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NOVEMBRE 2018 P.I. 12-10-18
28 OTTOBRE OTTO BRE 1922 A N / S , 1 A M M O C , 1 . T R A , ) 6 4 ° N , 4 0 0 2 . 2 0 . 7 2 . L N I . V N O C ( 3 0 0 2 / 3 5 3 . L . D . T S O P . B B A N I . D E P S A P S E N A I L A T I E T S O P . C . O . R A F F I R A T
MARCIA MARC IA SU ROMA COLPO DI ST STA ATO O BLUFF? VITTORIO EMANUELE E MANUELE III, E CON LUI TUTTO L’ESTABL ’ESTABLISHMENT ISHMENT,, FECE FINTA FINTA DI SPA SPAVENTARSI VENTARSI PER LA MINACCIA DI UN COLPO DI STATO: STATO: TUTTI SPERAVANO CHE MUSSOLINI RISOLVESSE RISOLVESSE UNA CRISI POLITICA SENZA SBOCCHI, COSA CHE AVVENNE NEL MODO PIÙ ORDINATO E CONDIVISO
1903
LO SBARCO TEDESCO IN INGHILTERRA
LA GUERRA CIVILE CIV ILE SPAGNOLA
Il Conclave che decise le sorti del XX Secolo
Era tutto pronto, ma qualcosa andò storto
Una trappola per la diplomazia del Fascismo
V E R O G I O R N A L E C R E A E S T A M P A I L T U O VE i n v e r s i o n e d i g i t a l e o s u v e r a c a r t a g i o r n a l e personalizzalo per:
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RO IL N U ME
DI
E E SC E DICEMBR
IL QUESTA CARTA RISPETTA L’AMBIENTE
NOVEMBRE 2018
Sommario
SERVIZI 8 Cover story
RUBRICHE
La marcia su Roma che non ci fu Evento traumatico o soluzione politica? La verità della Marcia su Roma è ben diversa da quanto riportato dalla Propaganda di regime. Più che una rivoluzione fu una manovra per risolvere la crisi di governo affidandola a un uomo forte e risoluto.
57 La guerra civile spagnola: una trappola per l’Italia fascista Quanto costò l’appoggio a Franco da parte del governo di Mussolini? Truppe Truppe di volontari italiani partirono per la Spagna, in quella che sembrava essere la prova generale della Guerra mondiale incombente. Vinsero, eppure proprio da lì iniziò il declino del fascismo.
16 La vera (e curiosa) storia
66 Il Leonardo da Vinci
della Regina d’Africa Che cosa si nasconde dietro il celebre film con Katharine Hepburn e Humphrey Bogart? Un piano ardito, un comandante con un pessimo carattere e due piccole navi di Sua Maestà (HMS) trasportate per mare, terra, fiume e ferrovia
23 La leggenda del re vendicatore Secondo il mito, re Sebastiano I del Portogallo non è morto ad Alcazarquivir, Alcazarquivir, ma tornerà per riportare il Paese alla sua perduta gloria. La storia di un sovrano eccentrico e sognatore capace di risollevare le sorti della Nazione. 35 Pitigrilli. Lo scandalo dell’intelligenza Una personalità sopra le righe, tanto criticato quanto osannato, Pitigrilli è uno degli intellettuali che animò gli anni del regime. Tra Tra scandali e battute di spirito, anche una pesante ombra: aver militato nell’Ovra. 40 Il leone che non ruggì Il sogno di Hitler di invadere la Gran Bretagna era a un passo dalla realizzazione: l’operazione “Leone Marino” avrebbe avrebbe mobilitato ingenti mezzi di terra, mare e aria. Cosa accadde per far cambiare idea al führer?
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Accadde a...
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Pietre miliari
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• News • Archeologia • Storia • L’oggetto ’ogge tto • Storia delle armi • Vie della Storia • Non è vero che • Perché si dice così • Origine delle parole • Il francobollo • Santi e festività • Misteri della Storia
d’Inghilterra (un genio da riscoprire) Chi era Robert Hooke, brillante scienziato, studioso e inventore ma dal carattere oscuro, oscuro, condannato a un immeritato oblio a causa del suo scontro con uno dei giganti del tempo, Isaac Newton?
74 Dove nacque la parità dei sessi Durante la Grande Guerra, mentre gli uomini erano al fronte, spettarono alle donne ruoli prima esclusivamente maschili, nell’agricoltura, nell’industria e negli affari. Il primo passo verso quella parità dei diritti che sarà una battaglia civile del Novecento. 80 L’usura. Seme (maledetto) di ricchezza Bibbia, Corano e Veda la condannano, così come società e leggi di tutte le epoche. Eppure, l’usura prospera indisturbata nel corso dei secoli. Storia di una pratica osteggiata ma praticata dagli albori della civiltà fino ai giorni nostri.
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La Storia in un’immagine
• Macchine da guerra 88
Mete da non perdere
• Siracusa, Sicilia
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Domande & Risposte
• Curiosità e interrogativi storici 92
Appuntamenti e scaffale
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48 Cronaca di un conclave Come gli interessi delle potenze europee manipolarono l’elezione del Pontefice: storia del conclave indetto dopo la morte di papa Leone XIII in cui il cardinale vicino all’impero austriaco impose, per l’ultima l’ultima volta nella Storia, il diritto di veto.
Omnibus
94
Giochi
• Passatempi
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NOVEMBRE 2
novembre 1993
Entra in vigore il Trattato di Maastricht, l'accordo siglato il 7 febbraio dell'anno precedente, che fissa le regole economiche, politiche e sociali per l'ingresso degli Stati nell'Unione Europea.
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novembre 1929
Su iniziativa di Abby Aldrich Rockfeller , apre a New York il Museum of Modern Art (MoMa) destinato ad essere un punto di riferimento emblematico nel panorama museale mondiale per l'arte moderna e contemporanea.
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2008
Sul circuito brasiliano di Interlagos (San Paolo) si chiude la stagione di Formula 1: vince il ferrarista Felipe Massa, ma il mondiale va al giovane pilota inglese Lewis Hamilton, grazie al sorpasso all'ultima curva.
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novembre 1934
Luigi Pirandello è insignito del Premio Nobel per la letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale».
3
novembre 1534
Enrico VIII d'Inghilterra promulga l'Act of Supremacy (Atto di Supremazia), che gli conferisce il titolo di capo supremo della Chiesa Anglicana . Il varo della legge gli procura la scomunica papale.
novembre 1918
In Germania viene proclamata la Repubblica di Weimar. Il Kaiser Guglielmo II abdica e sceglie di vivere in esilio nei Paesi Bassi.
14
novembre
novembre 1922
2002
Muore a Montevideo , all'età di 77 anni, Juan Alberto Schiaffino , considerato uno dei più grandi calciatori della storia. Con la maglia dell'Uruguay fu campione del mondo nel 1950.
19
novembre
Dalla Marconi House di Londra va in onda la prima trasmissione radio della BBC (British Broadcasting Corporation), società concessionaria del servizio pubblico radiofonico britannico.
15
novembre 1914
Benito Mussolini fonda a Milano un nuovo quotidiano interventista, “Il Popolo d’Italia”. Dal 1922 diventerà l'organo del Partito Nazionale Fascista.
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Durante gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine muore a Milano l'agente di Polizia Antonio Annarumma , considerato la prima vittima degli “anni di piombo”.
Si apre a Norimberga davanti al Tribunale militare internazionale il processo a 24 dei più importanti capi nazisti. Il 1º ottobre del 1946 la sentenza decreta l'impiccagione per dieci degli imputati.
A New York viene inaugurato il ponte di Verrazzano , dedicato all'esploratore fiorentino Giovanni da Verrazzano , primo europeo a raggiungere nel 1524 la zona dove poi sorse la città.
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25
novembre 1969
novembre 1859
Viene pubblicata “L'origine delle specie” del naturalista inglese Charles Darwin, opera cardine della storia scientifica, dove l'autore enuncia la sua teoria dell'evoluzione.
[2] BBC
HISTORY ITALIA
novembre 1945
novembre 2016
Muore a l'Avana all'età di 90 anni Fidel Castro, padre della rivoluzione cubana. Salì al potere nel 1959 rovesciando il dittatore Fulgencio Batista.
26
novembre 1922
Gli archeologi inglesi Howard Carter e lord George Carnarvon entrano per la prima volta nella tomba di Tutankhamon, l'unica intatta della sessantina presenti nella Valle dei Re.
novembre 1964
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novembre 1942
Nasce a Seattle (Stati Uniti) James Marshall "Jimi" Hendrix, considerato il più grande chitarrista di tutti i tempi, uno dei maggiori innovatori nell'ambito della chitarra elettrica.
Giorno per giorno gli eventi da non dimenticare
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novembre 2008
10
1902
Nasce a Milano l'Università commerciale commerciale Luigi Bocconi, ateneo privato fondato da Ferdinando Bocconi e dedicato alla memoria del figlio scomparso nella battaglia di Adua.
333 a.C.
Nella battaglia di Isso (oggi Turchia) Alessandro Magno sbaraglia i persiani di Dario III, aprendo la strada per la conquista della Fenicia.
Il candidato democratico Barack Obama con oltre 69 milioni di voti vince le elezioni presidenziali e diventa il primo afroamericano a insediarsi alla Casa Bianca.
novembre
6
novembre
11
L’italoamericano Bill De Blasio è eletto sindaco della città di New York. Il candidato democratico raccoglie oltre il 73% delle preferenze.
novembre
1918
1989
Il segretario Achille Occhetto dà il via alla cosiddetta “svolta della Bolognina”, l'inizio del processo che porterà allo scioglimento del Partito Comunista Italiano.
Alle ore 11 entra in vigore l'armistizio che pone fine alla Prima Guerra Mondiale , sottoscritto da tedeschi e Alleati in un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne, in Francia.
16
novembre 1532
L'attacco a sorpresa degli uomini di Francesco Pizarro nella grande piazza di Cajamarca (Perù) costa la vita a migliaia di Inca e porta alla cattura dell'imperatore Atahualpa.
17
novembre 1869
Dopo 15 anni di lavori, viene inaugurato il Canale di Suez, l'opera che permette la navigazione diretta dal Mediterraneo all'Oceano Indiano senza la necessità di circumnavigare l'Africa.
1286
Eric V, re di Danimarca, muore assassinato a Viborg.
28
1443
Il principe albanese Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, strappa ai turchi il castello di Croia e promuove la lotta per l'indipendenza albanese .
18
novembre 1626
Papa Urbano VIII consacra la Basilica di San Pietro: i lavori di costruzione cominciarono nell'aprile del 1506.
23
novembre
novembre
2013
12
novembre
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novembre
novembre 1980
Alle 19.34 una scossa lunga 90'', di magnitudo 6.8, colpisce la Campania e la Basilicata. Il terremoto dell'Irpinia causa 2914 morti, 8848 feriti e circa 280 mila sfollati.
29
novembre 1223
Papa Onorio III approva la Regola di San Francesco, nella sua terza versione poi definita “bollata”.
30
novembre 1786
Il Granducato di Toscana è il primo Stato del mondo occidentale ad abolire la pena di morte con l'emanazione del nuovo codice penale toscano firmato dal Granduca Pietro Leopoldo (poi Leopoldo II).
BBC HISTORY ITALIA [3]
PIETRE MILIARI I giorni che hanno cambiato la Storia: novembre a cura di Elena Percivaldi
2 NOVEMBRE 1975
L’omicidio di Pier Paolo Pasolini Lo scrittore viene ucciso sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Per il delitto finisce in carcere Pino Pelosi, ragazzo di vita con cui Pasolini si sarebbe appartato in auto per un rapporto mercenario
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S N O M M O C A I D E M I K I W
l cadavere martoriato di uno dei più influenti e controversi intellettuali del Novecento italiano viene ritrovato da una donna all’alba del 2 novembre 1975, il giorno dei Morti, all’Idroscalo di Ostia. Pier Paolo Pasolini, 53 anni, scrittore, poeta, regista, è stato brutalmente massacrato di botte in uno squallido sterrato non lontano dal mare, ora impastato di sangue e sabbia. La stessa notte la polizia ha messo le mani sul colpevole, un “borgataro” di Guidonia, Pino Pelosi, 18enne conosciuto come ladro d’auto e ragazzo di vita. È stato bloccato poco prima del ritrovamento del cadavere mentre sfrecciava a tutta velocità e contromano alla guida dell’auto di Pasolini, un’Alfa Romeo 2000 GT. Secondo la confessione di Pelosi agli inquirenti, Pasolini – il quale non aveva mai fatto mistero della sua omosessualità - l’aveva abbordato la stessa sera nei paraggi della stazione Termini e, dopo una cena alla trattoria Biondo Tevere, l’aveva invitato sulla sua vettura con la promessa di una ricompensa in denaro. Giunti sul litorale i due avrebbero preso a litigare a seguito delle pretese sessuali di Pasolini, che Pelosi non voleva assecondare. La lite proseguì fuori dall’ da ll’Alfa Alfa Romeo: lo scrittore minacciò il ragazzo con un bastone, a sua volta Pelosi si difese con un altro pezzo di legno trovato sul posto. pos to. Pasolini ebbe la peggio, massacra-
[4] BBC
HISTORY ITALIA
to di colpi cadde a terra, gravemente ferito, ma ancora vivo: il giovane si mise alla guida dell’Alfa dello scrittore e passò più volte sul suo corpo fino a sfondargli la gabbia toracica. La verità di Pelosi diventò quella giudiziaria e il ragazzo venne condannato in primo grado, sentenza ribadita dalla Corte d’Appello. Non pochi elementi sembrarono da subito stridere con la ricostruzione della magistratura. Molti collegarono l’omicidio alle denunce pubbliche di Pasolini contro importanti personaggi di governo accusati dall’autore di collusione con le trame stragiste che stavano insanguinando il Paese; altri sostenitori del delitto “politico” indicarono come movente l’ultimo libro di Pasolini, “Petrolio”, “Petrolio”, uscito soltanto so ltanto nel 1992, 1992 , in cui l’autore metteva in scena la lotta di potere nel settore petrolifero.
Soprattutto apparve poco plausibile che Pelosi potesse aver agito da solo e a questo proposito vennero citate alcune testimonianze, che parlavano di altre persone sul luogo del delitto quella maledetta notte. Sarà lo stesso Pelosi, dopo 30 anni di silenzio, a ritrattare la sua versione durante una trasmissione televisiva nel 2005, affermando di non aver partecipato materialmente al delitto, commesso invece da tre persone giunte a Ostia su una Fiat 1300 targata Catania. Di quella stessa autovettura, che avrebbe seguito l’Alfa dello scrittore la sera del delitto, era giunta una segnalazione alla polizia anche durante l’inchiesta, ma nessuno aveva approfondito la pista, nonostante fossero stati forniti i primi tre numeri della targa. La nuova versione di Pelosi, inoltre, richiamava una delle piste battute dagli inquirenti subito dopo l’omicidio. Grazie al lavoro di un maresciallo infiltrato, infatti, la polizia aveva fermato e interrogato due giovanissimi criminali di origine catanese, che con l’agente sotto copertura si erano vantati di aver partecipato all’omicidio dello scrittore. Una volta in commissariato, però, i due negarono l’addebito sostenendo di essersi inventati tutto per darsi una reputazione da “duri”, versione che inspiegabilmente venne accettata per buona e la loro confessione non entrò mai negli atti del processo.
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9 NOVEMBRE 1989
Il crollo del Muro di Berlino L’apertura della frontiera tra Berlino Est ed Ovest prelude alla riunificazione della Germania: l’inizio della fine dei regimi comunisti in Europa.
L
a costruzione del muro iniziò nella notte tra l’11 e il 12 agosto del 1961 e già il giorno 13 Berlino Ovest risultò completamente circondata e isolata da tutto il resto della Germania. Gli oltre 100 km di barriera in cemento armato furono la brutale risposta del governo comunista della Germania Est al continuo esodo di cittadini verso la parte occidentale della città, dalla quale era poi possibile raggiungere t ranquillamenranquillamente la Germania occidentale. Il muro divise Berlino per 28 anni, separando irrimediabilmente intere famiglie, famigli e, costringendo migliaia di berlinesi a spericolate fughe verso l’Ovest, tentativi di oltrepassare la frontiera che costarono la vita ad almeno 133 persone uccise dalla polizia della Ddr. Nel 1989, mentre l’intero blocco comunista vacillava, vacil lava, Erich Honecker, Honecker,
leader del Partito comunista della Germania Est, si dimise e il nuovo governo, sotto la pressione dell’opinione pubblica, decise di liberalizzare i viaggi verso la Germania Ovest. Ignaro della precisa tempistica da adottare, fu il Ministro della Propaganda della Ddr, Günter Schabowski, ad annunciare l’immediata decisione di aprire i posti di blocco, rispondendo durante una conferenza stampa, convocata per le 18 del 9 novembre, alla domanda di un giornalista italiano dell’Ansa. L’annuncio L’annuncio ebbe l’effetto di far scendere in strada migliaia di berlinesi dell’Est che si ammassarono vicino al muro, chiedendo di passare la frontiera. Prive di ordini precisi, le guardie, dopo interminabili telefonate con i loro superiori, furono costrette ad aprire i varchi e una massa festosa e com-
mossa si riversò nelle piazze e nelle strade di Berlino Ovest, accolta dai loro fratelli. Fu una delle manifestazioni spontanee più importanti della storia, ripresa dalle telecamere di tutto il mondo che immortalarono la folla di semplici cittadini, armata di martelli e picconi, che cominciavano a demolire il muro della vergogna. La Germania fu ufficialmente riunificata il 3 ottobre del 1990.
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12 NOVEMBRE 2003
Strage di Nassiriya Un camion cisterna pieno di esplosivo, guidato da 2 kamikaze, esplode di fronte alla base Maestrale e uccide 28 persone, 19 sono italiane
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Nassiryia, in Iraq, sono le 10.40 del 12 novembre (le 8.40 in Italia): carabinieri e militari dell’esercito di stanza alla base Maestrale sono già operativi da qualche ora, quando un camion pieno di esplosivo guidato da 2 kamikaze si fa esplodere davanti all’inal l’ingresso, provocando il crollo di gran parte dell’edificio principale, l’incendio di diversi mezzi militari e la successiva deflagrazione del deposito di munizioni investito dalle fiamme. Il bilancio è devastante: 28 i morti, 9 iracheni e 19 italiani, tra questi 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili, oltre a un regista e un operatore della troupe, che
stavano girando un documentario sull’attività del contingente italiano in Iraq. E il conto delle vittime avrebbe potuto assumere dimensioni ancora più tragiche se il carabiniere di guardia, Andrea Filippa – anche lui tra le vittime – non fosse riuscito ad uccidere i due attentatori impedendo al camion di entrare nella base. La Maestrale era una delle due sedi dell’operazione Antica Babilonia, la missione di pace in Iraq avviata qualche mese prima con 3 mila uomiuo mini, tra cui 400 carabinieri. I funerali di Stato degli italiani morti nell’attentato si tennero a Roma il 18 novembre.
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BBC HISTORY ITALIA [5]
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Pietre miliari: novembre
4 NOVEMBRE 1966
22 NOVEMBRE 643
L’alluvione di Firenze
Viene emanato l’Editto di Rotari
Nella notte tra il 3 e il 4 novembre, l’l’Arno Arno esonda, provocando provoc ando 35 morti e un danno immenso al patrimonio artistico.
È la prima raccolta scritta di leggi del popolo longobardo, prima regolato da un diritto di tipo consuetudinario tramandato oralmente e basato su un ricco patrimonio di tradizioni.
