. Basterà fare un giro in rete per cominciare a farsi una idea di quanto ampio sia il coinvolgimento degli uomini in questa che appare come una nuova forma di lotta post (e a volte anti) femminista. Per la verità si tratta di echi di movimenti iniziati già da qualche decennio negli Stati Uniti. Risale infatti al 1972 Men’s Defense, la prima organizzazione in difesa della parità dei diritti degli uomini. Del 1976 è invece il testo fondamentale dello psicologo Herb Goldberg, The Hazard of being Male: surviving the myth of the masculine privilege1. Nel libro si denuncia tra l’altro il femminismo, per aver contribuito a perpetrare i ruoli tradizionali, allorquando questi facevano ancora comodo alle donne. Il libro è all’origine della Fondazione Free Men (oggi National Coalition of Free Men). Altro testo fondamentale nella storia del movimento maschile americano è il bestseller (in America) di Warren Farrell, Why Men are The Way They Are2, del 1986, che il New York Times ha definito come «il miglior libro mai scritto sull’amore, il sesso e l’intimità». Farrell ha una storia singolare. Già noto per essere stato uno dei primi e più convinti uomini femministi (fu l’unico uomo ad essere mai stato eletto al comitato esecutivo 1 2
H. Goldberg, The Hazard of Being Male, NAL-Dutton, NewYork 1976. W. Farrell, Why Men are The Way They Are, McGraw-Hill, NewYork 1986 (tr. it.: Perché gli uomini sono come sono, Frassinelli, Milano 1986). La traduzione italiana è fuori commercio ed introvabile. TEORIA 2006/1
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della National Organization for Women), autore di un famoso testo femminista, The Liberated Man (1974), negli anni Ottanta cambia completamente atteggiamento nei confronti delle donne: gli uomini avrebbero prestato fin troppa attenzione al senso di impotenza vissuto dalle donne di fronte alla classe maschile dominante e privilegiata. Era invece tempo, per Farrell, di prestare finalmente attenzione al senso di impotenza e, in generale, alle emozioni degli uomini. Farrell scriverà più tardi un altro testo di riferimento per il movimento degli uomini: The Myth of Male Power: Why Men Are The Disposable Sex 3. Del 1990 è il bestseller del poeta Robert Bly, I ron John4, libro di testo principale di gruppi di autocoscienza maschile molto seguiti negli USA. Al pari di Goldberg e Farrell, Bly dà molta importanza alle emozioni degli uomini, da riscoprire in percorsi analitici ispirati ai miti dell’«uomo selvatico». Famose (sempre in America) sono le sue pagine contro il «maschio tenero» degli anni Settanta: premuroso e passivo, incapace di vitalità propria e di reazioni contro gli attacchi delle donne forti, non riesce alla fine nemmeno ad essere oggetto del loro desiderio. Le donne infatti preferirebbero pur sempre gli uomini forti, selvatici appunto. Riscoprire il «selvatico» dentro di sé avrebbe dunque per Bly il doppio vantaggio di riscoprire le proprie autentiche, naturali emozioni e, di più, sperimentare di nuovo il desiderio erotico delle donne. Bly differisce da Farrell e Goldberg per l’importanza attribuita alla separazione dal padre come origine dei disturbi dell’affettività e per la proposta di riscoprire i riti di iniziazione al maschile (da uomo a uomo) nel percorso verso la riscoperta di sé. Un altro libro importante, in questa brevissima storia del pensiero «maschile», è il bestseller del trapezista e scrittore (già professore di teologia e giornalista) Sam Keen, Fire in the Belly . On Being Man5. Gli autori e i testi menzionati sono, di solito, all’origine dei principali movimenti degli uomini in Italia. Fa eccezione il movimento, davvero no3
Idem, The Myth of Male Power: Why Men Are The Disposable, Simon and Schuster, New York 1993 (tr. it.: I l mito del potere maschile, Frassinelli, Milano 1994). La traduzione italiana è fuori commercio ed introvabile. 4 R. Bly, I ron John. A Book about Men, Addison-Wesley, Reading Mass. 1992 (tr. it.: Per diventare uomini . Come un bambino spaventato si può trasformare in un uomo completo e maturo, Mondadori, Milano 1992). Anche in questo caso, la traduzione italiana è fuori commercio ed introvabile. In commercio è invece The Sibling Society , Addison-Wesley, Reading Mass., 1996; tr. it.: La società degli eterni adolescenti , Red, Como 2000. 5 S. Keen, Fire in the Belly . On Being Man, Paperback, BantamUSA 1991 (tr. it.: Nel ventre dell’eroe. Vi aggio alla scoperta del nuovo maschio, Frassinelli, Milano1993).
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strano anzi ruspante, denominato «maschio 100%» o «lega maschio», fondato da Salvatore Marino, con sede a Pescara, che ha come scopi: «una rivoluzione sessuale, morale, culturale e politica del maschio» contro lo strapotere «nazi-femminista»6. Ha persino un braccio «politico», denominato Lega Sud. A Farrell si ispira invece il movimento «Uomini 3000 – Associazione etica maschile», con sede a Urbino, fondato da Rino Della Vecchia7. A Robert Bly si ispirano, per finire, il movimento dei «maschi selvatici» e il movimento «per il padre», fondato e animato dallo psicoanalista junghiano e giornalista Claudio Risé8. Accanto ai libri, anche molti film di successo, americani e non, testimoniano in modo evidente il ritorno del «maschile», del cavaliere, del guerriero o semplicemente del padre: L’ultimo dei moicani (di Michael Man), L’ultimo samurai (di Edward Zwick), I l mestiere delle armi (di Ermanno Olmi), I l gladiatore (di Ridley Scott), I cavalieri che fecero l’impresa (di Pupi Avati), Il ritorno (di Andrey Zvyaginstev), per citare solo qualche titolo. 1.2. Due cause È venuto il momento di chiedersi quali siano le cause che hanno determinato un tale risveglio di interesse per il maschile ed i suoi valori. 1.2.1. Il primo e più evidente motivo alla base del movimento degli uomini è l’emancipazione femminista. Anche se molta strada è ancora da percorrere in questa direzione, tuttavia sono innegabili le conquiste che, spesso con molta fatica, sono state ottenute dalle donne. Al riguardo si sono avute, mi sembra, due fasi, diverse anche cronologicamente. La prima, che va grosso modo dalla Rivoluzione francese agli anni Sessanta, è quella della parità, allorché le donne hanno reclamato giustamente gli stessi diritti degli uomini: diritto all’istruzione, di voto, di accesso alle libere professioni. La seconda fase, che parte dagli anni Settanta, è quella della differenza, allorché le donne hanno reclamato alcuni diritti come propri ed esclusivi: si pensi a campi quali l’aborto o l’affidamento dei figli in cui i 6 7 8
Cfr. www.maschio100x100.com Cfr. www.uomini3000.it Cfr. www.maschiselvatici.it nonché i libri di Claudio Risé, I l maschio selvatico. Ritrovare la forza dell’istinto rimosso dalle buone maniere, Red, Como 1993; Idem, Maschio amante felice. Ovvero della bellezza di essere uomini , Frassinelli, Milano 1995; Idem, I l padre l’assente inaccettabile, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003. La bibliografia completa di Risè si trova sul suo sito: http://www.claudio-rise.it
