Joannes Yrpekh
Il Cammino di Maat Luci sull’antica sapienza egizia
La citazione in copertina: “…poiché non esistono saggi per nascita”, è tratta dal prologo de Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (41).
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Alla memoria di Antonio, un seguace di Horus della nostra epoca.
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INDICE
Ringraziamenti Premessa Introduzione I. L’INSPIEGABILE NOSTALGIA Cosa si nasconde dietro il linguaggio geroglifico I limiti della razionalità La riscoperta dei simboli Un archeologo alieno Principi cabalistici Simboli vivi e simboli artificiali Sulla soglia dell’antico Egitto Il mistero della vita La terra d’Egitto La scienza degli dei I geroglifici si rivelano Il Tao egizio II. SULLA SOGLIA DEL TEMPIO Una civiltà solare Coscienza osiridea e coscienza horusiana La mitologia dell’Essenza L’Egitto biblico La ricerca della perfezione La teocrazia faraonica Le corone della vita L’arte del cambiamento La natura dei conflitti Il servizio disinteressato III. CON NUOVI OCCHI La Casa della Vita Due livelli di insegnamento La meta della felicità Il valore dell’amicizia L’Insegnamento Universale La funzione di un maestro e di una scuola Il metodo
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L’importanza della gratuità La struttura dell’essere umano La conquista dell’immortalità Il desiderio di esistere L’arte di ascoltare il proprio cuore L’uovo-microcosmo Energia ed Essenza Il contatto con il divino IV. OLTRE IL PENSIERO La pesatura del cuore Libro dei morti o libro dei vivi? La consapevolezza del proprio destino Il contrappeso Il verdetto della bilancia La forza attrattiva delle illusioni I differenti piani di esistenza Il nuovo Egitto Attraverso le ere L’eone di Maat La comprensione dell’Amore L’arte di ascoltare Tutti sotto un unico cielo V. L’ADDIO Conclusione Bibliografia
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Ringraziamenti Un ringraziamento particolare alla mia compagna di viaggio in questa vita; averla al fianco fa sorgere in me ogni giorno il desiderio di smascherare le illusioni che mi impediscono di poterla amare sempre più profondamente. Un ringraziamento a Sergio per la passionale rilettura e correzione del presente lavoro, e alla sua compagna Daniela per non essersi fatta scoraggiare dalle avversità del passato, ritornando più che mai salda e sincera nella danza della vita. Un ringraziamento agli amici del Lectorium Rosicrucianum per aver rinnovato in me la gioia di poter condividere le avventure del Cammino.
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Premessa
Questo libro tratta di SPIRITUALITÀ. Ma cosa significa questa parola? Si potrebbe traslitterare con amore verso il prossimo, oppure contatto con il divino, ma tali definizioni sono ancora troppo evanescenti, troppo lontane da una comprensione quotidiana, troppo soggettive e fraintendibili; da un certo punto di vista, troppo comode. Il significato che qui assume la spiritualità è quello di CONSAPEVOLEZZA, di se stessi, degli altri, dei rapporti, della vita in generale. In altre parole, spiritualità è il RISVEGLIO dal torpore di un’esistenza abitudinaria, fondata sulla mediocrità del tutto automatica e priva di ogni impulso creativo. La spiritualità è LIBERTÀ, in primo luogo dall’illusione di essere già liberi, in secondo luogo dai condizionamenti, dalle identificazioni, dal cieco egoismo. La spiritualità non è dunque un preciso e definibile stato di coscienza, ma è un processo, un percorso graduale, un CAMMINO appunto, che conduce verso una leggerezza d’animo. Si possono allora individuare alcune caratteristiche fondamentali con cui affrontare questa meravigliosa – per quanto spesso faticosa – avventura: l’UMILTÀ, ossia la predisposizione a mettersi costantemente in gioco di fronte all’imprevedibilità della vita, la SINCERITÀ di voler intimamente riconoscere ed accettare quanto passo a passo i propri comportamenti, parole e pensieri, riveleranno della propria attuale natura e condizione; l’ONESTÀ nel far fronte alla moltitudine di paradossi, dissonanze e discrepanze tra il mondo delle convinzioni personali e il mondo del reale. E ancora il CORAGGIO di affrontare a testa alta le proprie paure e la RESPONSABILITÀ di riconoscersi come protagonisti all’interno del gioco della vita, e non più come semplici spettatori inermi. Ovviamente, non è necessario aderire ad un credo o ad una religione per rendere spirituale la propria vita, giacché questo implica l’assunzione di un approccio concreto all’esistenza incontenibile da un qualsivoglia ideale o filosofia.
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Introduzione
Il presente trattato non ha pretese di scientificità, perlomeno non come comunemente la si considera. L’obiettivo è quello di evocare la ricchezza della civiltà egizia attraverso una visione simbolica, assumendo in tal senso una prospettiva esoterica, dal greco esoterikos, ossia INTERIORE. Nulla a che vedere dunque con l’occultismo o lo spiritismo. Invito dunque il lettore a farsi prendere per mano per compiere un viaggio in un mondo a mio avviso ancora troppo inesplorato; un viaggio onirico i cui riflessi si possono però ritrovare chiaramente dentro la struttura animica di ogni essere umano. È probabile che molte considerazioni che verranno qui esposte potranno non essere condivise dai lettori di stampo prettamente egittologico, da ciò la mia premessa di non volermi schierare contro nessuna metodologia archeologica classica, ma di voler solo offrire una chiave di lettura alternativa di carattere psicologico, filosofico, religioso, in definitiva, spirituale. Non posso in tal senso non manifestare la mia gratitudine alla schiera di egittologi che da più di duecento anni hanno cercato di recuperare e ricostruire l’immagine della civiltà faraonica, mantenendone sempre viva l’attenzione e l’interesse. È proprio grazie alla divulgazione delle loro ricerche e delle loro testimonianze litografiche prima e fotografiche poi, che è possibile librarsi in volo verso nuove esplorazioni interiori proprio come da un trampolino di lancio. Molti grandi uomini della nostra epoca – noti e non – hanno dedicato buona parte della loro vita al tentativo di evidenziare tali spunti di riflessione, a mio avviso di un valore per nulla inferiore agli approcci storiografici di stampo accademico. Le considerazioni presenti in questo lavoro sono dunque frutto di esperienze dirette, studi, osservazioni effettuate sul campo della vita quotidiana e accurate riflessioni compiute intorno a diversi testi e testimonianze orali che si tramandano da secoli. Volgo al termine di questa introduzione con un solo augurio: che nulla di quanto sarà qui di seguito esposto possa divenire una considerazione conclusiva intorno ad un universo simbolico di una 13
portata vitale impossibile da racchiudersi all’interno di sterili classificazioni, così come non è possibile contenere entro argini artificiali e definiti la vitalità di un fiume in piena. Non nascondo infatti le difficoltà nell’esporre in forma sequenziale una dottrina di natura tutt’altro che analitica, e a tal proposito mi affido allo sforzo del lettore nel cercare di assimilarla in una visione vitale e compenetrata, dove ogni concetto non segue né precede un altro, ma dove tutti coesistono simbolicamente legati tra loro come cellule di un unico organismo. Ogni parola spesa in merito ad un messaggio spirituale di natura simbolica sarà infatti nel migliore dei casi un’onesta menzogna, nel senso che non potrà non tradirne il profondo messaggio evocativo, per sua peculiarità situato ad un livello superiore al comune linguaggio del pensiero. Esorto dunque il lettore ad accogliere ogni nozione che verrà qui esposta unicamente come un modesto tentativo di offrire spunti di riflessione per un’indagine interiore del tutto intima e personale. Ogni due capitoli, lo scritto sarà inoltre intervallato dal racconto di un giovane cercatore della Verità nell’antica terra d’Egitto, la cui avventura proverà ad accompagnare il lettore nel cuore dell’insegnamento faraonico.
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La ricerca di Ak-Yb-Ka I. L’INSPIEGABILE NOSTALGIA
Ak-Yb-Ka era ancora molto giovane, ma già vedeva intorno a sé i suoi coetanei divertirsi e godersi spensieratamente la loro adolescenza, perfettamente immersi nelle innumerevoli distrazioni che un paese come l’Egitto poteva offrire ai suoi figli. Inoltre, molti di loro non avevano dubbi sul futuro che li attendeva; alcuni si allenavano con tenacia alla lotta sognando di divenire grandi condottieri, altri si cimentavano nei rudimenti della scrittura per poter presto ricoprire un lavoro di rilievo nella società, altri ancora perfezionavano l’intelletto giocando al senet per imparare l’arte della strategia politica e della diplomazia. Ma lui, nonostante cercasse nei modi più disparati di svagarsi o di dare un senso alla sua vita, non riusciva a liberarsi da quel profondo senso di vuoto, quell’inspiegabile nostalgia. Per quanto potesse infatti lasciarsi trasportare da frequenti e facili entusiasmi, una velata tristezza tornava presto a ricoprire il suo cuore. Si sentiva solo, disperatamente solo. Eppure era circondato da una famiglia affettuosa e premurosa, e da molti amici con cui aveva un forte legame. Cercava ardentemente delle risposte per quella sua incolmabile insoddisfazione nella religione, trovandovi a volte anche delle spiegazioni convincenti. Ma come è fragile la logica nel mezzo della danza della vita! Eppure, ogni tanto avvertiva un flebile sussurro che dal profondo del suo essere gli suggeriva che ben altro si celava dietro ai racconti mitologici, alle monumentali costruzioni, ai simboli che lo circondavano ovunque, alle cerimonie e ritualità ricorrenti. Poteva il mondo essere realmente sorretto dai tanti dei dall’aspetto antropomorfo? E dove si nascondevano? E come giustificare il senso di ingiustizia che permeava la vita intorno a lui?
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No, dietro tutto ciò doveva necessariamente nascondersi qualcosa di diverso, un altro tipo di conoscenza. Tutta la sua curiosità iniziò a rivolgersi verso ciò che si celava dietro al Tempio, oltre la sua funzione manifesta cui tutti sembravano accontentarsi, nell’ineffabile Scuola dei Misteri che lontano dagli occhi del mondo operava silenziosamente. L’intero popolo d’Egitto era consapevole di questo nucleo di persone, di questi grandi saggi cui il faraone stesso apparteneva. Ma nessuno sapeva nulla di più, nessuno ne conosceva l’identità oltre a quella visibile del re. Coperti infatti dal voto di sacra umiltà, quei sapienti vivevano nel mondo quotidiano nelle insospettabili vesti di qualsiasi funzione sociale, dagli scribi agli artigiani, commercianti, pescatori o contadini. Sì, non vi erano più dubbi ormai, Ak-Yb-Ka riconobbe chiaramente ciò che il suo cuore desiderava ardentemente: entrare a far parte della Scuola della Vita, fino alla sfera più intima di essa, lì dove ogni segreto cessa di essere tale. Fu così che si mise in viaggio attraverso tutto l’Egitto, guadagnandosi da vivere con umili mansioni sempre diverse, e nella speranza di arricchirsi il più possibile di quelle occulte conoscenze che gli avrebbero con certezza aperto le porte del Tempio Interiore.
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Cosa si nasconde dietro il linguaggio geroglifico
I limiti della razionalità Alla nostra cultura occidentale piace considerarsi fondata su una mentalità scientifica e razionale. Tutto sommato, anche noi siamo felici ed orgogliosi di considerarci tali, indipendentemente da come poi viviamo realmente la vita. Tale presupposto è ormai divenuto garanzia di serietà, obiettività, pragmaticità, insomma, di un approccio lucido e maturo verso gli eventi dell’esistenza. Eppure, in molte occasioni non possiamo non ammettere di nasconderci dietro questa così nobile modalità operativa. Significative appaiono a tal proposito le parole dell’egittologo John Anthony West. Sono i sensi a favorire lo scetticismo. Quando scienziati e intellettuali sostengono che è la ragione a imporre loro l’ateismo o l’agnosticismo, hanno torto. Semplicemente, non sono riusciti ad applicare la loro razionalità ai dati relativi e provvisori riverberati dai sensi.1
Ogni fenomeno che può spaventarci o che richiede in noi uno sforzo anche solo concettuale per poter essere compreso, non rientrando nella nostra ordinaria visione del mondo, tende ad essere negato o ridimensionato nella sua portata con poche semplici parole: sono un tipo razionale con i piedi per terra, io. La verità, è che siamo costantemente in lotta per mantenere in piedi le rudimentali certezze su cui basiamo quotidianamente le nostre scelte di vita, e nelle quali vogliamo ancorarci per affrontare il futuro. In rari casi una sincera curiosità ci spinge ad affrontare il nuovo per conoscerlo, liberi da pregiudizi e da aspettative. In questo modo, passo dopo passo, ci illudiamo di vivere nel migliore dei modi, issando ogni volta la bandiera della verità, cui ci sentiamo ovviamente detentori in quanto membri effettivi della civiltà più evoluta che la storia abbia mai visto. 1
John Anthony West, Il serpente celeste, Corbaccio, Milano, 1993.
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Ma esistono realmente le prove di questo assunto? È tale convinzione una reale sicurezza nelle nostre virtù, o è forse una scorciatoia per compensare un vuoto di insicurezze che dal fondo di noi stessi reclamano il loro diritto ad essere affrontate e rimesse in discussione? Proviamo ad esaminare più da vicino la semplice vita quotidiana che accomuna tutti quanti. Anche perché lo scopo di tale trattato è proprio quello di parlare di noi, del nostro mondo interiore più che di quello esteriore, perché è qui che troveremo le “prove” dell’esistenza di un attuale antico Egitto, oltre gli schemi classici convenzionali. Approfondiamo dunque il nostro approccio razionale alla vita in relazione ad un approccio chiaramente simbolico e ben conosciuto da tutti: la PUBBLICITÀ, i cui fondamenti poggiano sulla scienza del comportamento umano. Per esempio, chiunque di noi, aggirandosi tra gli scaffali di un supermercato alla ricerca di una confezione di biscotti, sarà propenso a lasciarsi attrarre molto più facilmente da un’etichetta nota piuttosto che da una sconosciuta. Se poi la marca è stata ripetutamente vista o sentita in televisione, le probabilità aumentano vertiginosamente. Ma da cosa è guidato questo strano impulso d’acquisto? Dal fatto che negli spot vengono illustrate e dimostrate nel dettaglio la provenienza delle materie prime, la loro preparazione tradizionale senza l’aggiunta di sostanze additive dubbie per la nostra salute? Il tutto magari attraverso un rigoroso metodo scientifico e razionale che ne certifica l’indiscussa qualità? Facile immaginare la risposta. Qualsiasi azienda con un minimo di senso commerciale, saprebbe di buttare via i soldi nell’investire in una propaganda di questo genere. Buona parte degli stimoli pubblicitari fanno leva su caratteristiche che con il prodotto non hanno quasi mai una reale relazione. Basti pensare proprio alla famiglia perfetta cui tutta la felicità sembra ruotare intorno a una merendina, o alla frequente associazione che vede a fianco di un nuovo modello di auto una splendida modella. Gli esempi potrebbero continuare per pagine e pagine, ma ciò che ci interessa ora è constatare come tutte le strategie psicologiche siano edificate sulla base di tre materie prime indissolubilmente legate tra loro: EMOZIONI, ILLUSIONI e DESIDERI.
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Nel profondo di noi stessi, nel nostro intimo, siamo molto più attratti dall’idea – seppur evanescente ed illogica – di ritrovare forse un po’ di quella felicità che viene presentata, piuttosto che dirigere in modo razionale, obiettivo e scientifico la nostra attenzione verso aspetti che sappiamo essere di gran lunga molto più importanti e seri, ad esempio gli ingredienti di un alimento che potrebbero influire sulla salute, o le caratteristiche tecniche di un’auto necessarie e sufficienti per l’utilizzo reale che ne andremo a fare. Non è necessario scandagliare ulteriormente tutti gli ambiti in cui la nostra stabilità razionale viene a mancare, anche perché tali tentativi di condizionamento sono talmente presenti e ramificati, che in molti casi è addirittura impossibile delineare quella linea interiore che separa ciò che siamo realmente da ciò che le forze esterne concorrono a delineare della nostra immagine. La verità è che oggi più che mai, specialmente nell’ambito delle scienze umane, si è giunti all’inequivocabile conclusione che i fili che muovono la nostra vita sono tutt’altro che razionali. Se è pur vero che i recinti della nostra cultura sembrano nettamente stabiliti entro limiti logici e di parvenza scientifica, è anche fin troppo evidente quanto all’interno di essi si muovano caoticamente un marasma di impulsi soggettivi, irrazionali, incoerenti ed instabili. Eppure, alla prima occasione troviamo sempre la forza di riaffermare: sono un tipo razionale con i piedi per terra, io.
La riscoperta dei simboli Il mondo scientifico ha attraversato negli ultimi cinquant’anni una rivoluzione paradigmatica senza pari che lo ha portato a mettere in discussione alcuni fondamenti su cui si è sempre poggiato, primo fra tutti il fatto che non può esistere una modalità conoscitiva di tipo oggettivo, ma ogni osservatore – per quanto si sforzi di rimanere neutrale di fronte ad un fenomeno che vuole studiare – diviene inevitabilmente un PARTECIPATORE, nel senso che non potrà non influire su ciò che intende esaminare, con le sue aspettative, con le sue idee, con le sue esperienze, con il fatto stesso di esistere. Altro punto essenziale, protagonista del capovolgimento di prospettiva, è stato il riconoscimento dell’inadeguatezza del 19
linguaggio razionale nell’esprimere ciò che progressivamente il linguaggio simbolico matematico portava alla luce. La realtà che si è dispiegata agli occhi dei grandi ricercatori delle diverse discipline scientifiche, appare incomunicabile tramite i comuni canali logici, attraverso i quali non potrebbe che scontrarsi in continue definizioni contraddittorie. Pensiamo ad esempio al fenomeno della dualità onda-particella, per il quale la natura della luce può essere osservata e descritta sia tramite caratteristiche corpuscolari che ondulatorie, due aspetti razionalmente inconciliabili tra loro. Ciò che potrebbe sembrare un koan zen, è divenuto invece un assunto scientifico. È sorta quindi l’esigenza di rivolgersi a strumenti comunicativi più evoluti, in grado di sopperire alle limitate restrizioni del linguaggio e della logica umana. Quale migliore strumento del linguaggio simbolico? Come affermò Georg Groddeck, principale fonte di ispirazione del pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud: i simboli non sono inventati; esistono, appartengono all’inalienabile patrimonio dell’umanità; si potrebbe anzi dire che tutti i pensieri e le azioni coscienti sono la conseguenza inevitabile del processo inconscio di simbolizzazione, e che la vita dell’uomo è governata dai simboli. 2
Abbiamo precedentemente messo in risalto come i messaggi simbolici, che sono il campo di studi e di applicazione nell’ambito pubblicitario, assumono la stessa importanza anche per i moderni sistemi didattici, i quali ne hanno riscontrato l’elevato grado di efficacia nella sfera dell’apprendimento. Passiamo ora a cercare di capire più nel dettaglio cosa sia in realtà un simbolo. L’etimologia greca della parola, symbàllò, è la forma verbale che significa METTERE INSIEME, legare tra loro parti separate. Essa costituisce un mezzo per indicare qualcosa che va oltre se stesso attivando un pensiero di tipo associativo, una naturale funzione della mente umana, molto più profonda ed efficace di un pensiero di tipo lineare e razionale. Consideriamo per un attimo il classico simbolo del dollaro (figura 1), da sempre il più rappresentativo per tutto ciò che riguarda 2
Georg Groddeck, Il libro dell’Es, Adelphi, Milano, 1990.
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il mondo del denaro. La maggior parte delle persone di questo pianeta assocerà alla vista di questa immagine una serie di concetti ed emozioni relativi agli affari, all’economia, al potere di acquisto, alle banche. Altri potrebbero associarlo alla corruzione, alla malavita, alla causa della povertà nel mondo, ed altri ancora ai propri sogni di ricchezza, di successo e fama, di vincita a qualche lotteria. Si potrebbe scrivere un intero libro per racchiudere tutte le associazioni possibili che un simbolo del genere è in grado di risvegliare nell’essere umano, ma ciò che si può facilmente constatare è come esso sia a tutti gli effetti una sorta di chiave in grado di aprire la porta ad un flusso di emozioni, aspettative, idee e pregiudizi.
Figura 1 – Il simbolo del dollaro.
I simboli hanno dunque una portata molto più ampia, veloce ed impattante di ogni qualsivoglia concettualizzazione; essi utilizzano infatti una canale comunicativo che veicola contemporaneamente sensazioni e ragione, agendo direttamente sul nostro lato inconscio. Pensiamo ad esempio alla croce cristiana, la cui sola immagine può evocare in un breve istante aspetti religiosi, mistici, devozionali,
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oppure può richiamare scene di guerre sante, inquisizioni e genocidi in virtù di una conversione forzata. Se ci sforzassimo di mettere in parole tutto ciò che racchiude il simbolo della croce per poter trasmettere pienamente il suo significato ad altre persone, ci troveremmo in seria difficoltà.
Un archeologo alieno Proviamo per un attimo a cavalcare l’immaginazione proiettandoci come osservatori esterni, silenziosi, in un futuro molto molto lontano. Ipotizziamo ora che la nostra attuale civiltà sia già scomparsa da millenni, lasciando sul pianeta solo una serie di reperti confusi e poco comprensibili, e che casualmente l’astronave di un archeologo alieno approdi proprio sul pianeta Terra. Ebbene, questo anomalo esploratore potrebbe essere incuriosito ed affascinato dalle tracce lasciate da una civiltà come la nostra, ed inizierebbe molto probabilmente a raccogliere con cura tutti i reperti a disposizione, nel tentativo di formulare poi delle ipotesi in grado di evocare la nostra vita quotidiana, il pensiero, la religione, e così via. Ad un certo punto il caro alieno potrebbe ritrovare, ai bordi di una strada, una strana tavola con sopra disegnati la figura di una piccola astronave che poggia su quattro ruote e un animale intento a saltare all’interno di un minuscolo foro del veicolo. Noi sappiamo benissimo che si tratta della famosa pubblicità di una nota compagnia petrolifera, in cui una scritta e un’immagine esprimono l’idea di mettere una tigre nel motore di un’automobile, per simboleggiare il concetto di un carburante in grado di offrire potenza ed elevate prestazioni. Il problema è che il nostro caro alieno potrebbe non avere la minima idea di cosa sia la pubblicità né tantomeno la tipologia di linguaggio che essa utilizza. Ecco che allora potremmo essere facilmente considerati come esseri preistorici, decisamente ingenui nel credere di poter mettere un animale dentro una macchina attraverso un foro per poter ottenere migliori prestazioni! Oppure potremmo essere dipinti come una civiltà estremamente superstiziosa, ancora convinta che una sorta di richiamo magico dello spirito della tigre possa animare uno strumento meccanico. E 22
ancora – orrore e disgusto – potremmo essere marchiati di inciviltà per torturare e uccidere un animale costringendolo a passare per un’apertura così piccola, in una sorta di brutale rituale di battesimo per una macchina. Ritorniamo ora indietro fino ai giorni nostri, e proviamo a rimetterci nelle vesti dell’umano-alieno che cerca di conoscere una possente civiltà ormai scomparsa da diversi secoli, e il cui ricordo è sopravvissuto solo tramite una serie di immagini, di scritti difficilmente comprensibili, di opere architettoniche maestose quanto misteriose e di pochissime testimonianze dirette. Stiamo parlando dell’antico Egitto. Come possiamo studiare e interpretare i lasciti di una civiltà senza compiere le sforzo di calarci il più possibile nella visione dell’esistenza che essa esprimeva e ricercava, nel concreto modo di affrontare la vita degli individui che la formavano? Generalmente noi ci illudiamo di effettuare questo tipo di lavoro, ma il più delle volte non facciamo che far accomodare barlumi di idee differenti dalle nostre in una ben stabile e radicata costruzione di preconcetti culturali indiscutibili. Perfino nella nostra quotidianità abbiamo spesso la sensazione di vivere in mezzo ad estranei, perfino con le persone con cui condividiamo lo stesso tetto sopra la testa: genitori, fratelli, sorelle, marito, moglie, figli, ecc. Non riusciamo a comprendere certi loro ideali, certe loro prese di posizione e scelte di vita. Ogni nostro sforzo di calarci nei loro panni, nei rari casi in cui le nostre energie non siano convogliate nel tentativo di convincerli altrimenti, si concretizza nel confrontare le altrui prospettive con le nostre, trovando una sorta di compromesso accettabile; per farcene insomma una ragione, non certo per provare ad accoglierle come innovazioni esistenziali da poter sperimentare. E quante volte ci ritroviamo a chiederci: io quello proprio non lo capisco, come è possibile ragionare in quel modo? La realtà è che siamo completamente assorbiti in una sorta di incantesimo culturaleegocentrico per il quale tutto ciò che non si conforma ai nostri ordinari processi di pensiero ci spaventa. Ora più che mai sono state attivate delle paure ancestrali di autodifesa verso alcune culture come quella musulmana; la stessa parola rimanda per i più a concetti
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di fanatismo, di maschilismo, di terrorismo, di inciviltà. E poi, la nostra religione è senz’altro la migliore! Poco importa se noi, magari, non abbiamo mai letto neanche una volta il Vangelo o la Bibbia, se ne conosciamo molto approssimativamente i dettami guida e non ci siamo mai realmente posti il problema di come poterli vivere praticamente. Già, perché è risaputo che la maggior parte dei musulmani sono più dediti di noi allo studio del Corano e alle pratiche quotidiane di preghiera. Per tali motivi possiamo giungere ad una clamorosa conclusione: gli alieni esistono, e sono proprio in mezzo a noi, al nostro fianco, nella casa in cui viviamo, sul posto di lavoro, ovunque. Si, siamo tutti alieni l’un con l’altro, e anche con noi stessi. Non c’è alcun bisogno di andare a disturbare l’abitante di qualche mondo lontano. Come fare dunque per superare questo empasse? Come fare per allargare lo sguardo oltre i paraocchi che da sempre ci accompagnano stabili ed immobili? La risposta implica una nostra totale volontà a metterci in gioco, a buttarci verso il nuovo, non necessariamente per distruggere tutto ciò in cui crediamo, ma perlomeno per accogliere altre prospettive con sincera predisposizione. Tale è il motivo per cui gli antropologi conducono buona parte della loro vita nel mezzo della civiltà che studiano, vivendo con loro ogni prezioso istante della vita quotidiana. E quanto imparano da queste esperienze: aspetti che non avrebbero mai immaginato, e che con stupore li colpiscono spesso a tal punto da segnare per sempre la loro vita. Ovviamente a noi ora non è data la possibilità di vivere in mezzo al popolo dell’antica terra d’Egitto, ma non sono pochi coloro che ci sussurrano come la strada per una comprensione più profonda sia comunque ancora possibile, passando attraverso una riscoperta di sé che viaggia di pari passo con il riconoscimento del messaggio che questa sacra civiltà sembrava permeare in ogni suo aspetto. Come scrisse René Schwaller de Lubicz: nella storia dell’umanità, una data importante è quella in cui Champollion ha riscoperto uno dei significati di queste iscrizioni; uno dei significati, perché l’altro è indissociabile dallo spirito stesso del pensiero dei maestri dell’Opera, è un
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tutto, una sintesi che non potrebbe essere trascritta in vocaboli di un dizionario. 3
Alcuni passi sono già stati compiuti, e grazie ad essi possiamo avvalerci di alcune basi concettuali per intraprendere un’avventura in un mondo completamente sconosciuto fino a duecento anni fa. Possiamo ora metaforicamente affermare di avere a disposizione una buona mappa sotto mano, ma il vero passo per un’esplorazione approfondita e dettagliata necessita che ognuno di noi scenda fattivamente sul campo. L’avventura nel mondo simbolico e sacrale infatti, secondo il pensiero dei maestri alchimisti, non può che essere essenzialmente individuale; solo nella propria interiorità si possono ritrovare le risonanze, le conferme, le certezze e, cosa ancora più importante, le vere domande. Ciò che si può fare insieme è condividere le indicazioni di un percorso tanto meraviglioso quanto misterioso, sempre pieno di sorprese e certamente non privo di difficoltà.
Principi cabalistici La prime osservazioni sulla natura della scrittura geroglifica si ritrovano nei vari scritti di Jean-François Champollion, il geniale studioso francese che nel 1822 riuscì a fornire la prima chiave per decifrare l’antica scrittura, e per tale motivo ancora oggi considerato il padre dell’egittologia. Anche se alcune spiegazioni si sono poi rivelate errate, la maggior parte delle sue intuizioni sono risultate esatte. Come egli stesso affermò: la mia scienza geroglifica è avanzata quanto basta per intravedere l’immenso spazio che le resta da percorrere prima di marciare senza ostacoli nel grande labirinto della scrittura sacra. Io vedo la strada che bisogna seguire, ma ignoro se lo zelo di un solo uomo e la sua intera vita possono bastare per una sì vasta impresa.4
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René Adolphe Schwaller de Lubicz, I Templi di Karnak (vol. I), Mediterranee, Roma, 2001. Jean-François Champollion, citato da Jves Naud, La vendetta dei faraoni, Famot, Ginevra, 1977. 4
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L’intero corpo geroglifico è composto da oltre settecento caratteri, che nel loro complesso offrono l’immagine di tutte le classi di esseri presenti nella creazione, o perlomeno nella creazione conosciuta a quell’epoca nella terra d’Egitto. Vi possiamo riconoscere infatti la rappresentazione dei diversi corpi celesti, dell’uomo in tutte le sue forme, degli animali domestici e selvaggi, degli uccelli, dei rettili, dei pesci, degli insetti, dei vegetali, fiori e frutti. Il tutto affiancato da altri generi di segni rappresentanti tutti i tipi di attrezzature e prodotti utilizzati dall’uomo e dalla donna per lo svolgimento della vita quotidiana, e da altri segni ancora di forme geometriche. Ma oltre a ciò che l’essere umano poteva osservare nel campo dell’esistenza visibile e – apparentemente – reale, compaiono anche una serie di caratteri che raffigurano esseri fantastici, forse mitologici. Solo una piccola parte di questa moltitudine di segni, dai ventidue ai ventotto a seconda dell’interpretazione, assumono la funzione di lettere alfabetiche, e vengono denominati GEROGLIFICI FONDAMENTALI, cioè i mattoni che costituiscono le fondamenta dell’intera scrittura. Altri caratteri rappresentano con una sola immagine il suono di una sillaba o addirittura una parola intera; altri ancora esprimono un’idea che determina il significato della parola. Vi è poi un elevato numero di geroglifici comunemente chiamati biconsonantici e triconsonantici, che individuano l’associazione di due o tre segni fondamentali. Per chiarire meglio il concetto (che tornerà utile in seguito) possiamo prendere come esempio un geroglifico triconsonantico tra i più noti, il famoso ankh, comunemente conosciuto come CHIAVE DELLA VITA, e la sua relativa composizione:
A tali caratteri fondamentali corrispondono determinate consonanti, mentre le vocali non compaiono, e vengono oggi utilizzate dalla traslitterazione egittologica come pura convenzione. Senza di esse non sarebbe infatti possibile rendere leggibile nessuna parola egizia antica. 26
Se proviamo a fare un piccolo salto nella tradizione ebraica, che ci verrà in soccorso diverse volte nel corso di questo lavoro, possiamo vedere come in tale scrittura valga lo stesso principio di assenza di vocali. Anche in questo caso esse vengono convenzionalmente inserite in un secondo momento dall’apparizione di un testo sacro – composto unicamente da consonanti – tramite l’utilizzo di piccoli segni denominati masoretici e che vengono situati sotto le lettere o all’interno di esse. Il tutto per rendere possibile perlomeno un primo livello di lettura razionalmente comprensibile. Immaginiamo un libro scritto interamente da una serie ininterrotta di caratteri, senza vocali e senza punteggiatura, un vero e proprio codice cifrato la cui genialità dell’autore ha permesso che vi si possano ritrovare diversi livelli di lettura semplicemente modificando al suo interno le vocali e la punteggiatura secondo uno schema criptico ben definito. Permettiamoci ora di considerare un esempio estremamente banale e riduttivo, ma di altrettanta efficacia per comprendere i principi di cui stiamo parlando. Data una serie di consonanti: C N S C T S T S S si potranno ottenere diverse soluzioni interpretative in base alle vocali inserite: C’è NaSCiTa Se i Tuoi USi oSi CoN uSi CauTi Si TeSSe CoNoSCi Te STeSSo ecc… Uno dei testi più noti al mondo redatto tramite un sistema del genere è proprio la Bibbia (per essere più precisi i primi cinque libri, che costituiscono la Torah ebraica). La traduzione comunemente conosciuta e considerata da diverse religioni non rappresenta infatti
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che un primo livello di lettura, piccolissima parte di un messaggio in realtà molto più vasto e profondo. Si vocifera che secondo la Cabalà, definibile altrimenti come la corrente esoterica (quindi interiore) della cultura ebraica, esistano in realtà quindici livelli di lettura differenti, e che ognuno di essi riveli aspetti dettagliati della natura umana e della realtà non comunemente visibile. Non dimentichiamoci infatti che la Bibbia adottata dalla cultura cristiana è la traduzione effettuata a partire da una versione ebraica divulgata nel X secolo d.C., e che ne esistevano e ne esistono in realtà molte altre versioni, la maggior parte delle quali probabilmente ancora oggi sconosciute ai più. Oltretutto, nelle versioni che si possono ottenere dai codici consonantici delle lingue sacre, emergono spesso delle omonimie su cui è altrettanto possibile lavorare. Anche in questo caso possiamo considerare un semplice esempio a partire dalle parole: IL SENSO DEL TASSO si potranno leggere almeno quattro interpretazioni diverse: La direzione verso cui è diretto l’animale, il significato che l’animale assume, la direzione dell’indice di interesse, il significato che l’indice di interesse assume. Non dimentichiamo infine che le due prospettive interpretative appena analizzate sono sempre associate anche ad altri aspetti di carattere sia simbolico-figurativo che allegorico-metaforico. Insomma, non è difficile essere sopraffatti da un indescrivibile senso di stupore e meraviglia – quasi incredulità – di fronte a tanta genialità e perfezione comunicativa, così immensamente lontana dai classici parametri linguistici cui siamo abituati. Ma la nostra naturale tendenza è quella di accontentarci di ciò che viene superficialmente offerto, sedendoci comodamente sopra gli allori di una versione apparentemente moralistica e a tratti contraddittoria, per nulla utile al nostro concreto sviluppo interiore se non viene accesa da una riflessione più approfondita e 28
intimamente correlata alla propria quotidianità. Sì, perché anche nella versione ufficiale dai più oggi conosciuta, sono nascoste una miriade di sfaccettature in grado di offrire insegnamenti di carattere metaforico e simbolico. Un discorso analogo vale per la tradizione egizia, per i suoi testi sacri e i geroglifici che li compongono. Nulla è lasciato al caso, tutto è codice, tutto è metafora, tutto è simbolo. Lo stesso Champollion si rese conto di questa realtà, e il suo colpo di genio fu proprio quello di non scindere le diverse parti tra loro, ma di approcciarsi ad esse con una visione più olistica. Scrive a tal proposito: la scrittura geroglifica è un sistema complesso, una scrittura nel contempo figurativa, simbolica e fonetica, in uno stesso testo, in una stessa frase, direi quasi nella stessa parola.5
A onor del vero, il primo personaggio della storia occidentale che propose una lettura in chiave simbolica-figurativa fu lo scrittore egiziano Orapollo nel IV secolo d.C. Il suo scritto fondamentale, lo Hieroglyphica, fu scoperto nel 1419 e rimase per diversi secoli come l’unico punto di riferimento per l’antica scrittura egizia. Champollion partì proprio da tale prospettiva ma, senza escluderla, introdusse l’idea che ogni geroglifico potesse anche assumere il carattere di un segno fonetico. Noi oggi potremmo aggiungere, in analogia con la Ghematria, che ad ogni carattere corrisponde anche un numero. Secondo tale metodologia interpretativa esiste infatti un’equivalenza analogica fra parole le cui lettere possiedono lo stesso valore numerico.
Simboli vivi e simboli artificiali Il nostro approccio interpretativo è dunque viziato da una mentalità estremamente diversa e lontana da quella antica, per certi versi molto più sterile e riduttiva. Cercare di convertire una sì ampia forma d’arte, così geniale e profonda, entro i parametri classici con i quali siamo abituati a leggere e tradurre le opere della nostra cultura, 5
Jean-François Champollion, Compendio del sistema geroglifico, su www.aton.ra.com.
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è tanto assurdo quanto voler far passare una tigre attraverso il foro di un serbatoio. Fino a quando terremo ben stretti un paio di occhiali con le lenti grigie, come potremmo pensare di cogliere tutte le sfaccettature di un mondo colorato? Necessitiamo allora di un aiuto che possa porci il più possibile in sintonia con una prospettiva che ha consentito agli antichi saggi di dar vita ad una lingua sacra così perfetta e compiuta, in grado – non dimentichiamocelo – di apparire quasi improvvisamente nella storia della civiltà e di rimanere sostanzialmente inalterata per almeno quattromila anni. Il metodo interpretativo che più di ogni altro può oggi avvicinarsi alla scrittura geroglifica è il REBUS, dove il significato delle immagini e delle parole varia a seconda del contesto, basato su forme grammaticali e figurative miste tra loro. Inoltre, non esistendo l’interpunzione nella lingua sacra, sarà il testo stesso ad evocarla alla nostra coscienza in parallelo con la personale predisposizione ad accoglierne un significato piuttosto che un altro. Non è azzardato affermare che solo colui che raggiunge la piena realizzazione interiore, il contatto con la parte più intima e sacra di sé, potrà disporre di tutte le chiavi per una lettura definitiva e completa. Da tale punto di vista lo studio dei geroglifici diviene implicitamente anche uno sprono a percorrere un cammino per ampliare la propria consapevolezza ed ottenere così nuovi stimoli a proseguire. Un ultimo tratto essenziale da considerare per un approccio del genere, impone di non cadere nella trappola di confondere ciò che la nostra mentalità intende comunemente con la parola simbolo e ciò che intendeva invece la mentalità faraonica. Il simbolismo dei geroglifici è sempre naturale, universale, mai convenzionale. Esso non è un’invenzione umana, è una trasmissione divina, e come tale coglie ed esprime una particolare ESPRESSIONE VITALE dell’esistenza, comunicandola per mezzo del principio di evocazione. Compito del neofita che gli si avvicina è quello di creare le condizioni interiori affinché tale evocazione possa trovare lo spazio per esprimersi. Cosa si intende dunque per simbolo convenzionale, e come fare a riconoscerlo? Prendiamo come esempio le bandiere che contraddistinguono le diverse nazioni. Esse sono state create artificialmente dall’intelletto umano per esprimere tramite alcuni 30
segni e colori le caratteristiche che possono sommariamente rappresentare una popolazione. Noi sappiamo infatti che il significato dei colori che compongono la bandiera italiana può essere sintetizzato nel seguente modo: verde per la speranza, bianco per la fede e rosso per la carità. Una simbologia del genere, nel caso della nostra nazione come per le altre, acquisisce poi un valore rappresentativo estremamente forte, tanto da costituire precise condanne per coloro che la oltraggiano in qualsivoglia forma. Diviene difficile quindi non considerare viva una bandiera del genere. Eppure, se volgiamo l’attenzione verso una bandiera dai colori analoghi alla nostra, come quella messicana, ritroviamo una serie di significati completamente diversi associati ai colori: il verde per l’indipendenza, il bianco per la religione e il rosso per l’unione. Non solo, ma gli stessi colori possono nel tempo acquisire modificazioni nel loro significato, infatti – rimanendo in Messico – intorno al 1870 è stata introdotta dal presidente Benito Juàrez una nuova interpretazione: il verde per la speranza, il bianco per l’unità e il rosso per il sangue degli eroi della patria. Ma come è possibile che un colore possa assumere arbitrariamente significati diversi? La risposta diviene piuttosto complessa, dato che non vi è limite alle possibilità di associazione. In tutti i casi tali significati acquisiranno comunque un certo valore e connotato emotivo per coloro che li hanno scelti, ma ciò nonostante potrebbero non riguardare il vero significato vitale di cui il colore è portatore. Se rappresentassimo il sole tramite un segno stilizzato, e volessimo poi rappresentare tramite questa immagine un circolo culturale di speleologia, non ci sarebbe alcun problema. Anzi, nessuno escluderebbe che tale immagine possa raccogliere intorno a sé molte persone attratte dal mondo delle grotte, e che in breve tempo tali persone possano anche associare questa loro passione al simbolo del sole. Eppure, volenti o nolenti, il sole continuerà ad essere tale, e nessun ragionamento o decisione umana potrebbe mai modificare uno dei suoi profondi ed evidenti significati vitali poco conformi al mondo delle grotte: luce e calore. La scrittura geroglifica rientra nell’inalienabile patrimonio simbolico universale che da sempre ha accompagnato – e 31
accompagna tuttora – l’essere umano nel suo percorso di risveglio. I simboli che la compongono sono veri, vivi, finestre verso una realtà molto più vasta di quella visibile e tangibile, una realtà interiore. A noi compete il compito di renderli nuovamente vivi dentro di noi, sperimentarli nella vita quotidiana, lasciare che ci possano trasmettere i messaggi di cui sono portatori. Non ci saranno limiti per coloro che vi si pongono di fronte con cuore sincero e onesto, non ci saranno domande alle quali non forniranno risposta. Ma occorre procedere con prudenza, perché la nostra coscienza logica e razionale è sempre in agguato, e tende ad offrirci ad ogni passo delle comode soluzioni ed approssimative interpretazioni sulle quali poter speculare senza sosta. L’essenza vitale di un simbolo non potrà mai essere rinchiusa in una descrizione, per quanto soddisfacente essa sia. Attenti dunque a non soffocarne i messaggi. Manteniamo sempre acceso il desiderio della ricerca. Non occorre dilungarci oltre la breve panoramica fin qui esposta, giacché non è l’obiettivo di tale trattato scendere nel dettaglio della grammatica geroglifica. Fondamentale è però scorgere l’enigma che ancora oggi rappresentano le scritture sacre, il profondo mistero che si cela dietro di esse, e verso il quale non si potrà giungere attraverso i metodi classici di ricerca. Ciò che le lingue antiche reclamano è di essere continuamente studiate e vissute. Le tradizioni tramandano che la loro comprensione viaggia di pari passo con lo sviluppo coscienziale di chi le legge. D’altronde, è probabile che molti di noi abbiano toccato con mano un simile principio nella propria vita ogni qual volta si sono apprestati a rileggere uno stesso libro a distanza di anni, ritrovandosi poi a pensare: mi sembra di aver letto un altro libro, quante cose mi erano sfuggite la scorsa volta! Applicando dunque la stessa regola ai testi sacri, depositari del mistero della vita e volutamente scritti con l’intento di rivelarlo a coloro che con zelo e perseveranza lo ricercano, il risultato sarà analogo ma molto, molto più travolgente.