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D
opo giorni di continua pioggia, a partire dal pomeriggio del 3 novembre 1966, la situazione in Toscana diventa critica: il livello dell’Arno continua a salire e alcuni torrenti cominciano a straripare. A mezzanotte, in alcune zone di Firenze, cantine e negozi si allagano, è sommerso anche il parco delle Cascine e all’ippodromo numerosi cavalli perdono la vita. Nella notte, numerose numerose fogne sottoposte ad eccessiva pressione esplodono, la furia dell’acqua raggiunge il centro storico. Alle prime luci dell’alba del 4 novembre, gli argini cominciano a cedere e alle 9 anche piazza Duomo è allagata. La piena eccezionale dell’Arno raggiunge, nel suo momento di picco, una portata di 4000 m³/s ed il volume di acqua che entra in città raggiunge i 230 milioni di m³. La furia del fiume travolge la culla del Rinascimento: migliaia di volumi, tra cui preziosi manoscritti o rare opere a stampa vengono ricoperti di fango nei magazzini della Biblioteca Nazionale Centrale e una delle più importanti opere pittoriche di tutti i tempi, il “Crocifisso” di Cimabue, si considera perduto all’80%. Enormi sono i danni ai depositi degli Uffizi. Un vero e proprio esercito di giovani e meno giovani, di tutte le nazionalità, nazionalità , arrivano spontaneamente in città per salvare le opere d’arte e i libri, strappando al fango e all’oblio la testimonianza di secoli d’arte e di storia. Questa commovente commovente catena di solidarietà internazionale rimarrà una delle immagini più belle di quelle settimane di tragedia. Ribattezzati ben presto “Angeli del fango”, questi ragazzi rappresentarono uno dei primi esempi di mobilitazione giovanile del Novecento. Novecento.
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[6] BBC
HISTORY ITALIA
l 22 novembre 643 a Pavia re Rotari emanò un editto che raccoglieva per iscritto, per la prima volta, il patrimonio giuridico del popolo longobardo, che dominava su gran parte dell’Italia sin dal 568. Prima di allora il diritto longobardo era trasmesso per via orale e constava di norme consuetudinarie basate sul patrimonio di tradizioni (le cawarfidae) tramandate di generazione in generazione. Il principio seguito era quello della “personalità del diritto”: le norme erano cioè applicate in base all’appartenenza etnica e si spostavano con la popolazione nel corso delle migrazioni: ovunque fossero stanziate, la legge era la stessa. La giustizia era amministrata dall’assemblea dei guerrieri (il gairethinx) e gli istituti più diffusi erano la faida (diritto di vendicarsi da parte dell’offeso o della sua famiglia), l’ordalia o giudizio divino, che consisteva in prove fisiche che gli accusati o i contendenti dovevano superasuperare per stabilire la verità, e il guidrigildo o composizione pecuniaria (in denaro o in beni) per riparare a un danno alla persona o ai beni, stabilita in proporzione al rango dell’offeso. del l’offeso. L’Editto di Rotari venne scritto in latino, la lingua classica del diritto, come richiamo evidente alla prestigiosa tradizione romana della cui impostazione in parte risentono; tuttavia le norme erano rivolte ai soli longobardi, mentre agli italici si applicava ancora il diritto romano codificato nel Digesto promulgato da Giustiniano nel 533.
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Cover Story La Marcia su Roma che non ci fu
Sostenuto da validi argomenti, uno storico sostiene che la Marcia su Roma non ci fu, che tutto avvenne nel modo più pacifico e condiviso: quel falso evento fu la soluzione di una crisi politica senza sbocchi, mettendo in sella un uomo forte e risoluto. Così nacque la leggenda della “rivoluzione fascista”
LA MARCIA SU
ROMA CHE NON CI FU [8]
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ITALIA
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ILMENSILECHE VAOLTRELASOLITASTORIA
«L
a Marcia su Roma semplicemente non è mai avvenuta. Il 28 ottobre 1922 per la capitale è stato uno dei giorni più tranquilli di tutti quegli anni e probabilmente il fatto più rilevante che avvenne in quelle ore fu lo scambio di telegrammi del re con alcuni notabili. Il governo che nacque poco dopo, guidato da Benito Mussolini, era gradito a tutti e tutti vi presero parte. Fu solo in seguito che da una parte e dall’altra nacque la leggenda della marcia su Roma». Quella che appare una rivelazione sconvolgente, ma che il professor Aldo Mola definisce solo un’attenta un’attent a lettura dei fatti, al di là dei luoghi comuni, è la ricostruzione storica di quelle ore convulse realizzata dall’autore del libro “Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922”. Fu a posteriori che nacque la leggenda del 28 ottobre, alimentata sia dai fascisti, increduli per la facilità della loro scalata ai vertici del potere, sia dagli antifascisti, che dovevano giustificare la scarsa o nulla resistenza opposta a quell’inatteso colpo di scena. Anche negli anni successivi la Marcia su Roma servì a spiegare un dato di fatto, ormai metabolizzato da tutto il Paese. «Il fascismo», spiega il professor Mola, «usò gli eventi di quei giorni per poter asserire che si era affermato con la propria forza: per trovare una “nobile” genesi alla propria presa del potere, che il Partito Nazionale Fascista voleva far passare come una rivoluzione. In seguito – ma solo nel 1927 – si decise che sarebbe sareb be entrato in vigore in Italia il calendario dell’era fascista, che cominciava proprio con la presunta Marcia su Roma. Il mito però faceva comodo anche agli antifascisti che in realtà nel 1922 erano più che altro forze antisistema: socialisti, comunisti e repub-
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28 OTTOBRE 1922 A N / S , 1 A M M O C , 1 . T R A , ) 6 4 ° N , 4 0 0 2 . 2 0 . 7 2 . L N I . V N O C ( 3 0 0 2 / 3 5 3 . L . D . T S O P . B B A I N . D E P S A P S E N A I L A T I E T S O P . C . O . R
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A F F I R A T
1903
LOSBARCOTEDESCOININGHILTERRA
LAGUERRACIVILESPAGNOLA
IlConclavechedecise le sortidel XX Secolo
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Unatrappola perladiplomaziadel Fascismo
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La marcia su Roma rappresentata in un quadro di Giacomo Balla, celebre pittore futurista; l’opera appartiene alla Pinacoteca Agnelli, ma non è esposta perché dipinta sul retro del famoso quadro di Balla, “Velocità astratta”. In primo piano c’è Mussolini con ai lati i quadrumviri: da sinistra, Bianchi, de Bono, de Vecchi, Balbo. Sotto, illustrazione celebrativa di Alessandro Bruschetti dedicata alla marcia su Roma (1935).
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ITALIA [9]
e n i g a m m i ’ l l e d e n o i s s e c n o c e l i t n e g a l r e p a i z a r g n i r i s : I L L E N G A A C E T O C A N I P
Cover Story La Marcia su Roma che non ci fu
Lo Stato liberale si stava dissolvendo, la fine della Grande guerra aveva portato una grave crisi sociale, nelle piazze la lotta politica era sfociata nella violenza: rossi contro neri.
blicani, i quali giustificavano la propria inconsistenza politica raccontando di essere stati sconfitti solo di fronte all’assalto armato di forze incontenibili. In realtà, esse non godevano di alcun seguito popolare ed erano ai margini della vita politica, da dove sarebbero riemerse vent’anni dopo, a seguito dei disastri di una guerra devastante».
Italiani frustrati, impotenti e confusi L’origine degli eventi dell’ottobre 1922 va ricercata negli anni e nei mesi precedenti: lo Stato liberale si stava dissolvendo, la fine della Prima guerra mondiale aveva portato una forte crisi sociale, la lotta politica era sfociata in episodi di violenza. Dopo la Grande guerra, l’Italia fu sconvolta dalla crisi economica, mentre montavano i rancori per la presunta “vittoria mutilata” (gli italiani ritenevano di non aver ricevuto un compenso adeguato per la partecipazione al conflitto, considerando l’enorme prezzo pagato in vite umane, oltre che in risorse economiche). Si viveva in uno stato diffuso di rabbia e frustrazione, che contrapponeva da un lato i socia[10]
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ITALIA
Parata dei partecipanti alla Marcia su Roma, prima del loro ritorno a casa. Con grande stupore di tutti, hanno vinto: Mussolini è il nuovo capo del governo. Sotto, il listino prezzi di gadget fascisti, dalla camicia nera, al fez, al pantalone d’ordinanza. La moda fascista era diventata un business.
listi più esagitati (quelli che “volevano fare come in Russia”, dove nel 1917 c’era stata la rivoluzione comunista) e dall’altro gli squadristi fascisti. Le violenze, però, ebbero il culmine negli anni 1919-21, mentre nel 1922 erano già in calo. La politica restarest ava in forte crisi, una crisi sociale ed economica senza via d’uscita. Nessun uomo politico sulla scena era in grado di risolverla, occorreva un personaggio
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nuovo che si facesse carico dei problemi del Paese. Dal 1919 era stata introdotta una legge elettorale proporzionale, potevano votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni. Nel 1921 si erano tenute elezioni anticipate, dopo quelle del 1919, e ancora una volta non si era pervenuti ad alcuna maggioranza chiara in Parlamento. Dopo che, in due anni, si erano susseguiti sei governi (i quali non riuscivano a fare niente, tanto meno a fermare la crisi post bellica), nel febbraio 1922, si era dimesso il governo Bonomi e ne era seguita una crisi di due mesi. Per uscire dallo stallo, re Vittorio Emauele III aveva affidato l’incarico di presidente del consiglio a Luigi Facta, un giolittiano che però si dimise subito, a luglio, di fronte a un imponenimponen te sciopero sindacale filo socialista, che invece era stato fatto fallire dai fascisti, i quali nel caos imperante si facevano sempre più spavaldi e agguerriti. A quel punto si era insediato il secondo governo Facta, che aveva ricevuto la fiducia in Parlamento il 7 agosto: data da tener presente, perché da quel giorno il Parlamento non fu più convocato per mesi. Di fronte a una crisi permanente che rischiava di uscire dai binari istituzionali (comunisti e socialisti ne avrebbero approfittato per prendere il potere), a metà ottobre il re, che era in viaggio in Belgio per una visita di stato, chiese al premier di convocare le Camere per mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità. «In realtà», dice Mola, «la politica stava lavorando al di fuori delle istituzioni, il nodo era la proposta sotterranea di creare un governo con i liberali di Giolitti, i cattolici popolari di Meda (manovrati però da don Sturzo, esterno
al Parlamento) e i socialisti. Ma Sturzo pose il veto a un governo guidato da Giolitti». Fu una decisione fatale. A quel punto, p unto, però, era chiaro per tutti che il governo in carica, quanto mai debole e screditato, andava al più presto sostituito, tanto più che non sembrava in grado di garantire l’ordine pubblico, sebbene la violenza politica fosse ormai in netto calo. Fu in questa situazione che Mussolini decise di forzare la mano, minacciando quella che poi sarebbe passata alla storia come Marcia su Roma.
Così, al Congresso fascista in corso a Napoli il 24 ottobre, mentre parlava di mobilitazione, in realtà chiese tre ministeri per partecipare a un governo di coalizione. Niente di rivoluzionario, quindi: in un discorso ufficiale Giolitti sostenne che era utile associare i fascisti al governo, con un numero di ministri proporzionale alla loro presenza in Parlamento, che era solo di circa 35 deputati su 535 (eletti peraltro nei Blocchi nazionali insieme ai liberali). Nel frattempo, anche Facta trattava segretamente con Mussolini, sperando di mantenere il posto di presidente del consiglio. Tutti trattavano con tutti, ma nessuno concludeva. «Solo il re, unico con la testa sul collo», sostiene Mola, «chiedeva la parlamentarizzazione della crisi».
Il bluff vincente di un grande giocatore In quel contesto, Mussolini decise di forzare i tempi, usando la pressione della piazza, e al congresso di Napoli dichiarò: «O ci daranno il governo o ce lo prenderemo, calando su Roma a prendere per la gola la miserabile classe politica dominante!». Da politico sopraffino quale era, Mussolini aveva capito che fosse il momento giusto per giocare d’azzardo. E così, ordinò la mobilitazione dei fascisti in tutte le città e organizzò le sue “colonne”, guidate dai quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi. L’idea di
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MARCIA SU ROMA COLPO DI STATO O BLUFF? VITTORIOEMANUELEIII,E CONLUITUTTOL’ESTABLISHMENT, FECEFINTADISPAVENTARSIPERLAMINACCIADIUNCOLPODISTATO: TUTTISPERAVANOCHEMUSSOLINIRISOLVESSEUNACRISI POLITICASENZASBOCCHI, COSACHEAVVENNENELMODOPIÙORDINATOE CONDIVISO
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Unatrappola perladiplomaziadel Fascismo
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A sinistra, Vittorio Emanuele III stringe la mano a Mussolini il 31 ottobre 1922. Per il re è la soluzione della crisi, una decisione di cui presto comincerà a pentirsi. Sopra, il famoso telegramma con cui il re convoca Benito Mussolini a Roma, datato 28 ottobre 1922.
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Cover Story La Marcia su Roma che non ci fu
marciare sulla capitale, per mostrare forza e determinazione, era figlia della precedente impresa di D’Annunzio a Fiume: d’altro canto, lo stesso Facta aveva ipotizzato una “marcia” o meglio una sfilata per il 4 novembre (anniversario della vittoria del 1918) a Roma, guidata proprio da Gabriele D’Annunzio, per neutralizzare Mussolini. Ma quest’ultimo riuscì ad accordarsi col poeta, per non essere scavalcato da una figura più popolare della sua. Del resto D’Annunzio, poeta e uomo d’armi, impavido avventuriero, in politica sarebbe stato un pesce fuor d’acqua e ne era perfettamente consapevole: rischiava di essere un’occasione sprecata. Mussolini proseguì dunque con i preparativi: bande raccogliticce, vocianti e anche violente, ma assolutamente non in grado di fronteggiare l’Esercito, che aveva il pieno controllo della situazione. Se le camicie nere erano armate di pugnali, bastoni, qualche schioppo e alcune rivoltelle, le Forze Armate avevano avevano predisposto predisposto tutto tutto il necessario necessario per non essere colte di sorpresa. Infatti, nei giorni tra il 24 e il 27 ottobre ci fu qualche manifestazione fascista in giro per l’Italia, «ma laddove le cose furono appena un po’ più serie», afferma Mola, «con i tentativi di occupare le prefetture, Carabinieri ed Esercito risposero energicamente. I fascisti furono i primi ad essere sorpresi di trovare una risposta così [12]
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Il governo in carica era debole e screditato, era chiaro per tutti che andasse al più presto sostituito, sostituit o, ma nessuna delle forze politiche era in grado di offrire una soluzione alla crisi.
Benito Mussolini, accompagnato dallo Stato Maggiore fascista, al raduno di 40mila fascisti al campo sportivo di Napoli.
determinata a quelle che loro in fondo consideravano azioni poco più che simboliche». Anche la difesa difesa di Roma era più che pronta: «Il Ministero Ministero della Guerra era perfettamente informato su quello che stava avvenendo, così come il Ministero dell’Interno e le prefetture sapevano tutto di tutti, come emerge chiaramente dai documenti dell’Archivio di Stato in gran parte ancora inesplorati», continua Mola, «un attacco armato non avrebbe mai potuto avere successo». La strada alle camicie nere era sbarrata: il Regio Esercito aveva preso possesso dei nodi ferroviari di Civitavecchia, Orte e Valmontone (gli accessi a Roma dalle tre principali direzioni), dove aveva tolto i binari e sbarrato il passaggio dei treni in arrivo con vagoni carichi di sabbia. La tensione dunque c’era, ma la situazione era sotto controllo, in realtà a Roma arrivarono poche migliaia di fascisti dai dintorni: la capitale il 28 ottobre era assolutamente tranquilla». Due giorni prima, il 26, il capo del governo Fac-
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ta aveva mandato un breve telegramma al re, in cui comunicava che ormai era finita la minaccia dell’assalto fascista su Roma. Ma il giorno dopo aveva bruscamente cambiato idea e ne inviò uno nuovo, stavolta piuttosto lungo, in cui drammatizzava la situazione e ritornava con toni allarmanti sulla minaccia della mobilitazione fascista in cor so. Il re, compreso che qualcosa non andava e trovandosi a San Rossore presso Pisa, aveva risposto con solo quattro parole: «Arrivo a Roma stasera». Giunto a Termini, lo aveva accolto Facta, annunciando le sue dimissioni.
Il 28 ottobre a Roma non successe succ esse nulla Ciononostante, la mattina dopo, il premier dimissionario decise di proclamare lo stato d’assedio e ne chiese convalida al re. Ma Vittorio Emanuele rifiutò, ritenendo la mobilitazione fascista solo una propaganda politica e che non ci fosse una situazione
d’emergenza tale da giustificare una decisione così grave. Facta, peraltro, sembrava non essersi reso conto delle conseguenze: lo stato d’assedio prevepreve deva l’applicazione del codice militare e significava autorizzare i soldati a sparare ad altezza d’uomo, con l’unico precedente del non dimenticato massacro di Bava Beccaris a Milano, nel 1898. Secondo il re, si sarebbe data inutilmente all’estero l’impressione di un Paese spaventato a causa di quattro facinorosi. La soluzione doveva, piuttosto, essere politica. La mattina del 28 ottobre, Vittorio Emanuele III, dopo una serie di consultazioni e dopo aver ricevuricev uto alcuni dinieghi (naufragò subito l’ipotesi di un governo Salandra), mandò i telegrammi di convocazione a tre persone (c’era scritto «venite a Roma per risolvere la crisi»): il cattolico popolare Filippo Meda, che era a Milano e non rispose tempestivamente; Giovanni Giolitti, che si trovava a Cavour, in Piemonte, dove aveva appena festeggiato gli
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Le violenze
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u il clima concitato e violento di quel periodo, dopo mesi di attacchi squadristi e di scontri fra rossi e neri, con toni retorici molto alti, che diede origine all’idea della “presa di Roma”. Qualche azione di forza ci fu davvero. A Ravenna, a fine luglio, una spedizione punitiva di marca fascista provocò 9 morti e ci furono scontri anche a Pavia, Biella e Rimini. Il primo “esperimento” di conquista territoriale avvenne ad agosto ad Ancona, città scelta per le sue simpatie di sinistra e giudicata coriacea, la quale venne occupata da bande fasciste senza alcuna opposizione, con grande sorpresa di tutti: i fascisti pensarono che se una città come Ancona fosse così facile da prendere, le imprese future non sarebbero state impossibili. Tanto più, che in quei giorni – nel contesto di un grande confronto con i socialisti che avevano indetto uno “sciopero legalitario” – i fascisti occuparono brevemente anche i municipi di Milano, Pistoia, Varese, Alessandria, Firenze e Savona. L’episodio più grave avvenne a Parma: le squadre guidate da Italo Balbo assediarono la città difesa dagli antifascisti e negli scontri caddero 40 squadristi e 5 antifascisti, tanto che, alla fine, le camicie nere si ritirarono. Il 10 ottobre il ministro della Giustizia, Giulio Alessio, fece un bilancio delle illegalità fasciste dal 15 agosto al 22 settembre 1922: 369 reati di natura politica, tra i quali 74 omicidi, 79 lesioni personali, 75 violenze private, 72 danneggiamenti, 37 incendi. Quando, negli ultimi giorni di ottobre, da Napoli si annunciò la minaccia di calare su Roma, il telegramma di
resoconto stilato dal prefetto partenopeo non evidenziava alcun problema reale e recitava: «Manifestazione fascista svolta nell’ordine. Nulla da segnalare». Il raduno si era chiuso senza scontri né violenze. Per organizzare la “marcia”, il quartier generale fascista fu insediato a Perugia e ciò facilitò il transito di alcune squadre fasciste verso Roma, riuscendo anche a requisire alcuni treni. Nelle ore successive vennero convocate manifestazioni manifestazioni in tutte le città e in alcune di esse i militanti occuparono le prefetture, come a Firenze, Siena, Pisa, Foggia e Rovigo. Ma a Roma, niente di tutto questo. (Sopra, istantanea di un
assalto squadrista a Roma contro una sede socialista, nel 1921).