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diritti delle madri (ad abortire o a ricevere l’affidamento dei figli) prevalgono senz’altro, secondo la legge e la prassi giuridica, sui diritti dei padri (a tenere il bambino o ricevere l’affidamento dei figli). Si pensi, poi, alle «quote femminili», obbligatorie in alcuni paesi nell’ambito del lavoro, secondo cui, a prescindere dal merito, una parte dei posti di un determinato ente pubblico o privato devono essere riservati alle donne. Come si vede, si tratta di diritti che le donne reclamano non in quanto uguali agli uomini, ma proprio in quanto donne: zone franche in cui nessun uomo può entrare. È a questa seconda fase del movimento femminista che si oppongono, oggi, molti uomini: padri che non accettano le decisioni abortive delle loro compagne, o desiderosi, magari più delle madri, di prendersi cura dei propri figli in seguito ad un divorzio; o semplicemente uomini meritevoli, esclusi da posti di lavoro, a causa delle «quote femminili», soltanto, dunque, perché maschi. Non è però ancora tutto. Perché, al di là dell’ambito puramente politico, è l’ambito delle proposte culturali a spaventare l’uomo. Anche in questo caso bisogna distinguere due correnti del femminismo, diverse stavolta non già cronologicamente ma, piuttosto, geograficamente. Il femminismo europeo, infatti, quello di Luce Irigaray9, di Carol Gilligan10 e di Luisa Muraro11, conosciuto anche come «femminismo della differenza sessuale», non spaventa tanto gli uomini, dal momento che la differenza, e dunque l’esistenza di entrambi i sessi, è vista come un valore positivo da difendere a tutti i costi contro l’appiattimento e l’omologazione indifferenziata dei sessi (tipico della prima ondata del femminismo). Luisa Muraro, per esempio, in Italia continua a rivolgere agli uomini appelli incoraggianti e per nulla ostili, affinché gli uomini prendano coscienza dei valori contenuti nella teoria della differenza sessuale, e comincino di conseguenza un percorso di presa di coscienza di se stessi in quanto uomini (non in quanto neutri universali, come è avvenuto fino ad ora)12. È invece il femminismo soprattutto americano a spaventare gli uomini. E difatti è proprio lì che sono nati, come abbiamo visto, i primi movimenti maschili. Si tratta della originaria corrente emancipazionista divenuta or9
L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it., Feltrinelli, Milano 1985. Per questo, come per i testi che seguono non ho ritenuto necessario citare la prima edizione in lingua originale, non essendo a tema la storia del pensiero femminista. 10 C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it., Feltrinelli, Milano 1987. 11 L. Muraro, L’ordine simboli co della madre, Editori Riuniti, Roma 1991. 12 L. Muraro, Se il cardinale fosse un mio studente, Il Manifesto, 7 agosto 2004.
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mai tanto matura da proporre visioni del mondo e della società affrancate completamente dagli uomini e dalle sue funzioni. Fra i tanti che si potrebbero citare, basterà qui far riferimento al testo di Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi 13, in cui l’autrice, riflettendo sui grandi vantaggi portati alle donne dagli elettrodomestici, ipotizzava un futuro finalmente libero dal peso degli uomini. Sulla stessa lunghezza d’onda, per rimanere sempre nell’ambito degli esempi, si colloca il libro di Arianna Dagnino, Uoma: la fine dei sessi 14, in cui viene preconizzata una nuova era dell’umanità che, con l’aiuto delle tecnologie, farà a meno degli uomini. Fondamentale, infine, in questa ottica è poi Manifesto Cyborg di Donna Haraway15, non a caso biologa di formazione, che ipotizza per il suo cyborg post-genere (ma in realtà femminile) forme di riproduzione umana in cui l’uomo non ha alcuna parte. Importante è notare che per la Haraway, a differenza che per la Dagnino, il processo che porterà al cyborg trans-genere (ma di fatto donna), non sarà un processo deterministico ma il risultato di una lotta politica delle donne contro gli uomini: «il cyborg è la nostra ontologia – scrive – ci dà la nostra politica»16. Insomma, per la Haraway, se siamo già tutti cyborg non lo siamo ancora del tutto: l’ultimo tratto di strada dovrà essere gestito dalle donne che, sfruttando le tecnologie, si sbarazzeranno definitivamente degli uomini. Bisognerà ritornare, alla fine di questo articolo, sulla proposta della Haraway, perché è quella che meglio di tutte si sforza di pensare il problema della differenza di genere al passo con la situazione della società contemporanea, in cui, volenti o nolenti, siamo tutti dei cyborg. Per ora, basterà notare come, di fronte a tali proposte culturali, sia comprensibile che gli uomini abbiano cominciato a risvegliarsi, a riunirsi, a fondare movimenti culturali, a scrivere libri e girare film. 13
S. Firestone, La dialettica dei sessi: autoritarismo maschile e società tardo-capitalista, trad. it., Guaraldi, Rimini-Firenze 1974. 14 A. Dagnino, Uoma: la fine dei sessi , Mursia, Milano 2000. 15 Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it., Feltrinelli, Milano 1995. 16 I bi , p. 41. Più avanti scrive: «Il cyborg è una sorta di sé postmoderno collettivo e personale, disassemblato e riassemblato. È il sé che le femministe devono elaborare» e ancora: «Questo saggio vuole essere un argomento a sostegno del piacere di confondere i confini e della nostra responsabili tà nella loro costruzione». Al riguardo rimando al mio: Uomo, donna, cyborg? in Atti del Convegno Che genere di bioetica?: la differenza uomo/donna nelle questioni bioetiche, Lumsa, Roma 15-16 aprile 2005 (di prossima pubblicazione per i tipi della Giappichelli).
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1.2.2. La seconda e più profonda causa del risveglio «maschile» è da ricercarsi proprio nelle possibilità di quelle tecnologie, invocate e strumentalizzate in funzione antimaschile nel femminismo come quello della Haraway. La vera questione, infatti, e non si insisterà mai abbastanza sull’argomento, è quella delle possibilità della scienza e della tecnica, che mettono in discussione fin nelle radici l’identità maschile e femminile. Considero anzitutto le tecnologie quali artefatti domestici, elettrodomestici e leve meccaniche: i primi permettono agli uomini di fare agevolmente in casa quanto una volta era compito esclusivo delle donne: si pensi soltanto al biberon. Le seconde, le leve meccaniche, le gru, gli argani, i trattori e cose di questo tipo rendono del tutto obsoleta la forza muscolare degli uomini. Ci sono poi soprattutto le possibilità scientifiche e tecnologiche nell’ambito della riproduzione umana, la cosiddetta artificializzazione della riproduzione. Se si pensa alla contraccezione, all’aborto, alle tecnologie riproduttive, si comprende come donne e uomini hanno dovuto cominciare a scindere mentalmente cose come la sessualità e la fertilità o la sessualità e la procreazione. Si tratta di rivoluzioni mentali che non possono non aver avuto conseguenza sulla coscienza che gli uomini hanno di se stessi e delle proprie capacità. Si pensi poi alla possibilità per le donne di riproduzione senza partner, sia nel caso della single, sia nella clonazione, o alla riproduzione con più di due partner, o la riproduzione in età avanzata, la riproduzione post-mortem, la riproduzione senza partner biologico, attraverso la clonazione. Si tratta di situazioni difficili da elaborare per gli uomini. La biologa Donna Haraway spera in forme di replicazione non collegate alla riproduzione organica, come quella delle felci e degli invertebrati, in cui l’uomo non avrà più alcuna funzione nemmeno in quanto «fuco». A tirar le conclusioni, per ora sommarie dal momento che bisognerà tornare sull’argomento alla fine di questo articolo, bisogna riconoscere che la scienza e la tecnica continuano in ogni momento a rendere obsolete tutta una serie di prerogative e funzioni un tempo maschili. Come non pensare ad una profonda influenza di tali scenari nell’immaginario maschile?
