Se oggi il cielo sopra le vostre teste vi sembra vuoto come un brutto libro, è perché non guardate abbastanza dove mettete i piedi. Uno dei dati più sicuri della metafisica è certamente il «dente di leone)~, e sarebbe bastato un rastrello a salvare Sartre dalla «nausea». Esiste forse DÙstero più grande del mio vicino (con la sua cartellina di pelle, il suo montgomery e il suo papillon)? Eppure, io non posso dubitare dell'esistenza del signor Franchon come avrebbe fatto Cartesio. La fede e la ragione non hanno abbandonato il nostro mondo; esse non hanno distolto lo sguardo dalla terra: anzi, continuano a farvi risplendere la verità. «Ora et labora», recita il motto benedettino, vera formula-chiave per una vita di benedizioni. Prega e lavora, ossia contempla e fatica. Fatica con l'anima e contempla con le mani. Muta la tua spada in vomere, traccia ogni solco come se fosse una preghiera, canta ogni versetto come se fosse un seme, e scava, scava nel profondo dì ogni cosa, fino a giungere a Dio.
I Pellicani
Fabrice Hadjadj
LA TERRA
STRADA DEL CIELO Manuale dell'avventuriero dell'esistenza
Titolo originale: U1 terre chemi71 du ciel Traduzione dal francese di Ugo Moschella Copertina di Enzo Carena
© 2002 Les provinciales © 2010 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: aprile 2010 ISBN 978-88-7180-857-4
Le tende dei ladri S0110 tranquille, c'è sicurezza per chi provoca Dio, per chi riduce Dio in suo potere. Interroga pure le bestie c ti insegneranno, gli uccelli del cielo e ti infonncramlO; i rettili della terra e ti istruiranno, i pesci del mare e ti racconteranno. Gb 12,6-8
A Siffreine
LA TERRA STRADA DEL CIELO
Ingresso nella materia l
Attesa del!'extra-terrestre
NcnA PER IL LETIORE
L'edi7Jone di riferimento della Bibbia adottata nel testo è: Conferenza Episcopale ltaliana (a OJra di), La Sacra Bibbia, Libreria Editrice Valicana, Città del Vaticano 2008.
Ci sono persone che non vivono fra le nuvole, ma molto al di sopra, e ciononostante restano affascinate dalle storie di extraterrestri e dall'idea di un loro imminente atterraggio. Da queste creature, provenienti da Betelgeuse o da Proxima Centauri, loro attendono qualcosa di nuovo e di meraviglioso, una sorta di respiro ampio e come una liberazione. Ma ecco il problema: forse il betelgeusiano, sul suo suolo natale, aspetta lo stesso da noi: «E se sul nostro pianeta - dice a se stesso - sbarcassero dei mostri a quattro zampe e senza antenne, dei "terrestri"?». In effetti, non siamo forse noi gli extraterrestri degli extraterrestri? In realtà, oltre il sistema solare, non pùò esserci nulla di abitabile se non altre terre popolate da altri uomini nel senso essenziale del termine, cioè animali ragionevoli (la definizione e le deduzioni della philosophia perennis valgono anche per gli esseri provvisti di ali o tentacoli, purché abbiano un corpo e possiedano la ragione). E queste terre, come la nostra, attendono. E i loro abitanti si dicono: «La verità è altrove». E il Iaro altrove somiglia al nostro. A questo punto sorge una domanda: chi, tra noi e loro, ha più ragione di scrutare il firmamento? L'attesa dei betelgeu-
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LA TERRA STRADA DEL CIELO
siani non potrebbe essere più legittima della nostra? E se sulla nostra terra la Novità delle novità sì fosse già compiuta? Forse l'Altrove è qui ai nostri piedi, e gennoglia dalle profondità della terra.
Mistero del vicino Prendiamo ad esempio il mio vicino, il signor Franchon: in più di una occasione ho potuto constatare che si tratta di essere infinitamente più misterioso dei marziarù rappresentati nei film. Non ha pseudopodi, e diventa verde solo rarissimamente, ma ha una cartellina di pelle, un montgomery e un papillon. I marziani non sfoggiano mai nulia di così sorprendente come un papillon. Le altezze dalle quali provengono non superano mai l'immaginazione bassa e in genere venale dello sceneggiatore che attribuisce loro, ingigantendo"li, i propri desideri di conquista o di evasione. Mentre il signor Franchon da dove viene? Voi potreste diTIni: «Viene dalla Creuse» 2, ma questa risposta sarebbe insufficiente, anzi, aggraverebbe l'enigma. C'è qualcos'altro. Mi sono accorto che il più piccolo fazzoletto, anzi, il più piccolo pezzettino di terra, fosse anche di terra incolta, per poco che lo si osservi, racchiude in sé orizzonti sconosciuti, ma sul serio. Prendiamo ad esempio un dente di leone. Quale fantasia ha potuto generare l'arcaico arpione della sua foglìa, l'esplosione gialla del suo fiore, la sfera lanuginosa dei suoi semi a paracadute? Le forme vagamente antropoidi degli extraterrestri partorite dalle menti dei nostri romanzieri più fantasiosi non hanno certo una tale audacia. C'è dunque qui, vicino al suolo, qualcosa che s.embra venire da lontano, da più lontano di quanto immaginiamo.
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INGRESSO NELUI MATERIA
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Come se le radici del dente di leone affondassero nel mistero ... E che dire allora dei prati e dei campi curati dall'uomo! Mi immagino molto bene L'extraterrestre che sorvolasse al rallentatore il disegno mirabile dei nostri terreni coltivati a cereali - il grano, l'orzo, la segale -, più finì di un quadro dì Mondrian, più ricchi di sfumature dì una tela di Rothko. RÌmarrebbe sbalorctito. La bellezza delle nostre arature lo colpirebbe al cuore (non è forse questo il motivo per cui i dischi volanti, a detta delle cronache, prediligono in modo speciale gli atterraggi nei campi?). E quando venisse a sapere dò che è accaduto in quella che viene chiamata Terra Santa, specialmente sul Sinai, e poi tra Betlemme e il Golgota, egli afferrerebbe l'importanza senza paragoni di questo piccolo pianeta azzurro, un puntino invisibile dal suo cielo.
A diecimila leghe di distanza Si dice che il giardino di Tartarino} fosse un luogo talmente esotico che ci sì sarebbe creduti {la diecimila leghe da Tarascona~). Ora, diecimila Leghe corrispondono quasi esattamente alla circonferenza del nostro globo terracqueo~: abbastanza per abbandonare Tarascona e ritornare, abbastanza per restare a Tarascona come nel luogo dell'esodo più profondo. I
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to da una tradizione (francese, ebraica, cattolica) nella stessa ITÙsura in cui conduce a essa. A dire il vero, mi sarebbe piaciuto scrivere una Guida di viaggio a domicilio, oppure un Manuale dell'avventuriero della propria esistenza. Tuttavia, poiché non conosco gli esseri del vostro domicilio e poiché ci sarebbe voluto un libro personalizzato per ogni lettore (libro che potrebbe scrivere solo illettore, e anzi, soltanto Dio - ma questo Libro esiste già!), ho dovuto accontentarmi di richiamare alcuni principi generali: Nella prima parte tento di mostrare come la meta.fisica, lungi dal farci smarrire in un retromondo nebuloso, nasca dalla terra e ci riconduca a essa, dandoci sempre nuove ragioni per meravigliarci. Così l'albero fecondo si eleva alto sopra il suolo, per presto chinarsi su di esso con gratitudine - ex multitudine fructuwn - per l'abbondanza dei suoi frutti. In questo modo ho voluto rendere giustizia all'intuizione del bambino e del poeta che si stupiscono dinanzi all' «infimo che apre una via, che schiude una via» s. Nella seconda parte cerco di evidenziare in quale modo la nostra patria effimera sia come avvolta dalla nostra Patria eterna. L'amore per quest'ultima non spezza, ma anzi, rafforza i vincoli spirituali con la patria carnale, e ci invita a far già risplendere in essa, anche per le strade della politica, le luci della resurrezione. n tema della patria potrebbe apparire caduco e antiquato. lo lo credo invece ultra-moderno. Chiamo a prova di questo Freud e la psicanalisi. I luoghi e gli amori dell'infanzia, ben presto dimenticati dal bambino, continuano a ossessionare l'uomo maturo fino alla morte. La questione della patria ci abita senza dubbio perché è amando la propria origine singolare che si diventa un individuo originale, ma anche perché, quando C!ediamo di rimpiangere un passato che la memoria ha purificato fi-
INGRESSO NeLLA MATERIA
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no a farcelo apparire luminoso, in verità abbiamo nostalgia dell'avverure. È qui che l'Eterno anela a ogni istante della vostra storia. L'Assoluto si incontra fin da adesso nell'angolo di terra dove vi ha posto. Ma è vero che, oggigiorno, siamo quasi sempre a diecimila leghe dal pensarlo.
I L'autore gioca qui sull'ambiguità del tennine matière, indicante al tempo stesso l'argomento del libro e la «materia», ossia la dimensione materiale in contrapposizione a quella spirituale (come attesta il riierimento allo spirito presente nel titolo dell'ultimo capitolo). L'entrée erI matière è quindi sia l'<
Parte prima
UN TERRENO PER LA METAFISICA Non so se anche voi siate come me. lo trovo prodigioso che egli abbia trovato una terra. Charles Péguy l
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Charles Péguy, Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie carlésienne,
in CEu7lTes en prose eomplètes, 3 velL., Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1987-1992, vol.llI, pp. 1278-1477 (trad. it. in Charles Péguy, Cartesio e
Bergson, MilelJa, Lecce 1978).
Del letame che giova allo spirito. Teorie della conoscenza e misconoscenza della terra
II nostro rapporto con la terra (cìoè, con il dato naturale, sensibile e complesso che ci circonda) è imposto all'origine dalle necessità della vita e dal buon senso contadino; ma in una epoca di antica civilizzazione come la nostra, tale rapporto è invece determinato da una certa visione del mondo, ideologica o realistica, che lo rende oscuro o lo vivifica. È la nostra metafisica, esplicita o latente, a guidare il rapporto che abbiamo con la polvere del suolo, specialmente le nostre teorie della conoscenza. Se oggi siamo talmente all'oscuro del segreto celato dalla terra, ciò non è tanto dovuto alla scomparsa della civiltà contadina, quanto all'idealismo e al nominalismo divulgati dall'Università fin dentro l'aria del nostro tempo, cui aderiscono perfino fior di ecologisti. La crisi dell'ambiente non è un problema di carattere materiale, ma spirituale. I campi potrebbero anche essere immuni da pesticidi e da OCM, le foreste sottratte al bracconaggio industriale, il mare ripopolato della sua fauna e delle sue alghe, il buco dell'ozono tappato con un bel cielo blu: queste riserve sarebbero comunque distrutte nello spirito se non fossero altro che l'effetto di un calcolo commerciale, di un progetto di riconversione turistica o di un rinnova to culto delle driadi e dei fauni. Non si tratta di stipulare un «con-
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U\ TERRA STRADA DI'L CIEW
tratto naturale» sul modello del «contratto sociale», dove gli uomini possano deddere unilateralmente del loro rapporto con la terra, proiettando su di essa l'immagine di una divinità materna o quella di una riserva da sfruttare come fa un buon amministratore. Si tratta di accogliere la terra per quello che è. Ora, la terra è tale che noi non siamo qui per esserne gli schiavi, e nemmeno per esserne i tiranni, ma gli agrimensori meravigIiati di corpo e anima. 11 problema non è quello del nostro radicamento vegetale o del nostro slancio utopìco, ma del legame vitale che il nostro spirito intrattiene con questa radura o quel colle. Prima di coltivare e dominare la terra, Adamo dà il nome a ogni creatura: prima di essere arabile, la terra è intelligibile, buona per il nostro spirito. Per quanto indietro si risalga nella storia dell'umanità, si riconoscerà che la mietitura è sempre contemporanea alla contemplazione, il raccolto alla festa. La terra ha bisogno dello sguardo del contemplativo quanto della vanga del contadino, e questo sguardo è sorgente e vertice delle nostre fatiche. Ma noi abbiamo perso la vista. Secondo le teorie denunciate qui di seguito, la realtà ruvida e palpabile non sarebbe accessibile alla nostra conoscenza, non sarebbe davvero alla radice del nostro sapere, che resterebbe allora imprigionato nel dedalo concettuale quasi inestricabile della nostra ragione. Vivremmo sin dall'inizio in un mondo virtuale, e i nostri vomeri, prigionieri dell'illusione, non rivolterebbero che sogni.
Il cogito in vestaglia L'esempio più lampante di questa incomprensione della terra e del nostro debito nei confronti della realtà sensibile al
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di fuori di noi si trova nel nostro «cavaliere francese»: sto parlando di Cartesio. È possibile trovare un po' dovunque tesi simili alle sue anche in precedenza. Queste sì radicano nell'assurdità di un «Dio)} talmente libero da poterSi anche contraddire; la perla sta nella nozione di causa sui (ora, Dio è Causa prima, e dunque senza causa, ed è assurdo dire che è «causa di se stesso», perché, per essere causa di qualcosa, bisogna essere, altrimenti non c'è nulla e niente nasce dal nulla - ex nihilo nihil fit -: lo spirito cartesiano propone dunque, tra le altre follie, quella di un Nulla che è causa del suo essere, o di un Qualcosa che, prima ancora di essere, sarebbe Libero; da questo primato della libertà sull'essere derivano tutto il volontarismo e l'individualismo moderni). Come precursore di Cartesio e discepolo di Ockham, alla fine del XIV secolo il cardirulle Pierre d'Ailly affenna che l'esistenza del mondo esterno non può essere dimostrata in quanto «anche se ogni cosa sensibile ed esteriore fosse distrutta, Dio potrebbe conservare immutate nelle nostre anime le stesse sensazioni» J. Ma è il nostro Renato Cartesio che, dalla «tranquilla solitudine» della sua «stanzetta riscaldata dalla stufa» 2, rende popolare la dottrina secondo la quale l'esistenza del mondo esterno è dubbia, e la prima verità su cui si fonda ogni scienza non è più «qualcosa è», con il principio di non contraddizione che ne deriva <
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Cartesio, partendo dalla certezza soggettiva del cogito, e poi dalla certezza dell'esistenza di Dio (più evidente, secondo lui, di quella del mondo esterno), dimostrerà in seguito che la terra esiste eccome. Ma è troppo tardi. Ormai si è visto che per ciò che è essenziale essa è superflua. Per conoscere bastano il pensiero e le sue idee innate, e le cose terrene sono soltanto l'«occasione» per portare la nostra attenzione su tali idee, già presenti in noi. Infatti «nulla può giungere dagli oggetti esterni alla nostra anima attraverso i sensi, se non alcuni movimenti corporei» 4. La terra non è che estensione, quantità, e se ne può rendere conto con l'algebra e la geometria. Le pietre, i fiori, gli animali, sono solo ingranaggi e macchine, flussi di corpuscoli e le loro forme sensibili non ci insegnano nuna. L'uomo non ha più bisogno di coltivare un atteggiamento contemplativo nei confronti della natura, né di lasciare che la sua intelligenza sia misurata dalla realtà esternai inebriato e al tempo stesso angosciato dalla sua nuova indipendenza, egli si sforza invece di ricondurre ogni cosa a una filosofia efficace, matematica e pratica, grazie alla quale, conoscendo il potere e gli effetti del fuoco, dell'acqua, dell'aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci cìrcondano, tanto distintamente quanto conosciamo le diverse temiche di cui si servono i nostri artigiani, potremo utilizzare allo stesso modo quei corpi per tutti gli usi a cui si prestano, e divenire così in qualche modo padroni e possessori della natura. 3
La costruzione e l'esplosione dì una centrale nucleare non sono altro che formalità accessorie; l'universo è già atomizzato. Non è !'idea di una certa signoria dell'uomo sulla natura che va rimproverata a Cartesio, ma il fatto che la natura sia
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concepita innanzitutto come un'estensione da quanl::iiicare e una risorsa da sfruttare, e non innanzitutto come la materna sorgente del primo stupore e della prima certezza. D'altra parte è comprensibile: questa dottrina, che incentra tutto sul cogito anziché sull'essere, tenta dì interpretare l'uomo come «incarnazione dell'angelo», secondo l'espressione molto appropriata di Jacques Maritain. La terra non ci conduce al Cielo. La nostra intelligenza non cresce perché è piantata nel suolo e bagnata dalle piogge. La nostra mente può essere ingrata per il cotone che il suolo e la pioggia hanno dato per la nostra vestaglia, e per il legno che hanno fornito per la nostra stufa. È rimettendo in dubbio tutto ciò che sì potrà giungere alla verità.
Kant e la lanterna magica
Immanuel Kant riprende il soggettivismo di Cartesio, ma compie un altro passo negando che sia possibile pervenire a una prova dell'esistenza di Dio, e anche, di conseguenza, dell'esistenza di qualunque cosa si trovi al di fuori della coscienza. Secondo Kant non conosciamo la realtà così com'è, ma il dato esteriore è costantemente modificato e trasformato dalle nostre categorie mentali. La nostra mente è una lanterna magica che arriva ad afferrare soltanto le proprie immagini proiettate sul muro di una camera di Konigsberg: «La ragione percepisce solo ciò che essa st;e$a produce in base ai piani suoi propri))". Essa coglie unicamente le proprie rappresentazioni: la cosa in sé è inconoscibile. Ma che cos'è una rappresentazione che sia il termine ultimo della nostra conoscenza e che non rappresenti nulla? È un concetto che si distrugge da solo. Non bisognerebbe dire, piuttosto, che il termine ultimo deHa conoscenza non è
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costituito dalle nostre rappresentazioni, ma, attraverso le nostre rappresentazioni, dalla realtà stessa? Ma Kant se ne infischia di una tal evidenza e concepisce l'intelligenza alla stregua di un tubo digerente: essa non sarebbe capace di Wl'assimilazione immateriale che le permetta di coglìere l'essenza di una cosa pur rispettandola pienamente, ma funzionerebbe in modo siuùle a un'assimilazione corporea, che frantuma la cosa sotto i denti di solidi concetti e La riduce alla sua propria sostanza. L'ironia di questo idealismo è di avere una visione troppo materiale della conoscenza. Kant traspone alla sua concezione dello spirito l'immaginario della nutrizione: la ragione non è più potenza di accoglimento e di oggettività, in grado di diventare l'altro in quanto altro, di unirlo a sé senza alterarlo né deformarlo; al contrario essa, intrappolando ogni cosa nell'immanenza carceraria dell'Io, assorbe l'altro, lo fagocita e alla fine lo trasforma in fenomeno di pensiero. La ragione non differisce più sigruficativamente dalla non-ragione, se non perché conduce a una sorta di autismo collettivo. L'uomo si confonde con la pianta - una pianta mobile -, incapace di accogliere in sé la forma di altri esseri. Dato che siamo relegati alla sola sfera umana, la metafisica non ha più ragione di esistere e la morale invade tutto il campo come una gramigna astratta: ma una morale fondata sull'universale e dell'intersoggettività, che ignora le determinazioni oggettive della nostra creta corporea.
L' immondializzazione 7
Il nominalismo contemporaneo consuma la definitiva rottura tra lo spirito e il corpo terreno. Ciò che le nostre idee e i
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nostri nomi ci presentano come universale non corrisponde a nulla nella realtà, che è costituita soltanto da individui ìneffabili: per esempio «il cane» non esiste, non ci sono che cani, irriducibili gli uni agli altri, percepiti dai nostri sensi. L'intelligenza non permetterebbe di cogliere la struttura intima e comune a taluni esseri, ma produrrebbe mere entità della ragione: «l'uomo», «il cavallo», «l'imbecille», che non rinviano a nulla al di fuori del nostro spirito. La scienza si riduce a una fantasia, e la sua validità si misura in base alla coerenza interna del suo discorso o alla sua efficacia tecnica. Non c'è più alcuna verità, poiché è impossibile riferirsi a una realtà esterna, ma una moltitudine di prospettive, di soliloqui carcerari, dove le parole non svelano, e anzi avvolgono le cose come un sudario nei carri funebri che sono i nostri crani. La filosofia si riduce a una storia letteraria delle idee e delle opinioni passate. TI filosofo non è più un innamorato della sapienza, ma l'esperto di qualche illustre sconosciuto B - il che gli conferisce un rango sociale e un posto riservato nei con'"" vegni internazionali - oppure l'eclettico dispensatore di aforismi, il che gli vale i consensi degli esteti e dei pasticcioni. Di qui le due ideologie che intridono fino al midollo la nostra epoca: il relativismo, che proclama «A ciascuno la sua verità», e lo storicismo, il quale afferma «La verità muta col temPO). Capziose sirene: esse pretendono di fare spazio per la varietà della terra, mentre, di fatto, la dissolvono in tanti individui intercambiabili. Il relativismo, con il pretesto della massima tolleranza, conduce alla disperazione e alla manipolazione: da una parte, se «tutto si equivale), «niente vale» - poiché il valore presuppone la gerarchia - e quest'egualitarismo lastricato di buone intenzioni porta dritto al nichilismo; d'altra parte, siccome nessuna verità universale può servire da criterio per tutti, gli uni assoggettano gli altri solo con
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la costrizione o la seduzione. Lo storicismo, sotto la bandiera di un acuto senso del tempo, sfocia nella perdita della storia e della memoria: poiché le idee sono circoscritte alle loro coordinate spazio-temporali, si conclude che il pensiero attuale sia l'unico capace di fomiTe criteri per il nostro presente, e che ciò che è più recente è anche più «vero». E allora perché interessarsi al passato, se non per curiosità aneddotica, visto che esso propone solo concezioni embrionali e desuete? Conservare la memoria sarebbe perdere il proprio tempo. Queste false teorie, lo si intuisce, portano a uno sradicamento ben più profondo di quello derivante dall'esodo rurale o dalla perdita delle tradizioni. Esse intrappolano l'individuo dentro sé stesso. Non lo strappano a un terreno o a un paese, ma alla terra stessa, per gettarlo in un cerebralismo allucinogeno. La «mondializzazione» sarebbe una circostanza fortunata se consistesse nel darci il senso del mondo e della comunione terrena; si tratta invece del rifiuto della terra che deriva dal relativismo nominalista, e il termine «acosmismo» o «immondiahzzazione~) sarebbe più appropriato, in quanto l'ordine naturale è ignorato per costruire un «cyberspazio» in cui condurre al pascolo le fantasie 9 standardizzate di consumatori-cloni.