Queste spedizioni violente furono il terreno di cultura dell’annunciata “rivoluzione” fascista, che si realizzò con la Marcia su Roma. Un evento che la gran parte degli storici considera un bluff f ortunato ma che allora venne vissuto come un ben preparato colpo di mano.
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Il 29 ottobre Mussolini arriva in treno a Civitavecchia. Il giorno prima, la data fatidica del 28, a Roma non è successo nulla di rilevante.
Squadristi diretti a Roma. Equipaggiati alla meglio, con armi di fortuna, partirono da ogni parte d’Italia in treno, macchina, moto, perfino in bicicletta. Un raduno per metà goliardico e per metà violento, costellato da canzoni, sbornie, pestaggi lungo le strade. Sotto, la prima pagina del Corriere della Sera annuncia l’evento senza toni drammatici: tutto si è svolto nella massima legalità.
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80 anni e dove le comunicazioni comunicazioni e gli spostamenti erano assai complessi (infatti disse al re che sarebbe arrivato a Roma nei n ei giorni successivi, ma in realtà neanche si mosse); Benito Mussolini, che seguiva la mobilitazione per la “Marcia su Roma” da Milano, ma rispose prontamente che sarebbe rimasto in attesa delle disposizioni disposizioni del sovrano. «Vittorio Emanuele aveva ricevuto di prima mattina una visita molto importante, ma pochissimo nota», racconta Mola, «si trattava di Ernesto Civelli, uno degli organizzatori della Marcia,
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ma soprattutto collegato a Raul Palermi, gran maestro della Gran Loggia d’Italia, con il compito di garantire al re che i fascisti non avrebbero messo in discussione la corona e sarebbero stati favorevoli alla monarchia». Dopo aver consultato liberali, cattolici, democratici, industriali ed ecclesiastici, il re trova tutti favorevoli all’ipotesi di dare l’incarico di governo a Mussolini; Vittorio Emanuele III invia perciò un nuovo telegramma di convocazione al futuro Duce, che il 29 arriva in treno a Civitavecchia. Sottolineiamo questa data: siamo già al 29, il 28 a Roma è trascorso senza che sia accaduto nulla di rilevante sotto il profilo dell’ordine pubblico. La mattina del 30, il leader fascista prende un altro treno da Civitavecchia a Roma, sul quale mette a punto la list a dei ministri. Rappresentanti Rappresentanti politici di varie parti gli chiederanno di cambiare un paio di ministri rispetto al suo elenco originario: lui voleva Luigi Einaudi all’economia all’economia e il futuro presidente era disponibile, ma gli viene preferito Alberto De Stefani. L’altro nome della lista era, addirittura, quello di un socialista: Mussolini voleva tendere la mano al suo partito di origine, pensando che potessero esserci convergenze su lavoro e previdenza sociale, e indicò Gino Baldesi, il quale aveva accettato insieme ai socialisti riformisti di Bruno Buozzi. Alla fine, però, fu chiesto al futuro Capo del governo di lasciare fuori i socialisti. Nella coalizione c’erano in ogni caso liberali, democratici sociali, nazionalisti, cattolici popolari, oltre al generale Armando Diaz al Ministero della Guerra e all’ammiraglio (e massone) Paolo Thaon di Revel a quello della Marina. Un governo di unione nazionale In nazionale In giornata, Mussolini riceve ufficialmente ufficialmente l’incarico e dopo qualche ora consegna al re l’elenco dei ministri concordato tra tutte le parti in causa. Fra il 30 e il 31 – nell’assoluta tranquillità della capitale, con la sola eccezione di risse notturne a San Lorenzo tra forze dell’ordine e gruppi di anarchici – avvengono tutti i passaggi di consegne fra Facta e i suoi ministri e i loro successori. In un governo di unione nazionale (ben lontano in quel momento dall’essere espressione di una
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dittatura) e di assoluto prestigio: ci sono personaggi come Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi, uno dei nomi espressi dal Partito Popolare, che non aveva voluto aderire a un governo Giolitti, ma era presente in quello Mussolini. La parata celebrativa e poi a casa Solo il 31 si svolge l’evento che più si avvicina alla Marcia su Roma: «Qualche migliaio di “marciatori” fascisti erano presenti a Roma dal giovedì 26 precedente, pensando di fare la manifestazione il sabato 28 e la domenica di essere di nuovo a casa. Si era invece arrivati a mercoledì e non avevano con sé neanche di che mangiare. A cose fatte, dovendo rimandare a casa i dimostranti, il 31 mattina fu organizzata la parata. Il tragitto era semplice e ufficiale, con in testa al corteo la banda del Comune di Roma inviata dal sindaco Filippo Cremonesi: da piazza del Popolo le camicie nere (tra cui generali, massoni, monarchici e deputati) raggiunsero l’Altare della Patria, poi passarono sotto i balconi del Quirinale, rendendo omaggio al re che li osservava a fianco di Diaz e Thaon di Revel, Revel , e infine si diressero a TerTer-
mini dove li aspettavano 45 treni speciali organizzati dal governo». Fu questo “l’assalto armato” su Roma dell’ottobre 1922. «Il tutto avvenne», precisa Mola, «nei giorni seguenti al 28 ottobre e confermò il dato di fatto della soluzione della crisi sui binari istituzionali voluti dal re. A questo punto fu convocato il Parlamento: il 17 novembre la Camera dei deputati votò la fiducia con un’ampia maggioranza di 306 favorevoli, 116 contrari e 7 astensioni. L’intervento di adesione al governo per il partito Popolare fu tenuto dal capogruppo, Alcide De Gasperi. Pochi giorni dopo anche il Senato (dove erano presenti solo due fascisti) approvò la fiducia con 196 voti favorevoli e 19 contrari. Era nato il primo governo Mussolini, cui di fatto quasi nessuno in Italia era contrario. Quella che è passata alla storia come un golpe, o una minaccia di golpe, si era risolta con un regolare conferimento di governo. Nessuno poteva prevederne il seguito.
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OSVALDO BALDACCI
(Ricercatore e scrittore di Storia).
La legge Acerbo e la Lista Nazionale a crisi istituzionale fu eminentemente politica e la sua soluzione, tramite un governo a guida fascista, fu confermata due anni più tardi dalle elezioni del 1924. In questo quadro si inserisce la Legge Acerbo, che assegnava un premio di maggioranza dei due terzi del Parlamento a chi avesse raggiunto il 25% dei voti. Molti studiosi attribuiscono ad essa la vera origine della dittatura fascista, ma il discorso in realtà è più complesso. La crisi degli anni precedenti, secondo i politici di allora, era stata determinata dalla legge elettorale proporzionale introdotta nel 1919, la quale aveva generato la moltiplicazione dei gruppi parlamentari rendendo più difficile formare una maggioranza di governo. Per questo ci si impegnò attivamente nella ricerca di una riforma elettorale. «La legge che porta il nome del sottosegretario fascista GiaGiacomo Acerbo», afferma il professor Mola, «dovrebbe in realtà chiamarsi Legge Giolitti, perché fu il leader liberale a volerla più di chiunque altro. La soglia
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per il premio fu fissata al 25% perché nelle elezioni del 1921 il partito che aveva ottenuto più voti era stato quello socialista con il 24». Spinti da questa legge fortemente maggioritaria, i diversi partiti trovarono un accordo e fu così che nacque la Lista Nazionale. Essa non era una lista fascista, ma teneva unite molte forze politiche. «I candidati fascisti nel Listone», sostiene Mola, «erano 227 su un totale di 543 e della lista facevano parte forze politiche eterogenee, dai liberali ai nazionalisti, con personaggi eminenti come Vittorio Emanuele Orlando ed Enrico De Nicola». A parte i rivali di sinistra, dei vecchi alleati non vi parteciparono alcuni liberali e i popolari di De Gasperi. La Lista Nazionale alle urne ottenne quasi il 65% dei voti, ma i fascisti ancora non costituivano da soli la maggioranza in Parlamento. Fu nei mesi successivi che Mussolini riuscì a trasformare il suo governo in regime autoritario, soprattutto a partire dall’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime”, nel 1925.
La locandina del film del 1962 con Gassman e Tognazzi, che ebbe grande successo. Nell’ovale, Giovanni Giolitti, uno dei grandi protagonisti della politica prima dell’avvento del fascismo.
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Prima Guerra mondiale
LA VERA (E CU
DELLA Una delle imprese più singolari della gloriosa Marina Britannica fu il trasporto di due navi per mare, ferrovia, traino su terra e navigazione fluviale, per andare a combattere una battaglia navale sul lago Tanganica Tanganica - che fu persa - contro una nave dai cannoni finti. Ma portò ugualmente gloria al suo comandante
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el 1951 un film famoso del grande John Huston, “La regina d’Africa”, tratto da un romanzo di Cecil C. Forester, racconta una storia ambientata ambientat a in una località sperduta dell’Africa in cui i due protagonisti – Katharine Kathar ine Hepburn e Hunphrey Bogart – decidono di affondare, con la loro barchetta, una nave cannoniera tedesca, la Königin Luise, in servizio sul lago Tanganica. Tanganica. Qualcosa di vero in quella storia di fantasia c’è: l’esistenza di navi da guerra su s u uno dei più grandi laghi del mondo, nel cuore del Conti nente Nero, dove si sono scontrate due potenze navali dell’epoca, Gran Bretagna e Germania.
RIOSA) STORIA
REGINA D’AFRICA Protagonista della vera storia della Regina d’Africa fu Geoffrey Spicer-Simson, un ufficiale della Marina di Sua Maestà Britannica dalla storia personale alquanto singolare. Geoffrey Spicer-Simson non godeva di particolare stima da parte dell’Ammiragliato britannico, e a ragion veduta. In meno di un anno di guerra, nel 1915, aveva già perso ben due navi per banali errori e, alla a lla soglia dei 40 anni, era il tenente di vascello (un grado di livello modesto per un ufficiale) più anziano di tutta la Royal Navy: una carriera e una vita arenata arenat a che, grazie a circostanze imprevedibili, stavano per conoscere una svolta insperata.
Il dominio di un lago vasto come un mare La Prima guerra mondiale nel teatro
dell’Africa centrale vedeva le potenze della Triplice Intesa in gravi difficoltà, rispetto alla Triplice Alleanza di Austria e Germania. I tedeschi, infatti, controllavano il Tanganica, il grande lago lungo il quale correva il confine tra l’Africa orientale tedesca e il Congo belga. Nelle sue acque la Germania teneva una piccola flotta: due vaporiere, la Hedwig von Wissmann di 60 tonnellate e la Kingani di 45. Entrambe erano state smontate e trasportate in sezioni con la ferrovia fino a Dar es Salaam, la capitale, e da lì spostate via terra a Kigoma, dove era-
Le due piccole navi HMS Mimi e Tou-tou appena arrivate sul lago Tanganica, dopo un viaggio avventuroso. Le attende una battaglia navale per la conquista del lago.
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Prima Guerra mondiale
no state rimontate e varate. Una terza cannoniera, la Graf von Goetzen, di 1.000 tonnellate, aveva affrontato lo stesso viaggio ed era arrivata a destinazione, ma era ancora in cantiere, in fase di assemblaggio. Con queste imbarcazioni, dal 1915, le Forze Armate della colonia colonia dell’Africa orientale tedesca detenevano la completa supremazia navale sul versante occidentale dell’immenso lago Tanganica. Dopo un disastroso tentativo degli Alleati di invadere la colonia tedesca di Tanga nel novembre 1914, solo nel 1915 i britannici e i loro alleati belgi furono in grado di prendere in considerazione un secondo tentativo di invasione via terra, con una manovra combinata dall’Africa orientale britannica, sulla sponda orientale del lago Vittoria, e dal Congo Belga a ovest. In questo quadro logistico divenne subito evidente l’importanza strategica del Lago Tanganica, le cui acque permettevano ai tedeschi di spostare truppe e rifornimenti a proprio piacimento lungo i suoi 650 km di lunghezza, per sbarcare tempestivamente alle spalle delle forze alleate. Al comando com ando delle forze fo rze tedesche vi era un genio della guerriglia come il colonnello Paul von Lettow-Vorbeck, Lettow-Vorbeck, che pochi giorni dopo lo scoppio della guerra aveva ordinato al Wissman di distruggere il piroscafo belga Del Commune [18] BBC HISTORY ITALIA
Geoffrey Spicer-Simson Spicer-Simson non godeva di particolare stima da parte dell’Ammiragliato dell’Ammiragliato britannico, per aver perduto, in meno di un anno di guerra, ben due navi per banali errori.
Assemblaggio di una nave su rotaie che dà l’idea della complessità dell’operazione. Le due imbarcazioni britanniche percorsero in ferrovia solo una parte del lunghissimo tragitto.
e altre due navi, eliminando così ogni ostacolo ostac olo alla supremazia navale germanica. Il controllo tedesco del lago sembrava incontestabile, ma il cacciatore di elefanti britannico John Lee, familiare del territorio per i suoi frequenti quenti safari, lasciò l’Africa per tornare in Patria portando con sé la convinzione di poter risolvere questo apparentemente insolubile problema strategico. Arrivato a Londra, ottenne un incontro con il “First Sea Lord”, Sir Henry Jackson, durante il quale si disse convinto che una sola nave da guerra inglese veloce avrebbe potuto avere la meglio sulla flotta germanica. L’imporL’importante era riuscire a portarla sul lago e John Lee espose un piano particolareggiato su come fare quel trasporto di una nave fino al lago Tanganica partendo dal Sudafrica. Lee aveva studiato il percorso, lo aveva anche a nche personalmente compiuto, ed era sicuro di riuscirci con una opportuna spedizione. Henry ascoltò impassibilmente, senza dare una risposta, ma il giorno seguente diede il via all’operazione dichiarando: «È dovere e tradizione della Royal Navy ingaggiare il nemico ovunque ci sia abbastanza acqua per far galleggiare un’imbarcazione». Era un’idea di quelle che si adottano solo in
La vera storia della Regina d’Africa L’ammiraglio Sir Henry Jackson (1855–1929), “First Sea Lord” (primo Lord del mare) dell’ammiragliato britannico dal 1915 al 1916. Fu lui a decidere la strana missione e a metterne a capo lo screditato comandante Spicer-Simson (Nell’ovale dell’altra pagina), il cui pessimo carattere rese più ardua l’impresa.
tempo di guerra, quando le risorse a disposizione sono praticamente illimitate e un tentativo, per quanto strampalato, non si nega a nessuno; soprattutto quando può essere l’occasione per levarsi elegantemente di torno un tipo ingombrante come Spicer-Simson, ufficiale dall’utilizzo incerto. Un’occasione insperata per una carUn’occasione riera al tramonto Geoffrey Spicer-Simson
era nato in Tasmania il 15 gennaio 1876, dove il padre, un inquieto giramondo, aveva avviato un allevamento di pecore. Per i suoi studi, però, ritornò giovanissimo in Europa, prima in Francia e poi in Inghilterra, e, ad appena 14 anni, entrò nella Royal Navy. La sua carriera fu compromessa dai due incidenti di cui si è detto, che entrambe le volte lo costrinsero a terra a svolgere lavoro d’ufficio. Nel primo sbagliò una manovra e con il suo cacciatorpediniere urtò un’altra imbarcazione, nel secondo la sua nave fu affondata da un siluro tedesco in pieno giorno mentre il suo comandante, anziché essere al posto di comando, pranzava romanticamente con la moglie sulla riva del mare. Oltre che per l’incompetenza, Spicer-Simson Spicer-Simson si era distinto per il suo carattere litigioso, arrogante e fanfarone. Un punto a suo favore: era già stato in Africa, anche se solo per condurre delle rilevazioni geografiche, e conosceva il francese e il tedesco, quindi, avrebbe potuto avere rapporti diretti con gli alleati belgi del posto, ed eventualmente anche con i nemici germanici. Così, quando Spicer-Simson si offrì volontario per l’impresa, l’Ammiragliato ritenne di offrire al compromesso tenente di vascello questa ultima occasione di riscatto.
Per realizzare il piano studiato da Lee, si pensò quindi di inviare non una ma due motobarche della Thornycroft da 4,5 tonnellate che, equipaggiate ciascuna di un cannone da 3 libbre e capaci di una velocità di punta di 19 nodi (35 chilometri), avrebbero potuto contrastare efficacemente le più lente e antiquate imbarcazioni tedesche. Le due unità prescelte, destinate originariamente alla Grecia, erano le più piccole imbarcazioni della Royal Navy a potersi fregiare del
HMS Mimi e Tou-tou
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e Navi di Sua Maestà (His Majesty’s Majesty’s Ship) Mimi e Tou-Tou furono le più piccole unità a potersi fregiare di questa prestigiosa qualifica. Erano infatti due semplici lance a motore lunghe appena 12 metri e capaci di una velocità massima di 35 km/h. In previsione dei combattimenti che le attendevano in Africa vennero entrambe dotate a prua di un cannone da 3 libbre e a poppa di una mitragliatrice Maxim. Il cannone però si rivelò troppo potente per la fragile struttura delle due imbarcazioni: il rinculo rischiava di rovesciarle o di distruggere il ponte. Poteva Poteva sparare solo se perfettamente allineato alla prua, ma si ritenne che l’estrema manovrabilità lo avrebbe consentito. (Nella (Nella foto la Mimi in navigazione, sul fondo si scorge anche la Tou-tou).
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Prima Guerra mondiale
titolo di HMS (“His Majesty’s Ship”). I loro nomi non avevano molto di bellicoso: SpicerSimson avrebbe voluto chiamarle Cat e Dog, ma l’Ammiragliato si era opposto a nomi così banalmente familiari, accettando invece di battezzarle Mimi e Tou-Tou – l’equivalente francese dei nostri “Miao” e “Bau bau” – il che dà il senso delle condizioni di smarrimento in cui versava la Royal Navy dopo il fallimento dello sbarco anfibio nella penisola di Gallipoli contro la Turchia (alleata delle Potenze Centrali durante la Prima guerra mondiale) e il conseguente siluramento di Winston Churchill, ministro della Marina, che ne era stato l’ispiratore e il grande sostenitore. Il punto era che per giungere nel teatro delle operazioni, le due motobarche dovevano fare un viaggio proibitivo: innanzitutto dovevano arrivare a Città del Capo imbarcate su una nave di linea, poi da lì risalire per oltre 4mila km in ferrovia fino ad Elisabethville. Qui la ferrovia terminava (precisamente a Fungurume) e le sezioni delle due imbarcazioni dovevano procedere via terra per quasi 200 km su una strada improvvisata per l’occasione, trainate da trattori a vapore e buoi, scavalcando i quasi 2.000 metri dei monti Mitumba. Al di là dei Mitumba c’era il fiume Lualaba, ovvero altri 300 km circa di navigazione fluviale e altrettanti in ferrovia per arrivare finalmente sulla sponda britannica dell’immenso lago. Un epico percorso di oltre 5mila km
Il 2 luglio 1915, i 4 ufficiali e i 24 uomini della spedizione, ai quali si era aggiunto John Lee, guidati da Spicer-Simson, erano a Città del Capo con le loro imbarcazioni. Durante il viaggio, Spicer-Simson aveva avuto modo di farsi notare intrattenendo i passeggeri con i suoi mirabolanti racconti, compresa l’uccisione di un
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Le due unità prescelte, destinate originariamente originariamente alla Grecia, erano le più piccole imbarcazioni della Marina britannica a potersi fregiare Ship). del titolo di HMS (His (His Majesty’s Ship).