2. Tre teorie più una quarta Con quali teorie sul genere maschile hanno reagito gli uomini all’emancipazione della donna e alle inquietanti possibilità delle tecnologie ripro-
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duttive? Addentrarsi nella vasta congerie delle proposte, spesso di valore diseguale, relative all’identità maschile non è per nulla semplice. Tenterò qui una catalogazione, avvertendo fin dall’inizio che spesso uno stesso movimento o uno stesso autore può appartenere a più categorie. Il criterio per distinguere le varie teorie sull’identità maschile è basato sul diverso modo di concepire l’identità femminile. D’altra parte è da sempre stato un metodo filosofico: dal momento che il linguaggio ordinario, fino ad oggi, considera la parola «donna» opposta semanticamente alla parola «uomo», le teorie sull’uomo si potranno distinguere più facilmente sulla base delle diverse caratterizzazioni che danno delle donne: omnis determinatio est negatio. Ora nel panorama della riflessione, invero quasi mai filosofica fino ad oggi, sull’identità maschile, si possono distinguere almeno tre diverse concezioni del rapporto tra il maschile ed il femminile. Per semplicità le chiamerò per ora così: la teoria dell’uomo «macho»; quella dell’«uomo dolce»; quella dell’«uomo selvatico». Una quarta teoria, che a mio avviso potrebbe rappresentare il preludio di una fase filosoficamente e psicologicamente nuova, è quella dell’«uomo padre». 2.1. L’uomo macho Nelle teorie neo-maschiliste dell’uomo macho, oggi molto diffuse specialmente in certa cultura estremista di destra, il femminile è considerato come qualcosa di totalmente esterno ed estraneo all’identità maschile: l’uomo è appunto solo «maschio», o «maschio al 100%. Questa concezione ha poi a sua volta almeno tre varianti, a seconda che la donna venga considerata come essere inferiore da sfruttare (versione patriarcale), nemica da combattere (versione misogina) o preda da conquistare (versione seduttrice). Se si dovesse citare un testo significativo emblematico di tale posizione bisognerebbe indicare il poderoso vecchio libro di Otto Weininger, Sesso e carattere17, in cui si cerca di dimostrare l’inferiorità morale ed intellettuale delle donne. 2.2. L’uomo dolce Opposta a questa è la teoria dell’identità maschile che considera il femminile come uno dei due tratti (maschile e femminile) presente in ogni individuo, tratto dolce e sentimentale che gli uomini moderni non devono affatto nascondere ma, al contrario, coltivare e manifestare senza vergogna. 17
O. Weininger, Sesso e carattere, tr.it. Bocca, Roma 1956.
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La teoria ha origine in C.G. Jung che, come noto, individuava nell’ Animus e nell’ Anima le qualità rispettivamente maschili e femminili di ogni individuo, tanto più presenti nell’inconscio quanto più cosciente è il tratto opposto. Così «un uomo molto virile ha un’anima femminile. Un tale contrasto proviene dal fatto che l’uomo, ad esempio, non è del tutto e in ogni cosa virile; normalmente ha anche determinati tratti femminili. Quanto più virile è il suo atteggiamento esterno, tanto più sono cancellati in esso i tratti femminili, che compaiono perciò nell’inconscio. Questa circostanza spiega perché proprio uomini molto virili vadano soggetti a caratteristiche debolezze: di fronte ai moti dell’inconscio essi si comportano con un’impressionabilità e un’influenzabilità tipicamente femminili»18. Si intuisce già da queste poche frasi la necessità per Jung di portare a coscienza e vivere con la massima naturalezza anche i tratti femminili, onde evitare un contrasto troppo forte tra conscio ed inconscio. A partire dai testi di Jung (un altro classico in proposito è Aion: ricerche sul simbolismo del sé) e confermate dalla religione taoista (che vede in Yin e Yan i principi maschile e femminile dell’universo), si sono sviluppate una serie di teorie sulla naturale femminilità dell’uomo fino a quelle sull’omosessualità19. Naturalmente l’esito omosessuale non è un finale obbligato della corrente di pensiero che andiamo esaminando. La sua versione più soft, oggi la più diffusa, consiste nella teoria che chiamo dell’uomo «jolly» così riassumibile: l’uomo può vivere, a seconda delle circostanze, con la stessa naturalezza ruoli tradizionalmente maschili (per esempio, come suggerisce la Gilligan, il giudice) e ruoli tradizionalmente femminili (per esempio: l’infermiere). Di fatto, come ha denunciato Goldberg, tale concezione fa dell’uomo un jolly, utilizzato al momento opportuno e secondo le necessità del caso, dalle donne. In altre parole l’uomo dolce coincide con l’«uomo tenero» degli anni Settanta di cui parlano Bly e, in Italia, Risé, un uomo matrizzato, cioè dominato psicologicamente dal mito della Grande Madre, incapace di vivere le sue vere, virili emozioni di uomo, condannato al carcere delle «buone maniere» imposte da mamma e del «politicamente corretto» imposto dalla società capitalista «materna»20. 18 19
C.G. Jung, Ti pi psicologici , tr. it., Torino 1996, p. 421. M. Mieli, Elementi di cri tica omosessuale, Feltrinelli, Milano 2002 (la prima edizione è del 1977) che molto deve a testi junghiani. Si rifà anche a questo testo: R.W. Connell, Maschilità. I dentità e trasformazioni del maschio occidentale, tr.it., Feltrinelli, Milano1996. 20 Cfr. la nota 8.