L'anima umana, zona di confine
La filosofia dell'essere, sulla scorta di Aristotele e Tommaso d'Aquino, si oppone radicalmente a questa forma di idealismo che, rigettando la terra, finisce per rifiutare anche il Cielo. Essa non si lascia intrappolare nel puramente umano: «Lo studio della filosofia non ha lo scopo di sàpere che
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cosa hanno pensato gli uomini, ma di conoscere qual è la realtà delle cose» \0. Essa richiede dunque in primo luogo di frequentare la scuola del reale, di essere attenti ai fiori selvatici e alle erbacce. L'uomo non è un angelo caduto, e neppure uno spirito prigioniero di un corpo tombale, dal quale dovrebbe distaccarsi per riconquistare l'empireo originario. Egli è un animale ragionevole, una sostanza spirituale che è forma di un corpo, e che ha bisogno di questo corpo, della sua «argilla senziente» e delle cose materiali che la attivano, per dispiegare ia sua intelligenza e la sua volontà: «Così, l'anima intellettiva è in qualche modo l'orizzonte, la zona di confine dove si uniscono la sfera corporea e quella incorporea» li. Come la luce del sole rivela i colori, così la luce della nostra intelligenza rivela l'essenza delle cose sensibili, ed è quindi dalla terra che essa trae il suo primo concetto e la sua prima certezza: «Che la natura esista è evidente (per se notum), giacché le cose si manifestano ai sensi» Il. L'esistenza della terra è indimostrabile perché è evidente. Tale evidenza serve peraltro a dimostrare l'esistenza di altre cose meno chiare. È l'esistenza sensibile cii quest'albero o di quel cane che viene a fecondare la nostra intelligenza, che, a partire da quel seme deposto in essa, davvero concepisce. E il figlio inizia a domandare: «Che cos'è?» e «Perché?». La sua intelligenza ricerca l'essere e la ragione d'essere, l'essenza e la causa delle cose sensibili, e il suo desiderio non si placa finché non arriva a conoscere la Causa prima, quel «Perché» ultimo che ha la sua ragion d'essere in se stesso: Colui che è assolutamente e immutabilmente l'essere, che non l'ha ricevuto da nessuno, ma che lo dona, nella sua infinita bontà. I genitori si stancano presto del tormento spirituale provocato dal risveglio dell'intelligenza infantile. Consumati da preoc-
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cupazioni utilitaristiche, non sospettano, o non osano riconoscere a quale suprema esigenza rinviino le sue ingenue domande, e per sottrarsi all'angoscia della ricerca si precludono la gioia della risposta e il «perché» rimane in sospeso. Ma il bambino lo serba in fondo al suo cuore e, se non ha ceduto al cinismo, alla superbia e alla disperazione, un giorno udrà la risposta dalle labbra di un vecchio saggio: «Perché tutto questo? Per la gloria di Dio». Tale risposta non è quaggiù un punto d'arrivo, ma piuttosto il punto di partenza di un'esigenza dì santità. Se la domanda si ode in maniera prodigiosa nel roveto ardente, e dunque dalla terra, va detto che la stessa domanda, o meglio, lo stesso appello è lanciato dal più piccolo roveto, dal più piccolo cespuglio, per il semplice fatto che esso esiste e che quindi ultimamente reclama l'esistenza di un Essere che detenga )'essere di per sé, non in virtù di un altro, e che sia la Causa prima del roveto e di tutto ciò che è. La metafisica afferma così il primato dell'essere sull'idealità: «Meglio un cane vivo che un leone morto», dice il Qoèlet (9,4). La perfezione dell'esistenza, anche quella racchiusa in un fiocco di neve (ma che architettura stupefacente! e per sciogliersi così presto!), questa perfezione che lo lega alla trama dell'intero universo, rende il fiocco di neve più meraviglioso di un palazzo irreale o di un grandioso animale immaginario 13.
La carne del metafisico
La sinergia tra terra e pensiero, intelligenza e corpo, è sintetizzata da san Tommaso in una limpida pagina della Sum-
ma Theologiae:
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NeU'ordine della natura, l'anima intellettiva occupa il gy-adino più basso tra le sostanze intellettuali, perciò non riceve naturalmente e per infusione la conoscenza della verità, come gli angeli, ma ha bisogno di raccoglierla dalle realtà materiali e concrete per la via dei sensi [... ]. L'anima intellettiva deve quindi possedere non solo la facoltà di intendere, ma anche quella di sentire. D'altra parte, l'attività sensitiva non può esercitarsi senza uno strumento corporeo. Di qui la necessità che l'anima intellettiva fosse wlita a lUl corpo capace di fungere da organo dei sensi. Ora, tutti i sensi sono fondati sul tatto [... 1. Ed è questa la ragione per cui l'uomo ha il tatto più fine fra tutti gli animali. E anche tra gli stessi uomini chi ha un tatto più fine possiede un'intelligenza più penetrante. E ne è segno il fatto che «coloro che hanno le carni tenere, hanno lo spirito più delicato", come osserva Aristotele...
Pur essendo gli animali più spirituali non siamo per questo i meno sensibili; al contrario, quel senso primitivo che è il tatto l'abbiamo migliore di quello degli altri animali; quanto più fine è il nostro tatto, tanto più lo è la nostra intelligenza, dal momento che essa può risalire alle verità spirituali solo scendendo fino alle realtà materiali per la via dei sensi. Il corpo umano è costitutivamente destinato a questo: conoscere e amare l'essere. Perché questi occhi?' «Guarda, Tommaso». Perché queste orecchie? «Ascolta, Israele». Perché queste mani, anziché artigli o zoccoli? «Andate anche voi nella vigna». Le mani, grazie alla posizione eretta, liberano la bocca per la parola e prolungano il pensiero nell'azione. Se non fossimo fatti che per il piacere sensuale, un corpo di lombrico sarebbe stato sufficiente. La nostra animalità non è un intralcio, ma è il supporto per la nostra spiritualità, come cavalli focosi che tirino un
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cocchio regale, secondo l'immagine del Fedro di Platone. Certo, questi destrieri impetuosi vanno domati, ma senza di loro il carro non può procedere. E non trarrebbe alcun vantaggio da un loro indebolimento: la garanzia della sua potenza, infatti, è la loro stessa indole selvatica, tenuta a freno dalla briglia e dal morso.
Lavoro manuale e contemplazione Lo spirito del filosofo metafisico è quindi proporzionale alla tenerezza della sua came, e non, come credono alcuni, all'altezza della sua cattedra 15. Ma san Tommaso va oltre, e costata un altro rapporto che gli accademici, tenacemente aggrappati alle loro soffici poltrone, non osano neppure immaginare: quello tra lavoro manuale e vita contemplativa. Lavorare con le mani non porta necessariamente a trascurare il proprio spirito? L'unità sostanziale tra la nostra anima e il nostro corpo ci mette in guardia contro la falsità di tale antagonismo. Essa attesta semmai che il carbonaio, nonostante le sue unglùe sudice, può avere una fede più salda, e quindi uno spirito più forte di quello degli intellettuali diafani. li lavoro manuale - ci dice Tonunaso - è ordinato a quattro scopi: assicurare il sostentamento a se stessi e al propri fratelli; sopprimere il padre dei vizi che è l'ozio; mettere un freno ai desideri impuri macerando il proprio corpo; essere in grado di fare l'elemosina senza attingere alla borsa altrui 1~. Ora, queste finalità del lavoro manuale sono anche condizioni per una riflessione virtuosa: senza il dominio delle passioni, senza il senso della fatica, il desiderio vagabonda, il pensiero si lascia andare, e la sensualità deviante ricorre a dotti sofismi per giustificarsi.
J)D. I.f,TAME CHE CIOVA ALLO SPIRITO
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Tuttavia, la disciplina delle passioni è soltanto un aspetto morale dell'autocontrollo indotto dallo sforzo fisico. C'è anche un aspetto speculativo: il lavoro manuaJe dispone alla contemplazione. Mette il corpo in sintonia con le cose, fa entrare l'anima in risonanza con le pulsazioni del cosmo, con la durezza del minerale come con la corrente del fiume, con le promesse del seme come con il ritmo delle stagioni. È una scuola di armonia concreta e i calli alle mani possono essere il segno di un più grande tatto dello spirito, di un tocco più delicato del pensiero. Tra pugni e carezze, il vasaio parla con la terra: sa che essa non è muta, che reagisce al suo tocco, che esige tenerezza e rispetto per accogliere senza spaccarsi la forma che lui le imprime. li vignaiolo dialoga con la generosità di un suolo e con l'ingratitudine di un altro, e conosce la delicatezza che occorre per accompagnare la vigna nella sua crescita. D'altronde la Sapienza si paragona a un vignaiolo, e il Verbo stesso si è fatto falegname, allineando travi prima di proferire le sue parabole, levigando un legno simile a quello della sua croce, e i serafini cantavano al suono della piaUa. Attraverso il lavoro manuale, la nostra intelligenza impara ad apprezzare la consistenza del reale e si mantiene in sintonia con il lavoro di quell'altra Intelligenza che tutto organizza con sapiente armonia. Essa si vaccma contro le fumosità 17 di Jean-Paul Sartre, quando sedeva ozioso al Café de Flore, intento a sorseggiare e a buttare giù pagine e pagine: il suo Roquentin 18 non vuole o non sa più vedere nella natura che ammassi viscosi e cumuli di ectoplasmi. Diagnosticandogli un intorpidimento dei sensi che si ripercuote sul pensiero, Caston Bachelard prescrive come rimedio l'interruzione di ogni lettura e la manipolazione di qualche strumento da lavoro:
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Probabilmente ci sarebbe una certa umanità nel mettere Roquentin, il protagonista della Nausea, di fronte alla morsa, con la lima in mano, per insegnargli, a contatto con il ferro, la forza e la bellezza delle superfici piane [... l; un bel ciocco di legno da sgrossare, raspa alla mano, basterebbe a insegnargli, e in modo piLlcevole, che la quercia non marcisce, che il legno rende dinamismo in cambio di dinamismo, in breve, che la salute del nostro spirito è nelle nostre mani. l~
Certo, alcune forme di ascesi e di contemplazione possono temporaneamente ovviare all'assenza di lavoro manuale per la vita dello spirito, ma, poiché tutto è cominciato in un giardino, è bene tornarvi spesso - curarne l'orto, mungere le vacche, scorticarsi le dita riparando un recinto -, se non si vuole inanellare una sequela di idee vuote 10: «Quelli che lavorano la terra / hanno mani più solari» 21.
DEL LETAME CHE GIOVA ALLOSPIRJrO
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tato. Lavorando faticosamente la terra con la forza delle nostre mani, impariamo a dominare il nostro corpo e a riconoscere l'ordine delle cose. Scrutando l'humus alla luce del nostro spirito, lo scopriamo ben presto lavorato da u.na gloria segreta. Infine, quando guardiamo attentamente il dente di leone siamo sorpresi di vedere che le sue radici traggono ultimamente la loro linfa dal Cielo. Si tratta sempre per noi dì un distacco, che non consiste nel levitare sull'erba ma nell'osservarla fino a risalire alla sua Causa prima. È bene per far questo raccogliersi in una cella monastica. Ma la cella di Tommaso non è la Stube di Cartesio. Al suo interno il domenicano non si smarrisce nell'iperbole di un dubbio che la mano contraddice nella misura in cui lo mette per iscritto. Egli porta con sé nella cella la certezza della terra, la meraviglia di fronte alla sua consistenza, le luci della baia di Napoli e i pendii del Vesuvio.
La «5tube» e la cella La terra non è dunque indifferente e superflua: al contrario essa, essendo il punto d'appoggio della nostra intelligenza, è il trampolino per la nostra elevazione. Ci è detto che la scala vista in sogno da Giacobbe, lungo la quale salgono e scendono gli angeli, è «piantata nella terra» (Gen 28,12), proprio come la croce del Golgota. Chi, per essere spirituale, si ripiega nella propria evanescente siera privata, crede di fare 1'angelo e invece si comporta da bestia. La pietà esige che si adori 1'Altissimo prostrandosi al suolo. Non è disprezzando la terra che si ascende al Cielo, ma coltivandola e contemplandola con umiltà. Anche in questo caso, chi si esalta viene abbassato e chi si abbassa viene esal-
'Citato da Émile Bréhier. Histoire de la pllilosophie, 2 voli., val. t capitolo 0, «Le XIVèrne siècle», Librairie Félix Alcan, Paris 1928-1932 [PUF, Paris 20041. l L'espressione «stanzetta riscaldata dalla stufa» è il corrispettivo del tedesco Stube, con cui in seguito si è preferito renderla: cfr. in fra, in questo capitolo il paragrafo «La Stube e la cella) [N.d.T.]. 1 René Descartes, Meditazioni metafisiche, La Nuova Italia, Firenze 1982, «Prima (l:leditazìone'), p. 71. "Cfr_ Notne in programma; trad. il'. Note con fra un certo manifesto, in René Desccutes, Henricus Regius, Il mrteggio. Le polemiche, Cronopio, Napoli 1997, p.127. 'Descartes, Discorso sul metodo, UTET, Torino 1983 [2003], parte VI, pp. 162-163. 'll.llmanuel Kant, Critica della mg;oll pura, 13ompianl, Milano 2004, parte I, p.160.
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'Termine nato dalla contaminazione tra il sostantivo mondilliisation e l'aggettivo immonde, che evoca gli aspetti più deteriori della globalizzazione. Per mantenere il gioco di parole, si è scelto dì rendere mondialisation con «mondializzazione», anziché con il più comW1C «gLobalizzazione» [N.d.T.]. • Lett. le spécilliiste d'untel, ossia «l'esperto di Tal dei Tali», per designare quegli eruditi dle preferiscono concentrarsi su minuti aspetti specialistici anzìd1é ricercare la vera sapienza [N.d. 9L'originale ha fan tasmes, che rimanda, insieme alla cérébralìté hal1ucillogène citata poe'anzi, al lessico della malattia mentale e della tossicodipendenza [N.d.T.]. U'Tommaso d'Aquino, Commento al «De caeio el ml/rldol> di Aristotele, libro I, lectio 22, n. 8; trad. it. in Aristolelis librum «De caeio et ml/ndo», a cura di Raimondo Spiazzi, Marietli, Torino 1952. Tommaso d'Aquino, Swnma contra Genfiles Il, 68; trad. it. in La Somma contro i Gentili, a cura d.i Tito Centi, UTET, Torino 1978, p. 326. "Tommaso d'Aquino, in Physicorum libros Jl, \ectio 1, n. 148; trad. it. in Tommaso d'Aquino, Commento alla «Fisica» di Aristotele, a cura di B. Mondin, 3 volI., Ediz. Studio Domenicano, Bologna 2004-2005, voI. I. "L'originale usa un termine praticamente intraducibile, coquecigme (probabilmente formato da coq, cigogne o ciglie, e grue), che designa una creatura immaginaria e burlesca, menzionata per la prima volta da Rabelais in Gargantua e Pantagruel [N.d.T.]. "Tommaso d'Aquino, SUmlnA Theologine, Prima pars, quaestio 76, art. Sltesto italiano onIine, da cui è tratta la traduzione: http://www.preticattouci.it/Testi /Somma%20Teologica/Somma%20Teol ogica.htm. Per un'ed izione cartacea cfr. La Somma teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bol
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I 'J;I.1.F.TAME CHE GIOVA ALLO SPIRITO
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,,, I.nlraducibile gioco di pa.role nato dalla fusione tra l'espressione enfiler rll'S per/es - usata proprio da Sartre, nella Nausea, per alludere a un agire inconcludente e sterile - e il termine verrolcrie, «bigiotteria», che indica la versione d07.zinale e falsa deUe perle: quindi le azioni che compiamo non ~OIlO solo inutilì, ma anche volgari e di basso livello [N.ti.T.]. "GuilJevìc [Eugène Guillevic], DII domai ne, Gatlimard, Paris 1977.
Il marmo e il fango. Tre tentazioni: manicheismo, panteismo e agnosticismo
La terra è bella e melmosa. Se ne estrae il marmo bianco di Carrara di cui sono fatti gli Adoni. Se ne respirano i miaSIn.i di cui sono fatti i morenti. La terra può dunque dar luogo a tre diversi orientamenti teologici - tutti e tre erronei - a .-.econda che la si consideri nella sua corruzione o nel suo splendore, nel suo marmo O nel suo fango.
L'opera del 111alvagio demiurgo La prima tendenza è il maIÙcheismo che vede principalm.ente il male che corrode il mondo. La vita ci è data soltanto per potercela meglio togliere in seguito, dopo crudeli sofferenze. Con ogni probabilità esistono un' Dio e un Cielo, giacché serbiamo in noi la nostalgia di quella felicità che quaggiù non ci è mai dato sperimentare. Altrimenti come potremmo aspirare a essa? Come porremmo essere scandalizzati dal male insito nella creazione materiale e corruttibile, se non avessimo in noi questa scintilla immortale che viene dall'alto? Senza questa luce interiore saremmo immersi nel fango e nel sangue e non sospireremmo tanto inseguendo una beatitudine impossibile. Pertanto bisogna pensare
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che la terra sia l'opera di un demiurgo malvagio, ma al tempo stesso che dentro di noi rechiamo le tracce di una lontana somiglianza con il Dio buono. Quest'odio per la terra, che si ritrova nei catari e negli albigesi, come pure in tutti i puritani di ogni epoca, implica una spiritualità sdegnosa, fatta di disprezzo del corpo e della generazione. Si tratta di accartocciarsi su se stessi in una sorta di orgogliosa enstasi, e permettere al nostro involucro carnale di vagare per il mondo a ruota libera, o mortificandolo con un'eccessiva ascesi o lasciandolo in balia di innumerevoli dissolutezze: non fa alcuna differenza, poiché questo corpo di fango non ha niente a che vedere con le cose dello spirito. La Chiesa condannò ben presto questo disprezzo della creazione. Il Primo Concilio di Braga (maggio 561), scagliò un anatema contro i discepoli di Mani e Priscilliano: «Se qualcuno dice che la creazione di tutti i corpi carnali non è opera di Dio ma di angeli malvagi, sia anatema». La più antica tradizione cristiana ha sempre riconosciuto in Dio il Creatore del cielo e della terra, delle cose visibili e invisibili. Denigrare la terra è come denigrare la volontà di Dio (continuan.do però ad arraffare nel frattempo il proprio tributo di voluttà). E se poi ci si atteggia a vittime del cielo, è per non dover mai riconoscersi nel ruolo di carnefici.
La Dea-Madre Un'altra tentazione consiste nell'identificare Dio con la creazione stessa. TI panteista non manca di stupirsi dì fronte alla vita, alla bellezza degli alberi, all'intelligenza delle api. Egli capisce che sul piano logico il male presuppone la bontà
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(lei mondo, così come la malattia presuppone la salute e il di~nrdine
l'ordine. Quando ha attitudini speculative, egli intu isce anche che non può esistere nulla al di fuori di Dio, poiché in tal caso le cose avrebbero un'esistenza indipendente. F.gli crede pertanto di onorare il mondo e la divinità confondendoli. L'universo sarebbe un grande organismo irnmortaIL' e cangiante, di cui noi, come gli uccelli e le margherite, sal'emmo gli atomi o gli organi, costantemente presi nel vorti('(~ di un incessante rinnovamento. Questa visione è orba come la precedente: se il manicheo llon vedeva che il male, il panteista tende a vedere unicamente il bene, ma un bene menomato: ai suoi occhi, infatti, 1;1i esseri perdono la loro consistenza propria, non essendo j'he il riflesso cangiante della sostanza divina. D'altra parle, egli non deve forse riconoscere ben presto che la morte \' il dolore sono presenti ovunque accanto alla vita e aUa f'lua generazione? Allora, per non disincantarsi troppo pre11"0 egli si rifugia nell'invocazione di un pulviscolo di spiril'l tellurici o di forze ctonie, oppure, se è più incline al maIt:rìalismo, parla, ma senza crederci troppo, di una sua sopravvivenza nei vermi e nelle felci che saranno nutriti dal :ILlO cadavere: Ù vero che quella che tu a torto consideri COme la tua persona perirà, ma la tua carne rivivrà eternamente nelle rose, il tuo respiro nel soffio dei venti, i tuoi occhi nel fuoco delle lucciole ecc.? È come se qualcuno dicesse: «Ecco la Venere di Milo, la farò a pezzi e ne ricaverò tante lastre di marmo. È vero he avrà cessato di esistere come statua, ma esisterà ancora sotto forma di pietre e polvere per affilare ì coltelli», fa sostengo invece che, in seguito a tale trattamento, essa ha cessato interamente e assolutamente di esistere, proprio come la
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rosa che è divenuta concime. Risparmiateci le vostre insipide consolazioni! l
le cose contingenti del nostro piccolo globo terrestre, come ogni creatura, non hanno illoco essere da sé stesse ma lo ricevono da un altro. Esse esigono, dunque, che si risalga all'Essere per sé, Colui che non ha ricevuto l'essere, ma che è l'essere stesso sussistente, e quindi eterno, Colui che possiede l'intera perfezione dell'essere ed è Causa trascendente di tutte le cose. Se quest'Essere è immutabile, non può essere concepito come l'anima del mondo, mutevole, imperfetta, cangiante nel susseguirsi di generazioni e corruzioni. Se quest'Essere è perfetto, non può essere identificato con il male, la sofferenza e il peccato degli uomini. La terra, per quanto nutrice, non è una Madre divina. I! Sillaba di Pio IX condanna le seguenti formule: «Dio è identico alla natura e pertanto è soggetto al cambiamento; Dio è una sola e identica cosa con il mondo, come lo sono peraltro spirito e materia, necessità e libertà, vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto». Certo, le cose esistono in Dio, ma esse non sono Dio. Pensare il contrario sarebbe non soltanto svilire la propria concezione della divinità, ma anche ridurre la consistenza delle cose.