Sopra, la cartina in cui è indicato l’itinerario della spedizione di Spicer-Simson. Sotto, l’arrivo in acqua delle HMS Mimi e Tou-tou.
gigantesco rinoceronte in Costa d’Oro, regione che notoriamente ne è priva, ma anche minacciando di destituire il comandante della nave di linea, cosa di cui ovviamente non aveva l’autorità, perché gli aveva impedito impedito di fumare vicino a taniche di carburante. Il 5 agosto la spedizione giunse a Fungurume, dopo di che ci volle più di un mese per scavalcasca valcare i monti Mitumba, impresa indescrivibile, tra traversie di ogni genere: strade che franavano, ponti – ne furono costruiti 150 – che crollavano sotto il peso delle imbarcazioni e dei trattori a vapore preposti al loro traino, incontri con i leoni, che ogni tanto si mangiavano qualcuno dei 1.400 lavoratori indigeni che si occupavano della manutenzione della strada, con lunghe colonne di donne che portavano l’acqua per i trattori a vapore con anfore in equilibrio equilibrio sulla testa; test a; vicissitudini situdini a ripetizione, sopportate con britannica brit annica flemma. Per le pendenze più ripide, nemmeno i trattori aiutati da decine di buoi erano state sufficienti e si era fatto ricorso a un sistema di verricelli per sollevare le due imbarcazioni. Arrivati Arrivati finalmente finalmente al fiume fiume Lualaba, Lualaba, si mise misero in acqua le navi per una perigliosa navigazione,
La vera storia della Regina d’Africa Una scena del film “La regina d’Africa” del 1951, con Katharine Hepburn e Humphrey Bogart, ispirato alle vicende delle HMS Mimi e Tou-Tou. In basso, schema di fabbricazione della nave tedesca Hedwig von Wissmann, una delle navi affondate dalle piccole imbarcazioni di Sua Maestà Britannica.
tra coccodrilli e ippopotami, nuvole di tormentose mosche tse-tse, strisciando sui numerosi banchi di sabbia del fiume le chiglie delle imbarcazioni, trainate a forza di braccia dalle rive, per arrivare alla sospirata meta. E finalmente, il 27 ottobre, videro le rive del lago Tanganica. Geoffrey Spicer-Simson durante l’arduo percorso aveva confermato la sua fama tutt’altro che raccomandabile. I suoi uomini lo avevano conosciuto più a fondo: fanfarone, litigioso al punto da insultare gli alleati belgi, alienandosene la collaborazione, e da cacciare l’ideatore della spedizione, John Lee, con false accuse a ccuse di ubriachezza, privandosi così del suo contributo. Senza contare l’imbarazzante abitudine di indossare una gonna disegnata da lui e cucita da sua moglie (lo teneva “fresco”) e di mostrare in ogni occasione i suoi numerosi tatuaggi: un capo pressoché insopportabile per i membri dell’impresa. Una circostanza fortuita gio-
cò a suo favore: tra i suoi tatuaggi aveva anche un grande serpente, quando gli appartenenti alla tribù degli Holo-holo lo videro, esultarono per l’avverarsi della profezia che annunciava loro l’arrivo del “Dio Serpente” e presero a venerare Spicer-Simson come una divinità incarnata, il che li mantenne m antenne docili per tutto il massacrante percorso. Un bel passo avanti in carriera per un anziano tenente di vascello, capace di guadagnarsi l’entusiastica collaborazione degli indigeni. indigeni.
Il generale Paul von LettowVorbeck, comandante delle forze coloniali nell’Africa orientale tedesca dal 1913 al 1918.
Finalmente lo scontro navale Nel frattempo,
la notizia che degli “altri bianchi” avevano portato due navi sopra le montagne era giunta ai tedeschi, che – sentita la storia del dio serpente – la liquidarono sbrigativamente come la fantasia di indigeni superstiziosi. La battaglia lacustre con i tedeschi avvenne finalmente nel giorno di S. Stefano del 1915: l’apparire di Mimi e Tou-Tou ou-Tou e la loro velocità sorpresero completamente l’equipaggio della Kingani. Nella battaglia navale, il suo capitano venne ucciso e la nave catturata (poi ribattezzata Fifi). Era la prima bandiera navale tedesca catturata durante la Prima guerra mondiale dalla flotBBC HISTORY ITALIA [21]
Prima Guerra mondiale
ta britannica, un primato che portò di colpo Spicer-Simson nell’empireo dei grandi ammiragli britannici. Il 9 febbraio fu la volta della Hedwig von Wissmann, che dopo un intenso scontro a fuoco venne affondata. affondat a. Al di là di ogni speranza, il lago Tanganica Tanganica era in mani britanniche. brit anniche. O forse no. In effetti no. Con grande disappunto di Spicer-Simson, pochi giorni dopo quello che sembrava il coronamento del suo successo, comparvero all’orizzonte della miagolante-abbaiante-cinguettante flotta britannica le 1.000 tonnellate della Graf von Götzen, che i tedeschi avevano finalmente completato all’insaputa dei britannici. L’avventura di Spicer-Simson si concludeva qui: non restava che la fuga, di fronte a tanta potenza di fuoco.
La tanto sospirata battaglia lacustre con i tedeschi avvenne nel giorno di S. Stefano del 1915: l’apparire di Mimi e Tou-tou e la loro velocità sorpresero l’equipaggio della Kingani. L’arrivo a Città del Capo, inizio del percorso via terra. Sotto, una cartolina con una veduta del fiume Lulaba, nella provincia del Katanga (Congo).
O meglio: tanta supposta potenza di fuoco, perché i tedeschi assemblando la Graf von Götzen non avevano installato i suoi cannoni, che servivano alle forze di terra, sostituendoli con tronchi di legno dipinti. Consapevoli che il loro bluff non poteva proseguire all’infinito, i tedeschi smantellarono la loro cannoniera c annoniera senza cannoni, abbandonando il Tanganica Tanganica in mani britanniche. Spicer-Simson fu rimpatriato: era stato raggiunto dalla notizia che suo fratello minore era morto sul fronte occidentale e, data la sua personalità già inst abile e l’enorme stress di quella improbabile spedizione dal successo insperato, fu inevitabile il suo collasso nervoso. Promosso capitano capit ano e carico di riconoscimenti e decorazioni, per lui la guerra era finita, finita , ma era entrato nella Storia. Si trasferì in Canada, dove morì nel 1947. •
NICOLA ZOTTI
(Scrittore, storico esperto di Storia militare).
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Storia del Portogallo
LA LEGGENDA DEL RE
VENDICATORE
Con la morte del re Sebastiano I, inizia il declino dell’Impero di un piccolo-grande Paese e nasce la profezia del ritorno di un sovrano, simbolo dell’orgoglio del suo popolo. Un regno breve, un giovane bizzarro, una sola battaglia, disastrosamente perduta
I
l 4 agosto 1578 è il giorno del più grave lutto della Storia portoghese. In quella data scompariva il re 24enne Don Sebastiano I, insieme al fiore della nobiltà e dell’esercito lusitano, tutti periti nella disastrosa battaglia di Alcazarquivir, Alcazarquivir, in Marocco, contro il formidabile esercito islamico del sultano Abd al-Malik. Una battaglia motivata solo dal fervore religioso del giovane sovrano e della sua errata valut azione delle forze nemiche. Eppure, quel giovane re, tanto singolare di carattere, era destinato a rimanere nei cuori dei portoghesi suoi contemporanei e delle generazioni a seguire. Un vero culto da re leggendario, benché rimasto sul trono pochi anni e senza imprese degne di gloria.
Un re eccentrico e sognatore Educato con rigore dai gesuiti e distinto da una fede religiosa intrisa di misticismo, Sebastiano alternava momenti di castità ad eccessi di stravaganza, come quando disseppelliva le ossa dei suoi regali antenati per compiere macabre cerimonie di culto. Le esperienze di vita avevano di certo segnato la psiche dell’Infante de Portugal, costretto a divenire re a soli tre anni, dopo che il padre, il principe Giovanni Manuele d’Aviz, era morto 17enne due settimane prima della sua nascita. La madre, Giovanna D’Asburgo, sorella di Filippo II e figlia dell’imperatore Carlo V, quattro mesi dopo il parto era stata richiamata dal padre alla corte di Madrid per assumere la reggenza del Paese e non mise mai più piede
Illustrazione che riporta la vista di Piazza Ribeira e del Palazzo Reale del Portogallo a Lisbona, agli inizi del XVIII secolo. Il piccolo Paese divenne una grande potenza al tempo delle scoperte geografiche. Fu merito di un portoghese, Pedro Álvares Cabral, la scoperta e la successiva colonizzazione del Brasile, dove ancora oggi si parla il portoghese.
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Storia del Portogallo
L’accumulo di nozze tra parenti per generazioni, dettato dalla ragione di Stato, aveva lasciato in eredità all’ultimo discendente della dinastia reale una salute estremamente cagionevole.
in Portogallo. A completare il quadro di una crescita difficile, senza l’educazione e l’affetto genitoriale, vi erano anche i problemi fisici che fin da piccolo Sebastiano dovette affrontare. Infatti, l’accumulo di nozze tra parenti nel corso delle generazioni, dettati dalla ragion di Stato, aveva lasciato in eredità all’ultimo discendente della dinastia reale degli Aviz una salute estremamente cagionevole. Ciò nonostante, Sebastiano, sottoposto al regime di reggenza fino al raggiungimento dei 14 anni, era un giovane intelligente e focoso, dall’impeto mistico e cavalleresco, amatissimo dal suo popolo, che vedeva in lui il fautore di un futuro glorioso per il Paese come in passato. Durante le lezioni di latino e grammatica dai gesuiti, il piccolo Sebastiano aveva lo sguardo assente e distratto di chi già sognava imprese degne della sua stirpe. Rifuggiva dalle feste e dai protocolli di corte, preferendo trascorrere il tempo leggendo le storie epiche dei cavalieri medievali. Presto si convinse di essere un predestinato dalla Provvidenza a compiere una [24]
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Ritratto del re Sebastiano I del Portogallo da bambino e a destra il solenne annuncio della sua nascita. Sotto, il monastero di San Girolamo nel quartiere di Belém a Lisbona, nel quale fu seppellito il presunto corpo di Don Sebastiano.
missione divina contro i nemici della fede. Tale ambizione era così totalizzante da fargli trascurare le consuete abitudini dei giovani rampolli di ogni casa regnante, «parendo inimico quasi alle donne», come lo descrisse Antonio Tiepolo, ambasciatore veneziano alla corte di Portogallo. La sua sete di avventure si tradusse nella missione di cristianizzare l’intera Africa, il continente che, con le rotte dell’oro, dell’avorio e degli schiavi, destava gli appetiti di mezza Europa. L’Impero portoghese, a partire dall’occupazione di Ceuta e Tangeri in Marocco, aveva già molti interessi in nord Africa, che Sebastiano intendeva preservare arrestando l’avanzare della presenza militare ottomana; questo giustifica almeno in parte la sua improvvida impresa in Marocco. L’occasione L’occasione di coronare le proprie aspirazioni espansionistiche si presentò quando il sultano Muhammad al-Mutawakkil corse a Lisbona per chiedere aiuto, dopo che il trono del Marocco
La leggenda del re vendicatore
era stato usurpato dallo zio Abd al-Malik con l’appoggio delle forze ottomane. Questo fu il pretesto di Don Sebastiano I per inaugurare la cosiddetta crociata portoghese, contro il minaccioso Islam, benebenedetta da Gregorio XIII e da molti ritenuta un’impresa improbabile. Lo zio, Filippo II di Spagna, chiamato “el Rey Prudente”, aveva tentato invano di dissuadere il giovane dal suo azzardato proposito; più l’impresa era ardua e più l’esaltato Sebastiano si sentiva predestinato a realizzarla: voleva guadagnarsi il titolo di “el Rey cristiano”. I posteri lo avrebbero venerato come il salvatore dell’Europa dalla minaccia musulmana.
L’impari guerra dei seguaci di due religioni Non fu facile organizzare un corpo di spedizione spedizione composto solo da truppe lusitane, lusit ane, infatti l’ambasciatore Tiepolo scriveva: «Quanto l’industria e il valore dei portoghesi gli diede, tanto gli toglie il piccolo numero delle sue genti». Sebastiano, perciò, pur essendo a capo di un Impero marittimo ricco e vasto, i cui commerci
si estendevano fino al Giappone, per compensare la scarsezza di militari portoghesi, fece assoldare volontari e mercenari tedeschi, spagnoli e italiani. 800 navi di ogni grandezza con a bordo un esercito di 20mila uomini salparono da Belém alla conquista del principato di Fez. Benché privo di esperienza e dottrina militari, Sebastiano non dubitava di essere l’uomo del destino, a cui nulla avrebbe potuto impedire di compiere la missione che gli era stata data dal Cielo. Approdato Appro dato nel porto di Arzila, Ar zila, l’esercil’eser cito cristiano si unì ai marocchini ma rocchini lealisti seguaci del re spodestato, Muhammad al-Mutawakkil, al-Mutawakkil, a cui Sebastiano, a breve, avrebbe generosamente restituito il trono. Dopo una lunga ed estenuante marcia nel deserto, i crociati arrivarono sul luogo della battaglia, Alcazarquivir, tra Tangeri e Fez. Era il 4 agosto, giorno che le cronache descrivono come il più torrido di una delle estati più calde del secolo. Ad aspettare i cristiani
Nell’ovale, il principe Giovanni Manuele d’Aviz, padre di Sebastiano, morto a soli 17 anni, due settimane prima della nascita del figlio. Sotto, lo stesso Sebastiano I del Portogallo da bambino e Giovanna d’Austria (15351573), 1573), sorella sorell a di Filippo II di Spagna e madre di Sebastiano (dipinti di Alonso Sánchez Coello).
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i r o d a d n o m / e g a m e e L / R d E ©
in armi, erano già accuratamente posizionati per lo scontro i 34 cannoni cann oni e gli almeno 50mila uomini dell’esercito islamico di Abd al-Malik. Una forza soverchiante, bene addestrata e motivata dalla fede in Allah, non meno di quanto le truppe portoghesi lo fossero dalla fede in Cristo. In poche ore i crociati europei e i loro alleati infedeli furono annientati dall’esercito islamico e dalla sua formidabile cavalleria. In quello scontro, tra polvere e clangore d’armi, perirono 8mila cristiani e altri 10mila furono fatti prigionieri. L’esoso riscatto, richiesto dagli islamici per salvare i superstiti della nobiltà portoghese catturata, prosciugò le già esigue casse della nazione che aveva finanziato la crociata. Nell’infausta jornada morirono sia i due sultani pretendenti al trono, sia Don Sebastiano, Sebastiano, il cui corpo non venne inizialmente ritrovato sul campo di battaglia, dando origine alla leggenda che il re fosse ancora vivo, tra le dune del deserto. Alcazarqui Alcaz arquivir vir fu molto più che una disgradisgra zia per il popolo lusitano: in quel giorno fatale il Portogallo, già sull’orlo della bancarotta, perdeva il suo re, la quasi totalità dei giovani aristocratic aristocraticii e tutto il suo esercito. esercito. I n ol tr e, quella sconfitta causò una profonda crisi di successione dinastica. L’erede più vicino a Sebastiano era suo zio, l’anziano cardinale Enrico, che alla fine di agosto fu mestamente incoronato sovrano del Portogallo. Debole e consumato dalla tubercolosi, il 67enne, detto
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Illustrazione che riporta la battaglia di Alcazarquivir del 1578, riportata su “Memórias para a História de Portugal” di D. B. Machado (Lisbona 1751).
I crociati europei e i loro alleati infedeli furono annientati dall’esercito islamico: una sciagura immane per il Portogallo, quel giorno stesso nacque la leggenda del ritorno del re vendicatore.
Sopra, Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V e zio di Sebastiano (opera di Tiziano Vecellio, conservata a Palazzo Pitti, Galleria Palatina). A sinistra Ferdinando I de Medici, in un’illustrazione datata 16001602. Fu lui che fece arrestare l’impostore Marco Tullio Catizone.
“O Casto”, per la sua conclamata moralità, chiese al Papa il permesso di contrarre matrimonio al fine di assicurare la continuità dinastica. Filippo II di Spagna, che già mirava ad impadronirsi del Portogallo e unire la penisola iberica, fece valere tutta la sua autorità a Roma per impedire che il Papa liberasse il re porporato dai suoi voti. Alla morte di Enrico, nell’estate del 1580, le truppe spagnole invasero il Portogallo, incontrando una dura, ma vana, resistenza tra le strade di Lisbona. Iniziava così il declino della nazione lusitana, che era riuscita a divenire il primo impero coloniale della Storia, aveva giocato un ruolo importante nell’era delle grandi esplorazioni e vantava il monopolio commerciale delle Indie Orientali, le miniere in Brasile e i domini africani. In quell’estate sciagurata per il destino del Portogallo, il più grande poeta lusitano, Luís de Camões, scrisse sul letto di morte: «Tut-
La leggenda del re vendicatore
Il calabrese che sognava di diventare re del Portogallo
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arco Tullio Catizone, nato a Magisano in provincia di Catanzaro, viveva a Messina con la moglie e una figlia. Non si conoscono il mestiere e altri elementi importanti della vita di quest’uomo, ma è certo che nel 1598 si trovava a Roma, dove inviò due mis sive, nelle quali si firmava come Don Sebastiano I con tanto di sigillo reale, dando vita alla grandiosa impostura che segnò il suo destino. Non era un caso che Catizone facesse la sua comparsa nelle vesti del redivivo sovrano portoghese proprio alla morte di Filippo II di Spagna. Spagna . Nobili e religiosi portoghesi esiliati in Italia avevano finanziato e convinto l’audace calabrese a improvvisare quella improbabile farsa, cercando in tal modo di ostacolare l’incoronazione di Filippo III, successore di Filippo II di Spagna. Nonostante all’avventuriero italiano fosse stato consegnato un libro sulle recenti cronache del Portogallo, il tentativo di frode era così ingenuo che il Catizone non riusciva a imitare nemmeno lontanamente il re scomparso; una sola cosa lo avvicinava a Sebastiano: gli spericolati sogni di grandezza. Ma è a Venezia che il Catizone conquista una certa notorietà: nella mondana città lagunare erano in molti a dare credito alla falsa identità dell’impostore. Una nobile veneta gli chiese persino di convolare a nozze, mentre un soldato italiano, che aveva combattuto al fianco di Don Sebastiano, lo rassicurava circa una certa somiglianza col defunto re. Dal momento che questa celebrità del Catizone fomentava nuovi tumulti in Portogallo a favore del presunto Don Sebastiano, l’impostore venne arrestato, ma poi non si diede corso all’accusa. Dietro questa decisione si celava lo zampino del re di Francia, Enrico IV, che, nel clima di lotta contro la Spagna per il predominio sulla penisola italiana, si era raccomandato al Doge di ritardare il processo per destabilizzare il gover no di Filippo III di Spagna. Fu così che la vicenda del “Sebastião de Veneza”,
o del “Charlatàn Calabrés”, come venne anche chiamato, fu al centro di una lotta diplomatica tra le grandi potenze dell’epoca. Liberato dal carcere e travestito da frate, Catizone approdò a Firenze e la sosta gli fu fatale: il Granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici, lo fece arrestare e sottoporre a tortura, per ingraziarsi la corte di Madrid, suscitando, però, le ire del re di Francia, che si era visto sfumare una buona pedina da utilizzare contro i rivali spagnoli. Il viceré spagnolo del Regno di Napoli reclamò il prigioniero, il quale gli fu
consegnato in catene. La commedia era durata troppo a lungo per Catizone, che durante le udienze del processo napoletano ormai si lasciava sfuggire espressioni calabresi. Furono chiamati a testimoniare addirittura la moglie, la suocera ed un cognato del Catizone, che, ormai esausto, si gettò ai piedi del viceré, confessando le proprie colpe. Evitò l’esecuzione perché la Spagna aveva interesse a tenere in vita il conclamato impostore, allo scopo di smentire per sempre tutte le leggende di un ritorno di Don Sebastiano a sconvolgere gli equilibri della penisola iberica. Condannato al remo a vita, agli inizi del 1603, arrivò in Spagna a bordo di una galea su cui scontava la pena. For-
se ubriaco, affermò a gran voce di essere Don Sebastiano ridotto in catene. Nuovamente torturato, il 27 settembre 1603, Marco Tullio Catizone, nella cittadina andalusa di Sanlúcar S anlúcar,, subì il taglio della mano destra, prima di essere impiccato e fatto a pezzi, insieme ad alcuni presunti complici e fautori. Ma la morte dell’i dell’impostore mpostore non significò la fine della leggenda, divenuta religione. Il sebastianismo, infatti, fu un movimento mistico e profetico che alimentò le speranze di una salvezza taumaturgica del Paese, modellando l’anima nazionale fino agli inizi del 1800, nonostante la restaurazione dell’indipendenza del Portogallo fosse avvenuta nel 1640. Il mito millenarista era stato suggellato dal famoso gesuita di Lisbona, António Vieira, che nel suo lili bro “La historia del futuro” predisse il ritorno di Don Sebastiano e l’avvento del Quinto Impero (dopo quello egizio, assiro, persiano e romano), un ritrovato impero portoghese, cristiano e universale, che avrebbe assicurato mille anni di pace all’i all’intera ntera umanità. Il sebastianismo ha assunto varie forme nei secoli ed ebbe un’importante influenza anche in Brasile, dove si consolidò tra i brasiliani poveri come mito di salvezza e liberazione. Le ribellioni contadine, come quella di Canudos, nella regione del Nordeste, alla fine del XIX secolo, che causò 25mila morti, erano infervorate dalla leggenda del ritorno di Don Sebastiano, che con il suo esercito avrebbe spazzato via soprusi e disuguaglianze. Ancora nel XX secolo, il poeta Fernando Pessoa definiva se stesso come un nazionalista mistico e un sebastianista razionale, dedicando i versi della raccolta di componimenti Mensagem (messaggio) alla rinascita del Portogallo quale fondamento per un futuro Impero dello spirito. Il ricordo di un’antica grandezza pervade la cultura portoghese, intrisa della saudade (nostalgia) dei giorni felici perduti per sempre. Marco Tullio Catizone a Venezia in un’illustrazione tratta dal libro “Historia de Portugal” di António Ennes (1876).