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2.3. L’uomo selvatico Antidoto all’uomo tenero è, secondo Bly, il maschio selvatico. In questa teoria il femminile gioca un ruolo ambivalente: da un certo punto di vista è quasi assente (tanto ci si concentra sul cammino di iniziazione che gli uomini, in compagnia di altri uomini-guida, devono compiere per ritrovare la forza dell’istinto sepolto dalle buone maniere); dall’altro è identificato nella Grande Madre, nemico simbolico principale del selvatico. Apparentemente diversa sia dalla teoria dell’uomo «macho» che da quella dell’uomo «tenero», in realtà la teoria del selvatico ha tratti comuni sia con l’una che con l’altra. Come il «macho» il «selvatico» si percepisce diverso dalle donne, ma, come l’uomo dolce, è diverso dagli altri uomini, tanto da innamorarsi, come le donne, degli uomini iniziatori, specie se cavalieri, guerrieri, saggi e forti. In altri termini la teoria del selvatico è «maschilista» espressamente (dal momento che si considera alternativa al femminismo) e «omosessuale» implicitamente (dal momento che, teorizzando l’omosessualità come tappa del cammino di iniziazione al maschile, finisce con l’identificarsi proprio con i sentimenti femminili di amore per l’uomo forte). 2.4. L’uomo padre Si sviluppa da una corrente della concezione del selvatico la teoria dell’uomo padre21. Al di là di altre considerazioni, qui interessa sottolineare come la dimensione altruistica e oblativa, tipica del paterno, rappresenti una maturazione rispetto al narcisismo del selvatico, e una novità concettuale nel discorso sull’identità maschile. Il femminile, infatti, non viene considerato stavolta né come qualcosa di esterno al maschile (uomo macho), né come qualcosa esistente all’interno dell’uomo come tratto tipicamente femminile contiguo rispetto al maschile (l’uomo dolce), ma come una modalità di cura, di dono di sé, di relazione agli altri tutta maschile. In altre parole, se nella concezione dell’uomo dolce, la femminilità è percepita come un tratto del tutto femminile esistente nell’uomo, nella concezione dell’uomo padre, la femminilità non è altro che una modalità tutta maschile e virile di prendersi cura dell’altro, una modalità appunto paterna. Ritorneremo sull’argomento. 21
Cfr. il manifesto Per il padre, di cui chi scrive è firmatario: www.maschiselvatici.it/ menu/perilpadre.htm
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3. Aporie Dopo aver brevemente catalogato ed esposto le principali concezioni contemporanee relative all’identità maschile, vorrei ora evidenziarne alcune aporie filosofiche e psicologiche. 3.1. Aporie dell’uomo macho I vantaggi della concezione dell’uomo macho sono ben pochi, dal momento che si propone di restaurare modelli tradizionali ormai impraticabili nelle società avanzate o praticabili solo con la forza. Forse un vantaggio è quello di proporre ruoli chiaramente definiti, proprio come succedeva una volta. Solo che «una volta» non è «oggi». Più evidenti sono le aporie. Quella filosofica è ben individuata da Donna Haraway e allude implicitamente alla dialettica hegeliana di servo-padrone22. La teoria del macho infatti ha una struttura necessariamente duale, in cui apparentemente uno è il positivo, il padrone, il maschio, e l’altro è il negativo, il servo, la donna. Tuttavia, qualunque sia la versione considerata (patriarcale, misogina o seduttrice) è evidente che il polo positivo, il maschio, ha bisogno vitale ed essenziale del polo negativo proprio per potersi affermare in quanto tale. Se non esistesse la donna, che ne sarebbe del macho? La sua superiorità è dunque del tutto subordinata alla donna, sia essa, appunto, serva, nemica o preda. Così accade con facilità che la serva diventi di fatto la padrona, precisamente come succedeva e succede ancora specialmente nei paesi latini e mediterranei, dove la donna esercita di fatto in casa un potere enorme23. 22
«Nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi e sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, la gente di colore, la natura, i lavoratori, gli animali: del dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro, col compito di rispecchiare il sé. Primeggiano tra questi problematici dualismi quelli di sé/altro, mente/corpo, cultura/natura, maschio/femmina, civilizzato/primitivo, realtà/apparenza, intero/parte, agente/espediente, artefice/prodotto, attivo/passivo, giusto/sbagliato, verità/illusione, totale/parziale, Dio/uomo. Il Sé è l’Uno che non è dominato, e le servitù dell’altro glielo confermano, l’altro è colui che possiede il futuro, e l’esperienza della dominazione glielo conferma, smentendo l’autonomia del sé. Essere l’Uno significa essere autonomo, essere potente, essere Dio, ma significa anche essere un’illusione e quindi essere intrecciato all’altro in una dialettica apocalittica. Ma essere l’altro significa essere multiplo, senza confini precisi, logorato, inconsistente. Uno è troppo poco, ma due sono troppi» (Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 78) 23 Sciascia sosteneva che la mafia è nata quando un gruppo di uomini ha deciso di mettersi insieme per esercitare almeno fuori casa quel potere che in casa non era loro dato di esercitare.
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L’aporia psicologica di tale concezione, invece, è stata individuata bene da Freud. L’uomo che odia le donne in realtà ne ama una sola: la mamma. Lo stesso vale per il seduttore, notoriamente incapace di sceglierne una per sempre: di solito succede perché egli rimane fedele solo a sua madre. Così, chi odia le donne in realtà è perdutamente e inconsciamente innamorato del modello di tutte le donne, che per lui è la madre. 3.2. Aporie dell’uomo dolce I vantaggi dell’uomo dolce sono quelli che mancano all’uomo macho, incapace com’è, quest’ultimo, di riconoscere i tratti femminili di sé, rigidamente rimossi (ma fortemente presenti). L’uomo dolce, al contrario, non ha vergogna di vivere tutti quegli aspetti della sua persona tradizionalmente attribuiti alle donne: la cura, la responsabilità, la comunicazione, le relazioni interpersonali, l’accoglienza, l’eros, l’emozione, l’empatia, la mediazione, l’attenzione all’altro, il legame con la terra e la natura, la capacità dell’altro, l’essere per l’altro, l’amore. Per questo motivo, come abbiamo visto sopra, l’uomo dolce pratica l’autodeterminazione della propria identità, non disdegnando, ove lo sentisse, di optare per lavori «femminili» (infermiere, baby sitter, tanto per fare due esempi), o per stili sessuali femminili (omosessualità). Si nascondono in questa visione dell’identità maschile, peraltro assai diffusa, due aporie filosofiche di tipo platonico che chiamo: «essenzialismo dei generi» ed «essenzialismo tra generi». L’essenzialismo dei generi consiste nel considerare i generi, maschile e femminile, come essenze esistenti in sé e per sé, al modo delle idee platoniche, separate dai corpi. L’essenzialismo tra generi consiste nel considerare gli stessi generi come essenze esistenti in uno stesso corpo ma per così dire separate l’una dall’altra (starei per dire «separate in casa»). Vale la pena di soffermarsi su queste due aporie. Considero la prima. Se è possibile per un uomo vivere ruoli, lavori, pratiche sessuali femminili, ne segue che il corpo è indifferente rispetto alla costituzione dell’identità di genere. Guardando la stessa cosa dalla parte del genere maschile o femminile, si scopre che, in questo modo di pensare, il femminile può vivere indifferentemente in corpi morfologicamente femminili o in corpi morfologicamente maschili (e lo stesso vale per il maschile). Quindi maschile e femminile sembrerebbero essere dotati di vita propria, per dir così, esistenti in sé e per sé a prescindere dai corpi in cui, platonicamente, cadrebbero. Ora però è necessario fare un passo avanti e chiedersi che cosa è, in