Il bambino abbandonalo Bisogna affermare la trascendenza del Creatore rispetto alla creazione. Ma ecco che subito - giacché la bestia è acquattata dietro ogni angolo - si presenta una nuova tentazione: quella dell'agnosticismo. l'agnostico è già più sottile dell'ateo, in quanto non pretende di dimostrare che
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Dio non esiste. Tuttavia afferma che, se esiste, Dio è talmente trascendente da essere assente dal mondo e quindi i nconoscib ile. La terra sarebbe dunque l'orizzonte ultimo della nostra conoscenza, il suo terriccìo e le sue sabbie mobili. Ma cosa vale questa terra che non porta affatto, come orme di passi, l'impronta del suo Creatore? E come amarla radicalmente, se si mìsconosce 1'Amore che la circonda? L'agnostico ha come modello un Padre celeste che abbandona i suoi figli, come Jean-Jacques Rousseau~. Alla fine non gli resta che abbandonare a sua volta la terra, facendone la preda e poi la rovina delle sue imprese mercenarie, dal momento che in essa non venera nulla di divino, nessuna bellezza che sia il riflesso della bellezza divina, neSSlUla legge che possa essere vista come un'eco della legge eterna, nessun inizio dei pnscoli del Cielo. L'agnostico non è orbo come gli zelanti seguaci di pantcismo o manicheismo, ma davanti alla luce strizza gli occh.i, accontentandosi di una confortevole penombra: il suo ;)mbiente urbano, gli edifici che gli precludono l'immensità del cielo azzurro, lo strato dì cemento che ricopre ciò che resta delle foreste, lo port
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Distanza e intimità «Tu eras intimior intimo meo et superior sununo meo», confessa sant'Agostino: «Tu eri per me più intimo della mia stessa intimità, e superiore a quanto vi è in me di più alto»3. Si tratta esattamente della stessa cosa. Se Dio è all'interno , è perché è al di là. Se è Il più vicino, è perché è Trascendente, «Distanza e intimità, le due nozioni non si escludono a vicenda. Se Dio non fosse infinitamente distinto dall'anima, non potrebbe mai essere per lei altrettanto intimo» i. Ma come spiegare questa meraviglia di un'Eternità inaccessibile eppure interiore? Si deve forse parlare di miracolo permanente? Al contrario, non c'è nulla di più naturale. E neanche di più razionale. In quanto Creatore, Dio è infinitamente al di sopra di ogni creatura, ma al tempo stesso, e per lo stessa ra.gione, egli è infinitamente presente nel suo cuore. È bene chiamarLo il Totalmente Altro. Ma sarebbe un errore della nostra immaginazione spaziale pensare che tale alterità Lo renda lontano o estraneo, o che Egli rientri in un genere altro, come se si trovasse sullo stesso piano delle sue creature. Quando si afferma che Dio è trascendente, «non si intende collocarlo in un altro genere, ma si dice che Egli è per Sua natura al di fuori di ogni genere, in quanto principia di tutti i generi» 5, Acuta osservazione questa del Doctor Communis, che ci svela il gioco dell'agnostico o di certi falsi spiritualisti che invocano a pretesto la trascendenza di Dio per dire che Egli è estraneo alla nostra terra: essi tentano di relegarLo in una categoria nettamente circoscrivibile e, così facendo, di sbarazzarsi dell'imperioso richiamo implicato dalla sua presenza e dalla sua intimità. Quindi Dio non è la terra, ma è immanente a essa, la tiene per le sue viscere 6 . Ed ecco uno scenario ancora pil! bello di
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quello vagheggiato dal panteista: questi riduceva l'h1finito al (inito, lo rattrappiva per farlo entrare nelle cose; e invece all'interno di ogni cosa l'Infinito è presente senza alcuna limil'<'lZione. Non esiste una divinità mutevole, ma l'Eterno, che opera al fondo stesso dell'effimero con quella presenza che i teologi chiamano immensità.
l'aul Claudel, lntroduction à Ull poème de Dallte, TI, in PosillOns et propositi/ln~. Gallimard, Paris 1959, in allvres complètes, GaLlimard, Paris 1962-
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1%5, voL Xv. In effetti Rousseau abbandonò all'ospizio dei trovatelli tutti. e cinque i
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n.
-"lIoi figli [N.d. 'Agostino, Le confessioni, Paoline Editoriale Libri, Roma 1979, p. 94 (Mon
Nella sua mano sono gli abissi della terra l. Trascendenza e ìmmanenza di Dio
L'Altissimo è in questo libro, nelle vostre mani che lo reggono, nel piccione alla mia finestra e nel vetro della finestra stessa. Ed è perfino nel signor Franchon! Ah! Vietar Franehon, con quale tenero stupore dovrò guardarti d'ora in poi! II tuo gilet di flanella potrebbe benissimo essere la tenda del Convegno... Sì, Dio è ovunque, ma specialmente lì, nel profondo della tua anima. Di qui la sua apparente inesistenza, che scaturisce da questa «in-esistenza», secondo il termine coniato da Jacques Lcew 2, ossia da questa esistenza d.i Dio in tutte le cose.
l/ Padre nel pidocchio Dio è in tutte le cose, non già come parte della loro essenza o come una loro qualità accidentale, ma come l'agente è presente in ciò su cui agisce [... ]. Ora, poiché Dio, per essenza, è l'Essere stesso, è inevitabile che il suo specifico effetto sia l'essere creato, così come il bruciare è l'effetto proprio del fuoco. E Dio produce quest'effetto nelle cose non soltanto quando iniziano a esistere, ma fino a quando rimangono in essere, così come la luce è prodotta nell'aria dal sole fino a quando l'aria rimane illumi-
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nata. Pertanto, finché una cosa possiede l'essere, fino ad allora è inevitabile che Dio sia presente ÌIl essa ÌIl conformità allo specifico modo in cui tale cosa possiede l'essere. Inoltre, l'essere è ciò che vi è di più intimo e di più profondamente radicato in tutte le cose, in quanto [... 1esercita.il ruolo di forma [== di principio determinante] nei confronti di tutti gli elementi che compongono una data realtà. Da ciò inevitabilmente discende che Dio è presente in tutte le cosc, e i.n maniera intima. J
Siccome è Causa prima, il Creatore è presente in ogni cosa, in conformità allo specifico modo in cui essa possiede l'essere, e cioè Egli è maggiormente presente negli esseri più perfetti, più in un papavero che in un mattone, più in un pidocchio che in questa pagina, più nel signor Franchon che in una gallina, nella misura in cui tali creature partecipano più intensamente delle sue perfezioni di conoscenza e di amore. Ma questa presenza è sempre totale e immediata: immaginate uno scultore che non solo realizzi la figura nel marmo, ma che crei il marmo stesso e mantenga in essere entrambi: la sua mano sarebbe sempre intimamente presente a dare forma a quella statua dall'interno. Essa sarebbe presente immediatamente, poiché non vi è alcun materiale a fare da intermediario, e lo sarebbe integralmente, tanto in un granchio di gesso che in un'Afrodite in marmo di Carrara, sebbene l'Afrodite la rappresenti di più. Infine quello scultore conoscerebbe le sue opere nei minimi dettagli giacché ne creerebbe sia la forma sia la materia. Le circonderebbe con la sua tenerezza. E le ricolmerebbe secondo la loro capacità, che sia quella di un geroboamo 4 oppure di un ditale. (Ma per una creatura dotata di libero arbitrio, per un Geroboamo in carne e ossa, tale capacità varia non solo in fun.zione della sua natura, ma anche delle sue scelte, ossia del fatto
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che si lasci dilatare poco, tanto, alla follia o per nulla dall'amore.)
La causa delle cause Pertanto, non c'è nuUa che causì una creatura di cui il Creatore non sia anche causa. Tuttavia la creatura e il Creatore non sono cause parziali, non si spartiscono tra loro la causalità come se essi (pericoloso plurale) facessero numero e si situassero sullo stesso livello: la rosa è totalmente del roseto e totalmente di Dio, non per il 50% del roseto e per il 50% di Dio, e nemmeno per il 99% di Dio e per 1'1% del roseto. Anche se si lasciasse a Dio la parte più grande, Lo si deruberebbe ancora. E se si dicesse che il roseto non fa nulla, credendo in tal modo di onorare Dio, Lo si negherebbe in quanto Creatore, perché si rifiuterebbe ogni realtà alla sua creatura. Per spiegare tutto questo, la metafisica ricorre alla distinzione tra agente principale e strumento 5; se un boscaiolo taglia un albero con un'ascia, il taglio non è da attribuire per metà all'ascia e per metà al boscaiolo, come se a un certo punto l'uomo avesse utilizzato le mani nude; no, l'ascia (causa strumentale) taglia l'albero fino in fondo e il boscaiolo anche, ma l'ascia lo fa perché messa in moto dal boscaiolo (causa principale), di modo che si può dire che il boscaiolo è causa del taglio più di quanto lo sia l'ascia. Analogamente, la mia perma scrive per intero questo testo, ma anch'io lo scrivo per intero, e non mi sento in concorrenza con la mia penna. Dunque, quando Dio agisce all'interno di una cosa, per il fatto che Egli è Causa del suo essere, tale cosa non è passiva: al contrario, essa diviene attiva in conformità alla Sua natu-
LA rfRRA STRADA DéL GELO
NELLA SUA MANO SONO GLJ ABISSI DéLLA TEI{RA
ra. Così, poiché Dio è causa della nostra libertà, più Egli agisce in noi e più noi gli obbediamo, più siamo attivi e liberi, e non passivi e incatenati. «Signore, [... ] tu hai operato in tutte le nostre opere» h, dice Isaia (26,12). Al contrario, se gli disobbediamo, se congeliamo in noi l'azione vivificante del suo Spirito - capacità, o meglio incapacità che ci viene dal nulla da cui siamo stati tratti -, allora, perdendo questa apertura all'Infinito, cadiamo schiavi delle cose più basse. Tuttavia, il rapporto tra l'agente principale e lo strumento va qui concepito in modo molto analogico, perché l'immagine è decisamente lacunosa: essa tende a sminuire al tempo stesso il ruolo di Dio e quello della creatura. Dio è infatti il Creatore dello strumento stesso e non soltanto il suo utilizzatore; questo rende illimitata la pregnanza del suo potere; peraltro, lo strumento è un agente autentico, esercita davvero una causalità propria, ancorché seconda rispetto a quella di Dio; si tratta però di una causa seconda senza che ci sia una causa prima sul suo stesso piano, come ad esempio nel caso della volontà umana. (Quanto al peccato, la sua causa essenziale non è Dio, dato che esso consiste in un difetto dell'agire, una sorta di corto circuito operativo che annienta e devia l'influsso iniziale dell'azione divina nella creatura intelligente. La causa prima della claudicazione dello zoppo sta ad esempio in un difetto della sua gamba e non nell'influsso vitale che gli consente di camminare; analogamente, la causa prima del peccato sta nell'intenzione difettosa - distruttiva 7 - del peccatore, e non nella facoltà di agire concessagli dal Dio Buono. E come lo zoppo, per camminare, fa più movimento del sano, così il peccatore può dare l'impressione di essere più attivo del santo; ma non è che un'apparenza ingannevole.)
L'oggetto strisciante non identificato 8
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Le foglie di un albero appartengono dunque più a Dio che all'albero stesso. E l'albero viene dal Cielo ancor più delle nuvole, giacché un ippocastano è W1a creatura vivente, che partecipa delle perfezioni divine più dell'aria cond,ensata in un cumulo. È il Cielo la linfa vitale della sua linfa. E Dio che fa crescere l'avena e il frumento. La cicala e la formica sono nelle Sue mani; la lucertola guizza fuori da un denso raggio della sua luce per rosolarsi al sole materiale, e il coniglio spunta da ben altre profondità che il cappello di un mago, e in una maniera al tempo stesso più naturale e più fantastica. Al punto che queste bestiole sono cariche di saggezza, e possono istruire i sapientì: Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono più saggi dei saggi.: le formiche sono lm popolo senza forza, eppure si provvedono il cibo durante l'estate; gli iràci sono un popolo imbelle, eppure hanno la tana sulle rupi; le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte ben schierate; la lucertola si può prendere con le mani, eppure penetra anche nei palazzi dei re (Pr 30,24-28).
Mi ricordo di quelle lucertole, i margouiLiats, che correvano sui muri della nostra dimora benigna nel Benin 9, poi si fermavano per compiere alcuni strani movimenti a metà strada tra la pompa e la prostemazione. Dopo quest'oscuro rito, sapevano restare in un'immobilità poco confortevole, molto istruttiva per il contemplativo. Quando il cane ne inseguiva uno, cercando di afferrarla per la coda, il margouillat forniva prova di una saggezza del tutto evangelica: «Se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via.
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da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna» (Mt 5,30). Senza esitare né voltarsi, si mozzava la coda e fuggiva via velocissima, mentre il cane lasciava]a preda per l'ombra verde e guizzante di quell'ingannevole appendice. Mi ricordo anche i grilli, ben pasciuti nella loro armatura, più terribili e corazzati. dei tenebrosi guerrieri della fantascienza: la cosa più incredibile è che questi. tozzi colossi amano la musica e suonano sfregandosi le alì. E poi ci sono le lucciole attorno al monastero sulle colline umbre: con la lanterna accesa sul loro addome, facendo danzare la loro nota luminosa sul pentagramm.a della notte, ripetono alle monache di clausura la parabola delle vergini sagge e stolte... Ma spesso il nome mi manca: a volte, infatti, mi capita di scoprire per terra un oggetto strisciante non identificato, più strano dei nostri banalissimi dischi volanti.: eccolo che svolazza di fiore in fiore come su altrettanti pianeti rosa o gialli. Eppure, per sconosciuto che sia, o al contrario anche se sia stato catalogato da un pezzo nei manuali di entomologia, sono sicuro che quest'insetto, in ultima analisi, viene da più lontano della nostra galassia, da più lontano del Big Bang stesso.
Lo scandalo del bene Siccome anch'essa è creatura di Dio, la terra è continuamente plasmata dal Cielo stesso: «Sotto i sampietrini, la spiaggia», recitava uno slogan del maggio '68. Glì agnostici dell'epoca non si spingevano un granché lontano: sotto la più piccola zolla di terra, sotto la bellezza di una prateria o di un deserto, come pure sotto l'asfalto o la moquette, c'è la
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divinità. Ma quando dico «sotto» non intendo certo incitarvi a ricorrere al piccone: non sia mai! Questo «al dì sotto» viene a sorprenderei dall'alto, come se l'abisso si aprisse sulla superficie delle cose. Per questo il volto del signor Franchon esprime un'interiorità che non ha niente a che vedere con quella dei suoi organi interni. Anche se prendessi il bisturi e il microscopio per cercare più a fondo, sotto la sua pelle, l'origine del suo sorriso benevolo o del suo cipiglio arrabbiato, non farei che restare ancor più in superficie. «Sotto i sampietrllli», quindi, vuoI dire: fissando bene lo sguardo su di essi, contemplandone le sfumature oscillanti dal grigio-azzurro a11' ocra, con quegli impercettibili puntini bianchi, quelle macchie simili a ideogrammi, quelle sbrecciature e quelle superfici cesellate dalle nostre suole inconsapevoli; insomma, tutta l'inesauribile ricchezza che nasce dall'intreccio di presenza e storia. Sì intuisce che lì, nell'apparente insignificanza, affiora una parola misteriosa, e che noi ci troviamo ovunque come sulla spiaggia di un Oceano ineffabile l0. La presenza reale del Signore nell'ostia non deve far dimenticare ai cattolici la sua presenza non meno reale, ma di tipo causale e non sostanziale, nella pietra del pavimento o nella panca di legno. L'ostia consacrata è il Signore, il pane da tavola no. Nondimeno, il Signore è prese~te in qualunque tipo di pane, anche in una briciola di fetta biscottata industriale, in quanto è Lui che la mantiene in esistenza, che la trae fuori dal nulla. (Analogamente, sarebbe un grave errore pensare che Dio agisca in noi soltanto quando si tratta di Grazia e non quando si tratta di natura, come se il Redentore non fosse anche il Creatore, e come se noi controllassimo III qualche modo la nostra esistenza. Anche al di fuori della Grazia, Dio è la Causa principale di tutte le nostre azioni. Ciò che cambia con la Grazia è che Egli ci rende partedpi della
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sua stessa vita divina, e ci fa agire al di là delle nostre forze naturali.) Ancor prima dello scandalo del male c'è quindi nella creazione uno scandalo del bene, una sorta di scandalo dell'onnipresenza divina. Una presenza non immediatamente evidente, certo, ma comunque abbastanza evidente da poter risultare intollerabile a causa dell'incessante esigenza di gratitudine e di lode che inesorabilmente implica: Cosa? Questo cielo così bello, sempre sopra la mia testa cosi piena di inezie e frivolezze? E questo mio cuore che batte, questo corpo che si organizza per la mia stessa vita anche quando lo voto allo stupro e alla dissoluzione? Tutto ciò mi umilia e mi obbliga, per essere giusto, a rendere grazie sempre e in ogni luogo. Ah! Tanta generosità mi esaspera, e per me è peggio della cattiveria gratuita: almeno, di fronte a chi mi offende, posso sentirmi creditore... In questo caso invece, sempre debitore! ... E per di più insolventel
L'uomo moderno, nella sua superbia, volge lo sguardo altrove, e si dichiara ateo per una odiosa petizione dì fetido principio, mentre tutti i popoli primitivi del passato, malgrado i loro pantheon pletorici e la loro morale confusa, si riconoscevano circondati in ogni momento da una Provvidenza che probabilmente conoscevano male, ma della quale non dubitavano. I pigmei e i guaraIÙ sono da questo punto di vista più evoluti di noi, scettici civilizzati.
L'Intelligenza divina vicino alle margherite Non bisogna far altro che guardare un dente di leone: mentre noi stiamo ancora lottando per arrivare a dominare e uti-
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lizzare L'energia solare, il dente di leone realizza agevolmente la fotosintesi e trasforma la luce in zuccheri. Tra le altre meraviglie, come ha fatto ad allestire i suoi piccoli paracadute per affidare i suoi semi alla sollecitudine dei venti? Ha una qualche conoscenza del mondo esterno, del maestrale e della tramontana? Sembra più abile dei nostri ingegneri. Lo stesso vale per quei fiori comuni i quali dispongono uno dei loro petali come una pedaliera - che si aziona appena rape vi si posa -, affinché le antere si inclinino facendo aderire il polline al suo dorso, ed essa divenga il vettore della loro fecondità. Del resto, che dire delle api stesse, che fabbricano la cera delle nostre candele e il miele delle nostre mense grazie a un'organizzazione dei loro alveari che da secoli lascia attoniti gli industriali? Quale grande chef è capace di fare il miele con il succo dei tigli? Si può affermare che tutto ciò è il frutto del caso e della selezione naturale? No, solo un'intelligenza può coordinare mezzi diversi in vista di un fine preciso, perché solo un'intelligenza può concepire questo fine quando ancora non c'è, e cercare gli strumenti più idonei per realizzarlo. Ciò è di una semplicità tale che umilia la nostra complicazione: quest'intelligenza si ritrova dappertutto, nell'alveare, nel fiore, nel coordinamento che vi è tra di loro o tra i loro rispettivi organi, fino a dentro i nostri organi e le nostre cellule, che funzionano in modo provvidenziale malgrado noi, o ancora nell'ordine reciproco esistente tra la nostra intelligenza e le realtà della terra. C'è intelligenza nel dente di leone. Ma non è l'intelligenza del dente di leone, e nemmeno quella della materia, come vorrebbero assurdamente coloro che hanno paura di sentir invocare il nome di Dio. Si deve concludere che l'intelligenza divina (senza dubbio tramite quella degli angeli) impregna la terra in ogni luogo, e che in ogni istante la terra ci parla dì Dio, nostra Causa prima
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e universale, che ci parla e si rivela a noi in tutte le cose, e ci invita dolcemente a cantare le sue meraviglie: «1 cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il finnamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto, e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 19,2-5).
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Dio in tutte le creature, intenderlo, lodarlo, amarlo e servirlo, onorarlo e glorificarlo, se non volete che l'Universo insorga contro di voi. Un giorno il creato intero si leverà contro gli stolti, mentre sarà motivo di gloria per l'uomo saggio, che sa esclamare con il profeta: «Perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l'opera delle tue mani» (Sal 92,5). 12
Le cose non sanno mentire
Attenzione al gradino
La terra è quindi l'annl.1I\cio e la strada che conduce a Dio. Coloro che non lo vedono non sono amici della terra, ma complici del vuoto, benché il loro materialismo pretenda ìl contrario: «Davvero vani per natura tutti quegli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, che dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è né, esaminandone le opere, riconobbero l'artefice [... ]. Infatti dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia, si contempla il loro autore» (Sap 13,1-5). Il pellegrinaggio deU'anima verso Dio passa necessariamente attraverso la terra e le sue realtà sensibili. Per san Bonaventura, seguace del poverello d'Assisi, essa è il primo dei sei gradi in cui si articola la nostra elevazione verso l'Altissimo: «Infatti, secondo ]'attuale condizione della nostra natura, il creato è la scala per salire fino al Creatore» li. Trascurare il primo stadio nella fretta di passare a quelli superiori sigrufica letteralmente saltare un gradino e rischiare di andare a spaccarsi la testa contro il successivo: Aprite dunque gli occhi, tendete l'orecchio della vostra anima, sciogliete le labbra e disponete il cuore perché possiate vedere
In linea con lo spirito di Bonaventura, Tommaso d'Aquino, in un sermone composto per t'Avvento, scrive: Dio, in qualità di maestro eccellente, si è preoccupato di lasciarci due testi perfetti per portare a compimento la nostra educazione in un modo che non lasci a desiderare. Questi due libri divini sono il Creato e la Sacra Scrittura. La prima opera contiene tanti eccellenti capitoli quante sono le creature, e ci insegna la verità senza menzogna. Perciò, quando Wl tale chiese ad Aristotele dove avesse imparato tante nobili verità, egli rispose: «Nelle cose, poiché esse non sanno mentire». Il «La terra non mente»: quest'espressione si trova già in Tornrnaso e in Aristotele, prima che altri la riprendano facendone talvolta cattivo uso. L'~segnéll1te invece, essendo peccatore, può mentire e ancor più può sbagliare, disponendo solo della fallibile ragione umana, la più debole nella scala delle intelligenze. I nostri ecolatri, che si rimpinzano avidamente di ogni sorta di sapere libresco, rischiano di sprofondare in un'ignoranza tanto più crassa e speciosa quanto più è grande la loro erudizione:
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Un professore può essere in errore e restarvi per tutta la vita; può massacrare mille, diecimila intelligenze, e conservare ugualmente un incarico prestigioso, per poi ricevere una cospicua pensione. Ma se il contadino sbaglia due volte di seguito la semi.na, è rovinato. Ecco l'origine di quello che viene chiamato «buon senso contadino»: l'agricoltore sa che esiste una natura delle cose, e che essa non potrà mai essere modificata. 14
In realtà il professore incorre in una rovina peggiore, benché meno visibile, di quella del contadino: la rovina della sua anima. Ciò non toglie comunque che il buon senso contadino sia più solido delle elucubrazioni cerebrali degli accademici, ed è su di esso che devono fondarsi le più elevate speculazioni metafisiche, e perfino la contemplazione mistica, perché poggia sull'ordine terreno voluto dal Cielo. «Imita la terra - dice Basilio di Cesarea - e porta frutto come lei; non mostrarti peggiore di colui che è privo di spirito.» I.~ È quanto ci insegna J'Altissimo, il quale, nelle sue parabole, fa costantemente riferimento ai lavori dei campi, alla semina, alla mietitura, ai convolvoli e ai passeri, e paragona il cuore dei santi alla «terra buona» (Mc 4,8), in cui fruttifica il seme della Parola. Inoltre, Egli assimila il Regno dei Cieli a un tesoro nascosto in un campo, che viene scoperto da un uomo. Ora, che cosa fa quest'uomo? Sparisce e va a spendersi il tesoro? No, «lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo>} (Mt 13,44). Ecco come il nostro spirito può disseppellire la luce dal fango di cui siamo fatti, e non per portarsela via, ma per seppellirla di nuovo e farla risplendere maggionnente. Lo testimonia una contemplativa che si offrì volontariamente a una delle croci più oscure del-
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la nostra storia: «A poco a poco ho scoperto che anche nella vita più contemplativa non deve essere reciso il legame con il mondo. Credo anzi che, più ci si avvicina a Dio, più si deve in un certo senso uscire da se stessi, cioè immergersi nel mondo per portarvi la vita divina>} 16. Non per nulla il grande teologo noto come il Doctor Angelicus fu definito anche il «bue muto di Sicilia» 17. È lasciandosi ammaestrare dalla terra, umiliandosi alla luce della ragione e della fede che ci si slancia verso le altezze supreme. Non c'è bisogno di viaggi innumerevoli: ne basta uno solo, nella profondità.