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L’occasione di coronare le aspirazioni espansionistiche espansion istiche di Sebastiano si presentò quando il sultano Muhammad al-Mutawakkil gli chiese aiuto per riprendere il trono del Marocco usurpato dai Mori.
Leonardo Donato, doge di Venezia, l’uomo che liberò Catizone, su richiesta di re Enrico IV di Francia (nell’ovale). Sotto, armatura da parata di Sebastiano I del Portogallo, conservata nell’Armeria Reale di Madrid.
ti vedranno che la mia patria mi fu così cara che fui contento di morire non solo in essa ma con essa».
Il mito di un re che non fu grande Credendo di spegnere le voci di popolo, secondo cui Sebastiano fosse ancora in vita, Filippo II ordinò una spedizione in Africa per recuperare il presunpr esunto cadavere del re. Un corpo fu trovato cosicché la solenne cerimonia funebre e la sepoltura dei nobili resti avvennero nel Monastero dos Jerónimos, a Belém, ma tutto questo non arrestò il dilagare deldelle leggende più straordinarie su Don Sebastiano, Sebastiano, fomentate in particolar modo dal clero portoghese. C’era chi sosteneva che il re avesse deciso di espiare i suoi peccati vagando in penitenza per 7 anni nel deserto, per poi [28]
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tornare a liberare il Portogallo dal giogo spagnolo, e chi lo immaginava pellegrino a Gerusalemme. Altri, invece, sostenevano che fosse prigioniero dei mori, mentre altri ancora credettero alla voce che al sovrano fosse semplicemente piaciuta la vita austera con i berberi tra le montagne: una pausa di meditazione prima dell’immancabile riscossa. Mentre inglesi, olandesi e spagnoli mettevano le mani sulle ricchezze transatlantiche di LisboLisbona, il popolo portoghese continuava a credere che il re un giorno sarebbe tornato a far risorgere la nazione. La smania di rivincita e il bisogno di liberarsi dall’umiliazione della sconfitta erano così grandi, da far credere che il giovane re, un giorno, sarebbe uscito dalle mentite spoglie che lo occultavano e sarebbe tornato alla testa del suo esercito. Del resto, era facile riconoscere il sovrano in qualcuno che gli assomigliasse e un intero popolo era ben disposto a credere a qualunque millantatore che affermasse di essere il re rediredi vivo. Fu così che presto apparvero ben quattro sedicenti “Don Sebastiano”. Nel 1603 si fece strada, con successo, l’ultimo preteso Sebastiano redivivo: il suo nome era Marco Tullio Catizone, chiamato dai portoghesi “o calabrès”, per le sue origini, destinato ad essere protagonista di un vero e proprio affare internazionale. La catastrofe subita, la frustrazione della gloria e perfino dell’identità perduta, creò nell’anima di un intero popolo il bisogno collettivo di un eroe mitico, idenidentificato nello sconfitto Don Sebastiano I, o Encoberto (il Nascosto), che sarebbe risorto per restaurare l’età aurea del Portogallo. •
DARIO MARINO
(Studioso e ricercatore di Storia e politica).
OMNIBUS News, oggetti, personaggi e curiosità dal passato testi a cura di Elena Percivaldi, storica medievista
SCOPERTO A COMO UNO STRAORDINARIO �E RICCHISSIMO� DEPOSITO DI MONETE ROMANE LO STRAORDINARIO RITROVAMENTO, COMPOSTO COMPOSTO DA CENTINAIA CENTINAI A DI SOLIDI SOLI DI AUREI, SUGGERISCE LA PRESENZA DI UNA CASSA PUBBLICA. PUBBLICA . IL DENARO, CHE RISALE AL V SECOLO, ERA STATO STATO INTERRATO ACCURATAMENTE, ACCURATAMENTE, FORSE PER P ER NASCONDERLO DA POSSIBILI POSSIBI LI PREDONI PRE DONI
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Como, nell’area degli scavi archeologici, sotto la direzione della Soprintendenza, situati all’interno del cantiere di ristrutturazione dell’ex teatro Cressoni, in via Diaz, non molto lontano dall’area del foro di Novum Comum (la Como di epoca romana), già al centro di importanti ritrovamenti, è stato rinvenuto un piccolo tesoro conservato in un recipiente in pietra ollare (prima attestazione di questa tipologia) composto da centinaia di monete auree di tarda epoca imperiale e da un lingotto d’oro. Questo farebbe pensare alla presenza di una cassa pubblica (erario), attestando la funzione pubblica dell’area. I reperti sono stati prontamente trasferiti al laboratorio di restauro del MiBAC di Milano, per essere sottoposti agli esami tecnici; qui gli archeologi, i restauratori e i numismatici stanno effettuando uno “scavo in miniatura” all’interno del recipiente, permettendo di portare alla luce il tesoretto nella sua integrità e di fornire tutte le informazioni di corredo necessarie per la comprensione del contesto. Tra Tra le prime monete estratte ci sono “solidi” aurei del peso di 4,5 g coniati duran C Ate i regni di Onorio, Valentiniano B I III, Leone I e Libio Severo (perciò M
nel V secolo d.C.), d.C.), le quali mostrano già dettagli significativi. Nei pressi del deposito sono state rinvenute anche varie epigrafi che, a un primo esame, non sembrerebbero legate all’ambito funerario, ma a quello civile: iscrizioni, quindi, che attesterebbero la valenza pubblica del luogo. Ciò, insieme alla cospicua quantità di denaro rinvenuto e al lingotto d’oro, suggerisce l’ipotesi che il tesoretto sepolto non appartenesse a un privato, che potrebbe averlo sotterrato per metterlo al riparo da possibili furti, ma che fosse, invece, un deposito pubblico. La disposizione ordinata delle monete – probabilmente contenute in rotoli di tessuto, poi deterioratosi fino a scomparire nel corso dei secoli – fa pensare che la cassa sia stata interrata per nasconderla da qualche pericolo, con l’intenzione di recuperarla in seguito. L’epoca cui risalgono i reperti era, in effetti, piuttosto turbolenta per la crescente pressione dei barbari lungo i confini imperiali: sul Lario era stanziata una flotta sotto la giurisdizione di un prefetto ( Praefectus classis Comensis) e ingenti forze militari presidiavano i confini a nord a tutela delle vie di comunicazione che attraversavano le Alpi.
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ARCHEOLOGIA
POMPEI RESTITUISCE UNA VILLA VILLA CON UNO SPETT SPET TACOLARE AFFRESCO DI PRIAPO
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urante i lavori di riprofilatura dei versanti della Regio V che affacciano sulla via del d el Vesuvio, nell’ambito del cantiere dei nuovi scavi, scavi , è emersa a Pompei una dimora di pregio con stanze finemente decorate e con all’ingresso un Priapo affrescato, in atto di pesare il membro su una bilancia. Il soggetto di Priapo, ben noto a Pompei poiché già rinvenuto nell’ingresso della Casa dei Vettii, era molto popolare per il significato apotroipaico ad esso associato: il suo gigantesco fallo era ritenuto origine della vita e gli antichi romani lo riproducevano in dipinti e oggetti che poi utilizza-
vano contro il malocchio o per auspicare prosperità, fertilità, benessere e ricchezza. La domus di via del Vesuvio ha rivelato anche altri ambienti caratterizzati da pregiate decorazioni, tra cui una parete con un bellissimo volto di donna e una stanza da letto (cubiculum ) decorata con una raffinatissima cornice superiore e due quadretti, uno con un paesaggio marino e l’altro l’altro con una natura morta affiancata da piccoli animali. Infine, sulla via, è stata riportata alla luce una fontana/ ninfeo rivestita di tessere vitree e conchiglie, che formano motivi decorativi raffinati e complessi.
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STORIA
LA PIÙ ANTICA BIBLIOTECA DEL MONDO SARÀ DIGITALIZZATA
C
ostruito tra il 548 e il 565, il Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, in Egitto, è il più antico monastero del mondo ancora in funzione ed è stato dichiarato, nel 2002, Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Al suo interno è conservata una ricchissima biblioteca che ospita circa 4 mila manoscritti in diverse lingue antiche, tra cui greco, copto, arabo, armeno, ebraico, georgiano e siriaco e anche 160 palinsesti, ossia codici raschiati e riscritti con testi diversi e più recenti. Grazie a questo tesoro, si qualifica come la seconda più grande raccolta di testi antichi al mondo, superata superata solamente dalla Biblioteca Apostolica Vaticana. Questo immenso patrimonio sarà interamente digitalizzato e reso fruibile, grazie a un accordo stretto dal Monastero con la biblioteca dell’Università della California a Los Angeles (UCLA) e altri organi. Il progetto renderà fruibili a studiosi e appassionati i testi dei manoscritti, tra cui il preziosissimo “Codice Syriac Sinaiticus” (una traduzione dei Vangeli in siriaco realizzata nel IV secolo) e il “Sinaiticus Arabicus 582”, che contiene il “Nazm al-Jauhar”, la prima cronaca araba scritta da un autore cristiano, Sa’id ibn Batriq, meglio noto come Eutichio, patriarca di Alessandria.
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r e n r e W d l o h t r e B \ s n o m m o c a i d e m i k i w i e p m o P i d o c i g o l o e h c r A o c r a P
VIE DELLA STORIA
L’OGGETTO
VIA MARZIANO CAPELLA
CEMENTO ARMATO ARMATO
I
l calcestruzzo, o cemento armato, è uno dei materiali, insieme al vetro e al ferro, che caratterizzano l’architettura moderna. In passato il calcestruzzo era già noto come materiale da costruzione – in epoca romana si chiamava betunium - ma non era “armato” di metallo: le (rare) barre di ferro o bronzo ritrovate al suo interno non sono infatti disposte in maniera consapevolmente volta a migliorarne la resistenza e a evitarne il deterioramento. Nel 1854 a Newcastle, in Inghilterra, William Wilkinson costruì un cottage rinforzandone il pavimento e il tetto di cemento inserendovi barre di acciaio e cavi metallici. Nel 1867 un giardiniere francese, Joseph Monier, nel tentativo di rinforzare i suoi vasi di fiori con una gabbia di metallo, si accorse che quest’ultimo non si staccava dal cemento; brevettò la fortuita invenzione,
ma poi all’Expo di Parigi l’ingegnere François Hennebique vide questi vasi e a sua volta sperimentò una gettata di calcestruzzo “armato” per una soletta. Questi, poco dopo, lo brevettò e lo commercializzò come metodo di costruzione antincendio in tutta Europa e in gran parte del mondo. In Italia, il brevetto fu introdotto nel 1894 grazie a una convenzione stipulata tra la Maison Hennebique e lo studio degli ingegneri Ferrero & Porcheddu, che divenne licenziataria esclusiva escl usiva per la l a penisola. L’uL’utilizzo del cemento armato, ormai già diffuso per le costruzioni civili pubbliche e private all’inizio del secolo, fu regolamentato in Italia con una legge nel 1939.
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D
i Marziano Capella si hanno pochissime notizie biografiche: si sa in pratica soltanto che nacque in Africa settentrionale alla fine del IV secolo d.C. e che fu un giurista. Il monumentale trattato, “De nuptiis Philologiae et Mercurii” (Le nozze di Filologia e Mercurio), gli ha però regalato imperitura fama. Scritto in forma di prosimetro (misto, cioè, di prosa e versi), è una sorta di enciclopedia dell’erudiziodell’erudizione classica e contiene la disamina in forma allegorica delle 7 arti liberali del Trivio, ossia Grammatica, Dialettica, Retorica, e del Quadrivio, cioè Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica. Oltre a fissare il “canone” delle conoscenze dei dotti, l’opera di Marziano Capella si impose come una delle più studiate e influenti lungo tutto il Medioevo.
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STORIA DELLE ARMI
ZWEIHÄNDER �SPADONE�
L
a Zweihänder era una spada a due mani molto grande: lunga mediamente 170 cm e con peso di 3,5 kg, ma alcuni esemplari raggiungevano i 2 m e i 7 kg. Inventata nel tardo Medioevo, probabilmente in Spagna, fu rivista nei territori gravitanti intorno al Sacro Romano Impero Germanico (Italia, Germania e Svizzera) nel XV secolo, dove era usata dai mercenari svizzeri prima e dai Lanzichenecchi poi. Questi ultimi costituivano il celebre corpo di fanteria creato dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo in opposizione proprio agli elvetici. Nel combattimento lo spadone era usato soprattutto per falciare le picche avversarie.
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OMNIBUS
MISTERI DELLA STORIA
LO SCANDALO DELLA COLLANA
I
l 31 maggio del 1786 la Francia accolse sbigottita la notizia di una sentenza clamorosa. Louis-RenéÉdouard, cardinale di Rohan, era stato assolto dal Parlamento di Parigi dall’accusa, tra le altre, di frode ai danni della Corona. Il prelato era stato vittima di un raggiro epocale e con lui era caduta in trappola anche Maria Antonietta, regina di Francia. Lo “scandalo della collana” aveva tenuto l’intero Paese col fiato sospeso per oltre un anno. Tutto Tutto era cominciato nel 1774 quando due gioiellieri parigini, Bohmer e Bassenge, si erano recati a Versailles per mostrare alla sovrana, appena salita al trono col consorte Luigi XVI, un preziosissimo collier tempestato di diamanti e pietre preziose. Nelle intenzioni iniziali, avrebbero voluto offrire il monile a Madame Du Barry, ultima favorita del re Luigi XV; il re, però, era morto di vaiolo il 10 maggio e la contessa era stata allontanata in malo modo dalla corte. Ai gioiellieri restava ora da “piazzare” una collana dallo stratosferico valore di 1 milione e
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600 mila livre, pari a circa 500 kg d’oro: quale miglior acquirente se non la chiacchieratissima Maria Antonietta, che si diceva spendesse una fortuna in abiti, parrucche e gioielli? Il re, del resto, era noto per essere un uomo debole e succube del fascino della moglie e si vociferava che assecondasse ogni suo capriccio. Nel 1778 Luigi XVI aveva accarezzato l’idea di regalare il gioiello alla regina, ma poi aveva cambiato idea; lo stesso era avvenuto 3 anni dopo quando i gioiellieri si erano ripresentati a corte, confidando stavolta nell’onda emotiva generata dalla nascita del Delfino, Luigi Giuseppe. Ma anche questa volta il gioiello rimase invenduto. invenduto. Ormai sull’orlo della bancarotta, Bohmer e Bassenge si imbatterono in una donna dal passato oscuro, tale Jeanne de Saint-Rémy, lontana discendente di Enrico II, ma appartenente a un ramo dei Valois caduto in disgrazia. La donna aveva sposato Nicholas de la Motte, membro della piccola nobiltà della Champagne che millantava il titolo di conte: i
due pensarono di sfruttare la situazione a loro vantaggio e ordirono una truffa per impossessarsi del gioiello e rifarsi una vita all’estero. Uomo ambizioso era anche il cardinale di Rohan, ex ambasciatore a Vienna. Costui cercava da tempo di entrare nelle grazie della regina, ma lei lo detestava a causa di alcuni giudizi poco lusinghieri che aveva espresso su sua madre, l’imperatrice Maria Teresa. Jeanne de SaintRèmiy de Valois contattò Rohan e gli fece credere di conoscere bene la sovrana e di poter intercedere per lui e lo invitò a scriverle una missiva che lei stessa le avrebbe recapitato. La risposta (naturalmente falsa) non si fece attendere: così tra i due nacque una focosa (ma finta) corrispondenza che comprese il versamento, da parte del cardinale, di cospicue somme di denaro, destinate nelle intenzioni a sostenere le opere di carità della regina, ma in realtà puntualmente intascate dalla spregiudicata Jeanne. La liaison sfociò in un appuntamento, organizzato dal-
Il “Cilindro di Ciro” IN 5 PAROLE
1
ISCRIZIONE
la donna con la regia del marito, nel giardino di Versailles: in una notte di agosto del 1784 una prostituta, Nicole Leguay D’Oliva, travestita da Maria Antonietta, incontrò l’estasiato cardinale, che ormai completamente alla mercé della diabolica coppia accettò di fare da intermediario, per conto della regina, nell’acquisto della collana. Il 21 gennaio 1785 Jeanne annunciò ai gioiellieri gi oiellieri l’affare, ma ma il suo piano era prendere il monile e fuggire col marito a Londra. Ai due orefici presentò un contratto sottoscritto con la firma falsa di Maria Antonietta (opera, come le lettere, di un certo Rétaux de Villette); fu poi il cardinale a consegnare il monile a La Motte il quale riparò in tutta fretta a Londra dove smembrò la collana e vendette i diamanti. La truffa venne alla luce quando Bohmer, per il pagamento, si rivolse direttamente alla sovrana che si proclamò all’oscuro di tutto. L’inchiesta che ne seguì portò all’arresto del cardinale, di Jeanne e degli altri complici. Il processo assolse Rohan e riconobbe Jeanne colpevole: fu flagellata, marchiata e rinchiusa alla Salpêtrière. La Motte fu condannato in contumacia, al carcere a vita, Villette venne bandito e Nicole, la prostituta, fu dichiarata innocente. Chi ne uscì peggio fu però la regina: nonostante fosse emerso che era stata vittima di un raggiro, la sua reputazione rimase macchiata per sempre. Molti si convinsero che Maria Antonietta avesse usato Jeanne per rovinare l’odiato l’odiato Rohan; la contessa, del resto, accreditò questa versione e nelle memorie che scrisse a Londra dopo essere riuscita a fuggire di prigione (con la complicità della corte, si vociferò) accusò esplicitamente la sovrana. Certo è che le numerose ombre della vicenda, alcune delle quali ancora oggi presenti, contribuirono a screditare Maria Antonietta, ormai impopo-
Rinvenuto dall’archeologo Hormuz Rassam, nel 1878, durante gli scavi del tempio di Marduk a Babilonia, il “Cilindro di Ciro” è un blocco di argilla con un’iscrizione in accadico cuneiforme con la quale il sovrano persiano Ciro II il Grande, che conquistò la città nel 539 a.C., racconta, rivendica e legittima la sua impresa.