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questa visione, il «femminile». Non si potrà fare a meno di enumerare cose come quelle menzionate sopra, cioè la cura, l’empatia, la capacità di relazioni personali, l’accoglienza, la ricettività e cose simili. E ora viene il bello. Perché alla domanda sull’origine di queste caratteristiche non si potrà che rispondere una cosa del genere: quelle virtù nascono dall’esperienza fisica della donna, dalla sua morfologia ricettiva, una cosa sola con la ricettività tipica delle donne; nascono dalla sua maternità, dove prendono forma tutte quelle virtù correlate come la cura dell’altro, l’empatia, la capacità di relazione personale con gli altri24. Si arriva dunque ad una situazione singolare: quel femminile che si definisce e si comprende solo a partire dall’esperienza fisica di corpi femminili, può però tranquillamente ritrovarsi in corpi maschili. Insomma il femminile nasce, aristotelicamente, da corpi di donna, ma poi vive, platonicamente, in sé e per sé, a prescindere da corpi di donna. A chi crede ancora nella validità del principio di non contraddizione tutto ciò non potrà che apparire davvero strano: qualcosa di essenzialmente legato all’esperienza fisica delle donne, come la cura, si può poi ritrovare, tale e quale, con tutti i tratti della femminilità, anche in un corpo di uomo. Considero a questo punto la seconda aporia, l’essenzialismo fra generi , che risulterà adesso conseguenza della prima. Infatti, se è considerato naturale per un uomo vivere e praticare stili di vita «femminili», significa che il femminile quando «capita» in un corpo maschile rimane tale e quale, cioè tipicamente femminile. In un certo senso si dovrebbe dire che non si mescola con il tratto maschile, non si integra con esso. Non viene nemmeno presa in considerazione la possibilità di vivere in modo del tutto virile atteggiamenti femminili, come la cura dell’altro, ad esempio. Quando un uomo decidesse di prendersi cura dell’altro, ebbene, secondo questa teoria (che poi è pratica di vita per molti), in quel momento sarebbe più femminile. Il suo corpo dovrebbe dunque assumere atteggiamenti femminili per essere in pari con la femminilità della cura. Ma non esistono modalità maschili di prendersi cura dell’altro? Per forza bisogna effeminarsi per poter prendersi cura dell’altro? Si comprende a partire da questa seconda aporia filosofica appena esposta l’aporia psicologica della teoria dell’uomo dolce. Essa consiste in ciò che l’uomo è portato ad imitare modelli femminili quando volesse pra24
Cfr. per esempio: V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 25-27; 60-69. Melchiorre si rifà espressamente anche a E.H. Erikson, I nfanzia e società, tr. it., Roma 1970 e a A. Zarri, I mpazienza di Adamo, ontologia della sessualità, Torino 1964.
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ticare cose come la cura, l’amore, la donazione di sé e simili, e invece si sentirebbe uomo solo nella pratica del potere o del diritto. Ora non è difficile immaginare, anche per i non addetti ai lavori, come una tale concezione non giovi affatto a livello psichico, dal momento che l’imitazione di modelli altrui si oppone radicalmente a quella vita «a partire da sé», che la psicologia di qualsiasi orientamento individua come metodo di una identità non patologica. Un corpo impari, sbagliato e diverso rispetto al femminile, un io in costante imitazione di stili femminili di altruismo: ecco l’aporia psicologica della teoria dell’uomo dolce. Il femminile diventa per un uomo una imitazione obbligata e avvilente non uno stile naturale di vita, armonica con il proprio corpo e la propria morfologia. Alla fine il sospetto non può che venire: non sarà che il corpo è per sua natura indifferente rispetto alla mia identità maschile o, addirittura, traditore del mio desiderio di prendermi cura dell’altro, percepito come femminile? Non sarà che il corpo è un carcere? Ed eccoci dunque tornati a Platone, al disprezzo del corpo, all’idealismo dell’io, proprio a partire da una concezione attenta, in teoria, ai desideri del corpo. 3.3. Aporie dell’uomo selvatico Una delle caratteristiche dell’uomo dolce, messo bene in luce, tra gli altri, da Robert Bly è il fatto che non è oggetto di desiderio da parte delle donne. Sottomesso e condiscendente, magari finanche compagno delle donne nelle lotte femministe, come lo fu ad esempio Farrell, non riesce ad attirare l’interesse erotico di molte donne, che invece sognano cavalieri medievali, selvatici e guerrieri. Il dato non può essere trattato con superficialità. Perché se la teoria dell’uomo dolce nasce come apertura del maschile al femminile, come accoglienza del femminile dentro di sé da parte dell’uomo, è strano poi che finisca in un vicolo cieco in cui maschile e femminile, nel senso di donne e uomini, non si attraggono più. L’uomo selvatico, come si è detto all’inizio di questo saggio, possiede il doppio vantaggio di disegnare un percorso di comunicazione tra l’uomo e i propri istinti originari e, nello stesso tempo, tra l’uomo e i desideri profondi delle donne. C’è inoltre, in questo percorso, una maggiore importanza accordata alla corporeità, che ora viene ascoltata più che piegata alle esigenze di una inesistente maschilità e femminilità in sé e per sé. Le aporie tuttavia, anche in questa concezione dell’identità maschile, non sembrano mancare. Quella filosofica ricorda le contraddizioni dell’antropologia roussoviana,
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di cui è inconsapevole discendente. L’idea che l’identità autentica dell’uomo, in questo caso nel senso di maschio, sia da ricercarsi al di là della civiltà, al di là della tecnica, nasconde un’idea eccessivamente romantica delle origini, in ogni caso inadeguata alla caratterizzazione dell’essere umano. Questi infatti si distingue proprio dagli altri esseri viventi proprio perché misto, fin dall’inizio, di natura e civiltà. La natura non gli fornisce tutto quanto avrebbe bisogno per vivere, cosicché è costretto, dalla natura, ad essere civile: a costruirsi abiti, utensili, armi di difesa e via via tutto il resto. La natura umana è per sua natura cultura, civiltà. Per questo il ritorno alla wildness, alla selvatichezza, appare alla fin fine non già un ritorno alla natura ma un ritorno ad un determinato tipo di civiltà, in particolare passata e primitiva, solo apparentemente più vicina alla natura di quella attuale. Non è affatto detto infatti che la semplicità degli artefatti sia sintomo di un rapporto più autentico con la natura e di conseguenza con la parte più naturale, selvatica, di noi. È più naturale, per l’uomo, mangiare con le mani o con le posate? Eppure gli uomini selvatici non avrebbero dubbi, stigmatizzando come «buone maniere» o «politicamente corretto» l’uso delle posate. Mi verrebbe da chieder loro se, nei riti di iniziazione nel bosco, utilizzano o no qualche artefatto umano: automobili, treni o aerei, per raggiungere il bosco, scarpe con la para, giacche a vento e guanti, cioè cose non proprio «selvatiche», o se partono da