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Sulla soglia dell’antico Egitto
Il mistero della vita Ci si potrebbe chiedere, in effetti, il motivo per cui valga la pena compiere un così ampio tuffo nel passato per cercare di risvegliare le vestigia di una civiltà ormai scomparsa da oltre duemila anni. Forse per la nostalgia di un passato tanto affascinante? O per rifugiarsi emotivamente in un mondo lontano da quello attuale, con il quale è difficile identificarsi? O, ancora, per accogliere la sfida di poter trovare una volta per tutte un’appagante spiegazione in grado di colmare le miriadi di enigmi che continuano a circondare l’antica cultura egizia? Quale che sia la risposta, ciascuno di noi sarà comunque sempre ricondotto di fronte all’unico vero quesito, che lo si voglia riconoscere o meno: il senso della vita. In un periodo come quello in cui stiamo vivendo, dove ogni sorta di corrente psicologica, filosofica, religiosa ed iniziatica sembra essere a disposizione di tutti, riempiendo libri, pagine web, riviste, centri di formazione, e così via, ci sentiamo paradossalmente più confusi, più soli che mai. In molti il desiderio di ricerca cresce di pari passo con la diffidenza, e molte sono probabilmente le delusioni in cui ognuno di noi si sarà imbattuto. Eppure, una strana forza ci spinge ogni volta a guardare avanti, a cercare ancora. L’antica tradizione egizia non concederà certo risposte precise e definitive, ma potrà piuttosto offrire tutte le indicazioni necessarie per imparare a porsi in modo più chiaro e sincero la domanda esistenziale sul senso della vita o, meglio ancora, sul senso della propria vita. Ogni sistema tradizionale è in grado – anzi è nato – con tale nobile obiettivo. Siamo noi stessi ad averli intorpiditi per piegarli ed adattarli ai nostri doppi fini, ai nostri interessi ed ai nostri bisogni di certezza. In un’epoca in cui arti sacre come lo Yoga o il Tai-Chi sono divenuti principalmente passatempi da palestra, in cui l’Astrologia e il Tarot vengono relegati ad appariscenti quanto futili sistemi per predire il futuro, in cui ogni reale messaggio tradizionale 33
diviene una moda speculativa priva di ogni risvolto pratico se non quello di alimentare la propria autostima, come non ci si può sentire frastornati e delusi? Tutti noi siamo dunque chiamati a ritornare sui nostri passi, a lottare per ridare dignità a questi antichi saperi millenari il cui cuore continua a pulsare più che mai dietro la coltre di banalità con cui li abbiamo ricoperti. L’antico Egitto rappresenta la culla della nostra civiltà occidentale, il primo luogo in cui si è storicamente manifestata la GNOSI, e la prima civiltà da noi oggi conosciuta che ha dato così tanto risalto a questo messaggio universale. Ogni testo, ogni immagine, ogni costruzione, ogni gesto quotidiano, religioso, scientifico, medico, politico e poetico ci parla in modo più o meno velato di tale rivelazione divina. L’antico Egitto è dunque qualcosa di più di un insieme di reperti archeologici e di dati storici. Una sintesi magistrale venne esposta dal prof. Pasquier (che conobbe e frequentò la coppia Schwaller de Lubicz) in una conferenza tenuta nel 1986 presso il castello di Guardea. Egitto, come una precisa “Qualità dell’Intelligenza”; un altro modo di esistenza dell’Intelligenza umana. Questo “Egitto” non ha niente a che vedere con i tempi storici (anche se questa Intelligenza si espresse nella terra del Nilo in una precisa epoca storica), ma rappresenta piuttosto un ben preciso Luogo/Stato di coscienza. Per entrare in questo Egitto, eternamente presente, l’uomo deve imporre a se stesso una disciplina. Egli deve, abbandonando la coscienza dialettica, risvegliare un rapporto interiore vivente con l’oggetto della propria ricerca, quella che AOR [nome con cui si firmava René Schwaller de Lubicz] definiva Intelligenza del Cuore. Questo era lo scopo: risvegliare, con un lavoro su di sé, l’Intelligenza del Cuore, giungere con essa all’essenza vivente dei fenomeni, e quindi poter giungere all’Essere Universale. Se l’uomo riesce a penetrare nel proprio “Cuore”, riesce anche a penetrare nel “Cuore” delle cose.6
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Prof. Pasquier, L’Egitto di Schwaller de Lubicz - AOR, su www.accademiehermetichekremmerzianeunite.org.
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La SFINGE simboleggia proprio questo mistero della vita che ogni individuo è chiamato a ricercare. Lei rimane sempre lì, imperturbabile, e con una pazienza senza tempo e senza spazio ci attende sulla soglia di un nuovo viaggio, il ritorno verso casa, la cui dimora si trova nascosta dentro di noi. Ecco perché la sfinge non scruta nessun paesaggio terreno, il suo sguardo immobile è sempre rivolto all’interno, e il segreto del suo enigmatico sorriso è la conoscenza del Sé. La sfinge, il cui nome significa STATUA VIVENTE, in egizio shesep ankh, e in geroglifico
incarna le tre domande essenziali di colui che si appresta ad intraprendere un cammino iniziatico: da dove vengo, chi sono e dove vado. Tale quesito è ciò che ha regolato per migliaia di anni l’intero sviluppo della civiltà sorta intorno alle rive del Nilo.
La terra d’Egitto Il nome Egitto da noi oggi conosciuto trae le sue origini dalla parola egizia het ka ptah, letteralmente la CITTÀ DELLA DIMORA DEL KA DI PTAH, in geroglifico
I greci antichi tradussero questo nome del Tempio di Menfi nel termine da noi oggi conosciuto. In origine il popolo egizio nominava però la sua terra (figura 2) in altri modi: kemyt o kemet, ossia TERRA NERA, in geroglifico
o da cui tra l’altro trae origine la parola ALCHIMIA.
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Comunemente l’Egitto viene associato ad un luogo desertico, tuttavia, ad una indagine più approfondita, si può evincere come anticamente era al contrario noto per la sua eccezionale fertilità e rigogliosità, dovuta proprio al limo grigio-nero portato dal Nilo durante le sue regolari inondazioni. In altre occasioni il paese assumeva l’epiteto di ta neteru, ossia TERRA DEGLI DEI, in geroglifico
dato che veniva simbolicamente considerata come lo specchio del regno divino. Un altro nome cui veniva associato l’Egitto è ta mery, ossia TERRA AMATA o TERRA DELL’AMORE o TERRA CALAMITA, in geroglifico
sia perché la sua civiltà era tesa verso la ricerca e la trasmissione del puro sentimento, sia perché attraeva le forze vitali a sé come una calamita. Un ultimo epiteto era tawy, ossia LE DUE TERRE, in geroglifico
dato che il paese è nato mitologicamente e, forse, storicamente dall’unione della terra del sud, l’Alto Egitto, suddiviso simbolicamente in 22 distretti o province, e quella del nord, cioè del Basso Egitto, suddiviso in 20 distretti. A livello climatico, l’anno egizio era composto da tre stagioni, comprendenti ciascuna quattro mesi. La prima si estendeva dalla fine di Luglio alla fine di Novembre, denominata akhet, ossia INONDAZIONE, in geroglifico
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dove il carattere raffigura un terreno inondato dal quale spuntano dei germogli, per indicare il senso di ciò che inizia. Il suo nome è basato sulla radice della parola akh, che significa LUCE; tale momento era infatti luminoso, benedetto, in quanto le terre venivano irrigate dalla piena del Nilo che deponeva il suo fertile limo sulle coltivazioni.
Figura 2 – Mappa contemporanea dei luoghi più significatici con evidenziata l’antica suddivisione in Alto e Basso Egitto.
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La seconda stagione si estendeva dalla fine di Novembre alla fine di Marzo, e prendeva il nome di peret, ossia la STAGIONE DEI GERMOGLI, in geroglifico
simile alla nostra stagione invernale, era caratterizzata dalla nascita del grano. La radice che compone il suo nome – per – significa infatti USCIRE, ad indicare che in tale periodo tutto ciò che era stato seminato iniziava ad uscire dalla terra. La terza ed ultima stagione si estendeva invece dalla fine di Marzo alla fine di Luglio, col nome di shemu, ossia STAGIONE CALDA, in geroglifico
era il tempo dei raccolti ed anche del caldo più intenso dell’anno. In quanto periodo più secco dell’anno, il segno che contraddistingue il suo nome evidenzia il necessario utilizzo dell’acqua contenuta nei bacini idrici di riserva.
La scienza degli dei Inizieremo ora ad addentrarci nel vivo della tradizione egizia, e lo faremo prendendo in considerazione la religione, nonostante il fatto che non esisteva a quel tempo un simile termine in contrapposizione alla scienza o alla filosofia. In Egitto ogni forma di conoscenza era vita ed esaltava la vita, e i nostri attuali significati contrapposti di fede, ateismo, agnosticismo, misticismo o razionalismo, non avevano alcuna ragion d’essere. Ad ogni modo, comunemente, si considera l’antico culto egizio come una religione politeista, ed è comico constatare come sia spesso sufficiente tale definizione per risvegliare in noi la presuntuosa idea di appartenere oggi ad una religione monoteista, dunque superiore, più evoluta. 38
Procediamo allora per gradi, iniziando ad analizzare il termine neter, che contraddistingue il concetto di Dio, in geroglifico
il cui significato letterale è FUNZIONE o PRINCIPIO. Per quale motivo utilizzare una bandiera per esprimere il concetto di divinità? Noi possiamo osservare che la bandiera contraddistingue un punto di riferimento, una direzione da seguire, così sono infatti gli dei per gli uomini; ma ancor più in profondità essa simboleggia lo strumento per mezzo del quale una forza che non è direttamente visibile si manifesta (sventolando lo stendardo), rivelando così la propria esistenza attraverso la constatazione e la verifica dei suoi effetti. Difficile scindere in una definizione del genere gli aspetti religiosi da quelli scientifici. Consideriamo per esempio la legge di gravità: nessuno obietterebbe sulla sua esistenza, sugli effetti estremamente fisici e tangibili della sua forza. Eppure non la si può vedere, toccare, fissare, ed inoltre – cosa ancora più importante – non la si può eludere. Ecco perché Carl Gustav Jung incise sulla porta di ingresso della sua casa la massima: invocati o meno, gli dei sono presenti. Gli dei venivano considerati dagli antichi egizi al pari di leggi o principi di vita (da cui la traduzione del geroglifico) impossibili da relegare in un ambito scientifico piuttosto che religioso o filosofico. I neter simboleggiano la molteplicità delle forze che permettono la vita, le funzioni della natura attraverso le quali la Creazione è venuta in essere e si mantiene. La loro rappresentazione attraverso immagini antropomorfiche e all’interno di un’organizzazione di legami parentali, non è che un escamotage simbolico-figurativo per avvicinare alla loro comprensione la coscienza umana ordinaria e dialettica. Fermarsi ad esse significa però soffocarne il valore spirituale, e questo ben lo sapevano gli antichi saggi che non si risparmiavano certo di sottolinearlo come monito. Ricordiamo le parole di Plutarco:
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perciò quando ascolterai le storie che gli egiziani raccontano sugli dei – peregrinazioni, smembramenti e altre avventure del genere – dovrai ricordarti di quello che abbiamo detto, e non credere che quanto essi affermano corrisponda a fatti realmente accaduti. […] solo così potrai sfuggire alla superstizione, che è un male certo non inferiore all’ateismo stesso.7
I neter rappresentano un’energia divina in azione, sfaccettature differenti che compongono la superficie dello stesso diamante, verso il quale è più facile avvicinarsi a piccoli passi, analizzando lato per lato le sue singole caratteristiche, i suoi attributi, per poi giungere infine alla sua interezza, priva di ogni reale suddivisione. Scomporre in piccoli sottoinsiemi la natura di un organismo o di un’entità difficile da comprendere nella sua interezza, è insita nella modalità umana di condurre una ricerca. Gli antichi saggi non facevano altro che adeguarsi a questa evidenza cavalcandone la metodologia con l’auspicio di poter poi ricondurre le coscienze verso la riunificazione del tutto, verso la percezione dell’unità di base. Osserviamo come la fisica sia da secoli dedita allo studio dei mattoni fondamentali che compongono la materia, gli atomi, o la biologia con lo studio delle cellule. Eppure proprio la rivoluzione scientifica attuale sta invertendo la rotta, prendendo coscienza del fatto che la realtà dei fenomeni non potrà mai essere compresa se non ricongiungendo i suoi diversi aspetti. Una vera medicina non può più permettersi di trascurare gli aspetti psicologici o alimentari tanto quanto quelli anatomici e fisiologici. La dinamicità e la vitalità di una foresta non potrà mai essere compresa a fondo con lo studio in laboratorio di ogni suo singolo abitante, per quanto approfondito esso sia. Solo l’osservazione sul campo, anzi, la partecipazione sul campo, permetterà di cogliere quell’anima vitalizzante che tutto muove, quella forza invisibile che sventola la bandiera. Saltando dall’altro lato della “barricata” osserviamo come anche nella religione cristiana domini la tendenza a parcellizzare il modo di adorare il Signore attraverso le diverse figure di angeli e di santi, 7
Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano, 2002.
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ognuno dei quali incarna proprio degli aspetti vitali divinizzati. Nulla di diverso dalle strutture deistiche antiche. In tale ottica non possono allora non nascere seri dubbi sulla possibilità o meno di confinare una religione entro parametri definiti. Dove risiede la linea di confine che separa il monoteismo dal politeismo? E ancora, quale superbia ci fa sentire in diritto di volgere lo sguardo con superiorità e sufficienza verso un’antica tradizione come quella egizia? I differenti neter, al plurale neteru, sono l’espressione di un’unica potenza divina originaria, il Neter Neteru, il PRINCIPIO DEI PRINCIPI, in geroglifico
la suprema divinità senza nome cui può corrispondere il concetto di ASSOLUTO. Il pericolo più grande nello studio della tradizione egizia, nell’approfondimento dei neteru, è infatti quello di perdere di vista il Neter Unico, soffermandosi ad adorare o a speculare intorno ai mezzi che conducono ad esso. Non dimentichiamoci mai che il dito che indica la luna non è la luna, giacché la nostra cerebralità è sempre pronta ad appropriarsi ed identificarsi con nozioni schematiche e limitative che nascondono la vera conoscenza, la Gnosi. Occorre dunque prestare attenzione e vigilare affinché la mente non divenga il proprio neter distruttore, trasformandoci in adoratori di noi stessi in un circolo vizioso senza uscita. Si potrebbe ora dedurre che la visione cosmologica dell’antico Egitto sia di carattere panteistico, secondo il quale tutto è Dio, ma anche questa visione si rivela inesatta. Il panteismo identifica il Creatore con la Creazione. Sarebbe dunque più corretto parlare di paninteismo, dove tutto è in Dio. Il mondo non è Dio ma solo una parte di esso; mentre Dio riempie il mondo, il mondo non riempie tutta l’essenza divina, ma rappresenta solo la manifestazione di una realtà che va ben oltre, che siamo chiamati a ricercare e a riscoprire. In tal senso la tradizione contemporanea più affine all’antica tradizione egizia sembra essere la corrente ebraica del chassidismo,
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non meglio sintetizzabile che con le parole di un suo eccellente portavoce attuale, Rabbi Rami Shapiro. La nostra esperienza di Dio e della creazione è di per sé dualistica: vediamo noi stessi e gli altri, Dio e la creazione, il bene e il male, e tutte le miriadi di diadi che compongono la nostra visione della realtà. Proiettiamo questo dualismo su Dio quando ci esprimiamo in termini di contrazione ed espansione, rottura e riparazione, esilio e redenzione, ma in realtà si tratta solo di una proiezione. Dio è l’Ayn Sof, infinito, ed è quindi un non-dualismo intatto. La dveikus, l’unione con Dio, non è un traguardo da raggiungere ma un dato acquisito di cui prendere coscienza. Il fine non è raggiungere la dveikus ma esserne consapevoli, sperimentare la da᾽at dveikus, ovvero la consapevolezza del non-dualismo di Dio presente con (e in) tutte le cose.8
La tradizione egizia ha espresso il suo insegnamento mediante la raffigurazione simbolica e mitica proprio nel tentativo di evitare l’errore di cadere in schematizzazioni, classificazioni, speculazioni teoriche o dogmatismi sterili che sopprimono il carattere vitale del vero messaggio universale. L’iniziazione egizia impone alla coscienza un’IDENTIFICAZIONE CONTINUA con la vita per poterla comprendere e trascendere. L’Inconoscibile può essere avvicinato con la pura meditazione senza oggetto o con l’intuizione risvegliata dai simboli analogici; i saggi egizi adottarono questo secondo sistema nella stesura dei testi e nella costruzione dei templi, fornendo tutti gli elementi esoterici necessari per la comprensione della vita, ma sempre velati da un aspetto apparentemente banale. I neteru sono le caratteristiche, gli attributi che la divinità suprema manifesta in NATURA. Proprio tale parola trae la sua origine etimologica dal termine neteru. La natura e l’essere umano stesso esistono e si esprimono per mezzo di queste potenze divine; ecco perché i neteru sono presenti dentro ognuno di noi, e solo lì possono essere ritrovati.
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Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario. Racconti chassidici, Giuntina, Firenze, 2004.
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Tutta la scenografia del mondo manifesto che ci circonda non è altro che uno specchio magico in grado di riflettere la nostra interiorità, un concetto forse semplice da comprendere razionalmente (anche grazie alle ultime ricerche in ambito scientifico) ma estremamente complesso da applicare nel quotidiano.
I geroglifici si rivelano Permettiamo ora alla scrittura sacra egizia di presentarsi da sola attraverso il termine che la contraddistingue, ossia medu neteru, traducibile come PAROLE DIVINE, in geroglifico
dove il simbolo intermedio raffigura un semplice bastone di legno. Una traduzione più dettagliata del termine è infatti PRINCIPI (o FUNZIONI) PORTATI DA UN SEGNO, dato che le parole sacre si poggiano sui segni come l’uomo si poggia sul bastone. La divinità stessa si appoggia ad essi per esprimersi e manifestare le sue molteplici caratteristiche, e per mettersi in contatto con la scintilla divina che giace ancora assopita nell’essere umano. Il bastone è lo strumento utilizzato per spostarsi sicuri e stabili sul cammino, per raggirare gli ostacoli ed aiutarsi a mantenere l’equilibrio. Esso è costituito da un ramo di legno nel quale è fluita la linfa; nonostante si presenti di consistenza secca ed inerte, conserva la forma del vegetale anche in assenza del fluido vitale. Allo stesso modo la parola conserva la forma ma non la vita, che sarà resa possibile dall’intonazione della voce nella lettura e dalla profondità di coscienza applicata per sviscerarne il significato. Come il bastone porta la linfa, i geroglifici veicolano la conoscenza dei neteru grazie all’ausilio di immagini simboliche in grado di richiamarne le funzioni, percepibili nella natura esteriore quanto in quella interiore. Secondo la vera conoscenza, lo studio dell’uomo deve svolgersi parallelamente allo studio del mondo e lo studio del mondo parallelamente allo studio dell’uomo. Le leggi [o 43
principi] sono dappertutto le stesse, nel mondo come nell’uomo. […] Rendendosi conto dell’imperfezione e della debolezza del linguaggio ordinario, gli uomini che possedevano la conoscenza oggettiva hanno cercato di esprimere l’idea dell’unità sotto forma di “miti”, di “simboli”, e di “aforismi” particolari che, trasmessi senza alterazione, hanno tramandato questa idea da una scuola all’altra, sovente da un’epoca all’altra. […] I simboli impiegati per trasmettere le idee della conoscenza oggettiva racchiudevano i diagrammi delle leggi fondamentali dell’universo, e non trasmettevano soltanto la conoscenza stessa, ma indicavano anche la via per raggiungerla. […] I simboli erano suddivisi in fondamentali e secondari. I primi comprendevano i principi dei differenti rami della conoscenza; i secondi esprimevano la natura essenziale dei fenomeni in relazione con l’unità.9
Queste parole di George Ivanov Gurdjieff aiutano a ricollegarci con quanto anticipato nel capitolo precedente, cioè come all’interno di una moltitudine di segni che compongono l’alfabeto ve ne siano alcuni (figura 3) con la funzione di rappresentarne le fondamenta, i mattoni dell’intera struttura simbolica. Mentre questi ultimi assumono l’aspetto di simboli fondamentali, tutti gli altri assolvono la funzione di simboli secondari. Potremmo anche esemplificare tale aspetto attraverso un parallelismo analogico con l’organismo legislativo di una nazione: così come i principi di una costituzione definiscono la struttura, la forma e le regole fondamentali di uno stato, da cui derivano tutte le altre classi di leggi che li approfondiscono nei dettagli per renderli più facilmente comprensibili ed applicabili, nel medesimo modo i principi divini che regolano la Creazione sono espressi dai geroglifici fondamentali, e sviscerati in modo particolareggiato tramite l’ausilio di altri caratteri ed immagini. Tale esempio non fa altro che evidenziare il fatto di come sia insita nella natura umana, per quanto spesso inconsapevole, l’idea di una struttura esistenziale che viene inevitabilmente dall’uomo riproposta goffamente nel
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G. I. Gurdjieff, citazione in P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, Roma, 1976.
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tentativo di ripristinare un “giusto” ordine di vita. Non creò forse Dio l’uomo a sua immagine e somiglianza?
Figura 3 – Una delle possibili classificazioni dei geroglifici fondamentali e relativa traslitterazione.
Ogni insegnamento tradizionale – in alcuni casi in forma più esplicita, in altri meno – conduce verso la conoscenza di tali principi divini. E anche se questa realtà potrebbe spaventare ed apparire troppo cinica da accettare (se la vita è guidata da leggi precise, dove 45
finisce infatti la figura di un Dio buono e compassionevole pronto ad intervenire per mezzo di suppliche e preghiere?), è anche vero che una prospettiva del genere pone una luce molto più nitida su diversi aspetti apparentemente inspiegabili dell’esistenza. Ma per fare questo è necessario invertire la tendenza attuale, nella quale è l’essere umano ad aver creato un Dio a sua immagine e somiglianza. Occorre sforzarsi di lasciare alle spalle i propri moralismi, le proprie personalissime concezioni di giustizia od ingiustizia divina, di bene e di male. Se ad esempio ci capitasse di ritrovarci in alcune località esquimesi, potremmo imbatterci in una tipica usanza del luogo per la quale gli uomini offrono ad altri uomini la propria moglie in “regalo” per una notte come gesto di ospitalità. Inutile precisare che un nostro rifiuto provocherebbe una grave offesa, per l’uomo e per la donna. Nel caso volessimo invece dimostrare con lo stesso sistema la nostra gratitudine per l’ospitalità in un altro angolo del mondo, ci ritroveremmo con altissima probabilità ad essere cacciati malamente da chi, poco prima, ci ha calorosamente invitato. Siamo dunque sinceramente in grado di definire cosa è universalmente giusto o sbagliato? Ci reputiamo una civiltà evoluta in quanto improntata su fondamenta scientifiche, obiettive ed oggettive; eppure, non appena volgiamo lo sguardo in una direzione considerata “spirituale” perdiamo completamente le qualità che contraddistinguono una mentalità razionale. Ci sogneremmo mai di giudicare ingiusta la legge di gravità nel vedere un individuo cadere per terra dopo essere inciampato sopra una pietra? Oppure potremmo additare come cattivo il fuoco nell’assistere ad un’ustione di un incauto giocoliere alle prese con torce infuocate? O ancora, chi accuserebbe l’acqua di essere maligna se per una propria incapacità di nuotare dovesse ingurgitarne un po’ durante un bagno al mare? È evidente che tali domande potrebbero continuare all’infinito. È altrettanto evidente come vi siano alcuni aspetti naturali dell’esistenza la cui neutralità è data ormai per scontata: non sono tali entità a manifestare caratteristiche di bene o male, ma sarà il nostro approccio ad esse a determinarne gli esiti. Ipotizziamo allora che i principi spirituali che regolano l’esistenza non siano differenti dalle leggi scientifiche, ma anzi le 46
incorporino al loro interno. Immaginiamo inoltre che tali principi, disponendo di un linguaggio simbolico estremamente più ampio e completo di quello logico-razionale, rivelino anche aspetti dell’esistenza molto più sottili di quelli osservabili da un punto di vista fisico, scandagliando la natura umana da una prospettiva organica, psicologica, energetica e spirituale. Se tutto ciò fosse vero, ogni nostra recriminazione nei confronti dell’esistenza dovrebbe essere imputata ad un problema di inconsapevolezza piuttosto che un problema di ingiustizia. Il monito biblico per il quale occorre assumere un atteggiamento timoroso verso il Signore potrebbe non essere interpretato come una sorta di minaccia di un Dio severo e vendicativo, bensì come un avvertimento, un consiglio di procedere con prudenza ed attenzione nella propria vita, alla stregua di come si fronteggerebbe un fenomeno naturale ancora ignoto, per poterlo meglio conoscere, a piccoli passi e, perché no, per prove ed errori compiuti in modo consapevole. La condizione di schiavitù e sofferenza dell’essere umano cui tante tradizioni fanno riferimento, viene infatti attribuita proprio all’ignoranza, non ad un male oggettivo, non alla cattiveria, non ad entità demoniache. Non siamo realmente vittime della vita più di quanto non lo sia un principiante sul bordo di una piscina che si appresta ad entrare senza saper nuotare. Il problema è che nella maggior parte dei casi ci ostiniamo a volerci buttare senza prima fermarci un attimo per acquisire le nozioni basilari, oppure preferiamo rimanere all’asciutto fantasticando sulla bellezza del nuoto! In entrambi i casi non potremmo mai fare realmente esperienza di come i principi dell’acqua agiscono sul nostro corpo, e non potremmo mai acquisire un reale ed efficace stile di nuoto, piacevole ed elegante. Tale appare infatti lo stile di vita di coloro che ricercano la perfezione nell’arte della vita. Ma, ahimè, non esisterà manuale tecnico in grado di esporre i principi divini con una chiarezza logica tanto cara alla nostra razionalità. La maturazione di una tale conoscenza – per sua stessa natura simbolica – deve inevitabilmente passare attraverso una sperimentazione concreta nel quotidiano di ciò che viene trasmesso dagli insegnamenti tradizionali. Così come la pratica senza studio 47
può divenire pericolosa, lo studio senza la pratica rimane sterile ed inutile. Il vero manuale è il LIBRO DELLA VITA, e le sue pagine sono le esperienze che ci vengono presentate in ogni momento. Non dimentichiamo che nella storia occidentale Socrate fu il primo a parlare esplicitamente dell’esistenza di questi principi divini, le cui forze si dispiegano costantemente mostrando i loro effetti attraverso i diversi elementi organici ed inorganici che si muovono intorno a noi. Si tratta di scoprire in oggetti diversi le parti elementari uguali che si possono avere. Così si svelano i sacri segni. […] Agisce allora la funzione: ciò che è puro, immortale, immutabile, appunto. La materia agisce sui sensi, la funzione sui pensieri. Staccati dal corpo i pensieri agiscono per mezzo di queste funzioni invarianti, semplici, indissolubili, costanti e immutabili. […] Ma quando vedrete chiaramente gli archetipi viventi che da sempre sono in voi, e muoiono con voi, e non muoiono e non nascono, allora vorrei vedere la vostra faccia stupefatta!10
L’insegnamento egizio sprona infatti il ricercatore ad osservare con estrema attenzione e sacralità ciò che lo circonda, ogni cosa che possa rientrare nel suo campo esperienziale. Ciò conduce a tutti gli effetti l’iniziato a vivere in uno stato di meditazione, in una completa immersione nel momento presente, per riconoscere infine il tutto come un riflesso della propria realtà interiore. Sarà allora che ritroverà le chiavi della Gnosi, là dove non avrebbe mai pensato di guardare.
Il Tao egizio Vi sono ancora alcuni simboli tradizionali il cui messaggio originario non è andato perduto nel tempo. Uno di questi casi è il TAO cinese (figura 4). Certamente non possiamo affermare di conoscerne in profondità il reale potere evocativo, per una serie di 10
Socrate, citazione in Mario Pincherle, Archetipi. Le Chiavi dell’Universo, Macro edizioni, Diegaro di Cesena (FC), 2002.
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ovvie motivazioni che abbiamo precedentemente affrontato, ma ne possiamo delineare approssimativamente alcune evidenti peculiarità.
Figura 4 – Il Tao cinese.
Traducibile letteralmente come LA VIA o IL SENTIERO, dalla traslitterazione cinese dào, rappresenta l’eterna forza essenziale che dà vita e sostiene tutto l’universo attraverso l’alternanza di due principi fondamentali: lo yang, il principio positivo maschile (bianco) e lo yin, il principio femminile negativo (nero). È la loro costante alternanza a costituire la trama della vita in cui siamo immersi e cui siamo soggiogati oscillando da una parte all’altra inconsapevolmente. Ciò si verifica sia fuori di noi, con il susseguirsi del giorno e della notte, dei cicli stagionali, caldo e freddo, dilatazione e contrazione, sia dentro di noi, con le sensazioni di tristezza e gioia, salute e malattia, piacere e dispiacere, giudizi di bene e male. Tale è l’intreccio di forze opposte così chiaramente rappresentato nella simbologia celtica (figura 5) e nella simbologia templare (figura 6); tale è il campo esperienziale in cui viviamo. La via proposta dal Tao è il raggiungimento dell’armonia con la vita che si concretizza nell’equilibrio dei due principi, altresì definibile come assenza di polarità. In tale condizione il saggio non si identifica più con l’alternanza degli opposti, non ne viene 49
costantemente coinvolto e sommerso, ma vi cammina con leggerezza ed agilità, in mezzo ad essi ed allo stesso tempo al di fuori di essi. Egli trova la pace interiore, una serenità che nulla ha a che vedere con gli eccessi di una gioia entusiastica o di una cupa tristezza.
Figura 5 – La dualità secondo la simbologia celtica.
Figura 6 – La dualità secondo la simbologia templare.
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La sapienza faraonica esprime tale principio dualistico attraverso la simbologia di uno dei geroglifici fondamentali, vero e proprio Tao egizio:
che oltre a rappresentare la lettera b, caratterizzata dal numero 2 in rapporto agli alfabeti semitici, esprime molto chiaramente l’immagine di una gamba, evocando l’idea di un appoggio e di un’alternanza necessari al movimento. Una sola gamba non è infatti sufficiente per camminare, ecco perché la struttura dell’essere umano è dotata di due arti inferiori opposti tra loro, senza i quali nessuna strada, nessun sentiero potrà essere percorso. Tale simbolo rappresenta dunque il SOSTEGNO, l’ALTERNANZA e il MOVIMENTO, dove ogni passo richiama naturalmente quello successivo, così come nel Tao cinese compaiono in ogni forza i semi di quella opposta. Non solo, ma la gamba sott’intende implicitamente l’esistenza di un unico corpo a cui entrambi gli arti sono collegati. Per quale motivo allora gli egizi avrebbero omesso di rappresentare l’intero organismo, forse per dimenticanza? Così come il Tao cinese cela l’idea di un’unica forza alla base della quale si dispiegano lo yin e lo yang, anche tale geroglifico ne vela l’esistenza non per volontà di nasconderla, ma semplicemente perché essa è naturalmente invisibile ed intangibile per la coscienza umana ordinaria. A noi spetta l’avventura di ricercarla, di risalire verso l’alto per svelarne il corpo, e la volontà che lo guida. Per arricchire la simbologia di questo principio duale, possiamo richiamare la figura della dea NEITH (figura 7), in egizio Neret, traducibile come LA TESSITRICE, in geroglifico
l’energia primordiale femminile della Creazione. Le due frecce che impugna rappresentano l’alternanza che dà un aspetto a tutto ciò che esiste nel tempo; il suo nome contraddistingue infatti la
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funzione di tessitura della vita, il misterioso sistema di intreccio alla base della realtà visibile.
Figura 7 – La dea Neith.
È il neter che veicola la Verità dell’esistenza, in quanto artefice dei meccanismi che strutturano le concatenazioni di tutti gli eventi. Per tale motivo è preposta alla tutela dei tribunali e dei giudici. Come evidenzia Luigi Anzoli: il Principio di Giustizia nasce soltanto dopo la conoscenza delle leggi che governano la Manifestazione… quindi, in altre parole, dopo che l’uomo ha imparato ad osservare i sottili fili d’Oro e di Argento che, intrecciati da Neith, creano il “Tutto”. In quest’ottica, soltanto Neith e coloro che possono osservare la “Doppia Verità” saranno in grado di vedere e comprendere la natura umana, poiché avranno 52
scoperto l’occulto sistema di intreccio che sta a monte della Manifestazione.11
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Luigi Anzoli, Neith. Custode dell’ultimo segreto alchimico, Kemi, Milano, 1999.
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La ricerca di Ak-Yb-Ka II. SULLA SOGLIA DEL TEMPIO
Ak-Yb-Ka si trovava finalmente lì, di fronte ai portali del Tempio, in attesa che si aprissero per rivelare l’aspetto di colui che si celava dietro di essi. Sapeva di essere pronto, da diversi anni ormai si era cimentato nello studio dei testi occulti, nell’esercitazione delle più disparate tecniche energetiche per manipolare gli eventi secondo la sua volontà. Aveva girato in lungo e in largo il paese per incontrare i più noti custodi delle arti magiche e aveva appreso i sistemi per entrare in contatto con entità sottili e farsi insegnare da esse. Sì, sentiva di non aver più nulla da condividere con le persone comuni; egli ambiva ormai al raggiungimento delle più alte vette spirituali, ambiva ad entrare nell’intima e misteriosa cerchia dei grandi sacerdoti, nella scuola dei misteri della vita. Il suo corpo era ora febbricitante di emozione, una sorta di entusiasmo misto a timore per ciò che stava per accadere. Una svolta epocale stava infatti per rivoluzionare la sua vita. Quante volte cercò in passato di mettere in mostra le sue capacità e le sue conoscenze per attirare l’attenzione dei saggi! Finalmente, avevano forse riconosciuto le sue qualità convocandolo al Tempio. Passarono solo pochi minuti ma gli parvero un’eternità. Ed ecco schiudersi lentamente l’imponente portale di legno. Dietro si intravedeva la figura sempre più nitida del faraone, il padre d’Egitto, messaggero divino. Fece pochi passi per avvicinarsi di fronte al candidato, il quale si inginocchiò come d’istinto e, con voce tremante per la commozione, disse: “Mio Signore, ho inseguito per anni le sottili conoscenze che conducono oltre le apparenze ed ora sono pronto per conoscere Dio.” Il faraone gli prese amichevolmente la mano e lo fece alzare; senza dire nulla, gli diede una rapida occhiata dall’alto verso il 55
basso, soffermandosi un solo istante sui calzari dell’aspirante. Poi il suo sguardo gli si pose pieno di compassione e tenerezza negli occhi, ma con tono severo e grave parlò: “Forse sarebbe meglio iniziare prima con l’imparare ad allacciarsi i sandali…”
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Una civiltà solare
Coscienza osiridea e coscienza horusiana Il percorso che conduce verso la conoscenza dei principi universali e verso la consapevolezza dei loro influssi nell’intima sfera vitale, non può che procedere di pari passo al risveglio di una scintilla divina che giace assopita in ciascuno di noi. Stante alla cultura religiosa cui siamo abituati, ciascun essere umano possiede già per diritto di nascita un’anima immortale, e il destino oltre la vita terrena sarà definitivamente stabilito per l’eternità in base alla sua scelta di fede o meno. Secondo la sapienza egizia invece, ogni individuo nasce con la possibilità di conquistarsi l’immortalità, e tale coronamento potrà avvenire solo nel riconoscimento e nell’ascolto di quel principio germinale che dal profondo del proprio essere reclama nostalgicamente la sua salita al trono interiore. La scienza faraonica distingue due processi all’interno di questa maturazione spirituale. Il primo viene identificato con il dio OSIRIDE (figura 8), in egizio Usyr e in geroglifico
il cui nome significa RINNOVAMENTO, nella natura come nell’individuo umano. Egli esprime tutte le forze cicliche presenti nell’uomo, nella società, nel mondo e nel cosmo; è il neter del DIVENIRE ESISTENZIALE, dove la vita non si estingue con la morte ma rinasce sotto un’altra apparenza. È la trasposizione della vita essenziale nella vita organica, per cui ne subisce inesorabilmente le leggi. Il suo regno è dunque la terra, il mondo dialettico. I suoi scettri contraddistinguono il dominio sui tre aspetti dell’essere: fisico, emotivo e mentale (o animico).
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Figura 8 – Il dio Osiride.
Lo stato di coscienza che Osiride rappresenta è la COSCIENZA DELL’IO, testimone permanente delle diverse personalità umane sia all’interno di questa vita materiale che nella sopravvivenza nel regno dell’aldilà; tale sopravvivenza rimane però sempre uno stato di immortalità relativo perché non definitivo. Secondo la saggezza faraonica oltre la morte si trova un luogo non sottomesso alle contingenze fisiche ma in cui sussiste comunque uno stato d’essere psichicamente vegetativo, per molti versi non dissimile da quello attuale, alimentato dai legami terreni contratti a causa dei desideri e degli interessi personali. La transitorietà di tale regno è condizionata dall’esaurimento più o meno rapido di queste forze di attrazione di carattere psichico, o dalla necessità di una nuova incarnazione.
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La coscienza osiridea concede all’uomo la padronanza sul piano terreno e sul piano astrale, da non confondersi però con le “questioni di Dio”. Ecco perché il geroglifico che contraddistingue il suo nome – il trono – è il seggio fisico su cui poggia la volontà divina per espletarsi ma senza rivelare apertamente i suoi intenti. Il secondo tipo di maturazione spirituale viene invece identificata con il dio HORUS (figura 9), in egizio Hor e in geroglifico
il cui significato letterale è QUELLO CHE È SOPRA, identificando uno stato di coscienza dentro il mondo ma al di sopra di esso. È il figlio di RA (figura 10), in egizio Ra e in geroglifico
che può essere tradotto sia come SOLE che come VERBO IN AZIONE (facilmente deducibile dal segno della bocca congiunto a quello del braccio), a sottintendere il fatto che la Parola che Dio proferì al principio divenne realtà, ossia visibile. Il sole è infatti la manifestazione visibile più vicina alla divinità, simbolo di sorgente di ogni vita sulla terra, di potenza, di punto di riferimento e centro dal quale irradia la luce che rende visibile tutte le forme del creato. La parola Ra è anche una sillaba-seme, un suono che denota il potere creativo, concetto analogo a quello espresso dalla Om secondo la tradizione induista. L’animale che rappresenta entrambi i neteru Horus e Ra è il falco, i cui occhi possono affrontare meglio di chiunque altro i raggi del sole senza che questi disturbino o possano danneggiare minimamente la vista; inoltre è il solo in grado di volare diritto verso l’alto, mentre gli altri uccelli devono salire obliquamente. Simboleggia anche la superiorità e la vittoria, in quanto superiore a tutti gli altri uccelli presenti nella terra d’Egitto ed in grado di vincerli nella lotta.
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Figura 9 – Il dio Horus, figlio di Ra.
Figura 10 – Il dio supremo Ra.