2
LIBERALITA’
Conservato al British Museum, il cilindro era stato interrato sotto le mura di Babilonia come un deposito di fondazione, secondo una tradizione tradizione millenaria mesopotamica che voleva il nuovo re rivolgersi al suo popolo facendo professione di liberalità.
in quanto dettato dal re persiano, l’embrione di quell’atteggiamento di rispetto per le religioni e la libertà delle persone che sarà alla base del moderno stato di diritto.
5
NAZIONI UNITE
Per questa ragione dagli anni Settanta del Novecento il “Cilindro di Ciro” ha assunto il valore simbolico di una prima enunciazione dei “Diritti dell’uomo”: una copia fedele è infatti ancora oggi conservata alle Nazioni Unite.
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3
ANTICIPAZIONE
Sempre a Babilonia è stato ritrovato anche un cilindro di Nabonide, il re deposto dallo stesso Ciro, che nelle sue “dichiarazioni” anticipa peraltro quelle del successore.
4
DIRITTO
Con riferimento alla seconda parte dell’iscrizione, dell’iscrizione, alcuni studiosi hanno identificato
lare in una Francia economicamente prostrata e ormai avviata verso la rivoluzione.
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NON È VERO CHE...
SANTI E FESTIVIT FESTIVITÀ À
LA LINGUA ETRUSCA È INCOMPRENSIBILE
OGNISSANTI E COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI
U
no dei presunti enigmi legato agli Etruschi è dato dalla lingua, nella percezione comune misteriosa e indecifrabile. L’etrusco è attestato da circa 10 mila iscrizioni, tra cui il Liber Linteus – calendario rituale realizzato su un drappo di lino poi riutilizzato per avvolgere una mummia – e la Tavola di Cortona. L’abbondanza di documenti e il confronto con le altre lingue antiche ha permesso di stabilire la fonetica dell’etrusco, che quindi è perfettamente leggibile così come il suo alfabeto. La difficoltà per filologi e studiosi sta nel significato esatto dei testi. La
lingua, infatti, appare genealogicamente isolata dagli altri ceppi e si è estinta senza lasciare “discendenti”. Di molti vocaboli manca la possibilità di un confronto con parole note di altre lingue, utile a svelarne il significato; non aiuta nemmeno il silenzio delle fonti romane, che poco hanno conservato. cons ervato. Infine, la maggior parte dei testi sopravvissuti riguarda la sfera funeraria e rituale e non gli aspetti quotidiani. Perciò, si è potuto comprendere, al massimo, il senso delle iscrizioni in modo sommario e forse il loro contesto, senza giungere a una precisa traduzione.
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PERCHÉ SI DICE COSÌ
VENI, VIDI, VICI
L
a locuzione “Veni, vidi, vici” (Venni, vidi, vinsi) è una delle frasi più lapidarie, sintetiche ed efficaci della lingua latina. Fu coniata da Giulio Cesare, annunciando al Senato di Roma la vittoria riportata il 2 agosto 47 a.C. contro Farnace II del Ponto. Plutarco nella “Vita di Cesare” riporta la vicenda e le parole del generale: «Subito marciò contro di lui [Farnace] con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito. Nell’annunziare a Roma la straordinaria rapidità di questa spedizione, scrisse al suo amico Mazio tre sole parole: “Veni, vidi, vici”». Cesare la fece scolpire su un’iscrizione che portò con sé durante il trionfo a Roma. L’estrema sintesi (sua caratteristica come scrittore) e la grande icasticità della frase enfatizzano non tanto la vittoria in sé, quanto la rapidità d’azione del condottiero, dote di cui andava fiero.
L
e solennità di Ognissanti (1º novembre) e dei Defunti (2 novembre) affondano le loro radici nell’età precristiana. In quel periodo le popolazioni pagane celebravano un momento particolare dell’anno in cui, terminate le ritualità legate ai raccolti, ci si preparava all’inverno. I giorni ormai accorciatisi segnavano l’inizio del periodo “buio” dell’anno; la lotta tra luce e tenebre, vinta apparentemente da queste ultime, ultime, era associata sul piano della spiritualità al mondo degli inferi e dei defunti. Con l’avvento del Cristianesimo, l’esistenza di questo “cancello” tra due mondi continuò ad essere percepita finché la Chiesa non istituì le due ricorrenze ancora oggi celebrate: celebrate: Ognissanti e la Commemorazione dei defunti. Quest’ultima introdotta per prima nei monasteri benedettini da Odilone, abate di Cluny dal 994 al 1049, fu adottata ufficialment uf ficialmentee dalla liturgia romana a partire dal 1300.
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IL FRANCOBOLLO
ORIGINE DELLE PAROLE
ANODINO
60 ANNI DELLA FIAT
L
I
a parola, di origine greca, ha due significati: uno medico e uno più esteso. Il primo indica un farmaco in grado di lenire il dolore ( anodynos è composto da an “senza” e ques to deriva, definiodyne “dolore”). Il secondo, che da questo sce persone amorfe e prive di carattere: carattere: il vocabolo identifica quindi anche chi reagisce in maniera sonnolenta e intorpidita, quasi fosse sedato, così come chi non prende posizione in una discussione o in un dibattito, standosene in silenzio o rispondendo in maniera ambigua.
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l francobollo è stato emesso per celebrare i 60 anni della Fiat 500, la celebre e iconica vettura che costituisce uno degli emblemi del made in Italy. È stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, col valore di 0,95 € e mostra mos tra il classico profilo della Fiat 500 “storica”, sovrapposto a quello della Fiat 500 di oggi, su sfondo blu; i caratteri di stampa riproducono quelli delle affissioni pubblicitarie del 1957.•
Personaggi
PITIGRILLI LO SCANDALO DELL’INTELLIGENZA Negli anni Trenta, in pieno regime, una figura insolita si impose all’attenzione di tutti, destando scandalo e ammirazione insieme. Re dei paradossi, nemico giurato dei “cretini” (era lui che decideva chi appartenesse a questa categoria), fu criticato e osannato. Dalla sua penna caustica scaturirono battute immortali
«N
on datemi consigli, so sbagliare da me. La verità è una menzogna che dura. Se il cammello potesse parlare, darebbe del gobbo al dromedario. L’uomo comune ragiona, il saggio tace, il fesso discute. Capisco il bacio al lebbroso, ma non la stretta di mano al cretino. Si nasce incendiari e si finisce pompieri. Non esistono donne belle, esistono donne nuove.» Questo è solo un piccolo campione del vasto repertorio di battute con cui Pitigrilli, al secolo Dino Segre, era solito infarcire i suoi racconti. Battute costantemente copiate, rubate, distorte, utilizzate per fare bella figura nei salotti buoni senza rivelarne l’autore. Il nome di Pitigrilli probabilmente non dice granché ai giovani d’oggi. Ma sicuramente i loro nonni ricorderanno almeno i titoli di alcuni suoi romanzi demistificatori: “L’Esperimento di Pott”, “Cocaina”, “La cintura di castità”, “Oltraggio al pudore”, “Dolicocefala bionda”… o la testata della celebre rivista letteraria che lanciò e diresse per molti anni, “Le Grandi Firme”, con le mitimitiche figure femminili in copertina disegnate da Gino Boccasile (le “Signorine Grandi Firme”).
Un virtuoso del paradosso Chi era dunque Pitigrilli? Fu senza dubbio lo scrittore italiano più popolare e più tradotto all’estero negli anni Trenta Trenta del secolo scorso. Umorista sferzante, dissacratore, provocatorio, anticipatore, scettico, dalla maschera a volte tragica, Pitigrilli era amato da un pubblico vastissimo e trasversale (fascisti e non fascisti), fascisti), sempre in attesa della pubblicazione dei suoi libri che registravano tirature da capogiro per l’epoca. Probabilmente proprio per questo suo eclatante successo lo scrittore era detestato dalla critica ufficiale, dagli ortodossi intellettuali del regime, dagli invidiosi colleghi che potevano solo sognare le sue tirature, tut-
Il vero nome di Pitigrilli era Dino Segre, trasparentemente ebreo, scomodo da portare in tempi di ostracismo razziale. Si mantenne in equilibrio tra successo professionale e antipatia del regime. Dopo la condanna al confino da parte dei fascisti sperimentò anche l’avversione dell’Italia antifascista, che nel Dopoguerra lo costrinse a emigrare.
Due copertine di pubblicazioni dirette dal giornalista (altre sono a pag. 37).
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Personaggi
Piti si teneva lontano dalla politica: non poteva schierarsi perché, stando alle sue parole: «Al cretino del mio partito avrei sempre preferito l’intelligente del partito avverso».
ti uniti nel cercare di sminuirne i meriti letterari e di screditarlo sul piano personale. Pitigrilli fu anche un brillante e ricercato conferenziere, invitato dalle più grandi Università europee dove si esercitava a sviscerare, con la sua graffiante ironia, concetti complessi come “l’assurdo” o il “paradosso” («Il paradosso è un’elegante cravatta che a tirarla troppo diventa un nodo scorsoio»). Piti, come veniva familiarmente familiarmente chiamato dai suoi pochi amici e dai moltissimi ammiratori, si teneva lontano dalla mischia politica, dove non avrebbe potuto schierarsi ed impegnarsi perché, stando alle sue parole: «Al cretino del mio partito avrei sempre preferito l’intelligente del partito avverso». Inevitabilmente si guadagnò dai due schieramenti politici epiteti contrastanti e paradossali: fascista disprezzato disprezzato dai fascisti, antifascista rigettato dagli antifascisti, ebreo poco amato dal mondo ebraico, ateo rispettato dai cattolici, cattolico guardato con sospetto dalla gerarchia ecclesiastica. Pittigrilli non fu solo un paradosso letterario, ma lo fu anche sul piano personale. Un vero outsider, un personaggio di difficile difficile [36]
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Sopra Arturo Bocchini, comandante dell’Ovra, la famigerata polizia politica fascista nella quale militò Pitigrilli, per ingraziarsi il regime. Sotto, una vignetta satirica sull’Ovra.
decifrazione e catalogazione. Pitigrilli – pseudonimo ispirato dal cappotto indossato dalla madre, fatto con pelli di petit gris (piccolo scoiattolo) – aprì per la prima volta i suoi occhi critici sul mondo a Torino, il 9 maggio 1893; di origine ebraica, si impose subito per la sua mente brillante: iniziò giovanissimo una sfasfa villante carriera giornalistica presso importanti testate, dove non mancò di farsi notare per i suoi atteggiamenti anticonformisti. anticonformisti. Caustico e irriverente, arrivò addirittura a punzecchiare l’icona letteraria del momento: Gabriele D’Annunzio. Inviato infatti dal quotidiano “L’Epoca” a Fiume nel 1919, sulla scia dell’impresa del Vate che rivendicava l’italianità l’italianità della città, il giovane Piti scrisse un articolo provocatorio e dissacrante fin dal titolo: “Fiume, città asiatica”. Ecco le sue prime impressioni: «Giunto nella città trovai gente che parlava una strana lingua. Non uno che sapesse l’italiano. Qualche rudere qua e là, qualche impronta lasciata nei secoli dalle nostre repubbliche marinare, qualche leone di San Marco. Non vidi molta italianità, ma percepii il colore dell’Oriente: mercanti di tappeti levantini, sigaraie da strada, profumo di cocomeri e di uva moscata, venditori di belzuino, di mirra e di incenso». Articolo che naturalmente suscitò lo stupefatto risentimento di D’Annunzio ma anche un immenso scalpore nel clima fortemente nazionalista dell’epoca, in cui il Vate era considerato un eroe. Tanto che la redazione del giornale fu più volte perquisita dalla polizia e lo stesso D’Annunzio sfidò a duello lo sfottente giornalista. Accusato spesso di essere un corruttore c orruttore della società, lo scrittore torinese rispondeva: «Non sono un disgregatore della morale, sono il fotografo della morale disgregata». Le sue uscite estemporanee, la sua originalità letteraria, la sua libertà di pensiero, unica nella sua epoca, la frizzante conversazione fatta di beffardi aforismi, non gli valsero certo la simpatia del conformista regime fascista, che negli anni 1926/1927 mise in atto contro di lui un’isterica campagna diffamatoria, accusandolo di essere uno scritto-
Pitigrilli, lo scandalo dell’intelligenza
A Buenos Aires Piti ebbe successo scrivendo una rubrica, “Peperoni Dolci”, sul quotidiano Razón, che raddoppiò le vendite. E poi divenne la penna di fiducia di Evita Perón.
re anti italiano, un maniaco sessuale, un pornografo da salotto, un cocainomane pederasta e così via. In realtà Pitigrilli si limitava ad osservare, con divertita irriverenza, la società ipocrita e bigotta dell’epoca, burlandosi della sua retorica e delle sue viltà. Inviato da “L’Epoca” come corrispondencorrispondente da Parigi a soli 27 anni, con la sua dichiarata ammirazione per la cultura francese, laica, cosmopolita e anticonformista, finì per alienarsi la considerazione anche della Chiesa cattolica che mise i suoi libri all’indice. Ma questo non impedì che i suoi scritti continuassero a passare tranquillamente di mano in mano.
La vergogna di militare nell’Ovra Piti, dunque, veniva visto universalmente – con co n simpatia o con astio – come uno scrittore “non allineato”. Così nessuno si meravigliò quando, l’11 gennaio 1928, fu arrestato per «offese alla persona di Mussolini; attività politica contraria alle istituzioni e al regime; immoralità privata e diffusa a mezzo di pubblicazioni»! Tuttavia, appena 13 giorni dopo, fu rilasciato e la sua innocenza riconosciuta. Ma che cos’era succes-
so? Piti era stato vittima di una congiura ordita ai suoi danni da una delle scrittrici e poetesse più note di quegli anni: Amalia Guglielminetti. Amante storica di Pitigrilli, Pitigr illi, sua protettrice protettric e nel mondo letterario, dove l’aveva introdotto quando lui era alle prime armi come giornalista e lei invece era già un personaggio affermato, AmaAmalia aveva voluto crudelmente vendicarsi per essere stata abbandonata dal suo molto più giovane “efebo biondo”. Fece così pubblicare alcune lettere a lei indirizzate da Pitigrilli, contraffatte con l’aggiunta di pesanti giudizi contro la persona di Mussolini e il suo regime. Il tutto realizzato con la complicità di due tipografi e con la regia del console della Milizia, Pietro Brandimarte, suo nuovo amante. Venuta fuori la verità, Amalia Guglielminetti fu dichiarata semi inferma di mente e il console Brandimarte condanna-
Le riviste di Pitigrilli
Nella foto sotto Evita Perón, nume tutelare di Pitigrilli durante il periodo del suo soggiorno argentino, dove ebbe un successo anche maggiore che in patria. Lo scrittore ebbe sempre a che fare con regimi politici estremi: l’Argentina dell’epoca, tenuta al guinzaglio dal popolarissimo Juan Perón, aveva una forte connotazione di destra.
Il 1° luglio 1924 Pitigrilli fondò una leggendaria testata, “le Grandi Firme”, che contò tra i suoi collaboratori nomi di grandissimo prestigio. Vi parteciparono, tra gli altri, Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro, Achille Campanile, Roberto Bracco, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Alfredo Panzini. Questo l’originale incipit della nuova rivista: «Non miriamo a rigenerare gli uomini, fustigare i tempi, segnare nuovi indirizzi alla civiltà, per mezzo di racconti morali. La letteratura non ha funzion funzionee depuratrice e noi non siamo missionari chiamati a convertire il traviato lettore, né trappisti che ogni quarto d’ora lo riconducano a meditare sulla morte inevitabile. Escluderemo tutto ciò che può avere anche un vago sapore politico. I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura». Nonostante la campagna denigratoria dell’organo del partito fascista “Il Popolo d’Italia”, che definì “Le Grandi Firme” «un ammasso di letame», la rivista ebbe un immenso successo popolare, oltre ogni aspettativa, tanto da indurre Pitigrilli a fare il bis. L’anno L’anno dopo, infatti, infat ti, diede vita ad una rivista dedicata al teatro e alla commedia dal titolo “Il Dramma”, che pure registrò una valanga di consensi. Incoraggiato da queste favorevoli prospettive editoriali, nel 1926 Pitigrilli fondò una terza rivista di narrativa, “le Grandi Novelle”, che però affidò alla direzione di Anselmo Jona.
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Personaggi
to ad alcuni mesi di reclusione. Brandimarte, un duro della Milizia, benché condannato, giurò a Pitigrilli che comunque avrebbe vendicato l’onta subita. Quel “comunque” “comunque” inquietò non poco Pitigrilli, che sapeva quanto potesse essere pericoloso avere contro la Milizia. Fu quello il momento in cui decise di “mettersi al sicuro”, chiedendo – o accettando - di far parte dell’Ovra dal suo esilio dorato di Parigi, dove era stato nuovamente inviato dal suo giornale. Agli inizi degli degl i anni Trenta, Trenta , dunque, dunque , Dino Segre, in arte Pitigrilli, divenne agente dell’Ovra, iscritto nel segretissimo quadernone di Arturo Bocchini (il capo della Polizia) verosimilmente non per denaro, non per motivi ideologici , ma piuttosto per ragioni di sicurezza personale (“per paura” diranno i suoi denigratori) e per poter continuare a svolgere il suo lavoro in tutta tranquillità. Chi in effetti avrebbe più osato dare fastidio all’agente numero 373, qualunque cosa avesse scritto? Questa almeno è la tesi per lo più largamente accettata per giustificare, almeno in parte, l’appartenenza di Piti alla famigerata polizia segreta fascista. «Se Pitigirlli», scrisse al riguardo Indro Montanelli, «fece la spia (e su questo purtroppo sembra che non ci siano più dubbi) lo fece più per proteggere se stesso che per danneggiare altri». Una macchia sgradevole, comunque, sul curriculum di un uomo brillante che aveva il coraggio delle sue idee. Quello che più inquieta riguardo a questa pagina poco onorevole della sua vita, sono gli effetti della sua collaborazione coi “cattivi” vale a dire gli effetti concreti delle sue segnalazioni. Secondo alcuni furono effetti devastanti a danno degli esponenti dell’antifascismo riparati in Francia e delle segrete cellule di oppositori al regime attive a Torino. Secondo altri, invece, le “spiate” di Piti ebbero una portata assai limitata, grazie alla poca attendibilità dei rapporti informativi pitigrilliani, spesso infarciti di episodi inventati di sana pianta.
Mai ci fu conferenza più brillante e apprezzata Piti del resto era famoso per le sue “invenzioni” letterarie. Ne diede prova fin dall’inizio della carriera, quando il direttore di “L’Epoca” lo incaricò di scrivere il resoconto della conferenza che il senatore Morello avrebbe tenuto al Lyceum Femminile sulle bellezze di Roma. In realtà il giovane cronista, in tutt’altre faccende affaccendato, disertò la conferenza. Non seppe che era sta[38]
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Amalia Guglielminetti è stata una scrittrice di grande successo e amante storica di Pitigrilli. Sotto, il suo complice Pietro Brandimarte, console della Milizia: i due furono protagonisti di un “affaire” montato a danno di Pitigrilli, ma vennero riconosciuti colpevoli e condannati.