casa loro alla volta del bosco così «nature», scalzi e nudi. Robert Bly sarebbe pronto, credo, ad optare per quest’ultima soluzione. Non a caso, infatti, propone come ideale antropologico l’uomo peloso (simbolo persino del sito italiano www.maschiselvatici.it): bisogna sperare di non essere glabri e donne per riuscire minimamente a fronteggiare il freddo. Insomma l’uomo selvatico sembra rifugiarsi non già nella natura ma in una precisa cultura, primitiva, della naturalezza, eludendo di fare i conti fino in fondo, di affrontare virilmente starei per dire, la questione: quella della civiltà della tecnica in cui anche i selvatici sono costretti irrimediabilmente a vivere. La questione, si ricorderà, rappresenta proprio una delle cause più profonde della nascita dei movimenti degli uomini. È proprio lì, infatti, che si nascondono i veri pericoli per l’identità maschile ed è proprio lì, di conseguenza, che la partita dovrà essere giocata, in un corpo a corpo con scienza e tecnica. Di questo però si parlerà più avanti. Andando ora all’aporia psicologica presente nella teoria dell’uomo selvatico si può notare quanto segue. Anzitutto l’uomo selvatico soffrirà delle stesse aporie psicologiche del «macho» e del «dolce» nella misura in cui gli assomiglia (come si è visto sopra il selvatico possiede, a livello conscio,
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tratti del primo e a livello inconscio tratti del secondo): in sintesi un rapporto irrisolto con le donne sentite ora come diverse e da odiare, ora come tanto interne da condividerne le preferenze anche sessuali. A queste problematiche se ne aggiunge però un’altra, specifica del «maschio selvatico». Infatti, valorizzando alcune figure mitiche maschili, come il selvatico, il peloso, il cavaliere, il guerriero, il samurai etc. necessarie nel percorso iniziatico verso la riscoperta della propria virilità, si rischia di vivere in costante ammirazione di figure per l’appunto mitiche, inimitabili concretamente, rinviando asintoticamente il momento della interiorizzazione della maschilità, quando il vero uomo non sarà più il guerriero mitico fuori di me ma, finalmente, il maschio così così che sono io. C’è insomma qualcosa di adolescenziale, e ancora narcisistico, nel tributo che alcuni uomini selvatici riservano a mitici eroi del passato: ricordano i poster dei miti del momento nella stanza degli adolescenti. 3.4. Aporie dell’uomo padre A proposito della teoria del padre, vorrei invertire l’ordine dell’esposizione, evidenziandone prima le aporie, per poi passare alle acquisizioni. Le aporie sono abbastanza semplici e simili a quelle dell’uomo selvatico, di cui questa teoria è una emanazione (sia Bly che Risé, infatti, difendono il selvatico e, poi, il padre). Anzitutto si riscontra una mancata tematizzazione dei problemi della tecnica nella individuazione dell’identità maschile. Se il selvatico combatteva la civiltà della tecnica, le teorie del padre non sembrano curarsene. Eppure, come si è già detto, sono proprio le tecnologie, specialmente quelle relative alla riproduzione, che mettono oggi profondamente in discussione il ruolo, la funzione e la indispensabilità del padre. Come mai non si affronta di petto il problema? Per quanto riguarda le aporie psicologiche noto quanto segue. Anche qui, come per la teoria del selvatico, c’è il rischio di mitizzare, di idealizzare troppo la figura paterna. Questa circostanza soffre delle stesse difficoltà evidenziate prima (imitazione di figure mitiche che difficilmente favoriscono un processo di interiorizzazione), a cui se ne aggiunge una nuova. Se di guerrieri di solito il maschio non ha mai fatto davvero la conoscenza, di padri invece sì: in particolare del proprio. Ora, il confronto inevitabile tra il mito del padre e il proprio padre reale non è qualcosa di facilmente gestibile, proprio in sede analitica, all’interno di una simile concezione: non tutti i padri infatti sono mitici. Anzi di solito sono stati assen-
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ti, in difficoltà e qualche volta addirittura inaccettabili e impresentabili. Come fare? È possibile prendere davvero le distanze dal proprio padre, se il «padre» in quanto tale è presentato come figura positiva? La strategia psicologica della psicoanalisi junghiana paterna è quella di interpretare il paziente che ha difficoltà con il proprio padre come un individuo legato narcisisticamente ancora alla madre e, pertanto, incapace di scoprire gli aspetti positivi del proprio padre. È una strategia inadeguata. C’è una insanabile contraddizione tra la mitizzazione del padre in quanto tale e la prosaicità dei veri padri. Non è vero che tutti i pazienti maschi in difficoltà con il proprio padre soffrono di un attaccamento ancora narcisistico alla madre25. A questa aporia psicologica relativa alla elaborazione del rapporto con il proprio padre, si deve aggiungere poi la difficoltà, facilmente intuibile, di gestire il rapporto con la propria paternità, nel caso, ad esempio, che questa non possa realizzarsi. Se l’uomo è per natura sua padre, che ne sarà di un uomo che padre non può esserlo? E se si risponde che «padre» è da intendersi in senso simbolico, allora perché scegliere proprio la figura del «padre» e non, poniamo, quella del «sacerdote» o della «maestra» che funge da padre? Anche queste altre figure, infatti, possono essere «simbolicamente» paterne. Ma se è così, allora, come fare ad argomentare a favore del padre come di quel tratto tipico della mascolinità? Passando ora agli aspetti positivi della teoria del padre, basterà riprendere quanto già accennato sopra. Il positivo di questa teoria è quella di ripensare, in termini virili, la dimensione della cura e del dono di sé, attribuita spesso, nel comune modo di pensare occidentale contemporaneo, al femminile in quanto tale. Molte delle pubblicazioni novecentesche sulla donna, che hanno avuto peraltro l’indiscutibile merito di mettere in luce alcune «virtù» femminili, prima fra tutte la capacità di cura (si pensi a Carol Gilligan), hanno però generato l’idea che la cura sia una caratteristica essenziale ed esclusiva del femminile. Fino al punto da costringere gli uomini «altruisti» ad imitare, come si è già detto sopra, modelli femminili. Ora, la rivalutazione della figura del padre ha questo di positivo e di nuovo: mostra l’esistenza di modalità altruistiche, oblative, attente agli altri, tipicamente maschili. Nel padre vivono, insomma, tutta una serie di virtù altruistiche che lo rendono «gentile». La figura da riscoprire, se pro25
Semmai potrebbe essere vero proprio il contrario: molti analisti che mitizzano il padre e odiano nascostamente le altre donne in quanto possedute dalla Grande madre, potrebbero essere inconsciamente innamorati di un’unica donna, cioè della propria madre.
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prio bisogna trovarne una, sarebbe quella del «gentil-uomo», del tutto uomo e del tutto gentile, proprio in quanto uomo. Credo tuttavia che una tale proposta non verrebbe accettata dai sostenitori del «padre», legati al selvatico come al loro modello originario di uomo, e di conseguenza sospettosi nei confronti di tutto quello che ricorda, come il «gentiluomo», le buone maniere. Il punto tuttavia non è tanto qui perché, se gentiluomo ha da essere, l’uomo del Terzo Millennio ha da esserlo all’interno della civiltà della tecnica nella quale vive. In altre parole se sarà gentiluomo, lo sarà solo da cyborg.