Horus simboleggia dunque il principio divino realizzato nell’umano, unione indissociabile della consapevolezza terrena con quella spirituale. L’ELEMENTO HORUSIANO – o elemento cristico – è il solo ed unico atomo immortale presente in potenza dentro l’essere umano, e la cui volontà è quella di unirsi all’uomo corporale per globalizzarne la coscienza ed insegnargli a discernere i valori reali dai valori relativi. La luce divina risvegliata nella sua incarnazione umana assume infatti il nome di Cristo nel Vangelo e Horus nella tradizione egizia. Abbiamo quindi rilevato una prima importante analogia tra le due figure, simboli del processo di rinascita interiore giunto al suo compimento, che delimita il passaggio dalla sensazione di essere un organismo individuale alla sensazione cosciente di essere una parte del Tutto. Per un unico principio che sorge dalla forza generatrice 60
della volontà orientata allo spirito, sono sorti tanti nomi e tante immagini quante lingue e culture hanno solcato il mondo nel corso dei millenni. Chi realizza se stesso risvegliando il proprio Horus, o meglio, diventano egli stesso Horus, entra a far parte di coloro che gli egizi conoscevano come la confraternita dei SEGUACI DI HORUS, Shemes Hor e in geroglifico
altrimenti conosciuti in occidente come la FRATELLANZA DEL SOLE o l’ORDINE DEI ROSACROCE. Pochi sono realmente questi Inviati; mai descrivono se stessi con tali epiteti e difficilmente si rivelano apertamente al mondo, ma nel silenzio accompagnano instancabilmente l’umanità senza mai abbandonarla. Il loro operato viene volutamente svolto lontano dall’attenzione caotica ordinaria, ma nei rarissimi casi in cui la loro missione impone di palesarsi alle masse, ecco che la loro memoria si inscrive indelebilmente nella storia. Alcuni di questi nomi possono essere Buddha, Gesù, Khrisnamurti, ecc. Coloro che raggiungono la liberazione dalle illusioni vanno al di là delle religioni, delle definizioni, perdendo la propria individualità e divenendo parte di quella forza spirituale destinata a guidare tutti coloro che iniziano ad avvertire la voce di Horus in forma ancora germinale e confusa.
La mitologia dell’Essenza La storia di Osiride è la trasposizione mitologica del percorso iniziatico. Osiride fu il primo sovrano della terra e, portando la civiltà agli uomini, insegnò loro come coltivare i campi, ottenerne del cibo e produrne del vino. Molto amato dal popolo, attirò su di sé l’invidia di suo fratello SETH (figura 11), in egizio Suty e in geroglifico
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o letteralmente TAGLIARE o DIVIDERE; significato analogo al concetto cristiano di diavolo, dal greco diabolos, ossia COLUI CHE DIVIDE, ma anche in stretta analogia con il termine ebraico di Satana, ossia Saitan, letteralmente AVVERSARIO. L’animale che lo rappresenta somiglia in parte ad un asino ed in parte ad un formichiere, la cui punta delle orecchie è tagliata ad indicare che non è in grado di ascoltare la saggezza divina. Seth cospirò dunque per uccidere il fratello Osiride, vi riuscì smembrandolo in quattordici pezzi e disperdendolo nelle varie parti d’Egitto. Tale è la condizione nella quale un individuo si ritrova quando perde la propria illusoria identità, la propria certezza di essere un Io integro, riconoscendosi piuttosto in una moltitudine di personalità differenti, ciascuna in lotta per la supremazia. Una presa di consapevolezza del genere non può che coincidere con la profonda sensazione di essere a pezzi, avendo perso ogni parametro, ogni punto di riferimento, ogni certezza in merito alla propria reale identità. Tutte le diverse personalità – o maschere – che riscopriamo in noi stessi, rispecchiano la coscienza osiridea dell’esistenza; esse sono di natura precaria e nascono, vivono e si alimentano all’interno di una visione dualistica della vita. I frammenti di Osiride furono poi ritrovati dalla sua sposa, la dea ISIDE (figura 12), in egizio Aset e in geroglifico
controparte femminile del principio incarnato dal marito. Ma nonostante il tentativo di ricomporre le diverse parti, il dio che fu non riuscì a riprendere vita. Solo in uno dei suoi lembi, l’organo genitale, inghiottito e quindi custodito dal pesce ossirinco, continuò a persistere quell’energia vitale in grado di fecondare Iside. Tale energia simboleggia la VOLONTÀ D’ESISTENZA oltre il mondo dialettico, rappresenta la quintessenza di Osiride, la pura creatività, riconoscibile attraverso quell’inspiegabile senso nostalgico che sprona a ricercare la verità celata oltre le apparenze. 62
Durante il periodo della gravidanza, Iside si nascose per evitare di essere scoperta dall’invidioso e spietato Seth. In altri termini, il principio germinale dell’Essenza – ancora molto fragile – tende spontaneamente a non manifestarsi troppo per non consentire alle forze caotiche della vita illusoria di sopprimere quella debole voce che reclama il diritto alla vita, alla vera vita, per fuoriuscire dall’opprimente ciclicità terrena, osiridea.
Figura 11 – Il dio Seth.
Figura 12 – La dea Iside.
E fu così che da questa magica unione tra Iside e l’organo genitale di Osiride prese vita HORUS BAMBINO – o HORUS IL FANCIULLO – in egizio Hor pa Khred e in geroglifico
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che rappresenta la SCINTILLA SPIRITUALE risvegliata a nuova vita. Le numerose raffigurazioni di questa importante fase del mito lo rappresentano nelle braccia di Iside da cui viene amorevolmente allattato (figura 13), una rappresentazione per nulla differente dal significato veicolato dalle immagini cristiane della Madonna che allatta Gesù bambino. In tale fase Iside rivela un nuovo aspetto di se stessa, fino ad ora rimasto celato agli occhi e alla coscienza dell’iniziato, assumendo il nuovo nome di HATHOR (figura 14), in egizio Het-het, in geroglifico
il neter dell’AMORE DIVINO che sostiene ed alimenta tutta la vita, assumendo ora simbolicamente le sembianze della PROVVIDENZA che si preoccupa di fornire all’iniziato tutto ciò di cui ha bisogno per procedere nel suo cammino, sia in termini di necessità terrene contingenti che di esperienze vitali. “Per questo vi dico, non preoccupatevi per la vostra vita, cosa mangiate, o cosa beviate, né per il vostro corpo, cosa vestiate. Non è la vita più del cibo e il corpo del vestito? […] Non preoccupatevi perciò del domani; infatti il domani si preoccuperà di se stesso: basta a ciascun giorno il suo affanno.”12 “Gli intrighi del genere umano non arrivano mai a compimento, è quello che Dio ordina che si compie. Pensa a vivere in pace con quello che hai e quello che ti spetta verrà da sé.”13
Iside-Hathor, nelle vesti della VITA MADRE-MAESTRA, ci chiede di occuparci della nostra vita e non di preoccuparci per essa; una sottile differenza concettuale che contraddistingue però un approccio alla vita estremamente rivoluzionario in confronto a quanto siamo comunemente abituati. 12 13
Vangelo (Mt 6,25). Gli insegnamenti di Ptah-Hotep (115).
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Figura 13 – La dea Iside (qui ha già assunto l’aspetto di Hathor) che allatta Horus bambino.
Di esperienza in esperienza, un passo dopo l’altro, il piccolo seme spirituale acquisirà sempre più spazio all’interno della vita dell’iniziato, fino a raggiungere una maturazione tale da consentirgli di vivere apertamente la sua nuova natura, sperimentandola in ogni occasione con tutte le forze a disposizione. È questo il punto di svolta che coincide con l’inizio di una nuova avventura interiore, in quanto la natura di Horus è ancora vincolata al dominio materialistico di Seth, ed è anzi proprio qui che quest’ultimo sfoggia tutte le sue armi più sottili. Secondo la 65
mitologia Horus dichiarò infatti guerra a suo zio per vendicare la morte del padre. La loro è l’eterna battaglia della luce contro le tenebre, l’essere contro il non-essere, la conoscenza contro l’ignoranza. Ma proprio quando Horus sembrò avere la meglio contro Seth, nel momento in cui stette per infliggergli il colpo di grazia, intervenne il dio THOT (figura 15), in egizio Thehuty e in geroglifico
o colui che riflette la luce di Ra come la luna riflette la luce del sole nella notte, confortando coloro che vagano nel buio. Egli simboleggia la SCIENZA SACRA DELLO SPIRITO, la reale conoscenza e comprensione della vita, è il mediatore tra gli esseri umani e il mondo divino, il neter che veicola la Gnosi stimolandone la ricerca ed occultandola allo stesso tempo. L’Insegnamento Universale di cui è portatore viene modellato e plasmato attraverso i tempi, adattandosi alla cultura e alla mentalità del momento in cui si manifesta, rimanendo però sempre invariato ed immutabile nella sua essenza. Il suo animale sacro – l’ibis – simboleggia il cuore, luogo in cui risiede la conoscenza divina. In natura infatti, quando la testa dell’ibis è ripiegata sul suo petto, forma con il corpo e le ali una figura simile al geroglifico del cuore. Tale uccello utilizza inoltre il suo lungo becco per pescare nel fango, e questa caratteristica di attingere il nutrimento dentro un fondale melmoso apparentemente privo di vita, indica per analogia la funzione di cogliere le caratteristiche dell’Essenza assopite e nascoste all’interno di noi. Thot assume nel mito il ruolo di portatore di SERENITÀ, di pace interiore, di pacificatore nell’interminabile conflitto tra Seth e Horus, impedendo a quest’ultimo di uccidere lo zio, ed offrendogli allo stesso tempo la sublime coscienza del progetto divino, della Grande Opera. La realizzazione ultima è l’unione in amicizia tra i due rivali, la loro conciliazione. Horus ottenne allora il potere supremo non uccidendo Seth, ma piuttosto tenendolo sotto controllo, mantenendo un equilibrio tra i 66
due principi che rappresentano. Ecco perché l’iniziato che raggiunge un tale livello di consapevolezza viene raffigurato con i due neteru ai lati in atteggiamento di riverenza (figura 16).
Figura 14 – Il dio Thot.
Figura 15 – La dea Hathor.
Anche secondo gli insegnamenti cabalistici gli uomini nascono con due impulsi: lo yetzer harà, l’ISTINTO VERSO IL MALE, e lo yetzer hatov, l’ISTINTO VERSO IL BENE. Il primo non designa il male di per sé, ma piuttosto l’inclinazione al male quando esso non viene propriamente bilanciato dal secondo istinto; potrebbero tradursi infatti più propriamente come l’ISTINTO EGOISTICO nel primo caso, e l’ISTINTO ALTRUISTICO nel secondo caso. Senza il primo un uomo non potrebbe costruirsi una casa, sposarsi e avere famiglia, perché tali cose richiedono un senso della propria identità
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che aspira ad autorealizzarsi. Esso diviene specificatamente malvagio quando gli si permette di agire senza essere controbilanciato dall’istinto del bene. Quando agiamo solo per noi stessi, il lavoro diventa sfruttamento, il matrimonio oppressione, il sesso violenza. Quando agiamo invece sia per noi che per gli altri, il yetzer harà è sotto controllo, segue la guida dell’istinto buono e gli fornisce l’energia per raggiungere il bene, diviene il suo veicolo fondamentale in terra.
Figura 16 – La riappacificazione di Horus e Seth nell’iniziato.
È a tal punto che l’Horus che vive in noi raggiunge la piena maturazione, la completa coronazione, trovando la sua definitiva dimora: l’AMORE, simboleggiato nella mitologia dalla sua unione 68
matrimoniale con Hathor, il cui nome significa letteralmente la DIMORA DI HORUS, e che esprime il sentimento divino nella sua purezza più elevata. Colei che in una fase precedente era la madre dell’Essenza in divenire, ne diviene infine anche la sposa fondendosi con essa. Le corna di bovino raffigurate sul suo copricapo (figura 14) rivestono un’elevata importanza per gli egizi, evocando l’idea di aprire o inaugurare la capacità di DISCERNIMENTO, di giudicare non più attraverso parametri umani ma secondo la volontà divina. Le due corna rappresentano infatti i due aspetti della realtà all’interno dei quali è sorto il Sole, simbolo dell’intelligenza divina per eccellenza, unica in grado di discernere senza mettere in opposizione e separare. Da ciò si può dedurre che l’iniziato che realizza se stesso, che diviene Horus, dimora stabile nell’Amore e con l’Amore. Con questa breve panoramica sul mito di Horus non abbiamo che sorvolato solo alcuni dei possibili messaggi contenuti al suo interno. Ogni fase della storia potrebbe infatti essere ulteriormente approfondita, ricercandone i significati nella genesi del nostro mondo interiore così come in quello esteriore, senza però mai perdere di vista il fatto che il linguaggio con cui cerca di comunicare è il simbolo.
L’Egitto biblico Volgendo l’attenzione sulla Torah ebraica, possiamo cogliere alcune importanti considerazioni sia sulla civiltà che sulla tradizione dell’antico Egitto. La legge mosaica che traspare da una visione letterale del testo sacro coincide con il principio osirideo della vita, per il quale l’alternanza tra un bene e un male relativi incombono senza sosta sull’essere umano; unica possibilità per mantenersi il più possibile lontani dalle sventure accidentali è quella di obbedire ai dettami imposti. Tale visione è la religione di superficie, cui la maggior parte del popolo si accontenta sforzandosi di seguirne le regole con la paura di risvegliare l’ira del dio, e con la speranza di accontentarlo in modo che la propria vita possa galleggiare in acque tranquille. L’obbedienza è ciò che contraddistingue questa religiosità, in cui 69
non vi è consapevolezza reale di ciò che risiede dietro le apparenze, e in cui le illusioni della manifestazione continuano a dominare indisturbate. Ma proviamo a scendere ad un livello interpretativo allegoricosimbolico più profondo. Nel fare questo, possiamo cogliere l’occasione per sfatare la tanto radicata quanto falsa idea della schiavitù del popolo ebraico in Egitto, per la quale non esiste nessuna testimonianza né reperto archeologico che faccia supporre la veridicità della narrazione biblica. Secondo l’opinione della maggioranza degli studiosi, la Bibbia è dal punto di vista storico un poema epico che coniuga molte invenzioni ed alcuni avvenimenti reali all’interno di una narrazione mitologica. Esaminiamo allora gli avvenimenti che vedono co-protagonisti gli antichi egizi, partendo proprio dalla parola comunemente tradotta con Egitto, in ebraico Mytzraym, scritto
il cui significato letterale è NEL MEZZO DELLE ACQUE. Possiamo subito notare come non vi sia nessuna correlazione con il termine utilizzato dagli egizi per nominare la loro stessa terra (come precedentemente analizzato), né tanto meno questo nome descrive la posizione geografica del paese, non essendo certo un’isola situata in mezzo al mare. L’immagine evocata dal nome potrebbe però simboleggiare proprio il mare della vita cui ci sentiamo spesso naufraghi, soli e sperduti nella continua ricerca di certezze, la terraferma. Ed ancora ritorna il concetto di esistenza osiridea, secondo la quale la nostra vita è comunemente immersa in un’incostante alternanza duale di stati d’animo: la calma e tranquillità dell’acqua seguita da tempeste ed uragani in un divenire ciclico senza fine. L’unica via di fuga da una tale condizione è quella di superare le acque passando per la via che le attraversa, là dove esse si sono miracolosamente divise in due, mostrando chiaramente come la natura che le contraddistingue possa tenere l’essere umano prigioniero nella convinzione che la possibilità di approdare alla “terra promessa” al di là di esse sia un’assurda utopia. 70
Una tale lettura dell’Esodo biblico potrebbe venire altresì avvalorata dall’analisi del termine utilizzato per designare il faraone, in ebraico phara’oh, scritto
la cui radice rimanda al significato letterale di GIOVANE TORO. Anche in questo caso – come vedremo in seguito – non vi è alcuna relazione con il termine utilizzato dagli egizi per contraddistinguere il loro re. Tale nome sembra piuttosto rimandare al concetto egoico di Io: giovane, scalpitante, forte ed accentratore come un sovrano. Il suo regno è il mondo terreno, e tutto ciò che rischia di metterne in discussione il potere e il controllo sulla totalità dell’individuo, lo conduce a lottare per ostacolarne il processo. Non può fare altrimenti, questa è la sua natura. Ecco dunque che il più grande profeta della cultura ebraica, MOSÈ, nasce sì in seno alla famiglia reale ed allevato da essa, ma senza esserne consanguineo, come a simboleggiare che la sua vera natura non è di questo mondo anche se nasce in questo mondo. Il termine ebraico Moshe si scrive
e significa letteralmente TRATTO DALLE ACQUE o SALVATO DALLE ACQUE. Mettendo in relazione il nome col significato della parola Egitto, emerge una meravigliosa correlazione con la genesi spirituale propria dell’essere umano, il quale vede nascere una scintilla spirituale all’interno del regno della personalità terrena – succube inconsapevole delle influenze di carattere fisico, emotivo e razionale – che via via prende sempre più spazio fino a manifestarsi apertamente, creando un’inevitabile contrasto con l’energia egoica che fino a quel momento ha regnato indisturbata. L’ego non può far altro che lottare per la propria sopravvivenza, non potendo seguire il seme spirituale al di là dei confini del suo regno mondano.
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Seguendo tale interpretazione il popolo eletto, ISRAELE, altro non è che la rappresentazione mitica della coscienza umana che prende atto della sua condizione di schiavitù e decide di intraprendere un cammino di consapevolezza che la condurrà verso il regno divino, oltre le apparenze del mondo. Uno dei tanti paradossi che costellano la Bibbia vuole che la stirpe prescelta da Dio sia stata da egli stesso nominata con il termine ebraico Yshra‘el, scritto
letteralmente COLUI CHE LOTTA CONTRO DIO. Come potrebbe dunque una tradizione spirituale di così ampia portata denominare la figura ideale di un iniziato con un tale appellativo? Ciò sembra in evidente contrasto con l’idea di fede, devozione ed obbedienza che contraddistinguono tutto l’insegnamento ebraico-cristiano. Ed in effetti, così è. Per quanto consapevoli che una tale osservazione potrebbe scuotere le fondamenta di molte delle nostre certezze religiose, non possiamo esimerci di porla in rilievo, giacché il profondo valore spirituale del nome, il suo obiettivo vitale, è proprio di destabilizzare in noi queste fondamenta concettuali cui siamo sterilmente abituati. Il passo in cui viene effettuata questa nomina divina si ritrova nella Genesi, dove Giacobbe trascorre una notte intera a lottare contro un misterioso personaggio, che si rivelerà essere Dio solo dopo aver subito e riconosciuto la sconfitta. La divinità sembra dunque affrontarci continuamente in battaglia nel campo della vita, e solo se abbiamo il coraggio di raccogliere la sfida e lottare fino alla vittoria, potremo riconoscere gli intenti di questo suo strano modo di agire. Ma di quale battaglia stiamo parlando? Riflettiamo sulle parole di Krishnamurti per aiutarci nella riflessione. Credere in Dio o essere atei sono, secondo me, entrambe cose assurde. Se sapeste che cos’è la verità, se sapeste che cos’è Dio, non sareste né credenti, né atei, perché quella consapevolezza renderebbe inutile qualsiasi bisogno di credere. Ma quando l’essere umano non è consapevole, vive 72
di speranze e di immaginazioni e nella fede o nella mancanza di fede cerca un appoggio che gli consenta di agire in un determinato modo. […] Per scoprire Dio, per scoprire la verità – e io affermo che esistono, io li ho scoperti – la mente deve essere libera da qualsiasi impedimento creato nel corso dei secoli dalla sua continua ricerca di sicurezza e di protezione.14
Nella Bibbia Dio ci offre una vasta panoramica di dettami cui attenerci scrupolosamente, alcuni ovvi per la nostra moralità, altri meno comprensibili o per certi versi troppo rigidi da accettare. Leggendo però tra le righe, sembra essere lui stesso a suggerire di non accontentarsi delle sue regole ma di cercare di andare oltre, di lottare contro di lui appunto, o meglio contro le idee e i preconcetti che inevitabilmente ci costruiamo intorno alla sua figura. In altre parole, egli ci chiede di non dimenticare mai di essere stati creati a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. La nostra umana tendenza è infatti quella di ricercare certezze relative e punti saldi provvisori su cui poter gettare le fondamenta vitali, e da lì interpretare e filtrare ogni esperienza futura. Ma la ricerca della Verità deve passare attraverso la disponibilità di accettare il nuovo e l’imprevedibile ad ogni istante. La vita è un torrente in piena sempre in movimento, ed accontentarsi di risposte prestabilite e relativi dettami cui adeguarsi, significa aderire alla legge mosaica (od osiridea). Ciò permetterà comunque di galleggiare sulle acque della vita, ma non consentirà mai di risalire il torrente fino a conoscerne la sorgente. Nelle scritture, Dio sembra offrire all’essere umano entrambe le possibilità; mentre l’accettazione passiva di regole morali è alla portata di tutti e dunque esplicitamente e letteralmente espressa, la ricerca dei significati profondi richiede una precisa volontà di orientare la propria vita verso una direzione verticale, spostando il proprio sguardo dal mondo esteriore all’universo interiore. È a questo punto, dopo una tale scelta espressamente manifestata attraverso passi concreti e non teorico-filosofici, che l’iniziato assume il nome di Israele, aprendo le porte a quella scintilla interiore denominata Mosè. 14
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.
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Mosè sembra infatti seguire i dettami del suo Signore, sembra accettare le regole del gioco divino, i principi che governano il mondo terreno a cui non ci si può sottrarre, ma la sua sete di comprensione si spinge anche oltre, affrontando con un RAGIONEVOLE DUBBIO la voce divina e contrapponendosi ad essa laddove la sua valutazione cosciente non gli permette di obbedire ciecamente, in alcune occasioni addirittura rimproverandola! Il Signore disse ancora a Mosè: “Ho considerato bene questo popolo; ecco, è un popolo dal collo duro. Dunque, lascia che la mia ira s’infiammi contro di loro e che io li consumi, ma di te io farò una grande nazione.” Allora Mosè supplicò il Signore, il suo Dio, e disse: “Perché, o Signore, la tua ira s’infiammerebbe contro il tuo popolo che ha fatto uscire dal paese d’Egitto con grande potenza e con mano forte? […] Calma l’ardore della tua ira e pentiti del male di cui minacci il tuo popolo.” […] E il Signore si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo. 15
Credo appaia evidente il fatto che passi biblici come il sopracitato siano piuttosto enigmatici e di difficile comprensione, e sembrino invocare lo sforzo di scendere a livelli interpretativi più sottili. Come potrebbe mai osare un profeta opporsi al proprio Signore? E come potrebbe mai un dio pentirsi di ciò che con solennità ha appena affermato? Lasciando ad ognuno la possibilità di riflettere personalmente su queste domande, possiamo comunque raccoglierle come spunti rappresentativi dell’intero racconto biblico, una veste allegoricosimbolica necessaria per veicolare profondi messaggi esistenziali che non devono necessariamente essere confusi con una veridicità storica. In questa accezione vengono scardinati i preconcetti per i quali l’antico Egitto è stato un reale protagonista biblico, un popolo schiavista con a capo un sovrano tirannico e crudele.
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Bibbia, Esodo 32, 9.
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La ricerca della perfezione
La teocrazia faraonica È stato René Schwaller de Lubicz il primo a parlare di teocrazia faraonica per indicare il tipo di governo di carattere politico e religioso vigente nell’antico Egitto, in cui il faraone incarnava sia il potere temporale che quello spirituale, per alcuni tratti non dissimile dalla figura del Dalai Lama per la popolazione tibetana attuale. La parola faraone risale al termine greco pharaò, traduzione dall’egizio per-aa, letteralmente GRANDE CASA, in geroglifico
dove il primo segno raffigura la pianta semplificata di un edificio, mentre il secondo una colonna, in tale contesto simbolo di grandezza. Ciò indica che il faraone non era ritenuto unicamente un uomo politico ma un’entità simbolica, un grande tempio la cui funzione era quella di accogliere dentro di sé tutti i neter e tutto il popolo d’Egitto. Egli offriva rifugio e protezione, ed il suo nome ricalca l’appellativo indiano di Mahatma, letteralmente GRANDE ANIMA, riservato alle grandi guide spirituali come Gandhi. Dobbiamo però oggi compiere uno sforzo notevole per comprendere quanto in realtà tali concetti non erano per gli antichi egizi solo sterili ideali, fantasie od aspettative illusorie in merito alla sua figura. Il faraone non si sforzava di incarnare o di mostrare le qualità che gli competevano, egli era effettivamente e quotidianamente quelle qualità. Il tirocinio che lo conduceva al trono non era certo paragonabile alle nostre università o ai nostri master, ma era un cammino iniziatico trasfiguristico che lo poneva in pieno contatto con la divinità celata dentro il suo cuore. Il faraone era divinizzato non in quanto Dio in terra, ma in quanto tramite di Dio in terra, profondo conoscitore dei suoi principi e, 75
quindi, della sua Volontà. In estrema sintesi egli era il simbolo dell’ESSERE UMANO REALIZZATO, l’esempio vivente – sotto gli occhi di tutti – di un percorso evolutivo potenzialmente aperto a chiunque ne avverta il richiamo. È dunque di vitale importanza non confondere la figura storica del faraone cui siamo generalmente abituati con la sua immagine simbolica, che si situa per definizione al di fuori del tempo e dello spazio, veicolando un messaggio sempre attuale di speranza, di possibilità di incarnare il PRINCIPIO REGALE attraverso un serio percorso di conoscenza interiore. La funzione faraonica non si limita nel mostrare come diventa un essere umano realmente libero, ma principalmente come lo si diventa. Diversi sono gli appellativi che contraddistinguono i suoi attributi. Vediamone alcuni tra quelli più significativi. Nelle vesti di sovrano del sud, cioè dell’Alto Egitto, egli porta in capo la corona bianca ed assume l’epiteto di nesut, ossia QUELLO DEL GIUNCO, in geroglifico
pianta considerata sacra in quanto permetteva la costruzione di oggetti particolarmente utili alla vita quotidiana, dai sandali al supporto scrittoio degli scribi. Tale è infatti il faraone per il popolo, offrendo a chiunque tutte le condizioni necessarie per poter condurre una vita terrena dignitosa e per poter realizzare le proprie aspirazioni spirituali. In qualità di sovrano del nord, cioè del Basso Egitto, egli porta in capo la corona rossa e assume l’epiteto di byt, letteralmente APE, in geroglifico
creatura straordinaria che incarna più di ogni altro essere la totale devozione al prossimo, al popolo. Ogni ape dedica infatti tutta la sua vita al sostentamento e alla crescita dell’alveare, consentendo inoltre alle piante di esistere e di riprodursi. Non solo, essa è anche in grado
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di compiere una vera e propria trasmutazione alchemica producendo l’oro liquido, il miele, estremamente prezioso per le sue qualità terapeutiche antisettiche e cicatrizzanti; ecco che il faraone incarna colui che si prende cura della salute fisica e spirituale del suo popolo. Il suo potere è associato al bastone heqa (visibile in mano ad Osiride nella figura 8), in geroglifico
che significa letteralmente GOVERNARE, comunemente conosciuto per la sua funzione di bastone pastorale. Simboleggia infatti il compito del faraone nella guida del popolo così come un pastore guida e veglia sul suo gregge cercando di impedire che qualche pecora si possa smarrire. Egli era infatti conosciuto anche come IL BUON PASTORE secoli prima dell’avvento del cristianesimo. L’altro scettro regale spesso associato al bastone pastorale è il nek-hakha (anch’esso visibile nella figura 8), in geroglifico
letteralmente FLAGELLO, anch’esso uno strumento da pastore, utilizzato inoltre per la raccolta di un’essenza sacra, il laudano. Mentre con il bastone pastorale il faraone tiene a sé i suoi sudditi per evitare che possano smarrirsi dalla Via, con il flagello egli li sprona affinché possano proseguire senza perdersi d’animo. Da tale bastone sgorgano inoltre tre flutti, ossia i tre aspetti dell’essere fisico, emotivo e mentale, sui quali vi è a questo livello di coscienza pieno controllo e consapevolezza. Un ultimo importante epiteto con cui si designa il faraone è ketankh, in geroglifico
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che significa letteralmente ALBERO DELLA VITA, a simboleggiare il fatto che egli è il vero albero della civiltà egizia, colui che le apporta nutrimento spirituale e materiale così come il fusto e i rami sostengono le numerose foglie. Tale appellativo rimanda inoltre allo stesso concetto presente nella Cabalà, simboleggiando la sintesi del sentiero che conduce dalla condizione umana istintuale a quella divina. Nei tempi antichi, nella stanza dedicata a Ra sulla terrazza del tempio di Amon a Karnak, durante la processione più importante che si svolgeva al suo interno per festeggiare il nuovo anno, il faraone rinnovava la sua unione con il Padre per mezzo di un rito conosciuto come knem yten, in geroglifico
letteralmente UNIRSI AL SOLE o IRRADIAZIONE, nella quale avveniva una rigenerazione che infondeva al re una nuova energia, ristabilendo il suo patto con il popolo, con la vita, con Dio.
Le corone della vita Per fare un passo avanti nella comprensione della simbologia egizia, diviene indispensabile soffermarsi sul significato che assumono le diverse corone spesso associate ai neteru, ai faraoni o ad altre personalità che rivestivano importanti ruoli all’interno della società. In tutte le culture del mondo il copricapo ha sempre assunto la funzione di contraddistinguere lo stato di coscienza della persona che lo veste, una sorta di artefatto convenzionale con lo scopo di rendere manifesto a tutti un livello energetico comunemente non visibile all’occhio umano. Un esempio lo possiamo facilmente osservare nell’arte sacra a noi più vicina, in cui le raffigurazioni del Cristo e dei santi vengono accompagnate dal famoso attributo figurativo noto come AUREOLA o NIMBO; ma una tale usanza la ritroviamo anche
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all’interno delle principali dottrine del mondo, da occidente a oriente (figura 17). Da una tale evidenza non possiamo non riconoscere la possibilità dell’esistenza di una sorta di sfera energetica che viene attivata all’altezza del capo in concomitanza ad una determinata consapevolezza vitale, per quanto i nostri occhi fisici non la riescano a scorgere e per quanto non esistano ad oggi comprovati strumenti di misurazione che ne attestino la presenza.
Figura 17 – Rappresentazione dell’aureola nel cristianesimo e nel buddismo.
La simbologia egizia parte dallo stesso assunto, rappresentando tramite l’utilizzo delle corone i diversi stati di coscienza che un essere umano può raggiungere o può assumere in determinati momenti della sua vita, prima del raggiungimento della piena consapevolezza divina che l’aureola sembra certificare: la COSCIENZA SOLARE, evidenziata dal disco solare di Ra (figura 10).
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Anche questo tipo di analisi ci impone uno sforzo di comprensione in grado di superare gli attuali stereotipi, che associano le corone regali ad un concetto di potere puramente egocentrico, senza alcuna correlazione con la reale maturazione interiore di coloro che le portano in capo. È infatti facilmente deducibile dalla storia a noi più prossima come il diritto al trono potesse essere ereditato unicamente per linea di sangue o per conquista militare. Non compaiono allusioni al fatto che un regnante avesse dovuto intraprendere un determinato percorso iniziatico per poter assumere la funzione di guida del popolo, né ciò lo si può dedurre dalle molteplici evidenze di atteggiamenti unicamente egoistici, avidi e crudeli che hanno mosso diverse scelte politiche nella storia. Il profondo significato dei diademi regali si è affievolito nel tempo fino a perdere quasi completamente l’originario valore. La responsabilità cui era messo di fronte un sovrano in Egitto – come in diversi altri antichi popoli nel mondo – era un qualcosa di estremamente serio, di vitalmente sacro. La sua saggezza e la sua coscienza dovevano essere così limpide da non rischiare di essere compromesse da aspettative personali, interessi economici o ideali di auto-affermazione; ogni decisione o presa di posizione era determinata da una forza interiore in grado di travalicare il comune limite individuale. Uno dei copricapi egizi più noti dalle comuni raffigurazioni è il nemes (figura 18), in geroglifico
conosciuto come l’ACCONCIATURA REALE, una cuffia di stoffa a strisce oro e blu che avviluppa la testa e, allargandosi da ciascun lato delle orecchie, ricade sul petto. Essa caratterizza il fatto che colui che la porta in capo sta percorrendo la Via solare che conduce alla realizzazione, al pieno riconoscimento della propria natura divina e al conseguente dominio sui propri impulsi egoici.
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Figura 18 – Tutankhamon con il copricapo nemes
Figura 19 - Stemma pontificio con le due chiavi.
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Passiamo ora ad esaminare le tre corone fondamentali, le tre tappe del risveglio dell’essere umano. Il potere di accesso al Regno dei Cieli – che è dentro di noi – è simboleggiato nel cristianesimo attraverso la CHIAVE D’ARGENTO e la CHIAVE D’ORO, ben espresso nello stemma pontificio (figura 19). Nell’arte egizia tali chiavi sono espresse per mezzo di due copricapo, il primo dei quali è il khedyet, la CORONA BIANCA (figura 20), in geroglifico
che oltre a rappresentare la sovranità sull’alto Egitto simboleggia la COSCIENZA DELL’IO, in altre parole il potere temporale sugli esseri e sugli stati d’essere che fanno parte della natura, e in quanto tale condizionato dal tempo e dalle circostanze del divenire ciclico dell’esistenza terrena. Ecco il motivo per cui questa corona sovrasta la figura del dio Osiride (figura 8). La coscienza osiriaca dell’Io dona all’uomo la padronanza sul regno terreno, egli non è più vittima inconsapevole di ignote forze che lo muovono e lo dominano, non è più soggiogato dal suo mondo inconscio, ma ne è interamente cosciente muovendosi nella sfera materiale con sicurezza e disinvoltura. Viene qui a cadere il contrasto interiore dovuto al continuo ed inconsapevole altalenarsi delle molteplici personalità, lasciando emergere un unico centro di relazione con il mondo circostante. Ma questo stato è però una sorta di immortalità transitoria e non definitiva, ancora vincolata ai legami terreni contratti a causa di desideri e obiettivi personali. Si potrebbe altresì affermare che in questa fase l’essere umano è libero dai condizionamenti esteriori della vita, dall’influenza dell’educazione ricevuta, della cultura di appartenenza e da tutte le idee preconcette fornite dalla società circostante, ma non è libero dai condizionamenti interiori. Il proprio ego è qui libero di esprimersi e di muoversi nel mondo con agilità e sicurezza, ma è ancora schiavo di se stesso.
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La coscienza dell’Io fornisce all’uomo la chiave della padronanza dei tre stati inferiori del suo essere: fisico, emotivo e mentale. Tale padronanza non è però che il piano inferiore del regno sovraumano, riferendosi ancora agli affari degli uomini e non al mistero di Dio. Questo punto è di vitale importanza, dato che frequentemente siamo portati a confondere un percorso di carattere spirituale con un percorso di carattere personale. L’attrazione verso il mistero della vita rischia di approdare verso campi comunemente ignorati che possono profondamente ammaliare per il potere in grado di sprigionare; è quindi molto facile lasciarsi conquistare da essi scivolando nell’errore di identificarli con il regno divino. Rientrano in tal senso molte tecniche cosiddette “energetiche” che promettono all’uomo di migliorare la sua esistenza, celebrando per questo obiettivo retaggi tradizionali come la meditazione, danze sacre, cerimonialità varie, studi simbolici, eccetera. E, in molti casi, la confusione aumenta. Estrapolare alcune nozioni da contesti molti più ampi e per millenni indissociabili dalle dottrine che le hanno veicolate, con tutti gli accorgimenti del caso, è tanto sciocco quanto pericoloso. Laddove anche i risultati di determinate tecniche possano rivelarsi estremamente efficaci, ciò non significa che corrispondano a “salti evolutivi”. Il fatto che si possa accumulare più energia per realizzare i propri desideri, per ottenere dalla vita ciò che si reputa giusto per se stessi, per affermare la propria immagine agli occhi altrui o per ostentare qualche potere in grado di far distinguere dalla massa, non farà necessariamente di noi delle persone migliori, più libere. Eppure quanto è facile confondere la propria elevatura energetica per elevatura spirituale. Se un antico romano fosse improvvisamente proiettato qui oggi e fosse messo davanti a un televisore, con molta probabilità vedrebbe in esso uno strumento divino, messaggero di realtà più sottili ed inspiegabili, e dunque spirituali. Ma noi ben sappiamo, a livello più o meno tecnico, cosa si nasconde dietro un televisore. Eppure la tendenza psicologica umana è da sempre quella di associare l’inspiegabile al divino, come se fosse istintivamente preclusa la ricerca di Dio negli aspetti più semplici e banali della vita quotidiana. 83
La corona bianca simboleggia dunque uno stato di coscienza potenzialmente pericoloso per i risvolti in cui rischia di far inciampare, ma è altrettanto fondamentale come tappa per un risveglio sovraumano, dato che tale passaggio permette all’individuo di uscire dalla sua condizione di automa e di divenire cosciente di tutti i recinti concettuali ed emotivi che lo tengono prigioniero. La seconda chiave è invece rappresentata con la CORONA ROSSA (figura 20), il desheret, in geroglifico
raffigurante la sovranità sul Basso Egitto e simbolo della COSCIENZA SPIRITUALE, il potere spirituale che dona la consapevolezza del proprio principio divino universale. Essa è dunque la chiave del regno sovraumano, la forza che tende a condurre l’essere umano verso la liberazione dai cicli del divenire, dall’incatenamento karmico. Tale coscienza è di carattere neutro, totalmente indipendente dalla personalità che la veicola ed in costante contatto con le sfere più sottili del creato, i principi invisibili dell’esistenza. Ma anche tale stato coscienziale, per quando possa apparire compiuto e definitivo, è in realtà incompleto. Per colui che si estranea dal mondo per isolarsi in un quieto eremitaggio contemplativo, non vi potrà mai essere una reale vittoria sul mondo. Un misticismo vissuto in solitudine potrà avvicinare ad un contatto con piani esistenziali più sottili, ma inesorabilmente allontanerà dal proprio mondo quotidiano, e quindi dalla vitale possibilità di confrontarsi con gli altri e con se stessi. Sarà solo l’incrocio delle due chiavi (figura 19), l’unione della corona rossa con la corona bianca, il sekhemty (figura 20), in geroglifico
a simboleggiare la completa supremazia sul regno d’Egitto, in altre parole l’unione indissociabile della coscienza umana con la
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coscienza divina, il potere supremo che dona l’immortalità definitiva, l’ingresso nel regno dell’Eterno. Tale è la REALIZZAZIONE HORUSIANA, in cui la propria personalità terrena si purifica dalle incontrollabili tendenze egoiche per conciliarsi con la volontà divina e servirla. Colui che pone in capo entrambe le corone, è uscito dal ciclo delle reincarnazioni e non appartiene più al mondo dei vivi né a quello dei morti, pur continuando a vivere in mezzo a loro per aiutarli. Non ci si libera per se stessi, ma per assistere gli altri nel loro percorso.
Figura 20 – Raffigurazione della corona bianca, rossa e della loro unione.
L’elemento horusiano, o cristico, è la parte immortale dell’uomo che vuole unirsi all’individuo per espandergli la coscienza ed insegnargli a discernere i valori reali da quelli relativi, propri della natura dualistica del mondo. Ed è proprio questa la grande paura della personalità mortale che cerca di resistergli fino all’ultimo, dando vita a quella sorta di combattimento interiore che siamo chiamati quotidianamente ad affrontare. Diventa allora più semplice comprendere il significato attribuito ad un altro importante diadema: la CORONA AZZURRA (figura 21), il khepresh, in geroglifico
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nota più propriamente come la CORONA DEL TRIONFO. Essa è simbolo per eccellenza dell’iniziato posto consapevolmente di fronte ai propri conflitti interiori, e di come la forza di volontà del suo spirito possa raggiungere la supremazia sulle energie avverse che ne opprimono la vitalità. Il tema del conflitto, delle battaglie e delle innumerevoli guerre cui sembra costellata la storia antica, è di fondamentale importanza quanto di delicata analisi.
Figura 21 – Corona azzurra in capo al faraone durante la battaglia.
Possiamo infatti notare che buona parte dei testi sacri sono strettamente collegati a temi di carattere bellico: è il caso della Bhagavad Gita, della Bibbia, del Corano e della simbologia egizia stessa. Ciò potrebbe apparire ovviamente insensato: come possono parlare di guerra i libri che insegnano a perseguire il vero Amore verso la vita e il prossimo? 86
Eppure i paradossi sono chiarissimi e sotto gli occhi di tutti, basti pensare al fatto che nel libro sacro più letto al mondo coesiste a fianco del comandamento di non uccidere un incitamento alla battaglia per l’invasione di terre e popoli stranieri. È evidente che se non vogliamo farci trarre in inganno da una visione letterale, occorre approfondire ulteriormente la questione.