Indro Montanelli scrisse di lui: «Se davvero avesse fatto l’informatore dell’Ovra, anch’io sarei finito al confino. Resto convinto che Pitigrilli non abbia mai fatto male ad una mosca».
ta annullata per un malore che aveva colpito il conferenziere all’ultimo momento. Ignaro di questo contrattempo, Pitigrilli scrisse dunque il suo “pezzo”, con il consueto stile scoppiettante, facendo gli scontati elogi al conferenziere e citando anche i nomi delle signore della buona società, sempre presenti in eventi del genere. L’articolo L’articolo andò prontamente in stampa. Il giorno successivo i lettori del giornale apprezzarono un palpitante articolo, scritto con sincera partecipazione, che descriveva le fasi di una conferenza mai avvenuta. Rimane aperto il dilemma: fu una spia cinica e spietata o un astuto propalatore di bugie innocue? Secondo l’autorevole opinione dello storico Mimmo Franzinelli, PitigrilPitigrilli fu «un maestro nell’arte della delazione», mentre il non meno attendibile e autorevole Indro Montanelli scrisse di lui: «Se davvero avesse fatto l’informatore dell’Ovra, anch’io sarei finito al confino. Resto convinto che Pitigrilli, anche se era negli elenchi dell’Ovra, non abbia mai fatto male ad una mosca». Sta di fatto che nell’ottobre 1938 Pitigrilli fu “dimesso” dall’Ovra. Forse perché
Pitigrilli, lo scandalo dell’intelligenza
Alcune sue battute «Con nessuno osiamo essere impudicamente bugiardi come con noi stessi». «In materia d’amore tutti sappiamo scrivere, ma nessuno sa leggere». le ggere». «Quando si è vissuto contro corrente, la più bella morte è seguire la corrente, e la più intelligente eccentricità per un uomo eccentrico è morire nella normalità». «L’intelligenza nelle donne è una anomalia che si incontra eccezionalmente come l’albinismo, il mancinismo, l’ermafroditismo, la polidattilia». «Agli scrittori sono più utili i nemici che gli amici, perché gli amici si fanno regalare una copia del suo libro per dirne bene, mentre i nemici, per dirne male, la comprano». «Ci preoccupiamo di ammazzare il tempo, senza accorgerci che il tempo ammazza noi». «Se un giornalista dovesse scrivere solamente le cose alle quali crede, i giornali uscirebbero in bianco». «Firenze è una città per sposi; Venezia, per amanti; Torino, per i vecchi coniugi che non hanno più nulla da dirsi».
non dava risultati concreti o forse perché l’antisemitismo italiano cominciava a farsi sentire e non era concepibile servirsi della collaborazione di uno scrittore ebreo. Tutti i suoi libri furono ritiriti rati dalle librerie, tutte le sue opere sequestrate nell’ambito della dilagante epurazione antisemita. Allo scoppio della guerra, il regime spedì il “fascista” Pitigrilli al confino a Uscio, dove rimase tranquillo in attesa degli eventi. Dopo il conflitto lo scrittore ebreo perseguitato dal fascismo fu costretto dall’Italia antifasciantifasci sta ad emigrare in Argentina, per poter continuare ad esercitare la propria professione. Tutto in perfetto accordo con i paradossi pitigrilliani. A Buenos Bu enos Aires Piti ebbe eb be un successo straordinario, scrivendo una rubrica, “Peperoni Dolci”, su uno dei più grandi quotidiani argentini, la “Razón”, che grazie al suo successo, addirittura raddoppiò le vendite. E così l’irriducibile Piti divenne la penna di fiducia di Evita Perón. Dopo circa dieci anni di permanenza in Sud America, Pitigrilli decise di riprendere riprende re contat cont at-to con la realtà italiana, anche se fissò la sua residenza abituale a Parigi. Ma il suo passato di agente dell’Ovra continuava a pesare sul presente. Ricevette sempre meno proposte di collaborazione, fu fatto il vuoto giornalistico intorno a lui e continuò a scrivere libri per la sua storica casa editrice, editrice, la Sonzogno. Negli ultimi anni della sua vita Pitigrilli si avvicinò, dopo aver seguito un frastagliato e sofferto percorso interiore, alla religione: si convertì al cattolicesimo. Così il più irriverente degli scrittori italiani del Novecento, divenne un fervente e praticante cattolico. Ma giunse al traguardo della fede a modo suo, alquanto alquanto originale, atipico, attraverso cioè lo spiritismo, come raccontò nel suo libro “La piscina di Siloe”, che si dice sia stato letto con grande interesse da Pio XII. La sua vita finì nel 1975 in maniera, ancora una volta, paradossale: da autore di libri messi all’indice dal Vaticano divenne editorialista del settimanale il “Messaggero di Sant’Antonio”! Del resto, non aveva detto lui stesso che «si nasce incendiari incendiari e si finisce pompieri»?
A sinistra, Pitigrilli con il suo cane. Sopra, la prima pagina del famoso periodico di Pitigrilli, che conteneva novelle dei più illustri scrittori dell’epoca.
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DOMENICO VECCHIONI
(Ambasciatore e storico).
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Seconda guerra mondiale
IL LEONE CHE NON
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L’invasione della Gran Bretagna era nei piani di Hitler Hitle r, che vedeva più quel Paese come partner del futuro che come nemico del presente. Occorreva sottometterla, per farne una repubblica tipo Vichy. I piani dell’Operazione Leone Marino erano già pronti, tutto stava per compiersi…
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el novembre del 1939 il Führer era convinto che gli inglesi sarebbero scesi a trattative tratt ative e avrebbero riconosciuto il suo dominio sull’Europa in cambio di restare fuori dal conflitto. Tuttavia, al di là della Manica, Churchill metteva in guardia il Parlamento dalla minaccia del Reich: «Si dice che Hitler abbia un piano di invasione delle Isole britanniche [...] in tal caso difenderemo la nostra Isola a qualunque costo, ci batteremo sulle spiagge, sulle teste di sbarco, nei campi e per le vie cittadine citt adine». ». Le intenzioni del Primo Ministro britannico ispirarono dopo poco tempo un piano di difesa dell’isola sviluppato su tre linee: una zona trincerata lungo le coste, un secondo sbarramento con il presidio della Guardia Nazionale (che aveva già raggiunto 2 milioni di arruolati) che si stendeva in profondità nell’Inghilterra meridionale a protezione di Londra e dei grandi centri industriali e, dietro questa linea, le riserve principali pronte per la controffensiva vera e propria. Churchill e i suoi collaboratori ritenevano che i punti di sbarco potessero essere 15 o 20, ma la convinzione prevalente era che l’invasione sarebbe iniziata sulla costa orientale, più precisamente sull’estuario dell’Humber, appoggiata da un lancio di paracadutisti di di vasta portata sull’Irlanda. Hitler invece tentennava di fronte a un rapporto del generale Jodl, a capo dell’esercito, intitolato “La continuazione della guerra contro la Gran Bretagna”. Secondo Jodl, c’erano tre possibilità per ingoiare anche l’Inghilterra oltre al resto d’Europa: blocco economico, attacchi terroristici contro i centri abitati o direttamente lo sbarco. Quest’ultima mossa sarebbe stata possibile, però, solo se la Germania si fosse assicurata prima la supremazia aerea.
Fotogramma tratto da un filmato di propaganda durante una esercitazione compiuta nelle acque di Ostenda: alcuni generali assistono alla sistemazione di un pezzo d’artiglieria su una zattera. Sotto, il generale Alfred Jodl, capo di Stato Maggiore dell’esercito tedesco (in secondo piano il generale Heinz Guderian, comandante delle forze corazzate).
Stavano facendo i conti senza l’oste (Churchill) Nonostante le esitazioni, nel giugno 1940, quando ormai Belgio, Olanda e Francia erano nazioni nazioni sconfitte e le forze fresche che la Gran Bretagna aveva mandato sul continente, per contrastare l’impetuoso dilagare delle armate del Terzo Reich in Europa erano state decimate, prima della drammatica evacuazione di Dunkerque, fra gli ufficiali della Wehrmacht circolava già una “lista nera” di cittadini britannici o rifugiati da arrestare non appena i nazisti avessero messo piede sul suolo inglese. E in quel momento tanta sicurezza da parte tedesca non era affatto infondata. Al numero numer o 49 dell’e del l’elen lenco co delle del le persone pers one da eliminare sul suolo britannico (una posizione in classifica poco lusinghiera), c’era il nome di Churchill Winston Spencer, il Primo MiniBBC HISTORY
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Seconda guerra mondiale
«Si dice che Hitler abbia un piano di invasione delle Isole britanniche [...] in tal caso difenderemo la nostra isola a qualunque costo, ci batteremo sulle spiagge, sulle teste di sbarco, nei campi e per le vie cittadine». Winston Churchill
stro. La lista sommava in tutto circa 2.700 persone, tra intellettuali, politici, artisti, ma anche ex-simpatizzanti del partito nazista (non pochi) che avevano cambiato bandiera. Fra i nomi più impensabili, figurava anche Lord Baden-Powell, fondatore dei boy-scouts. Un piano dettagliato nei minimi particolari, discusso e approvato dal Führer. Non erano previsti ripensamenti. Aveva già un nome: Operazione Leone Marino (Unternehmen Seelöwe). Il comando supremo delle forze tedesche prevedeva di occupare con 13 divisioni le basi della Manica quale prima ondata: in totale si trattava di trasferire sul suolo inglese 90mila uomini e 650 carri armati. 6 divisioni di fanteria si sarebbero dovute imbarcare nella zona del passo di Calais per invadere la costa fra Ramsgate e Bexhill; altre 4 sarebbero partite dalla zona di Le Havre e sbarcate fra Brighton e l’isola di Wight; le ultime 3 sarebbero salpate dalla penisola di Cherbourg [42]
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Durante un’esercitazione di sbarco compiuta dalle forze tedesche, è stato utilizzato un carro armato francese R-35. Le prede belliche giudicate utili venivano rapidamente adattate e utilizzate.
per approdare alla baia di Lyme, fra Weymouth e Lyme Regis. Due squadre aeree avrebbero lanciato paracadutisti a Eastbourne, nelle campagne fra Brighton e Burgess Hill e nelle zone di Ashford e Hastings. Entro tre giorni, g iorni, a questa prima ondata sarebbero seguite 6 divisioni divisioni di carri armati, 3 motorizzate e 2 aerotrasportate, per un totale di circa 170mila uomini con 34mila automezzi e 57mila cavalli. Nella prima fase erano previsti l’isolamento della città di Bristol e la creazione di una linea fra Portsmouth e Margate per il controllo dei porti di Gravesend (estuario del Tamigi) e Southampton. Come obiettivo secondario, da controllare con le riserve, i tedeschi avrebbero isolato il Galles. Grazie alle notizie avute dal servizio segreto da parte della resistenza francese e belga, gli inglesi prevedevano un corpo di sbarco di circa 100mila tedeschi. I preparativi per “accoglierli” si svolgevano ininterrottamente: nelle città principali venivano innalzati centinaia di palloni aerostatici ancorati al terreno per impedire impedire voli nemici a bassa quota; sulle coste orientali e meridionali il governo requisì un migliaio di alberghi con un preavviso di poche ore: tutto questo territorio fu dichiarato “zona di difesa” e non vi fu permesso l’accesso a estranei; sulle spiagge si costruirono nidi di di mitragliatrici e torrette di avvistamento. avvist amento.
Il leone che non ruggì
I possibili punti di sbarco furono sbarrati da ostacoli in cemento armato e metallo, spuntoni subacquei e campi minati. Nei porti minori, i moli furono smantellati; in quelli maggiori vennero preparate cariche di esplosivo per farli saltasalt are in aria pur di non lasciarli al nemico. Le principali strade che collegavano la zona costiera con l’interno furono costellate di bunker. In mancanza di batterie d’artiglieria anticarro furono poste lungo i bordi delle vie file di bidoni di benzina che, all’arrivo dei tedeschi, sarebbero stati fatti esplodere con lanci di bombe a mano. Dalle strade fu tolta o falsificata ogni
I carri armati anfibi di Hitler
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er attuare l’Operazione Leone Marino la Wehrmacht aveva sperimentato dei carri armati in grado di muoversi anche in acqua. Il primo fu lo Schwimmpanzer II, una versione modificata per operazioni anfibie del Panzer II da 8,9 tonnellate tonnellate,, dotata di galleggianti laterali e di eliche. Lo Schwimmpanzer II viaggiava a 5,7 km/h in acqua. Un anello di gomma gonfiabile tra lo scafo e la torretta lo rendeva a tenuta stagna. 52 di questi carri furono approntati prima della cancellazione dell’Operazione Leone Marino. Il secondo fu il Tauchpanzer, cioè carro armato da guado profondo, che che era un carro medio PzKpfw III standard, reso impermeabile sigillando tutte le feritoie, i portelli e le prese d’aria con nastro adesivo, mastice o gomma. Divenuto a tenuta stagna, il carro si muoveva sul fondo, ma una volta giunto a riva, tutti i sigilli e le guarnizioni sarebbero stati spazzati via tramite cavi esplosivi, consentendo il normale funzionamento in combattimento. L’aria per l’equipaggio e per il motore, durante la marcia sul fondo, era aspirata attraverso uno snorkel lungo 18 m, mantenuto in superficie da una boa. (Nella foto uno dei carri, chiamati Tauchpanzer, che potevano essere messi in mare in prossimità della costa e “camminare” sott’acqua).
tipo di segnaletica. Lungo le autostrade del Surrey furono disposti sbarramenti per impedire l’atterraggio di alianti. Il Primo Ministro inoltre aveva ordinato la creazione di reparti d’assalto chiamati Leopards (poi più genericamente Commandos): erano 20mila uomini con l’incarico di presidiare i 375 punti più “sensibili” del paese. In Germania, Wehrmacht e SS stabilivano già i piani per governare la Gran Bretagna una volta che fosse stata occupata: un’ordinanza prevedeva anche la costituzione di 3 campi di concentramento sul territorio inglese e 8 sul continente, ognuno capace di incarcerare 10mila detenuti; per la loro stessa costruzione, si prevedeva di arrivare a internare anche tutta la popolazione maschile inglese fra i 17 e i 45 anni, se necessario.
Sopra, ricostruzione grafica di una delle diverse versioni del piano Seelöwe (Leone Marino), per l’invasione dell’Inghilterra da parte tedesca, prevista per il secondo semestre del 1940. Sotto, un trattore semicingolato SdKfz 8 compie una prova di imbarco e sbarco a Boulogne, in Francia.
Un piano grandioso per forze insufficienti Questi preparativi di difesa sopravvalutavano le possibilità tedesche: già l’indomani dell’ultima offerta di pace agli inglesi, sdegnosamente respinta dal governo di Churchil, l’am-
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Seconda guerra mondiale
miraglio Raeder, capo di Stato Maggiore della marina, si precipitò dal Führer a spiegargli come la Kriegsmarine non avesse i mezzi per scort are, rifornire e proteggere forze da sbarco su un fronf ronte vasto come quello previsto per l’operazione. Si trattava infatti di circa 400 km di costa e, su tale estensione, sarebbero servite 155 navi da trasporto, 47 rimorchiatori, 1.720 barconi e 1.160 altre imbarcazioni a motore. E tutto questo era necessario soltanto per la l a prima ondata di 100mila uomini: nessuno avrebbe saputo come mobilitare e sostenere i rinforzi necessari. Hitler, di fronte alle difficoltà evidenziate da Raeder, sembrava incapace di prendere una decisione definitiva. Ma il 1° agosto 1940, mentre a Berlino tutti erano impazienti di sapere quando avrebbe avuto inizio l’Operazione Leone Marino, il Führer emanò la Direttiva N° 17, risultato delle sue meditazioni sui suggerimenti di Jodl e di Raeder: «L’aviazione «L’aviazione tedesca, usando tutti i mezzi a propria disposizione, deve prendere il sopravvento su quella inglese nel più breve tempo possibile». Le responsabilità principali erano passate così nelle mani di Göring e della Luftwaffe. Pochi giorni dopo, un nuovo documento con la firma del cancelliere del Reich ribadiva il concetto, indicando come indispensabili per
«Il nemico si riprende continuamente e i caccia non sono stati ancora completamente eliminati». Adolf Hitler
Due prototipi del trattore cingolato anfibio LWS 1 durante una valutazione di funzionalità; in seguito furono prodotti in serie. A sinistra, autoblindate Beaverette, impiegate dagli inglesi per pattugliare le Highlands scozzesi.
L’operazione Leone Marino avrebbe richiesto un enorme numero di battelli e per questo le autorità tedesche requisirono pescherecci, chiatte e barconi fluviali sulle coste della Francia occupata. [44]
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lo sbarco, due condizioni: che la flotta inglese fosse eliminata dalla Manica e la RAF dai cieli d’Inghilterra. Il 13 agosto la Luftwaffe cominciò a bombardare le basi aeree britanniche iniziando quella che viene ricordata come Battaglia Batt aglia d’Inghilterra; a Berlino però l’Operazione Leone Marino era ancora incagliata nel dibattito fra le varie armi. Se si tentava lo sbarco su un vasto fronte (come voleva l’esercito) si sarebbe corso il rischio che la flotta inglese affondasse l’intera spedizione spedizione tedesca; se, invece, ci si fosse limitati ad una linea più ristretta (come suggeriva la marina) vi era pericolo che gli invasori fossero ricacciati rapidamente in mare. Hitler intervenne poi nella polemica e optò a favore della soluzione più modesta, vale a
Il leone che non ruggì
dire una linea di sbarco di 140 km, articolata articolat a su 4 punti principali della costa meridionale. meridionale. Un’operazione Un’operazione diversiva, denominata in codice Unternehmen Herbstreise, cioè Operazione Viaggio Autunnale, Autunnale, doveva trarre in inganno gli inglesi: un paio di giorni prima dello sbarco era previsto che 4 grandi transatlantici, transatlantici, in altrettanti altrett anti convogli scortati, salpassero vuoti dalla Norvegia meridionale meridionale fingendo di port are un’armata d’invasione in Scozia, Scozia, fra Newcastle Newcastle e Aberdeen. Aberdeen. Il 1° settembre la Luftwaffe sferrò il i l primo massiccio attacco su Londra con 625 bombardieri scortati da 648 caccia e, prima di notte, larga parte della capitale inglese era in fiamme. Le autorità britanniche brit anniche furono furono convinte che il bombardamento coincidesse con lo sbarco e alle 20 venne diffusa la parola d’ordine “Cromwell” che signi-
ficava: «Invasione imminente; probabile entro le 12 ore». Fu questo, molto probabilmente, il momento di maggior tensione di tutta l’estate 1940, e forse di tutta la guerra. Voci Voci infondate riguardo a lanci lanci di paracadutisti paracadutisti e navi tedesche in avvicinamento alle coste crearono momenti di panico: le campane delle chiese suonavano per dare l’allarme mentre nei piccoli e grandi centri venivano attuati i posti di blocco e svariati ponti venivano fatti saltare. L’indomani Churchill – che non era stato consultato per l’emanazione del “Cromwell” – diede ordine di suonare le campane soltanto se «una Guardia Nazionale avesse visto la discesa di almeno 25 paracadutisti». paracadutisti». Churchill non sapeva che l’invasione tanto temuta era stata scongiurata ai primi di set-
I mezzi da sbarco tedeschi
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er dare una valutazione realistica di quella che sarebbe stata l’Operazione Leone Marino bisogna considerare che lo sbarco non era una vocazione specifica della marina tedesca; per lo più a questo scopo impiegava chiatte fluviali che nel corso di un’operazione così massiccia si sarebbero dimostrate fragili e impossibili da difendere. Ciò nondimeno, i tedeschi avevano iniziato ad avere una flotta di 800 zattere motorizzate (requisite in Belgio, Francia e Olanda); altre vennero modificate per rendere più veloce lo sbarco dei fanti o per trasportare i carri sommergibili o i mezzi anfibi. Furono realizzati anche diversi tipi
di traghetti, come le zattere Siebel Fähre e Marinefährprahm con svariati tipi di motorizzazione. Nel 1940 fu sviluppata la Pionierlandungsboot 39, un’imbarcazione a basso pescaggio che sarebbe stata in grado di trasportare 45 fanti, 2 veicoli leggeri o 20 tonnellate di carico. Naturalmente erano disponibili, anche se molto meno diffusi rispetto ad altre forze armate, veicoli cingolati anfibi, chiamati LWS (Landwasserschlepper).