4. Cyborg de-genere La cosa non sarà semplice. Lo spiego ricorrendo a Montale. Una delle sue più belle e più note poesie è quella dedicata a sua moglie, che inizia così: «ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale». L’immagine riassume da sola il tipo di relazione fra i generi, prima dell’avvento del femminismo. La stessa situazione, infatti, non si sarebbe presentata negli anni seguenti. È facile immaginare che all’offerta di un braccio, negli anni del femminismo emancipatorio e rivendicazionista, la donna avrebbe risposto con un secco: «faccio da me!». E oggi? Che cosa farebbero oggi un uomo ed una donna in procinto di scendere le scale? Assolutamente niente! Le scale sono mobili. Il braccio dell’uomo – gentiluomo – è inutile, come inutile è la rivendicazione delle donne di fare da sé. Oggi fa tutto la scala mobile. L’esempio riassume bene la situazione, messa ben in luce da Donna Haraway: che senso ha parlare di differenza di genere nell’epoca delle nuove tecnologie? Il cyborg che siamo già in parte noi tutti rischia di essere «trans-genere» o «de-genere» La scala mobile, naturalmente, è l’ultimo dei problemi che deve affrontare una filosofia intenta a difendere la sopravvivenza del genere maschile. Più seri sono i problemi posti dagli elettrodomestici che, come abbiamo già visto all’inizio di questo articolo, permettono agli uomini di svolgere attività un tempo considerate femminili, o i problemi posti da tutte le forme di leve e utensili meccanici, in grado di rendere inutile la forza muscolare dell’uomo. È chiaro che i casi più seri di tutti, poi, sono oggi costituiti dalle tecnologie riproduttive che rendono sempre più obsolete alcune funzioni maschili e femminili (tanto è vero che la Haraway ipotizza, come abbiamo vi-
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sto, altre modalità di riproduzione per i cyborg, che non necessitano dei maschi). Tuttavia, il motivo per cui il cyborg mi sembra costituire un vero problema per l’uomo è più profondo. Per spiegarlo, torno all’esempio della scala mobile. Immaginiamo che un giorno la scala mobile si rompa e i nostri cyborg si ritrovino così all’improvviso nella necessità di dover scendere le scale a piedi. Si dirà: ci si ritroverebbe nella stessa situazione di cento anni fa. E invece no! Qui è la differenza. I cyborg non sono più abituati a scendere le scale a piedi. È facile immaginare che non sarebbero pronti, sia fisicamente che psicologicamente, ad affrontare un simile imprevisto, o almeno non sarebbero pronti come lo erano i loro antenati umani cento anni fa. In altre parole se, come direbbe Gehlen, le scale mobili agevolano, tuttavia, nello stesso tempo, esonerano26. Di conseguenza rendono il soggetto, che ha delegato alle tecnologie le sue capacità, meno capace di affrontare la difficoltà, l’imprevisto, il rischio, la fatica, il negativo in generale. L’uomo tecnologico è un umano potenziato e nello stesso tempo protetto – in genere grazie ad uno schermo (di computer, televisione, display, cinema) – da ogni genere di pericolo. È un uomo «safe». D’altra parte però, proprio mancandogli l’esperienza del rischio e del negativo, gli manca la palestra per diventare uomo (o donna). Immaginiamo che le tecnologie della riproduzione riescano a rendere del tutto inutile l’apporto del maschio. Che ne sarebbe del suo apparato riproduttivo fisico? Probabilmente comincerebbe un lento processo di atrofizzazione. E che ne sarebbe di tutte quelle caratteristiche di donazione, di disposizione al rischio, di forza, di altruismo, attribuite agli uomini proprio sulla base della sua capacità procreativa paterna? Si dice, infatti, che alcune virtù tipicamente maschili, come quelle appena menzionate, sono conseguenza simbolica della capacità dell’uomo di donare il proprio seme alla donna. Credo che sia vero: anche l’uomo, come la donna, ha plasmato il suo carattere nei secoli a partire da alcune sue esperienze fisiche fondamentali, come la caccia, la donazione dello sperma etc. Ora però, se le tecnologie rendono quelle attività primordiali obsolete, che ne sarà delle virtù corrispondenti? Anche queste diverrebbero presto cose di altri tempi. Con ciò però si sarebbe detto addio anche a molti atteggiamenti e virtù tipicamente maschili. Il caso dell’esclusione del maschio dal processo riproduttivo della spe26
Cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, tr. it., Sucargo, Milano 1984.
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cie umana è solo un esempio di una situazione generale in cui non avrebbe più senso parlare di «uomini». L’analisi di una espressione del linguaggio ordinario viene qui in soccorso. Quando parliamo ancora oggi di «grandi uomini»? A che cosa viene associata questa espressione se non a straordinarie capacità di affrontare pericoli, rischi, difficoltà e, in generale, il negativo della vita? E se tale capacità fossero divenute obsolete a motivo delle agevolazioni tecnologiche, che ne sarebbe dei grandi uomini? Il cyborg interconnesso in rete e con-fuso con la tecnologia, a cui ha delegato tutta una serie di compiti, non potrebbe essere se non un bambino immaturo, ché la maturità ha a che fare, secondo modalità diverse nella donna e nell’uomo, con la capacità di affrontare il negativo e apprendere dall’esperienza di esso, secondo l’insegnamento, tra gli altri, di Gadamer27. Parole come «grandi uomini», «coraggio», «forza», «donazione», che insieme costituiscono ancora oggi quello che l’immaginario associa alla parola «uomo», rischiano di non aver più senso nell’epoca dei cyborg almeno per due motivi: anzitutto perché la tecnologia tenderà a sostituirsi agli uomini in tutta una serie di funzioni; in secondo luogo, e più in profondità, perché, proprio a causa delle deleghe alle tecnologie, stavolta concepite in senso generale, gli uomini, come eterni bambini, non avranno maturato alcuna capacità di affrontare, con coraggio, forza, donazione, amore del rischio, gentilezza, e altre qualità simili, il negativo della vita28. 27
«L’esperienza autentica è sempre un’esperienza negativa (…) Solo qualcosa di inaspettato può produrre, in chi possiede esperienza, un’esperienza nuova (…). L’esperienza è sempre anzitutto esperienza della nullità: in essa ci si accorge che le cose non sono come credevamo (…) Non significa solo esperienza nel senso di informazione che si possiede su questa o quella cosa (…). Per quanto possa costituire uno specifico obiettivo della preoccupazione educativa, per esempio dei genitori verso i figli, quello di risparmiare a qualcuno determinate esperienze, l’esperienza come tale nel suo insieme non è qualcosa a cui qualcuno possa sottrarsi. In questo senso, essa comporta necessariamente una molteplicità di delusioni e solo attraverso questa può essere acquistata. Che esperienza in questo senso indichi prevalentemente qualcosa di doloroso e di spiacevole non è indizio di una colorazione pessimistica del termine, ma è legato immediatamente alla sua stessa essenza. Già Bacone aveva insegnato che solo attraverso le istanze negative si perviene a una nuova esperienza. Ogni esperienza degna di questo nome viene a turbare una certa aspettativa. Sicché l’essere storico dell’uomo contiene come suo momento essenziale una fondamentale negatività, che viene in luce nel rapporto che si stabilisce tra esperienza e giudiziosità (…). Se si vuol citare un testo significativo per questo terzo momento costitutivo dell’esperienza che qui intendiamo evidenziare, esso andrà cercato senz’altro in Eschilo. Egli ha trovato, o meglio riconosciuto nel suo senso metafisico, la formula che esprime l’intima storicità dell’esperienza: imparare attraverso la sofferenza (patei matos)» (H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. ti. Milano, Bompiani 1994, p. 409). 28 Non voglio sostenere qui che la tecnologia eliminerà il negativo. Sarebbe una visione ottocentesca che ha ricevuto abbondanti smentite. Basti far riferimento alla nemesi di cui parla