L’arte del cambiamento Per affrontare il tema del cambiamento è opportuno esaminare il termine che contraddistingue la corona del trionfo. Il primo geroglifico che la caratterizza è infatti la raffigurazione del famoso scarabeo stercorario con cui veniva identificato il neter KHEPRY, analogo all’egizio Khepry (figura 22), in geroglifico
che significa letteralmente DIVENIRE, TRASFORMARSI, TRASFIGURARSI. Questa divinità rappresenta la natura mutante di Ra, la manifestazione dei cambiamenti che avvengono in natura e che elevano verso una consapevolezza più ampia, più reale. Mentre i mutamenti che soggiacciono sotto l’influenza di Osiride rientrano in un processo di trasformazione sopra un piano orizzontale – dunque all’interno di un circuito chiuso in se stesso – le modificazioni animate dallo spirito di Khepry contraddistinguono uno sviluppo verticale, un’ascesa alchemica verso il divino nascosto dentro di sé. Per quanto si possano ricercare modificazioni caratteriali e comportamentali in vista di una vita più piena, più felice, più appagante e più emozionante, o per quanto si possano sviluppare poteri e capacità non ordinarie in grado di percepire od anche manipolare una realtà più sottile di quella apparente, tutto ciò rientrerà sempre all’interno di un circolo vizioso sottostante alle medesime leggi di natura terrena, da non confondere quindi con il regno spirituale.
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Figura 22 – Il dio Khepry.
Un concetto analogo lo si ritrova in tutte le dottrine nate con lo scopo di condurre l’essere umano verso la meta della liberazione. La Ruota della Vita presente nell’iconografia buddista tibetana (figura 23), rappresenta proprio l’ininterrotto ciclo di vita-morte-rinascita, il SAMSARA. In esso ogni individuo può sperimentare condizioni esistenziali che potremmo definire infernali o celestiali, ma anche in questo secondo caso non sarà libero dal Signore del Tempo, il padrone delle illusioni (che nell’immagine sostiene il cerchio mordendolo). Nella stessa illustrazione simbolica viene spesso raffigurata una piccolissima strada che fuoriesce dall’immensa ruota per condurre verso la condizione di Buddha (in alto a destra), colui che si risveglia dal sonno della coscienza, osservando dall’esterno i suoi
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simili in modo distaccato e libero, con il solo fine di indicare loro la Via.
Figura 23 – La Ruota della Vita secondo il buddismo tibetano.
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Ecco allora che lo stato coscienziale rappresentato da Khepry individua quella forza in grado di guidarci nelle lotte interiori cui ci troviamo immersi quotidianamente, dove uno schieramento tende a tenerci vincolati alla natura ciclica mentre l’altro a spingerci fuori da essa per risorgere a nuova vita. Una considerazione del genere ci porta a comprendere più da vicino il motivo per cui il simbolo di questo dio è stato scelto come geroglifico per delineare il nome della corona del trionfo, laddove colui che la porta in capo ne è ispirato a tal punto da trovare la forza di perseguirne i dettami attraverso le difficoltà dell’esistenza, mosso da un desiderio di libertà in grado di trascendere le forze avverse: le illusioni. Non a caso il piccolo insetto nero, lo scarabeo, si può osservare in natura nel suo paziente lavoro di raccogliere gli escrementi per deporvi le uova, e poi formarne delle pallottole nere da cui nasceranno i suoi piccoli. Quale migliore rappresentazione alchemica! Elaborare pazientemente la materia informe e putrida per trasformarla in un ambiente fertile da cui nascerà nuova vita. Da ciò possiamo facilmente dedurre il motivo per cui ancora oggi lo scarabeo viene associato – seppur in modo molto sbrigativo – alla fortuna e al buon auspicio, divenendo forse il souvenir più noto nelle attuali mete turistiche egiziane. Khepry incarna il risveglio di un rivoluzionario modo di vedere la vita e di porsi in essa, un approccio creativo completamente svincolato dai classici modelli trasmessi dall’educazione e dalla cultura. Egli è più propriamente l’INTELLIGENZA DEL CUORE, generalmente assopita nella maggior parte degli esseri umani e facilmente confusa con aspetti caratteriali emotivi o buonisti. Tale intelligenza va al di là di parametri specifici con cui poterla identificare dall’esterno; essa emerge in ciascuno di noi a mano a mano che si dissolvono i veli delle proprie false personalità tenute in vita da una moltitudine di paure e attaccamenti. Interessante notare infatti come la prospettiva dello scarabeo visto dall’alto ricordi quella della calotta cranica, custode dell’organo preposto alla ragione umana, così come Khepry lo è dell’intuito (figura 24).
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È a questo tipo di intelligenza, la ROSA DEL CUORE, nella sua disarmante semplicità, cui tutte le dottrine fanno riferimento come prerogativa per riscoprire la realtà divina dentro di sé. Convertitevi, poiché è vicino il regno dei cieli.16
Facendo riferimento a tale monito si sono compiuti nell’arco della storia ogni sorta di efferatezze e guerre sante. Il concetto di conversione è stato comodamente utilizzato per scopi colonialistici, dove il forzare altre culture e civiltà ad aderire a un credo cristiano – liberamente interpretato – equivaleva nei fatti a controllarle e dunque sfruttarle con più facilità. La tendenza umana a voler imporre ad altri il proprio credo nasconde sempre fini egoistici, siano essi di natura economica, di potere, di affermazione o semplicemente di compensazione per le proprie profonde incertezze ed insicurezze.
Figura 24 – Lo scarabeo e la calotta cranica a confronto.
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Vangelo (Mt 4,17).
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Ma i principi alla base di ogni tradizione, vissuta nella sua purezza, sono estremamente chiari e rigorosi nell’escludere ogni forma di coercizione nel cammino spirituale. Tutte le dottrine sono consapevoli di portare in serbo lo stesso Insegnamento Universale, come potrebbero dunque veicolare messaggi di superiorità nei confronti delle altre? Non si pone certo come voce fuori dal coro il cristianesimo: la parola conversione è infatti la traduzione del termine greco originario di metanoein, che significa letteralmente CAMBIARE MENTALITÀ o CAMBIARE NEL CUORE. Ben lontani dunque da un dover aderire ad una religione piuttosto che un’altra. Sostituire un credo con un altro, senza effettuare un’effettiva conversione nel proprio intimo, equivale semplicemente a riempire la propria mente di pensieri diversi da quelli precedenti, cosa che non provocherà nessun reale cambiamento. Parimenti, mantenere una stessa fede religiosa con una disposizione d’animo tanto flessibile da permettere una continua messa in gioco del proprio modus operandi, rimanendo sempre tesi verso l’ascolto di un’intelligenza di fondo in grado di valicare i limiti di una logica assordante, potrebbe coincidere a pieno titolo con un’effettiva conversione. Un approccio di questo tipo non implica l’abbattimento della ragione, ma un suo decisivo ridimensionamento nelle scelte vitali che siamo chiamati ad affrontare nel corso dell’esistenza. È infatti importante comprendere che è il pensiero discorsivo a governare tutta la nostra vita, e che per sua stessa natura non può offrire soluzioni creative ai problemi, ma ci spinge nel rimuginare sempre all’interno di rivisitazioni di esperienze passate o ipotesi future. Ogni attimo è unico ed irripetibile, e non vi sarà razionalità in grado di fissarlo ed analizzarlo senza perderne il valore vitale. Il giusto posto della ragione è quello di affiancare gli impulsi di una coscienza superiore, dell’intelligenza del cuore appunto, senza soffocarne i sussurri o filtrarne i messaggi per meglio adattarli al proprio egoismo. In altre parole, mente e cuore devono imparare a collaborare armonicamente; ogni dissonanza tra loro non potrebbe portare buoni frutti ma solo dogmatismo, fanatismo, sofferenza e caos. Ben identificò Gesù questa necessità vitale.
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Ma il vostro parlare sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene dal maligno.17
La tradizione egizia illustra in modo meraviglioso il potenziale equilibro tra i due aspetti attraverso i geroglifici che li rappresentano. Un altro modo di definire l’intelligenza del cuore è infatti sya, in geroglifico
traducibile come INTELLIGENZA INTUITIVA, l’impulso horusiano che tende a sintetizzare le percezioni per farne emergere un aspetto vitale. Al suo opposto troviamo la funzione cerebrale ays, in geroglifico
letteralmente INTELLIGENZA COMPARATIVA, l’impulso sethiano razionale analitico e separatore. È facilmente osservabile come i due termini siano figurativamente speculari, l’uno il riflesso dell’altro, evocando in tal senso la naturale necessità di conciliazione, dove il primo impulso sarà veicolato dal secondo, la mente al servizio del cuore. Ma il processo che conduce a un tale equilibrio, per quanto appaia concettualmente molto semplice, si concretizza in una sottile lotta interiore, trovando nella vita quotidiana il campo di battaglia ideale. La scelta di accettare apertamente questa sfida richiede una sincera aspirazione e una forte determinazione, dato che le difficoltà e le ripetute sconfitte non si faranno certo attendere. Non a caso gli egizi consideravano la mente razionale il laboratorio di Seth, nella quale moltitudini di ingegnosi alibi e giustificazioni sono sempre in agguato per reprimere od alterare ogni eventuale barlume di consapevolezza spirituale.
17
Vangelo (Mt 5,37).
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La natura dei conflitti Possiamo ora volgere nuovamente l’attenzione alle simbologie guerriere per ricercarne un significato che travalica i limiti dell’apparenza. La raffigurazione del faraone nel bel mezzo di una battaglia (figura 21) potrebbe non essere dissimile dalla condizione interiore descritta nel più famoso poema sacro indiano: la Bhagavad Gita (figura 25). In tale trasposizione simbolica viene infatti narrato lo stato coscienziale in cui si trova l’iniziato, Arjuna, nel momento in cui riconosce al suo fianco Dio stesso nelle vesti del fedele amico, Krishna, che lo ha sempre accompagnato nel corso della vita ma che solo ora gli si rivela apertamente per incitarlo al combattimento e per indicargli il Cammino.
Figura 25 – La battaglia di Arjuna nella Bhagavad Gita.
Il campo di battaglia in cui il protagonista si ritrova prende il nome di Kurukshetra – la vita quotidiana – e gli avversari che è 94
tenuto ad affrontare ed uccidere sono i membri della sua stessa famiglia, parenti, mentori ed amici del passato. Possibile che la divinità sia così crudele da condurre il devoto a macchiarsi le coscienza con simili omicidi, contravvenendo al dettame universale di non uccidere? Eppure non è necessario giungere fino alla tradizione indiana per scorgere simili paradossi. Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua. Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio e figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.18
Siamo stati abituati fin da piccoli ad immaginare la figura di Gesù come un essere estremamente amorevole, dolce e compassionevole; la medesima cosa credo la si possa affermare relativamente all’immagine di Krishna per gli indiani. Possibile dunque che la dottrina di questi grandi inviati si riduca nel gettare semi di discordia tra le persone? O come fare per conciliare tali insegnamenti con il loro messaggio di amore verso il prossimo? Torniamo dunque alla nostra “ipotesi di lavoro” iniziale, considerando ogni descrizione od incitamento bellico come un’evocazione simbolica di una condizione in cui ognuno di noi può rispecchiarsi dentro la propria sfera interiore. In quante occasioni ci ritroviamo infatti a dover compiere delle scelte nella vita e a sentirci per questo combattuti da una parte di sé che vorrebbe perseguire una strada e un’altra parte che desidererebbe andare in un’altra? Spesso poi, le parti in gioco non sono solamente due ma ne intervengono molte altre. Non occorre allora andare molto lontano per assistere ad uno scontro di diversi schieramenti. Il nostro comune stato d’essere è di natura conflittuale. Divenirne consapevoli non significa creare nuovi problemi esistenziali – come spesso alcuni di noi si trovano a pensare quando viene loro 18
Vangelo (Mt 10,34).
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consigliato di volgere dentro di sé l’attenzione – ma significa riconoscere uno stato d’essere cui siamo inevitabilmente soggetti, volenti o nolenti. Un cammino iniziatico (al di là del nome altisonante che può far pensare a chissà quale tecnica occulta e segreta) passa proprio attraverso un meticoloso studio di sé, dei conflitti in atto, degli schieramenti in gioco e del movente che li ha condotti a fronteggiarsi in battaglia. Il primo passo è quello di divenire uno spettatore cosciente dell’arena interiore, di aprire gli occhi di fronte ad una sottile guerra che si svolge quotidianamente nelle profondità dell’animo. A ben osservare vi possiamo scorgere molteplici personalità che si contendono la supremazia le une sulle altre, in una lotta di potere senza sosta, nonostante talmente impercettibile da mantenere in noi viva l’illusione di essere persone integre e dotate di un Io stabile. Ma le sensazioni di disagio che accompagnano spesso la nostra esistenza possono ritrovare le loro radici anche in altri aspetti conflittuali, come ad esempio la dissonanza causata tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, o ancora tra ciò che si è e ciò che si pensa di dover essere. Nulla provoca più spossatezza del prendere atto di come le nostre azioni e i nostri comportamenti siano spesso in piena contraddizione con pensieri e buoni propositi. Una tale prospettiva offre una solida base interpretativa per comprendere a fondo gli accadimenti bellici descritti nei più importanti poemi sacri, per i quali sono sorte non poche perplessità in merito all’effettiva veridicità dei fatti narrati. Potremmo allora decidere di scartarne a priori ogni validità per via della loro infondatezza storica, o volgerci ad essi con un punto di vista meno comune ma sicuramente più prezioso. Per esempio, la tanto nota battaglia di Kadesh (figura 21), documentata nelle raffigurazioni di ben sette monumenti dell’antico Egitto, rappresenta uno scontro bellico avvenuto tra il faraone Ramesse II e l’esercito Ittita sulle rive del fiume Oronte in Siria. Secondo il resoconto egizio il faraone ottenne una memorabile e gloriosa vittoria, sottomettendo gli stranieri alla sua volontà; peccato che gli storici moderni siano propensi ad affermare che a vincere furono gli Ittiti.
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Il poema egizio si rivela essere un’opera surreale delle gesta del faraone, di carattere quasi propagandistico e di molto lontano dal potersi considerare un effettivo resoconto della battaglia. Di fronte ad esso ci si può dunque porre con un duplice atteggiamento: o credere che il faraone abbia voluto ingannare il suo popolo per coprire l’umiliazione di una sconfitta subita – in tal caso risulta difficile comprendere come possa aver nascosto l’evidenza di una ritirata di circa 20.000 uomini – oppure considerare tale battaglia come un’occasione storica per mettere in scena un’avventura mitica di natura quasi esclusivamente simbolica. Ciò cui l’iniziato ambisce è proprio il raggiungimento della PACE INTERIORE, ponendo fine ai conflitti che attanagliano la sua vita. Mentre il faraone simboleggia la nostra Essenza, gli stranieri sono i nemici da affrontare e sconfiggere, in altre parole gli aspetti di noi che non ci appartengono, estranei appunto, e che mirano a tenerci legati ad essi nel caos del mondo dialettico. Tra essi vi troviamo le paure, insicurezze, invidie, avidità, dubbi, pregiudizi, abitudini, eccetera. Se volessimo identificarli in una parola sola: ego. È interessante osservare come la parola egizia pace, hotep, in geroglifico
è figurativamente, considerando i caratteri fondamentali che li compongono, il riflesso del nome del dio PTAH (figura 26), Ptah anche in egizio e in geroglifico
simbolo della SCINTILLA DIVINA ancora imprigionata nella materia, in attesa di essere liberata per poter esprimere la sua vitalità. L’unione di queste due parole dà vita ad un nome molto noto nell’antico Egitto, PTAH-HOTEP, in geroglifico
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associabile sia ad un personaggio realmente esistito quanto ad una figura simbolica, per nulla dissimile dalla possibile realtà storico-mitologica di Gesù Cristo o Cristiano Rosacroce. Il nome Ptah-Hotep si presta infatti a molteplici possibilità di traduzione ed interpretazione, la prima delle quali potrebbe essere COLUI NEL QUALE LA SCINTILLA DIVINA HA TROVATO LA PACE.
Figura 26 – Il dio Ptah.
Egli contraddistingue infatti l’essere umano che ha conciliato il divino con la propria individualità terrena, librandosi oltre i limiti della dualità per raggiungere la pace interiore, la liberazione. Analizzando il nome privo dell’aggiunta convenzionale di vocali, ci si trova di fronte ad un palindromo: P-T-H-H-T-P
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che individua nel suo centro il proprio equilibrio, la stabilità interiore, il ritrovamento del proprio centro di gravità permanente, così come le due intelligenze dell’essere umano (analizzate in precedenza) trovano la loro piena e corretta vitalità nell’equilibrio. L’unione delle due parole che compongono il termine Ptah-Hotep rimandano infatti all’idea di una scintilla divina cui è stata offerta l’opportunità di ritrovare la pace, liberandosi dalle costrizioni illusorie del mondo, ponendo fine all’eterna lotta contro i “nemici” interiori che mirano al lento soffocamento della sua voce. Ad una figura di così ampia portata viene attribuito un magnifico testo sacro, valutato come uno dei più antichi scritti dell’umanità, risalente a circa 4500 anni or sono. Stiamo parlando dell’INSEGNAMENTO DI PTAH-HOTEP, considerato a tutti gli effetti come l’equivalente egizio del Tao Te Ching cinese. Tale libro è costituito da una serie di massime che sono state a lungo presenti nella storia dell’antico Egitto, sopravvivendo fino ai giorni nostri grazie alla protezione dei monaci copti, i probabili discendenti dell’originaria civiltà faraonica (oggi infatti la maggior parte degli abitanti del paese d’Egitto sono i discendenti dei colonizzatori arabi) che hanno cercato di mantenere viva la Gnosi egizia velandone il messaggio per mezzo del simbolismo cristiano. Ma per tornare all’analisi della natura conflittuale, anche nella Bibbia possiamo trovare diversi riferimenti, alcuni più espliciti mentre altri più velati. Un esempio tanto evidente quanto enigmatico lo si incontra nell’Esodo. Il Signore disse a Mosè: “Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore ed egli non lascerà partire il popolo.19 […] Mosè e Aronne fecero tutti questi prodigi davanti al faraone; ma il Signore indurì il cuore del faraone, ed egli non lasciò uscire i figli d’Israele dal suo paese.20
In diverse occasioni nel corso del racconto delle dieci piaghe d’Egitto, il faraone sembra infatti ravvedere la sua posizione in 19 20
Bibbia, Esodo 4,21. Bibbia, Esodo 11, 10.
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merito al popolo ebraico, pronto a lasciarlo partire in pace verso la sua terra promessa; ma ogni volta interviene il Signore per indurirgli il cuore. Per quale assurdo motivo Dio avrebbe allora chiesto al suo più caro devoto di compiere un’impresa nella quale lui stesso sarebbe poi intervenuto per interferire? Ci troviamo forse di fronte ad un’ingiustizia e un sadismo divini? Oppure questo aneddoto potrebbe rivelare la necessità vitale di passare attraverso le diverse esperienze conflittuali? In questo caso è infatti Dio stesso a spronare continuamente Mosè nel recarsi al cospetto del faraone, figura autoritaria che il profeta teme e che non si sente all’altezza di affrontare. Ma il destino lo chiama a compiere una simile impresa, così come Krishna chiama Arjuna ad impugnare con coraggio le sue armi per l’imminente battaglia. Saranno proprio le difficoltà insite in una tale esperienza che gli permetteranno di fuoriuscirne più forte, più consapevole. Potremmo dedurre che proprio grazie a questo difficile compito Mosè ha potuto maturare più che mai il forte senso della presenza divina dentro di sé. A ben guardare infatti la più corretta traduzione delle parole rivoltegli da Dio, emerge un particolare di straordinaria importanza: “Vieni dal faraone.”21
Vieni, non và. In altre parole, il Signore era perfettamente consapevole delle paure che affliggevano Mosè, della sua sensazione di inferiorità nel porsi di fronte ad una così ampia impresa, per questo gli disse: “Vieni con me dal faraone”, ricordandogli che sarebbe stato sempre con lui, dentro di lui. Nel porci di fronte alle difficoltà della vita, Dio sembra offrirci la possibilità di rivoluzionare il nostro comune atteggiamento mentale di paura e senso di abbandono. Egli ci invita ad andare con lui, a ricercarne la presenza attraverso tutte le esperienze che siamo chiamati ad affrontare, consapevoli che in definitiva – come nel caso
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Bibbia, Esodo 9,1.
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di Mosè – sarà sempre lui a dar vita alle nostra battaglie e ad agire in noi anche per mezzo di coloro che consideriamo nemici.
Figura 27 – Il simbolo di Horus evidenziato nel cerchio.
Figura 28 – Horus scolpito dietro il capo del faraone
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Ecco infine lo scopo di ogni battaglia interiore: la conoscenza di sé e il senso della Presenza. Diviene ora più chiara l’immagine di Horus spesso raffigurata nella corona del trionfo (figura 27) o scolpita dietro il capo nelle statue dei faraoni (figura 28). Tale è infatti il simbolo della VOCE DI HORUS, della Presenza divina, del Signore al nostro fianco, dell’amicizia di Krishna.
Il servizio disinteressato Secondo una storiella ebraica, ad un rabbi molto giusto fu concesso di visitare ancora in vita il purgatorio, Gehenna, e il paradiso, Gan Eden. Venne prima condotto verso il purgatorio e, man mano che si avvicinava, poteva udire sempre più nitidamente terribili grida di uomini e donne fortemente tormentati; varcata la soglia vide un gran numero di persone sedute a banchetto intorno ad una grande tavola apparecchiata in modo lussuoso ed imbandita con i cibi più prelibati che si possano immaginare. Non riuscendo a capacitarsi del motivo per cui soffrissero tanto, il rabbi si accorse dopo qualche attimo che i loro gomiti erano invertiti, in modo tale da non poter piegare le braccia per portarsi il cibo alla bocca. Il rabbi venne poi condotto verso il paradiso, dove echeggiavano già in lontananza forti risa di gioia e di festa. Ma con sua grande sorpresa si imbatté in una scena simile alla precedente: uomini e donne seduti ad un sontuoso banchetto, ed anche in questo caso con i gomiti alla rovescia. Solo un particolare era diverso: ognuno di essi portava il cibo alla bocca del proprio vicino o della propria vicina. Il concetto di servizio è indissociabilmente legato ad un percorso di consapevolezza, a tal punto che risulta difficile stabilire quale dei due sia la conseguenza dell’altro. Tutti i grandi maestri della storia sono noti per la loro totale dedizione al prossimo, instancabilmente occupati ad offrire i propri servigi al fine di indicare la Via ed incoraggiare a percorrerla. Poiché la vita nello Spirito, con lo Spirito e attraverso lo Spirito è innanzitutto unificatrice. […] Il segreto del successo sta nel non limitarsi soltanto a cercare, ma nel voler anche costruire; e ciò non per se stessi, ma innanzitutto al servizio
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degli altri […] Servire gli uomini è il solo modo per ottenere la resa di sé. Solo servendo gli altri infatti s’impara a dimenticare se stessi; solo mettendosi al servizio degli uomini l’Io è eliminato, annientato, purificato. Solo mettendosi al servizio degli uomini si può percorrere il cammino.22
Diviene dunque un paradosso spirituale la ricerca della liberazione per se stessi, per “sentirsi meglio” e per poter essere riconosciuti e rispettati come maestri illuminati. Lo scopo della liberazione è di aiutare i propri simili nel raggiungimento dello stesso fine. Ecco perché un vero maestro difficilmente si proclama tale; ecco perché un rosacroce non dichiara di esserlo, vive semplicemente la sua condizione in totale umiltà, completamente indifferente al fatto che il mondo intorno a lui possa accorgersi o meno del suo stato. Mille Cristo possono essere venuti prima e dopo la scomparsa di Gesù senza che nessuno di noi se ne sia mai accorto. Diverse condizioni storiche, religiose e politiche hanno permesso che una figura di duemila anni fa divenisse particolarmente nota, ma siamo realmente convinti che se oggi fosse vivo tra noi un simile uomo – o donna – si porrebbe sotto i riflettori? Siamo inoltre sicuri che il mondo di oggi sarebbe in grado di accettare il suo messaggio rinnovato? E ancora, siamo così certi di poter essere noi per primi in grado di riconoscerlo? Deificare un grande maestro dopo la sua morte rischia di divenire molto più comodo che deificarne gli insegnamenti: mentre il primo non può più garantire la sua presenza fisica per stimolare e correggere severamente, i secondi, se vissuti con estrema onestà, possono continuare a mantenerne vivo il messaggio nel tempo. Ma la difficoltà di poterli accogliere, sperimentare e vivere, risiede proprio nella loro natura non egoica, in netto contrasto con le comuni aspettative di poterne ottenere un tornaconto personale. Uno dei principali appellativi spesso associato al nome del faraone è hem, in geroglifico
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Jan van Rijckenborgh, La Gnosi nella sua manifestazione attuale, Edizioni Lectorium Rosicrucianum, Milano, 1991.
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comunemente tradotto come SUA MAESTÀ, che ha in realtà il significato letterale di SERVO. Il simbolo della parola raffigura un picchetto, ossia ciò che designa l’asse, la stabilità interiore, la lealtà incorruttibile verso il benessere del proprio popolo, la capacità di non essere influenzati da interessi personali nell’adempiere alla propria missione. Il rimando alla scena del Vangelo in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli è evidente; tale compito era infatti una consuetudine dei servi. Sempre al concetto di servizio è legato il termine SACERDOTE, hem neter, in geroglifico
letteralmente SERVO DI DIO. L’epiteto hem assume un’importanza fondamentale nella tradizione egizia e rappresenta molto di più di una semplice nozione, simboleggia la PASSIVITÀ VIVENTE, lo stato di non volontà personale. Tale condizione interiore è l’unica in grado di accogliere l’impulso di saggezza, di captare la Luce divina e di conoscere infallibilmente i principi universali. Ecco la vera maestà regale. Lo stesso concetto viene veicolato dalla tradizione cinese con il termine wu wei, in ideogrammi
traducibile come NON AZIONE, da non confondersi come indolenza o pigrizia. Essa è da intendersi piuttosto come un’azione disinteressata, scevra dall’attaccamento al risultato, dalle aspettative di poterne cogliere e gustare i frutti. Il wu wei è il fine della saggezza, potremmo anzi dire che è l’attuazione stessa della saggezza. Il sapiente non è infatti mai immobile, è sempre attivissimo ma completamente libero da ogni secondo fine che non sia quello di agire per amore della vita e in equilibrio con essa. 104
Occorre dunque uno sforzo elevato per comprendere la profondità di questo messaggio, giacché la prospettiva vitale radicata nelle nostre cellule è viziata da una forte cultura utilitaristica, per la quale ogni nostra azione deve mirare ad un preciso fine, sia esso materiale od affettivo, anche a scapito del benessere altrui. E il problema non si esaurisce qui, dato che nella maggior parte dei casi coloriamo ogni nostra azione con splendide motivazioni altruistiche, senza valutare realmente ciò che ha mosso l’agire. Eppure ritroviamo in tutte le dottrine la necessità di divenire consapevoli delle reali cause che muovono la nostra vita, per trasmutare infine la volontà personale nella volontà di Dio. Possiamo infatti leggere ciò che Krishna insegna ad Arjuna: Compi sempre i tuoi doveri senza essere attaccato ai risultati, perché colui che compie il suo dovere senza alcun attaccamento raggiunge il Supremo. [...] Così come l’ignorante agisce per attaccamento al frutto dell’azione, o discendente di Bharata, anche il saggio compie il proprio dovere, ma senza attaccamento, per beneficiare il mondo. […] Coloro che desiderano il successo nelle attività interessate adorano gli esseri celesti in questo mondo, perché tale metodo permette di ottenere molto velocemente il successo nell’azione interessata.23
Tali parole esprimono con chiarezza e forza il fine cui un sentiero spirituale deve condurre, e ne evidenziano efficacemente anche il grosso pericolo insito nel percorso: lasciarsi sedurre dalle potenzialità che ogni dottrina veicola per volgerle a proprio vantaggio. Sempre più spesso possiamo infatti leggere o entrare in contatto con nuovi metodi e sistemi che, facendo riferimento ad antiche tradizioni, provano a riattarne gli insegnamenti promettendo un sicuro successo nella vita economia ed affettiva. Ma non è questo il fine dei percorsi spirituali nella loro purezza, non lo è mai stato né mai lo sarà. Ciò non significa che sia semplice superare la propria volontà personale, ma è sicuramente disonesto e pericoloso nascondere i propri limiti con alibi spirituali. 23
Bhagavad Gita, (III, 19; III, 25; IV, 12).
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Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome, e col tuo nome abbiamo cacciato i demoni e col tuo nome abbiamo fatto molti prodigi?” E allora dirò loro apertamente: “Mai vi conobbi. Allontanatevi da me operatori di iniquità”.24
Non è sufficiente aderire con fervore ad una fede religiosa per avvicinarsi al divino. Accogliere nuove idee e convinzioni ed assumere un nuovo linguaggio ricco di termini spirituali, mantenendo però sostanzialmente inalterato il proprio modo di rapportarsi con il mondo, equivale semplicemente a colorare con nuove tinte la stessa parete. La verità è che dietro la cosiddetta “parola Dio” ci si può nascondere meglio di qualsiasi altra cosa; essa può voler dire tutto o niente. In suo nome può alimentarsi comodamente ogni sorta di desiderio egoico, così come può essere attinta quella forza in grado di far nascere un nuovo nucleo vitale. La differenza la potrà stabilire ognuno per sé, nel proprio intimo, purché il livello di onestà interiore sia tale da permettere di affrontare con coraggio le dure verità che si potranno incontrare. Di conseguenza, il servizio disinteressato può facilmente confondersi con un falso umanitarismo, nel quale, dietro a grandiose opere in favore del prossimo, si celano sottili interessi più o meno consapevoli di auto-affermazione o di un “riconoscimento” dalla vita pari alle energie investite. Per quanto non si possa non essere grati a tutti coloro che svolgono attività di aiuto, per amor del vero sarà comunque importante una profonda riflessione sulle motivazioni soggiacenti, non per ritornare sui propri passi, bensì per elevare in senso realmente spirituale una così nobile impresa. Le parole di Schwaller de Lubicz corrono in aiuto per comprendere meglio cosa significa votarsi al servizio:
24
Vangelo (Mt 7,21).
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significa voler dare e poter dare; significa saper attingere alla fonte inesauribile e offrire questo alimento a coloro che hanno fame e sete, nella forma che a loro si confà. L’Altruismo è il criterio per riconoscere l’uomo che oltrepassa l’umanità.25
Risulta forse ora ancora più chiaro quanto sia difficile giudicare dal di fuori la purezza o meno di un’azione altruistica. Grandi personaggi noti per la loro propensione al prossimo possono in realtà nascondere doppi fini di carattere personale, mentre altri individui sconosciuti che agiscono nella loro sfera vitale con piccoli gesti sinceri possono incarnare pienamente la passività vivente, liberi da ogni vincolo egoico. In conclusione, è importante considerare che l’analisi del concetto di volontà divina rimanda subito all’idea di enormi imprese, di gesta eclatanti che necessitano di una certa mole di energia per essere attuate. Nulla di più lontano dalla realtà. Ogni dottrina sottolinea che la Via è per tutti e alla portata di tutti, ed è proprio nelle piccole cose che essa può e deve essere vissuta e sperimentata. Occorre dunque vigilare affinché l’idea di una “inarrivabile Volontà di Dio” non diventi una buona giustificazione per la propria pigrizia interiore.
25
R.A. Schwaller de Lubicz, Verbo Natura, Tre Editori, Roma, 1998.
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La ricerca di Ak-Yb-Ka III. CON NUOVI OCCHI
Circa un anno trascorse dall’emozionante incontro con il faraone, padre spirituale d’Egitto. Pochi attimi, ma quale intensità! Al ricordo di tutte le certezze e conoscenze con le quali giunse fino a quel magico momento, un lieve sorriso gli si impresse sul viso. Era ancora viva infatti la dolorosa ma liberatoria sensazione provata nel trovarsi faccia a faccia con la sfinge. Quante illusioni coltivate e quante chimere inseguite! Mai avrebbe prima di allora immaginato come molte conoscenze potessero essere proposte sotto le mentite spoglie di insegnamenti spirituali. Quanti inganni sul Cammino! Ma nessun rimpianto sfiorava il suo cuore; egli sapeva che tutto quanto aveva compiuto con la massima intensità gli aveva comunque permesso di raggiungere quel luogo, o meglio quell’intima sfera vitale. Quanta severità dovette poi fronteggiare da parte dei maestri. Quante liti e incomprensioni si sono consumate con i suoi compagni. Fino a maturare lentamente, ma sempre più limpidamente, come in realtà la sua ricerca spirituale fosse principalmente trainata da desideri di auto-affermazione che nulla avevano in comune con la purezza poi assaporata. Tutto quello che pensava di aver conquistato per potersi meritare l’ingresso nel Tempio, è stato in realtà tutto ciò che ha dovuto con sofferenza abbandonare, come una zavorra pesante. In vista di quale gioia, però! I padri della Scuola dei Misteri, a differenza di quanto lui aveva sempre creduto, non smisero mai di seguire con attenzione e compassione ogni passo da lui compiuto dal momento della sua nascita in questa vita, ma non gli aprirono le porte della Scuola per premiare le sue conoscenze acquisite, bensì per dare spazio a quella sua predisposizione di cuore che rivelava una scintilla divina pronta a destarsi alla vita.
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Anche il faraone era ben consapevole di questa sua realtà interiore, e la riconobbe subito al primo incontro. Per tale motivo lo affidò direttamente alla protezione e alla guida del Grande Maestro del Tempio d’Egitto, cui il faraone stesso si rivolgeva in segreto per chiedere consiglio sulle questioni più difficili e delicate. Severo l’insegnamento, ma delicata ed accogliente la Luce cui esso conduce. Ad Ak-Yb-Ka venne così rivelato il nome e l’aspetto di colui che svolgeva una semplicissima vita in mezzo al popolo – a parità di diritti e doveri – pur non essendo riconosciuto da esso per la sua incommensurabile funzione spirituale. E fu per questo motivo che venne chiesto al novizio di custodire per sempre in segreto tale identità.
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La Casa della Vita
Due livelli di insegnamento Seguendo le diverse citazioni storiche e secondo quanto viene tradizionalmente tramandato, nell’antico Egitto era presente una forma di istruzione che potrebbe essere suddivisa in due livelli, non necessariamente consecutivi l’uno all’altro. Da un lato veniva impartita un’istruzione di tipo ordinario, con lo scopo utilitaristico – ma necessario – di formare delle persone in grado di soddisfare alcune esigenze sociali. Era questo il caso degli scribi, il cui compito si concretizzava nell’amministrazione pubblica, nella contabilità e nella stesura o riproduzione delle opere letterarie. Dall’altro lato, per una cerchia più ristretta di persone, veniva invece concesso di accedere ad un altro tipo di istruzione, un’educazione superiore improntata sulla conoscenza dei principi vitali che regolano l’esistenza. La scuola all’interno della quale venivano impartiti questi due livelli di istruzione prendeva il nome di CASA DELLA VITA, in egizio per-ankh e in geroglifico
sede dell’insegnamento esteriore ed interiore. Tale scuola era molto rinomata nel mondo antico, considerata centro iniziatico per eccellenza, tanto che diversi grandi personaggi divenuti noti nella nostra cultura occidentale furono formati proprio all’interno di essa. Pensiamo ad esempio a Plutarco, Pitagora, Platone, al Giuseppe biblico e, secondo alcune ipotesi storiche, anche a Mosè. La maggioranza del popolo invece, nonostante fosse molto rispettoso dei culti religiosi e delle festività tradizionali dei neteru, non prestava molta cura allo studio della scienza dello spirito, ma si accontentava di ciò che più superficialmente veniva offerto in modo letterale dalla mitologia. 111
In compenso, qualsiasi persona – indipendentemente dal sesso, dall’età e dalla classe sociale di appartenenza – poteva risalire tutti i gradini della scala del TEMPIO, hut neter, in geroglifico
letteralmente CASA DEL DIO, il cuore della Casa della Vita adibito all’insegnamento interiore. La terra d’Egitto è ancora oggi costellata da numerose opere templari, erette sulla base di principi architettonici di inaudita precisione e magnificenza. Ma non è a tali templi che ci si riferisce in questo caso, bensì a quella CONOSCENZA SACRA da cui essi traevano ispirazione, una conoscenza vitale ed impercettibile che viveva e vivrà sempre attraverso i tempi indipendentemente da un suo riconoscimento ufficiale o meno, e che gli egizi denominavano rek, in geroglifico
dove l’ultimo segno – un papiro arrotolato e sigillato – mette in risalto il fatto che l’occhio umano non è in grado di vederne lo scritto, dunque deve ricercarne il senso non apparente tramite una visione diversa da quella comune, oltre la logica e la razionalità: la già citata intelligenza del cuore. Tale simbolismo spiega il motivo per cui in alcune raffigurazioni di dei, faraoni ed iniziati, li si può osservare con in mano un papiro arrotolato: essi sono padroni di una scienza sacra che và al di là delle parole, oltre il pensiero dialettico, e raggiungibile solo per RIVELAZIONE, per intuizione diretta, non certo per una serie di informazioni accumulate. In Egitto vigeva dunque un sistema didattico proporzionato alle capacità individuali, in grado di fornire ad ognuno gli elementi necessari per stimolare l’interesse e le capacità di lavoro, ma riservava l’insegnamento del Tempio a chi dimostrava di essere un sincero cercatore, con la disponibilità ad accogliere una nuova
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mentalità ed accettare senza riserve le forti responsabilità che una scelta del genere imponeva. Così come oggi, anche allora era infatti essenziale rispettare e tutelare gli insegnamenti fondamentali come l’unico vero tesoro cui l’essere umano possa ambire. Tale è il motivo per cui la cerchia ristretta della sfera più interiore del Tempio, composta dai grandi saggi – cui il faraone apparteneva non come figura dominante ma come confratello paritario – prestava una particolare attenzione al mantenimento del SEGRETO, seshetet, in geroglifico
da non considerarsi con il significato generalmente inteso nella nostra lingua, ossia come qualcosa che si vuole nascondere, bensì con una traduzione più corretta del termine: INACCESSIBILE. Tale è infatti non ciò che è nascosto ma ciò che non si è in grado di raggiungere o di conoscere per insufficienza di mezzi, di consapevolezza. Tale concetto è strettamente collegato alla parola SACRO, theser, in geroglifico
letteralmente METTERE IN DISPARTE, ad indicare che ciò che è sacro deve essere tenuto lontano dal profano per proteggerlo da esso. Possiamo rievocare a tal proposito le parole di Gesù: Non date la cosa santa ai cani, neppure gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e, voltatisi, non vi sbranino.26
Anche per tale motivo l’insegnamento egizio si espleta attraverso una modalità simbolica. Tutte le iscrizioni, la storia delle dinastie, le mitologie, le raffigurazioni, possono essere considerate come simboli, e in quanto tali possiedono diversi livelli di interpretazione 26
Vangelo (Mt 7,6).
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via via più profondi a seconda dello stato di coscienza di colui che si appresta a studiarli. L’insegnamento faraonico era infatti esposto sotto gli occhi di tutti, sui muri dei templi, sulle steli, obelischi, nelle tombe; eppure la vera scienza era inaccessibile a coloro che non erano educati alla mentalità dei saggi, non per avidità di sapere ma per evitare che tali messaggi potessero essere travisati od utilizzati per fini egoistici. È interessante considerate come il verbo INSEGNARE, seba, in geroglifico
sia contraddistinto come segno finale da un uomo che tiene nelle mani un bastone onde sottolineare la necessità di approcciarsi con fermezza nel difficile compito della formazione, e di prestare dunque molta attenzione nella sua delicata esecuzione.
Figura 29 – Raffigurazione alchemica della visione del Reale.
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Il penultimo geroglifico – una stella – è invece la rappresentazione simbolica per eccellenza dell’insegnamento; la stella è infatti una guida luminosa nel buio della notte, nel caos dell’esistenza. Lo stesso segno individua anche i concetti di PORTA e di LUCE, precisando proprio il fatto che gli insegnamenti sono un corpus di saggezze in grado di aprire la porta ed illuminare il cammino verso un nuovo modo di vedere e vivere la vita, oltre le apparenze (figura 29).
La meta della felicità Per riprendere da un’altra prospettiva l’arte dell’insegnamento, è importante considerare il verbo ISTRUIRE, suta yb, in geroglifico
che significa letteralmente RENDERE FELICE IL CUORE, compito tanto nobile quanto arduo e gravoso. Per gli egizi non poteva essere contemplata una conoscenza priva di un cuore capace di contenerla e metterla a frutto. Ecco perché una reale istruzione non poteva ridursi ad una mera trasmissione di informazioni, ma doveva necessariamente passare tramite una formazione dell’individuo, un risveglio delle sue particolari facoltà creative. Possiamo leggere a questo proposito negli scritti di Seneca: Ricordare è custodire ciò che è stato affidato alla memoria, mentre sapere significa far proprie le nozioni apprese e non star sempre attaccato al modello, con lo sguardo sempre rivolto al maestro. Chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo.27
L’obiettivo di ogni insegnamento non può che essere la felicità dell’allievo, la sua capacità di adattarsi alla vita muovendosi in essa 27
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano, 2002.