'Sal 95,4. 'Tl celebre religioso domenicano che inaugurò La stagione dei preti-operai, lavorando a Marsiglia come scaricatore di porto fino al 1954, quando il Va-
ticano decise di inteITOmpere tale esperienza. In seguito fondò la Missione Operaia Santi Pietro e Paolo (MOPP), riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa nel 1965. Nel 1969 fondò a Friburgo la Scuola deUa Fede, che diresse fino al 1981 (N.d.T.]. 'Tomroaso d'Aquino, Summa I7Jenlogiac, Prima pars, quaestio 8, art. 1 [testo italiano antine, da cui è tratta Iii traduzione: http://www.preticattolici.it/Testi/Somma%20Teologica/Somma%20Teologica.htm. Per un'edizione cartacea cfr. Ln Samt/w teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996-1997, N.d.T.]. 'Gioco di parole tra Geroboamo inteso come nome proprio (personaggio biblico divenuto re delle dieci tribù che formarono il regno settentrionale di Israele) e jéroboam inteso come nome comune (bottiglia di vetro contenente l'equivalente di quattro bottiglie da 75 cl di vino o champagne) [N.d.T.}. 'Cfr. Tommaso d'Aquino, Summn contra Genti/es ili, 70,8; trad. it. in La Somma corltra i Gentili, a cura di Tito Centi, UTET, Torino 1978. •In realtà il passo citato di Isaia, nella versione CEl del 2008, recita: "Signore, [... ] tutte le nostre imprese tu compi per noi». Si è preferito tuttavia lasciare la versione francese, per il riferimento all'azione di Dio all'interno delle sue creature, fondamentale per il discorso dell'autore [N.d. T.].
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'Gioco di parole, solo in parte traducibile, tra défectueux, dal laL deficìo, che rimanda a un'azione negativa perdlé inadeguata e lacunosa, e défnisant, dalla!. disfacìo, indicante un'azione negativa in quanto distruttiva [N.d.T.]. 6I1 testo originale ha ORNI, acronimo di Objet Rampant Non Identifié, co· niato dall'autore sulla falsari!!;a di OVNI, Objet Volant Non Identifié, corrispettivo francese dj UFO [N.d.T.]. 'Gioco linguistico tra l'agg. qualif. benigne (masch. bénin) e quello di nazionalità béninois, "del Berun» (frane. Bénin). L'autore ha di fatto trascorso l'arie dell'adolescenza nel Benin, al seguito del padre, diplomatico [N.d. 'ONota gratuita, che vi invita il guardare più in basso, o più a fondo, che a piè di pagina. Chiudete dunque il libro (permesso accordato) e contemplate la prima creatura che si presenta ai vostri occhi. [Nell'edizione francese originale le note sono situate a piè di pagina, N.d.T.]. II Bonaventura, llinermium mentis in Dewn T, 2ltrad. oliline: http://W\NW.llnavox.it/m24.htm; per W1'edizione cartacea, cfr. Itinerario delI'anìnUl a Dio, Bompiani, Milano 2002, N.d.T.j. "Ivi,1, 15. "Cinquìème sermon pour la deuxième dimflnche de l'Avellf (Quinto sermone per la 2' domenica d'Avvento), in Opera 01l111ia, 34 voli., Vivès, Paris 187]1880, voI. XXIX (trad. it. in Tommaso d'Aquino, I sermoni e le dI/C lezitmi inaugurali, Edizioni Studio Domenicano, BologIla 2003). l! Henri Charlìer, Culture, Écolc, Méfier, citato da Gustave Thibon in Re/oll'T au réeJ, Paris 1943 (ed. it. Ritorno al reale: nuove diagnosi, trad. di ltalo De Giorgi, Ed. Giovanni Volpe, Roma 1972). 15 Basilio di Cesarea, Terza omelia sul V(lI1geJo di Luca, Patrologia Graeca 31, 266; trad. it. in Rufina di Aquileia, Versione delle omelie dì Basilio, a cura di Carla Lo Cicero, Scuola Tipogr. San Pio X, Roma 2002. "Edith Stein (Teresa Benedetta della Croce), lettera del 12 febbraio 1928, in Werke, il cura di Lucy Gelber e Romaeus Leuven, 18 voll., Herden, Frei-"burg 1954--1998, voI. VIII (trad. it. in Edith Stein, Scelta di Dio. Lef.tere dnl 1917 (/11942, Mondadori, Milano 1997). "Soprannome attribuito il TOnun
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Parte seconda
UN CIELO PER PATRIA Loro non cercano più l'ebbrezza del viaggio, poiché la lerra è troppo profumata, là, dove si sono fermati. Loro Han navigheranno più sui mari maligni, poiché hanno trovato il porto, e l'ancora è stata gettata nella beatitudine incomparabile. Ernest Psichari l
l Ernest Psichari, Le voyage du cellturion, LGF (Librairie Générale Française), Le Livre de Poche Chrétien, Paris 1962 (ed. il. Il viaggio del centurione, tTad.
di OrsaIa Nemi, Ed. G. Volpe, Roma 1971).
Icaro, Anteo e Ulisse. Sradicamento o odissea
Da queste premesse metafisiche, alcuni potrebbero presto approdare a una morale autoctona: «Se Dio è qui, direbbero, ci è proibito cercarlo altrove»; altri invece, opporrebbero subito loro la deduzione, non meno affrettata, di una morale apolide: «Se Dio è ovunque, dobbiamo partire sempre per mete lontane per trovarlo ancora e meglio». Da un lato i fautori del ràdicamento, ai quali è cara la metafora della pianta; dall'altro i cultori del viaggio, amanti di quella dell'uccello. I primi non vedono che anche l'acero mette i suoi semi in un'elica mobile simile a quella dei nostri elicotteri, né che il dente di leone - ci torno continuamente! - munisce i suoi semi di paracadute che il vento trasporta in terre sempre più misteriose e lontane. I secondi dimenticano che la stama artica, sebbene voli ogni armo da un Polo all'altro percorrendo all'incirca 20,000 chilometri, depone e cova le uova sempre nel luogo stesso dove è nata. Oltre alla pianta e all'uccello, due figure mitologiche quelle di Icaro e di Anteo - si contendono gli estremi opposti del rapporto con la terra. Una terza figura sembra incarnarne il giusto mezzo: quella di Ulisse. Dopo aver esplorato il valore dei primi due archetipi, si tratta di chiedersi se sia possibile affidarsi all'ultimo e celebrare insieme a Joachim
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LA TEJ{RA STRADA DEL CIEl.O
du Bellay I la beatitudine di Ulisse e Giasone anziché quella dei miti e degli umili.
Decollare dal basso Icaro è figlio di Dedalo, J'esiliato da Atene per aver ucciso un parente e il cui nome significa l'«ingegnoso». li suo sangue è quello freddo del tecnico, il suo terreno quello mobile dell'invenzione. E di quelle invenzioni prodigiose che sanno piegare le leggi della natura ai capricci dellibertinaggio! Dedalo è il genio geloso della costruzione, e ancor di più della decoshuzione meccanica: inventa non soltanto il famoso Labirinto, ma prima di tutto quel simulacro di vacca dentro al quale si nasconde Pasifae per soddisfare la sua passione contro natura nei confronti di un toro. È il Minotauro, frutto transgenico dell'unione tra la bella e la bestia, a essere per ordine di Minasse protetto e nutrito di carne umana nell'intreccio di gallerie e corridoi sotterranei del labirinto. Ciò implica forse che il nostro ingegnoso esule, fuggito da Atene e accolto dal re di Creta, elegga !'isola come una nuova patria? No, il suo slancio demiurgico gli impedisce di restare fermo in un luogo. Si affretta a tradire: di lì a poco aiuterà Teseo a sconfiggere il Minotauro e i meandri della sua stessa invenzione; poi, per sottrarsi alla vendetta del re, costruirà per sé e il figlio ali che li strappino dal suolo. Forte dell'esempio del padre e fiducioso nell'onrupotenza della sua tecnica, Icaro crede di poter raggiungere il sole disprezzando la terra una volta per tutte. Si sa che riuscirà unicamente a cadere da un'altezza più grande. Oggi i fratelli dì Icaro sono numerosi. In campo filosofico, sono gli epigoni di Kant Hegel e Marx. Per loro )a terra è in-
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consistente, viscosa, poco più di un materiale caotico che solo l'uomo mette in ordine. Essi dicono con Jules Lachelier 2: «Per me l'opposizione tra libertà e natura, che Kant fu il primo a cogliere, è l'opposizione fondamentale della filosofia». A essi va riconosciuto un certo senso della libertà umana, che però, nel loro rigido dualismo, contrappongono alla terra, concepita come mero involucro materiale e ridotta al determinismo percepito dalle scìenze sperimentali. Essi ignorano che il concetto di natura è analogico e che la libertà lo presuppone come ciò che la struttura e la ordina autenticamente, e non ne fa, invece, il prestigio di un potere arbitrario e assurdo. Essi continuano dunque a dire con Sartre: «Per noi Adamo non si definisce affatto in base a un'essenza [... ], si definisce dalla scelta dei suoi fini» 3. Questo «Adamo» non è per nulla plasmato dalla terra e vivificato dalLo Spirito: egli si crea, si modella da sé a partire dal nulla. Non è altro che libertà che trasforma il mondo a suo piacimento. E dunque quest'Adamo cacciato dall'Eden può parlare con la voce sibilante di Luc Feny 4, affermando che egli è una forza di «anti-natura»), e che la virtù è essenzialmente «una lotta deUa libertà contro la naturalità che è in noi» 5. Dottrina eterea che solleva definitivamente i nostri piedi dal suolo: l'uomo, più è contro natura, più è umano. Il centro commerciale sarebbe dunque per noi più congeniale e più bello delle montagne della Chartreuse, poiché è generato unicamente dalla nostra ingegnosità. E l'omosessualità sarebbe tanto più virtuosa e libera proprio perché non segue alcuna tendenza naturale. Ma cosa sto dicendo? Questa forma di licenza è ormai fin troppo obsoleta, e i veri draghi della virtù 6 sceglieranno semmai la zoofilia e il cannibalismo, al fine di generare superuomini biscornuti. I figli moderni del-
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l'ìngegner Dedalo 7 cominciano infatti con il lodare l'irriverenza del libero arbitrio e finiscono per favorire gli accoppiamenti della regina Pasifae. Ma c'è ancora qualcosa che trattiene il libertario dal tirare le estreme conseguenze delle sue teorie, e questa cosa è l'ordine terreno, la natura umana che, malgrado i suoi errori, continua a costituirlo e a sussurrargli all'orecchio come il suo proprio sangue.
Il nemico dei migranti
A Icaro e agli icariani molti contrappongono volentieri la robusta mole di Anteo, figlio della Terra e di Poseidone (la terra, infatti, non è mente senza l'acqua che la irriga). Le sue gambe muscolose lo ancorano saldamente al suolo della sua Libia natia. Da esso il gìgante attinge energia come fosse linfa e, ritto come una barriera minacciosa 8 sulla strada che passa davanti alla sua dimora, sfida aHa lotta i viaggiatori e i migranti. Non ama i vili senza radici che succhiano il nettare dappertutto senza mai stabilirsi in nessun luogo. Allora li agguanta e li uccide per sotterrarli e fare dei loro corpi irrequieti il concime per il suo giardino. Peraltro, le sue prede non riescono mai ad abbatterlo. Infatti,la leggenda narra che la sua forza si rinnova ogni volta che egli tocca il terreno. Atterrarlo significa dunque renderlo più forte. Gettarlo a terra equivale ad aizzarlo di nuovo contro di sé. Avere il sopravvento su di lui vuoI dire metterlo in contatto con ciò che lo fa trionfare. Si dice che, dopo aver vinto, Anteo usasse le spoglie delle sue vittime più ricche per ricoprire il tetto del tempio di suo padre. Quale eroe più fedele di lui alla terra e al sangue? Eppure - chi non lo ricorda? - un viaggiatore instancabile, nel bel mezzo della sua undicesima fatica, finisce
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per aver ragione di questa creatura invincibile. Per sconfiggerla, tuttavia, Ercole non [o abbatte: lo solleva. Gli cinge con le braccia le reni, lo tira su e lo strangola tenendolo sospeso tra cielo e terra. Anteo affascinò i poeti del «ritorno alla terra» e dell'amore per la pa tria, che lo scelsero come simbolo della resistenza contro }'omologazione del mondo prodotta dalle macchine. Nel giugno del 1940, nel suo romanzo Vent de Mars 9 , prima celebre e poi troppo presto dimenticato, Hemi Pourrat scriveva: Questo grande mito di Anteo, il gigante che riacquista le forze appena tocca terra, è molto più di un mito: è una verità [... ]. Ciò che vale per i popoli arborei - quello dei pini, quello dei pioppi, quello delle querce - vale anche per un popolo umano: esso non deve aver paura della morte, se sa volerlo. Se sa attaccarsi alla vita con tutti i suoi sensi. Se lo vuole nella durezza, nell'oscurità e nello sforzo tenace, come la radice che affonda le vene nei più spessi strati dell'argilla e del sasso, per cercare sottoterra le acque da cui ricavare la sua linfa. Se lo vuole affidandosi al1a luce come il ramo, che, schiudendo i suoi germogli, li fa sbocciare fino in fondo come fossero polmoni, per poter toccare ovunque, con le sue foglie, lo spazio dorato, fino al giorno in cui, giunto a maturazione il suo essere, getterà ai venti d'autunno iJ suo milione di semi.
Tale è in Pourrat la celebrazione della terra, che egli non dimentica la luce e il vento, e ciò pennette a questo grande cristiano di non cedere alla tentazione di venerare le divinità tellurìche, né di cadere in una versione alvemiate delle cerimonie germaniche nella foresta dì Teutoburgo. Ecco che ci troviamo già a uguale distanza da Icaro e da Anteo.
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Resta che la garanzia delle nostre ali sono le radici. «L'uccello non canta bene che sul suo albero genealogico», ammette anche Jean Cocteau. Una libertà senza basi né memoria crede di innalzarsi al cielo e invece si perde nel vuoto. Chi pensa di riuscire a procedere senza appoggi, non può che continuare ad agitarsi senza muoversi in alcuna direzione.
Antigone o Medea? Ma non si rischia di cadere in una strana utopia nazionale se, in preda alla nostalgia, si tralascia di cogliere l'attuale interdipendenza delle nazioni e la fratellanza dei popoli nello Spirito dell'Altissimo? Non ci si ritrova in una sorta di pantano assegnando alla terra più profondità e solidità che al Cielo? E infine, per noi sradicati da lunga data, immigrati tre o quattro volte, qual è la vera terra ancestrale? Finiremo con l'inventarcela e crederci figli di Gaia, mentre in realtà siamo figli di Dedalo? La polemica contro lo sradicamento e la globalizzazione è molto antica. Coloro che la credono recente tradiscono la loro amnesia e, col pretesto della fedeltà a un qualche tipo di passato idilliaco, cadono senza accorgersene nell'illusione del sol dell'avvenire \0. Già Seneca poneva questo lamento nel cuore della sua Medea, facendole denunciare quell'invenzione rivoluzionaria della tecnica antica che è la nave. Medea accusa Giasone e gli Argonauti di aver rubato il Vello d'Oro che proteggeva una patria diversa dalla loro, e inoltre di aver sedotto la principessa di quella patria, infelicemente trapiantata dalla natia Colchide prima in Tessaglia e poi a Corinto. Secondo la legge greca, Giasone non aveva il diritto di sposare questa donna straniera. Fortuna insperata
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per lui: il suo opportunismo lo spinge ora al matrimonio con un'altra, la principessa corinzia. Egli può quindi ripudiare senza alcun rimorso la principessa meteca della Colchide, insieme ai figli che lei gli ha dato. Ma Medea non la pensa così. Si vedrà che «colui che conquistò il Vello» non tornerà a vivere, circondato dai parenti, nella quiete celebrata dalle rime di Du Bellay. Alla fine il bel viaggio conduce all'abbandono e all'infanticidio. I difensori dei costumi ancestrali si richiamano talvolta alla figura di Antigone, ma potrebbero rifarsi anche a quella di Medea: non come eroina, certo, ma come vittima. Antigone infatti difende contro Creante, re di Tebe, quelle leggi non scritte che servono da fondamento anche ai diritti e ai doveri universali, oltre che alle norme consuetudinarie. Medea, al contrario, si vendica contro Creonte, re di Corinto, in preda alla collera suscitata in lei dall'essere stata prima strappata alla sua terra, e poi rifiutata in base ai decreti locali di un altro paese.. Ma ecco il magnifico canto che le mette in bocca il filosofo stoico «suicidato» da Nerone: l nostri padri videro secoli senza macchia, quando ogni frode era sconosciuta. Ogni uomo, quietamente, se ne stava aUe sue spiagge, invecchiava sulla sua terra, ficco del poco che aveva, non conoscendo altri beni che quelli che gli dava il suolo natale, La nave tessala, Argo, congiunse le parti del mondo che a ragione erano divise, ai mari impose di subire le sferze dei remi, ai mjsteriosi flutti di mutarsi in causa dei nostri terrori. Ne pagò il fio, trascinata di pericolo in pericolo, la sacrilega nave, quando i due monti che sono le porte del mare, all'improvviso
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spinti l'uno contro l'altro, lanciarono un rombo simile a tuono, e il mare, tra loro schiacciato, spruzzò le stelle e le nubi. [... ] È caduto ogni limite, in terre sconosciute sorgono mura di città, le strade del mondo sì spalancano, muta sede ogni cosa. Si disseta l'Indiano al gelido Arasse, bevono i Persiani all'Elba e al Reno. Verrà giorno, in secoli lontani, che Oceano sciolga le catene delle cose e immensa si riveli una terra. Nuovi mondi Teti scoprirà. Non ci sarà più SLÙ pianeta un'ultima Tule."
Esilio originario Il nostro suolo di oggi, ma già quello di ieri, è piuttosto l'aere dei senza radici 12. Incominciamo così, fiori di serra e piante da vaso, o forse uccelli, ma dal volo disorientato dalle ali appesantite dalla nafta. Heidegger, pur sottolineando l'esigenza del radicamento, ripete che questo non è il nostro stato di fatto. La nostra condizione congenita è semmai quella che chiama Unheimlichkeit, ossia una inquietante «estraneità», un esilio originario: Il [nostro] sradicamento non è causato soltanto da circostanze esteme o dalla fatalità del destino, non è solo l'effetto della negligenza degli uomini, del IaTo stile di vita superficiale. Lo sradicamento deriva dallo spirito dell'epoca in cui la nostra na-
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scita ci ha collocati. Ecco qualcosa che ci dà ulteriormente da pensare, e ci porta a chiederci: "Se è cosÌ, in futuro l'uomo potrà ancora svilupparsi, la sua opera potrà ancora maturare a partire da una patria già costituita; quindi egli potrà innalzarsi nell'etere, cioè per l'intera estensione del cielo e dello spirito? Oppure tutte le cose sono destinate a restare prese neJla morsa della pianificazione e del calcolo, dell'organizzaZlone e dell'automazione?>'. n
Nella nostra epoca icariana, nasciamo lontano dal suolo, immediatamente proiettati nella cultura tecnica e nello spazio pubblicitario, subito messi al mondo di cui parla san Giovanni e che è quello della m.enzogna e dell'illusione babelica che mascherano l'evidenza della creazione. Non c'è più una «terra natale già costituita», e la peggiore utopia, che ignora di essere tale, è quella in cui si tenta di ricostituire una terra natale chimerica in una sorta di età dell'oro; questa utopia, pur invocando un certo realismo terrestre, ignora la realtà del tempo presente e la nostra condizione violenta. Oggi è come se la terra natale non fosse già passata ma ancora da venire. Nietzsche ne aveva l'istinto, nei suoi spostamenti sempre verso il Sud, lontano da una Germania sradicata dal suo stesso idealismo protestante (una Germania che, per reazione, si sarebbe ben presto fabbiicata un radicamento illusorio e barbaro). Egli scrlve: «Ubi pater SUID, ibi patria», la mia patria non è la dove sono nato, ma nel luogo in cui ho generato 14. L'albero infatti si giudica dai frutti, non da Ue radici. Tuttavia i buoni frutti presuppongono buone radici. L'uomo può essere un buon padre soltanto se è un buon figlio, e si può generare bene solo nell'alveo di una data ascendenza, in quella tenerezza, la cui natura ci sfugge, che unisce il nipote al nonno. In ogni caso bisogna per libera
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scelta saper riconoscere ciò che è anteriore a tutte le scelte. Bisogna che Icaro si decida ad atterrare. È qui che fa la sua comparsa la figura di Ulisse, uomo al tempo stesso ingegnoso e patriottico. Egli raggiunge veramente la sua patria solo al terrrune dell'Odissea. Sembra nascere a Troia, nel corso della guerra, e non giunge a Itaca che alla fine. Qui, sotto le sembianze di un vecchio mendicante, viene prima accolto dal custode dei suoi maiali, che però non lo riconosce, mentre è subito riconosciuto dal suo vecchio cane, Argo, che ne muore di gioia, perdendo la vita nei movimenti eccessivi della coda. Eppure per noi la figura di lllisse non è che una fonna vuota. Dov'è]a nostra ltaca? Dov'è l'approdo a noi familiare? Quale cane può riconoscere di dove siamo? Qui la mitologia deve lasciare il posto alla storia santa.