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5. Un-cyborg-per-genere Rimango sull’esempio della scala e do la parola a Ivan Illich: «Vi parlo nella speranza di rendere plausibile quella che io chiamo àskesis. Intendo con questa parola oggi l’evitare deliberatamente il consumo quando esso prende il posto dell’azione conviviale. È l’àskesis e non il pensiero della salute a farmi salire a piedi le scale nonostante la porta spalancata dell’ascensore, a farmi mandare un biglietto scritto a mano invece di battere una e-mail»29. Salire le scale a piedi, nonostante l’ascensore o le scale mobili: ecco una piccola pratica di resistenza, di àskesis, da parte di uomini e donne contro l’omologazione del neutro tecnologico. D’altra parte lo sostiene la stessa Haraway, come abbiamo visto all’inizio di questo saggio: il cyborg non è solo un’ontologia, è anche una politica! Se esiste dunque, ancora, la possibilità di negoziare la nostra transizione verso il cyborg, allora non vedo perché si debba negoziare al modo della Haraway. D’altra parte mi sembra ci sia qualche elemento per dire che si tratta di una negoziazione che rischia di essere già vecchia, nonostante l’apparente novità. Provo a spiegare questo concetto, ricorrendo alla teoria della compensazione di Odo Marquard30. Secondo il filosofo tedesco, la storia funziona in base alla legge di compensazione. Così, per esempio, se una tendenza storica va verso la costruzione di oggetti artificiali, nascerà, per compensazione, una tendenza opposta che rivaluta come mai prima gli oggetti naturali. Il contrasto tra le due tendenze finirà poi – necessariamente secondo Marquard – nel momento in cui esse si fonderanno in un’unica nuova tendenza che costruirà oggetti artificiali con materiali naturali. Non è esattamente quello che avviene di fronte ai nostri occhi? Ivan Illich in tutte le sueopere. È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie producono una serie di effetti collaterali, divenuti ormai superiori rispetto al progresso che promettono. Tuttavia, uno degli effetti collaterali più vistosi è proprio, come rileva acutamente lo stesso Illich, la incapacità di affrontare in prima persona la sofferenza e la morte, l’abdicazione ad ogni arte di vivere e di morire. La nostra società, scriveIllich, «rendeoggi difficilissimo ammettere che la capacità di soffrire può essere un segno di buona salute» (I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 167. «La pazienza, la sopportazione, il coraggio, la rassegnazione, l’autocontrollo, la perseveranza, la mansuetudine esprimono ciascuna una diversa sfumatura delle risposte con le quali le sensazioni dolorose venivano accettate, trasformate nell’esperienzadel soffrire e sopportare» (Ibi, p. 148). 29 Illich, Nemesi , cit. p. 303. 30 Cfr. O. Marquard, Abschied vom Pri nzipiellen, Reclam, Stuttgart 1981; Idem, Apologie des Zufälligen, Reclam, Stuttgart 1986; Philosophie des Stattdessen, Reclam, Stuttgart 2000.
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Se ora applichiamo lo stesso discorso al caso del rapporto tra nuove tecnologie e problema del genere, ci renderemo facilmente conto di come rischi di essere già superata la tesi di Donna Haraway. Infatti, la tendenza delle nuove tecnologie (dagli elettrodomestici alle gru, dalle nuove tecnologie di riproduzione artificiale alla chirurgia plastica) a superare la differenza di genere, ha prodotto, per compensazione, una contro-tendenza alla difesa della «naturalità» della differenza tra uomo e donne – tendenza di solito (ma non sempre) molto conservatrice e anti-tecnologica. Non è, a questo punto, facilmente ipotizzabile la nascita del terzo momento, quello in cui le tecnologie saranno pensate e costruite non più contro ma a favore della differenza corporea e di genere tra donne e uomini? Sta già avvenendo così a proposito dell’ambiente. Si pensi ai pc portatili wireless che permettono di mandare mail a tutto il mondo seduti su un prato in montagna. Si pensi alla diffusione delle automobili catalitiche o elettriche, tecnologie non più contro ma per l’ambiente. Ora, se avviene così già nei rapporti tra le tecnologie e l’ambiente, perché non immaginare un processo analogo anche a proposito della differenza tra donne e uomini? L’esempio dell’enorme diffusione dell’ecografia, cioè di una tecnologia a servizio della maternità – e non sostitutiva di essa – è solo uno dei tanti segni che si potrebbero indicare della tendenza che sto cercando di descrivere. A differenza però di quanto riteneva Marquard, e in accordo con la tesi anti-determinista di Donna Haraway, credo che tale tendenza non sia una necessità ineluttabile, ma solo una possibilità che si nutre della volontà di tutte le donne e gli uomini. Un cyborg che non si sostituisca ma che sia al servizio di donne e uomini è, cioè, anche un compito politico. È vero dunque, come scrive la Haraway che «il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica». Solo che la «nostra politica», quella delle donne e degli uomini che amano la differenza, combatterà contro un cyborg de-genere, cioè un unico neutro cyborg, degenerazione patologica della differenza di generi. Al contrario combatterà a favore di un cyborg per genere, intendendo con questa formula sia la necessità di pensare ad un cyborg per genere, cioè a due cyborg sia, al tempo stesso, la necessità di progettare due cyborg non al posto di ma a servizio di – per – donne e uomini. La nostra politica non permetterà alla tecnologia di invadere i nostri corpi, di impossessarsi della differenza di genere e di eliminare gli uomini e le donne.
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Abstract I n the last years many associations and movements in defense of men’s ri ghts and men’s culture are rising in the world. This paper aims to analyse the causes of this phenomenon and the theories which li e beneath it. But a real analysis of these theories could not be developed without studing the influence of new technologies in the relation ship between genders. For the paper includes a discussion of the concept of “cyborg” in relation with gender’s problems.
Finito di stampare nel mese di giugno 2006 in Pisa dalle EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] www.edizioniets.com