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con flessibilità ed armonia, e ciò può realizzarsi solo tramite la riscoperta di uno stile strettamente personale. Ogni altra forma di indottrinamento non si potrà mai definire realmente formativa e costruttiva, ma piuttosto un modo per ricalcare sterilmente idee altrui. Sorge però il problema di comprendere cosa si intenda per felicità, dato che intorno a questa parola si raggruppano spesso i significati più disparati. Se è pur vero che la maggior parte di noi condivide il fatto per cui dietro tutti i desideri che riempiono la vita si nasconde la speranza di raggiungere definitivamente una tale condizione, è anche vero che difficilmente ci soffermiamo nel cercare di capire a fondo cosa essa sia. Potremmo allora partire dall’analisi di ciò che non è la felicità. Siamo infatti generalmente portati ad identificarla con l’entusiasmo, ma a ben vedere esso è solo una saltuaria scossa emotiva destinata presto a svanire per lasciare il posto ad una sensazione contraria di pari intensità. Alcuni pongono invece il fine della felicità nel raggiungimento di una stabilità economica o nel mantenimento di una buona salute, o ancora nella realizzazione delle proprie ambizioni di notorietà, carriera lavorativa, eccetera. La cruda verità è che nulla di tutto questo riesce mai ad acquietare e soddisfare definitivamente la nostra ricerca; come veri e propri tossicodipendenti ritorniamo in breve tempo alla carica per colmare nuovamente una profonda insoddisfazione. Come potrebbe infatti una reale serenità d’animo dipendere da eventi esterni? La natura stessa della vita è impermanente e imprevedibile. Vincolare dunque un’idea di felicità a condizioni esistenziali incontrollabili equivale a costruire una casa sulle pendici di un vulcano attivo. Diviene dunque indispensabile un cambio di rotta per concentrare la ricerca direttamente all’interno. Il concetto di felicità viene espresso nella scrittura sacra egizia per mezzo della parola au-yb, definibile anche come GIOIA, in geroglifico
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che significa letteralmente LARGHEZZA DI CUORE, in esplicita contrapposizione ad un atteggiamento di contrazione, di chiusura verso la vita e le altre persone. La vera gioia è dunque la capacità di condividere il proprio cammino con il prossimo, metterne al servizio le esperienze affinché possano arricchire quelle altrui, sapersi porre in discussione per poter accogliere altri punti di vista, offrire il proprio aiuto ogni qual volta le situazioni lo richiedano. In così poche parole può dunque racchiudersi il segreto della felicità? Secondo la dottrina egizia, sì. Nulla di occulto, nulla di complesso. La semplicità più disarmante. Eppure, bastano pochi tentativi per toccare con mano quanto il nostro modo d’essere sia lontano da una spontaneità del genere. Potremmo leggere tutta la vita i più diversi testi sacri, memorizzarne gli insegnamenti carichi di amore verso il prossimo, ma rimanere negli anni esattamente quelli di sempre, con le proprie paure, insicurezze, avidità, invidie. Certo, forse con qualche sforzo di volontà potremmo ricalcare più o meno goffamente qualche amorevole atteggiamento, ma presto o tardi una tale finzione sarebbe destinata a smascherarsi. Quindi? Esiste una via di uscita? I saggi egizi riconducono ancora una volta l’esame del problema negli aspetti più quotidiani e semplici dell’esistenza. Non abbiamo infatti altre unità di misura per conoscerci se non le nostre stesse azioni, i fatti concreti con cui costruiamo giorno per giorno la nostra esistenza. Ogni altra analisi rischia di dissolversi in elucubrazioni mentali fine a se stesse. Non saranno i nostri splendidi ideali o le nostre ambizioni spirituali a certificare chi siamo realmente. Un giorno Omar morì. Nel suo nuovo stato di realtà, apprese i segreti del cielo e della terra e anche le destinazioni dei suoi simili nei regni dell’altra vita. Così, fece una scoperta straordinaria. Un suo amico asceta sarebbe finito tra le fiamme dell’inferno, mentre un potente re avrebbe goduto delle gioie del Paradiso! Sconcertato, Omar domandò a un arcangelo il motivo di quella strana sorte. Lo spirito rispose: “Non stupirti per ciò che hai visto e che accadrà nel futuro. È un giusto destino. L’asceta infatti viveva in solitudine, senza affetto per il prossimo. Mentre il re era sempre in contatto
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con la gente, elargendo benefici. Perciò, finché ti basi sulle apparenze, come puoi penetrare la volontà di Dio?”28
Noi possiamo sentirci profondamente generosi, possiamo anche presentare ad altri questo aspetto come nostro tratto caratteriale, e trarre conferma da ciò per il fatto che nel vedere i senza tetto ai margini della strada ci rattristiamo, e ci impietosiamo nel leggere notizie di bambini nel terzo mondo che a stento riescono a procurarsi una porzione di cibo. Ma se dalle nostre tasche non uscirà fattivamente un solo centesimo, se ad ogni moto di compassione corrisponderà un’ottima giustificazione per non compiere nessun passo concreto verso l’altro, allora tutta la nostra generosità rimarrà unicamente una pia illusione, uno spregevole auto-inganno per colmare la paura di osservare quello che realmente siamo. Solo da lì possiamo infatti partire per dar vita a qualcosa di diverso. Il buon Dante insegna che per giungere alla più alta vetta del paradiso, occorre prima passare attraverso tutto l’inferno. Non esistono scorciatoie!
Il valore dell’amicizia Per gettare un ponte sull’abisso che sembra separare il sentimento di puro Amore verso il prossimo dal caos di contraddizioni che accompagnano costantemente le nostre azioni quotidiane, la tradizione egizia pone in risalto il concetto di amicizia come il sentimento divino a noi più vicino. La parola AMICO, ak-yb, in geroglifico
significa letteralmente COLUI CHE PENETRA ALL’INTERNO DEL CUORE, descrizione che delinea chiaramente il profondo valore del termine. Strettamente legata ad esso compare anche la sua caratteristica basilare, uba-yb, in geroglifico
28
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.
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traducibile sia come PENETRARE NEL CUORE che come OTTENERE LA CONFIDENZA, una condizione essenziale che ne sottende velatamente molte altre: intimità, disponibilità, sincerità, lealtà, discrezione e affetto. Forse sono proprio queste ultime qualità ad ergere l’amicizia come il veicolo più sacro per mezzo del quale si può manifestare la rivelazione divina. Basti pensare all’epopea della Bhagavad Gita, dove il Signore si cela dietro le vesti del suo fedele amico per iniziarlo alla scienza del Vero. Ma troviamo riferimenti espliciti anche nel Vangelo. Questo è il mio comandamento: che vi amate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando.29
Da sottolineare il fatto che non viene richiesto di morire per i propri amici, ma di donare la propria vita, quindi di metterla al loro servizio, senza annullare se stessi ma in virtù di un’unione capace di valicare i limiti ordinari per attingere ai livelli più puri dell’esistenza. Chiunque di noi può infatti toccare con mano come condividendo con un amico fidato un problema, questo perda subito di quell’eccessiva importanza che lo poneva poco prima in una condizione di insuperabilità, lasciando così emergere un nuovo punto di vista più ricco. È infatti evidente che l’amicizia di cui si parla non è quel legame illusorio che spesso unisce le persone per farle condividere momenti di superficialità dietro ai quali non sussiste nulla, ma si tratta di una condivisione per crescere insieme, per sostenersi l’un l’altro in vista di una riscoperta della gioia della vita.
29
Vangelo (Gv 15,12-14).
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Se mi fosse concessa la saggezza, a patto di tenerla nascosta in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci dà gioia, senza un compagno.30
L’amicizia è quanto di più naturale e semplice si possa fare esperienza, al di là di ogni credo, religione o concetto spirituale, ciascuno di noi tende spontaneamente a riconoscerle un valore fondamentale per la propria vita. Grazie ad essa è possibile mettersi in gioco e misurarsi senza sosta, e più la sincerità e la franchezza conquisteranno spazio, più lo specchio in cui riflettersi sarà limpido. Le tradizioni ci offrono un preziosissimo regalo ponendo il sentimento dell’amicizia sullo stesso piano di quello dell’Amore. Si potrebbe quasi affermare che in tal modo viene posta alle strette ogni tentazione di fuga dai nostri limiti caratteriali per divagare su speculazioni teorico-filosofiche che rischiano di allontanarci dalla verità di noi stessi. Spesso e volentieri, infatti, preferiamo fuggire dalla semplicità perché ci sentiamo forse disarmati di fronte ad essa, e ricerchiamo rifugi più scomodi ma più sicuri nei momenti di meditazione, preghiera, studio o ritualità in cui, tutto sommato, siamo soli con le nostre illusioni e quindi al riparo da confronti scottanti. Per quanto tutte queste forme di cerimonialità possano essere estremamente sacrali ed importanti, occorre vigilare con severità sul rischio di trasformarle in nascondigli per i propri limiti egoici; facilmente esse possono venire travisate per assumere l’aspetto di allettanti alibi spirituali con cui isolarsi dalle problematiche relazionali quotidiane. Se dunque presenti il tuo dono sull’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con tuo fratello, e dopo ritorna presentando il tuo dono.31
Una significativa storiella indiana narra di un topolino che per sventura si ritrovò a vagare nel freddo della notte per un alto valico di montagna. Estremamente infreddolito ed affamato, scorse in 30 31
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano, 2002. Vangelo (Mt 5,23).
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lontananza una piccola luce provenire da una grotta non molto distante da lui. Senza pensarci troppo, si diresse subito verso quell’apertura. Giunto all’ingresso, vide all’interno un vecchio asceta seduto in meditazione vicino al fuoco e con al fianco una sacca colma di cibo. Il topolino, superando per la fame le sue titubanze, raggiunse i piedi del monaco per spronarlo leggermente con la sua zampina; ma il vecchio non sembrò dargli molto peso, scuotendo semplicemente il piede per allontanarlo. Il topolino, credendo di avergli fatto solo solletico, gli si rifece appresso scuotendogli con più forza il piede. A questo punto l’asceta aprì gli occhi, vide il topolino, e lo allontanò con più decisione rimproverandolo: “Topo! Come osi disturbarmi nella mia meditazione trascendentale? Non capisci che io sto raggiungendo l’unione con Dio? Và dunque a disturbare qualcun altro!” Il topolino rimase alcuni secondi a fissare con occhi spiaciuti e increduli il monaco, poi disse: “Sono giunto fin qui a disturbarti perché sono infreddolito ed affamato, mi sarebbe bastato molto poco per trovare sollievo. Se non sei dunque in grado di unirti con un piccolo topo come me, come potrai mai unirti con Dio?” Detto ciò, si girò con delusione ed uscì dalla caverna.
L’Insegnamento Universale Si tramanda che ogni dottrina spirituale nella sua purezza – non edulcorata nel corso della storia per fini utilitaristici – sia portavoce di un unico Insegnamento Primordiale che da sempre accompagna ed accompagnerà l’essere umano, pur adeguandone il linguaggio e il simbolismo al periodo culturale del momento. Stiamo dunque parlando di un insegnamento immortale ed eterno, ossia al di fuori del tempo e dello spazio, alla cui vitalità si può accedere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. Ecco perché tutti coloro che ergono la propria tradizione sopra un piedistallo comparandola alle altre, hanno già compiuto un primo passo di allontanamento da essa. Gli antichi saggi egizi erano perfettamente consapevoli di tale realtà, liberi dalla superbia e dall’arroganza di considerare la loro conoscenza la sola ed unica strada per giungere al divino. In 121
profondo contatto con l’Insegnamento Universale, i loro sforzi erano semplicemente tesi a tradurne il messaggio tramite un simbolismo naturale consono al luogo e alla cultura in cui vivevano. Un’antica leggenda narra che Buddha, dopo aver donato agli uomini la dottrina per un nuovo risveglio spirituale ed aver così lasciato questo mondo al termine dalla sua missione, constatò che in seguito alla sua apparizione si scatenarono terribili lotte tra i sostenitori e conservatori dell’induismo e i portavoce del nuovo buddismo. Il Maestro, il cui unico fine era quello di servire l’umanità portando ad essa un messaggio di amore e libertà, soffrì profondamente nel veder compiere omicidi nel suo nome. Decise allora di tornare sulla terra circa dodici secoli dopo la sua scomparsa, assumendo la nuova identità di Shankara il Sublime. Egli insegnò la sintesi di tutta la saggezza divina contenuta nei Veda, nelle Upanishad e negli insegnamenti buddisti, mostrando come parlassero in realtà della medesima natura interiore e di come perseguissero lo stesso obiettivo, pur utilizzando linguaggi e simbologie differenti. Attraverso questa prospettiva, possiamo subito renderci conto in quale particolare momento storico ci ritroviamo oggi a vivere. La velocissima globalizzazione degli ultimi anni – fenomeno del tutto nuovo per la civiltà umana – sta causando una sempre più evidente compenetrazione di razze, culture e usanze. Ciò ha permesso alle diverse filosofie spirituali di divenire manifeste potenzialmente per chiunque; un’occasione tanto meravigliosa quanto pericolosa. Meravigliosa perché i diversi linguaggi si confanno alle più disparate strutture mentali che tanto ci contraddistinguono gli uni dagli altri, offrendo l’opportunità di perseguire il medesimo cammino pur partendo da presupposti apparentemente tanto diversi. Pericolosa perché le diverse dottrine possono da un lato essere osteggiate e giudicate ponendosi nella rigida e fanatica prospettiva di una sola di esse, o dall’altro lato essere inserite con estrema leggerezza in un unico calderone caotico che rischia di confonderle e denaturalizzarne. Ogni dottrina esige infatti uno studio e una sua applicazione seria e meticolosa.
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Figura 30 – La gamba sinistra avanti sul Cammino: “Questa strada ha un cuore?Se lo ha, la strada è buona.”
Per comprendere meglio questo concetto poniamoci molto banalmente nei panni di un grande amante dell’esercizio fisico. Costui potrebbe irrigidirsi nella passione per un’unica attività sportiva denigrando tutte le altre, escludendo in tal modo dalla sua vita la gioia di poter condividere e accogliere nuovi spunti di riflessione in grado di migliorare la sua stessa materia ginnica. Oppure potrebbe saltare qua e là svolgendo superficialmente e saltuariamente diverse discipline sportive, ma anche in questo caso rimarrà inconcludente e una sensazione di insoddisfazione lo accompagnerà sempre, non potendo capire a fondo quella particolare coscienza fisica cui può condurre solo una seria a costante applicazione. O, ancora, potrebbe prediligere un’unica attività 123
sportiva fra le tante, a lui più affine e più in sintonia, perseguirla con passione e dedizione, ma senza per questo considerare di minor importanza tutte le altre, né tantomeno tirarsi indietro laddove le circostanze offrano la possibilità di confrontarsi con esse e di sperimentarle per arricchirsi di nuove prospettive. Emerge dunque con evidente urgenza la necessità di palesare più chiaramente il filo d’oro che da sempre lega ed anima ogni dottrina spirituale. Compito assai arduo per lo stato di consapevolezza, di chiarezza e di onestà che un tale lavoro richiede. Il mondo attuale offre miriadi di offerte spirituali attraverso libri, corsi, stage, scuole, facenti riferimento alle diverse tradizioni o al mondo della scienza moderna. Innanzitutto, è importante evidenziare come primo elemento discriminatorio il fatto che un reale percorso di consapevolezza non potrà mai passare tramite una didattica di tipo informativo, ma unicamente per mezzo di una trasmissione formativa. La conoscenza gonfia, l’amore edifica.32
Un altro fondamento su cui poggia un vero cammino iniziatico è la necessità di orientare tutta la vita dell’aspirante intorno al concetto di cuore, un atteggiamento che potremmo altresì definire come un sano egoismo di conoscenza interiore il cui fine è volto al puro servizio altruistico, ma analizzeremo maggiormente questo aspetto in seguito. Emblematiche appaiono a tal proposito le parole che rivolge don Juan al suo apprendista Carlos Castaneda: Tutto è solo una strada tra tantissime possibili. Devi sempre tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo una strada e che non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero dalla paura o dall'ambizione. […] Ti avverto. Guarda ogni strada 32
Bibbia, Prima lettera ai Corinzi, 8:1.
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attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda […]: Questa strada ha un cuore? Se lo ha, la strada è buona. Se non lo ha, non serve a niente.33
Ciò è letteralmente scolpito nella pietra nella tradizione egizia. In ogni statua che ritrae un iniziato o un essere divino in movimento, si può infatti notare come compaia sempre la gamba sinistra in avanti – lato organico in cui è situato il muscolo cardiaco – a simboleggiare il fatto che ogni azione deve essere mossa in virtù del proprio cuore (figura 30). Ogni passo compiuto nella vita non può prescindere da questo.
La funzione di un maestro e di una scuola Altro elemento essenziale per intraprendere un percorso di conoscenza di sé è l’ingresso in una scuola adibita allo svolgimento di tale compito, e ciò apre una serie non indifferente di parentesi e precisazioni. Organizzazioni di questo tipo vedono generalmente contrapporsi due differenti schieramenti di pensiero: da un lato coloro che non accettano la figura di un maestro di riferimento, dall’altro coloro che fondano la loro ricerca sull’emulazione di una persona riconosciuta come leader spirituale. La storia religiosa è costellata da questo dibattito, in molte occasioni anche in seno alla medesima corrente spirituale. La saggezza egizia si svincola da una simile dualità di carattere tipicamente umano e poco divino, senza schierarsi per nessuno dei due arroccamenti ma muovendosi in mezzo ad essi con equilibrio, flessibilità e, soprattutto, con la consapevolezza di ciò che il momento presente può offrire. Abbiamo introdotto questo capitolo parlando della sede dell’insegnamento esteriore ed interiore, adibita quindi alla formazione di una coscienza morale e razionale in grado di permettere solo successivamente lo sviluppo di una vera coscienza 33
Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan, Rizzoli, Milano, 1999.
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spirituale. Tale organizzazione era dunque una vera e propria Scuola, riconosciuta e rispettata da tutta la popolazione come il più elevato centro di formazione in grado di condurre un individuo verso il contatto con la sfera più profonda di sé. È interessante osservare come il suo nome, per-ankh, non si traduce però con il termine scuola della vita ma con casa della vita. Evidenziando brevemente una differenza tra le due parole, emerge spontaneamente il fatto che la casa contraddistingue un ambiente più familiare, più intimo, confidenziale, in cui determinate dinamiche caratteriali si manifestano più facilmente sotto gli occhi di tutti, ed in cui la solidarietà quotidiana trova un terreno più fertile. Inoltre il concetto di casa fa piazza pulita di ogni illusoria convinzione o speranza di poter raggiungere una qualsivoglia vetta spirituale in piena autonomia e solitudine. Se è pur vero che la ricerca non può che essere strettamente personale, è altrettanto vero che necessita vitalmente di un continuo confronto con i propri simili. La conoscenza di noi stessi affiora quando siamo consapevoli delle nostre relazioni nelle quali ci riveliamo per quello che siamo, di momento in momento. La relazione è uno specchio nel quale ci vediamo come effettivamente siamo. Ma la maggior parte di noi non sopporta di vedersi per quello che è; così immediatamente cominciamo a condannare o a giustificare quello che vediamo. Giudichiamo, valutiamo, confrontiamo, neghiamo o accettiamo, ma non osserviamo mai sul serio quello che è. Questa sembra essere la cosa più difficile e tuttavia è l’unica che ci consenta di accostarci alla conoscenza di noi stessi. […] Ed è solo allora che la mente sarà libera di scoprire quello che è al di là del pensiero.34
Quale ambiente migliore dunque di un gruppo di persone che si ritrovano all’interno di un clima familiare per condividere un medesimo obiettivo? Non mancheranno certo le difficoltà dovute al relazionarsi con punti di vista estremamente differenti, con abitudini differenti, con approcci differenti, ma sarà proprio il confronto con essi a mettere in gioco i propri meccanismi profondi, in virtù di una reale e sincera accettazione. 34
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.
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Sempre collegato al concetto di casa fa seguito il concetto di maestro, la cui parola non trova realmente spazio nella lingua sacra se non per mezzo del termine yty, in geroglifico
il cui significato letterale è semplicemente PADRE. Non esiste dunque reale distinzione tra un padre fisico e un padre spirituale; in entrambi i casi viene contraddistinta una persona che si prende cura di un figlio – o allievo – con l’obiettivo di renderlo autonomo e responsabile nei confronti della vita. L’utilizzo di questa parola ha causato nel tempo non poca confusione nelle traduzioni dei testi sacri egizi, lasciando sempre aperto il dubbio sul suo riferimento carnale o spirituale. Ma il significato si estende ancora oltre, ponendosi al di là dei comuni concetti di maestro e guru cui siamo attualmente abituati, e aiutandoci a porre più chiarezza in essi. Considerando infatti il prototipo ideale di padre – o di madre, ovviamente – la maggior parte di noi converrà nel fatto di come la sua funzione non sia in nessun modo quella di condurre il proprio figlio ad imitarlo, ricalcandolo goffamente come copia, né tantomeno quella di spingerlo a confermare le sue aspettative. Il vero padre è infatti colui che, mosso unicamente dall’Amore, sprona il figlio a ricercare la sua vera natura, anche se questo volesse dire condurlo fisicamente lontano da sé o razionalmente al di fuori dei propri concetti di bene e male. Il puro spirito paterno non è macchiato da doppi fini legati a desideri personali, ma è in grado di calarsi completamente nel cuore del figlio per suggerirgli i passi da compiere, e tutto ciò nel pieno rispetto della sua libertà o volontà di perseguire altre strade da quella consigliata. Laddove un tale spirito si manifesta, sia attraverso una scuola, un amico, un marito, una moglie, uno sconosciuto, e così via fino ad accogliere ogni possibile sfaccettatura con la quale la vita si rivela, lì si potrà vivere l’esperienza di imparare da un maestro. Un derviscio disse: “Un giorno, finalmente, decisi di incamminarmi sul sentiero. Tuttavia, non sapevo come procedere. È strano: fu un cane a suggerirmelo! Si era 127
fermato davanti a una pozzanghera e la sua figura si rifletteva nell’acqua. Subito mi accorsi che era impaurito e non smetteva di contemplare la sua immagine. In realtà, credeva che un altro cane lo stesse minacciando. Ecco perché non si muoveva, per paura di essere attaccato! Ma poi, finalmente, vinse l’esitazione e si gettò nella pozzanghera. Fu allora che, come per incanto, l’altro cane svanì, lasciandolo padrone del campo. Riuscite ora a capirmi, se vi dico che fu un cane a indicarmi la Via?”35
Ovviamente vi sono molti individui che si proclamano apertamente maestri, guru o guide spirituali, e in molti casi potremmo con cognizione di causa parlare di falsi profeti, laddove il loro intento si concretizza nel voler nutrire la personale autostima, conducendo i relativi discepoli verso il percorso e la realizzazione di dogmatici e limitativi ideali di vita. Ma se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nel fosso. Personaggi del genere non sarebbero nemmeno degni di nota, se non per evitare di equipararli frettolosamente a molti reali messaggeri dediti a servire l’umanità dalla notte dei tempi, celati a volte dietro le vesti più impensate. Diviene quindi estremamente relativo negare o accettare tassativamente la figura di un maestro, idem per quanto riguarda l’autorità o meno di una scuola, criticando magari l’assenza di una figura realmente realizzata che possa guidare impeccabilmente i passi degli allievi. Ancora una volta infatti, si potrebbe affermare che la vita batte le opinioni dieci a zero; ad ognuno di noi spetta di vivere con la massima intensità ciò che le circostanze possono offrire, senza precludersi esperienze sulla base di concettualizzazioni a priori. Chi di noi avrebbe il coraggio di disconoscere un gruppo fraterno di persone con cui poter condividere un reale percorso di smascheramento delle proprie illusioni? O chi di noi non vorrebbe stare vicino ad un individuo nel quale si riconosce una pura espressione cristica? Il tema forse più importante da affrontare, sembra ricadere ancora una volta su se stessi: ricercare la perfezione di una scuola o di una guida spirituale a cui si possa con tutta tranquillità e sicurezza 35
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.
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delegare la propria evoluzione personale, è una contraddizione in termini. Niente e nessuno potrà mai compiere una ricerca interiore al posto nostro, ma al limite solo offrire spunti di riflessione. Emblematiche sono state le parole di Krishnamurti il giorno in cui rifiutò ufficialmente la nomina di nuovo messia: Io sostengo che la Verità è una terra senza stranieri, e che non potete accedere ad essa attraverso nessun sentiero, nessuna religione, nessuna setta. […] Nel momento in cui avrete compreso questo, vedrete come non è possibile organizzare una fede. La fede è una cosa strettamente individuale, e non potete e non dovete organizzarla. Se lo fate essa muore, si cristallizza, diventa un credo, una setta, una religione da imporre ad altri. […] La Verità non può essere portata al nostro livello, siamo piuttosto noi che dobbiamo fare lo sforzo di salire al suo. Non potete portare la cima della montagna nella valle. […] Se un’organizzazione è creata per questo scopo, diventa una stampella, un fattore d’invalidità, una catena, e necessariamente azzoppa l’individuo e gli impedisce di crescere, di dare forma alla sua unicità, che risiede nella scoperta personale dell’assoluta e incondizionata Verità. […] Quando io vi dico che dovete cercare dentro di voi se volete trovare l’illuminazione, la gloria, la purificazione, l’incorruttibilità del sé, nessuno di voi è disposto a farlo. Possono essercene alcuni, ma sono molto, molto pochi. […] Ma quelli che veramente desiderano capire, che stanno cercando ciò che è eterno, senza inizio né fine, cammineranno insieme con più ardore, e saranno un pericolo per tutto quanto è inessenziale, per ciò che non è reale, per le ombre. […] Per quell’autentica amicizia, che voi non sembrate conoscere, ci sarà reale cooperazione da parte di ciascuno. E questo non perché ci sia l’autorità, non perché ci sia la salvazione, ma perché si comprende realmente e quindi si è capaci di vivere nell’eterno. Questa è una cosa più grande di ogni piacere, di ogni sacrificio.36
Per quanto difficile sia da accettare e, ancor di più, da vivere, non possiamo esimerci dal riconoscere che qualsiasi occasione 36
Krishnamurti, citazione in Mary Lutyens, La vita e la morte di Krishnamurti, Ubaldini, Roma, 1990.
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esperienziale veicola in sé una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Benedizione in quanto la vita può concederci più facilmente l’occasione di entrare a contatto con una parte più vera di noi, tramite l’aiuto di persone che stanno compiendo un percorso analogo e che ci possono offrire un apporto in tale direzione; maledizione in quanto la sensazione di appagamento verso le proprie sicurezze può spingerci ad accomodarci e a creare alibi per non accettare le proprie responsabilità. È invece essenziale non dimenticare mai che potremmo trascorrere tutta la nostra vita in compagnia di cento persone realizzate e pur giungere alla fine senza aver apportato nessun reale cambiamento dentro di noi. Se anche Cristo nascesse mille volte a Betlemme, ma non in noi, saremmo nondimeno perduti, scrisse Angelus Silesius. Oppure potremmo non conoscere nulla in merito a concetti spirituali di evoluzione e liberazione, e nonostante ciò riuscire a risvegliare quella scintilla divina che giace assopita nei recessi del cuore. Un’associazione o un gruppo a solo scopo di conservazione o di trasmissione della conoscenza è un nonsenso, una cosa impossibile. Si possono comunicare solo argomenti logici, dottrine razionali e esperienze; la conoscenza invece è di ordine sovrannaturale e non può trasmettersi per iscritto, né da bocca a orecchio, ma solo per ispirazione e illuminazione diretta. Questo giustifica il carattere simbolico e parabolico dei testi sacri o degli scritti dei saggi e degli adepti. Perciò un gruppo può essere motivato soltanto da un comune scopo di ricerca della conoscenza, in uno spirito di difesa morale della dispersione della vita ordinaria. L’esistenza di un simile gruppo richiede una regola generale di vita. Ma neanche la sola ricerca della conoscenza è un motivo sufficiente per l’esistenza di un gruppo di tal genere: la vera ricerca può effettuarsi per ciascuno in qualsiasi ambiente e in qualunque circostanza. La sicurezza e la facilità saranno piuttosto causa di inerzia e di pigrizia che stimolanti.37
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R.A. Schwaller de Lubicz, Insegnamenti e scritti inediti, Mediterranee, Roma, 2008.
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Il metodo Ci chiederemo ora quale sia la base dell’Insegnamento Universale, quali i principi fondamentali, quale il metodo. La risposta potrebbe assumere l’aspetto di un koan zen: esiste un unico metodo ed esistono infiniti metodi. Laddove ogni dottrina spirituale conduce verso il medesimo traguardo, verso una consapevolezza del reale pressoché identica, la strada che vi conduce sembra abbastanza ampia da poter accogliere differenti modalità di approccio, ciascuna secondo la natura propria di colui che si pone sul Cammino. Sul portale di ingresso di alcuni monasteri tibetani compare la scritta: mille monaci, mille religioni. Ma la cosa ancor più interessante è che essi convivono fraternamente sotto lo stesso tetto. Emerge allora l’evidenza di come la diversità non sia sinonimo di contrasto o isolamento, tutt’altro! Secondo quanto ci narra una storia ebraica, il Rabbi Yissachar Dov si recò un giorno a Lublino per incontrare il suo mentore, il Rabbi Yaakov Yitzchak, per porgli una domanda che da diverso tempo lo affliggeva: qual è il modo in cui tutti possono servire Dio. “Un solo modo?” disse il Veggente. “Che cosa ti fa pensare che ci sia un solo modo? Le persone sono forse tutte uguali, per cui un unico tipo di pratica spirituale si adatta indistintamente a tutti?” “Allora come posso insegnare alle persone a trovare Dio?” chiese Rabbi Yissachar Dov. “È impossibile dire alle persone come dovrebbero servire Dio. Per qualcuno la strada migliore è lo studio; per qualcun altro è la preghiera; per qualcun altro ancora è il digiuno o il darsi ai banchetti; oppure per qualcun altro il modo migliore per servire Dio è servire il proprio vicino.” “Che cosa mai dirò, allora, a coloro che chiedono il mio consiglio in questo campo?” “Dì loro così” disse il Maestro. “Osservate con cura i moti del vostro cuore, vedete cosa muove la vostra passione per Dio e per la devozione, e poi agite con tutto il vostro cuore e tutta la vostra energia”. 38
38
Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario. Racconti chassidici, Giuntina, Firenze, 2004.
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Potremmo passare in rassegna centinaia di storie ed insegnamenti tradizionali per ricercare chiare e lapidarie istruzioni su quale tipo di strada seguire e sul modo in cui farlo. È il nostro innato desiderio di certezza a condurci attraverso una ricerca del genere. Ma nessun vero maestro potrà mai lasciare in eredità una ricetta di liberazione predefinita per tutti, ciò equivarrebbe infatti a ledere quel puro senso di riscoperta di sé che ognuno di noi è chiamato a compiere. Come abbiamo anticipato nella premessa, la spiritualità è consapevolezza, ed una reale e profonda presa di coscienza non potrà mai essere delegata a qualcun altro, non la si potrà realizzare conformandosi ciecamente ad una pratica, né tanto meno per mezzo di un’esecuzione meccanica di una serie di regole e prescrizioni da rispettare. Meglio possiamo ora comprendere perché i grandi saggi hanno lottato e lottano tutt’ora per liberare l’essere umano dalla sua condizione di inconsapevolezza, senza voler ovviamente aggiungere nuove illusioni; essi si limitano dunque ad evocare il desiderio di salvezza che si cela in noi, mostrandoci con la forza del loro esempio che vivere in una condizione di gioioso contatto con la Luce è possibile. Il vero Amore non si concretizza semplicemente nell’offrire pietosamente il pane all’affamato, ma nel prendersene cura affinché egli possa imparare a procurarselo da solo. Ecco perché, a dispetto di ogni nostro desiderio di ottenere risposte definitive o scorciatoie per una rapida realizzazione, un vero insegnamento ci pone di fronte ad uno specchio in grado di riflettere un’immagine nella quale non sempre avremo il coraggio di riconoscerci. Eppure, è proprio nel banale quanto difficile atto di osservare che possiamo ritrovare l’unico metodo guida all’interno di un non-metodo. Avvicinarsi ad un qualsiasi percorso spirituale senza la predisposizione e il coraggio di constatare la propria natura è nella migliore delle ipotesi completamente inutile e nel peggiori dei casi tremendamente pericoloso. La nostra mente è costantemente alla ricerca di “buone motivazioni” con cui continuare a mantenere in piedi ed alimentare i desideri egoici, e quale occasione migliore per colorire le nostre viltà con splendidi pensieri di carattere spirituale! Non dimentichiamo mai il detto secondo cui la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. 132
L’osservazione nuda e cruda dei fatti è il primo gradino che ogni dottrina pone di fronte a chiunque voglia intraprendere un reale cammino di conoscenza. Nell’antica scienza sacra la parola OSSERVARE, o VEDERE, in egizio maa e in geroglifico
significa anche CONSTATARE, traducibile letteralmente come PRENDERE COSCIENZA DI. Non si tratta qui di un’attenzione generica da porre indistintamente su qualsiasi cosa attiri l’interesse della propria mente, ma di iniziare a focalizzarla sui principali accadimenti quotidiani che ci coinvolgono personalmente e direttamente, osservando con estrema cura l’oggettivo dispiegarsi dei fatti e la personale reazione ad essi. La nostra vita è infatti costellata da reazioni meccaniche ed impulsive, da accadimenti spesso travisati emotivamente ed interpretati in base alle personalissime concezioni moralistiche o utilitaristiche. È poi sufficiente che qualcuno ci rivolga una piccola critica che metta in discussione un nostro atteggiamento per farci sentire immediatamente minacciati o feriti ingiustamente. Quante volte ci capita infatti di non reagire istintivamente per proteggere la nostra immagine, ma piuttosto soffermarci con umiltà per valutare in profondità la veridicità di ciò che è stato affermato? Dove ci potrà allora condurre una qualsiasi via di conoscenza senza aver prima affrontato e superato la paura di riconoscere e accettare quello che umanamente siamo? Conosci ciò che ti sta davanti, e ti si manifesterà ciò che ti è nascosto. 39
È, a tal proposito, estremamente interessante evidenziare come la parola egizia maa contraddistingue anche il concetto di VEGGENTE, colui in grado di guardare oltre il velo delle apparenze per scorgere l’andamento degli eventi in base ai principi della vita.
39
Vangelo (Tm 5).
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Mentre potremmo infatti essere spontaneamente portati a porre su piani differenti la capacità di osservare rispetto alla facoltà di intravedere i piani divini, per i saggi egizi non esisteva un preciso limite di demarcazione: il primo conduce inesorabilmente al secondo. Essi erano consapevoli di quanto la mente e le emozioni umane cooperino insieme come abilissimi architetti nel costruire e perpetuare le prigioni illusorie che più si confanno a ciascun individuo, portandolo a vivere entusiasmi passeggeri, sofferenze, preoccupazioni, liti, eccetera. Sviluppando l’attitudine a confrontare la realtà dei fatti privi di ogni personale deduzione e distorsione con i flussi di pensiero ed emozioni, emergerà una dissonanza disarmante, ma sicuramente edificante per porre delle nuove basi da cui partire per vivere veramente. Gli occhiali con i quali osserviamo e filtriamo continuamente il mondo, non sono altro che congegni olografici di una realtà totalmente soggettiva, e che quindi lasciano pochissimo spazio per un sincero e aperto confronto con il mondo circostante. Questo è il motivo per cui anche la cultura indo-vedica propone con estrema concretezza di partire dalla semplice analisi di ciò che è, come possiamo leggere nelle parole di uno dei più grandi maestri rappresentativi dell’Advaita Vedanta, Sri Ramana Maharshi: Un esame della natura effimera dei fenomeni conduce al distacco. Quindi l’inchiesta (vichara) è il primo passo da compiere. Quando l’inchiesta continua automaticamente, si risolve nell’indifferenza per la ricchezza, la fama, la comodità, il piacere, ecc.40
Ecco perché l’atto di constatare è simboleggiato in caratteri geroglifici da un occhio che osserva e da una falce, strumento impiegato per tagliare il grano – il nutrimento essenziale – e dunque simbolo per eccellenza della SEPARAZIONE COSTRUTTIVA, ossia un discernimento in grado di far risaltare con lucidità la forma e il modo in cui i propri aspetti egoici influenzano il personale modo di reagire e rapportarsi col mondo, offendo così nutrimento per una reale crescita spirituale.
40
Sri Ramana Maharshi, Il Vangelo, I Pitagorici, Catania.
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Una visione del genere diviene l’unico strumento in grado di condurci verso la consapevolezza dei nostri processi di pensiero, di quanto il loro rumore e il loro lavorio caotico ci imprigioni e non ci permetta di vedere altro; solo questa chiarezza può aprire le porte ad una nuova vita. Quale cammino seguire dunque? Quello che ti pare incredibile; quello che coltiva in te un altro modo di pensare, che risveglia in te una intelligenza senza antinomie, che ti permette di trovare quella condizione di “neutralità mentale” che è il terreno su cui cade, come un seme, l’ispirazione pura, come la rugiada fecondatrice cade sui campi.41
Ogni disciplina spirituale può condurre lontano o da nessuna parte. La chiave di volta è la giusta INTENZIONE, ciò che la tradizione ebraica chiama kavvanah, il desiderio di prendere coscienza del proprio dialogo interiore, di quanto ci si identifica con esso e di quanto la propria vita sia completamente avvolta nelle sue mani, priva di ogni vero contatto con la realtà. Una tale consapevolezza, lungi dall’essere una comprensione razionale, è frutto di una instancabile indagine di sé nel mondo.
L’importanza della gratuità Un ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi per potersi districare all’interno delle miriadi offerte di gruppi, circoli o scuole spirituali, è il concetto di gratuità ad esse correlato. In un’epoca come la nostra in cui l’interesse verso le diverse dottrine sta aumentando vertiginosamente, si sta assistendo ad un conseguente affacciarsi sul “mercato” di moltissime proposte di carattere commerciale. Ovviamente una finalità di tipo lucrativo non viene quasi mai dichiarata apertamente, motivandola piuttosto con il fatto che i “segreti esoterici” possono essere comunicati solo a coloro che li desiderano intensamente, e dunque disposti a compiere anche sacrifici economici in tale direzione. 41
R.A. Schwaller de Lubicz, Verbo Natura, Tre Editori, Roma, 1998.
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Ma gli antichi sistemi tradizionali, veicoli dell’Insegnamento Universale, parlano chiaro: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.”42 […] Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro dicendo: “Non sta forse scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!”43
Nessun vero maestro nella storia dell’umanità ha mai preteso compensi di alcun genere per trasmettere gli insegnamenti, chiedendo in cambio unicamente la buona volontà di sperimentarli per metterli a frutto. Il fatto che un discepolo potesse poi offrire per gratitudine omaggi di qualsiasi genere, non è quindi da confondersi con una conditio sine qua non per poter accedere alla dottrina, ma semplicemente come una forma di riconoscenza comunissima in ogni tipo di rapporto amichevole. Abbiamo precedentemente osservato come, secondo la saggezza egizia, il concetto di scuola spirituale venga tradotto con il termine casa, e il titolo di maestro con padre. Trasportando allora la nostra attenzione dentro le mura domestiche, in quale famiglia vige l’obbligo di pagare una retta per potervi appartenere, o quale padre o quale madre potrebbe mai chiedere un compenso economico ai propri figli in cambio di un’educazione? Può realmente celarsi un sentimento vero e puro dietro interessi di tutt’altra natura? E come è possibile veicolare un insegnamento il cui fine è condurre alla libertà incondizionata, se i presupposti base già sono vincolati e condizionati dalla moneta? Non è forse buffo e particolarmente dissonante affrontare filosoficamente temi come amore, non-attaccamento e divinità, all’interno di un rapporto commerciale? In alcuni circoli teosofici contemporanei si tramanda ironicamente un detto secondo il quale più alto è il soldone, più 42 43
Vangelo (Mt 10,8). Vangelo (Mc 1,15-17).
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grosso è il bidone, sottintendendo proprio l’impossibilità di porre sul medesimo piano la vera trasmissione spirituale con interessi di carattere economico. Nel testo egizio che raccoglie gli insegnamenti di Ptah-Hotep, compare una massima che delinea chiaramente questo aspetto: Così prescrive la legge per coloro amati dagli dei: in relazione alla ricchezza materiale, l’uomo eccellente la otterrà da solo. Sarà Dio a fare in modo che sia una persona di qualità e a proteggerlo, anche quando dorme.44
Un vero iniziato troverà il modo di sostenersi economicamente in questo mondo senza ricorrere alla commercializzazione di ciò che ha appreso della scienza sacra, consapevole del fatto che gli insegnamenti hanno un valore inestimabile tale da non poter essere quantificato con nessuna moneta al mondo, semplicemente perché appartenenti a due livelli vitali differenti. E una tale visione è così radicata nelle differenti dottrine da poter essere considerata a tutti gli effetti un denominatore comune. Pensiamo alla tradizione tolteca rappresentata da don Juan, con il quale Castaneda decise un giorno di affrontare la questione. “Lavorerai per me e ti pagherò” dissi. “Quanto mi pagherai?” chiese. Mi parve di notare una nota di avidità nella sua voce. “Quello che pensi sia giusto” risposi. “Paga il mio tempo… con il tuo tempo” disse.45 “Prima di tutto ciò che faccio per te è gratis. Non mi devi nulla. Con te sono stato impeccabile, lo sai. L’atto di dare gratis e in modo impeccabile mi ringiovanisce e rinnova la meraviglia”.46
Simili prescrizioni le possiamo ritrovare anche nella tradizione ebraica, e più precisamente nelle Massime dei Padri, contenute all’interno del Talmud, dove compare anche un ammonimento per gli studiosi della Cabalà che ne mercificano gli insegnamenti.