Alla zoofilia e ai «superuomini biscornuti», e getta un'ombra sarcastica sulle «virtù» dei seguaci dì Dedalo [N.d.T.]. 1L'autore gioca sull'assonanza tra ingénieur e ingénieux, significato etimologico di Dedalo; in sottofondo c'è la nozione del Dio-ingegnere (o architetto), cara a Leibniz, CArtesio e Kant [N.d.T.]_ • Alla lettera: dogana (o doganiere) [N.d.T.]. 'I Il titolo suggerisce che nel mese di marzo, lo stesso dell'Annunciazione e dell'equinozio di primavera, spiri su.lla terra un vento di rilUlov:amento che viene da più lontano e da più in alto che dal pianeta Marte. In Lett. «i domani che cantano», ispirato a una frase di Paul Vaillant-Couturier (allora dirigente del Partito comunista francese) citata da Gabriel Péri, deputato comlUtista fucilato dai tedeschi nel 1941, nella sua autobiografia, intitolata appunto Les /endemains qui chnntent. Nel 1962 lo stesso VaiUant-Couturie.r pubblicherà la raccolta di saggi Vers les /mdemail1S qui chanlenl [N.d.T.]. li Lucio Anneo Seneca, Medea, vv. 329-379, in Le tragedie, Einaudi, Torino J991, pp. 146-148. I~Lett. «l'aria degli sradicati»: la {rase gioca infatti sulla contrapposizione tra terra e aria, ripresa più esplicitamente in rapporto alla dottrina aristote1 ica dei qua ttro elementi nel paragrafo «II volto umano nella sua n ud ità»
Poeta e umanista francese (1522-1560), membro del movimento noto coIlle Brigade de la Pléiade. L'autore allude aJ sonetto Heureux qui comme Ulysse, in cui esprime la sua nostalgia per il proprio paese natale e sj chjede se tornerà mai in patria come hanno fatto Giasone e UEsse [N.d.T.!. 'Jules Lachelier (1832-1918), filosofo francese ricordato soprattutto per lo studio del pens.iero di Kant e la diffusione della filosofia trascendentale nella Francia. di fine '800 [N.d. 'Jean-Paul Sartre, L' "E, tre elle Nél7nl, Paris 1950, p. 547 (ed. it. L'essere e il Ilu/la, il Saggiatore, Milano 2008). • Filosofo francese, Ministro deUa Gioventù, dell'Educazione nazionale e della Ricerca dal 2002 al 2004, attualmente docente di Filosofia all'Università Paris VI-Jussieu [N.d.T.\. -' Luc Ferry, Jean-Didier Vincent, Qu'esl-ce que l'homme? SlIr les fondamenImlx de la biologie el de la plzilosopllie, Odile Jacob, Paris 2000, p. 48 (ed. it. Che cos'è l'uomo? Sui fondamenti della biologia e della filosofia, Garzanti, Milano
[N.d.T].
1
n.
2002).
'L'originale ha dragons de verlu, riferito generalmente alle donne, dle si sposa efficacemente con gli accoppiamenti bestiali evocati dalle allusioni
Martin Heidegger, L'abbandono, IL Nuovo Mel angolo, Genova 2006 (ed. or. Gelassel1JLeit, Neske, Pfullingen 1959). 14 Friedrich Nietzsche, citato in Stefao Zweig, Nietzsche, Stock, Paris 2004, Découverle du Sud, ristampa del secondo volume di Le comballlVec le demon, 2 volI., vol. I, Holde'rlin, Kleist, voI. TI, NielzsclIe, Stock, Paris 1930; ed. or. Der 1V
Vattene dal tuo paese verso il paese. Dall'Esodo alla Terra Promessa
La Genesi ci rivela che all'origine siamo caccia ti dalla terra paradisiaca, e che non si tratta di uno spostamento locale, ma della nostra colpa che è responsabile di quest'esilio. Allora, non è con uno spostamento locale, ma attraverso il nostro pentimento (il termine significa precisamente «ritorno») che guadagniamo la patria: Se è in virtù di un movimento del cuore, e non dei piedi, che l'uomo si è orgogliosamente allontanato dal Bene supremo e ha sepolto dentro di sé l'imm.agine di Dio, mi sembra evidente che sarà in virtù di un movimento del cuore che l'uomo potrà Llm.ilmente tornare a quel Dio che l'ha creato, e ritrovare la sLla immagine.'
Noi siamo tuttavia esseri sensibili e questo movimento essenzialmente spirituale deve compiersi attraverso luoghi fisici ed esige 1m legame intimo con la terra: «Signore, sei stato buono con la tua terra, hai rkondotto i deportati di Giacobbe) (Sal 85,2). Lo Spirito sospinge il figliol prodigo lungo le vie dell'esodo. Lo conduce dal diluvio al deserto affinché egli gridi verso il Cielo dal profondo dell'abisso, e da questa profondità entri nella terra nuova, nella dimora del Padre.
LA TERRA STRADA DEL CIELO
La chiamata di Abramo è fondante: « Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e daUa casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1). Questa partenza è un ritorno. Abramo lascia tutto e si abbandona a Dio neUa fede. Come possono i seguaci di Anteo comprendere tUl tale sradicamento? Alcuni di loro hanno fatto di questa partenza l'emblema del cosmopolitismo e di li1 certo disprezzo della terra e del sangue. Abbandonare il padre non è forse empietà filiale? Lasciare la patria non è proprio del disertore e di quel popolo nomade e senza patria, nato nel deserto, che finisce per conquistare e depredare Canaan, terra di altri, rapidamente massacrati? Pensar questo è omettere che è Dio che comanda: il gesto di Abramo è di ubbidienza e umiltà, non di disprezzo e orgoglio. D'altra parte, il padre dei credenti non dimentica la sua origine: infatti egli invia il suo servo Eliezer dai suoi parenti a cercare una moglie per il figlio Isacco. Ma non dimentica nemmeno l'amore per la terra: "Vattene dal tuo paese verso il paese», dice stranamente l'appello divino.
Il volto umano nella sua mldità
Grandi filosofi ebraici sono riusciti a trattare questo soggetto in modo inadeguato, come anche pensatori antisemiti come ad esempio Carl Schmitt. Se questi ultimi denunciano nel popolo di Israele il fautore di un vuoto universalismo che rimmcia a ogni rapporto con il proprio paese d'origine, i pri~ mi riconoscono in lui il portatore di una Legge universale che spezza le barriere razziali e le divisioni fondate sull'odio. Emmanuel Lévinas, con il lodevole intento di evidenziare il primato dell'etica sulla sacralizzazione di un suolo particolare, scrive:
V/lITF.NE DAL TUO PAESE VERSO il PAESE
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[La tecnica] rischia di far esplodere il pianeta, ma [... l essa fa tutt'uno col vacillare delle civiltà sedentarie, lo sgretolarsi delle pesanti stratificazioru del passato, lo sbiadire dei colori locali, le crepe che incrinano tutte quelle cose ingombranti e ottuse su cui si fondano i particolarìsmi umani. Bisogna essere sottosviluppati per rivendicare queste cose come ragioni d'essere e lottare in loro nome perché abbiano UI1 posto nel mondo moderno. Lo sviluppo tecnico non è la causa, è semmai l'effetto di guesto alleggerirsi della sostanza umana, che si svuota delle sue pesantezze notturne l...), La tecnica sopprime il privilegio di questo radicamento e dell'esilio che a esso rimanda [... l. Essa ci strappa al mondo heideggeriano e alle superstizioni del Luogo. Si profila quindi una chance: imparare a vedere gli uomini al di fuori della situazione contingente in cui sono inseriti, lasciar risplendere il volto umano nella sua nudità. Alla campagna e agli alberi, Socrate preferiva la città, in cui è possibile incontrare gli uomini. L'ebraismo è fratello del messaggio socratico.'
Sappiamo bene a quale brutale scatenamento di un nazionalismo menzognero faccia seguito questo discorso di Lévinas: il medico deve privilegiare l'elemento aereo per controbilanciare un eccesso di elemento terrestre; non per ridurre dunque il corpo a un palloncino, ma per cercare dì ricondurlo all'equilibrio. Di qui la visione parziale del filosofo su questo punto. Sappiamo inoltre, con Lévinas, non soltanto che la tecnica non è un male in sé, ma anche che la più piccola anima umana è più preziosa della vastità di un paesaggio romantico. Uccidere qualcuno senza nessun altro motivo che preservare il proprio orticello è una colpa grave. Il volto dello straniero, attraverso la sua nazionalità o il suo colore lontano per noi, ci rivela in primo luogo l'immagine di Dio, che ci è intima.
LA TERRA STFADA D[l GELO
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Tuttavia «lasciar risplendere il volto umano nella sua nudità» significa anche guardarlo come un volto diverso da tutti gli altri, come la peculìare incarnazione di una storia e di un luogo. Amare lo straniero vuoI dire anche accoglierlo in quanto tale, con tutto ciò che lo differenzia realmente: non il peccato quindi, che non produce che fossati di niente, ma la sua ascendenza terrestre con la sua tradizione che giustamente, per non sclerotizzarsi, si presenta aperta al futuro, poiché non tutto è dato in partenza. Andare verso la giustizia e la pace, la verità e l'amore, significa dunque volere per lo straniero una terra a lui congeniale - favorevole alla sua memoria e alla sua speranza - dove possa compiere un'epopea che comincia e si realizza nene profondità del Cielo. Ora, il testo di Lévinas tende a proporre un uomo astratto unicamente fondato sul Decalogo. Seguendolo, si diventerebbe meno fratelli di Socrate che di Cartesio, di Kant e di tutta la filosofia soggettivistica. E come se l'esodo si fermasse sul Sinai, invitando gli ebrei il errare senza fine nel deserto, così, dissociando il Reclentore e il Creatore, si mutilerebbe l'ebraismo della sua relazione essenziale con la terra promessa. Si ascolterebbe solo il «Vattene dal tuo paese» restando sordi alla parte finale dell'ordine divino, e così si farebbe uscire l'uomo dalla sua orbita per farne un figlio di Gagarin piuttosto che un figlio di Adamo.
Gli ulivi che tu non JUli piantato «Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò.» Abramo lascia la sua terra come un disertore? No, come un patriota che si reca a combattere alle frontiere dello spirito. Lasci.a il suo paese per trovare la terra dei viventi, cioè per ri-
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trovare la sua terra in Dio. Abbandona i suoi parenti, ma solo per abbracciarli con un amore più forte e più puro di quello preclusogli dal culto di lari, mani e penati dei caldei. Sceglie il crepuscolo degli idoli affinché sulla Caldea stessa e sul mondo intero possa sorgere l'alba dell'Eterno. Quanto alla terra data agli israeliti sotto condizioni esigenti, molti si stupiscono che sia loro concessa attraverso l'apparente spoliazione di altri popoli: «Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nel paese che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti; quando ti avrà condotto alle città grandi e belle che tu non hai edificate, alle case piene di ogni bene che tu non hai riempite, alle cisterne scavate ma non da te, alle vigne e agli oliveti che tu non hai piantati» (Dt 6,10-11). In verità tale condizione è tipica di tutte le nuove generazioni: nasciamo in una terra piena di ricchezze che ci vengono da altri - dalla natura e dagli antenati -, e senza le quali non potremmo vivere. Ma l'oracolo del Signore rimanda a una dipendenza più alta, per cui il dono della terra non solo non autorizza alcuna spoliazione al suo interno, ma piuttosto vi introduce una legge di gratitudine e di generosità. Esso mira anzitutto a ricordarci che la terra è di Dio più che di quelli che la abitano o la coltivano. I nostri preamboJ.i metafisici ce lo hanno rammentato: le olive e i grappoli di uva appartengono più a Dio che all'ulivo O alla vigna, anche se esistono solo grazie all'ulivo e alla vigna; allo stesso modo le case appartengono maggiormente a Dio che all'architetto e ai muratori, anche se esistono solo in virtù di questi ultimi. Il seguito dei versetti citati afferma che dobbiamo ogni cosa in primo luogo a Lui: «Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalia terra d'Egitto, dalla condizione servile» (Dt 6,11-12).
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Quindi il comando «Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò» non implica necessariamente che si debba andare altrove, poiché Dio può indicarcì per l'appunto il paese in cui gìà ci troviamo o dal quale veniamo. L'importante è seguire la sua indicazione, è abitare questo paese come pervaso dalla sua presenza e come strada dell'incontro con Lui, è trovare già qui quell'Altrove che dà forma a ogni cosa. « La terra è mia, e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Parole di cui non riusciremo mai a esaurire la profondità, e che riassumono il senso di tutto il nostro discorso: Eretz Israel appartiene all' Altissimo più che agli israelitii la Francia appartiene al Cielo più che ai francesi. Tuttavia, pur definendoci forestieri e ospiti, il Signore non ci rende estranea la terra. Ce la fa scoprire fraterna perché proviene dallo stesso Creatore. Ricordare che la terra appartiene più a Dio che a noi equivale a ricordare che essa ci radica in Lui e che Egli ci eleva in essa. Dal punto di vista metafisica, i francesi di antico lignaggio sono ruttora come degli immigrati in Francia, perché la Francia è in primo luogo la patria dell'Eterno, essendo stata creata da Lui e avendo la vocazione di condurci a Lui. Ecco perché, come Dio ci accoglie nella misura in cui obbediamo alla sua Legge, così noi francesi dobbiamo accogliere gli stranieri nella misura in cui essi obbediscono alle nostre leggì, a condizione che queste siano conformi alla Legge divina.
Meglio una diaspora giusta che una dimora criminale L'esilio a Babilonia è una deportazione fisica. Ma è prima di tutto la punizione per un allontanamento spirituale, la
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conseguenza dell'adesione alle seduzioni di Babilonia piuttosto che alle luci di Gerusalemme. E allora cosa importa se ci si trova sul proprio suolo o altrove? È solo il Dio dell'amore che crea il radicamento, poiché la terra è in primo luogo Sua. Dimenticare la Sua voce equivale ad auto-esiliarsi. È possibile dimorare materialmente nella propria terra, ma se si erigono in essa i totem di una nuova idolatria non la si abita più nella verità e si sprofonda nell'esilio, ci si rinchiude in una sfera fatta di calcoli e di sogni. Per abitarla veramente bisogna riceverla da Dio. Per amarla bisogna riconoscervi la Sua presenza e vivere al cospetto della Sua santità, esercitando la Sua benevolenza nei confronti del prossimo; altrimenti è meglio essere dispersi: «Perché non avrai obbedito alla voce del Signore, tuo Dio [... l, il Signore ti disperderà fra tutti i popoli, da un'estremità all'altra della terra. Là servirai altri dèi, che né tu né i tuoi padri avete conosciuto, dèi di legno e di pietra» (Dt 28,62-64). Meglio questa dispersione che una dimora illusoria, poiché essa mette in piena luce la realtà dell'allontanamento interiore e, come castigo, ci concede di gridare nuovamente verso l'Eterno, rendendo così possibile la teshuvah, cioè il ritorno nel pentimento. L'esilio non distrugge il rapporto con la nostra patria, semmai lo sottolinea con il tratto di una ferita e, spingendoci a implorare i Cié1i, ci consente di accogliere dì nuovo questa terra, non più come un possedimento del nostro orgoglio, ma come un dono proveniente dall'Altissimo e come il seno destinato a generarci al Suo Regno. TI radicamento ctonio ci allontana dalla realtà della terra tanto quanto lo sradicamento tecnocratico, il nazionalismo idolatra tanto quanto l'universalismo disincarnato; bisogna ricevere la terra dal Padre Eterno per scoprirla materna.
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Accecammto dei costruttori La terra non è né il nostro fine ultimo, né un mezzo da sfruttare senza alcun freno. Non è il Cielo, ma non è neppure separata dal Cielo. Bisogna ricordarselo sempre, e l'Eterno ammonisce: «Quando [... ] avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca [... l. Guardati dunque dal dire nel tuo cuore: "La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze"» (Dt 8,12-14; 8,17). U1usione che la terra non sia che un materiale informe, e che solo la nostra libertà le conferisca un ordine e una carica spirituali! TI malstrom della grande città, dove tutto è edificato dalla mano dell'uomo, soffia vorticoso per convincerci di questo. È CI proposito della terra che incorriamo nel peggiore dei nostri errori, e la sua causa non è tanto lo sradicamento, quanto la perdita di un certo tipo di sguardo, uno sguardo contemplativo e amoroso, uno sguardo da bambini. Giovanni Paolo II lo descrive con rigore sulla scorta di Mosè: L'uomo, preso dal desiderio di avere e godere più che di essere e crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c'è un errore wtropologico, purtroppo diffuso nel nosh'o tempo. L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo con ìl proprio lavoro, dimentica che guesto si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra,
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assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria fonna c una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma che non deve tradire [... ], [se non vuole rìsdùare di] provocare la ribellione della nahlra. ~
Senza dubbio abbiamo bisogno di trasformare la natura per la nostra vita materiale, ma abbiamo anche bisogno di essa per la nostra vita spirituale, come di un oggetto di contemplazione e d'amore. Tale contemplazione è all'origine e al termine del nostro rapporto con la terra: essa ci fa riconoscere nella terra un dato che possiede la sua destinazione in precedenza alle nostre scelte, e ci permette di trasformarla senza violentarla; essa ci concede, una volta portata a compimento la fatica necessaria al nostro sostentamento, di vedere nella bellezza deJla terra un inizio del Cielo, e di oEfrirla a Dio nel sacrificio del rendimento di grazie.
Lo «shabbat» della terra L'antica e sempre nuova legge dello shabbat della terra aveva la funzione di ristabilire il rispetto contemplativo dell'uomo nei confronti del suolo che ci nutre. <
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na spirituale e di un raccolto di preghiere ed elemosine: «Per sei anni seminerai la terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta~ ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche» (Es 23,10-11). Immaginate che meraviglia se per un armo la grande macchina mondiale del commercio arrestasse il suo moto vorticoso per permetterei di guardare il mondo gratuitamente! È quello che si potrebbe chiamare Tobin Tax o liberalismo mistico. Peraltro, la legge dello shabbat della terra non si ferma a questo: dopo sette volte sette anni, essa si radicalizza in occasione delI'armo giubilare, solennemente inaugurato al suono dello yobel, la tromba rituale. Nel corso di quest'anno è stabilito che «ciascuno tornerà nella sua proprietà» (Lv 25,13). È il tempo del riscatto: ·gli schiavi vengono liberati, ogni appezzamento di terreno acquisito deve tornare ai suoi proprietari originari, il che è possibile solo nel caso di lU\'equa spartizione iniziale tra le diverse tribù di Israele. Questa misura serve a impedire l'avidità, l'accumulo eccessivo di beni e il monopolio tirannico. Soprattutto, essa annuncia <
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dono, ed è il povero a offrirmela tendendo verso di me la sua mano vuota.
Il primo compito della politica Il sabato della terra ci induce dunque a guardare al creato con un occhio diverso da chi lo considera semplicemente una riserva di beni da spremere e consumare o come una preda da dissanguare, senz'a1tro lim.ite che la possibilità di poter garantire alle generazioni future uno sfruttamento altrettanto rapace. S
Insistere sulla necessità di lasciare delle risorse alle «generazioni future» è Wl modo fraudolento per scaricarsi la coscienza, se è finalizzato ad assicurarsi una discendenza di piccoli capitalisti voraci e di consumatori sazi e sonnolenti. Con il pretesto dell'ecologismo, si delinea un progetto diabolico: destinare la terra alla moltiplicazione dei dalmati. Ci vuole ben altro. La Legge di Mosè richiamata da Giovanni Paolo II ci indica il primo compito della politica: non tanto organizzare la produzione per conseguire la sovrabbondanza dei beni materiali, ma saperla contenere, predisponendo con cura le interruzioni e il riposo, affinché i cuori, ne) silenzio domenicale delle fabbriche simili a grandi cattedrali, sì volgano ai beni spirituali, alla contemplazione degli esseri. Eliminare la non occupazione sÌ, ma soprattutto favorirla e promuoverla se questa si identifica con lo sJwbbat. Aumentare eventualmente il Prodotto Interno Lordo, ma soprattutto incanalarlo in vista della crescita dell'interiorità umana, senza la quale la prosperità mercantile non è che un orpello volto a na-
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scondere la nostra miseria spirituale. Lo shabbat degli umili scaccia i sabba organizzati dagli stregoni dell'industria 6, allontana la preoccupazione utilitaristica e la vanitosa ambizione che ci offuscano lo sguardo, e ci consente di intravedere il Cielo che filtra attraverso la nostra terra, di incontrarlo sui nostri sentieri, nella luce che si irradia da una vecchia cappella.