L’ammiraglio Erich Raeder, capo di Stato Maggiore della marina tedesca, sempre piuttosto tiepido nei riguardi dell’operazione Leone Marino: secondo lui i rischi erano maggiori delle probabilità di successo.
(Due zattere autopropulse Marinefährprahm che avevano sulla tolda due motori aeronautici).
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Seconda guerra mondiale
Uno dei mezzi usati dai tedeschi per le operazioni di sbarco era il Siebel Fähre, un grosso catamarano. Sull’altra sponda della Manica ci si preparava all’invasione tedesca anche con mezzi ingegnosi, come l’autocarro Bison (sotto), ricoperto da uno strato di cemento per essere utilizzato come fortino mobile.
tembre, a causa di un gravissimo errore tattico di Göring (o era una conseguenza della reticenza di Hitler a invadere la Gran Bretagna?).
Un errore che portò al fallimento Il comandante in capo dell’aviazione tedesca aveva scagliato tutte le sue forze contro obiettivi civili anziché militari, allo scopo di demolire il morale del coriaceo popolo inglese. Una strage di civili, ma anche una settimana di tregua per la RAF, che in tal modo aveva avuto il tempo necessario a riorganizzarsi. Il maltempo nella Manica, i bombardamenti inglesi sui porti di Ostenda, Dunkerque, Boulogne e Calais, dove si concentrava la flotta d’invasione, e il fatto che «il nemico si riprende continuamente e i caccia non sono stati ancora completamente eliminati», facevano sì che Hit-
ler continuasse a posticipare l’ordine di invadere l’Inghilterra: ma più tempo passava e meno sembrava attuabile. Con il procedere delle settimane, l’auspicato dominio dei cieli sulla Manica da parte dei tedeschi non si realizzava e l’aviazione inglese, invece, continuava a bombardare la flotta d’invasione di stanza in Germania, tanto che il 21 settembre, in un rapporto riservatissimo, la marina tedesca ammise di aver perduto, prima ancora di salpare per l’Inghilterra, 21 trasporti e 214 chiatte, cioè il 12% del totale dei mezzi raccolti per lo sbarco programmato. Raeder dovette constatare come «le forze aeree nemiche non sono state ancora debellate; al contrario: esse danno prova di crescente attività. Nell’insieme, le condizioni meteorologiche non ci permettono di contare su un periodo di calma...». E concluse il suo rapporto al quartier generale con una frase sottolineata due volte: «Così il Führer ha deciso di rinviare a data indeterminata l’operazione Leone Marino». Ormai Hitler stava guardando a oriente. Un mese prima aveva detto a uno dei generali del suo stato maggiore: «Quanto prima la Russia sarà schiacciata, tanto meglio [...] Se attacchiamo nel maggio 1941 avremo cinque mesi per farla finita». •
ALESSIO SGARLATO (Scrittore e saggista) [46]
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Storia della Chiesa
CRONACA DI UN CONCLAVE
Se c’è un’elezione del papa che merita di essere ricordata, per le pesanti conseguenze storiche in tutta Europa, è quella di 115 anni fa, alla morte di Leone XIII. In quel conclave si scontrarono drammaticamente gli interessi delle potenze europee, Italia compresa [48] BBC HISTORY ITALIA
La folla in Piazza San Pietro nel momento in cui il Cardinal Luigi Macchi annuncia l’Habemus papam ! È il 4 agosto 1903, l’eletto è Giuseppe Sarto, Patriarca di Venezia: prenderà il nome di Pio X.
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ll’inizio del Novecento, i tragici bagliori della Grande guerra sono ancora lontani. L’Europa vive la sua “belle époque , ma le tensioni e le rivalità fra le grandi potenze continentali sono fortissime, benché per il momento si mantengano sotto traccia. Nello scacchiere internazionale, Germania, Austria e Italia hanno firmato un patto politico e militare, nel 1882: la Triplice Alleanza. Parallelamente, Francia e Russia, nell’ultimo decennio del XIX secolo, si sono riav”
vicinate, stringendo un accordo strategico ed economico, in funzione antitedesca. Parigi si accosta anche a Londra, dopo oltre un secolo di baruffe in Africa, culminate culminate con l’incidente l’incidente di Fashoda, Fashoda, nel 1898 (l’occupazione da parte della Francia di un territorio del Sudan rivendicato dagli inglesi). Nel 1904, Francia e Regno Unito firmano “l’entente cordiale”, un patto che diventerà poi un’alleanza estesa anche alla Russia: la Triplice Intesa, manifestamente in opposizione alla Triplice Alleanza. BBC HISTORY ITALIA [49]
Storia della Chiesa
Scontri politici nell’elezione del Vicario di Cristo Mentre, dunque, l’Europa sta costruendo questo doppio fronte di triplici alleanze, il 20 luglio del 1903, muore papa Leone XIII, che governava la Chiesa da 25 anni. La scomparsa del pontefice dell’enciclica Rerum novarum non è solo un lutto per la cattolicità, ma è anche un traumatico avvenimento politico, che entra nel grande gioco delle potenze continentali. Nel conclave che verrà convocato per eleggere il successore si scaricherà, infatti, una buona parte delle tensioni e di quegli antagonismi poli[50] BBC HISTORY ITALIA
La pagina di un giornale spagnolo che riportava con un dettagliato servizio e illustrazioni le fasi del conclave. In quei giorni vi era grande attesa per sapere chi sarebbe stato il successore di Leone XIII.
tici che si stanno delineando in Europa. In particolare, emergerà lo scontro sempre più aspro tra l’Impero asburgico e la Francia, da secoli concorrenti per il dominio continentale – la Guerra dei Trent’anni nel XVII secolo ne è il simbolo oltre che un precedente ancora impresso nella memoria – e ora si è quasi giunti al duello finale. Il conclave, aperto il 1° di agosto del 1903, è un avvenimento seguito con grande attenzione dalle cancellerie e dai giornali dell’epoca, che vi dedicano ampio spazio. Può essere definito il primo evento mediatico nella storia della Chiesa. Gli
Cronaca di un conclave
Nel conclave nasce l’astro l’ astro di Merry Merr y del Val
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rendere il conclave del 1903 ancor più problematico è la scomparsa improvvisa di monsignor Alessandro Volpini. Nominato qualche mese prima Segretario della Sacra congregazione con gregazione concistoriale, Volpini avrebbe dovuto ricoprire l’incarico di Segretario del Sacro Collegio e, quindi, del futuro conclave, ma muore per un infarto – non ancora 60enne – il 9 luglio 1903, 11 giorni prima della scomparsa di Leone XIII. È una perdita grave, perché a lui sarebbe spettata l’organizzazione delle procedure per l’l’elezione elezione del nuovo papa. Un compito delicatissimo, perché all’inizio all’inizio del Novecento le norme che disciplinano il conclave non sono ancora definite in modo dettagliato e rigido. Inoltre, Inoltre, il Vaticano non è ancora una Città-Stato, ma è costituito da una serie di palazzi facilmente infiltrabili dalle potenze straniere, a cominciare dall’Italia. Il 21 luglio, ilil giorno dopo la morte del papa, i cardinali presenti a Roma nominano al posto di Volpini lo spagnolo Rafael Merry del Val. Il suo nome viene preferito a quello di due altri ecclesiastici di peso: Giacomo Dalla Chiesa, che diventerà papa come Benedetto XV nel 1914, e Pietro Gasparri, che terrà poi la Segreteria di stato per 15 anni. a nni. Merry del Val è un diplomatico brillante ma più giovane e meno titolato degli altri due. Ed è un avversario della politica di Rampolla del Tindaro. In questa nomina, c’è già il segnale delle difficoltà di Rampolla a farsi eleggere papa. Per Merry M erry del Val, invece, l’organizl’organizzazione del conclave del 1903 sarà il trampolino di lancio. Pio X, avendo apprezzato il suo lavoro nel drammatico conclave che lo elegge, lo lo nomina subito suo Segretario personale e, poco dopo, cardinale e Segretario di Stato. Una carica che Merry M erry del Val deterrà fino alla morte di papa pa pa Sarto, alla vigilia della Prima guerra mondiale.
interessi in gioco sono altissimi. Vienna e Parigi vogliono orientarne la scelta. Desiderano un papa amico o, perlomeno, non ostile. Durante il pontificato del romano Luigi Pecci, la Santa sede ha tenuto un atteggiamento filo francese. Vaticano e Italia sono ai ferri corti per l’ancora irrisolta “questione romana”: il papa considera un’usurpazione la conquista sabauda di di Roma, avvenuta avvenuta nel 1870. L’Italia, per il
Mentre l’Europa si sta dividendo in due fronti contrapposti – Trilplice Alleanza e Triplice Intesa – il 20 luglio del 1903, muore papa Leone XIII, che governava la Chiesa da 25 anni.
pontefice, è un nemico. E così, nemici diventano anche i suoi alleati della Triplice: l’Impero asburgico (un trono tradizionalmente cattolico) e la Germania Germania (dove, invece, Bismark, negli anni Settanta dell’Ottocento, aveva condotto una dura politica repressiva anti cattolica, il “Kulturkampf”. Per uscire dall’isolamento internazionale e trovare sponde politiche a sostegno della propria rivendicazione contro l’Italia, la San-
Cartolina popolare con i volti dei “papabili”. Tra loro anche Giuseppe Sarto (è il n.7), che sarebbe stato eletto dopo sette scrutini.
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Storia della Chiesa
ta sede si avvicina alla Francia. Sebbene la Terza Repubblica sia radicale e anticlericale, Leone XIII – che si pronuncia pronuncia in diverse occasioni occasioni per convincere i riluttanti cattolici d’Oltralpe – crede che la scelta filo francese sia una necessità in funzione anti italiana. Ispiratore e realizzatore di questa politica estera è il cardinale cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di stato dal 1887. Nato in un’aristocratica famiglia siciliana nel 1843, Rampolla entra nell’Accademia dei nobili ecclesiastici – la fucina della diplomazia vaticana – e si distingue per una rapida e brillante carriera nella Curia romana. Leone XIII, nel 1882, lo nomina Nunzio apostolico in Spagna, per poi richiamarlo, 5 anni più tardi, accanto a sé, come “primo ministro”. La collaborazione con papa Pecci durerà per 16 anni, fino, cioè, alla morte del pontefice. Ora, nel conclave dell’agosto 1903, è proprio lui la figura di spicco del Sacro collegio, colui che è in prima fila per la successione a Leone XIII, della cui linea politica si profila come la naturale continuazione. Naturalmente, Rampolla ha il sostegno della Francia, ma è visto come fumo negli occhi dagli Asburgo. Una contrapposizione politica che si ritrova pari pari all’inter[52] BBC HISTORY ITALIA
Durante il pontificato del romano Luigi Pecci, la Santa sede aveva tenuto un atteggiamento filo francese, mentre Vaticano e Italia erano ai ferri corti per l’irrisolta “questione romana”.
Il nuovo papa posa, nel suo studio, per il ritratto uf ficiale. Sotto, il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato di papa Leone XIII.
no del Sacro collegio. La Chiesa dell’epoca è ancora figlia dell’ancien régime, ciò significa che molti ecclesiastici sono diventati cardinali perché imposti dai governi delle loro nazioni, in virtù di antichi privilegi o della politica giurisdizionalista settecentesca: sono i cosiddetti “cardinali “cardinali della corona”. Tutti i francesi e gli austriaci hanno ricevuto la porpora in questo modo. E, quindi, la loro posizione nel conclave non può non ricalcare quella dei rispettivi governi. Il Vicario di Cristo in terra sarà o filo francese o filo austriaco.
Basta un veto cardinalizio per cambiare la Storia In questo primo conclave del Novecento, hanno il diritto di voto per eleggere il nuovo pontefice 64 cardinali. A Roma, giungono in 62. Mancano l’arcivescovo di Sidney, che non arriva in tempo, e quello di Palermo, vecchio e ammalato. In conclave entrano dunque: 38 italiani, 7 francesi, 5 “imperiali” (3 austriaci, 1 ungherese e 1 polacco), 5 spagnoli, 3 tedeschi, 1 portoghese, 1 irlandese, 1 belga e 1 americano. Come si può notare, la composizione del collegio cardinalizio è fortemente eurocentrica. C’è solo un cardinale che arriva da un altro continente, lo statunitense James Gibbons. Data questa questa composizione, è impossibile che il clima
Cronaca di un conclave
spirituale, culturale e politico che si respira nel conclave non risenta di ciò che si agita nelle capitali e nelle cancellerie europee. Nello scrutinio iniziale, la mattina del 1° agosto, Rampolla ottiene 24 voti. Nel voto del pomeriggio, arriva a 29. Ancora troppo pochi. Il quorum è fissato a due terzi del collegio, cioè 42 voti. La situazione è di stallo. La mattina del 2 agosto avviene l’evento traumatico e decisivo che cambia radicalmente lo sce-
nario. L’arcivescovo di Cracovia – allora città sotto il controllo degli Asburgo – il cardinale Jan Puzyna, a nome dell’imperatore d’Austria, pone il veto sul nome di Rampolla del Tindaro. È un veto (definito Ius exclusivae o Ius exlusionis) eredità dell’ancien régime. Si tratta di un diritto accordato, nel corso dei secoli, alle antiche monarchie cattoliche europee per escludere un cardinale candidato al soglio pontificio che non si ritiene adeguato. L’esercizio del diritto di veto, non è dunque una novità. Dal XIV secolo in poi si contano una quindicina di interventi di questo genere. È sorprendente, però, che questa prerogativa venga utilizzata all’alba del Novecento. Uno strumento giuridico, retaggio di un mondo che non esiste più, viene usato come un’arma per regolare i conti della politica internazionale del tempo. Anche i cardinali c ardinali che partecipano al conclac onclave ne sono turbati. In molti giudicano negativamente il veto e biasimano il porporato polacco. Quando lo incontrano lo apostrofano in latino: «Pudeat te!»: vergognati! Il cardinale cardinale Puzyna risponde orgogliosamente: «Honor meus!» (ne sono orgoglioso!). L’arcivescovo di Cracovia, infatti, si è prestato a dar voce in conclave agli interessi politici dell’Imperatore perché quegli interessi coincidono con i suoi. Puzyna fa parte di una lobby polacca che influenza e indirizza le scelte di Francesco Giuseppe. A convincere l’imperatore a far valere l’antico privilegio del veto è stato, infatti, un altro polacco: il ministro degli esteri di Vienna, Agenor Goluchowski. Sia Puzyna che Goluchowski – originari entrambi di Leopoli e legati allo stesso clan familiare – sono ostili alla Russia, alleata di quella Francia che era diventata il fulcro del-
la politica estera di Leone XIII e del suo Segretario di stato. La Polonia, in quel momento, non esiste più: il suo territorio è stato spartito, alla fine del Settecento, tra Impero asburgico, RusRussia e Prussia. Il sogno dei polacchi è quello di far rinascere una Polonia indipendente. In questo disegno, ai loro occhi, il pericolo maggiore è sempre l’Orso russo. Affondare Rampolla significa colpire Parigi e San Pietroburgo. Questo è l’obiettivo dei polacchi che lavorano per Vienna. Per questo, l’arcivescovo di Cracovia può dire, durante il conclave: «Non sono stato strumentalizzato da Vienna, ma sono stato io a strumentalizzarla». Malgrado la vibrante protesta dei cardinali francesi, la candidatura di Rampolla è quindi bruciata senza rimedio. A questo punto, i voti dei porporati porporat i si orientaorient ano verso il nome di Melchiorre Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia, che viene eletto papa il 4 agosto del 1903, con il nome di Pio X.
A sinistra, uno dei protagonisti di quel conclave, Jan Maurycy Paweł Puzyna de Kosielsko: fu colui che, per conto dell’Impero austro-ungarico, pose il veto all’elezione del cardinale Rampolla del Tindaro. Sotto, il nuovo papa cerca nei giardini vaticani un po’ di frescura, in quel caldo mese di agosto.
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Storia della Chiesa
Un prete di campagna alle prese con la politica Nato a Riese, nel trevigiano, nel
1835, ordinato sacerdote nel 1858, promosso vescovo di Mantova e poi di Venezia. Figura genuina di pastore, lontana dalla politica, per vocazione e per non aver mai ricoperto incarichi in curia o nella diplomazia vaticana prima della sua elezione. È un prete di campagna giunto fin sul soglio di Pietro proprio per la sua indifferenza ai grandi giochi della politica contemporanea. Per questo, su di lui, dopo lo sconscon tro durissimo tra Parigi e Vienna, si indirizzano i voti del Sacro collegio, sebbene il patriarca di Venezia Venezia scongiuri fino alle lacrime gli altri cardinali di non chiamarlo ad una responsabilità così grande. Proprio questo atteggiamento, invece, persuade ancora di più i porporati che sia la scelta giusta, perché supera conflitti e interessi nazionali. Secondo alcuni, la sua elezione rappresenta la vittoria su tutta la linea degli Asburgo. È vero che papa Sarto ha il profilo del buon parroco, senza velleità politiche, ma egli è pur sempre originario di una regione, il LombardoLombard o Veneto, Veneto, che, al tempo della sua nascita, è parte integrante dell’Impero. Con Vienna è rimasto un legame culturale e affettivo. Nel suo diario, il cardinal Ferrari, suo massimo sponsor nell’elezione, annota che, durante il conclave, Melchiorre Giuseppe Sarto S arto pronuncia queste parole: «Per l’Austria garantisco io». Dall’ipoteDall’ipote si di eleggere un cardinale filo francese – Rampolla del Tindaro – si passa così alla scelta di un porporato se non amico almeno non ostile all’Austria. Malgrado questi aspetti di cui si deve tener conto, Pio X si rivelerà un papa autonomo e indipendente e lavorerà, fin da subito, per tagliare ogni legame troppo stretto con le potenze europee. A partire dall’abolizione di quel diritto di veto che, bruciando la candidatura di Rampolla del Tindaro, gli aveva consentito di sedere sul trono di Pietro. Con la Costituzione Commissum nobis , e m a na t a il 20 gennaio 1904, il nuovo papa cancella lo Ius exclusivae, l’antica prerogativa dei monarchi cattolici. Pio X m e tt e fi n e , così, all’ancien régime e a quel legame tra trono e altare che ne è stato uno dei pilastri. Nessuno [54] BBC HISTORY ITALIA
L’arcivescovo di Cracovia, Cardinal Jan Puzyna, a nome dell’imperatore d’Austria, pose il veto sul nome di Rampolla, un veto eredità dell’ancien régime, ma ancora in vigore.
Sopra, il cardinale Merry del Val durante la stipula del concordato tra il Regno di Serbia e la Santa Sede, il 24 giugno 1914. In piedi alle sue spalle monsignor Pacelli, artefice del patto e futuro papa Pio XII. Qui a sinistra, Leone XIII, il papa scomparso.
Stato potrà più interferire nell’elezione di un pontefice. Inizia con Pio X il processo di modernizzazione della Chiesa, che porterà a un sempre più stretto controllo vaticano sugli episcopati nazionali, sottratti all’autorità degli Stati. Un percorso di autonomia che diventerà completo con la riacquisizione, dopo i Patti Lateranensi, di un territorio sovrano dal quale esercitare una propria politica internazionale. Il conclave del 1903 è uno spartiacque nella storia della Chiesa. Francia e Impero continueranno, invece, le loro politiche di potenza, ereditate dai secoli passati. Una folle corsa che li precipiterà, insieme ai loro alleati, nel tragico baratro della guerra. •
ANTONELLO ANTONELL O CARVIGIANI CARVIGIANI
(Giornalista ed esperto di Storia della Chiesa).