44 45 46
Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (X, 183). Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan, Rizzoli, Milano, 2000. Carlos Castaneda, Il potere del silenzio, Rizzoli, Milano, 1988.
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Hillèl infatti soleva dire: “Chi trae vantaggio personale dalla Corona della TORAH è finito”. Impari così che chi riceve profitto dalle parole della TORAH trae la sua persona fuori dal mondo.47
Riconoscere ed accettare questa norma rischia di mettere in discussione una moltitudine di offerte pseudo-iniziatiche attuali ed inoltre impone a ciascuno di noi un riesame della tanto radicata concezione utilitaristica della cultura in cui viviamo, che spesso illude di poter avvicinare al sacro per una strada di cui non si conosce in realtà lo sbocco.
47
Massime dei Padri, Mamash, Genova, 2007.
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La struttura dell’essere umano
La conquista dell’immortalità A differenza di quanto potremmo essere portati a credere, non è in alcun modo possibile circoscrivere la tradizione egizia all’interno di precisi canoni religiosi. Di fronte alla domanda fondamentale sull’esistenza o meno di un’anima immortale nell’essere umano, gli antichi saggi rispondono: sì, e no. È infatti una caratteristica distintiva della dottrina egizia quella di muoversi sinuosa e flessibile attraverso le definizioni e le classificazioni, ponendosi al di sopra di esse per spronare ogni individuo a ricercare le risposte oltre i limiti della dualità, nella sfera più intima di sé. Ma come è possibile conciliare la realtà dell’immortalità con il suo opposto? Si potrebbe brevemente anticipare che ogni individuo non nasce di fatto immortale ma con la possibilità di diventarlo, ma per approfondire meglio la questione occorre sviscerare più nel dettaglio gli aspetti che compongono e animano la nostra natura. Il primo e più elementare costituente grazie al quale possiamo muoverci e compiere esperienze in questo mondo terreno è il CORPO FISICO, in egizio khat e in geroglifico
ossia il veicolo organico soggetto a crescita e decadimento, caratteristiche evidenziate dal geroglifico rappresentante il corpo di un cadavere, non per macabro simbolismo ma per efficacia e schiettezza comunicativa: polvere eravamo e polvere ritorneremo. Ma ciò non deve trarre nell’inganno di associare ad esso una scarsa rilevanza nell’ambito di un percorso spirituale, anzi! Il corpo fisico è a tutti gli effetti considerato come un tempio in grado di ospitare l’essenza divina, e ciascuno di noi è chiamato a divenirne responsabile prendendosene cura nello stesso modo in cui farebbe con qualsiasi costruzione sacra cui tiene particolarmente. 139
È buona norma non dare mai nulla per scontato ma osservare con curiosità silenziosa – priva di giudizi di valore – i propri atteggiamenti paradossali. Non di rado capita infatti di volgere le attenzioni più meticolose verso la manutenzione di un’automobile, senza badare a spese per i pezzi di ricambio, le gomme e l’olio migliori, trascurando d’altro lato senza troppi problemi la qualità dei cibi per la propria alimentazione. E questo non rappresenta che uno tra i tanti possibili esempi. La salute del corpo è una condizione essenziale per colui che decide di volgere la sua esistenza alla ricerca del vero celato dietro le apparenze; egli dovrà necessariamente compiere i primi passi verso uno stile di vita improntato sulla qualità e non più sulla quantità. E quale prevenzione migliore di una equilibrata e sana alimentazione, in grado di rispettare il più possibile i cicli stagionali di ciò che la natura offre nel luogo in cui si vive? La tradizione egizia poneva in risalto il sublime atto del MANGIARE, unem, in geroglifico
non come un’attività fine a se stessa ma come una precisa disciplina avente la funzione di predisporre il proprio tempio organico ad accogliere l’Ospite più ambito. Non si riservano forse spontaneamente le migliori attenzioni nell’ordine della propria casa e le migliori cure nella preparazione di un pasto nell’invitare una persona tanto attesa e a noi molto cara? Come potrebbe non essere altrimenti nel caso in cui l’invitato fosse Dio stesso? L’alimentazione diviene allora il primo ambito vitale cui iniziare a porre attenzione per rendere funzionale il corpo fisico ed elevarlo a veicolo di espressione divina. I primi due geroglifici che compongono la parola sopra citata, simboleggiano l’energia sottile che si dischiude dai cibi come il profumo si sprigiona dai fiori – da cui il primo segno – e la relativa presenza impercettibile ad uno sguardo superficiale, così come la civetta che vive nel buio della notte. Ogni alimento è qualcosa in più di una semplice sostanza organica finalizzata a riempire e saziare lo stomaco. Il cibo contiene i più vari elementi nutrizionali: vitamine, proteine, carboidrati e 140
minerali, ma non si ferma qui, porta in serbo anche qualità energetiche di carattere più sottile, di natura sia emotiva che spirituale, inevitabilmente in grado di influenzare il nostro approccio verso la vita. D’altronde è ormai riconosciuto il fatto che, ad esempio, il nutrirsi di carne incida sul livello di aggressività e reattività istintiva, e questa è una prima motivazione per la quale moltissimi ordini tradizionali prevedevano e prevedono una dieta vegetariana. Un argomento del genere meriterebbe un ampio approfondimento ma, senza intraprendere analisi troppo complesse, potremmo molto semplicemente constatare ad esempio gli effetti causati da un solo pasto eccessivamente ricco di grassi nelle ore successive alla sua assunzione: senso di pesantezza, sonnolenza, lentezza, scarsa capacità di concentrazione. Situazione evidentemente ben lontana da una condizione di leggerezza tale da facilitare una presenza in se stessi. La cura del corpo si estende però anche oltre l’alimentazione, e riguarda anche la sessualità, il sonno, il movimento e tutto ciò che ha a che fare con il corpo fisico e i suoi bisogni. Trascurare questi aspetti come non degni di nota, come non inerenti ad un percorso spirituale, è un grave errore da cui ogni tradizione cerca di mettere in guardia. Ricordiamo le parole che Krishna rivolge ad Arjuna: Lo yoga non è per chi mangia troppo o troppo poco, o Arjuna, per chi dorme troppo o resta sveglio troppo a lungo. Chi è moderato nel mangiare, dormire, lavorare e vegliare, e controllato nelle sue attività, può liberarsi da ogni sorta di sofferenza con la pratica dello yoga.48
L’essere umano è un corpo fisico ma non necessariamente si limita ad esso. In qualità di potenziale tempio di Dio in terra, può creare le condizioni per accogliere e divenire portavoce di una Presenza di portata inimmaginabile, eterna ed immortale. Ma è bene sottolineare che questa è solo una delle possibilità, e che la maggior parte dell’umanità non solo non riesce a realizzare un obiettivo del genere, ma spesso e volentieri non vi ambisce neanche. Se nessun individuo nasce per diritto con un’anima imperitura, sorge 48
Bhagavad Gita, (VI, 16).
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spontanea la domanda di chi – o cosa – siamo realmente prima di una tale conquista.
Il desiderio di esistere La tradizione egizia simboleggia i passaggi che intercorrono tra lo stato di sopravvivenza a quello di vera esistenza tramite lo sviluppo di particolari corpi, dal più materiale (come quello fisico precedentemente accennato) fino a quello più sottile e spirituale. Ovviamente, ogni sorta di schematizzazione di aspetti vitali è per propria natura solo indicativa, una convenzione dialettica necessaria per stimolare una riflessione più profonda e strettamente personale. Come si suole dire: la mappa non è il territorio. I confini che distinguono un corpo dall’altro non potranno mai essere stabiliti con precisione, così come non è possibile definire oggettivamente dove inizia il caldo e dove il freddo. Il livello basilare che permette ad un essere umano di vivere in questa natura è la VOLONTÀ DI ESISTENZA, una sorta di impulso, di flebile forza che si concretizza nella nascita nel mondo e che si struttura nell’arco di breve tempo costituendo l’IO, in egizio ynuk e in geroglifico
cui il primo segno – la canna fiorita – simbolo di fragilità e flessibilità, contraddistingue la naturale propensione umana a farsi abbattere e piegare dalle diverse circostanze esterne, ma allo stesso tempo anche la potenziale capacità di rialzarsi senza farsi mai definitivamente spezzare da nulla. Il quarto ed ultimo geroglifico rappresenta invece un individuo inginocchiato che si tocca il petto e alza la mano per manifestare la sua presenza nell’universo. L’Io non si identifica quindi né con il corpo né con alcun elemento spirituale, ma è inizialmente solo un’entità energetica distinta dal resto del creato che ricerca un proprio ed altrui riconoscimento.
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Tale volontà di esistenza tende ad accentrare in sé tutti gli elementi vitali che la vestono: essa è la forza che permette l’esistenza ad ogni essere umano, mantenendolo e riportandolo costantemente in vita fino alla sua definitiva realizzazione e liberazione, o fino alla sua dissoluzione in una seconda morte. I due geroglifici che compongono internamente il termine Io,
in egizio nuk, formano la parola EGO, una forza primitiva e cieca, priva di ogni sentimento superiore. Il geroglifico superiore – il vaso – simboleggia l’energia racchiusa e sigillata in un contenitore, mentre sotto è situato il segno della cesta in qualità di strumento di raccolta. Il principio egoico potrebbe essere altresì definito come quella forza che tende ad incentrare in sé tutte le energie con una sete ed un’avidità insaziabili. Sarà proprio l’insieme di tali energie caotiche ad offrire le sensazione illusoria di rendere piena la propria vita, dandole così un senso. Più il vaso, situato non a caso nel centro della parola Io, sarà colmo di emozioni, informazioni, certezze, considerazioni altrui, eccetera, più ampia sarà la possibilità di sentirsi realizzati. Ma una tale rincorsa non avrà mai fine; non esiste limite alla voracità egoica. Solo la morte fisica romperà il vaso, dando il via ad un processo di inevitabile disgregazione delle energie in esso contenute, fino a dissolverle e ridistribuirle nuovamente all’interno di un mare caotico. Questo è il motivo per cui una parte di noi teme tanto la morte, avvertendo istintivamente l’inevitabile destino a cui sarà condotta l’egoicità. La stessa sorte può però essere affrontata coscientemente e a partire da subito, nel qui ed ora. La possibilità di infrangere il vaso riconoscendo le diverse personalità illusorie che traggono origine e forza in esso, è proprio il percorso proposto da ogni dottrina. Ritroviamo chiarissime analogie del vaso-ego nello zen, nella nota storia in cui il maestro avverte un sedicente discepolo di non poter versare del tè in una tazza già colma, veicolando il messaggio che la trasmissione di insegnamenti a colui che li ricerca con la consueta 143
predisposizione egoica, è perfettamente inutile se non controproducente. Emerge a questo punto una delicata ma importante differenziazione tra ciò che si intende per Io e ciò che si intende per ego. Quest’ultimo non è infatti equivalente al primo ma ne costituisce il nucleo, il motore che sprona il movimento orientando la direzione, rimanendo comunque sempre velato dietro al modo con cui ci si presenta al mondo. Ecco perché il termine ego (nuk), si pone figurativamente nel geroglifico Io (y-nuk) dietro il simbolo della canna, determinativo utilizzato proprio per contraddistinguere l’individualità, la membrana che ci differenzia dagli altri rendendoci unici. Ma tale individualità non è realmente un avversario nel cammino verso la Luce, essa deve piuttosto divenire un alleato volgendo i suoi servigi al principio divino. Sarebbe sciocco ed avventato, per non dire contro natura, dichiarare interiormente ed esteriormente guerra al senso di individualità; esso è infatti tanto inevitabile quanto naturale. È grazie a lui che possiamo muoverci nel mondo, svolgere il lavoro necessario per vivere dignitosamente, fare esperienza degli eventi della vita, comunicare con il prossimo ed aiutarci reciprocamente con esso anche all’interno di un cammino spirituale. Negare dunque l’importanza di una tale funzione, confondendola in modo indissociabile con la tendenza egoica, equivale a sopprimerne l’immensa potenzialità. Possiamo in tal senso arricchire la nostra analisi osservando come, secondo la tradizione ebraica, la parola Io, anì, scritto
sia composta dalle tre lettere alef, nun (che assume un connotato grafico differente quando si trova in fondo alla parola) e yod, le stesse che compongono anche la parola NULLA, ayn, scritto
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corrispondente al nome con cui la Cabalà contraddistingue Dio, più precisamente ayn sof, il NULLA SENZA FINE. Sappiamo che quando parole diverse sono composte dalle medesime lettere, si ritiene che condividano una profonda unità. In questo caso è interessante porre l’attenzione sul fatto che nel primo termine la yod si trova alla fine, mentre nel secondo si trova nel centro. Considerando che tale lettera rappresenta yadà, la CONSAPEVOLEZZA, ne possiamo dedurre che quando essa è rivolta all’esterno emerge il principio egoico dell’Io, mentre quando è rivolta verso l’interno emerge la presenza di Dio. Nei piccoli particolari, nella totale semplicità, si nascondono le chiavi di volta in grado di trasformare radicalmente il proprio stato di coscienza nei confronti della vita, di come la si osserva, la si comprende e la si vive. In ciò è racchiuso il prezioso insegnamento dei saggi.
L’arte di ascoltare il proprio cuore Il vero lavoro non consiste nello spogliarsi dall’abito con cui si vive nel mondo – l’Io – ma nel non identificarci con esso, nel non lasciarlo in balia di forze inconsce il cui unico fine è la sopravvivenza nei piaceri e dispiaceri materiali. In altri termini, liberarlo dalla schiavitù dell’ego. Camminando su questa strada si creerà passo dopo passo uno spazio interiore diverso, si risveglierà un organo generalmente soffocato o tenuto sopito, ritenuto dagli egizi un vero e proprio corpo spirituale: il CUORE, yb, in geroglifico
il mediatore tra le influenze di natura divina e quelle di natura terrena; la sede dell’intuizione, dei sentimenti e del discernimento. Se prestiamo attenzione ai geroglifici che compongono la parola, possiamo subito cogliere come la raffigurazione del cuore (figura 31) si sia qui sostituita al concetto di ego, nuk, rimanendo però sempre celata dietro il velo manifesto del simbolo dell’Io, la canna. 145
In uno stato coscienziale del genere non saranno più le pulsioni inconsce ed animali a governare le azioni, le parole e i pensieri, vincolando ad un’esistenza ciclica priva di ogni creatività, ma interverrà un'altra natura più consapevole, realmente libera di muoversi e di procedere nella vita – da cui il geroglifico della gamba in movimento. In questo livello scomparirà anche l’esigenza di manifestare apertamente la propria presenza nel mondo, dato che emergerà spontaneamente la profonda percezione di sentirsi già parte di un tutto; il bisogno di auto-affermazione lascerà il posto alla semplicità e all’umiltà.
Figura 31 – Il cuore nelle raffigurazioni.
Ma gli antichi saggi distinguevano il cuore yb, considerato come la SEDE DELLA COMPRENSIONE, dal cuore haty, in geroglifico
ossia la SEDE DELLE PASSIONI che è necessario dominare per trascendere la natura inferiore che lega alla sfera terrena al pari di 146
una forza di gravità. Dunque, uno stesso organo per due aspetti vitali apparentemente opposti. Per complicare ulteriormente la faccenda, è importante considerare come anche nel termine DESIDERIO, in egizio set-yb e in geroglifico
compare il segno del cuore, accompagnato in questo caso dalla raffigurazione del trono – simbolo del nome di Osiride – su cui poggia la nostra possibilità di vivere coscientemente le esperienze terrene, trasmutandone la natura dialettica in divina. È infatti proprio il mondo nelle sue innumerevoli sfaccettature ad attrarre la nostra attenzione, in un costante turbinio di pensieri ed aspettative che si alimentano e si rigenerano. Non vi è sosta né limite alla corsa incontrollata del desiderio. Ma tale forza è anche il motore della vita. Spetta a ciascuno di noi riconoscerne i limiti per uscire dal suo controllo e poter così cavalcare il suo fine regale: il ricongiungimento con l’Uno. Occorre quindi osservare con meticolosa attenzione ed onestà i moti dei propri desideri, da dove essi nascono e dove ci vogliono condurre, con la curiosità di riscoprire quell’unica pura aspirazione, quella nostalgia divina in grado di condurci al cospetto del vero cuore, là dove inizia per il Cammino. Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.49
Solo percorrendo questa strada potremmo passo a passo svelare gli inganni che si annidano intorno al cuore mascherandolo ed opprimendone il respiro. Esiste una leggenda in India che parla dell’ultimo giorno della Creazione, quando gli dei si riunirono per decidere di comune accordo dove nascondere il segreto dell’universo. Il primo si fece avanti consigliando la cima più alta dell’Himalaya, dove gli uomini non potrebbero mai vivere, giacché le nevi sono eterne e non esistono sentieri di accesso. “No”, risposero gli altri dei in coro, 49
Vangelo (Mt 6,21).
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“abbiamo creato l’uomo forte ed ingegnoso, prima o poi troverà il modo per raggiungere le vette più alte del mondo”. Poco dopo, ad un altro dio venne l’idea di nascondere il segreto della vita nell’abisso più profondo dell’oceano. “No, no”, ribadirono gli altri dei, “abbiamo creato l’uomo coraggioso e temerario. Verrà un giorno in cui egli escogiterà il modo per sondare gli abissi di tutti i mari”. Dopo un lungo silenzio, un altro dio che rimase in silenzio e pensieroso fino a quel momento, esclamò: “Io lo so, dov’è il nascondiglio più sicuro. Nascondiamo il segreto dell’universo in fondo al cuore di ogni essere umano. Là, potremo starne certi, non guarderanno mai”. Fu così che tutti gli dei furono concordi. Questa semplice storia porta in serbo una verità autentica: il cuore come chiave di volta di tutte le dottrine. Ogni tradizione riconosce ad esso un ruolo fondamentale, senza il quale ogni studio rimane sterile ed ogni pratica diviene fuorviante e pericolosa. Ma la stessa leggenda è anche portatrice di un’altra amara verità: la nostra naturale tendenza a ricercare risposte altrove, o peggio ancora a confondere con estrema facilità – e comodità – emozioni, fantasie, aspettative e debolezze con i sussurri del cuore. Se è vero che esplorare il proprio cuore significa conoscere l’universo intero, è altrettanto doveroso non illudersi sul fatto che un tale processo sia privo di ostacoli e difficoltà, certamente non imputabili a un qualsivoglia evento esteriore. L’ombra delle nostre paure e le astute seduzioni dell’ego sono costantemente in agguato, in grado di portarci a compiere i più deplorevoli atti pur mantenendo elegantemente in piedi compiacenti alibi spirituali. La storia è costellata di genocidi, inquisizioni e guerre compiute nel nome della pace o del Signore. Un efficace aiuto chiarificatore ci viene offerto dalla tradizione Sumarah, originaria dell’isola di Giava, nella quale il principio egoico dell’Io, aku in giavanese, viene paragonato simbolicamente all’immagine di un’anguilla bianca. Aku è lungo e scivoloso come le anguille, sembra non aver né capo né coda, non si lascia mai prendere, ma scappa dalle mani all’ultimo momento. È bianco perché ha sempre una
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pretesa di candore, vive nella convinzione di essere perennemente nel giusto, nel bene, nell’onesto.50
Ecco perché sviscerare un concetto come il cuore è un lavoro non esente dal rischio di fraintendimenti. La capacità di ascoltare il proprio cuore è dunque una vera e propria arte, e come tale essa deve essere tenacemente allenata e costantemente monitorata in modo da imparare a discernere sempre più in profondità gli intralci che si frappongono tra il vero cuore e il falso cuore. Mentre il primo conduce ad un’unione disinteressata e libera con il prossimo, il secondo non fa altro che simularne goffamente le presunte caratteristiche, ostentando spesso una gioia e un ottimismo forzati, così come una benevolenza ed un umanitarismo che nascondono tensioni mal comprese e mal gestite.
L’uovo-microcosmo Possiamo ora compiere un ulteriore sguardo nella realtà strutturale umana introducendo il concetto di ciò che gli antichi egizi chiamavano ren, in geroglifico
che significa letteralmente NOME e che è contraddistinto simbolicamente dal primo segno – il cartiglio – comunemente noto per la caratteristica figurativa di contenere al suo interno le iscrizioni dei nomi propri. Ma la sua funzione evocativa va ben oltre! Il ren è infatti la vera identità di ogni essere umano, la sua “impronta” cosmica, la sua specifica vibrazione energetica che lo contraddistingue come singola entità e che, allo stesso tempo, lo lega a tutto l’universo. In altre parole, è il MICROCOSMO, la cui manifestazione fisica assume l’aspetto di una sfera ovoidale che circonda il corpo. Ecco perché il secondo e il terzo geroglifico che compongono la parola – la bocca aperta e l’energia in movimento – indicano che l’atto 50
Laura Romano, Sumarah. Il risveglio del maestro interiore, Ubaldini, Roma, 1999.
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sacrale di scegliere un nome equivale a ricercare le reali caratteristiche energetiche dell’individuo per poterle esprimere, non certo una convenzione sociale con il solo fine di riconoscersi e distinguersi dagli altri. Il ren è dunque l’attributo con cui la dottrina egizia designa l’individualità di un essere umano senza necessariamente riferirsi ai suoi corpi spirituali. Esso costituisce piuttosto l’ambiente di base dove sono presenti tutte le condizioni necessarie per permettere una gestazione della scintilla divina, ma la scelta di intraprendere ed alimentare un processo del genere è strettamente vincolata al libero arbitrio personale. All’interno del ren, nel punto centrale del suo spazio, vibra l’Ioinek, intorno al quale gravitano caoticamente tutti i desideri e gli impulsi ad esso collegati. Essi traggono infatti origine dal principio egoico e lo alimentano a loro volta attraverso un circolo vizioso apparentemente senza uscita. Solo il graduale processo di sostituzione della natura egocentrica con quella altruistica, propria dell’elemento cuore, condurrà inesorabilmente verso un collasso dei desideri ed una liberazione dell’aspetto divino fino a quel momento celato e soffocato.
Figura 32 – Il cartiglio, simbolo del microcosmo.
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A ben vedere il simbolo che rappresenta il ren (figura 32), non raffigura nient’altro che il tratto di una corda avvolta su se stessa in modo da formare una sorta di anello, e legata poi alla base. Tale corda è il confine che delimita il senso di identità microcosmica dalla realtà macrocosmica, ma è anche la FORZA CONDUTTRICE che lega un’esistenza all’altra. Il singolo cartiglio coincide infatti con una sola esperienza vitale terrena, ma non per questo ne esclude altre. Il concetto della reincarnazione non è certamente un’esclusiva delle dottrine orientali. Sembra che il cristianesimo la contemplasse già all’interno della sua fede originaria, tanto che possiamo ritrovarne espliciti riferimenti negli scritti di uno dei più grandi teologi cristiani, Origene di Alessandria. L’anima non ha principio né fine. Ogni anima entra in questo mondo fortificata dalle vittorie oppure indebolita dai difetti della vita precedente. Il suo posto in questo mondo, quasi dimora destinata all'onore o al disonore, è determinato dai suoi precedenti meriti. Il suo operato in questo mondo determina il posto che essa avrà nel mondo successivo… Non è forse più conforme a ragione che ogni anima, per certe misteriose ragioni, venga introdotta in un corpo e ivi introdotta secondo i suoi meriti e le sue precedenti azioni?51
La tradizione egizia veicola il medesimo messaggio per mezzo della parola uhem ankh, in geroglifico
traducibile letteralmente come RINNOVAMENTO DELLA VITA o RIPETIZIONE DELLE NASCITE, un concetto volutamente reso poco manifesto per una serie di motivazioni che possono renderlo facilmente fraintendibile. Ciò che effettivamente si reincarna è infatti il ren-microcosmo, e non le personalità con le quali così facilmente ci identifichiamo, che 51
Origene di Alessandria, cit. in David Donnini, Nuove ipotesi su Gesù, Macro Edizioni, Diegaro di Cesena (FC), 2001.
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per loro stessa natura sono aggregati energetici precari ed evanescenti. Non è quindi possibile affermare che esiste per tutti la possibilità di una reincarnazione così come comunemente la si può intendere, ma più precisamente una continuità confusa della vita istintiva contenuta all’interno dell’involucro microcosmico; solo la graduale condensazione di un nucleo cosciente potrà beneficiare di una reale continuità cosciente attraverso le diverse vite terrene. Tale è il motivo per cui la dottrina egizia introduceva il concetto della reincarnazione unicamente all’interno della Scuola dei Misteri, laddove i partecipanti avevano già scelto volontariamente e consapevolmente di intraprendere un cammino di conoscenza interiore. Mentre la nascita terrestre crea lo spazio in grado di associare i diversi elementi che costituiranno poi le caratteristiche della persona, la morte li dissolverà nuovamente nel mare energetico circostante, trasmettendo ad una vita successiva solo quelle informazioni relative al grado di risveglio del proprio seme divino.
Figura 33 – Il concetto della reincarnazione simbolicamente espresso tramite il dispiegarsi ed arrotolarsi della corda.
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L’esistenza compresa tra la nascita e la morte corrisponde all’anello formato sulla corda, il ren, altrimenti rappresentato anche tramite spirali collegate e sostenute l’una all’altra grazie all’impersonificazione simbolica del destino (figura 33). La corda può formare degli avvolgimenti, degli anelli e dei nodi caotici, può mutare direzione o mutare nome, ma essa resterà sempre quella forza di coesione che lega un’esistenza all’altra, vincolata e soggiogata dall’attrazione dialettica. Solo una piena consapevolezza interiore permetterà di liberarsi dalla sua morsa incontrollata per divenirne pienamente padroni; tale è lo stato di colui che fuoriesce dal ciclo delle rinascite per rientrarvi consapevolmente al servizio dei suoi simili. Il ren di un tale essere diviene un veicolo perfetto per l’espressione della sua immagine divina in terra, in completa armonia con gli altri microcosmi e con il macrocosmo circostanti.
Energia ed Essenza Un altro corpo citato frequentemente nella letteratura dell’antico Egitto è il ka, in geroglifico
comunemente tradotto con il termine ENERGIA, anche se in realtà esprime un concetto di portata molto più ampia, difficilmente circoscrivibile all’interno di chiare descrizioni. Per aiutarci in quest’impresa è possibile equipararlo al CHI della tradizione cinese taoista, oppure ancora al PRANA induista. Il ka è infatti quella forza cosmica che pervade tutto l’universo pur rimanendo invisibile ed impalpabile, con la quale è però possibile entrare coscientemente in contatto tramite un processo di graduale sintonizzazione. Ecco perché il simbolo che contraddistingue il concetto è la raffigurazione di due mani tese verso l’alto, al pari di un’attuale antenna radiofonica capace di recepire informazioni comunemente non accessibili ai nostri sensi ma comunque sempre presenti nello spazio. 153
Lo sviluppo di una tale facoltà coincide con la formazione di uno specifico corpo interiore ad essa correlato, simbolicamente rappresentato dalla presenza del geroglifico sopra il capo dell’iniziato (figura 34). La caratteristica fondamentale del ka è il fatto di essere in origine una FORZA NEUTRA, un’energia non polarizzata, ancora non “contaminata” dall’alternanza duale del manifesto. Il fine di ciascuno di noi è proprio quello di accedere alla sua sorgente più pura, risalendo i cosiddetti ka inferiori per nutrirsi dei ka superiori.
Figura 34 – Colui che padroneggia il ka.
Tale corpo è il veicolo necessario per permettere al cuore di esprimersi nel meglio delle sue possibilità; è il nuovo involucro luminoso, puro, etereo, che permette all’individualità – ormai spoglia delle maschere illusorie con le quali si identificava – di mantenere la sua identità senza il rischio di dissolversi nuovamente. 154
Il ka è il primo nucleo imperituro del microcosmo che assicura all’essere umano il mantenimento di un’identità non egoica attraverso le diverse incarnazioni. Rappresenta il primo livello di consapevolezza oltre quello razionale e morale, il primo stato di coscienza potenzialmente esente dall’influenza delle alternanze ordinarie della vita. Grazie al ka è possibile osservare la vita da una prospettiva più obiettiva, in quanto non più preda dei coinvolgimenti emotivi delle circostanze. Si potrebbe affermare che ciascun individuo possiede questo corpo già dalla nascita, ma che solo in alcuni casi si struttura in forma libera ed autonoma. Il modo più semplice per comprendere il suo processo di sviluppo è immaginarlo come un sintonizzatore di energie. Fino a quando queste energie saranno di carattere animale, istintuale e passionale (i ka inferiori), esse continueranno ad alimentare l’aspetto egoigo, instabile ed impermanente. Ma perseguendo un percorso di discernimento interiore, e adottando uno stile di vita il più possibile in sintonia con qualità energetiche di natura consapevole, altruistica e aggregativa (i ka superiori), queste stesse si accorderanno gradualmente fino a costituire un vero e proprio organo spirituale, strettamente collegato con l’elemento cuore. Abbiamo già anticipato come tutto ciò che esiste nell’universo sia permeato da energia. Si impone dunque la necessità di passare da una tipologia di ragionamento di tipo quantitativo ad un tipo qualitativo o, più correttamente, vibrazionale. In questa prospettiva ogni essere umano si nutre, consciamente o meno, di tutto ciò che lo circonda, dai cibi solidi alla musica, alle letture, agli ambienti che frequenta; e concorre lui stesso ad immettere nutrimenti nel sistema, tramite azioni, parole e pensieri. Tutto è ka. In accordo con quanto afferma l’Ayurveda, tutto è cibo. Vigilando con pazienza e perseveranza sul proprio modo di relazionarsi con il mondo, e cercando instancabilmente di porre ascolto all’intelligenza del cuore, si metterà in sintonia il ka personale con gli altri ka umani e animali, così come vegetali ed inorganici, instaurando con loro un contatto di inimmaginabile profondità. Sarà forse ora più semplice comprendere il delicato concetto di MAGIA, in egizio heka e in geroglifico 155
letteralmente l’AZIONE DEL KA SUI TRE PIANI, in quanto il primo segno simboleggia proprio l’unione indissociabile di terra, uomo e cielo. L’arte magica è accessibile solo a colui che ha acquisito la capacità di vedere e sentire coscientemente la vita, in grado di muoversi agilmente all’interno dei diversi piani dell’esistenza. Ancora una volta, il fine regale dell’arte magica è quello di metterla al servizio dei propri simili, per aiutarli e sostenerli nel cammino della vita. Mago è colui capace di scorgere in profondità le cause al di là delle apparenze, consapevole delle trame che muovono l’esistenza e delle leggi che la regolano; egli può dunque alleggerire il fardello di un proprio simile consigliandolo e sostenendolo rettamente (senza però mai interferire o lederne la volontà), ma non è difficile immaginare quanto siano pericolose simili conoscenze in mano a coloro che sono ancora pieni di ambiziose velleità. Coloro che non hanno sviluppato il proprio ka ritornano sulla terra innumerevoli volte. Essi non beneficiano però coscientemente di questi ritorni, ne restano piuttosto all’oscuro perché la coscienza individuale sussiste solo attraverso il corpo del ka. Non si può quindi dire che vi sia reincarnazione, ma più propriamente una continuità della vita istintiva confusa in mezzo ad altre esistenze istintive. Questo delucida in forma più completa il motivo precedentemente accennato dell’inutilità di estendere la dottrina della metempsicosi al popolo immerso nella vita istintiva. Viceversa, colui che acquisisce la coscienza del ka, inizia a sviluppare un senso di responsabilità verso le conseguenze future di tutti i suoi atti all’interno del sistema universo in cui è inserito, al pari di una cellula di un organismo. Camminare nel sentiero della consapevolezza equivale ad elevare la qualità del ka personale risvegliandone le facoltà spirituali e riducendo proporzionalmente la tirannia dei ka inferiori, fino al momento in cui qualcos’altro riconoscerà nell’individuo lo
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strumento ideale per accoglierlo ed esprimerlo: la PRESENZA DIVINA, il ba, in geroglifico
o traducibile letteralmente come ESSERE PRESENTE, qui ed ora. Il primo termine rappresenta la cicogna africana, conosciuta come jabiru, e simboleggia la facoltà di muoversi, di migrare da Dio all’uomo e viceversa, sottolineandone così il legame sottile ma inestinguibile. Il secondo geroglifico è invece più comune e raffigura un uccello con il volto e le braccia umane (figura 35), che sembrerebbe evocare quell’aspetto umano capace di librarsi in volo verso i piani più sottili di sé.
Figura 35 – La Presenza divina, il ba.
La caratteristica più importante e fondamentale del ba è che nelle raffigurazioni compare sempre al di fuori dell’individuo; eppure ben 157
sappiamo quanto esso ne rappresenti a tutti gli effetti un corpo interiore. Tale paradosso è rivelatore di uno dei più meravigliosi misteri della vita cui siamo chiamati a sperimentare e a svelare in noi stessi. Il ba è la scintilla divina che reclama il suo diritto alla vita. Ostacolarla, impedendogli di poter trovare un adeguato rifugio dentro di sé, equivale a condannarsi alla morte spirituale, alla dissoluzione. Ecco il motivo per cui ogni dottrina prescrive un lavoro di predisposizione interiore atto a creare le condizioni ideali affinché l’Ospite possa riconoscere il suo regale alloggio. Una dieta specifica e morigerata, uno stile di vita lontano dal chiasso mondano, l’adesione a particolari norme di vita, sono tutte forme preparatorie con il preciso fine di pulire ed ordinare il proprio Tempio, renderlo pronto. Il motivo per cui il ba resta in disparte nelle raffigurazioni, è perché esso è neutro, impassibile ed indifferente alle vicende della persona, al di fuori dalle tempeste emotive e da ogni sorta di elucubrazione mentale. Esso è il vero IO SONO, e come tale può essere percepito solo attraverso un silenzio interiore, una sospensione del pensiero discorsivo capace di aprire le porte ad una realtà del tutto nuova. Si può ora facilmente immaginare come lo sviluppo del ka costituisca un costante richiamo per il ba, che ne ritrova il supporto energetico ideale e necessario. Mentre ba rispetto a ka è lo spirito animatore, ka rispetto a ba è l’individualizzazione della coscienza (un gioco continuo di intercambio che dà ad ognuno di loro un ruolo sia passivo che attivo, considerazione importante per non cadere nell’errore di interpretarne schematicamente le funzioni). Laddove non si realizza nell’individuo una tale unione, il ba ritornerà al suo luogo di origine confondendosi nuovamente con Dio, così come una goccia d’acqua ritorna nell’oceano per dissolversi in esso, mentre il principio egoico umano lotterà in terra per la sua sopravvivenza, disgregandosi però anch’esso nel corso del tempo.
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Il contatto con il divino Per un individuo quindi, dopo un percorso di purificazione interiore in cui inizia a riconoscere in se stesso la presenza del ba, si aprono le porte per una nuova fase del Cammino. Come abbiamo visto il ba è infatti uno stato coscienziale divino ma di natura ancora transitoria. Data la sua peculiarità di trasmigrare, egli può riconoscere il suo nido nell’essere umano prendendovi alloggio per alcuni attimi, ma non è detto che riesca a porvi dimora definitivamente; le tentazioni e le distrazioni della natura dialettica hanno ancora la forza di soffocare abilmente la sua voce e la sua presenza. Ogni raggiungimento di un nuovo stato di coscienza impone una sua immediata sperimentazione e concretizzazione a livello pratico, nella vita quotidiana. Se ciò non avviene, qualsiasi eventuale intuizione o “piccola illuminazione” perde immediatamente il suo valore, rischiando di decadere a livello di elucubrazione mentale o fantasia emotiva, pur mantenendo viva l’illusione di aver definitivamente raggiunto una condizione di consapevolezza divina. Il rischio di fraintendere alcune profonde ispirazioni filtrandole e confondendole caoticamente con le proprie personali debolezze, è sempre in agguato. Ciò è la causa di molti fanatismi, in cui tutte le limitazioni e gli egoismi umani concorrono nel manifestare apertamente quello che in origine potrebbe essere stato un reale barlume di volontà superiore. Per ovviare a questo pericolo non vi è altra strada che fare affidamento ad una serrata vigilanza interiore. L’obiettivo di ogni disciplina tradizionale, dalle meditazioni alle preghiere, dalle danze alle cerimonie, è quello di predisporre l’individuo affinché possa vivere con piena consapevolezza e responsabilità ogni attimo della sua esistenza. Si potrebbe dunque equiparare ogni arte sacra ad una sorta di palestra preparatoria con la precisa funzione di rendere vivo un particolare stato di coscienza nella quotidianità. Ad esempio nella tradizione Sumarah, a fianco della tecnica meditativa “straordinaria” denominata sujud kusus, ne esisteva un’altra di maggiore importanza:
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È il sujud harian, la meditazione “quotidiana”, il momento in cui portiamo le nostre conquiste e la nostra nuova e sempre rinnovata consapevolezza nella vita di tutti i giorni. Possiamo per un attimo avere l’illusione che sarà facile o in qualche modo meno impegnativo meditare in mezzo alla vita che non sedersi a meditare, ma ci accorgeremo presto che invece è vero il contrario, soprattutto perché è proprio qui, nella cosiddetta normalità della vita quotidiana che il nostro ego si sbizzarrisce esibendosi in tutti i suoi più sofisticati giochi e illusionismi.52
L’obiettivo del Cammino è la fusione del ba con tutto il proprio essere, una vera e propria TRASFORMAZIONE, dove anche la più piccola cellula del corpo muta la sua struttura per adempiere completamente alla nuova funzione. Ad un tale livello il ba prende definitivamente alloggio nel cuore dell’individuo, dando vita a quello che gli antichi saggi chiamavano akh, in geroglifico
letteralmente ESSERE DI LUCE, la forma di esistenza perfetta, impeccabile, dove la propria volontà terrena personale diviene un tutt’uno con la volontà veicolata dalla presenza divina. Il segno che rappresenta questo corpo è l’ibis comata, uccello caratteristico per le piume dai riflessi metallici splendenti e luminosi, simbolo dell’essere umano ILLUMINATO, che irradia la sua forza per mezzo dell’esempio. Akh è altrimenti conosciuto come il CORPO DI LUCE che non si possiede al momento della nascita ma che si può conquistare solo tramite un profondo lavoro di conoscenza e purificazione interiore. Tale stato di coscienza non è comunque ancora una fase conclusiva del Cammino, bensì una tappa verso una perfezione più alta, verso la più elevata condizione che un essere umano può fisicamente raggiungere nel mondo in cui viviamo: il sa-hu, in geroglifico
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Laura Romano, Sumarah. Il risveglio del maestro interiore, Ubaldini, Roma, 1999.
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che può essere tradotto come MAGO e contraddistingue il CORPO DIVINO, attraverso il quale l’individuo raggiunge un totale contatto con la sfera celeste, unendosi ad essa per divenire a tutti gli effetti un Dio in terra. Ecco perché il primo geroglifico della parola simboleggia un particolare nodo che fissa nell’uomo la natura divina, pur rappresentando allo stesso tempo un fluido vitale che circola senza impedimenti al di fuori del tempo e dello spazio. Sa-hu è il corpo iperspaziale capace di muoversi liberamente attraverso tutti i mondi e le dimensioni; vivendo nell’Eternità, egli non è più soggetto a limitazioni di nessun tipo. La discesa nei più profondi meandri di se stessi conduce infatti alla percezione dell’elemento sottile che dà vita e sostiene ogni cosa, travalicando la materialità cristallizzata nello spazio-tempo. È in tale luogo coscienziale che il mago, non più stregato dallo spettacolo illusorio della vita, può coglierne le cause e i disegni soggiacenti in modo presensoriale.
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La ricerca di Ak-Yb-Ka IV. OLTRE IL PENSIERO
Ak-Yb-Ka riusciva a stento ad accettare ciò che ora poteva vedere e sentire. Il bene? Il male? Due sottili inganni del pensiero, schiavi entrambi della ricerca del piacere. Ma quanti ideali costruiti negli anni intorno ad essi. La vita? Una serie ininterrotta di significati ad essa attribuiti. E ora? Frantumare il tutto in vista di cosa? Eppure, un richiamo al risveglio lo incitava a spingersi ben oltre, suggerendogli l’esistenza di un bene assoluto, per quanto irraggiungibile con i comuni mezzi della logica umana. Nella stessa strada intrapresa, riuscì a trovare una nuova filosofia, una nuova scienza, nuove prospettive cui guardare la vita. Ma ora stava emergendo la consapevolezza di come la loro funzione non sia stata altra se non quella di accompagnarlo fino a quel punto. Ripercorrendo le sue avventure, comprese infatti come l’unico fine del Tempio fosse stato solo quello di spronarlo a vigilare sempre attentamente su di sé. Già, perché ogni commovente regalo della vita, ogni inaspettata sorpresa, porta sempre in serbo anche inebrianti ebbrezze soporifere per l’anima. Ak-Yb-Ka comprese allora come ogni benedizione nasconde anche una potenziale maledizione di pari intensità. “Là dove la Luce si fa più intensa e più vicina, le ombre si fanno più minacciose, e maggiore sarà la responsabilità richiesta per custodirla e perseguirla,” gli veniva spesso ricordato come monito. La presenza della Scuola, la presenza del suo maestro: quali insidiose tentazioni di adagiarsi sul Cammino accontentandosi della loro protezione e benevolenza. E quanto tirannica la mente nel voler costantemente fossilizzare l’insegnamento in sterili norme di vita dogmatiche.