La via e l'ostacolo «Vattene dal tuo paese verso il paese», ecco la garanzia contro l'irrequietezza e la fossilizzazione, una prevenzione contro l'orgoglio di Babele e gli idoli di Canaan, i miraggi di Icaro e la superficialità di Anteo. Ci impone di amare ciò che è vicino, ciò che ci è dato qui e ora; non ci chiede di partire e neppure di restare attaccati al nostro paese, ma di viaggiare attraverso di esso, la storia che porta, le fatiche che reclama, le bellezze che offre, fino all'Invisibile punto di fuga delle sue pianure e delle sue colline. Non è di uno spaesamento che abbiamo bisogno, ma di un luminoso radicamento nel paese. Non è una distensione complice dello stress che il nostro cuore invoca, ma un'enorme fatica che prolunghi nel quotidiano la luce dello shabbat. Cercare l'evasione equivarrebbe ad ammettere che si è anCOra prigionieri. Al diavolo l'evasione! È il raccoglimento che ci manca. Il rapido decollo insieme all'extraterrestre ci porta meno lontano dì questa lenta contemplazione della terra. André Dhòtel scrive: lo ho visto le coste dell'Asia, tu hai visto i sentieri della Scozi.a, [...L ma noi tutti difendiamo, come se fosse non soltanto tutta
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la vita, ma anche più della vita, il nostro ruscello privo di gamberi di fiume, privo di ideali e quasi privo di pesci, che scorre al limite della periferia. Perché? Te l'ho già ripetuto cento volte, e saranno le prime parole eli questi appunti sparsi: siamo sicuri che esista ovunque qualcos'altro che non si può trovare se non in quel mjnuto colmo di abbandono. 7
In una novella intitolata Le chemin du Paradis, Dhòtel racconta la storia di un ragazzino irrequieto, che vive in un sobborgo rumoroso. Un giorno il suo professore di francese gli chiede di svolgere un tema su un argomento impossibile: «Descrivete un luogo pieno di pace, di solitudine e di luce che avete amato particolarmente». Il ragazzìno cerca ovunque un luogo del genere, ma la sua turbolenza gli impedisce di trovarlo. Finalmente incontra una ragazzina dallo sguardo limpido, che gli riferisce queste parole di suo nonno: «Apri gli occhi più che puoi e guarda bene ogni cosa. Usa gli occhi per illuminarti il cammino. In città come in campagna, e perfino in sogno, devi cercare di scorgere il sentiero che conduce all'Infinito, e che non somiglia a nessun altro». E questo sentiero non è altrove - spiega Dhòtel -, ma qui, in questo muro dì pietra, vicino a questa ragazza dai capelli neri: «Nulla conta se non questo muro fraterno, una volta che lo hai scoperto. La bellezza non è né laggiù né più lontano. Essa è in ognuna delle pietre di questo muro, assemblate in modo da costituire un ostacolo, poiché è l'ostacolo stesso che ci affascina,) 8. L'ostacolo ci affascina perché esiste (e resiste). Per esistere, bisogna che sia creato da Dio e che ci rinvii a Lui, e allora esso schiude alla nostra intelligenza e alla nostra fede un cammino che conduce più lontano di un viaggio intersiderale. Rendere chiaro lo sguardo così che si possa vedere che le
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cose di quaggiù sono come plasmate dal Cielo e ci aprono la strada verso di lui, questa è l'opera dello shabbat della terra, e il poeta come ogni contemplativo vi contribuisce. Ma esso è prima di tutto la missione cattolica dei figlì d'Israele.
'Sant' Ae1redo (Etelredo) dì Riev
Fino ai confini del mondo. Cattolicesimo e identità
Come un tempo gli ebrei erano accusati di cosmopolitismo, così oggi si pensa di poter accusare la religione cattolica un proselitismo devastatore. Questa conquistatrice irrefrenabile si espanderebbe come un'epiderrua, facendo tabula rasa del vecchio folclore come delle novità moderne, per imporre una sorta di romanità monotona che si estenderebbe da Oriente a Occidente. Si tratta di una vecchia requisitoria: già l'antica Roma si scagliava violentemente contro l'«ateismo» dei primi cristiani: la religione propagata dagli ebrei seguaci di Gesù, infatti, rigettava i culti inebrianti di Bacco e Mitra e anche i sacrifici offerti all'imperatore e, secondo Celso, aspirava a saccheggiare la alta cultura greco-romana e a far vacillare le fondamenta dello Stato. E oggi? È vero che, partendo da Israele, l'espansione cattolica abbia smantellato le tradizioni e la creatività dei popoli e indebolito il vigore del potere politico? Mille anni di cristianesimo hanno davvero scolorito tutto in una giudaizzazione scialba e imbastardita (un giudaismo senza kasherut l accoppiato a un ellenismo senza pantheon)? O non è forse vero che al contrario, in virtù di un connubio autenticamente sacro, essi hanno messo più chiaramente in luce le differenze originarie tra gli italiani, gli inglesi, gli spagnoli, i bretoni, i corsi... e perfino
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LA Tf;'RRA STRADA Dt:L CIELO
tra gli ebrei e i cristiani? Non è piuttosto l'apostasia generalizzata degli ultimi secoli che ha finito per cancellare le identità, risucchiandole neUo spettacolare nastro trasportatore 2 della temo-industria? Le antiche rimostranze continuano nondimeno a risuonare nell'attardarsi della nostra Europa scristianizzata: non ci si irrita più contro l'ateismo dei cristiani, certo, ma essi vengono fustigati perché vogliono mettere il bavaglio alle libertà e alle arti, e strapparci alla consistenza della carne o della terra. Accuse del genere sono perfettamente comprensibili, se si considerano quei missionari che sono tali solo nella posizione e che confondono la causa della Chiesa con quella di una particolare civilizzazione, o quella «clericarura» pusillanime che riduce la Buona Novella a un moralismo ora cupo ora ammiccante, legittimando con le sue asfissie la reazione anticlericale. Accuse del genere sono comprensibili, ma decisamente al di sotto della collera furiosa che sarebbe necessaria.
Estendi il tuo dominio fin nel awre del tuo 11emico 3
La perversione dei missionari cattolici? Bisogna ammetterla, ma aggiwlgendo che è peggiore di quanto non immagini la maggior parte di coloro che la demmciano. Il desiderio di conquista deUa Chiesa? Bisogna riconoscerlo, ma specificando che è spaventosamente più profondo di quanto non pensino i suoi sed.icenti avversari. In primo luogo, la colpa dei cattivi testimoni è infinitamente più grave di quanto non pensino i loro denigratori non credenti. Quando chi è inviato a diffondere la luce viene meno al suo compito, la sua oscurità è più grande per lo sfondo luminoso su cui si staglia; inoltre, poiché impedisce
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all'alba di sorgere attraverso di lui, egli accresce plU eli chiunque altro il peso delle tenebre che gravano sul mondo. Per giunta egli aggiunge alla sua colpa un crimine mortale: sfigura il volto della Chiesa agli occhi di coloro che, pur senza saperlo, ne cercano la bellezza. In secondo luogo, la Fede cristiana possiede un impatto ben più radicale di quanto non suppongano quelli che ne diffidano. Perché questa Fede non chiede semplicemente, come un partito, la vostra adesione uffidale, non mira solo al vostro denaro o al vostro potere: essa esige tutta quanta la vostra vita, dal grosso alluce ai fini vertici dello spirito. Più terribile, oserei dire, dei campi di rieducazione e delle sette in cui si pratica il lavaggio del cervello, pretende di arrivare a impadronirsi del vostro cuore, cioè di conquistarvi senza spezzare né la vostra volontà né la vostra intelligenza, ma semmai raHorzandole! Essa insegna in effetti che un battesimo forzato è come un cerchio quadrato, e che chi pensa di poterIo impartire in questo modo ottiene un unico effetto: fa di sé stesso un empio. La Fede reclama la vostra libertà ma intatta, la vostra persona ma pienamente realizzata, e persino le vostre parti più nascoste, spingendosi così fino al culmine del desiderio. Il salmo 110 recita: «li Signore ti dona lo scettro del ma potere: estendi il tuo dominio fin nel cuore del tuo nemico», e nel salmo 40 il servo fedele risponde: «La Tua legge è nelle mie viscere» 4. Ecco la cosa terrificante: la Chiesa intende conquistare non la superficie, ma il cuore e le viscere dei suoi nemici, ossia ottenere, con la sua pazienza e la sua verità, il loro consenso intimo, libero e razionale, come una Donna sublime che sa strappare e far diventare di carne anche j cuori di pietra.
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Oltre le avanguardie e alla sorgente delle tradizioni Eppure, quelli che tengono tanto alla loro cultura non dovrebbero aver paura della Fede cattolica (sebbene debbano spaventarsi dei suoi servi traditori, giacché non c'è niente di più infame). Sarebbe sciocco da parte loro partire da una petizione di principio paragonabile al mito del buon selvaggio o del buon rivoluzionario (i due sono fratelli), e concepire la prpprìa identità come sufficiente a se stessa, tetragona a ogni crescita, invulnerabile a ogni malattia, in particolare a quelle patologie autoi.m.IDuni in cui il sistema dì difesa dell'organismo, mal funzionante, si ritorce contro l'organismo stesso. In verità, una C1.Ùtura inaridisce appena cessa di essere vivificata dalle acque e dal sole che la fecondano dall'alto. Corrosa da vizi interni o sclerotizzata dal suo conservatorismo, essa viene soppiantata da un'altra cultura. Le occorrerebbe un'Istanza superiore e vivente per proteggerla dai rovi, dall'anemia e dalla disperazione. Nel corso della storia le tradizioni come le avanguardie finiscono per divorarsi tra loro o per autodistruggersi appena smettono di immergersi nella sorgente prima come pure di tendere verso la destinazione ultima. I libertari di ieri farulO oggi appello alla tradizione. È andando avanti con l'età che si coglie la chiarezza di un'infanzia che l'adolescente rifiuta. Ma che cosa può garantirci al tempo stesso la continuità e la novità, cioè una piena crescita, se non un principio che unisce a ciò che è più antico e più nuovo dell'universo stesso e cioè all'Eterno, avanguardia assoluta e tradizione immemorabile? La grazia di Gesù Cristo, lungi dall'abolirla, viene a portare a compimento la Legge, e attraverso di essa tutte le forme di saggezza e di cultura, ognuna presa nella sua singola-
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rità. Risvegliando in noi il desiderio del Cielo, rende più profondo il nostro legame con la terra; elevando il nostro spirito verso le cose di lassù, rende più ampio il nostro rapporto con la carne così bassa ma chiamata alla resurrezione. Tale Grazia è, infatti, }'indivisibile Amore per tutto ciò che esiste, e non aborrisce nulla se non quanto ci impedisce di esistere pienamente. Il cattolicesimo non ha niente dello spiritualismo etereo, né dell'universalismo che scolorisce ogni cosa. È una spiritualità dell'Incarnazione, e se fa risplendere ovunque la sua intensa Luce è solo per far risaltare in modo più vivido i colori e le ricchezze del creato, dissipando però le false apparenze della penombra.
An11unciare Colui che è già qui Prima dell'incontro con un altro popolo, si crede che la propria lingua sia l'unica, e solo in seguito si capisce che è invece quella materna. Ad esempio, a Pentecoste, la riunione cattolica di parti, medi, elamiti e di tutte le altre nazioni, permette loro di scoprire e far emergere immediatamente le differenze fra i popoli. Oltre a tale ricchezza, ne scoprono w1'altra di gran lunga superiore e che fa la loro w1ità: ciasC\lllo sente gli apostoli proclamare il Vangelo ne') proprio idioma materno. Cosa c'è di più materno, infatti, della Parola del Padre? Le nazioni comprendono allora il loro rispettivo valore, e che non sono destinate al conflitto o alla dissoluzione. Scoprono che il vero idioma universale non è né il volapiik di Magog, né il sabir di Babele, ma il linguaggio dell'amore, che è anche il linguaggio della croce (cfr. 1 Cor 1,17-18), autentico cTocevia dei veri incontri. E questo linguaggio non è una lingua, se non di fuoco, il che significa che abbraccia e al
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tempo stesso rende ardenti tutte le lingue 5, poiché costituisce il loro respiro profondo. Un altro passo degli Atti degli Apostoli (14,8-18) illustra con forza che l'ingresso nella cattolicità non implica la rimozione, ma semmai il riclùamo e il consolidamento della memoria vernacola re. Agli abitanti della Licaonia, che li scambiano per dèi e vogliono offrire un sacrificio in loro onore, Paolo e Barnaba gridano: Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovete convertirvi da queste vanità al Dio vivente, che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi sì trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada; ma non ha cessato di dar prova dl sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dci vostri cuori (At 14,15-17).
Gli apostoli rivelano il Cielo ai pagani riclùamandoli alla loro terra e ai suoi benefici. Annunciano loro Colui che è già presente, che da sempre lì circonda con la sua Provvidenza, e che essi ricevono da loro ridonandolo a loro volta. La missione non consiste infatti nell'imporre Cristo dall'esterno, ma nel riconoscerlo in primo luogo nel volto dell'altro, poiché il Gesù crocifìsso che viene annunciato non è soltanto il predicatore ebreo di Nazaret, è anche il Verbo Creatore che, sin dalle origini, ispira tutto ciò che c'è di saggio e di buono in ogni nazione e in ogni uomo, anche quando questi è un feroce avversario del cristianesimo. Il segno che si è inviati da Dio non è tanto la capacità di dare, quanto quella di cogliere il bene dalla sua creatura. Tale segno non consiste prevalentemente nella predica, ma nell'ascolto (<
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gnore è il nostro Dio, il Signore è uno solo», che significa che Egli è il tuo Signore, ma anche quello dello straniero, poiché non c'è un altro Dio). È da questo ascolto che si dispiega la predicazione. È nella misura in cui si è disposti a imparare la lingua del luogo che è possibile tradurre in essa la Buona Novella. Altrimenti la si tradisce. Certo, bisogna abbandonare gli idoli vani. Non necessariamente facendoli a pezzi - si può intrattenere un rapporto idolatrico sia con un'icona che con la propria ragione - ma considerandoli in modo diverso, come opere d'arte, forse, o come presentimenti informi. Abbandonare gli idoli non significa abbandonare quel che abbiamo di più caro -la nostra identità - ma instaurare con questa un legame più profondo, spogliandola dai suoi parassiti e aprendo dinamicamente il nostro dramma a Colui che è più venerabile del passato e più nuovo del futuro.
Vivere la propria terra fino all'estremo I testimoni inviati «fino ai confini della terra» (At 1,8) non vanno dunque a rapire gli uomini dalla loro terra, ma piuttosto li chiamano a viverla fino all'estremo: Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: "Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Non è di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,11-14).
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Gli emissari della Gerusalemme celeste non vengono ad allontanarci dalla realtà, anzi, richiamandoci alle cose vicine, ci supplicano di amare la nostra realtà concreta fino in fondo, seminandovi l'amore e la verità fino a innaffiarla con il nostro sangue e con quello di Cristo, che è sangue del nostro stesso sangue: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Il gesuita Isaac Jogues partì per evangelizzare gli uroni e gli irochesi, per mostrare loro la meraviglia divina del bisonte e delle sequoie giganti, e il valore infinito delle loro anime, riscattate dalle sofferenze di Dio. Fu percosso e torturato, e solo per fortuna" riuscì a rientrare in Francia dopo sei anni di schiavitù, con le carni martoriate di piaghe. Ma tornò in America, o, come si diceva allora, nella «Nuova Francia», e il giorno prima di essere trucidato dagli indiani scriveva: «Questo popolo è per me uno sposo di sangue, e io mi sono fidanzato con lui a prezzo del mio sangue» 7. Ora, ci sono persone molto più coriacee degli uroni. C'è il signor Franchon, per esempio, il mio caro vicino. La IlÙa missione è forse fargli amare Dio in astratto, perché arrivi a dichiararsi cattolico a denli stretti? No, la nostra IlÙssione è amare Dio insieme, nel concreto, attraverso tutto ciò che siamo - attraverso la Francia e i suoi stranieri, attraverso la collina di Monbnartre e le strade di Belleville, attraverso i marciapiedi, che la pioggia trasforma in specchi dei cieli, attraverso la sua famiglia, originaria della Creuse, e la mia, sparsa tra Tunisi e l'Alabama - affinché nella sua cartellina trovino posto l'antico e il nuovo, e il suo buffo papillon, come un bozzolo, si schiuda completamente, fino a dispiegare le ali di una croce immensa. Bisogna che io impari a morire per il signor Franchon. E che lui diventi per me uno sposo di sangue.
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Penetrare le cose fino a renderle vergini Scriveva Paolo VI: «Occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici -la cultura e le culture dell'uomo» 8. Lo Spirito del Signore possiede l'incredibile capacità di penetrare ogni cosa, prima fra tutte la mia anima che io stesso prostituisco, senza deflorarla ma rendendo la al contrario sempre più giovane, più vergine e più splendente. Può invadere un poeta che prima era ateo: anziché nuocere al suo stile, lo renderà più puro, più personale e più vigoroso, poiché lo obbligherà a quella fiera indipendenza che consiste nel render conto aUa Bellezza crocifissa e non ai letterati alla moda, nel farsi un nome in Cielo e non sugli scaffali di una libreria. Ma a volte anche sugli scaffali. Guardate Paul Claudel. Pensate a Max Jacob o a Pierre Reverdy. Da dove viene questo privilegio della Chiesa, e cioè di ogni sinagoga o comunità che accoglie il soffio di Dio? Dal fatto che, benché situata nel tempo, essa non appartiene al tempo, e il suo abbraccio è quello dello Spirito, che può riempire e fecondare conservando intatto l'imene. Il suo modus operandi è quello della Causa prima, che non rende passivo ciò su cui agìsce, ma al contrario, lo attiva dall'interno. Essa annuncia ciò che noi non potremmo mai raggiungere con le nostre forze naturali ma che ci plasma e ci attira sin dal principio. E quando la Chiesa abbraccia una creatura, essendo una Madre amorosa, la richiama alla sua appartenenza, alla sua parentela, alla sua patria. Non sarebbe così per un'istituzione umana refrattaria alla Rivelazione: essa degenererebbe ben presto nell'imperialismo tipico di una cultura che a poco a poco ne divora un'al-
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tra o la riduce al pi.ttoresco monetizzabile; questa cultura divoratrice sarebbe la più potente nei fatti ma non nella verità. La multinazionale di un Nazareno o di un Romano dalla personalità creata, che avesse reclutato una squadra d'élite, moltiplicato i mezzi pesanti di propaganda, e soprattutto non fosse morto in croce, avrebbe potuto essere solo un'impresa di demolizione. Si situerebbe sullo stesso piano delle altre culture da conquistare. La sua avanzata comporterebbe il loro arretramento. Le sue edificazioni la loro rovina. Per la Chiesa del Verbo incarnato non esistono altre culture. Come l'anima non è una delle parti del corpo, .ma ciò che dà loro fonna e le coordina in funzione della vita, così la Chiesa non è una comunità tra le altre, portatrice di una religione come le altre, ma, poiché la sua anima creata è la divina carità, e la sua anima increata lo Spirito Santo, Anima delle anime, essa è ciò che viene a ravvivare la memoria, a risollevare una cultura e a coordinarla con le altre (per poco che siano vere culture, e non forme di abbrutimento), come nella profezia dì Ezechiele sulle ossa inaridite, che lo Spirito riunisce infondendo nuovamente in esse un'unità vitale. Nella Chiesa, ognuno diviene maggiormente se stesso insieme agli altri: l'Ebreo ancora più ebreo (e con ragione, visto che in essa si sono compiute le promesse fatte a Mosè!), e l'Indiano pi.ù indiano, il Francese più francese. Ma c'è di più: la Madonna si rivolge a Bernadette nel dìaletto del Béarn, e il Signore stesso parla in tamil nel rito malabarico. È proprio di un'anima realizzare nella materia la differenza e l'unità allo stesso tempo, perché un corpo vìvente non può essere formato solo da mani, teste o interiora. È dunque privilegio dell'Anima delle anime il produrre la più grande differenza nell'unità più profonda.
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La virtù. della pietà È lo slancio della carità che inventa e conserva, che promuove le primizie e purifica le tradizioni, uno slancio che ci spinge ad andare sempre più lontano verso il prossimo. Essere attenti a ciò che ci è vicino, a questo albero, a questa casa, a questo vicino di casa, e averne cura; gesti semplici, che conservano memoria e gratitudine, e che, come W1a liturgia quotidiana, diventano sempre più lucenti. Bisogna osservare che il proximus che la Legge ci impone di amare - pena la morte - è propdo chi non abbiamo scelto ma che abbiamo di fronte: il barbone che puzza, il collega antipatico. E al primo posto fra quelli che non abbiamo scelto staImo i nostri genitori e la nostra patria.
La virtù che disciplina la tenerezza dovuta a questi ultimi prende il nome di pietà. San Tommaso spiega in che cosa consiste: Un uomo diviene debitore di altri in più modi, secondo i loro gradi di dignità e secondo i diversi benefici che ne ha ricevuti. Ora, da ambedue i punti di vista Dio è al primo posto, in quanto infinitamente grande e causa prima per noi dell'essere e dell'agire. Al secondo posto invece, in quanto princìpi dell'essere e dell'agire, vengono i genitori e la patria, dai quali e nella quale siamo nati e siamo stati allevati. Così dunque, dopo che a Dio, l'uomo è debitore ai genitori e aHa patria. Quindi, come spetta alla religione prestare culto a Dio, così subito dopo spetta alla pietà prestare ossequi ai genitori e alla patria. 9
In un tempo di amnesia dominato da self-made men, dove ognuno si crede uscito neanche dalla coscia di Zeus, ma dalla sua propria coscia e dal suo proprio cervellino, è difficile
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comprendere il culto della pietà filiale. Questo presuppone un senso della finitudine, della gerarchia e del concreto divenuto raro. La pietà filiale è dovuta a coloro che sono prindpi secondari della nostra esistenza, che conservano sempre questa funzione di princìpi - o di prìncipi - in quanto la nostra venuta alla luce è oscuramente legata alla loro storia, fatta di carne, di ossa e di spirito, di ragione e dj passioni: un incontro sotto una pensilina aspettando l'autobus, lm accordo tra sensali, un appuntamento presso il pozzo di Giacobbe ... Disprezzare i propri vecchi genitori, in definitiva, equivale a distruggere la propria giovinezza. Non risalire alla fonte, di ruscello in ruscello, fino ad Adamo, significa ultimamente perdere la vivacità e lo slancio della propria avventura personale, poiché è alla fonte che si trovano il vigore Ìncontaminato delle montagne e la forza del torrente. Il figliol prodigo crede di affrancarsi dal padre dilapidandone l'eredità, ma tutto ciò che ottiene è diventare il guardiano dei porcì. L'indemoniato di Gerasa spezza più volte le sue catene e i suoi ceppi, ma «(ha la sua dimora fra le tombe» (cfr. Mc 5,1-20), e quanto più aspira a essere inafferrabile, tanto più è posseduto dalla sua legione di spiriti impuri. Ma Gesù lo lìbera da quest'angelismo bestiale scacciando i demoni e costringendoli a entrare in una mandria di duemjla porcì. L'uomo, una volta guarito, vuole seguirlo, ma Gesù gli risponde: «Va nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te».