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Ak-Yb-Ka sapeva di trovarsi ormai sulla soglia tra il vecchio mondo ed un nuovo universo inesplorato, e temeva profondamente di spingersi oltre, ben sapendo però che nulla sarebbe stato più lo stesso tornando indietro. Riportò alla memoria il passato, quell’antica sensazione di tristezza ed amarezza che per molto tempo lo accompagnarono. Non volle essere nuovamente inghiottito dal caos. Giurò a se stesso che non avrebbe più indossato i vecchi abiti. E si sentiva nudo, completamente nudo. Non era più sufficiente la comoda illusione di appartenere all’elité del Tempio. Poteva forse chiunque altro risvegliarlo al posto suo? Fu allora che Ak-Yb-Ka si accorse della presenza silenziosa del maestro alle sue spalle, e fu in quel momento che vide ridere e danzare la separazione illusoria che tutto invade. Allora sentì di essere parte del Tutto, di partecipare al Tutto. Lo vedeva senza occhi, lo sentiva senza orecchie. L’esplosione del Sole nel cuore. Il padre, la madre, i fratelli, gli amici, i nemici… il suo maestro, il faraone, l’Egitto, il mondo, l’universo, la vita. Incontenibile il Tutto, la suprema gioia nel Vuoto. Un silenzio assordante in cui uscire dal tempo. E poi il pianto di una bambina in lontananza, lo smarrimento dei suoi compagni, laggiù nel mondo; la paura, la solitudine. Irrefrenabile il desiderio di tornare, per portare speranza, per testimoniare la Luce.
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La pesatura del cuore
Libro dei morti o libro dei vivi? Il testo sacro dell’antico Egitto più noto ai giorni nostri è sicuramente il Libro dei Morti, una raccolta di formule magiche con l’apparente funzione di accompagnare l’anima del defunto nel regno dell’aldilà. Ma questo titolo rischia di trarre in inganno, giacché il suo vero nome, in egizio pert em heru e in geroglifico
si traduce letteralmente come USCIRE ALLA LUCE DEL GIORNO, un significato di gran lunga differente dal primo. Secondo la tradizione questa raccolta di formule è un vero e proprio manuale simbolico in grado di guidare il microcosmo umano al di fuori del caos del mondo (figura 19), sottraendolo dall’oscurità dell’ignoranza per librarlo verso la luce divina. La potenza di questo libro potrebbe dunque rivolgersi tanto ai vivi quanto ai morti, anche perché secondo gli egizi la linea di confine tra ciò che noi consideriamo comunemente mondo terreno e l’aldilà è molto, molto aleatoria. Forse, con maggior precisione, potremmo affermare che ciò che differenzia lo stato di vita da quello di morte non sia solo la presenza o meno di un corpo fisico. Il nucleo vitale di un essere umano (come analizzato nel capitolo precedente) può continuare il suo percorso anche dopo aver deposto il proprio abito organico terreno, così come può spegnersi e dissolversi ancor prima di averlo abbandonato. Il Libro dei Morti altro non è che uno strumento in grado di fornire preziose indicazioni per orientare sul Cammino, per aiutare a porre correttamente le domande esistenziali, non per fornire risposte definitive. Per tale motivo ci riferiremo d’ora in avanti a lui con il titolo di Manuale per la Vita. Ovviamente non sarà qui possibile sviscerarne tutto il contenuto, formula dopo formula, ma ci soffermeremo sulla famosa 165
raffigurazione della pesatura del cuore (figure 36-37-38), dato il suo ricchissimo ed esplicativo simbolismo.
Figura 36 – La pesatura del cuore (a).
Figura 37 – La pesatura del cuore (b).
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Figura 38 – La pesatura del cuore (c).
Conosciuta anche come PSICOSTASIA, questa scena rappresenta la condizione interiore che ogni essere umano si trova a vivere nel qui ed ora, non solamente al termine dalla sua esistenza. Il protagonista è il microcosmo, cui viene costantemente offerta l’opportunità di divenire consapevole di se stesso per poter così spezzare le catene delle illusioni e divenirne finalmente libero. Esso viene raffigurato in questo caso per mezzo di una figura maschile che compare quattro volte all’interno dell’intera scena. Inizialmente compie il suo ingresso nella cosiddetta Sala della Verità accompagnato da una controparte femminile (figura 36), impercettibile energia angelica che gli offre sostegno nel suo desiderio di ricerca, infondendogli forza con il suono cerimoniale del sistro. Subito dopo si ritrova sotto le braccia della bilancia, specularmente al dio ANUBI, in egizio ynpu e in geroglifico
che significa APERTURA DEL CAMMINO, simboleggiando proprio quel richiamo che chi desidera penetrare il mistero della vita 167
sente in fondo al suo cuore. L’animale che lo contraddistingue è lo sciacallo, le cui qualità naturali gli consentono di ingerire carne putrefatta per trasformarla in nutrimento, in analogia con la capacità alchemica di trasmutare gli eventi della vita apparentemente privi di senso in esperienze realmente spirituali, consapevoli, vere. Anubi è dunque l’iniziatore, la guida che accompagna l’individuo attraverso i molteplici ostacoli presenti sul Cammino; incarna infatti la SPERANZA, qualità necessaria per procedere verso quella luce di cui ancora non si conosce nulla ma di cui si può presagire l’esistenza attraverso una profonda ed inspiegabile nostalgia interiore. Il motivo per cui questo dio è spesso associato al concetto di morte – le sue statue presiedevano i sarcofagi e i rituali di mummificazione – è perché il suo compito consiste nell’accompagnare da un vecchio stato di coscienza ad uno nuovo, verso una vera e propria rinascita interiore. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto.53
Prendere coscienza di Anubi significa compiere consapevolmente la scelta di intraprendere il Cammino, per volgere finalmente il proprio sguardo dall’esterno verso l’interno. Laddove una simile decisione non viene compiuta, le attrazioni caotiche del mondo continuano a giocare con le proprie illusioni in un circuito vizioso dal quale non vi è reale via di uscita; ed è in un tale stato di incoscienza che Anubi rimane in attesa nel buio nelle vesti di GUARDIANO DELLA SOGLIA.
La consapevolezza del proprio destino Concentrando l’attenzione sull’immagine della bilancia (figura 36) si può scorgere come poco sopra la testa del protagonista si impone come una spada di Damocle una sorta di mattone nero dal volto umano. È il dio shay, in geroglifico 53
Vangelo (Gv 12,24).
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impersonificazione del DESTINO individuale cui ognuno di noi è inesorabilmente legato. Occorre però anche in questo caso compiere lo sforzo di superare il dualismo bene-male per non interpretare il fato come un’ingiustizia o una punizione divina, nonostante la raffigurazione simbolica lo ponga volontariamente in una posizione minacciosa nei confronti del giudicato. Shay equivale a tutti gli effetti al concetto orientale di KARMA o a quello occidentale di SEMINA E RACCOLTA; una vera e propria legge di causa-effetto cui risponde inevitabilmente ogni passo compiuto nella vita. Non esiste dunque al suo interno distinzione di positivo e negativo più di quanto non si possa definire negativa o positiva la legge di gravità, ma sono solo i nostri giudizi e significati ad interpretarla in un senso piuttosto che un altro. Possiamo considerare, per esempio, il più condiviso consenso comune per il quale la fortuna sia direttamente collegata ad un’ampia disponibilità economica. Eppure è sotto gli occhi di tutti che esistono persone estremamente ricche e famose profondamente insoddisfatte e disperate, mentre altre persone particolarmente povere sono invece piene di vitalità e gratitudine verso la vita. La legge del karma incombe sul capo fino a quando il nostro sguardo, la nostra attenzione, rimane rivolta sul piano orizzontale della vita, totalmente concentrata sugli eventi esterni, interpretandoli quindi sulla base di casualità fortuite o accidentali. Solo un capovolgimento di prospettiva in grado di accogliere gli stessi eventi come il riflesso di una realtà interiore ancora incompresa, permetterà di accettare le circostanze presentate dal karma come un vero e proprio insegnamento, un’occasione unica ed irripetibile per mettere in luce parti di sé nascoste ed impensate. Diviene inoltre indispensabile considerare come il destino non sia propriamente qualcosa di inesorabile. Per quanto paradossale possa sembrare, comprendere il proprio karma equivale anche ad andare al di là di esso.
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Simbolicamente quanto graficamente, all’interno del microcosmo umano (figura 32) coesistono differenti personalità, desideri, significati, azioni, parole e pensieri strettamente connessi tra loro. Tutto ciò dà vita ad un sistema psichico ed organico che si muove nella vita seguendo precisissimi binari prestabiliti dalla sua stessa organizzazione interna, ricreando intorno a sé condizioni esistenziali ad essa speculari secondo il principio ermetico così in alto, così in basso.
Figura 39 – Il microcosmo dal punto di vista astrologico.
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La parola stessa micro-cosmo si contrappone analogicamente a quella di macro-cosmo, evidenziando implicitamente come i due sistemi siano l’uno lo specchio dell’altro. Tale è il motivo per cui anche nella tradizione astrologica l’essere umano viene rappresentato con i segni zodiacali impressi interiormente nel corpo ed in corrispondenza esteriore con quelli universali (figura 39), dove nello spazio racchiuso nell’involucro individuale compare una moltitudine caotica di piccole nuvole scure, gli elementi karmici non ancora manifestati che si riflettono in tendenze automatiche ed innate. La vera funzione di un TEMA NATALE astrologico è proprio quella di rivelare le peculiarità impresse nel microcosmo, offrendo nel qui ed ora l’occasione di prenderne coscienza per divenirne liberi e non più vittime inconsapevoli. I saggi egizi ben conoscevano la condizione in cui ogni essere umano si trova, per nulla dissimile da quella di un burattino mosso da fili invisibili, e hanno racchiuso nel simbolo dell’ankh il fine esistenziale cui ambire, il superamento delle proprie costrizioni astrologiche. Attualmente nota come CHIAVE DELLA VITA, in geroglifico
evoca la possibilità di divenire effettivamente PADRONI DEL PROPRIO DESTINO, capaci di scegliere e di muoversi consapevolmente; ecco perché in quasi tutte le statue e raffigurazioni gli dei, faraoni od iniziati, stringono in mano l’ankh. Questo semplice simbolo – oltre a veicolare i significati connessi all’immagine della croce – apre le porte a molteplici piani di lettura. Prima di tutto può essere interpretato figurativamente come un laccio di sandalo, ossia ciò che consente ai piedi di camminare agilmente sul loro cammino, ma può anche essere tradotto letteralmente come OROSCOPO, in qualità di nodo che ricorda come la vita del singolo essere umano sia legata alla vita delle stelle. La sua immagine ricorda inoltre la forma degli specchi rituali associati ad Hathor: nel proprio oroscopo, così come nella vita
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quotidiana, si può infatti scorgere il riflesso di se stessi, come realmente siamo, non come pensiamo di essere. È proprio grazie ad un percorso di riconoscimento, di smascheramento di tutti quegli aspetti con i quali spesso ci identifichiamo, che passo dopo passo verrà posto ordine e chiarezza nel microcosmo, fino a ristabilire il giusto equilibrio e la giusta stabilità interiore, fissando l’ankh in perfetta armonia nel ren (figura 40), e aprendo finalmente il portale nel centro del proprio essere, là dove Khepry – la ROSA DEL CUORE – potrà finalmente sbocciare.
Figura 40 – L’ankh ristabilita al centro del microcosmo.
Il contrappeso Procediamo ora con l’esaminare il tipo di unità di misura utilizzato nella bilancia (figura 36): da un lato abbiamo il cuore e
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dall’altro una piuma, simbolo della dea MAAT (figura 41), in egizio maat e in geroglifico
che significa letteralmente ORDINE, VERITÀ o GIUSTIZIA, e che simboleggia appunto l’equilibrio cosmico emanato da Ra. Maat è la saggezza del mondo, la SAPIENZA DIVINA, il trionfo definitivo della vita sulla morte. Essa contraddistingue il campo di coscienza spirituale più elevato cui si può attingere, il traguardo di ogni vero cammino interiore, quel BENE ASSOLUTO che emerge oltre i concetti di bene e male relativi.
Figura 41 – La dea Maat.
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Nell’antico Egitto il ruolo del faraone era proprio quello di essere il suo principale tutore e la sua vivente manifestazione agli occhi del popolo. Tutta la sua condotta era tesa ad offrire Maat alla vita in ogni gesto quotidiano (simbolicamente espresso nella figura 42), sia pubblicamente che intimamente. Vivere Maat, in Maat e di Maat, non significa farne filosofia né tantomeno ostentare sorprendenti poteri in grado di affascinare le altre persone; significa invece riconoscere i disegni di una volontà superiore e ricercare con gioia di muoversi in armonia con essi. Una tale condizione interiore non lascia spazio a secondi fini egoistici e nemmeno a personali concezioni di giustizia. Si narra a tal proposito nella tradizione sufi di un allievo che ambiva ad entrare in possesso della più alta conoscenza divina, che gli avrebbe aperto le porte ad ogni sorta di potere spirituale. “Devi assolutamente insegnarmi il sacro nome segreto di Allah”, disse un novizio al maestro sufi. “Non mi pare che sei pronto”, disse l’altro, “ma ti metterò ugualmente alla prova. Domattina all’alba recati alla porta principale della città e riferiscimi ciò di cui sarai testimone”. Il novizio ubbidì e il giorno dopo, nel luogo indicato, vide un energumeno maltrattare un povero vecchio. “Quest’uomo è fortissimo”, pensò, “se lo affrontassi, avrei la peggio”. La sera stessa, il giovane narrò l’evento al suo maestro nei minimi dettagli. E, con tono di rimprovero, aggiunse: “Se oggi avessi saputo il nome segreto, quell’omaccione se la sarebbe passata male!” Il maestro ascoltava in silenzio, senza replicare. Allora il giovane sbottò, e disse: “Cosa c’è? Perché non parli? Non pensi che abbia diritto a conoscere quel nome?” “Proprio no”, rispose il sufi, “in effetti, mio irruento amico, il vecchio maltrattato non era altro che il mio maestro. Cioè l’uomo che mi rivelò, molto tempo fa, il sacro nome segreto di Allah”.54
Questa storia estremamente suggestiva non necessita di commenti, ma impone silenziosamente a ciascuno di noi una sincera riflessione su quanto la propria vita possa essere ancora spiritualmente fragile.
54
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.
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Figura 42 – Il faraone intento ad offrire Maat alla vita, a Dio.
Maat è dunque la coscienza emanata incessantemente da Dio, e ne rappresenta al tempo stesso anche il nutrimento. Secondo i saggi egizi la vera felicità di una persona o di un popolo è indissolubilmente legata alla ricerca e alla pratica di Maat; essa è il fine di ogni culto divino, il potenziale equilibrio esistente tra l’universo e il mondo, tra il macrocosmo e il microcosmo. Nella scena della pesatura compaiono due espressioni di questa dea (anche se non sempre presenti a livello figurativo): la MAAT INDIVIDUALE con la piuma che controbilancia il cuore e la MAAT UNIVERSALE che assiste al giudizio da un’altra posizione lontano dalla bilancia. Mentre quest’ultima è l’essenza stessa della divinità che tutto pervade, la prima ne rappresenta una particolare ed intima espressione propria di ogni microcosmo, così come differenti componenti di uno stesso puzzle costituiscono piccole ma fondamentali parti di un tutto. Tale è il motivo per cui non potranno mai esistere indicazioni prestabilite e definitive per regolare la condotta di ciascun essere 175
umano, dato che di fronte ad una stessa situazione vi potranno essere molteplici possibilità di azione e, per quanto differenti, ciascuna impeccabile per quel particolare tipo di microcosmo. Ma è altresì importante considerare che prendere coscienza della propria Maat individuale equivale ad aprire anche un canale diretto con la Maat universale, tanto da non poterle più realmente scindere. Il Cammino di Maat cerca di risvegliare nell’essere umano la sua reale facoltà di libera scelta. Mentre il microcosmo risentirà sempre dell’inclinazione degli astri, esiste la possibilità di rimanerne in un certo senso neutrali e distaccati, non facendosi turbare da esse ma trascendendole seguendo le direttive del proprio cuore. Tale pratica consiste nell’operare ogni giorno affinché siano perseverate nella vita intorno a sé la coesione, la bellezza e l’armonia. Ma per fare questo è necessario prendere coscienza di quelle forze caotiche che lottano per mantenere l’essere umano in uno stato di sonno e confusione. L’opposto dell’espressione divina Maat è yspet, in geroglifico
traducibile come DISORDINE, INGIUSTIZIA o MENZOGNA. Il ruolo principale della civiltà egizia, espresso principalmente attraverso il compito del faraone, è quello di porre Maat al posto del CAOS. Vivere secondo la Regola di Maat significa amare i propri simili, condividere ciò che si possiede con loro, donarsi completamente ad essi, sostenere ed insegnare ai più deboli ed imparare con umiltà dai più saggi. In qualità di bene assoluto, Maat emerge là dove si riesce a superare ogni relativismo e dualismo, là dove svanisce l’IGNORANZA, in egizio kem e in geroglifico
a tutti gli effetti considerata come l’unico vero MALE ASSOLUTO, fonte di ogni sofferenza e schiavitù.
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Questo termine simboleggia il luogo segreto di ogni generazione, centro oscuro e nascosto che ospita il potere creativo senza poterlo però vedere e conoscere, in attesa che esso si possa manifestare apertamente. Il terzo geroglifico raffigura le braccia in un gesto di negazione ed impotenza, rivelando così un'altra possibile traduzione della parola, ossia DISTRUGGERE, nuocere, essere secco, arido; tutte condizioni cui l’ignoranza conduce. Ma il suo effetto più deleterio per l’essere umano è ciò che viene considerato dagli egizi come il peggiore male che può insinuarsi nell’animo di un individuo, in grado di corroderlo poco a poco fino ad annullarne ogni vera energia vitale, ogni spiraglio di luce. Si tratta dell’AVIDITÀ, in egizio aun-yb e in geroglifico
che significa letteralmente RAPACITÀ DI CUORE, una continua tensione che spinge a voler inglobare il più possibile per sé, non tanto per poter godere di ciò che viene acquisito, ma per l’insaziabile desiderio di accumulare sempre di più, anche a scapito delle persone circostanti. L’avido è infatti totalmente insensibile alle necessità altrui e il suo cuore si riduce in breve tempo a sterile contenitore di illusioni, sopprimendo ogni barlume di consapevolezza superiore.
Il verdetto della bilancia Diviene forse ora più semplice comprendere il significato del soppesare il cuore con la piuma di Maat. Come abbiamo potuto osservare nei capitoli precedenti, il cuore è l’unico “strumento” a nostra disposizione in grado di aprirci le porte verso un reale risveglio spirituale. Ma occorre conoscere in profondità il modo in cui esso funziona e si esprime. Abitudinariamente ciascuno di noi tende a far riferimento al concetto di cuore per motivare o giustificare una miriade di pensieri, parole ed azioni, siano pur essi di natura prettamente egoica. Non sarà certo un atteggiamento buonista a certificare l’esistenza di sentimenti reali e sinceri; conquistare la stima e l’apprezzamento di 177
mille persone non modificherà di una sola virgola la propria reale condizione interiore. Nel tentativo di fare chiarezza accorre in aiuto il simbolismo adottato dai saggi egizi (figura 31), dove il cuore è rappresentato da un vaso, una coppa, in altre parole un contenitore. In esso vengono così posti per legge naturale ogni azione, parola e pensiero, seguendo un ordine di importanza pari a quello appena riportato. La condizione umana è caratterizzata da una costante immersione nei pensieri discorsivi, da rivisitazioni del passato e da prefigurazioni del futuro, da preoccupazioni, paure, idee, interpretazioni delle proprie azioni e relative giustificazioni o colpevolizzazioni. Insomma, non è molto difficile comprendere il motivo per cui tutte le dottrine spirituali incitano al risveglio, a vivere realmente il presente, ad aprire gli occhi. Il brahmana Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall’aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese: “Sei per caso un dio?” “No, brahmana, non sono un dio.” “Allora sei un angelo?” “No davvero, brahmana.” “Allora sei uno spirito?” “No, non sono uno spirito.” “E allora, che cosa sei?” “Io sono sveglio”.55
Il primo passo da compiere sulla strada della consapevolezza (come accennato in un capitolo precedente) è riconducibile all’arte della CONSTATAZIONE, il cui termine in egizio, maa, si riallaccia proprio al nome della dea Maat, evidenziandosi come passaggio fondamentale per raggiungere la completezza di un tale stato di coscienza. Come si potrebbe infatti realizzare una piena conoscenza di se stessi e della vita senza prima riuscire a prendere atto del proprio modo di porsi in relazione con gli altri e con il mondo? Come poter vedere la realtà senza riconoscere prima i propri molteplici filtri percettivi? In altre parole, prima di poter ascoltare il proprio cuore, occorre conoscerlo, e per poterlo conoscere occorre volgere ad esso la propria attenzione, sbirciando con obiettività al suo interno per 55
Anguttara Nikaya, Il Libro dei Quattro (Dona Sutta).
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vedere quali azioni, parole e pensieri siano in esso contenuti. Un tale lavoro, per quanto apparentemente semplice e banale, portato a livello pratico manifesta non poche difficoltà, date le forti resistenze cui il proprio orgoglio si trova costretto ad affrontare. Si tratta infatti di una vera opera di smascheramento di tutte quelle fasulle immagini di noi stessi, capace di mettere in luce ogni dissonanza tra ciò che pensiamo e ciò che diciamo, tra ciò che diciamo e come agiamo. Arduo è il Cammino di Maat, alla portata di tutti ma non per tutti, esso ci pone di fronte a quel vuoto esistenziale insostenibile ed insaziabile delle mille distrazioni del mondo. Eppure non vi sono scappatoie: la consapevolezza necessita di essere coltivata per mezzo di continue osservazioni, perché solo un tale processo conduce alla formazione di un preciso organo interiore denominato TESTIMONE INTERIORE, in egizio tekh e in geroglifico
che significa PENDOLO e che può essere definito sia simbolicamente che figurativamente come un piccolo seme, più precisamente come il CENTRO DEL CUORE. È il filo a piombo che ritroviamo appeso nella bilancia, monitorato con la mano da Anubi (figura 36). La sua funzione è quella di offrire costantemente all’individuo un resoconto chiaro ed onesto della condizione vitale in cui si trova, al di là delle idee illusorie e delle giustificazioni mentali, suggerendo inoltre – qualora si abbia il coraggio e la voglia di dargli ascolto – le azioni da perseguire per equilibrare il più possibile il peso del cuore con la piuma di Maat. La voce del Testimone Interiore è la voce della coscienza, la voce di Horus, il Grillo Parlante che con fatica cerca di farsi sentire per ricordare a Pinocchio la strada da percorrere, per ricordargli lo stato di coscienza in cui si trova, per ricordargli quali agguati fuorvianti possono nascondersi dietro le seduzioni del mondo. Il concetto di RICORDARE è infatti riconosciuto dai cabalisti come espressione di una necessità fondamentale, una parola chiave che compare ben 125 volte all’interno della Torah.
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Ogni ricercatore subisce fortemente la tentazione di perdersi nei particolari, di interpretare ciò che percepisce o di studiare in base a opinioni emotive o pregiudizi personali, e di considerare assurdo ciò che momentaneamente gli è inaccessibile. È difficile voltare le spalle al pensiero razionale, al senso utilitaristico, alla dialettica orgogliosa; esse confondono la realtà sventolando ipocritamente bandiere idealistiche o impugnando la logica, là dove il cuore vedrebbe lucidamente e senza interferenze. Ma una visione di questo tipo potrebbe apparire cinica se non compresa a fondo. Un cuore puro non è mosso da sentimenti pietisti o romantici, così come le sue scelte non si basano sui principi relativi di bene e male. Egli sa perfettamente quanto dietro a questi due aspetti si nascondano spesso desideri di ottenere vantaggio e piacere personale (il bene) contro desideri di allontanare da sé ciò che risulta svantaggioso e spiacevole (il male). La caratteristica del cuore è proprio quella di discernere con una chiarezza ed onestà disarmanti ogni significato illusorio che la mente e le emozioni tendono ad associare a qualsiasi atto, senza farsi destabilizzare né corrompere da nulla. Ecco perché il termine che contraddistingue il cuore nella tradizione indiana è anahata, in sanscrito
traducibile come NON COLPITO, stabile in ogni situazione in quanto neutrale alle influenze caotiche dell’esistenza; significato del tutto analogo all’appellativo associato all’iniziato nel Manuale per la Vita, ossia COLUI DAL CUORE IMMOBILE. Porre il proprio punto di vista all’interno del cuore, equivale a superare una prospettiva di giudizio sia verso gli altri che verso se stessi, in virtù di un’attenzione meticolosa sulla propria condotta, l’unica vera artefice del destino. Ciò conduce inevitabilmente a sviluppare un forte senso di RESPONSABILITÀ verso le conseguenze future delle proprie azioni, non attraverso una forzatura od un’auto-imposizione, bensì grazie alla presa di coscienza diretta, sul campo quotidiano, di ciò che realmente rappresentano e causano determinati comportamenti.
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Molte consuetudini del giorno d’oggi hanno perso quel reale significato che tradizionalmente veniva loro assegnato. Pensiamo alla leggerezza con cui spesso parliamo di altre persone in loro assenza – il più delle volte per metterle in cattiva luce – senza considerare l’ampia portata di un comportamento del genere: la nostra limitatissima e distorta idea della persona in questione diverrà a tutti gli effetti una malattia psichica infettiva che ruoterà intorno alla sfera del malcapitato per portare nella sua vita delle inevitabili conseguenze. Non per esagerazione secondo la tradizione ebraica la maldicenza è da sempre considerata una colpa superiore a quella dell’omicidio. Chiamata a sé la folla, disse loro: “Ascoltate e intendete: non quello che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è quello che esce dalla bocca, che contamina l’uomo!”56
Per equilibrare il suo peso con la piuma di Maat, il cuore deve alleggerirsi di ogni fardello egoico, e l’unica tecnica a disposizione per monitorare questa condizione è quella di constatare con estrema sincerità ogni comportamento e ogni parola, inequivocabili conseguenze del personale stato di coscienza. Al di là dei giudizi morali, l’INDAGINE DI SÉ viene tramandata da millenni come la chiave di volta per un sicuro viaggio sul Cammino. Passo dopo passo, il cuore si ripulirà dalle vecchie scorie sedimentate nel tempo per riacquistare le sue originarie caratteristiche di limpido contenitore, finalmente in grado di accogliere l’acqua vitale dall’inesauribile Sorgente per riversarla intorno a sé. Una tale condizione rende l’individuo – o meglio il suo cuore – un essere PURO, in egizio uab, geroglificamente esprimibile in due modi differenti, da mettersi in relazione alla fase del processo e al suo completamento; nel primo caso
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Vangelo (Mt 15,10).
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contraddistingue la tensione verso la purezza, dove l’intento dell’individuo è ormai saldo nella sua ricerca ma ancora ostacolato dalle molteplici difficoltà presenti sul Cammino, simboleggiate dall’alternanza della dualità (la gamba) e dall’idea dei conflitti interiori che ancora rendono confusa la naturale percezione ed espressione dell’Essenza (il corno che incrocia l’acqua che sgorga dalla brocca). Mentre il secondo caso
delinea il raggiungimento definitivo della purezza, la liberazione interiore da ogni apporto estraneo e la piena consapevolezza di sé come singola cellula di un tutto. Per questo motivo il cuore viene rappresentato come un vaso, il cui obiettivo è quello di svuotarsi di tutte le personalità egoistiche e caotiche per divenire un CANALE DELLA DIVINITÀ, espressione della sua volontà. Il cuore dell’iniziato diverrà allora a tutti gli effetti un SANTO GRAAL, dove l’energia divina viene convogliata e riversata nelle giuste dosi per tutti coloro che ne avvertono la sete. Il cuore porta quindi in sé il doppio principio attivo-passivo: canalizzatore del volere divino e suo esecutore. Ed ecco svelato il significato simbolico dei due segni espressi sulla raffigurazione del cuore (figura 31) dove un seme lunare – in alto e capovolto – contraddistingue la caratteristica ricettiva, mentre un uovo o seme solare – in basso – ne delinea la vitale predisposizione a convertire creativamente ciò che inizialmente è stato assorbito; un armonioso susseguirsi di assimilazione ed offerta secondo il principio espresso dal Cristo: Io comunico i miei misteri a coloro che sono degni dei miei misteri. Ciò che fa la tua destra, la tua sinistra lo deve ignorare.57
Possiamo forse ora comprendere quanto sia ampio il campo di studio di sé, e quanto sia necessaria una lenta purificazione prima di poter realmente accogliere il sublime ospite tanto ambito: il ba che, 57
Vangelo (Tm 62; Mt 6,3).
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impassibile ma attento, rimane ad osservare la pesatura del cuore in attesa che le condizioni del suo tempio divengano ideali per la salita al trono.
La forza attrattiva delle illusioni Laddove il cuore si purifica ponendosi al servizio della volontà divina, il suo equilibrio con la piuma di Maat sarà perfetto e costantemente mantenuto; a lui si apriranno le porte per accedere ad un ordine di vita superiore. Condotto dalla forza cristica – impersonificata da Horus (figura 37) – l’animo giungerà fino alla soglia del Tribunale di Osiride (figura 38) per essere innalzato oltre il mondo dialettico e squarciarne così il velo delle illusioni, rappresentate simbolicamente dagli ASSESSORI DI OSIRIDE posti seduti in sequenza sopra la scena della pesatura (figura 36); in altre parole essi sono le leggi regolatrici del manifesto che agiscono all’oscuro della coscienza ordinaria. Il cuore di colui che invece non si è assunto le responsabilità del proprio agire e del proprio destino, accontentandosi di una vita tranquilla e mediocre senza mai volgersi verso la Luce, risulterà troppo pesante e non gli verrà concesso di passare oltre la pesatura. In tal caso sarà inghiottito da AMMIT (figura 37), in egizio ammut e in geroglifico
conosciuta come la DIVORATRICE, composta dalla testa di coccodrillo, tronco di leone e parte posteriore di ippopotamo, tre aspetti della natura che attraggono ed assimilano le energie di propria spettanza. Rappresenta il TEMPO e la corruzione fisica ciclicamente contenuta in esso. Raffigurata spesso in attesa del risultato della pesatura del cuore, lo divora ogni volta che la piuma di Maat non riesce ad essere bilanciata. Ammit è infatti colei che inghiotte e riassorbe tutto ciò che nell’individuo non è stato unificato; simboleggia l’AVIDITÀ 183
DELLE ENERGIE MATERIALI, il caos delle passioni e dei desideri in cui si dissolvono i costituenti di un essere umano non sublimati e spiritualizzati. Troviamo nella Ruota della Vita buddista (figura 23) un analogo simbolismo rappresentato nel cerchio interno (figura 43), dove compaiono un gallo, un serpente e un cinghiale che si rincorrono ciclicamente, indicando rispettivamente i deleteri difetti mentali dell’avido attaccamento, dell’ira e dell’ignoranza, fonte di ogni sorta di sofferenza.
Figura 43 – I tre difetti mentali secondo il buddismo.
Per utilizzare un altro tipo di linguaggio, si potrebbe affermare che nel caso in cui il peso del cuore coincide con quello della piuma, verrà aperto l’accesso al PARADISO. Viceversa, più la condotta si allontana dalla volontà divina, più Ammit sarà propensa ad ingoiare il cuore fino a farlo scendere nelle profondità delle sue viscere 184
disperdendolo nelle energie caotiche del mondo materiale, l’INFERNO. È però altresì importante comprendere come questi due luoghi siano in realtà stati coscienziali, e come l’inferno non corrisponda ad una condizione definitiva e priva di possibilità di riscatto, tutt’altro! Esso dovrebbe essere più propriamente considerato come un PURGATORIO nel quale è comunque sempre offerta la possibilità di compiere le opportune esperienze per comprendere appieno i disegni della Grande Opera. Una toccante storia zen affronta in maniera estremamente esplicativa il tema del paradiso e dell’inferno. Un soldato di nome Nobushige andò da Hakuin (noto maestro zen) e gli chiese: “Ci sono davvero un paradiso e un inferno?” “Chi sei tu?” indagò Hakuin. “Sono un samurai”, rispose il guerriero. “Tu, un soldato!” esclamò Hakuin, “che razza di sovrano vorrebbe averti come guardia? Hai la faccia di un mendicante.” Nobushige divenne così furioso che fece per estrarre la spada, ma Hakuin esclamò: “Così hai una spada! La tua arma probabilmente non è abbastanza affilata per tagliarmi la testa.” Mentre Nobushige sfilava la sua spada, Hakuin commentò: “Qui si aprono le porte dell’inferno!” A queste parole il samurai, percependo l’insegnamento del maestro, rinfoderò la spada e s’inchinò. “Qui si aprono le porte del paradiso”, disse Hakuin.58
Quando un individuo non riesce a comprendere l’insegnamento insito in un’esperienza e si lascia trascinare ciecamente dalle sue tendenze istintuali, ricade nella ciclicità di se stesso, perpetuando inconsapevolmente il proprio destino. Ma la vita, prima o poi, gli riproporrà un’esperienza analoga in modo che egli abbia nuovamente la possibilità di soppesare il suo cuore: tale è l’inesauribile funzione di Ammit, e cioè ricondurre instancabilmente l’essere umano di fronte a se stesso. Ciò che all’inizio appare come una minacciosa forza malefica, potrebbe rivelarsi al termine del viaggio come una fondamentale caratteristica liberatrice. Non dimentichiamo infatti che il nome di 58
Nyogen Senzaki e Paul reps (a cura di), 101 Storie Zen, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1996.
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colui che riconosciamo come il principe degli inferi, LUCIFERO, dal latino luciferus, significa letteralmente PORTATORE DI LUCE.
I differenti piani di esistenza Abbiamo potuto brevemente considerare come il paradiso, l’inferno e il purgatorio non sono aleatorie regioni situate in chissà quale sfera esistenziale oltre la morte fisica, ma sono piuttosto degli stati di coscienza nei quali viviamo nel qui ed ora. Ripercorrendo infatti il viaggio dantesco nei recessi della nostra interiorità, possiamo ritrovare in esso precisi simbolismi che rispecchiano una realtà costantemente presente, seppur comunemente celata dall’orientamento della nostra attenzione verso l’esterno. Per quanto, secondo la sapienza egizia, non esista dunque reale differenza tra ciò che un individuo si trova a vivere in questo mondo e ciò che incontrerà nel misterioso aldilà, vengono comunque delineati dei luoghi transfisici adibiti ad accogliere i singoli microcosmi secondo una precisa legge di affinità selettiva che si impone tra stati ed esseri della medesima natura coscienziale; in altre parole, il simile attira il simile. Queste regioni nel loro insieme costituiscono ciò che viene denominata DUAT, in geroglifico
la cui radice trae origine dal momento di passaggio tra il giorno e la notte, considerata a tutti gli effetti come il regno dell’OLTRETOMBA. È la fase che conduce verso un DIVENIRE o verso un RITORNO. Si potrebbe quindi affermare che esistono due duat: la prima è lo stato in cui si trova colui che si avvia verso una nuova genesi spirituale, la seconda è invece lo stato in cui si trova chi è uscito dall’esistenza terrestre ma attende di rientrarvi, ancora vincolato dalle forze attrattive del mondo.
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Il regno della duat, dal punto di vista interiore, non è sostanzialmente differente dal mondo in cui stiamo vivendo ora. In entrambi i casi coesistono tutte le possibilità di attingere alla Luce o di rimanere incatenati all’oscurità, nonostante le condizioni vitali siano per natura fisico-energetica ovviamente differenti. L’ordine di esistenza dialettico in cui l’essere umano si trova ciclicamente incatenato include al suo interno sia la sfera materiale, il campo di vita terrena, sia la sfera RIFLETTRICE, il processo di passaggio tra la morte di una personalità e la vivificazione di quella successiva. La duat che conduce al ritorno è a tutti gli effetti uno specchio – un riflesso appunto – del luogo in cui ora ci troviamo. Ecco perché nella rappresentazione simbolica viene espressa all’interno della Creazione come la sua controparte capovolta (evidenziata con il cerchio nella figura 44). Entrambe le sfere esistenziali hanno dunque una durata temporanea, ritrovando solo al centro di esse – nel sole sorretto da Khepry – il nucleo immutabile ed eterno. Nell’approfondire più dettagliatamente le regioni della duat riflettrice, si può osservare come esse siano simbolicamente ben caratterizzate e distinte le une dalle altre, affinché ciascuno possa riconoscere in se stesso la relativa affinità e dunque il proprio grado di liberazione. I saggi egizi evocavano tali ambienti interiori tramite raffigurazioni di ambienti naturali, offrendo in tal modo immagini familiari agli esseri umani nel tentativo di far comprendere concetti astratti incomunicabili in altri modi. Ad esempio, le rappresentazioni di laghi o corsi d’acqua esprimono l’idea di galleggiare sopra di essi nell’attesa di ulteriori trasformazioni, così come le isole esprimono la stabilizzazione di certi stati, oppure come i campi paludosi nei quali è sempre possibile ricercare il giusto nutrimento per far germogliare ed emergere come un loto la propria Essenza. Una di queste regioni è seket yaru, in geroglifico
traducibile come l’OASI DEI GIUNCHI ACQUATICI, in un certo senso paragonabile all’inferno. Allo stesso modo in cui i 187
miraggi del deserto, pur sembrando reali, non sono altro che immagini fittizie, proiezioni della propria mente, così anche le scene presenti nell’oasi dei giunchi sono illusorie.
Figura 44 – La Duat, l'aldilà per gli egizi.
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Per comprendere meglio questa sfera esistenziale occorre delineare un nuovo aspetto dell’essere umano, giacché i suoi abitanti sono esseri comunemente conosciuti con il nome di FANTASMI, in egizio shut o khaibit e in geroglifico
o il cui significato si può racchiudere nella parola OMBRA, un vero e proprio corpo interiore raffigurato come una siluette scura in piedi o sdraiata (figura 45). Khaibit è l’organo emozionale che conserva l’immagine e l’impronta della vita psichica. Possiede delle proprietà che il corpo fisico non possiede in quanto composto di una sostanza più sottile che non risente delle stesse leggi; per tale motivo può vagare nello spazio senza sostegni e può attraversare qualsiasi ostacolo fisico. Eppure, gli stati spirituali sono inaccessibili all’ombra tanto quanto i muri lo sono al corpo. Anche il tempo assume con essa una relazione molto differente da quella comunemente concepita dall’intelligenza razionale. In colui che non ha mai perseguito nessuna reale ricerca interiore, il ka personale è ridotto all’insieme dei ka inferiori, che assumeranno già in vita le sembianze dell’ombra fino a proseguire l’esistenza con ancor maggiore intensità dopo la morte fisica, e potendo sopravvivere anche centinaia d’anni in una forma del genere (il fantasma), ma destinata anch’essa a dissolversi nuovamente nel caos. Il fine ultimo del Manuale per la Vita, la fuoriuscita verso la luce del giorno, consiste proprio nella liberazione dall’ossessione degli elementi che soffocano la coscienza con l’ombra dell’ignoranza. L’ombra è infatti la proiezione di un oggetto illuminato, quindi quando la Luce s’incarna nella sostanza, la sostanza si oppone ad essa generando un corpo che costituisce proprio il khaibit. Ogni ostacolo presente sul Cammino, ogni conflitto interiore, altro non è che una lotta per la supremazia che vede schierate da un lato l’ombra e dall’altro l’impulso divino originario. Ma laddove l’iniziato riuscirà a non fare oscurare la propria coscienza, il khaibit stesso si arrenderà e parteciperà al processo evolutivo in modo 189
marginale e non più tirannico, limitandosi unicamente alle sue affinità terrestri.
Figura 45 – Il khaibit, l’ombra.
Diviene allora più comprensibile il significato sotteso al simbolismo dell’oasi dei giunchi acquatici, nella quale gli esseri umani continuano a sopravvivere per mezzo della loro ombra, non avendo ancora esaurito le attrazioni verso le lusinghe della vita terrena. Continuando a subire i miraggi di ciò che è stata la loro esistenza fisica, si troveranno qui alle prese con le insidie delle forze ostili che vogliono impedire loro di passare ad uno stato di libertà superiore. Anche nell’altro mondo infatti, come nel nostro, gli individui schiavi 190
dell’ego, dominati dalle tendenze tiranniche del proprio ka inferiore, fanno di tutto per moltiplicare e tenere legati a sé i propri compagni di schiavitù. Esiste poi un’altra località all’interno del regno della duat, ossia il seket hotep, in geroglifico
che significa OASI DI PACE, il primo soggiorno verso la beatitudine, in altre parole il paradiso. In essa si attende l’ora di ritornare sulla terra per compiere le ultime esperienze che consentiranno di unirsi al proprio ba. In tale attesa si rigenera all’interno del microcosmo un nucleo maggiormente predisposto ad accogliere la Luce, consentendo di incarnarsi nella vita successiva con una coscienza superiore a quella precedente. Una terza ed ultima regione, inserendosi ad un livello intermedio tra l’oasi dei giunchi acquatici e l’oasi di pace, è il yu neserser, in geroglifico
traducibile come ISOLA DELLE FIAMME, a tutti gli effetti un purgatorio. Si potrebbe definire come il luogo in cui la coscienza dell’individuo ha raggiunto una velata consapevolezza della sua condizione interiore e del suo fine, ed in esso consuma ed estingue più velocemente i suoi desideri istintivi fino ad imparare a non vincolare più ad essi il proprio Cammino. Ecco il motivo per cui il nome richiama l’idea del fuoco, l’elemento distruttore ma rigeneratore allo stesso tempo.