Tra il padre e il Padre È bene sottolinearlo: i nostri geni tori non sono il princìpio primo del nostro essere, e la nostra patria non è la patria ra-
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dicale e ultima. Se non si vuole rischiare ili perdersi con i porci, non bisogna abitare la propria terra per seppellìrvi il proprio talento (Mt 25,18). La parabola del figliol prodigo ci segnala inoltre il pericolo che incombe sul fratello maggiore, il quale rimane sì accanto al padre, ma rischia l'esilio spirituale, rifiutando il calore della sua misericordia. Cerchiamo di capire bene il finale della storia, che è per la nostra edificazione: il nostro Principio primo, il Padre dei nostri padri, è Dio; la nostra Terra prima, la Patria delle nostre patrie, è il Cielo. Se si definisce solido ciò che è reale e sicuro, allora bisogna dire che il Cielo è più solido del suolo: infatti è il pavimento degli angeli e dei beati '0. La distinzione tra causa prima e causa seconda, o tra causa principale e causa strumentale, che ci ha consentito di cogliere l'immanenza dell'Altissimo, ci ha mostrato che Dio ci è più vicino delle realtà a noi più prossime, e che la nostra effimera patria temporale è plasmata e modellata dalla nostra Patria perenne. Dimenticare l'una per dedicarsi all'altra significa trascurarle entrambe: infatti la nostra Patria celeste avvolge e finalizza la nostra patria terrena, ed è la stessa Carità divina che riguarda Dio e il prossimo, l'amore esclusivo del Creatore che avvolge tutta la sua creazione, il desiderio del Cielo che porta con sé tutta la terra. Accennando a un possibile conflitto tra religione e pietà, tra amore per la Chiesa e amore per la patria, Tommaso ricorda le parole di Aristotele: ull bene non è mai contrario al bene», e conclude: «Pertanto non è possibile che la pietà e la religione si ostacolino a vicenda, a tal punto che l'atto dell'una impedisca l'esercizio dell'altra [... ]. Ma non è una misura giusta che un uomo attenda al culto del padre più che al culto di Dio». Diciamo anche che una simile opzione equivarrebbe a non onorare e non amare affatto il proprio padre,
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perché amare qualcuno significa volere per lui il Bene Supremo, e quindi, in primo luogo, conoscere questo Bene, amarlo e promuoverlo. Riconoscere un uomo come padre, peraltro, equivale a sapere che egli vuole il meglio per noi, e che, se ci distoglie dal nostro bene, ciò non può essere dovuto che a debolezza, ignoranza o al fatto che è venuto meno al suo ruolo paterno. Se quindi il culto dei genitori ci distogliesse dal culto di Dio, non dovremmo attendere ulteriormente ai doveri verso di essi mettendoci contro Dio. Di qui l'esortazione di san Girolamo a Eliodoro: «Calpesta pure tuo padre, calpesta tua madre, e va' avanti, anzj vola verso il vessillo della croce. Questa crudeltà è il colmo deUa pietà». "
Questo colmo ci viene dùesto spesso. Nella sua bontà, Dio ci mette alla prova fìn sulla soglia della nostra casa, egli ha permesso che non dobbiamo allontanarci da un pasto in famiglia per ritrovarci nel bel mezzo dell'arena: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua» (Mt 13,57). Il mistero della pietà filiale è tale che il suo esercizio assume talora le sembianze di uno scontro. Il luogo della nostra prima infanzia può così divenire il terreno della nostra missione più ingrata, e i nostri primi alleati trasformarsi nei nostri più acerrinù avversari. È difficile, infatti, ammettere che colui che hai aiutato a crescere possa, con l'aiuto di Dio, farti crescere a sua volta. Quante persone innamorate della Francia trovano allora tra i francesi i loro più grandi persecutori, poiché tale amore le porta a odiare, nella patria e nei compatrioti, tutto ciò che è male per loro e le distoglie dal Cielo? Non resta loro che piantare nel suolo natio l'albero della vita, quella croce che, sebbene saldamente conficcata
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nel terreno, da ogni lato si slancia e ci lancia verso l'infinito. Non è raro, infatti, finire lapidati dai sassi della propria terra proprio per averla amata.
Mistica e politica Poiché il Cielo è sorgente e culmine di ogni patria, la Fede non ci distoglie dalla cura della città terrena, anzi, ci spinge a impegnarci al massimo grado. È nel «qui e ora» che sono messe alla prova la fedeltà e l'efficacia della nostra semina. Tertulliano lo rammentava ai magistrati di un impero che giudicava salutare gettare i cristiani in pasto ai leoni: Se infatti noi (... ] avessimo rotto con voi, ritirandoci in qualche angolo remoto deJ mondo, la perdita di cOSI tanti cittadLni [...} avrebbe indubbiamente coperto di vergogna voi, i domìnatori del mondo: anzi, il solo fatto di avervi abbandonati sarebbe stato per voi una pwlizione. Non c'è alcun dubbio: vi sareste SP
E cosl1a cittadinanza andrebbe di pari passo con la mistica. I figli dell'Altissimo avrebbero i piedi per terra più dei seguaci di Epicuro o di Kant. Com'è possibile un tale prodigio? Il bene -l'abbiamo già detto - non è mai contrario al bene, e colui che è superiore governa il sottoposto per il bene reciproco (come il padre educa il figlio). Il Bene comune eterno garantisce e orienta il bene comune temporale. Ora, che cosa conduce al Bene comune eterno? La sapienza mi-
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stica. E cosa conduce al bene comune temporale? La prudenza politica. Di conseguenza bisogna affermare che la vera mistica garantisce e orienta la vera politica. Meglio: oggi più che mai la Chiesa fonda e legittima l'autonomia dello Stato, e anche la sua laicità, se con essa si intende non l'anticristianesimo, ma il fatto che la sua azione propriamente politica non deve essere confessionale, sebbene debba sempre restare aperta e impregnata dal Vangelo, nella consapevolezza che ogni persona è destinata, al di là del tempo, a essere amata per l'Etemo. Se non è orientata alla felicità ultima dell'uomo, la politica perde la sua ragion d'essere e si aliena in una farsa. Ma in cosa consiste questa felicità ultima? Nella contemplazione ci ricorda Tommaso dopo e meglio di Aristotele -, in quanto l'uomo si distingue dagli altri animali in virtù del logos. È quindi nel vivere secondo il logos, vale a dire nell'amore e nella conoscenza della verità, che egli trova lma gioia autenticamente umana e anche divina: La [... ] contemplazi.one richiede [... ]la quiete rispetto ai turbamenti generati dalle passioni, a cui si perviene tramite le virtù morali e la prudenza, e la quiete rispetto ai turbamenti provenjenti dall'esterno, a cui è preposto l'intero ordinamento deUa vita civile. Sicché, se rettamente considerate, tutte le attività umane sembrano ~ssere al servizio di coloro che contemplano la verità. 13
Una discreta disponibilità di denaro, la tracciabilità delle carrU, Ulla salute di ferro, la giustizia sociale e le opere d'arte non sono fini ultimi ma beni intermedi che possono anche tramutarsi in mali demoniaci se si ripone in essi tutta la propria felicità. Essi sono finalizzati alla contemplazione amo-
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rosa del vero e del bello, per l'orizzonte aUa visione beatilìca. Allora il compito della politica è predisporre ogni cosa in funzione di tale contemplazione. La politica non ha la vocazione di dire cos'è la Verità - questo è il ruolo del saggio - ma di subordinare le ricchezze materiali a quelle spirituali. La sua missione non è di annunciare chi è Dio - questo è il ruolo della Chiesa - ma di promuovere la prosperità economica, la pace civile e la fioritura artistica, senza perdere di vista che il fine di tali iniziative non è annegare i popoli nelle comodità borghesi o nelle distrazioni estetiche, ma piuttosto condurli verso la Croce nella memoria e nella speranza. Analogamente, chi organizza le nozze non è lo Sposo ma esulta di gioia alla voce dello Sposo che la Chiesa riecheggia.
La Chiesa, madre delle città Non appena il senso della contemplazione diminuisce anche quello della politica viene meno, poiché essa finisce per mancare il suo scopo, o, più semplicemente, per smarrire il senso deUa vita. Il buon governo, se non è subordinato alla vera Trascendenza, scompare. L'iperpoliticizzazione anticristiana della Rivoluzione francese alla fine ha condotto a una depoliticizzazione generalizzata. La citoyenneté chiusa all'Eterno degenera in «teatrocrazia», per riprendere un termine platonico. In assenza di quella tensione verso ìl Cielo che la nobiIita, la politica è presto assorbita dall'economia, dalla spettacolarizzazione, dagli interessi particolari, dal culto di Adone o quello di Mammona, e infine si tramuta in tirannide, che può assumere forme diverse fino all'ultima che è la tirannia dei diritti dell'uomo nell'oblio di quelli di Dio, cioè quella di un individuo tiranno di se stes-
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so, ridotto a una bestia cinica, cieca e infelice, a una pecora senza pastore, La separazione tra Stato e Chiesa non è tanto un pericolo per la Chiesa, che detiene le promesse della vita eterna, quanto per lo Stato e la nazione, conlTO i quali possono invece prevalere le porte degli inferi: «Riempile di spavento, Signore canta il re Davide -, riconoscano le genti di essere mortah» (Sal 9,21). E papa Gregorio XVI ricorda benevolmente: «Scosso per tal maniera il freno della santissima Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni e si mantengono ferme la forza e l'autorità di ogni dominazione, si vedono aumentare la sovversione dell'ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento di ogni legittima potestà» ", L'autorità perde tutta la sua forza nel momento in cui non conduce più alla gioia ultima, perché è di tale gioia che abbiamo bisogno. Tali osservazioni, tuttavia, non fanno appello a una confusione di Stato e Chiesa. Una teocrazia che confondesse la causa di Dio con una qualsivoglia causa particolare, e la saggezza dei principi con l'infallibilità del Papa, sarebbe infatti non meno funesta. La Chiesa è cattolicq, transnazionale e transculturale: essa intrattiene pertanto con i governi nazionali rapporti di sussidiarietà, che si traducono, in concreto, nella condivisione dell.o stesso territorio e nella vicinanza spaziale. E poiché sa che la coercizione non può produrre l'atto di fede, non lega l'esercizio del potere politico a una confessione religiosa, ma chiede solo che quest'ultimo, per sua natura laico, dia a ogni individuo la possibilità di accogliere liberamente la Buona Novella della salvezza: «Chi non è contro di noi è per noi», dice il Signore (Mc 9,40).
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Per un ministero dello stupore Né separazione né confusione, quindi, ma distinzione e subordinazione. Bisogna rendere a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, senza dimenticare che Cesare è di Dio, e che tutto ciò che gli diamo dev'essere utilizzato per il regno di Dio. Eppure, le aberranti posizioni condivise anche da molti cristiani odierni tradiscono la mancata comprensione di quest'ultima evidenza: secondo loro, infatti, la politica può essere agnostica e la religione circoscrivibile alla sola sfera privata. Così, per non parlare di cose che rischiano di irritare la gente, costoro si condannano alle conversazioni futili e alle storielle piccanti, divenendo in tal modo complici della società della disperazione. Come può il legno che è stato sminuzzato in tanti piccoli stuzzicadenti servire per la costruzione di una nave? E le fibre di cellulosa ridotte a carta igienica, come possono fornire un supporto adatto a una lettera d'amore? Analogamente una politica agnostica, che degrada la ragione a mero strumento di calcolo utilìtaristico, promuovendo il relativismo morale e l'estetismo mondano, non predispone alla piena realizzazione della persona. L'istruzione pubblica, in particolare, corrisponde esattamente a un massacro pianificato delle menti. In fin dei conti, poiché f'uomo, nonostante tutto, arde dal desiderio dell'assoluto, e i giovani che essa stessa ha formato non hanno imparato a coltivare questa caccia con giustizia e rigore, essa favorisce un'irruzione dell'irrazionale, con la sua triste sequela di suicidi, sette rimbecillenti e violenze fanatiche. Le nostre scuole, che con la scusa della laicità e della tolleranza ambiscono a mostrarsi irreligiose, si tramutano surrettiziamente in scuole coraniche o buddiste, quando non in seminari del Nulla. I nostri
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programmi di filosofia, che eludono sistematicamente le questioni dell'esistenza di un Principio Primo e dell'immortalità dell'anima umana, invitano invece a sguazzare in credenze stupide quali la reincarnazìone o gli omini verdi, o nella ridicola bigotteria dell'attuale scientismo, che consiste nell'immaginare che la materia sia intelligente, che si organizzi da sola e che il caso sia in grado di produrre un ordine che trascende la nostra stessa ragione ... Con tutto questo come potrebbe il nostro regime non essere quello di una lotteria? Ma che cosa mai si può fare, vi chiedo? In ultima analisi, infatti, questo è un male mondiale, e d'ora in avanti bisogna giudicare le cose alla luce del contesto mondiale. Ora, la caratteristica dominante a livello mondiale è la disperazione. Per quanto riguarda il nostro pianeta, la verità è che, all'interno di ogni nazione, ogni uomo è disperato. E allora co.me fare a far uscire l'umanità dalla disperazione? 15
Ponendosi quest'interrogativo alla maniera di Arrùeto, De Gaulle mostra di averne già in qualche modo intuito la risposta: la politica ha una missione spirituale. Poiché l'atto di fede in Cristo è un' esperienza eminentemente personale e libera, la politica non può imporlo, ma neppure proporlo, poiché questo è compito della Chiesa; deve però predisporre fondamentalmente a esso. Perciò, pur potendo essere non confessionale, non può non esseTe ragionevole, ossia pervasa dalla speranza in Dio. Lal1!_<;dnaturale della ragione ci obbliga a riconoscere]'esistenza di una Trascendenza unica, e il suo ultimo approdo è chiedersi se l'Altissimo non possa essersi manifestato nella storia del nostro pianeta. La politica deve quindi promuovere direttamente la contemplazione
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naturale di ciò che è, e permettere così un'autentica libertà religiosa. Che non significa libertà dalla verità, ma libertà per quella verità che rende sempre più liberi. Soltanto allora le nostre scuole non saranno più campi di sterminio per l'infanzia e propaganda del disincanto. Anziché accelerare la dispersione nel virtuale informatico, esse stimoleranno un raccoglimento colmo di stupore. Lo stupore, come attesta Aristotele, è all'origine della saggezza. Esso è la radice della vera responsabilità: come potremmo avere cura di ciò che non ci sta a cuore? L'urgenza governativa è dunque di vigilare affinché ci venga insegnato a stupirei dinanzi a un giglio o a un dente di leone. Se la casa editrice Larousse ha potuto adottare il secondo come simbolo, vi fu un tempo in cui il potere politico seppe scegliere il primo. Certo, troppo spesso il giglio fu cristallizzato nell'araldica al solo scopo di affascinare belle cortigiane imparruccate, ma esso è pur sempre meglio di un berretto rosso di Frigia Ib, in quanto esprime costantemente la vocazione regale e tradizionale del potere, che è quella di chinarsi sull'umile vita del suolo e di orientarla verso il sole eterno, per servire i figli della Francia.
'Tennine ebraico indicante !'idoneità di un cibo il essere consumato da un ebreo, in accordo con le regole stabilite nella Torah, interpretate dal Talmud e codificate nello 5hulchan Aruch IN.d.T.I. 'Lett. «noria», che qui è stato reso con lIna delle valenze metaforiche che possiede nel francese moderno, più vicine al linguaggio e all'immaginario italiano [N.d.T.I. 'Seconda parte del versetto biblico 5al110,2, che nell'edizione della Bibbia CE! 2008, recita: "Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domjna in Ulezzo ai tuoi nemici!»; per motivi stihstid e concettuilli si è preferito lasciare la versione citata dall'autore [N.d.T.I.
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'Versione francese di Sal 40,9; in italiano: «La tua legge è nel mio intimo» '(CE! 2008) o: «La hla legge è nel profondo del mio cuore» (CEI -1974) [N.d.T.), 'Gioco di parole intraducibile tra embrasser, «abbracciare», ed emln'aser "bmciare, incendiare», con riferimento ad At 2,2-3: «Apparvero loro lingue come di fuoco [... L e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spìrito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» [N.d.T.]. 'Nel 1642 Isaac Jogues cadde in w)'imboscata degli irochesi. Ferocemente torturato e mutilato, fu trasferito ad Albany, dove alcuni mercanti olandesi lo aiutarono a fuggire. Rientrato in Francia, nel 1644 riparti per il Canada. Due anni dopo fu ucciso con Wl colpo alla nllca e decapitato [N.d.T.I· 71saac Jogues, lettera del settembre 1646, in François Roustang (a cura di), Jésuites de la NOLlvcfle-Frallce, Desclée de Brouwer, Paris 1960 (19611. • Paolo VI, Esortazione aposl'olica Evangelii NWltiandi, 8 dicembre 1975, par. 20 [la traduzione è tratta dal sito ufficiale del Vaticano: http://www.vatican.va/holy_father/pau l_vi I apost_exhortations I documents/h Cp-vi_exh_1 9751208_evangelii-nuntiand U t.htrnl, N.d. T. J. 'Tonunaso d'Aquino, Summa Theologiae, lla-llae, quaeslio 101, art. 1 [testo italiano online, da cui è tratta 111 traduzione: http://www.preticattolici.it/ Testi/Somma%20Teologica ISomma%20Teologica.h trn. Per un 'edizione cartacea cfr. La Somma teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996-1997, N.d.TJ. IO Perciò l'ebraico parla delle realtà spirituali in termini di appoggio, mentre iJ greco le descrive preva lentemente in termini di luce. Quella sintesi di tutte le benedjzioni che è la parola «Amen» si può tradurre, leHeralmente: "Ecco qualcosa di solido' Ecco qualcosa su cui appoggiarsi con tutta sicurezza!». E Mose non ha paura di chiamare Dio «la Roccia». Ma anche alcune lingue moderne (tra cui il francese e !'italiano) non sono da meno, in quanto dispongono di un termine, derivato dal latino, che associa all'azzurro del cielo la solidjtà del suolo: si tratta di <,firmamento». "Tommaso cl' Aquino, Summa Theofogial', Ua-Jlae, quaestio 101, art. 4 [traduzione tratta da: http://www.preticattoÈici.it/Testi/Somma%20Teo)ogica/Somma%20Teologica.htm, N,iT.-l__._/ I2Terlulliano, Apologeticum 37,6-7 [testo italiano da cui è tratta la traduzione: http://www.tertullian.org/italian/apologeticum.htm. per un'edizione cartacea Difi'sa del cristinnesimo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2008, N.d.T.]. IJ Tommaso cl' Aquino, Summa contra Gel/ti/es m, 37, art. 7; trad. it. in La Somma contro i Gl'n/ili, a cura di TIto Centi, lITET, Torino 1978.
FINO Al CONFINI DEL MONDO
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Uscita nello spirito
Grideranno le pietre E però, non è forse vero che i mistici parlano dì distacco? Gli asceti non invitano forse a disprezzare i beni terreni? San Paolo esorta così i Colossesi: «Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2). Che siano state la creta di cui è fatta la mia bocca e la mia concupiscenza non del tutto sopita ad avermi fatto pronunciare parole ancora troppo carnali? Mi ricordo d1e anche nostro Signore esorta a non curarsi delle cose terrene: «Cercate anzirutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più}). È uno strano sovrappiù quello che io ritenevo fosse il minimo necessario per vivere! Ma, dal momento che così è scritto, cerchiamo il regno dei Cieli e infischiamocene del limone e delle sue limanate!. .. Però, per sgombrare ogni dubbio dal cuore, rileggiamo il passo più da vicino. Cosa dice Gesù subito prima? Quale considerazione lo conduce a impartire questo ordine? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non
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LA TERRA STRADA LJEL CIELO
valete forse più di loro? I...] Osservate come ereSCOJ10 i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche SéÙomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno dj loro. Questa poi! Salomone vestiva meno regalmente di un fiore selvatico? Anche un piccolo fiore appartiene dunque al Regno? E poi le parole di Cristo sono all'imperativo: «Guardate gli uccelli del cielo, osservate i gigli del campo», si tratta di comandamenti proferiti dal Verbo eterno. Dovrei dunque entrare in un confessionale e ammettere pietosamente come una colpa mortale: «Padre, ho peccato: non ho osservato abbastanza i denti di leone, non ho contemplato i piccioni .. ,». Una tale confessione potrebbe sembrare ridicola. Eppure, forse in tutto questo c'è una ragione per piangere. Piangere lacrime simili alla rugiada dell'aurora. li paradosso dì questi versetti a me così cari, mille volte commentati e mille volte inesauribiJi, è che il «Cercate prima il regno di Dio» è preceduto da un «Osservate i campi». AJlora da che cosa si deve iniziare? Bisogna cercare dapprima la terra per cercare anzitutto il Cielo? Qual è il senso di questa duplice priorità? In effetti, è solo dopo aver riconosciuto la divina Pr~~videnza nelle co~e più piccole, nell'org~nj~za~ zione del pidocchio per esemplO, oppure nella meravIglIa dI perfezione della più piccola cellula, più complessa delle nostre fabbriche più grandi, è solo dopo aver visto il Regno di Dio nella nostra polvere che possiamo abbandonarci alla sua Provvidenza che ci trascina verso il Paradiso. «Cercate anzitutto il Regno» non significa cercarlo altrove, ma incontrarlo già qui: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: "Eccolo qui", oppure: "Eccolo là", Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Le 17,20-21). E se venissero a mancare i testimoni, vi sarebbe
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ancora la terra a parlarci della gloria di cui è ricolma: «lo vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (Le 19,40). l sassi dentro un fosso gridano il loro osanna nell'alto dei cieli, la bellezza del creato vuole proclamarIo attraverso le nostre voci. Il distacco non consiste nel fuggire la nostra natura tUnana, nell'odiarJa per tornare a un pleroma d'invertebrati. Il vero distacco sta nel penetrare le cose terrene sino in fondo, sino alla loro Causa, sino alloro Fine, sino al Cielo che le abita. E se, deboli e ostinati come siamo, non lo facciamo, se ne incarìcano esse stesse: vengono a rompersi nelle nostre mani o a morire sul nostro petto, e il dolore, salutare come un sa.lasso, apre una breccia nei nostri cuori, costretti a chiedersi perché, perché ci teniamo così tanto a questi vasi così fragili. Le parole di Gesù: «Grideranno le pietre» possono riferirsi anche alle pietre dei sepolcri. L'esortazione a «cercare prima il Regno» non è altro che la ripresa e l'elevazione del primo comandamento trasmesso agli uomini: «Riempite la terra e soggiogatela» (Gen 1,28), vale a dire, prendetevene cura e contemplate il mio volto riflesso nelle creature. Mettiamocelo bene in testa: non esistono due mondi - se non per il diavolo e i suoi lacchè - ne esiste uno solo. Pertanto, è esattamente nella misura in cui amiamo il nostro prossimo che raggiungiamo l'Inaccessibile: «Clù infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). È esattamente nella misura in cui amiamo la terra che entriamo in Cielo: «Chi avrò per me in cielo? Con te non desidero nulla sulla terra» (Sal 73,25). Pensate anche alla parabola dell'amministratore fedele. Non per nulla i certosini scelsero per i loro monasteri splendide località di montagna, i trappisti folte e ricche aree di sottobosco, e i benedettini dissodarono e coltivarono le ampie distese pianeggianti di Francia e d'Europa.