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Il nuovo Egitto
Attraverso le ere Molte tradizioni hanno da sempre suddiviso la storia del mondo e della civiltà umana sulla base di particolari aspetti astrologici e relative influenze di carattere fisico, psicologico e spirituale. Queste suddivisioni prendono appunto il nome di ERE ASTROLOGICHE o EONI, fondandosi sul principio di correlazione tra eventi terrestri ed eventi celesti. Ogni era viene chiamata con il nome del segno zodiacale all’interno del quale è situata la posizione del sole all’equinozio di primavera, ed ha una durata media di 2140 anni circa, nonostante tale periodo possa variare per una moltitudine di ragioni legate sia al tipo di simbolismo adottato, sia alla mutevolezza della posizione delle costellazioni nel corso dei millenni dovuta alla precessione degli equinozi. Se durante l’anno la sequenza zodiacale segue una certa progressione, le ere astrologiche seguono l’ordine inverso. Tali considerazioni permettono un’interessante lettura interpretativa dei testi tradizionali. Per esempio, all’interno della narrazione biblica si può osservare come Mosè sembri rappresentare un nuovo impulso spirituale che inaugura la transizione, ossia pesach, che significa appunto PASSAGGIO, tra l’era del Toro – collocata all’incirca tra il 4300 a.C. e il 2150 a.C. – e l’era dell’Ariete – tra il 2151 a.C. e l’anno 0. Proprio nella discesa dal monte Sinai, Mosè vede il suo popolo adorare un vitello e si infuria spronando la gente a seguire il nuovo flusso spirituale, il nuovo dio rivelatosi al popolo di Israele. Nella stessa epoca troviamo delle analogie in Egitto, dove il culto principale era fino a quel momento dedicato all’animale sacro di Ptah (figura 26), il toro appunto, e la maggior parte delle opere artistiche erano ad esso dedicate (figura 46).
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Figura 46 – Il toro sacro a Ptah.
La fine dell’era del Toro coincide dunque con l’avvento dell’era dell’Ariete, animale sacro al dio AMON (figura 47), in egizio Ymen e in geroglifico
traducibile come IL NASCOSTO o DAL NOME MISTERIOSO, richiamando un concetto analogo all’impronunciabile tetragramma divino nella tradizione ebraica. Egli è allo stesso tempo asilo e conforto dell’essere umano più debole in tutte le avversità che la vita gli pone. Non per altro uno dei suoi appellativi più utilizzati è COLUI CHE TRAE IN SALVO, evocando anche in questo caso una probabile assonanza con l’esodo biblico. L’ariete che lo simboleggia è stato a lungo tempo utilizzato come principale tema artistico nelle opere sacre; ancora oggi non passa certo inosservato il viale delle sfingi nel tempio di Luxor (figura 48). 194
Figura 47 – Il dio Amon.
Proseguendo nella successione delle epoche, in concomitanza – non certo casuale – con la nascita di Gesù e con la graduale fine dell’antica civiltà egizia, prende avvento l’era dei Pesci, o eone di Osiride, che dovrebbe concludersi secondo le previsioni astrologiche intorno al 2140. Da tale punto di vista la figura del Cristo può essere considerata come colei che ha guidato l’umanità attraverso l’era che sta ora per giungere al termine. Il suo simbolo originario è il pesce (figura 49), di cui possiamo trovarne ancora traccia nell’arte sacra egizia negli anni successivi all’avvento del cristianesimo (figura 50), senza dimenticare che nella mitologia di Osiride è stato proprio il pesce 195
ossirinco a preservarne l’organo genitale dopo la frammentazione, permettendo così una rinascita a nuova vita del Cristo-Horus.
Figura 48 – Il viale con le sfingi a testa di ariete a Luxor.
Figura 49 – Il pesce, simbolo del Cristo.
La vita di Gesù ruota intorno al simbolo del pesce, i suoi amici erano pescatori, lui stesso si definiva pescatore di uomini, sfamando migliaia di persone con la moltiplicazione dei pesci. Da questa
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prospettiva non possiamo non considerare le sue ultime parole in conclusione al vangelo di Matteo: Ed ecco: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente.59
Il termine età presente si può tradurre come eone, aeon dal testo originale greco.
Figura 50 – Il pesce nell’arte egizia.
Qual è dunque la nuova epoca che ci attende? Quale nuovo impulso spirituale verrà veicolato? Secondo i piani astrologici stiamo entrando nell’era dell’Acquario, considerato dalla sapienza egizia sotto la tutela della dea Maat. Difficile stabilire con estrema precisione la data di passaggio, ma è pur vero che, come l’inizio di un nuovo periodo
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Vangelo (Mt 28,20).
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porta con sé ancora le tracce di quello precedente, così gli anni che volgono al termine contengono già i semi di quello futuro. Per molte correnti tradizionali infatti – alcune basandosi su calcoli astronomici effettuati sulla piramide di Giza – l’anno 2001 sarebbe proprio coinciso con una sorta di prima inaugurazione della nuova epoca, un primo decisivo input di trasformazione, un punto di non ritorno. È opportuno inoltre considerare come molti scenari apocalittici contenuti nei testi sacri non siano solo espressione di calamità e catastrofi, ma anche simbolo di rinascita e presa di coscienza di nuove realtà. La parola APOCALISSE trae infatti il suo significato dal greco apokalypsis, letteralmente RIVELAZIONE, un concetto estremamente lontano dalla consueta e fuorviante accezione del termine.
L’eone di Maat Abbiamo brevemente osservato la successione delle ultime ere astrologiche, ma quello che ora preme veramente è comprendere la loro risonanza nella nostra vita di tutti i giorni, in particolare in un momento di passaggio così particolare come quello in cui ci troviamo. Le implicazioni macroscopiche di ogni eone sono probabilmente molto più sottili e rivoluzionarie di quanto potremmo immaginare, veicolate e forse anche manipolate da individui ed organizzazioni ad un livello tale da non poterle mai precisamente tracciare e classificare. Uno dei problemi risiede proprio nel rischio di travisare il messaggio spirituale in corso per rivestirlo di comodi abiti egoici ed adattarlo ai propri interessi personali o di gruppo. La storia è costellata di simili degenerazioni e di continui tentativi ad opera di Inviati di ristabilire o rinnovare il messaggio universale nella sua purezza. Ogni impulso spirituale, la cui origine non è sempre pubblicamente evidente come lo è stata con l’avvento di Gesù Cristo nella civiltà occidentale, viene generalmente sintetizzato per mezzo di un motto e di un aforisma che ne racchiudono simbolicamente 198
tutta la potenza creatrice. L’era dei Pesci che volge al termine è contraddistinta da: SACRIFICIO, MORTE e RESURREZIONE che veicolava originariamente il concetto di crocifissione dei propri aspetti relativi terreni – le diverse personalità – per permettere una reale rinascita spirituale di quella scintilla divina portata in serbo dal proprio cuore, nella maggior parte dei casi celata al di sotto di illusorie e false imitazioni di natura dialettica. Tale processo è accompagnato dall’aforisma: FAI CIÒ CHE DEVI che evidenzia la necessità di mettersi al servizio di un Bene supremo per mezzo dell’obbedienza ad una figura di riferimento esterna – come un Maestro, un Ordine o una Scuola – riconosciuti come reali testimoni dell’Insegnamento Universale. Osservando da questa prospettiva gli ultimi 2000 anni di storia, non è molto difficile dedurne i molteplici risvolti di degradazione interpretativa. Il sacrificio ha assunto il significato di sofferenza e dolore come condizioni esistenziali necessarie per percorrere un cammino spirituale, il concetto di morte è diventato il movente per giustificare le guerre sante e i genocidi, mentre la resurrezione uno stato fisico rimandato ad una imprecisata fine dei tempi. Analogamente, lo spirito dell’aforisma è divenuto il pretesto per la pretesa di un’obbedienza cieca e priva dello spazio per una valutazione cosciente. All’interno di questa era sono emersi allora diversi tentativi per rettificare e vivificare il messaggio originario, alcuni dei quali fungendo anche da ponte intermedio per preparare il terreno all’avvento del periodo successivo. Un esempio molto esplicativo e a noi più vicino in termini spazio-temporali è la rivoluzione francese del 1789, il cui motto LIBERTÀ, UGUAGLIANZA e FRATERNITÀ
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corrisponde ad un messaggio spirituale introdotto alcuni anni prima dall’opera di Alessandro conte di Cagliostro, la cui eccelsa figura è stata nel tempo confusa – forse volutamente – con un ciarlatano di nome Giuseppe Balsamo. Il vero Cagliostro girò invece le diverse corti europee dell’epoca per promuovere una trasformazione di pensiero nel tentativo di restituire maggiore dignità all’essere umano, senza ostentare le sue doti alchemiche ma mettendole instancabilmente al servizio delle classi più deboli, operando guarigioni ed elargendo sostentamenti economici per i poveri. Stante alle testimonianze storiche, la sua vita e il suo influsso spirituale non appaiono per nulla differenti dall’opera svolta da Gesù circa 1800 anni prima. Il pensiero di Cagliostro influenzò positivamente moltissime persone del suo tempo, inaugurando un mutamento culturale, filosofico e sociale decisamente significativo. Lui stesso – come peraltro presagì – fu l’ultima vittima dell’inquisizione che per molti secoli dominò incontrastata in Europa. Ma le debolezze e le cupidigie umane sono sempre in agguato ed anche in questo caso, a fianco di un risveglio di coscienza, il suo messaggio di rivoluzione interiore si prestò facilmente ad essere utilizzato come alibi per una rivoluzione di fatto anche esteriore, e poco dopo la sua morte venne affiancato al sopracitato motto un’appendice: nessuna libertà per i nemici della libertà. A ciascuno dunque la facoltà di effettuare opportune riflessioni in merito. Giungendo infine al giorno d’oggi, l’impulso spirituale veicolato dall’eone di Maat è simboleggiato nel motto: AMORE, VERITÀ e GIUSTIZIA per il quale ogni definizione rischierebbe di limitarne l’immensa portata, ma che contraddistingue certamente un cammino interiore orientato verso la ricerca di una libertà incondizionata, da perseguirsi per mezzo di una gioiosa offerta di sé alla vita invece che di una sofferente rinuncia di sé; una sottile differenza di termini per un decisivo cambiamento di prospettiva. In questo caso il processo è contraddistinto dall’aforisma:
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FAI CIÒ CHE SEI che rimanda direttamente alla necessità di comprendere a fondo tutto ciò che in realtà non siamo, senza farci prendere dall’enfasi emotiva di identificarci con aspetti buonisti, nascondendoci ancora una volta dietro falsi sorrisi e dolci parole di matrice spirituale. Tale aforisma non prevede un libero sfogo alle proprie pulsioni istintuali o desideri repressi, ma piuttosto un loro onesto riconoscimento, per poter così toccare con mano quanto in realtà sia radicata la nostra identificazione con essi. E rimasti soli con il proprio vuoto interiore, non potremmo non avvertire anche la possibilità di lasciar spazio ad un impulso creativo, una forza la cui ricerca non potrà più essere delegata ad altri.
La comprensione dell’Amore L’impossibilità di argomentare intorno ai tre termini costituenti il motto della nuova era è dovuto al fatto che un reale e sincero percorso di conoscenza non potrà mai espletarsi partendo da solide fondamenta, da confortanti risposte ai quesiti dell’esistenza, ma piuttosto da un’incertezza stimolante in grado di alimentare costantemente la sete di ricerca e la disponibilità a mettersi ogni momento in discussione. La parola AMORE infatti, in egizio mer e in geroglifico
contraddistingue il principio universale di ATTRAZIONE che vive dentro ognuno di noi, e solo lì può essere riscoperto e vivificato, smascherando velo dopo velo le sottili illusioni con le quali tendiamo ad identificarlo. Nelle parole di Krishnamurti – forse il più grande precursore del nuovo eone – possiamo immergerci nel torrente di un’instancabile ricerca vitale che non lascia spazio a facili fraintendimenti.
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L’amore è l’inconoscibile. Lo si può incontrare solo quando il conosciuto viene capito e trasceso. C’è amore solo quando la mente è libera dal conosciuto. Per questo dobbiamo accostarci all’amore mediante la negazione, non mediante l’affermazione. Che cos’è l’amore per la maggior di noi? Nel nostro amore c’è possessività, un senso di dominazione o di sottomissione. Dal bisogno di possedere nascono la gelosia, il timore di perdere quello che amiamo e così promulghiamo delle leggi per difendere questo nostro senso di proprietà. È il bisogno di possedere che scatena la gelosia e gli infiniti conflitti che tutti noi conosciamo bene. Ma questo non è amore. L’amore non è sentimentalismo. Sentimentalismo ed emotività impediscono l’amore.60
Il geroglifico con il quale viene espressa la forza dell’amore raffigura l’aratro. Quando si vuole bonificare un campo, è necessario scavare al suo interno un canale in modo che l’acqua possa confluire via per rendere visibile ed utilizzabile il terreno; allo stesso modo occorre bonificare la nostra mente da tutte le false certezze sull’amore per poterla vedere affiorare e farla così emergere nella propria vita. L’aratro è inoltre lo strumento impiegato nell’agricoltura per smuovere il terreno e renderlo pronto per la semina, e per tale motivo simboleggia il lavoro di preparazione interiore atto ad accogliere il seme divino. Ma un intento del genere implica una scelta di vita compiuta nella più completa lealtà e dedizione, senza le quali ogni sforzo sarà vano, dato che ogni desiderio passato presto o tardi riemergerà esigendo di essere soddisfatto. Nessuno che pone la mano sull’aratro e guarda le cose che sono dietro adatto al regno di Dio.61
Il simbolo dell’Amore è una fonte inesauribile di significati che ognuno di noi può riscoprire quotidianamente, ammesso che si abbia il coraggio di accettare le verità che mano a mano potrebbero rivelarsi.
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Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997. Vangelo (Lc 9,61).
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Per esempio, un ulteriore aspetto viene meravigliosamente evidenziato dalle lettere che compongono la parola amore in ebraico, generalmente letta come ahavà, scritto
che, data l’inesistenza delle vocali, è anche divisibile in due termini, eh-hav, con il significato di IO DARÒ. Come potrebbe infatti coesistere il vero Amore senza la volontà di porsi al servizio del prossimo incondizionatamente? Può oltretutto essere interessante osservare come la stessa parola egizia mer significhi anche PIRAMIDE, in questo caso espressa con un altro segno geroglifico
traducibile anche come CANALE. Il nome della maestosa opera architettonica che ha reso celebre l’antico Egitto richiama dunque la forza dell’amore, anzi ne diviene a tutti gli effetti il canale terreno attraverso cui tale energia celeste può essere convogliata e – forse – trasmessa a colui che in essa risiede. Il fatto che ancora oggi le piramidi vengano considerate monumenti tombali, non trova certamente riscontro nella sapienza faraonica. Infatti il termine utilizzato per definire un luogo di sepoltura, ossia la TOMBA, è per-det in egizio e in geroglifico
letteralmente DIMORA DELL’ETERNITÀ. Le piramidi erano anche il simbolo monumentale della collina primordiale che, secondo la mitologia, sorse dall’oceano primordiale all’alba della Creazione. Ogni anno, quando le acque del Nilo inondavano la valle e le terre, solo le piramidi emergevano imponenti e le loro pareti di calcare bianco, su cui era incisa la storia
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del mondo e dell’essere umano, riflettevano la luce solare e diffondevano un chiarore abbagliante. Un’altra palese distorsione storica ad esse correlata è il fatto di ritenere che la loro costruzione sia stata effettuata ad opera di schiavi. Diverse testimonianze dimostrano al contrario come gli operai di quei tempi fossero tutti mastri artigiani estremamente preparati nell’arte dell’architettura sacra, la quale non sarebbe quindi potuta essere delegata nelle mani di persone impreparate, sfruttate o maltrattate. I complessi piramidali avevano una precisa funzione rituale di iniziazione rivolta ai vivi, e il loro scopo era quello di condurre l’individuo a contatto diretto con i neter o, meglio, con il Neter Neteru. Ecco il motivo per cui tali costruzioni sono generalmente accompagnate da piccoli templi di purificazione attraverso i quali era necessario passare prima di procedere oltre. Anche la presenza nella loro sala centrale di un SARCOFAGO, in egizio neb-ankh e in geroglifico
traducibile come PADRONE DELLA VITA, evoca una funzione rivolta alle persone in vita, un luogo rigeneratore in cui l’iniziato era chiamato a compiere un processo di morte e resurrezione interiore.
L’arte di ascoltare Giungendo gradatamente verso la fine di questo saggio, è quasi certo che i dubbi esistenziali non abbiano ancora trovato pace. È anzi auspicabile! La sapienza egizia altro non offre che uno tra i tanti linguaggi possibili per avvicinare l’essere umano a se stesso, per spronarlo a rivolgere l’attenzione all’interno di sé. A cosa potrebbe mai servire la saggezza di tradizioni millenarie ed il lavoro compiuto da centinaia di sapienti prima di noi, se non ad offrire lo stimolo per divenire capaci di osservarci silenziosamente nel mezzo della nostra
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quotidianità, per comprendere finalmente qualcosa in più di noi stessi? A quale illusorio stato di consapevolezza potrebbero mai portare anni e anni di studio esoterico se giunti di fronte ad un nostro simile non fossimo in grado di ascoltarlo con semplicità per instaurare una sincera relazione con lui? Ogni disciplina, ogni sistema oracolare o divinatorio, sono stati originariamente offerti all’essere umano con il preciso obiettivo di condurlo oltre i limiti che lo imprigionano, anche se spesso tali insegnamenti vengono utilizzati come nascondiglio per le proprie insicurezze o come stratagemmi spirituali per realizzare i propri fini egoistici. La riprova della validità di ogni percorso intrapreso non potrà che riflettersi nella capacità di vivere pienamente e profondamente la vita in mezzo agli altri, attraverso le difficoltà quotidiane che costantemente mettono in gioco il proprio modo di relazionarsi con chi ci circonda. Chiunque di noi potrebbe col tempo raggiungere la facoltà di materializzare oggetti o polveri, di leggere nel pensiero, di parlare con entità sottili e conoscere a memoria tutti i testi sacri del mondo; ma se il proprio atteggiamento verso la vita e il prossimo rimarrà invariato – mosso da aspettative ed ambizioni – tutto sarà stato vano. Ecco perché l’Insegnamento Universale pone l’importanza delle discipline che lo veicolano come secondaria in relazione alla necessità di prendere coscienza di sé nel quotidiano. Generalmente il nostro flusso di pensieri occupa tutto, ma proprio tutto, e non v’è spazio per nulla. Poco importa se il tema portante di questo ininterrotto caos mentale sia di natura materiale o spirituale. Fino a quando non saremo in grado di volgere la nostra attenzione al mondo e a noi stessi da una prospettiva più ampia, più profonda, allora continueremo ad essere niente o, meglio, illusi di essere tutto. Senza rendercene conto, le paure insinuate nei recessi del nostro animo continueranno a governarci la vita, come binari prestabiliti e rigidi nel bel mezzo di una splendida e vastissima prateria che non aspetta altro che essere esplorata e vissuta in tutti i suoi angoli. Gli antichi saggi erano a conoscenza di questa condizione umana, e ben sapevano come il fondamento su cui poggia e si mantiene in vita l’ignoranza sia la PAURA, in egizio sened e in geroglifico
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raffigura un volatile – un’oca pronta per la cottura – il cui cadavere è spogliato di tutti gli elementi in movimento, a simboleggiare come la paura blocchi completamente il corso della vita. Tale significato diviene ancora più evidente se consideriamo che l’immagine dell’oca viva era utilizzata per veicolare il concetto di essere ben equipaggiati, forniti di tutto il necessario; dunque un’oca morta e spiumata è l’INANIMAZIONE per eccellenza, l’annichilimento degli impulsi vitali, l’immobilità esperienziale che si contrappone alla crescita, al mutamento, alla trasformazione alchemica. E sono proprio le paure infatti a tenerci ancorati alle nostre certezze, confinati in una piccola sfera vitale colma di ansie e preoccupazioni che non lasciano quasi mai spazio ad una reale comprensione di se stessi e degli altri. Sì, perché anche dietro le eccessive apprensioni per familiari e amici si annidano spesso personalissime idee ed aspettative, pur mascherate da una coltre di pensieri altruistici. Privi della consapevolezza di questo mal celato caos interiore, come potremmo mai illuderci di conoscere realmente le persone con cui ci relazioniamo quotidianamente? Come potremo mai seriamente pensare di raggiungere un contatto con Dio? La religione non è una fuga dai fatti; la religione è la comprensione di quello che siete nelle vostre relazioni quotidiane. Religione è il modo in cui parlate, è quello che dite, è il modo in cui trattate un servitore, è il modo in cui vi rivolgete a vostra moglie, ai vostri figli, ai vostri vicini. […] Una mente che sfugge dalla realtà, che non si rende conto delle sue relazioni, non troverà mai Dio.62
La capacità di ascoltare diviene allora l’unico vero requisito per ritrovare un reale contatto con la vita in tutte le sue forme. Ma non si tratta qui di un ascolto sterile ed abitudinario, dove ancora una volta il velo invisibile di un flusso ininterrotto di pensieri ricopre gli occhi 62
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.
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e il cuore e stordisce inconsapevolmente la mente, bensì di un ascolto attivo, silenziosamente presente e sinceramente aperto verso la comprensione e la condivisione della sfera vitale altrui. Un solo attimo di lucidità potrebbe infatti sconcertare l’assodata convinzione di essere in grado di instaurare veritieri rapporti sociali e familiari. Le parole altrui non vengono generalmente mai accolte per quello che tentano di veicolare, ma vengono istantaneamente soppesate e valutate in base a personalissimi parametri. Così come nella Torah il concetto di ricordare è considerato una chiave di volta, negli Insegnamenti di Ptah-Hotep assume un medesimo valore il concetto di ascoltare: È utile ascoltare per il figlio spirituale che apprende. Se l’atto di ascoltare incessantemente penetra in colui che apprende, colui che ascolta diviene colui che comprende. […] Ascoltare è meglio di ogni cosa, così nasce l’amore perfetto. […] Quanto all’ignorante che non ascolta, non porterà a compimento nulla.63
L’ascolto non si limita dunque al prestare attenzione alle parole altrui in modo aperto e scevro da pregiudizi, ma ancor prima significa rivolgere tutta la propria sete di verità all’osservazione meticolosa di se stessi, delle proprie azioni e dei relativi moti del cuore e della mente. Solo ponendo chiarezza ed ordine dentro il proprio microcosmo sarà possibile vedere con più nitidezza in quello altrui, ed aiutarlo nel suo processo di sviluppo.
Tutti sotto un unico cielo Il richiamo dell’Insegnamento Universale è più forte che mai, nonostante si odano in modo ancora troppo confuso le voci che da sempre ne hanno lodato lo splendore. Il filo d’oro che velatamente ha accompagnato l’essere umano nel corso dei millenni, reclama ora il suo riconoscimento a pieno titolo in qualità di unico vero sospiro di amore intorno al quale si sono strutturate tutte le più disparate religioni nel mondo. 63
Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (XXXIX, 534).
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La nostra epoca ha assistito negli ultimi decenni ad un rapidissimo ed inimmaginabile interscambio di culture, filosofie e religioni, tale da potersi attualmente definire a tutti gli effetti come un villaggio globale. La tecnologia nei trasporti ha favorito la possibilità di muoversi con grande facilità all’interno del pianeta, così come gli sviluppi in ambito informatico hanno permesso di comunicare istantaneamente – privatamente o pubblicamente – da qualsiasi parte ci si può trovare nel mondo. Ma questo tipo di progresso non deve essere frainteso con un’evoluzione di consapevolezza. Possiamo infatti constatare quanto siano ancora ben presenti e radicati tutti i limiti e le debolezze che contraddistinguono l’essere umano. Di guerre ed ingiustizie è pieno il mondo, e a nulla sembra esser valso ogni sforzo e sviluppo tecnologico in tal senso. Osservando le condizioni di vita attuali dell’essere umano in generale, possiamo riconoscere forse un miglioramento sul piano della comodità ma non certamente sul piano della serenità. I malumori esistenziali continuano ad essere ben presenti dentro ciascuno di noi, e in alcun modo potrà aiutarci ogni sorta di benessere o ricchezza esteriore. È proprio la negazione di questa realtà che continua a mantenere in vita le moltitudini di conflitti in cui ci ritroviamo, sia a livello macrocosmico che microcosmico. La lotta che dobbiamo sostenere non deve metterci l’uno contro l’altro, separarci in partiti e in gruppi, dividerci secondo simpatie e antipatie, giudizi e pregiudizi, nella critica e nell’offesa. […]. Solo quando si è totalmente occupati ad affondare la spada nella propria anima non si trova il tempo, né si ha voglia, di combattere e di ferire gli altri. Perché, se sarete occupati in tal modo con voi stessi, potrete vedere il vostro smarrimento, i vostri bisogni e le vostre debolezze, e nascerà in voi una grande compassione per quegli altri che devono ancora imparare a maneggiare la spada. Solo allora, purificati dalla vostra esperienza personale, sarete capaci di portare aiuto con il dolce sussurro della compassione.64
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Jan van Rijckenborgh, La Gnosi nella sua manifestazione attuale, Edizioni Lectorium Rosicrucianum, Milano, 1991.
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Non vi è nulla di aleatorio, di teorico, di psicologico o filosofico nel decidere di trasferire la propria attenzione dal mondo esteriore all’universo interiore, senza far sì che una tale scelta possa divenire una fuga dai propri doveri quotidiani, ma al contrario un modo per comprenderli, per viverli profondamente e pienamente, in altre parole, consapevolmente. Una rivoluzione del genere implica una viscerale maturazione, dove non vi sarà più spazio per infantili sensi di colpa od alibi spirituali con cui giustificare le proprie negligenze verso i doveri del mondo in cui si vive. Al contrario ogni aspetto esistenziale sarà curato nei minimi dettagli, e tutto quell’immenso spazio prima occupato da ansie, preoccupazioni ed aspettative, sarà colmato da un sincero interesse verso la vita e i propri simili. Il grosso problema è che non esiste cammino esente dal pericolo di essere adattato e comodamente interpretato in base ai propri specifici limiti e restrizioni mentali. Colui che non ha mai visto il mare ma sogna di raggiungerlo, potrà facilmente lasciarsi abbattere dalle avversità ed accontentarsi di contemplarne ogni tanto un dipinto. Ma un disegno – per quanto ricco di particolari – non potrà mai contenere al suo interno l’immensità dell’oceano. Così è il cercatore di fronte alle diverse dottrine nate con l’obiettivo di condurlo oltre il suo involucro egoico, fino a farlo attingere ad una sorgente indecifrabile per il pensiero ordinario. Eppure è proprio la mente dialettica a rimanere spesso affascinata e quindi vincolata dalla teoria piuttosto che dalla pratica, ricadendo nuovamente all’interno di un’altra gabbia, per quanto apparentemente più comoda ed affascinante. Non dobbiamo mai dimenticare che il dito che indica la luna non è la luna. Due demoni si recarono nel mondo degli uomini, per una ricognizione. All’improvviso, si imbatterono in un giovane intento alla meditazione, e gli lessero nel pensiero. “È finita!”, disse uno dei due. “Dovevamo stare più attenti. Ora questo ragazzo ha colto una parte della Verità!” “Non importa”, rispose l’altro, “costui fonderà una scuola o un’istituzione, e ci penseranno i suoi discepoli a invalidarne
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la scoperta”. Dopo una breve pausa, aggiunse: “Come vedi, non c’è da preoccuparsi!”65
Non esiste al mondo una tradizione iniziatica migliore di un'altra, tutt’al più possono esistere linguaggi o rappresentazioni simboliche più vicine ad un tipo di mentalità piuttosto che un’altra, ma niente potrà mai offrire la garanzia liberati o rimborsati! Semplicemente perché noi siamo la garanzia, la nostra disposizione a voler sfondare le barriere concettuali e tutti quei differenti corpus filosofici cui ci affezioniamo e con cui molto volentieri sostituiamo altri corpus filosofici precedenti, senza accorgerci che tutto ciò che va al di fuori dell’esperienza di tutti i giorni è perlopiù un gioco, un passatempo intellettuale o, peggio, misticismo fine a se stesso. All’essere umano viene ora richiesto uno sforzo di comprensione ulteriore, un abbattimento di tutti quei muri interiori che continuano ancora a classificare e mettere in competizione gli insegnamenti tra loro. La necessità di unificare deve sostituire la comodità di separare. Ma un passo del genere implica spogliarsi dalle proprie sicurezze psicologiche o spirituali che siano, faccia a faccia con quello che siamo e non più con quello che pensiamo e di cui parliamo. Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo difficile per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?” Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi passera per noi di là dal mare e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?” Invece, questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.66
Nei tempi antichi – e possiamo tranquillamente riferirci anche solo a poche decine di anni fa – quando ogni civiltà e società era circoscritta in determinati luoghi ed ignara o quasi dell’esistenza delle altre, poteva forse essere più plausibile riferirsi ad insegnamenti specifici e più adeguati per questo o quel tipo di 65 66
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003. Bibbia, Deuteronomio 30, 11-14.
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tradizione, giacché la diversità dello stile di vita era decisamente marcata, sia per qualità di pensiero che per struttura fisico-organica degli individui. Oggi una visione di questo tipo sta divenendo contraddittoria se paragonata alla realtà che ci ritroviamo a vivere. Gli interscambi di usi e costumi culturali e religiosi stanno ormai permeando l’intero globo, e solo alcune sperdute tribù africane, aborigene o amazzoniche possono forse considerarsi ancora al di fuori di questa compenetrazione. Possiamo infatti constatare come differenti correnti esoteriche di matrice cristiana, induista, sufi, buddista, taoista ed altre ancora, siano presenti come focolai sparsi in tutti i paesi del mondo. Ora più che mai vibra nell’aria la necessità di riportare allo scoperto quel messaggio universale che pulsa come un cuore nel corpo di ogni insegnamento: la verità di se stessi, di come si è, dei propri limiti e delle proprie potenzialità, di quanto sia in realtà spenta la nostra vita ma di come esista la possibilità di rivoluzionarla, di trasformarla in qualcosa di creativo, di effettivamente spirituale. Nel fare questo ognuno potrà scegliere il simbolismo che meglio lo aggrada per “arredare” il proprio spazio interiore, che meglio gli si confà, con cui sente maggior sintonia e grazie al quale riuscirà ad attingere con maggior intensità a quella forza in grado di spronarlo oltre il muro delle proprie radicate certezze e cristallizzate abitudini. Non esiste una strada più spirituale di un’altra! Potrà solo esistere una maggior onestà e sincerità nel modo di perseguirne gli insegnamenti, ma ciò non potrà mai sostituirsi all’impegno personale, alla propria umile predisposizione ad accogliere i messaggi che si celano dietro ogni angolo nella vita. Cosicché possono esistere perfetti cristiani, ebrei, induisti, musulmani o buddisti senza nulla conoscere delle suddette tradizioni; o perfetti studiosi e conoscitori di tali dottrine senza per questo viverle minimamente. Disse a lui Giovanni: “Maestro, abbiamo visto uno cacciare i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ci seguiva.” Allora Gesù disse: “Non vietateglielo, non c’è infatti nessuno che farà un miracolo nel mio nome e potrà subito parlar male di me. Chi infatti non è contro di noi, è per 211
noi. Chiunque infatti vi dia da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà affatto il suo salario.67
Il sole risplende da sempre e per sempre su tutti, in qualsiasi luogo ed indipendentemente dalle condizioni sociali, conoscenze intellettuali o capacità fisiche. Questo è un altro fondamentale messaggio della sapienza egizia, veicolato meravigliosamente dal simbolismo espresso durante il regno di Akhenaton, dove i raggi della Luce – della Gnosi – sono costantemente tesi e rivolti verso tutti i suoi figli, pur rivelandosi solo a coloro disposti ad offrire con gioia i propri servigi ad essa (figura 51).
Figura 51 – Il dono di Akhenaton. 67
Vangelo (Mr 9,1).
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Non si tratta qui di offerte intese come sacrifici dolorosi od immani sforzi contro natura, ma semplicemente di un donare se stessi esattamente per quello che si è, secondo il principio fai ciò che sei, oltre le maschere, le illusioni, le avidità, insomma, oltre tutto ciò che opprime e soffoca la libertà di lasciare spazio a quell’espressione horusiana che giace in noi. Per questo motivo i raggi divini “ricambiano” simbolicamente i suoi figli con l’ankh (figura 52), la chiave per divenire padroni del proprio destino ed accedere a quel regno interiore eterno, immortale.
Figura 52 – L’offerta della vita.
A coloro, e sono rari, che amano la verità e cercano la Via – lo yoga universale – il tempio dice: “Cerca in te stesso”. Sono rari, infatti, coloro che vanno verso il tempio non per sapere, ma per conoscere. Ancor più rari sono coloro che ci entrano “con cognizione di causa”, e questi possono anche uscirne: che cosa importa loro del tempio, quel tempio? L’unico e vero tempio per loro è la natura, il mondo.68 68
R.A. Schwaller de Lubicz, Insegnamenti e scritti inediti, Mediterranee, Roma, 2008.
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La ricerca di Ak-Yb-Ka V. L’ADDIO
“Ak-Yb-Ka, figlio mio, quattro anni sono trascorsi dal tuo ingresso nel Tempio. Lo so, faticoso è stato il lavoro. Ma a quale gioia può adesso attingere il tuo cuore? Ora non sei più solo, non lo sei mai stato in realtà. Da qui, inizia per te un nuovo cammino per unirti a coloro che vivono nella Luce. Al di là di ogni razza, religione o condizione sociale, essi vivono nell’eternità per testimoniarla, sempre tesi a rinnovare l’Insegnamento Universale. Và, figlio mio, i Seguaci di Horus ti stanno dunque aspettando.” Ak-Yb-Ka capì che il suo maestro lo stava per lasciare, e sapeva anche che a nulla sarebbe valso ogni suo tentativo di convincerlo altrimenti. Ma un’ombra di paura ed insicurezza gli pervadde la mente, e non riuscì a trattenere alcune lacrime di tristezza. “Padre, so che la tua saggezza va oltre la mia comprensione, ma io temo di non essere ancora pronto a lasciare il Tempio e la tua guida. Dove andrò? Cosa farò?” “Hai preparato per tutto questo tempo il tuo corpo, la tua mente e il tuo cuore affinché potessero diventare il terreno ideale su cui far germogliare il seme dello Spirito, ora puoi vederlo e sentirlo con discernimento. Non hai bisogno di null’altro, la vita stessa ti cullerà e ti guiderà. Essa stessa è ora il tuo Tempio, tu stesso sei il Tempio. Lasciati guidare dal divino Ospite che hai accolto in te, Egli non desidera altro che servire la Luce, ma ognuno di noi deve ritrovare la sua personale strada per completare quest’opera. Và, figlio mio, il tuo nuovo nome da oggi in poi sarà Hem-Ba. Formula dunque ora la tua più intima preghiera, non dimenticarla mai più e lotta per renderla viva in ogni istante della tua vita futura. Da oggi tu sarai nel mondo ma anche al di sopra di esso.” Ak-Yb-Ka chiuse un attimo gli occhi per interiorizzare il suo nuovo nome. Ne poteva sentire la vitalità e la potenza scorrere
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attraverso il sangue. Sì, ora era realmente pronto. Si inginocchiò, alzò le mani al cielo e lasciò parlare il suo cuore: “Signore, che si rafforzi la nostra amicizia e si consolidi la nostra alleanza, che io possa camminare fiero nei giardini del mondo forte della tua presenza nell’animo mio. Signore, che io possa udire sempre più chiaramente la tua voce risuonare dentro il mio cuore, e perdona le mie debolezze, esse mi sommergono senza che io me ne accorga. Signore, dammi la forza di capire, non lasciarmi straniero sui confini del mondo, mostrami come la tua mano agisce nel muovere la vita e donami la forza di non abbattermi quando non ne comprendo i disegni, fa che io possa vivere della tua Verità della tua Giustizia. Signore, fa che la mia lingua si guardi dal discorso malvagio, e che le mie labbra non proferiscano inganno, lontano dalle maldicenze del mondo; che io sia sempre umile con tutti. Signore, aiutami a divenire un riflesso della tua luce in terra, che gli uomini e le donne possano trovare conforto dalle mie parole, che le mie carezze siano veicoli del tuo calore, che il mio focolare sia rifugio per tutti i tuoi figli. Signore, fa che io trovi la forza di comunicare ciò che tu a volte mi permetti di vedere, divengono infatti sterili i tuoi doni se rimangono chiusi nel mio intimo. Signore, apri il mio cuore all’intelligenza della tua Opera, che io esegua la tua Volontà sotto la tua protezione, e ogni qual volta ci sarà da combattere mi considererò già armato, 216
poiché non esiste arma più potente dell’Amore. Così io so pregarti, così io so amarti.” Si alzò, aprì gli occhi, e vide che di fronte a lui non vi era più solo il suo maestro, ma il faraone, i saggi della Scuola e i suoi compagni. Tutti lo guardavano colmi di gioia. Hem-Ba li abbracciò uno per uno teneramente, sussurrò infine una parola a colui che lo aveva accompagnato fino a quel giorno, poi si girò, e si abbandonò nell’ignoto della vita, cullato dalle onde del tempo.
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Conclusione
Giungendo alla fine di questo libro si potrà avere come la sensazione di aver perso tempo con una serie di teorie strampalate e prive di fondamento, oppure si potrà essere entusiasti nell’idea di aver ritrovato finalmente delle conferme a quanto già si supponeva. Entrambe le opzioni non hanno alcun valore, oppure entrambe potrebbero averlo qualora siano servite per riflettere o mettere in discussione alcuni aspetti della propria vita generalmente dati per scontati. Il mio personale augurio è che la piccola scintilla che ciascuno di noi porta in serbo possa accendere una fiamma, e che tale fiamma sia lasciata ardere sempre di più fino a bruciare ogni ostacolo che si interpone tra noi e quella sacra vitalità che alcuni chiamano Dio, altri Gnosi, altri ancora Amore o – più semplicemente – Vita. Questo scritto non è che un omaggio ad una delle tante splendide voci con cui la Tradizione Universale ha cantato le sue glorie per risvegliare i suoi figli. Laddove essa sia in grado di risuonare dentro il lettore come un dolce richiamo verso una realtà ancora ignota ma di cui si avverte una profonda nostalgia, il mio invito è quello di lasciarsi pervadere per cavalcarne la corrente fino alla Sorgente. Nel caso contrario poco importa, vi saranno altre musiche, altre danze pronte ad accompagnare nel Cammino, a patto che il desiderio e la volontà di perseguirlo sia sincera. Una volta, un mercante domandò a un derviscio: “Qual è il tipo d’uomo che, nella vita, compie lo sforzo più vano?” Il derviscio disse: “Tu non lo conosci?” “Mi pare di sì. Non è forse il ricco, che non riesce a godere dei propri tesori?” “Niente affatto”, replicò il derviscio, “è colui che apprende tutte le dottrine spirituali, senza praticarne alcuna!”69
Credo sia ora doveroso lasciare l’ultima parola ad un uomo del nostro secolo che ha dedicato tutta la sua vita in virtù di una rinascita 69
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.
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spirituale dell’antica tradizione egizia, René Schwaller de Lubicz. Le toccanti parole che seguiranno furono da lui rivolte a sua moglie Isha poco prima di morire, e rappresentano allo stesso tempo un omaggio in suo onore ed un monito per tutti i sinceri cercatori: Ora vedo il suo gioco: egli è stato mio nemico per tutta la mia vita... non lo credevo così feroce! Sapevo che egli era l’ostacolo, ma non avevo riconosciuto tutti i suoi inganni, tutte le forme che egli ha potuto prendere per deviarmi dal cammino... È terrificante, Isha! Vorrei che tu potessi vederlo, anche tu, per poter insegnare agli altri a liberarsi delle proprie paure… Perché è lui, vedi, è lui, il Mentale, che crea la paura… e tutti i nostri dubbi, i nostri spaventi… […] Guarda, Isha: tu vedi come me, ora, il Reale… Vedi che è impossibile da descrivere… impossibile da spiegare!... Ma io te lo faccio vivere perché tu possa affermarlo, ed anche portarvi coloro che oseranno accettare di lasciare tutto per porsi in comunione in questo Reale…70
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R.A. Schwaller de Lubicz, cit. in Massimo Marra, R.A. Schwaller de Lubicz. La politica, l’esoterismo, l’egittologia, Mimesis, 2008.
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L’autore può essere contattato al seguente indirizzo mail:
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