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LA TERRA STRADA DEI. CIELO
Perché state a guardare il cielo? Quale ingombrante fardello appesantisce il nostro immaginario spaziale e la nostra 'mente, così lenta nel pensare e ancor più lenta nel credere! Noi parliamo di alto e basso, di dentro e fuori, di cielo e terra, come se lo spirito occupasse un luogo alla maniera di un corpo. Ora, queste sono solo convenzioni metaforiche. Siamo come i discepoli che, durante l'Ascensione del Crocifisso, fissano gli occhi sulle nuvole. Ciò vuoi forse dire che appartengono al cielo? No, hanno solo la testa tra le nuvole. Gli angeli in bianche vesti glielo rimproverano dicendo: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?», invitandoli a rivolgere lo sguardo verso terra per guardare più in alto: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo» (At l,H). «Allo stesso modo», cioè invisibilmente, poiché lo haIUlo visto sparire. D'altronde il testo non dice: «Tornerà» ma: «Verrà», poiché si tratta di lU1 evento interiore: la d~;;;:~ello Spirito a Pentecoste. L'Ascensione, infatti, è in realtà lU1a discesa, la discesa completa della gloria divina fin nelle ultime fibre della nostra carne, fino alle particelle più piccole della nostra argilla umana, l'ultimo stadio dell'Incarnazione. La Lettera agli Efesini lo esprime con profondità: «Ma che cosa significa "ascese", se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose) (Ef 4,9-10). È come un misterioso gioco d'altalena in cui, per salire da una parte, bisogna scendere dall'altra! Siamo disorientati a sufficienza? Sì- ma come la bussola che impazzisce perché il polo è vicino.
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L'ascesa di Cristo al Cielo equivale alla sua immersione nelle nostre viscere terrose. La sua umanità, ormai integralmente divinizzata, la sua sostanza corporea, divenuta totalmente gloriosa, al ptrnto di essere troppo abbagliante perché possiamo sosteneme la vista e troppo raggiante perché possiamo confinarla in un luogo qualunque, diffonde dappertutto le grazie acquistate nella sua Passione. Infatti colui che è asceso nel più alto dei cieli è lo stesso uomo che ha toccato il fondo, «l'uomo dei dolori», flagellato, appeso a lll1a croce, tradito dai suoi e abbandonato perfino dal Padre. Egli ha sposato e rivestito della sua divinità tutte le nostre angosce, tutto il nostro fango, tutte le nostre miserie, a tal punto che la sua Luce inonda ormai le nostre tenebre e che non esiste più un solo baratro in fondo al quale Egli non ci abbia preceduto e non ci stia aspettando. La promessa del Profeta - «La sua gloria abiterà la nostra terra» (Sal 85,10) - è quindi compiuta alla lettera dallo Spirito.
DomaruUz-test
Ora che siamo giunti al termine del nostro pellegrinaggio libresco, e ci accingiamo a posare nuovamente lo sguardo su una terra ormai rinnovata, vi pongo una domanda-test: «Dov'è il Cielo?)~. Chi mi addita le stelle non ha sbagliato del tutto, ma non va più lontano di colui che mi mostra un filo d'erba. In ogni caso, queste risposte sono meno buone di quella che mi indicasse per esempio il signor Franchon o un qualtmque insignificante individuo, a cominciare da se stessi, o meglio, dal più miserabile dei pezzenti. Ma il più esatto sarebbe colui
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LA TEI
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che mi mostrasse la cappella vicino casa sua e più precisamente la stretta porta del tabernacolo. Il Cielo è là dovJè Dio! Dobbiamo capire e credere, perché al momento non vediamo ancora. Dio è assolutamente presente in Se stesso nelle Persone della sua Trinità. InoltreJ Egli può essere presente alla sua creatura in tre modi: presenza di immensitàJ presenza di grazia e presenza di unione ipostatìca che appartiene esclusivamente all'uma~1ità di Cristo. La presenza di immensità è quella di cm abbiamo già parlato (male, per forza di cose!), ossia la presenza intima di Dio all'interno di ogni cosa come Causa immediata della sua esistenza. Quando la Trinità crea qualcosa ad esempio un fiorellino o un sassoJ lo fa unicamente per amore, visto che non ha bisogno di nulla e gli comunica il suo essere. Essa vi abita come in una «dimora in sovrappiù~}J per citare le parole dell'abate Journet l. Gu.ardate questa margherita: è come lU"l piccolo cielo. E anche il selciato di questa strada lo è. Perciò sono così belli quando la luce li illumina. Ma più lIna creatura partecipa delJe perfezioni divine J più essa è una dimora idonea per Dio e dunque un cielo più grande. Quindi il signor Franchon è un microcosmo più perfetto del firmamento stesso. Non cJè bisogno di partire per Betelgeuse o per la costellazione della Giraffa: il cuore del mio vicino è più abissale degli spazi galattici. La volta celeste è meno eccelsa di un bimbo piccolissimo. Sì, il nostro prossimo, anche se fosse una persona qualunque e completamente grigiaJ ci conduce più lontano delle più remote stelle. L'Ascensione di Cristo, però, ci ha donato un'altra forma di presenza divina, che ci rende partecipi della sua stessa natura: la presenza di grazia. Grazie a essa, l'abisso ontologico che pennane tra la creatura e il Creatore è in qualche modo colmato dall'amore di Quest'ultimo. Per un mistero
insondabile di Misericordia, la grazia fa entrare la nostra miseria e il nostro fango in comunione di vita con la Trinità stessa. E san Tommaso può scrivere questa verità, troppo poco conosciuta dagli stessi cristiani: «Il bene di Wl individuo nellJordine della grazia è superiore al bene naturale di tutto l'universo)} 2.
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Di conseguenza un bimbo battezzato nella sua culla è più immenso dell'intero cosmo. Egli è nato dall'alto J da qualcosa di ben più alto e remoto del Big Bang, da quell'esplosione d amore e di verità che è il seno dell'Altissimo. E un criminale pentito, anche se per una invincibile ignoranza fosse stato anticristianoJ o avesse bruciato case e violentato bambine, in virtù del Perdono divino diviene più terso e più puro della luce di tutti gli astri. Infatti la Trinità abita nel suo cuore, infondendogli la sua Vita stessa. Ecco fino a che punto arriva la follia di Dio. Ma cJè qualcosa di ancora più grande, che fa del nostro pianeta il centro dell'universO J almeno da quando esiste una Terra Santa e da quando sul Calvario è stata irmalzata la Croce: Dio ha vissuto sul nostro suolo maledetto; Egli ha assunto in sé la nostra natura J facendosi uomo ed ebreo, in una presenza ipostaticaJ la più alta e profonda che ci sia e la più inesprimibileJ dal momento che Gesù di Nazaret è il Verbo Uno della Trinità! Ha1U1O ragione di invidiarci gli extraterrestri e tutti quegli esseri ragionevoli - ammesso che esistano - i quali, al di là del nostro sistema solare attendono la nostra evangelizzazione. Certo, possono ricevere la grazia a distanza, ma non hanno il piacere di poter pronunciare il nome di Gesù, non sperimentano quelle grazie intimeJ quelle carezze di Dio che sono i Sacramenti, non hanno visto la Verità germogliare dal loro suolo. Non conoscono il nuovo Adamo, il nuovo figlio della terra.
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Sotto specie agricole Questa presenza sostanziale non è sta la altro che il breve privilegio dei discepoli che, sotto Ponzio Pilato, percorsero la Palestina accanto a Lui, al Cielo fatto terra? No, poiché, «per consolarli della sua partenza - scrive l'abate Guerric d'IgnyJ - egli inventò questa nuova forma di presenza [il sacramento del suo corpo e del suo sangue]; cost pur lasciandoli e privandoli della sua presenza corporea, non solo restava con loro, ma addirittura dentro di loro e in mezzo a loro, in virtù di quel sacramento~>.1. Tale è la violenza dell'amore di-Dio per noi che Egli si offre ogni giorno in modo sostanziale alle nostre bocche fetide, ai nostri denti cariati, ai nostri stomaci inaciditi. Vuole che mastichiamo la sua Eternità. Vuole che deglutiamo l'Infinito. Ma l'Amore che ingoiamo è più forte di noi, ed è Egli, in fin dei conti, a divorarci. CosÌ, il frutto della terra e del lavoro dell'uomo si tramuta miracolosamente nella perfezione celeste. Il frumento dei campi e l'uva dei vigneti, tutti prodotti che un tempo venivano fomiti dalla pietà dei monaci contadini, si ritrovano oggi nelle offerte eucaristiche e, al momento della consacrazione, si trasformano in quel Corpo e in quel Sangue nei quali abita la pienezza della divinità. Una volta ho letto la storia vera di un re che amava lavorare tra le vigne e i campi di grano: voleva scegliere egli stesso le spighe più belle e ì grappoli più vennigli con cui sarebbero state preparate le offerte eucaristiche; sapeva che non vi era occupazione più regale. Non fosse altro che per questo motivo, il cristiano deve prendersi cura del suolo, meravigliarsi del più piccolo seme e venerare le macine: in definitiva, al di là della cultura «bio» oggi tanto di moda, deve elaborare una cultura «teo», che non si preoccupi solo della sa-
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Iute ma anche della santità, e contempli con reverenza e tre-
more quei cibi terreni che possono essere transustanziati in Pane degli angeli. . S~tto le sembianze di un pezzo di pane azzimo e di un po' di VInO, che per esistere hanno bisogno di tutta la nostra terra e dell'alternanza delle stagioni, il Cielo si fa presente tra noi. Per un istante il nostro corpo arriva a possedere il suo Amato, e con Lui, dato che Egli è il Creatore, tutte le nazioni, tutti gli uomini, il suo stesso vicino - il signor Franchon _ e l'eventuale abitante di Proxima Centauri, la sua casa di mattoni grigi, i vivi e i morti. Per un istante l'Onnipotente entra nelia nostro frammento, l'Inunensità del Cielo si scioglie nella nostra bocca, passa per la nostra gola e diffonde la sua grazia dal profondo delle nostre viscere. Ma resta ancora con noi in quella chiesetta, attorno alla quale un tempo ruotavano la vita del villaggio e j lavori dei campi. Essa è lì, all'angolo di una strada, al di là delle macchjne che sfrecciano rumorose ignorandola, e dei passanti frettolosi che non si fanno più il segno della croce. Dove crediamo di andare? Perché questi paraocchi, che d spingono a cercare altrove? Dobbiamo aspettare di essere sottoterra carezzati dalle radici dei denti di leone? Ci vorrarmo l'oscurità della tomba e l'inumazione profonda per farcì finalmente riconoscere il tenue chiarore e l'amore celati sotto i pesanti terrapieni 5 che sostengono le nostre strade?
Beati i miti Dio è presente ovunque sulla terra, e specialmente, con la sua grazia, nei cuori miti e umili. Poiché è l'Altissimo, Egli è anche l'Infinitamente Basso. Poiché è il Trascendente, Egli è
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anche J'Onnipresente. Gli umili e i docili sanno che Egli fa sì che tutto concorra alloro Bene, che il sassolino nella scarpa, la pozzanghera, lo scoglio e il pantano 6 sono, per così dire, l'anticamera della sua santa Dimora. Perciò si abbandonano alla sua Volontà. E, dove questa Volontà si compie, noi viviamo sulla terra come fossimo in cielo. Quando la nostra anima ha la fortuna di possedere una scintilla di carità divina, quando è lacerata dalla sete di giustizia e dall'amore per i poveri, essa possiede Dio realmente e sostanzialmente quanto nella vita eterna. I nostri occhi da pipistrello, le nostre pupille da talpa ci impediscono di fissare questo Sole, ma ne abbiamo la certezza grazie al battito delle nostre ciglia, sappiamo che c'è perché sentiamo il bisogno di chiudere le palpebre e di cercare al di là dell'intelaiahJ..ra del visibile. Per ora lo cogliamo soltanto nella notte della fede, inchiodati a quella croce che viene a mettere alla prova e a dilatare il nostro essere. Lo contempleremo come in pieno giorno solo dopo la nostra morte, che non sarà tanto l'uscita dell'anima dal corpo, quanto l'ingresso in essa della Sua luce, e questa le darà la forza di sostenere f.inalmente il Suo sguardo. Non sarà la realtà della Sua presenza a essere cresciuta, ma la nostra capacità di percepirla. Allora Lo vedremo così com'è, e conosceremo cieli nuovi e una Terra nuova. «Beati i miti, perché erediteranno la terra»: questa beatitudine ci porta a chiamare «terra» il Cielo. E in effetti esso è davvero la nostra Terra, la nostra Patria definitiva, in quanto non solo è più ricco di bellezza e varietà di tutti i paesaggi che abbiamo conosciuto, ma racchiude anche al suo interno tutti i paesaggi non ancora manifesti, e la nostra stessa patria, vista nel suo eterno zampillio. Se i santi hanno il desiderio intenso di lasciare questa terra, non è perché ne siano
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disgustati, nient'affatto! È perché essa offre loro un assaggio di Paradiso! Essi aspirano a quella Terra infinita a cui rimanda 1'amore per questa piccola terra. Vogliono camminare su quella Terra dei viventi in cui, immersi nella Vita di Dio, potranno finalmente vedere in volto anche i loro cari, e abbracciare dall'interno il loro suolo natale.
Quando tra poco lascerò questo mondo ... La mia morte, con la grazia di Dio e la paura che mi purificheranno dal mio residuo orgoglio, non mi farà vivere altrove, ma altrimenti. La mia morte non equivarrà a un'uscita spaziale della mia anima da questa terra, lontano da mia moglie e dalla mia patria, la Franci~, e '~all'altra mìa patria più lontana, l'Africa, come se quest'anima fosse un corpo. Essa sarà il momento in cui la mia anima risalirà al Principio di tutte le cose, e insieme a Lui, i..mrnerso nella sua luce abbagliante, abbraccerà la terra intera, Betelgeuse inclusa, con tutto ciò che ha amato in essa - poiché tutti gli istanti del tempo sono presenti all'Eternità -, e tutto ciò che gli resta da amare. Sì, vi possiederò finalmente dall'interno, moglie mia e figlie mie, miei compagni e nemici, e in modo tanto più pieno quanto più sarò stato capace di perdervi per amore del Signore. Vi abbraccerò con le mani di Dio, con il Corpo di Dio, con l'Amore di Dio, e nell'ora della resurrezione, sotto il Sole della Misericordia, ci doneremo di nuovo fisicamente gli unì agli altri: il nostro stesso fango sarà ricolmato di luce, le nostre strette di mano faranno scorrere fiumi, nei nostri sguardi passeranno i segreti della storia. Allora la gloria di Dio splenderà visibilmente sulle lande oscure. E noi saremo contadini della Luce.
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«Ora et labora», recita il motto benedettino, vera formulachiave per una vita di benedizioni. Prega e lavora, ossia contempla e fatica. Fatica con l'anima e contempla con le mani. Muta la hta spada in vomere, traccia ogni solco come se fosse una preghiera, canta ogni versetto come se fosse un seme, e scava, scava nel profondo di ogni cosa fino a Dio.
È Chatles Joumet, che parla di «inhabitation de surcroit» in L'ÉgUse du Verbe incamé. Essai de /héoJogie de l'!Jistoire du salill, Saint-Auguslin, SaintMaurice 1998,S voli., vol.lV, p. 149 [N.d.T.]. 'Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, la llae, quaeslio Jl3, ilTt 9, 2 [testo italiano online, da cui è traUa la traduzione: http://www.prencaUoJiciit/ Testi/Somma%20Teologica/Somma%20Teologica.htm. Per un'edizione cartacea cfr. La Somma teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996-1997,
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dere con un'alrra immagine più vicina all'uso italiano; lo stesso vale per omière (Iett. «carreggiata», nel senso originario di solco lasciato dal carro, in cui era facile sprofondare e restare impantanati), che è stato reso con «pozzanghera» [N.d-T].
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.)
N.d.T.].
)Si tratta del beato Guerric d'lgny, nato tra il 1070 e il 1080 il Tournai (Belgio) e morto nel 1157 presso l'abbazia di 19ny (Francia), dapprima monaco cistercense e in seguito abate di 19ny. Gli oltre cinquanta sermoni da lui lasciati lo collocano tra i maggiori autori spirituali del Medioevo [N.d.T.].
'Guerric d'Igny, Senno iII Ascensiottem, I, «II dono dell'Eucaristia» [trad. dal sito ufficiale del Vaticano: http://www.vatican.va/holy_father /specialjea tures/eucharist/documents/ eucharist-guerric-igny_it.htm\; per un'edizione ca.rtacea Guerrico d'fgny, Sermoni, a cura di Oscar Testocù, Qiqajott, Magnano BI 2001, N.d.T.]. S L'originale ha rembJais, termine indicante sia i «terrapiecù» in generale, sia, più specificamente, i «rilevati», ossia quei cumuli di lerra, linùtati lateralmente da scarpate o muri di sostegno, sulla cui sonunità corre i.1 piano stradale o ferroviario. Entrambi simboleggiano la terra finta e artificiale delle «costruziocù" wnane, contrapposta a quella vera, naturale, colma di luce e d'amore, che si cela soH'o di essa. Si è preferito «terrapieni» per l'elevata tecnicità e prosaicità del termine «rilevati» [N.d.T.]. 6Tre «luoghi» che sono altrettanti simboli della difficoltà. La metafora spaziale prosegue poco dopo con parvis,lett. «sagrato», che si è preferito ren-
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Indice
11
lngresso nella materia Attesa dell'extra-terrestre, 11 Mistero del vicino, .12 A diecimila leghe di distanza, 13
PARTE PRlMA
UN TERHENO PER LA
I
MET~'F-.!§~CA
19
Del letame che giova aHo spirito. Teorie della conoscenza e misconoscenza della terra Il cogito in vestaglia, 20 Kant e la lanterna magica, 23 L' iml11ol1dializzazione, 24 L'anima umana, zona di confine, 26 La carne del metafisico, 28 Lavoro manuale e contemplazione, 30 La «Slube» e la cella, 32
37
II marmo e il fango. Tre tentazioni: manicheismo, panteismo e agnosticismo L'opera del malvagio demiurgo, 37 lA Dea-Madre, 38
II bambino abbandonato, 40
87
Fino ai confini del mondo. Cattolicesimo e identità Estendi il tuo dominio fin nel cuare del tuo nemico, 88 Oltre le avanguardie e alla sorgente delle tradizioni, 90 A 1111 Unciare Colui che è già qui, 91 Vivere la propria terra fino a/l'estremo, 93 Penetrare le cose fino a renderle vergini, 95 La virtù della pietà, 97 Tra il padre e il Padre, 98 Mistica e politica, 101 La Chiesa, madre delle città, 103 Per un ministero dello stupore, 105
111
Uscita nello Spil;to Grideranno le pietre, 111 Perché state a guardare il cielo?, 114 Domanda-Iest, 115 Solto specie agricole, 118 Beati i miti, 119 Quando tra poco lascerò questo mondo ... , 121
125
Bibliografia
Distanza e intimità, 42
45
NeJ.la sua mano sono gli abissi della terra. Trascendenza e immanenza di Dio Il Padre nel pidocchio, 45 La causa delle cause, 47 L'oggetto strisctiante non id(?11tificato, 49 Lo scandalo del bene, 50 L'Intelligenza divina vicino alle margherite, 52 Attenzione al gradino, 54 Le cose 110/1 sanno mentire, 55
PARTE SECONDA
UN CiELO PER PATRIA
61
73
Icaro, Anteo e Ulisse. Srarucamento o odissea Decollare dall1Clsso, 62 Il nemico dei migranti, 64 Antigone o Medea?, 66 Esilio originario, 68 Vattene dal tuo paese verso il paese. Dalt'Esodo alla Terra Promessa Il volto umano nella sua nudità, 74 Gli ulivi che tu non hai piantato, 76 Meglio una diaspora giusta che una dimora criminale, 78 Accecamento dei costruttori, 80 Lo «s/zabbat» della terra, 81 II primo compito della politica, 83 Lo via e l'ostacolo, 84
Fabrice Hadjadj, nato a Nanterre nel 1971 da genitori ebrei di origini tunisine e convinzioni maoiste, si definisce «un ebreo di nome arabo e di confessione cattolica». Al cattolicesimo è approdato dopo una giovinezza trascorsa tra l'ammiIazione degli ideali rivoluzionari della Comune dì Parigi e l'inunersione nella letteratura dei grandi nichilisti del '900. È professore di filosofia e letteratura al liceo Sainte-Jeanne-D'Are e al seminario diocesano di Tolone, ma è soprattutto un filosofo, autore di una decina di libri in forma di saggi e drammi teatrali.
In copertina: Giovanni Segantini, L'amore al/a fonte della vita (1896).
ISBN 978-88-7180-857-4
Fillilo di stlllllpnre nel mese d/luglio 2010 presso Grnftcl1e Snrl Benedetto - Cl1slmcido (FR) per conio di Lindnll - TorlllO
9
788871 808574
€ 14,50 lva assolta dall'Editore